Il vero dispotismo - tomo I



Giuseppe Gorani
IL VERO DISPOTISMO (1769)
Testo critico stabilito da Gianni Francioni sulla prima edizione (in Londra, 1770 [ma: Genève, 1769])
  Miseris succurrere disco. Virg. Æneid. l. I.

Tomo primo
Prefazione
I. Introduzione
II. Dispotismo
III. Sovranità usurpata e diretta al vero dispotismo
IV. Altre riflessioni sopra il dispotismo
V. Dispotismo il più facile
VI. Pubblica armonia
VII. Della virtù
VIII. Sopra il medesimo soggetto
IX. Conseguenze
X. Delle leggi
XI. Altre riflessioni sopra la legislazione
XII. Dello spirito di legislazione
XIII. Della elezione dei magistrati
XIV. Del necessario rigore per impedire la corruttela ne’ magistrati
XV. Altri mezzi di prevenire l’abuso dell’autorità nelle magistrature
XVI. La necessità de’ prefatti stabilimenti
XVII. Nuovi mezzi per impedire l’abuso dell’autorità
XVIII. Scioglimento di alcune difficoltà
XIX. De’ primi ministri
XX. De’ grandi
XXI. De’ grandi e della nobiltà
XXII. Della religione
XXIII. Che gli odierni abusi dell’autorità del clero vengano dai principj sovra esposti
XXIV. Come si possono riformare e prevenire i nominati abusi
XXV. Della libertà di parlare e di scrivere riguardo alla religione ed alle leggi
XXVI. Della libertà di parlare e di scrivere riguardo al governo
XXVII. Delle radunanze popolari
XXVIII. Popolazione
XXIX. Sopra il medesimo soggetto
XXX. Agricoltura
XXXI. Lusso
XXXII. Commercio in generale
XXXIII. Materia
XXXIV. Industria e lavoro
XXXV. Trasporto
XXXVI. Circolazione
XXXVII. Finanze
XXXVIII. Seguito delle finanze e delle Ferme
XXXIX. Mine
XL. Economia
XLI. Divertimenti del principe
XLII. Necessaria emulazione alle scienze ed altre utili cognizioni
XLIII. Polizia civile
XLIV. Sicurezza
XLV. Abbondanza
XLVI. Educazione del successore
XLVII. Educazione de’ sudditi
XLVIII. Divertimenti popolari
XLIX. Conclusione
Riflessioni in risposta ad una lettera del Signor Linguet al celebre Marchese Beccaria

Prefazione.

Se ogni uomo secondo le sue età da diverse passioni viene animato, parmi che non meno di lui le intiere nazioni ed i secoli medesimi vengano assoggettati ad una sì fatta rivoluzione. E siccome l’infanzia, l’adolescenza, la gioventù, la virilità, la vecchiaja e la decrepitezza gli fanno sentire varie crisi di passioni proporzionate al suo particolare tempera­mento, così pure i diferenti periodi delle nazioni e dei secoli si risentono evidentemente delle stesse crisi, regolate però a seconda de’ climi, degli umori ed altri ordini che dipendono dalla natura. Quindi vediamo molte specie di passioni, altre buone ed altre cattive, scambievolmente col volger dei lustri l’una all’altra succedere. Le vediam nascere, crescere, fortificarsi, quindi svenire e distruggersi, a grado delle età che forman le epoche e misurano i tempi della grandezza e decadenza di tutte le genti. In fatti la forma­zione delle società, la legislazione, il valore, la virtù stessa, la libertà, la schiavitù, la superstizione ed il fanatismo continuamente a vicenda formarono lo spirito de’ tempi e de’ popoli. Le arti e le scienze dagli uomini inventate o perfezionate sempre aiutarono quel dirò dominante istinto,[1] ed osserviamo tutti i sapienti di ogni tempo introdurre, coltivare ed abbellire la scienza che approssimando si andava, più d’ogni altra, al distintivo carattere. E quantunque in alcuni secoli taluno si sia veduto volger ogni suo studio verso qualche arte o scienza del tutto opposta all’inclinazione generale, o altri venir animati ad agire da un eccitamento differente, son questi scherzi della natura, e come un fiore in un campo coperto di neve che il verno non toglie, ed altro non mostrano in fine simili eccezioni se non che la natura, anche ne’ suoi ordini, sempre ammettere vuole alcune variazioni.

