Viaggio nei baliaggi italiani dei Cantoni svizzeri

Alfonso Longo
VIAGGIO NEI BALIAGGI ITALIANI DEI CANTONI SVIZZERI (1763)

Edito da Carlo Capra e Fabrizio Mena in «Archivio Storico Ticinese», XXXVI, n. 126, dicembre 1999, pp. 149-56.

La sera del giorno nel quale partimmo da Milano, ci siam fermati in Desio, da dove incominciammo il nostro viaggio allo spuntar dell’alba del di vegnente: prima di mezzo giorno siamo giunti alla Camerlata, ed ivi abbiam fatta una breve visita alla Signora Marchesa Marzorati, la quale ci fece vedere tutta la sua casa. Vi sono gli apartamenti per gli uomini separati da quelli che sono destinati per le donne; la precauzione della Marchesa Marzorati giunge a questo, che trovandosi ivi il Conte Regente Verri colla Signora Contessa sua moglie, v’è letto a parte per ciascuno d’essi. Per altro la camera del Signor Conte Regente è nel quarto delle donne: anzi vicinissima a quella della Signora Marchesa Marzorati. Essa poi s’è scielta (dicevami ella) la camera più appartata della casa, e la meno sottoposta a romori; difatti una finestra della sua camera corrisponde nella corte dell’osteria. Ella ebbe la bontà di prendermi a parte, e di dirmi, che sicom’io era un giovane savio, poi, e divoto, cosi essa mi voleva mostrare l’oratorio suo proprio distinto da quello destinato alla famiglia. Egli non è capace che d’una, o due persone, né v’entra chiaro, che per la porta. Io ho lodato moltissimo la proprietà di esso, e massime un crocifisso di porcel­lana, nel quale ho vantato molto più del resto il travaglio della faccia, e singolarmente dei denti così bene distinti, benché avesse in fatti la bocca chiusa. L’oratorio poi della famiglia ha una particolarità unica forse al mondo, ed è che ha una tribuna in cucina per far sentire messa al cuoco, e garzon di cucina. Ho veduto il Marchesino Roelli che andava ad una sua casa di campagna poco distante dalla Camerlata. Nell’andare, nell’abito, fino nella borsa de’ capelli vi si vedeva il dotto curiale. Partendo dalla Camerlata non siamo passati in Como, ma invece abbiam girato per i sobborghi d’essa città, ed intorno alle sue muraglie. Io sono rimasto edificatissimo d’aver incontrato in questi borghi almeno venti chiese, moltissimi conventi de’ frati, e molti di monache: non viddi mai tante chiese in cosi piccol cir­cuito di paese per altro poco abitato, e che scarseggia di personale. Se lo stesso è in Como, appena bastano i secolari a popolar i conventi, ed a generar ministri per servire alle chiese, le quali mi si dice che siano assai bene tenute, e l’architettura loro, almeno esteriore è assai buona, benché poi non si sia mai arrivato ad allontanare il lago dalla città che alle volte ne resta inondata. La metà delle spese fatte in erger tante chiese, poteva bastare ad alzare il fondo della città, dove è troppo basso; e così sarebbe eter­namente preservata questa città dalle continue inundazioni, e non sarebbonsi da comaschi gettate inutilmente somme immense di denaro sul ramo di quel lago che va a Lecco per far abassare il livello dell’aqua. Oggi hanno fatto come chi volendo assicurare dalla sommersione le provincie orientali della China, e dell’Indie, facesse fare un mezzano cavo in Portugallo per introdurvi l’acque del mare, e deprimerne l’altezza.

La strada da Como a Mendrisio è scelerata: conviene ascendere per strade erte, e sassose. Noi l’abbiam passata bene. Dopo passata la giurisdizion milanese, cioè in Chiasso abbiam assaggiato varie sorti di tabacco; ma nulla v’era di buono. Digiuni arrivammo a Mendrisio alle ore 20.30 e smontammo alla casa del Signor don Francesco Crivelli, Landfogt, o sia supremo Podestà di Mendrisio. Egli è cugino di don Giacomo; uomo onesto, sincero, ed in cui si vede un esempio della buona fede svizzera. Ivi s’è pranzato; ed io ho deciso in favore delle cause finali, che gli uccelletti, e ’l vino bianco sono stati fatti a bella posta per l’uomo. S’è discorso molto sopra il governo degli Svizzeri, e le loro leggi. Il risultato di questi discorsi è questo.

