Idee politiche sulle leggi romane relativamente alla prodigalità

Alfonso Longo
IDEE POLITICHE SULLE LEGGI ROMANE RELATIVAMENTE ALLA PRODIGALITÀ

(Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. Becc. B. 234, fasc. 8.8)

Ad rumorem componimur optima rati ea quae magno assensu recepta sunt, non ad rationem, sed ad similitudinem vivimus.
Seneca, De vita beata

A chi legge

Gli uomini che vivono nel secolo decimottavo hanno la consolazione di veder coltivate le utili scienze trascurate dagli Antichi, o da questi avvolte fra misteriosi vocaboli. I principj di pubblico diritto e della politica sono posti nella maggior luce e adattati all’utile pratica, laddove li strani sistemi de’ Platoni e degli Aristoteli potevano tutto al più convenire alle Repubblichette di San Marino o Ragusi.

Il cuore sensibile d’un ragionevole cittadino sentesi dolcemente commo­vere al vedere gl’ingegni destinati dalla natura ad illuminar le nazioni cospi­rare tutti ad un fine sì nobile, a procurar loro l’abbondanza e a distruggere il nocevole pregiudizio. Gli studj pedanteschi e le gare scolastiche sono con­finate dentro pareti isolate, dove gli animi tanto maggiormente s’arrabbiano, quanto più stretta è la sfera che li contiene e minori le esalazioni al di fuori.

Questi sono i progressi che hanno fatto le scienze; ma le pratiche verità che esse annunziano sono elleno dappertutto adottate? Non veggiamo con gran meraviglia maggiore docilità al soave giogo della ragione in quelle na­zioni che pajono condannate dal freddo lor clima all’indolente lentezza?

Arrossiamone pure; rimane ancora fra noi una stupida ammirazione per calliginosi stabilimenti, che potevano confarsi colle turbolenze de’ tempi che li produssero, non già co’ pacifici, con i colti Europei.

Mi propongo d’esaminare uno di questi stabilimenti, non già coll’intemperante libidine d’un novatore, ma con quelle rette intenzioni che accompa­gnano il solo vero, l’amore degli uomini. Le mie idee saranno tanti corollari de’ moderni principj politici ed economici, i quali io premetterò colla mag­giore precisione e chiarezza che sia possibile. Si meraviglieranno forse alcuni lettori, dopo di avere letti li due primi principj, tanto generali, di vedermi di­scendere nella disamina d’una picciola parte di legislazione in apparenza poco importante. Ma le menti avvezze a generalizzare le loro idee, le menti che sanno che anche in fatto di leggi vi hanno de’ principj generali, da cui si diramano i casi li più minuti, spero che m’indennizzeranno delle invettive di coloro che credono il Codice di Giustiniano essere il migliore modello.1

Finisco perchè temo di avere violate le leggi di proporzione tra il pream­bolo e l’opera per cui è fatto.

Della prodigalità. Idee politiche

§ 1. Abbozzo dello stato di natura relativamente alla proprietà dei beni

Avverto, per evitare ogni contesa, che io qui non considero gli uomini vi­venti nello stato di natura, quali saranno verisimilmente stati in un tempo in cui il fisico avrà assorbito il morale, ma quali avrebbero dovuto essere, supposto che ciò che chiamiamo ragione sia nato coll’uomo.

Nello stato di natura questa ragione assicurava un pieno e sacro diritto2 al lavoratore, finchè era vivo,3 sulla terra da lui lavorata. Non tutti i lavoratori avranno travagliato con uguale attività e successo. Dunque anche questo stato puro e innocente ci offre una immagine della disugua­glianza de’ beni.

Quindi ne sarà forse avvenuto che coloro, i quali con lunghe fatiche sa­ranno arrivati a procurarsi una somma di maggiori diritti, saranno stati as­saliti dal cacciatore robusto, che avvezzo ad avere le mani ed il palato tinti di sangue, non avrà in sulle prime ravvisato altro diritto, toltone quello dei nervi. Forse svegliatasi la fino allora addormentata ragione avrà poco dopo repressi questi impeti insani, e indotte le parti ansiose di pace a fare un contratto in vigore di cui gli agricoltori,4 già stanchi di faticare, avranno accordato una porzione di frutti a’ per lo avanti vagabondi ed erranti, pur­chè travagliassero sui loro beni.