Le diverse religioni, sette, culti, governi ed altri necessarj sistemi o regolamenti, che da uomini soltanto furono istituiti, sempre scatturirono dal medesimo regnante carattere come dalla fonte loro commune. Egli è ben naturale, mentre per virtuoso che sii l’uomo, consultando in ogni cosa il suo privato interesse, o sia più sublimemente chiamandolo l’amor suo proprio, cerca in tutte le di lui speculazioni di collaudare, lusingare ed accrescere i dominanti piaceri de’ suoi concittadini per meritarsi i loro applausi e suffragj.[2] Così dunque le arti e le scienze e tutte le umane invenzioni sempre andarono camminando al pari di quelle inclinazioni produttrici delle azioni, consultando altresì i diversi popoli i loro particolari bisogni, i quali ordinariamente si collegarono colle medesime.

In fatti ne’ primi secoli, non troppo contenti gli uomini di vivere col frutto della caccia e della pesca fra le loro isolate famiglie in una confusa e guerriera indipendenza, ad altro non pensarono che a formar società per mutualmente guarantirsi nell’usurpato diritto di proprietà, che fu pria il frutto della forza, sempre debellatrice della debolezza, indi l’effetto della destrezza ed industria, che coll’invenzione delle armi o di altri strumenti seppe procurare un compenso con che superar la stessa forza, diritto per altro che senza la formazione delle società null’altro loro avrebbe apportato che uno stato di continua guerra. Così que’ filosofi ed uomini men rozzi che vissero in que’ tempi, non venendo occupati che da questo oggetto, non trattarono allora che quella sola scienza.

Formate le tanto necessarie società, ritrovandosi gli umani desiderj ed ingegni per anco limitati, s’applicarono soltanto alla multiplicazione degli armenti ed alla coltura delle terre. I re erano pastori, pastori erano i magistrati, i generali ed i soldati, di modo che ogni lor guerra avea puramente di mira la conquista di un campo o la ricuperazion di un armento; e sebbene l’agricultura sempre stata sia in onore per molti successivi secoli, pure unicamente di que’ tempi era la dominante passione. Così si vede nelle recondite memorie che gli studiosi d’allora dirigevano le scienze a questo unico scopo.

Si pensò indi a dare alle troppo diramate società un ordine più stabile, e della politica tutti occupandosi, animate vennero le molte nazioni dello spirito legislativo. Si viddero i filosofi lasciar per qualche tempo in oblivione le altre anche sublimi cognizioni, per at­tendere unicamente a dettar leggi ed a prescrivere le diverse forme di governo. La democrazia, l’aristocrazia, la monarchia e la tirannia gettarono in varie regioni i loro fondamenti. Le vere origini delle leggi formali ebbero principio in que’ secoli, ed i savj o vani coltivatori della filosofia divennero tutti legislatori, ciascheduno dando a quel popolo che lo ascoltava la forma di governo ch’era più confacente al suo privato interesse, ambizione o virtù. Per renderne gli stabilimenti più durevoli, ben vedendo esser la religione un freno troppo necessario, inventarono, o piuttosto ajutarono, la naturale propensione dell’uomo verso le opinioni religiose, e sapendole unire con abilità e destrezza alle leggi, astutamente se ne servirono per mantenerli in una maggior soggezione ed ubbidienza. 

Più non essendo i popoli distratti da tante complicate ed interiori vicissitudini di governo, già stabiliti gl’imperj, i regni e le repubbliche, questi pensarono ad estender i loro territorj ed altri a difenderli. Quindi ne venne che si passarono molti secoli, ne’ quali gli uomini erano diretti da un puro belligero spirito e tutte le melitate virtù ne mostravano il parlante carattere, la necessità di uno stato di guerra dovendole naturalmente produrre. I filosofi, capitani e soldati essi medesimi, riducendo in metodo l’arte militare, si applicarono ad insegnare le marziali scienze. I sistemi di quasi tutte le filosofie non presentavano che massime di valore, di costanza e di una invitta generosità: testimonj le dottrine di Platone, Pittagora, Aristotele, Zenone, Socrate, Democrito, Anassagora e di tutti i filosofi e sapienti che produsse la Grecia.