Altri de’ cantoni sono popolari; altri sono governati da nobili. Nei primi v’è perfetta democrazia; nei secondi l’aristocrazia non può degenerare in dispotismo di pochi perchè sonovi leggi che pongono esatti limiti a ciascheduna condizione. Sonovi poi dei paesi sudditi dei cantoni; ed essi cantoni chiamansi naturali signori di que’ luoghi; altri di questi paesi sono in Italia; altri in Germania. Le prefetture italiane sono quatro: Lugano, Mendrisio, Locarno e Valmaggia. A questi popoli vengono mandati i prefetti, sotto il titolo di Capitano, Comissario, Landfogt. Essi risiedono due anni, ed ogn’anno nel mese d’agosto devono render conto esattissimo a’ dodeci cantoni, che ivi mandano dodici sindicatori, uno per ciascun cantone. Convien sapere che il cantone d’Appenzel nuovamente aggiuntosi agli altri, non partecipa in cosa alcuna circa le preffetture italiane. Queste quatro prefetture nelle loro liti, quando non siano state composte dal Landfogt, o quando la sua sentenza stimisi ingiusta, ed i sindicatori non possano decidere l’affare, hanno tre cantoni Altorf, Zurigo protestante e Lucerna, i quali presiedono più particolarmente, perché più vicini, a’ questi paesi sudditi. Se l’affare restasse ancor indeciso, e l’uno de’ litiganti volesse apellare della sentenza, può ricorrere a’ dodici cantoni, i cui rappresentanti risiedono in Frauenfeld, come quei delle Provincie unite dimorano all’Aja.

Questi comissari hanno jus gladii, ed una stesa autorità. La giurisdizione del capitano di Lugano si stende sopra 99 terre; quella del landfogt di Mendrisio sopra 19 terre e varie cassine. Hanno un tenente, un notaro che chiamano Landscriber ed un fiscale: questi con qualch’altro compongono il tribunale, ed i comissari lo chiamano come fa il Vicario di provisione in Milano col suo tribunale, e le procedure sono quasi simili. Egli raccoglie i loro voti, poi decide. In Mendrisio, cioè sull’ultimo confine svizzero, il Landfogt può condannare anche alla morte contro i pareri del tribunale, ed in tal caso i suoi componenti devono protestar al con­trailo, e poi ricorrere a’ cantoni od al lodevole sindicato, il quale spiantarebbe, ed anche procederebbe più oltre contro il landfogt, qualora la sua sentenza fosse stata ingiusta. Il far dare la morte ad un reo in questi paesi costa molto. Sonovi ben rari i carnefici, e nissuno per qualunque prezzo s’avilirebbe nemeno a dar la corda; di fatti in occasioni di far dare la corda conviene far venire il boia, e nissuno vuole aiutarlo in questa od altre funzioni. Ora il far venire il boia, lo stipendiarlo, ed altre simili spese assai sensibili toccano tutte alla borsa del comissario; il quale perciò rarissime volte procede fino alla morte, o lascia fuggire i rei, poi li bandisce.

Questi comissari si regolano su due sorta di leggi, quali io paragonerei all’jus civile romano ed all’jus pretorio. I cantoni danno al comissario un libro manuscritto, nel quale vi sono tutte le leggi, e queste sono fisse, e determinano esattamente qualunque cosa. V’è il prezzo assegnato al landfogt, agli ufficiali, per un istromento, per far metter prigione, per ogni minuzia. Tutto è certo e chiaro, né v’è adito a questioni o litiggi. Ho scorso questo libro che sarà di 200 pagine in foglio, e ho trovate leggi dolcissime, chiaris­sime e giustissime. Fra le altre cose tutti sono obbligati con grave pena pecuniaria a dare la denunzia al comissario per qualunque benché piccolo inconveniente. V’è legge, che non s’abbia alcuna fede o riguardo a denunzie segrete; vi vuole il nome dell’accusatore, il quale si sottoscrive, e deve rispondere della verità dell’accusa. Vi sono le pene pecuniarie per qualunque menomo delitto, per ogni ingiuria; insomma nulla v’è in arbitrio del giudice, se non nel solo caso di ferita, dove a misura della gravezza d’essa, egli determina la pena.