Chepperò se fosse caduto ad uno di questi facoltosi proprietarj in pen­siero di consumare tutti i proprj averi ad oggetto di godere della massima parte de’ comodi,5 che allora satollavano l’ambizione non ancor raffinata, nessuno avrebbe potuto ragionevolmente opporsi a tale divisamente. I nudi figliuoli di questo voluttuoso possessore avrebbero ripigliato il badile e l’ara­tro. Avidi di crearsi de’ nuovi diritti sulla terra sarebbero nella fatica succe­duti a coloro, che avendo sparsi i sudori per soddisfare alla cupidigia del loro Padre godono nella vecchiezza della ricercata quiete.

Preveggo le liti che mi si muoveranno su queste ipotesi; dirasssi che molte idee fin qui esposte sono conseguenze dello stato sociale, inconve­nienti alla semplicità dell’uomo naturale; rispondo che io non le ho esposte che come esempj: se questi non sembrano affatto giusti, se ne prendano degli altri. Questi cangiamenti non potranno rovesciare le conseguenze che io intendo d’inferirne.

§ 2. Abbozzo dello stato di società

Nè il mio instituto, nè il mio genio comportano che io qui riferisca le già tante volte ripetute, o fabbrichi delle nuove ipotesi sul famoso passaggio del genere umano dallo stato semiferino di natura a quello di associazione. Non è però che io le creda disutili e romanzesche. Ancorchè quest’antica modi­ficazione6 dell’esistenza degli uomini fosse il puro prodotto della immagi­nazione dei filosofi, sarebbero tuttavia di somma utilità ricerche, che ci rap­presentassero l’uomo ne’ varj rapporti di cui è suscettibile.

Allontaniamo soltanto il più che si può l’odioso, il terribile nome di forza. Se i partigiani di questo dannoso sistema fossero letti ed intesi dal po­vero volgo, egli si crederebbe autorizzato a pigliare ad ogni momento le arme contro il più dolce ed umano governo. Noi che siamo ragionevoli, noi che siamo sicuri di esserlo a differenza de’ nostri co-animali e co-abitanti, avremo adoperati mezzi più nobili e per creare lo stato di società avremo apparen­temente fatto una specie di Concilio Ecumenico.

Se questo non è vero,7 il supporlo almeno ed il crederlo lusinga il nostro amor proprio e porge ad alcuni un dolce conforto. Dunque crediamolo, e ve­diamo quale ha potuto essere la causa motrice ed il risultato di quest’assemblea.

Le divisioni de’ beni, che vedemmo di sopra aver potuto essere disuguali anche nello stato di natura, e le convenzioni passate tra l’agricoltore dovi­zioso ed il cacciatore, nimico per l’addietro delle fatiche metodiche, avranno dato luogo a tale adunanza e prodotto lo stato fattizio in cui viviamo.

Riunite le volontà di tutti in un solo, ovvero in più, che le rappresentas­sero, s’incaricarono questi depositarj di spingere le parti componenti la so­cietà, a cui sono preposti, a procurare la maggiore felicità al loro tutto.

Dunque que’ cittadini, i quali in braccio all’indolente inerzia sono nel morale ciò che è nel fisico la forza centrifuga, vogliono essere puniti dal rappresentatore dell’intero corpo. Prima conseguenza.

Dunque il bene universale sarà il punto di vista in cui dovranno termi­narsi tutte le combinazioni sociali. Pensare soltanto ad alcuni privati indivi­dui, sarebbe l’istesso che il far terminare alcuni raggi fuori del centro. Se­conda conseguenza.

§ 3. Varie definizioni della prodigalità

Il fin qui detto parrà ad alcuni un episodio ormai fuori di tempo e di luogo. Quello che seguita farà vedere che non se ne poteva fare a meno.