La magnanimità dunque, la gloria e l’onore del cuore delle genti s’impadronirono, ed abbenchè ogni nazione avesse le sue particolari affezioni, il concorso però di tutte sempre indicava nella totalità un secolo guerriero. Molti e molti popoli godendo la natural libertà, fecero risplendere l’eroismo assai più di quelli che erano soggetti a principi. Quindi luogo non abbiamo di istupirci di tutte le belle e sorprendenti azioni che leggendo le storie non di rado esitiamo a credere.

Durarono questi nobili impulsi con più o meno fervore, finchè la maggior parte delle nazioni soggiogate venendo della potenza romana, mutandosi la direzione delle passioni e dei bisogni verso altri fini ed oggetti, l’inclinazione di piacere a’ vincitori ed il timore d’incorrerne la vendetta corruppero gli animi de’ vinti in un co’ quelli de’ vincitori, perchè caduti sotto la dipendenza degli altrui capriccj o la tirannide dei dittatori ed imperatori. L’orgoglio allora divenendo lo spirito di questi, la viltà dominando sui cuori di quelli, germogliarono poscia tutti i vizj in quello stesso terreno ove vedeansi ancora le ruine delle virtù. Dovendo i popoli subir le dure leggi dei tiranni, si cangiò in obbrobrio l’antica gloria. Il vilipendio e la schiavitù, il lusso, la vanità, lo stravizzo subentrarono in que’ cuori che pria eran la sede de’ meriti. Apparvero di quando in quando anime generose che fecero risorgere le antiche lodevoli doti, ma non essendo queste sostenute dovettero soccombere. I sapienti che vissero in tali secoli, ben lungi di atterrare sì ludibriosi stimoli, quelle scienze promulgarono le quali, mantenendo la corruzione de’ cuori, fomentavano vieppiù la tirannia in questi e l’infingardagine negli altri; che se da alcuni pochi veramente savj venivano prodotti e comendati i più eccelsi e lodevoli sistemi, questi, vivendo nella oscurità per timor dei tiranni, non erano capaci di trasformare l’ignominia distintiva in una ugualmente distintiva virtù.

Alcuni grandi imperatori giusti e virtuosi, tenendo le redini del romano impero, richiamarono talvolta le spente generose sensazioni dall’oblio; ma non essendo che semplici mortali, e durando per lo più breve serie d’anni i loro benevoli governi, malvaggj i successori, sapevan ben presto dal loro precario esiglio richiamare la deforme coorte de’ vizj. I regni in somma di vera saviezza erano come quelle fresche aurore della state seguite da troppo calde e soffocanti giornate.

Il cristianesimo che in ogni parte andava prendendo forza e vigore era solo capace di dissipare tanti orrori e d’animar i viventi di un benigno fuoco da che eccitarli alle vere utili azioni, allorchè salito sul trono, all’esempio de’ monarchi, fosse poi da’ sudditi abbracciato. Felicemente avvenne che sommettendosi gl’imperatori a’ precetti del Vangelo, co’ cristiani insegnamenti seppero abbattere gl’ignominiosi vituperj del paganesimo, della vile schiavitù e tirannia. Poco durò il trionfo del ben oprare, poichè dividendosi i seguaci della nuova dottrina in più e più scismi, e formandosi quindi nuove religioni e nuove sette, la livida superstizione riprese l’impero de’ cuori. Questa producendo malefiche sensazioni, si viddero per molti secoli animate le genti tutte da uno spirito di vendetta e di sangue. Ciò accadde perchè, impadronitisi alcuni ambiziosi della religione, arrogandosi sovranamente la decisione d’ogni cosa, adulterando la dottrina del celeste Inviato e volendo di soverchio costringer le coscienze, tutti misero sotto la dipendenza, principi e sudditi, patrizj e plebei. Sapendo che una immaginaria teocratica potenza aver non poteva fondamento più solido dell’ignoranza e della imbecillità, armaronsi di mille invenzioni per fortificar il fanatismo. Eccitarono anche essi gli addottrinati allo studio di certe scienze che le vere distruggono, non che la purezza della religione, per sempre più ingolfare le genti nella miseria e nella barbarie. Ecco come per molti successivi secoli si perpetuarono fra le straggi e le carneficine dei palpitanti innocenti le distintive e secolari passioni di sedizione, d’orgoglio e di viltà.