V’è un’altra sorte di legge, ch’io direi pretoria, quale si dà stampata in un gran foglio composto di due fogli annessi. Ivi s’ordinano altre cose più provisionali; per esempio che nissun religioso od eccle­siastico s’admetta, fuori de’ già stabiliti, la mancia per portar lo schioppo si riduce a [soldi] 45, la licenza di portar ogni sorta d’armi si regola a £ 5; molte provisioni si danno, che limitano moltissimo la giurisdizione ecclesiastica, anzi l’annullano in fatti. Il Landfogt, e non il curato dà licenza di lavorare ne’ giorni di festa. In somma niente può il vescovo di Como, tutto dipende dal commissario. Anzi ad ogni controversia che avvenisse col detto vescovo, m’assicurò il Signor Landfogt, che si sequestrereb­bero le grosse rendite ch’esso ha nel paese svizzero. In Mendrisio attualmente v’è una grande dissen­sione fra due partiti di monache d’un monistero. Il vescovo ha scritto molte lettere da me lette al Landfogt, pregandolo ad assopir le querele; in una d’esse di propria mano scrive raccomandandosi cal­damente alla sua pietà e giustizia, che aquieti l’affare in maniera che la chiesa non v’abbia ad essere vilipesa. Il preposto che vi si voleva mischiare, ha dovuto chiamar scusa al landfogt. Ed ultimamente vertendo una lite tra una communità che non voleva pagar le spese della visita del vicario generale (credo) del vescovo di Como, ed il detto vescovo; la communità otenne la favorevole decisione dal landfogt; ed in seguito fu assolta da’ cantoni di pagare alcuna contribuzione; anzi venne generalmente proibito di pagar tali spese. Intorno alla corda, ella non suolsi dare che quando il reo è convinto senza che confessi. Alcuno de’ capitani di Lugano, che fu troppo pronto nel farla dare, oltre l’aver dovuto aquietare con denari il paziente, è stato tassato di molto dal sindicato. Rarissime volte per altro si dà la corda, e due soli esempii vi sonò in queste 4 preffetture italiane, a memoria d’uomini, del tormento della tortura. La pena più ordinaria e communissima è il bando. Venendo qualunque donna pubblica, chiama dal landfogt la licenza di fermarsi tre giorni, poi altri 15 giorni, senza però pagare nulla; in seguito la legge permette che sia mandata fuori del paese; se vi ritorna e vi si ferma, si bandisce; se di nuovo riviene, si manda alle galee il bandito, o si gli può dare la corda. Pochi giorni sono per un falso sospetto di ladri, che potessero essere ritirati in un monte, s’unirono vicino a 500 uomini di varie comunità, e circondarono il monte. I popoli pagano niente affatto di tributo; le sole spese communali si ripartiscono; in esse però entra il salario mode­ratissimo del landfogt, ufficiali ecc.

Item questa sera ho mangiato bene, e bevuto meglio. Eccellente vin bianco fatto apposta per me. Item oggi ho fatto l’amore con una bella ragazza, e la vedrò domani, e dopo dimani, e l’arière dopo domani.

Negli Svizzeri non si sa cosa sia inquisizione. Si legge pochissimo; ma ognuno può tenere que’ libri che vuole. Io chiamai se possano abitare ne’ paesi catolici i protestanti. Mi fu risposto con somma mia confusione e raccapriccio. E perché no! Non son essi uomini? Se gran parte de’ cantoni nostri padroni sono protestanti, perché non potrà qui vivere un protestante. Io v’assicuro che sono stato innamoratissimo di queste leggi. Ho scorso un capitolo d’esse sopra le locazioni, ed ho trovato stabilimenti savissimi, e che precidevan l’adito a tutt’i litiggi. Se qualch’uno poi vuol fare un fidecommesso, deve pagare un tanto per cento d’esso al commissario.

Item sono ad un fuoco assai forte, ed ho bevuto bene.