Ad ogni vocabolo corrisponde sicuramente un’idea. Quest’idea bene e con precisione sviluppata avrebbe risparmiati molti volumi, molte dispute e molto sangue. Io credo che le pene civili, fulminate con tanto rigore contra un privato vizio ridondante in pubblico vantaggio, derivino da una sorgente che la storia del genere umano ci mostra tanto feconda in effetti funesti.

La definizione, se pure si può chiamar tale, che un giureconsulto Romano ci dà della prodigalità si risente al solito dell’orientale. I prodigi sono quelli, i quali nec tempus nec finem expensarum habent. Questa è l’unica idea della prodigalità, meno confusa delle altre, che Triboniano abbia inse­rita nella sua raccolta. In altri luoghi della sua raccolta s’addita semplicemente i prodighi essere coloro, a cui il magistrato ha levato il maneggio.

Cerchiamo noi quell’idea che il legislatore non ci somministra, e veggiamo di quanti sensi sia suscettibile la voce prodigalità.

Due sono i casi, a’ quali mi pare che possa adattarsi la parola prodigo. O per essa intendiamo uno spensierato proprietario, che lasciando incolti i suoi campi cagioni grave discapito e forse la totale rovina della propria fami­glia; ovvero un altro che tenda all’istesso fine per altre strade, un cittadino che, ansioso di distinguersi dagli altri, faccia che l’uscita eccede soverchia­mente l’entrata.

Esaminiamo partitamente queste due specie di prodigalità, e vedremo che la legislazione romana per non avere avuta un’idea chiara del vocabolo prodighi fece stabilimenti ingiusti od inetti contro coloro che credè tali, o per­chè parziali ad un certo genere di persone, o perchè opposti a’ veri interessi della nazione.

§ 4. Della prima specie di prodigalità

Chi pone in non cale la coltura de’ propri beni, disprezzando i tesori che promette la terra benefica a chi la feconda, nuoce alla popolazione, che è il maggior nerbo d’uno Stato, e lo rende per quanto sta in lui, a cagione della scarsezza de’ naturali prodotti, servo de’ forestieri. Dunque egli diviene un manifesto infrattore del contratto sociale, una picciola forza centrifuga. Dunque il legislatore non solo è autorizzato, ma tenuto a fare che questa nocevole forza sia superata da un’altra, che lo risospinga al centro.

Un misero cittadino – gli antenati del quale se avessero antiveduta la deplorabile situazione, a cui sarebbe un giorno ridotto un loro nipote, di non avere onde saziare il più terribile di tutti i mali, la fame, sarebbero rimasti nello stato d’indipendenza – una sciagurata vittima dello stato di società ruba ad un suo simile, che nuota nelle superfluità. Un’altra acciecata dallo sdegno purga la terra d’un peso inutile o nocivo. Ambidue questi delinquenti sono perseguitati forse con troppa ferocia dall’inesorabile legge. Eh, avvez­ziamoci ormai ad analizzare gli oggetti che ci circondano. Paragoniamo per un momento il dilapidatore delle terre all’omicida ed al ladro.

Ella è verità riconosciuta da’ migliori economisti, che gli uomini molti­plicano in ragione diretta dell’abbondanza degli alimenti. Un nobile ozioso, il quale per sottrarsi appunto a ciò ch’egli riguarda come il sommo male della vita, l’occupazione, abiti nella capitale, confida de’ vasti e lontani poderi agli occhi indifferenti d’un mercenario ispettore, il quale da un dato spazio di ter­reno, che mediocremente coltivato può rendere dieci, per sua colpa non ri­tira che tre o quattro. Quindi avviene che i suoi nazionali, se possono, si provvedono fuori Stato. Egli toglie gli alimenti a quelle date persone, che colle loro fatiche potrebbero ricavarle dai campi negletti. Tocca ora agli arit­metici il sommare gl’individui, che toglie allo Stato l’omicida ed il negligente possessore di beni, i furti che alla nazione in generale fa quest’ultimo, e quelli che fa ai privati quel malfattore che chiamiamo ladro. Tocca ai rettori degli uomini il riparare a siffatto disordine [non dirò già coll’asprezza delle pene criminali, ma con quelle, che sono dette civili, ed anche forse con mag­giore successo con quelle, che la sola opinione determina].