Resi più illuminati i popoli e ravveduti de’ loro passati errori, rischiarita sempre più la verità della religione dalla tolleranza e da un pacifico fraterno amore, distrutti gli empj feudali governi, che fecondavano soltanto la tirannide dei pochi indolenti e crudeli a pregiudizio de’ molti sudditi intorpiditi nella servitù, a tanti secoli di barbarie e di fanatismo ne succedette lo scorso a noi prossimo, in cui, crescendo i viventi nelle cognizioni dei veri interessi, da una lodevole inclinazione al commercio si sentirono ispirati. Questa tanto più si animò per essere state tante arti e scienze conosciute, arricchite ed inventate, che colla loro buona influenza allontanarono da’ cuori umani una infinità di enormi pregiudizj per introdurvi soltanto una distintiva passione di dolcezza e d’amenità.

Col crescere, comparare, dividersi e multiplicarsi delle idee, coll’investigar più scrupolosamente gli oggetti che dipendono dalla politica, s’avanzarono le nazioni ne’ ragionamenti i più difficili sopra la naturale libertà, scoprendo in parte l’origine delle cose, si formò fra di loro un certo spirito d’indipendenza, il quale oggidì osservo essere la distintiva passione del secolo; di modo che molte politiche speculazioni, che per lo passato o non erano sapute o erano soltanto il frutto delle più profunde investigazioni, sono al presente quasi divenute semplici e volgari nozioni.

Egli è tanto vero che lo spirito ed il carattere di questo secolo sia l’indipendenza, che dalle persone le meno illuminate sentesi definita e calcolata quella porzione di nativa libertà che da esse può esser stata rinunciata per formare que’ pubblici depositi di autorità che stabiliscono i governi.

L’Europa ridonda di scritti ne’ quali si ragiona senza riserva sopra un sì delicato soggetto; e sembrami che gli odierni filosofi cerchino di inalzar questa scienza più d’ogn’altra a’ più eminenti gradi di perfezione. I progetti delle corti non tendono che ad accrescere il numero degli eserciti, aumentar le finanze e ridurre i sudditi ad una cieca soggezione, che al cuore umano ribrezzo ispira e talvolta orrore. Molte repubbliche per fino s’avanzano a gran passi allo stato monarchico, per indi poi aspirare ad un poter arbitrario. Ecco del secolo presente il regnante contrasto di passioni. Situazion lagrimevole! Quali e quante vicissitudini in te non ravvisa il filosofo? L’amor che porto all’umanità, il desiderio che mi spinge verso il pubblico bene e la conservazione dell’altrui felicità sforzami a rompere il silenzio ed a palesare questa mia opera, colla quale, ben lungi di contribuire allo spirito di rivolta e di ergermi contro i principi, vo’ loro proporre alcune mie idee sopra cui fondar possino la base di una benefica potenza, che giammai non potrà nè da sudditi, nè da esseri nemici essere in alcun modo distrutta.

Non sono queste già un puro sogno di un uomo dabbene, ma un metodo di governo eseguibile, del cui esito fortunato molti principi ne provarono e tuttavia ne provano benefici effetti. Non potranno già i sovrani mostrarsi offesi, mentre il desiderio della lor privata conservazione, che a quella del pubblico unita esser deve, mi anima a parlare. 

Sì profonda è poi la venerazione e sì sincera la riconoscenza che porto scolpita nell’animo per chi si prende l’incarico di portare il grave peso del principato e del commando, che non posso fare a meno di palesargli il mio zelo con proporgli un piano di governo, che guarentirlo possa dallo spirito sedizioso di cui molti popoli sembrano animati contro questa parola di dispotismo, che sembra sì dura e che suona sì aspramente all’orecchio anco di chi è nato suddito. Rincrescemi di aver concepita una idea in sè tanto grande e sublime, che meriterebbe di essere trattata da penna più sottile e più ingegnosa.

Se alcuni leggitori mi troveranno troppo ardito, scorgendo ne’ miei scritti sensi che intieramente si discostano dal parere di tanti classici autori, gli imparziali amatori della verità comprenderanno essere questi sentimenti una viva e fedele espressione delle massime di un oscuro e negletto filantropo, che, più sensibile agli altrui che a’ proprj mallori, getta uno sguardo compassionevole ed ardito sopra le umane sciagure, non già per raccogliere i pubblici suffragj e meritar le lodi de’ suoi concittadini, ma unicamente per rendersi utile alla commune società, troppo pago di sè, se col frutto di quella sua fatica saprà far conoscere a’ principi ed a’ sudditi i loro veri e scambievoli vantaggj, far risorgere questi dalla miseria ed inalzar quelli al più eminente grado di potenza, ove la felicità de’ popoli richiede che sieno collocati. 