Quella sera abbiam dormito a Mendrisio, e don Giacomo, col quale dormiva, ha avuta la bontà di ronfare potentemente tutta notte, sicché non ho mai potuto prender sonno. Partimmo alla mattina, ed arrivammo a giorno al capo di lago di Lugano, passato il quale ci trovammo a Lugano; dove com­prammo de’ fazzoletti. Nella bottega dell’Agnelli v’erano alcuni buoni libri, e molti inutili. Pran­zammo, e poi montammo a cavallo per andare a Magadino capo di lago Maggiore. La strada è bozeratissima. Dove era passabile io andava a briglia sciolta. Don Giacomo, che mi veniva apresso, non avverti che v’era un buco fatto in terra. Il cavallo vi diede dentro; ed egli ricevette una forte scossa, che lo fece dubitare se potess’esser in avanti abile al S. Sacramento del matrimonio. Ma spero che non vi sia gran male. Arrivammo al Monte Cenere, e smontammo, e scesimo a piedi. Questa discesa è erta al maggior segno. Arrivato al fondo mandammo concordemente per ben trenta volte a farsi strasbozerare il Monte Cenere. Eravamo stanchissimi, ed appena ci potevamo muovere. A me doleva il collo de’ piedi, e la schiena; a don Giacomo la schiena, e le grosse coscie. Egli ne risente oggi, che è il terzo giorno dal nostro arrivo. Era sera quando siam giunti. Latte e panerà con pane furon la nostra cena. La mattina ci svegliammo tardissimo.

Riffletti anima mia, che vi sono altre tre prefetture italiane, Belinzona ecc. ecc. ecc.; le quali non sog­giacciono a tutt’i cantoni, ma a tre soli, Uri, Unterwald ecc.

Oggi siamo stati al celebre mercato di Locarno; egli è numeroso di gente, e mercanzie. Vi venne una signorina assai bella di Belinzona, che aveva un senato eccellentissimo, al quale non viddi mai il simile. Vi venne poi una signora di Valvegez bellissima oltre modo, ed anche al parer di don Giacomo, avrebbe fatto scordare molte bellezze milanesi; ella era vestita tutta in saglia nera, cuffia nera ecc.; il seno coperto da una specie di veste alla turca, che era come un dominò, o camiscia da uomo, ma legata alla cintura; non aveva busto di sorte alcuna. Alla sera io fui di parere cenando, che era migliore una buona minestra di verze della donna di Valvegez. Nota bene, che era quasi digiuno, perché non avevam pran­zato. Io da una bella ragazza fui trovato più amabile di don Luiggi Visconti. Licet insanire semel in anno, et errantes maleferre pedes. Questa stessa sera eravam’andati alla caccia de’ tordi. Don Giacomo credeva ch’io fossi perso o annegato nel fiume, ed io ritornato in casa aveva cominciato a scrivere questa filastrocca; egli era venuto a casa per mandarmi a cercare con torcie da vento in un piano vastissimo, dove sono molti boschi assai folti; ma io era al fuoco godendomela. Io penso sempre al mio adorabile Verri, all’amabile Alessandrino; ma compatisco moltissimo la situazione di queste vacanze, e delle circostanze del mio carissimo Beccaria. S’ei fosse meno sensibile, sarebbe felicissimo; ma il richiedere da esso che sia meno sensibile è un cercare che lasci d’essere onest’uomo. Quanto io sarei fortunato, se potessi godere la sua compagnia in questo paese!

Per altro i villani della Svizzera a me cognita sono asini, porci, pigri, lenti, tape, talpe, lazaroni, somari, violoni. Non vidd’io mai gente sì zotica. Un villano del Monte di Brianza, del Lodigiano, della Valle Sassina, de’ laghi di Como e Lecco, del Bergamasco sono tanti letterati rispetto a’ villani sviz­zeri. Non sanno cosa sia attività, prontezza, industria, disinvoltura. Sicome tutti hanno del terreno loro proprio, sono perciò indipendenti da loro padroni; mi par di vedere gli ottentoti, che dopo la pesca e la caccia dormono all’aria serena vicini alle loro capanne col ventre a terra. Tali sono i villani svizzeri; ma quel che mi fa rabbia, è che sono più felici e più indipendenti d’un cavaliere milanese.