Da questa luminosissima verità giova di ricavare questo corollario. Se per prodigo s’intende semplicemente un cattivo coltivatore delle proprie terre, ogni diritto grida ch’ei sia punito, ma la buona logica grida altresì che, posta tale cagione di punizione, non s’abbia riguardo all’ampiezza o piccolezza del patrimonio. Vogliono essere altresì tenuti in conto di prodighi coloro che per la coppia de’ beni possono malgrado la colpevole loro trascuratezza agiatamente vivere e dagli altri distinguersi. Altrimenti facendo, il legislatore commette un atto di parzialità diametralmente opposto al fine del contratto sociale.

Conchiudiamo che i legislatori romani, allorquando aggravarono con tante pene civili la prodigalità, o non la considerarono come un ostacolo ai pro­gressi dell’agricoltura, nel qual caso proveremo di sotto che nè potevano, nè dovevano punirla, o se pensarono a tale danno della società, si dimostrarono parziali, epperciò ingiusti. Richiaminsi qui alla memoria i raggi del circolo.

§ 5. Seconda specie di prodigalità

Rappresentiamoci un proprietario, il quale coltivando lodevolmente i suoi beni faccia spese annue che ne sorpassino i redditi, e s’incammini a ri­durre alla mendicità se non se stesso, per lo meno la propria famiglia. I pa­renti di questo insensibile dilapidatore sentendosi troppo punto l’amor pro­prio al pensare, ch’egli ed i suoi figliuoli saranno un giorno costretti ad uscire dalla classe sterile per rientrare in quella de’ primi produttori, ne porta gravi doglianze al magistrato. Queste doglianze secondo il diritto ro­mano sono ascoltate, è tolto al dissipatore il maneggio e li sono inflitte tutte le pene che accompagnavano tale proibizione.

Nel primo caso i costanti principj da noi premessi non solo approvano, ma anzi obbligano il legislatore ad adoperare le pene civili ed anche quelle di opi­nione, non già principalmente perchè fanno uscire dallo Stato il danaro,8 es­sendo dimostrato dalle poche menti calcolatrici altro non essere il danaro che un segno, ma perchè fanno illanguidire l’industria nazionale. Ma gl’istessi principj vogliono altresì che siano puniti coloro, che senza scialacquare il pro­prio patrimonio preferiscono alle nazionali le manifatture straniere. So bene che questa teoria non è applicabile a’ Romani, e che non può essere venuta in mente a coloro che travagliano nel Foro, a’ quali per infar­cirsi la mente de’ tanti casi particolari, in cui facevano consistere lo studio della giurisprudenza, non bastava la vita. So che lo sviluppamento de’ sud­detti principj economici è il frutto di questi tempi. Ma supposto che nel pu­nire i prodighi avessero avuto riguardo all’accennata cagione, avrebbero com­messa una parzialità.

Se poi si tratta d’un cittadino ambizioso, il quale faccia queste sover­chie spese per fomentare il lusso con manifatture della propria patria, anzi che condannarlo, dovrebbe l’accorto legislatore considerarlo come uno de’ più fermi sostegni della società civile.

Laonde i romani legislatori cotanto rigorosi mostrandosi contro i pro­dighi furono ingiusti ed incauti.

Dico ingiusti, perchè il diritto di punire, che compete al depositario delle volontà degli associati, si termina nelle azioni perniciose al corpo intero della Repubblica. E chi furono que’ pazzi individui, che nella più interessante di tutte le convenzioni avranno voluto assoggettarsi a pene per atti indifferenti? Ora dimostrerò più sotto i vantaggi, che i prodighi le apportano.

Mi si dirà che le leggi puniscono giustamente i ladri che nuocono sol­tanto a que’ privati, a cui tolgono. Falsissimo. Chi ruba calpesta il sacro di­ritto della proprietà, base principale del contratto d’unione. All’opposto il pro­digo fondato appunto su questo diritto rinunzia ad un benefizio accordato in di lui favore: consentienti nulla fit injuria, esclamano pure i legali ogni giorno.

Dunque il povero agricoltore, che sparge tanti sudori per fornire i più ne­cessari alimenti a’ tanti oziosi, da’ quali hanno per ricompensa uno sciocco ed insultante disprezzo; dunque l’industrioso artigiano, che passa le intere giornate dentro strette prigioni per riparare dalle ingiurie delle stagioni i suoi simili o per far brillare il vano opulento, perderanno la consolante speranza di collocare un giorno la propria famiglia su’ sedili dorati dell’indolente pro­prietario? Dunque privati di sì dolci lusinghe, i loro lavori saranno guidati dalla disperata indifferenza e dal puro bisogno di satollare la fame?

Togliere ad un cittadino per dare ad un altro, senza che il bisogno o una somma utilità del maggior numero costringa il legislatore a prescindere dal bene di pochi individui… Che il ricco usando del diritto di proprietà com­peri un dato numero di merci, non è egli l’istesso che togliere all’artefice per darlo forse allo scioperato?

Io non so capire, come le leggi romane permettessero tanto strane dis­posizioni ad un uomo languente e più vicino alla non esistenza, che all’esi­stenza,9 e poi contrastino ad un uomo vivente e di buon senno10 il far uso della proprietà.

In generale l’esperienza ci fa vedere in maggior numero essere quelli che tendono ad accrescere il proprio patrimonio, che non siano i dissipatori. Passo sotto silenzio que’ flagelli della società che fanno fremere la natura, e che arrestando la circolazione racchiudono entro inaccessibili armarj ciò che è stato introdotto per essere in continuo giro. Chepperò un legislatore geo­metra dovrebbe guardare con occhio di consolazione que’ rari professori, che nascono appunto per compensare i mostri più anzi accennati. Abbiamo anche nel morale alcune tracie delle leggi colle quali la saggia natura go­verna il fisico, in cui dalla contrarietà d’alcuni eventi ne nasce l’unisono.

I Romani dichiararono i prodighi incapaci d’essere testimoni negli altrui testamenti. Questa pena, la quale porta seco l’infamia,11 è a propriamente considerarla la più acerba fra quelle d’opinione, che possano riempire d’un giusto rammarico il cuore d’un uomo che ha le vere idee d’onore, non che le arbitrarie. La pena presso i legislatori filosofi ha sempre un qualche rapporto con il delitto. Ora un cittadino che scialacqui il proprio patrimo­nio deve credersi che abbia perciò rinunciato all’importante precetto della natura, alla buona fede? Questo è uno di quei disordini che tanto frequen­temente s’incontrano nel codice romano circa la gradazione che si ricerca ne’ delitti e nelle pene, che a questi s’infliggono: disordini, ne’ quali deve necessariamente inciampare chi non misura la gravezza de’ delitti al danno della società.

Tralascio una folla d’idee accessorie, che vengono qui spontaneamente ad offrirmisi. E non è ella forse bastantemente provata l’utilità che i prodighi portano alla circolazione, e per conseguenza al pubblico? Non è egli evidente che i medesimi sono i punti di vista delle fatiche delle classi lavoratrici? Sarà dunque altresì provata l’ingiustizia della legge romana, poichè trattandosi della società, le idee d’utilità e di giustizia sono inseparabili, se pure per nome di società non s’intende un solo o pochi uomini di essa, ma il maggior numero.

§ 6. Risposta alle obiezioni

Negli Stati monarchici – diranno i partigiani della legge finora esaminata – la pubblica felicità è interessata alla conservazione delle famiglie nobili. Que­ste sono d’una assoluta necessità12 in tali governi, perchè servono di scala al disprezzato agricoltore ed alle classi inferiori per ascendere alla sovranità.

Rispondo, che può essere cosa sommamente utile che v’abbiano famiglie nobili, ma che sarebbe sommamente pernicioso che tale prerogativa rima­nesse sempre presso le stesse famiglie, e ciò per le ragioni addotte di sopra.