Oggi in Locarno s’è tenuto tribunale, o sia consiglio, dove v’erano i deputati d’ogni communità. Si trattava, se si dovesse fare una crida, che abbassasse il corso delle monete. La dobla di trentatrè qui vale 36 lire. La dobla di Spagna £ 28. Il zecchino di Fiorenza £ 16:17.6; quello di Genova £ 16:25; quello di Roma £ 16:5; cosi il resto delle monete. Tutti gli uomini di garbo volevano fissare un corso più basso; ma i rappresentanti delle communità hanno resistito tanto, che non s’è potuto far niente. La ragione di quest’ultimi era, che il prezzo delle monete era proporzionale tra esse; ma il loro motivo vero procedeva da un panico timore, ch’essi avevano. Le communità hanno contratti molti debiti. Se si venisse a ribassare le monete, i creditori delle communità vorrebbero esiggere subito il loro denaro, perché riceverebbero le doble per esempio di Francia nuove a £ 33; avendole essi date per il corso di £ 36; e ad essi non manche­rebbe in qualch’altro luogo impiego sicuro, dove potessero spendere le dette doble ancora a £ 36. Intanto il paese va sempre perdendo nel cambio, e nel poco commercio che vi si fa. Ma qui non si sa ancora che esistano scienze economiche.

Oggi siam stati a caccia sul piano di Magadino. Il cacciatore di don Giacomo v’ha uccise 6 sgneppe. Io era in veste di camera con stivali e capello di paglia. Figuratevi se io son uomo ad uccidere altri ani­mali. La storia universale di Bossuet occupò il mio tempo. Questa sera fino alle 3 ore siamo statili vedere una pesca che si faceva da un proposto, un curato ed un canonico: la preda è stata miserabile; una trotta, alquante trottelle e varie temole sono stato il frutto di questa pesca. Ella mi risvegliava l’idea della vita pastorale.

Nel leggere che fece don Giacomo il principio di questa insipida descrizione, mi disse, che ’l mio progetto per liberare Como dalle inundazioni era ridicolo. Quest’idea non mi venne che passando per Como. Io non voglio garantire la giustezza di questo progetto, massime in una materia, della quale non so i primi principii. Per altro rifletto 1° che i comaschi hanno fatte grandiose spese inutilissime a Lecco ed a Olgiate sull’Adda, tre o quatto miglia distante da Lecco, per garantir la loro città dall’allagamento. 2° che gran somma di denaro vi sarà bisognato per fabricare tante belle chiese. 3° per postulato io consi­dero queste spese come non fatte; anzi considero il denaro speso come se fosse nella cassa della città; massime che so, che la città di Como per questa ragione ha contratti grandissimi debiti. 4° rifletto, che non tutta la città è esposta all’allagamento; la sola porzione più bassa v’è sottoposta; e questa porzione non contiene per lo più che miserabili case. Posto questo dico, che se s’alzasse al livello della maggior inundazione alcun quartiero dei sottoposti per ciascun’anno, cominciando ad alzar le strade, e facendo alzare e terrapienare sino al detto livello l’interno tutto delle case, in tal caso la spesa non mi parrebbe eccessiva; posto che vi sono molte colline vicinissime alla città, e che pottebbesi ancora avere facile tra­sporto di terra dal lago quando è bassissimo, come d’inverno i padroni delle case non si devono ragio­nevolmente lamentare di questo ripiego, perché è meglio aver le stanze a pian terreno più basse, cioè meno alte, di quel che sia l’averle piene d’aqua, e l’ dover stare rinchiusi in casa durante l’allagamento. Intorno alle cantine dico che esse o potranno sussistere come adesso, e sempre saranno più alte, e perciò non v’entrerà tanto corpo d’aqua, o pure nelle case sottoposte al lago potranno servire le camere a piano terra per cantine. L’avere la porta bassa assai non è un articolo importante a chi si vuol liberare dal­l’essere sommerso dall’aqua; poi, c’è poco male che le case de’ poveri abbiano l’ingresso basso, ma siano sicure dal lago; e le porte delle case de’ ricchi potrebbonsi da essi con commodo alzare a loro piacimento; massimamente che quel braccio, o due, o tre ancora di terra che accrescasi, alzando il fondo, alle muraglie, interrandole serve a formarne il fondamento assai più sodo; in grazia di che potrebbonsi le dette case alzare, e potrebbesi aggiungere in alto un nuovo piano, gli abitanti del quale goderebbero un’aria più salubre, che non è la presentanea. Questo ripiego è troppo triviale, troppo naturale per esser venuto in capo a’ sapienti architetti che hanno pensato a liberar Como dall’allagamento. La disgrazia maggiore d’un pro­getto, ed il maggior ostacolo alla sua esecuzione è quasi sempre l’essere piano e naturale. L’ingegnere Merlo ed altri matematici hanno fatto togliere molti edificii di pesca sul lago di Lecco, a Brivio, ossia sull’Adda, lontano almeno 40 miglia da Como, e dopo che in varii luoghi l’aqua scorreva all’ingiù con declività assai forte e visibile; e perciò non essendo in tali luoghi l’aqua del lago al livello, al quale è in Como; in Olginate (terra, dove le due dette rifflessioni avevan tutto il luogo) s’è fatta costruire una gran­dissima machina ferrata per smuovere il fondo dell’Adda, e dar adito al fiume di portar all’ingiù i sassi che ne alzavano il fondo, e così abbassare il lago a Como. Tutt’i più stravaganti e ridicoli proggetti sono stati abbracciati appunto perché la loro riuscita era inverosimile; anzi contraria al buon senso ed alle leggi del­l’idrostatica. Non sarebb’egli ridicolo chi volendo abbassare il livello del Po’ a Turino, abbassasse il suo fondo dove si scarica in mare?

Sento per altro un caso, che mi persuade non essere niente migliore il metodo di giudicare nella Sviz­zera di quel che s’usi in Milano. Il borgo di Locarno è composto di tre ordini di persone. Altri sono nobili, altri borghesi, e terrieri gli altri. Queste parti per così dire di Locarno formano tre società l’una distinta dall’altra; ciascuna ha le sue leggi, il suo regolamento, le sue entrate. Pochi anni sono la società de nobili ebbe una questione con una communità adiacente. Trattavasi, che la società de’ nobili di Locarno voleva escludere la communità dall’usare su una piccolissima porzione di lago certe reti. Termine di cinque mesi uscirono 14 sentenze. Prima si ricorse al commissario, indi al sindacato, poi alli 12 cantoni, li quali tutti, senza nemmeno mandare a far una visita sul luogo, in così breve spazio dieder la loro sentenza. Queste sentenze non costarono alle due parti che un po’ piu di 40.000 scudi; i nobili di Locarno che hanno speso solamente 15.000 scudi, l’hanno persa.

In Valmaggia, ch’è una valle distante 12 miglia da Locarno è morto 4 mesi sono un certo Sig.r Petraccino, il quale ha lasciato solo due figlie con 200.000 scudi e più ancora di sostanza. Una è maritata ad un villano del paese, e seguita a coltivar la terra, a portare il gerlo ecc.; l’altra è nubile. Varii buoni partiti di signori ricchi e politi di Locarno le si sono offerti; ma essa vuol maritarsi nella sua terra, ed ivi non può collocarsi che con un lavoratore di terra. Intanto ella s’abilita a questo matrimonio col tra­vagliar essa ancora come fanno le altre villanelle. Sul solo Locarnese esse hanno piu di cento mila scudi.

L’agricoltura in questo paese è ben lontana dalla perfezzione, di cui potrebb’essere suscettibile. Lugano per altro è paese di gran commercio, ed assai popolato. I giorni, nei quali mi sono fermato costì sono stati da me impiegati in leggere e passeggiare. Tutti però quei, co’ quali io ho trattato, erano di quegli uomini, coi quali ci consiglia Salomone a non ragionare. Se le campagne sono poco coltivate, gli spiriti lo sono assai meno.