La prodigalità, ove non se ne arresti il corso con leggi malintese, va all’in­contro di questo disordine, e fa girare la ruota ugualmente. Ella è legge dettata dalla ragione – la quale se non m’inganno deve dominare in ogni governo di qualunque natura egli siasi – che il solo merito,13 vale a dire l’aver resi servigj allo Stato, debbe attrarre a sè gli onori e le distinzioni. Parmi, che sia a que­st’ora dagli sforzi di tante penne eccellenti dimostrato essere gli agricoltori ed i commercianti uomini utilissimi alla loro nazione, le passioni de’ quali si potreb­bero con somma facilità da un savio legislatore diriggere verso il ben pubblico.

Supponete – diranno taluni – che un gentiluomo dovizioso dilapidi l’in­tero suo patrimonio. I figliuoli di questo si recheranno a disonore di procac­ciarsi il vitto con arti meccaniche. Dunque o ruberanno, o accattandosi il pane con mendicare saranno a carico della società.

L’istessa ragione per la quale sdegneranno d’abbracciare un mestiere meccanico, mi fa credere che s’asterranno a più forte ragione d’abbracciare quello di ladro. L’ignobiltà e l’infamia sono separate da un intervallo vastis­simo. Ma se la mano sovrana s’intromettesse, ma se si sradicassero que’ fram­menti di governo militare, che ci fanno riguardare l’onesto commercio come una professione plebea, quante risorse si avrebbero, che ora ci mancano?

E si dovranno dunque, tolti gli argini alla prodigalità, ascoltare con indif­ferenza dal legislatore le querule voci de’ creditori delusi? Se mai alcuno mi fa­cesse quest’insipida interrogazione, egli non avrebbe ancora capito che io non ho mai parlato fin ora di dolo e di mala fede. Le conseguenze di queste scelle­rate intenzioni son sempre pregiudizievoli, e debbono perciò essere punite.

§ 7. Dell’avarizia

Oserò io contrapporre alla prodigalità un vizio, che si può a buona equità chiamare vizio politico, ancorchè non sia stato finora combattuto con altre armi che colle declamazioni morali? Questa sarebbe degna intrapresa d’un retore la di cui eloquenza non si limitasse a pure parole. A me basta il riflettere che non si può addurre un solo caso, in cui l’avarizia14 sia utile alla società, mentre in tanti noti a chicchesia le è funesta. A me basta l’aver ac­cennati i principali vantaggi che seco reca la prodigalità.

Malgrado questa verità, la prodigalità ha sempre ritrovato luogo nelle leggi penali di presso che tutte le nazioni. L’avarizia è sempre rimasta impunita.

§ 8. Scopo delle leggi, le quali puniscono i prodighi

Se il fin qui detto è vero, come mai i Romani, i quali sono stati sem­pre creduti i migliori legislatori della terra, hanno potuto fare uno stabi­limento che il buon senso riprova? Non conviene meravigliarsene. Quella massima la di cui sola esposizione porta l’intima persuasione ne’ cuori sensibili, quella massima che è corredata da una religione alla quale que­sto solo riflesso basterebbe per assegnare il primo luogo fra tante altre sparse sul nostro globo, voglio dire la maggiore felicità divisa nel maggior numero, non ha sicuramente rette le intenzioni de’ romani legislatori. Basta rivolgere con occhi filosofici l’indigesto ammasso di leggi, che chia­miamo Digesto per accertarsi di questa verità. Infatti chi pensa alla felicità del maggior numero non prende in mira alcune particolari e ricche fa­miglie per assicurare a queste soltanto copiose ricchezze ed un eterno ozio. Chi pensa alla felicità del maggior numero assicura è vero con sodi legami la proprietà de’ beni, ma previene i disordini che può seco con­durre l’odiosa disuguaglianza: e se, malgrado le precauzioni adoperate, questa soverchiamente introducesi, non lascia lungo tempo gemere la na­tura di tale contravvenzione alle di lei savie leggi, ma con mezzi efficaci, col promovere l’agricoltura e il commercio ristabilisce le cose nel primo loro essere. Ma che parlo di commercio e d’agricoltura, trattando d’una nazione che non altro diritto avendo conosciuto, toltone quel del più forte, sempre occupata a combattere viveva colle ricchezze involate all’altrui pa­cifica e virtuosa industria? D’una nazione, che non dovrebbe esser rino­mata per altra ragione, salvo perchè e le virtù e i delitti hanno un’uguale pretensione alla storia, se pure non fosse stato miglior consiglio per evi­tare il cattivo esempio avviluppare fralle tenebre dell’obblivione misfatti coronati da felice successo.

 

[1] Sarebbe a desiderare che tutti gli stabilimenti contenuti in tal Co­dice fossero analisati coll’istesso discernimento, con cui è stata analisata la parte criminale da uno de’ più grand’uomini d’Italia.

[2] Tutti i giuspubblicisti convengono di questo sano principio; la con­seguenza che io ne ricavo non potrà dunque essere creduta un paradosso.

[3] Dico finchè era vivo non senza qualche allusione. Finchè viviamo, go­diamo de’ frutti della terra; dopo morte, la parte terrestre di noi è condannata a fecondarla affinchè ne produca pe’ nostri successori.

[4] Qui m’accuseranno d’anacronismo coloro, che credono l’agricoltura posteriore alla società stabilita, ancorchè non ci veggano più chiaro di me, che la credo nata coll’uomo. Qui rideranno anche taluni di questa subita ri­conciliazione tra i cacciatori e gli agricoltori. Prego costoro di non dimenti­carsi ch’io suppongo gli uomini ragionevoli.

[5] Altre querele. I piaceri e le distinzioni sono il prodotto del progresso delle arti. Dunque l’autore commette un altro anacronismo. Adagio, adagio. Il piacere di far nulla e di giacermi colle mani in mano sul rezzo vicino ad un ruscelletto, que’ piaceri semplici, che formano l’ordinaria cantilena delle poe­sie italiane, sono piaceri non circoscritti nè da tempo, nè da luogo.

[6] Chiunque ha analisata la gradazione dello spirito umano, dirò di più, chiunque ha letto macchinalmente le storie più antiche, contraddicono que­st’asserzione.

[7] Questo dubbio non cade che sul Concilio Ecumenico, e non sulla ragione.

[8] Purchè per altro questa uscita non fosse esorbitante.

[9] Questa espressione presa a rigore non è giusta, poichè tra l’esistenza e la non esistenza non conosciamo un mezzo: essa però spiega l’intento.

[10] Al prodigo era vietato di far testamento, appunto perchè la legge li credeva senza senno. Infatti in una regola generale del gius li troviamo paragonati a frenetici. Ne’ tempi in cui era affatto illimitata la facoltà di testare, il padre poteva lasciare ignudi i proprj figliuoli. Ne’ tempi migliori la legit­tima, massime se il patrimonio paterno fosse stato tenue, era assai poco e non bastava ad alimentarli. Grande infelicità di questi legislatori! Essi en­trano sempre ne’ minuti detagli, e in vece di viste generali, a cui si possano richiamare i casi particolari, ci danno degli esempj. Se avessero detto Il padre dovrà, se pure il patrimonio è sufficiente, lasciare a’ proprj figliuoli tanto quanto basta loro per vivere, io credo che si sarebbero espressi con una mag­gior conformità alle loro intenzioni.

[11] Io non so se infatti i prodighi fossero infami, perchè l’infamia è deter­minata dall’opinione, ma mi pare che dovevano esserlo, poichè le leggi li confondevano colle più infami persone.

[12] Questa è una di quelle opinioni, che hanno avuto voga non per ma­turo esame, ma per venerazione all’imponente nome di Montesquieu.

[13] Le persone, che hanno meritati gli onori e le distinzioni colle loro azioni, e colla loro virtuosa attività, dovrebbero essere i soli veri gradini posti tra il plebeo ed il sovrano. Le persone abbandonate da più secoli all’ozio for­mano gradini chimerici, e che minacciano sovente rovina.

[14] La giusta cupidigia di ricchezze, che io vedo essere un attributo di ciascun uomo, non vuole già confondersi coll’avarizia.