Sento una cosa che mi fa orrore, ed ingeriscemi una forte abbominazione per questi paesi. L’anno passato due accusati d’esser rei d’un certo delitto, e negandolo essi, furono astretti a confessarsi colpe­voli colla più barbara ed esecrabile invenzione, che possa essere dettata dalla fredda ed indolente tirannia. Ho detto che difficilmente dassi la corda per mancanza del carnefice, e perché costa molto caro al commissario a farlo venire. Invece s’usarono certe cordicelle tutte annodate, sicché i spessi nodi fossero pungenti, di queste si cinsero le tempia di quelle miserabili vittime, e con un legno da una parte diedesi loro la ritorta; cosa che mi turba incredibilmente l’animo nello scriverlo, e tanta impres­sione mi fece nel sentirlo, che senza chiamare della sorte del delitto, o della sentenza, o del modo m’obbligò mal mio grado a lasciar solo chi raccontava questo fatto, ed a passeggiare per un poco soli­tario detestando la barbarie degli uomini, la loro insensibilità ed inumanità, e ’l nostro secolo, e ’l genere umano tutt’insieme. L’esito di questo orribile tormento fu che confessarono ciò che si voleva; né m’è nemmeno bastato l’animo di chiamare, se veramente si fossero in seguito ritrovati rei. Chi sente simili fatti non può non diventar misantropo. Temiamo, disprezziamo, detestiamo gli uomini, né ci caglia del loro ben’essere, o ci muovano le loro miserie; poiché sono capaci anche in questo secolo di freddamente commettere tali crudeltà. Per altro le leggi non ordinano, come appresso noi, sì fatti tor­menti; ed i giudici savi s’astengono dall’adoperarli; solo vengono usati da qualche commissario bestiale, senza che ne possa essere riconvenuto. Io v’assicuro, che moltissimi (a quel che sento in tutte queste preffetture), moltissimi uomini savi, liberali, dotti, caritatevoli fanno la felicità de’ popoli, a’ quali comandano per que’ due anni; tali sono senza fallo il capitano di Lugano, il Landfogt specialmente di Mendrisio, e ’l commissario di Locarno, e quello di Valmaggia benché protestante. In Lugano la scorsa settimana fu condannato al taglio della testa un reo. Il carnefice, per altro espertissimo, mancò il primo colpo. Ciò gli tolse il coraggio, e fallonne gli altri tre o quatto. Arrivò infine ad ucci­dere il paziente; ma subito dopo il capitano lo fece metter prigione, dove lo farà rattenere lungo tempo. In Lugano da un canto del palazzo del capitano v’è la corda sempre pronta; monumento della barbarie de’ nostri tempi.

Alla sera don Giacomo a 2 ore va a letto, io mi fermo un poco a leggere, e prosieguo in letto la mia lettura. Ordinariamente non ci alziamo che alle 14 o 15 ore. Partiti da Locarno, e passato a cavallo il fiume Ticino per ritornare a Lugano, e d’indi a Desio, ci dovettimo fermare per un accidente occorso alle falde del Monte Cenere. Il viaggio ci aveva mosso l’appetito, e non v’era provisione. Siam’andati in cerca d’un’osteria in una terra detta Quartino. Trovatala sentimmo che non v’era robba, e nemmeno un po’ di pane, per il che abbiam dovuto mangiare un boccone o due, don Giacomo ed io, di pane di segale, nerissimo, e cotto almeno 8 giorni prima; v’abbiam aggiunto una porzione simile a due noci d’un certo formaggio o stracchino che puzzava e colava siero, abbiam finita la colazione con un sorso d’aqua cattiva, e per tutto ciò abbiam pagato [soldi] 12:6. Il Monte Cenere è più erto d’assai del monte di S. Gottardo. Figuratevi qual fatica e seccatura. La strada è iniqua, né mai più andaremo a Locarno per quella strada. Siamo ripassati dalla Camerlata, e di nuovo abbiam riverita la Signora Marchesa Marzorati afflitta perché un suo cagnolino aveva un reumatismo in una gamba. A Locarno ho ricevuto i saluti del Marchese Beccaria. Quante e quante volte hollo io desiderato? Sento vivamente là sua lontananza, quanto la deve sen­tire chi ha un cuor sensibile all’amicizia ed un animo che conosca i preggi del mio carissimo Beccaria. Notate, che chi vuol estrarre vendendo i suoi fondi dalla Svizzera il denaro ricavatone, deve pagare alla sovranità un tributo detto Abzug, ch’è la decima del capitale. Questa legge io non esamino se sia giusta; ma almeno non è affatto imprudente. Quel che è affatto ridicolo si è, che v’è una legge conuaria, almeno una legge, il cui spirito è opposto alla già detta; e questa è, che chiunque forestiere vuol comperare negli Sviz­zeri, deve pagare l’abzug nella stessa maniera. Così pagasi l’abzug, e per poter levare il denaro dallo stato, e per introdurvelo. Noi non dobbiamo però stupirci gran fatto di ciò. La Svizzera è bastevolmente popolata né ha bisogno grande, che ’l forestiero vi s’accasi: maggiori forse contradizzioni, e leggi più contrarie alla politica, cioè al nostro vero interesse, dominano nel fortunatissimo clima della Lombardia.