I. Introduzione.

Non imprendo già ad esaminare quali sieno le forme del più legitimo governo. Questa materia è in se stessa sì astrusa che cento copiosi volumi non ne seppero stabilire incontrastabili principj. Convengo essere l’uomo nato libero, la verità si è però che non seppe guari conservare la natural libertà; e quantunque nella natura delle cose evidentemente si mostri essere la medesima un vero dono accordatogli dalla benefica divinità colla creazione, è altresì sicuro che non venne da lui conservata se non sino alla formazione delle politiche società. Quella però che allora godeva non era sì preziosa, come alcuni filosofi persuader ci vorrebbero, mentre non consisteva che in uno stato di una totale confusa indipendenza, incompatibile colle passioni umane, e che altro non produceva se non uno stato di continua guerra.[3]

Nel formarsi dunque delle società, gli uomini non ebbero altro oggetto che di mutualmente sostenersi nell’usurpato diritto di proprietà, come già dissi nella Prefazione. Si dovettero stabilire convenzioni e patti sociali, che non si sono potuti fissare senza che i contrattanti più o meno alla loro naturale libertà rinunciassero per formare un pubblico deposito, acciocchè di questo servir si potessero per mantenersi nel rimanente di quella che hanno voluto conservare, o almeno nel godimento degli effetti che in una sì fatta rinuncia si sono proposti.

Varie sono le opinioni de’ politici su questo punto. I filosofi più degli altri sensati nel deffinir le cagioni, parimenti entrarono in questa disputa troppo interessante, e ciascheduno ha voluto o preteso decidere quale e quanta fosse quella porzione di libertà naturale che i contrattanti poterono o vollero rinunciare nella formazione delle società.


Senza ingolfarmi in tante dispute, senza combattere i pareri di questi, senza ciecamente sottomettermi agli avvisi degli altri,[4] dirò soltanto avere gli uomini rinunciato quella necessaria porzione[5] che era essenziale per lo stabilimento di quel governo che hanno creduto il più utile alla loro conservazione. Da questo costante principio ne viene che, sebbene il dispotismo non abbia una valida legitimità, può ciononostante essere una forma di governo sotto cui vien dato a’ sudditi di vivere nel seno d’ogni ben ragionata felicità, finchè quell’uomo o quel corpo in cui risiede la massa delle communi forze mantiene gl’individui che formano la società in quelli buoni effetti che hanno avuto di mira nella loro rinuncia, qualunque ne sii la natura. Dipendendo dall’intelligenza di questo punto quella di tutti gli altri, prego il leggitore di essere attento, poichè non credo aver ricevuto della benigna natura il bel dono di esprimere le mie idee con chiarezza a coloro che senza ponderare distrattamente mi leggono.


II. Dispotismo.

Questa voce derivata dal greco significa nel suo stretto senso dominazione o signoria, ed in un senso men rigoroso il superlativo della parola solo nel governo ed anche più che re. È dunque la deffinizione di un essere in cui risiedono tutte le facoltà di disporre, in modo di formare un atto assoluto ed indipendente: così altro non è il dispotismo che un effetto di una libera volontà indipendente da qualunque legge o convenzione.


Sembrami che la maggior parte degli autori che trattarono della politica si sieno ingannati nel confonderlo colla tirannia e tal volta ancora colla semplice monarchia, mal individuandone i principj e confondendone le differenti nature. Presso gli antichi, communemente veniva chiamata tirannia ogni governo di un solo. Se chiamavan tiranni i Zersi, i Diomedi, i Dioniggi ed altri fieri e crudeli sovrani, il medesimo titolo accordavano altresì agli Atali, agli Eumeni, agli Ieroni ed a tutti gli altri buoni monarchi. Diversi sono i miei principj, mentre il monarca è quell’uomo che regna sotto quelle convenzioni o sia leggi che la società contrattante gli ha voluto o potuto prescrivere. Ogni qualunque volta ne vuol disporre a suo piacimento e interpretar a sua voglia le leggi, cessa di esser monarca e diviene despota o tiranno. Dunque un principe, come monarca, è qual nodo a cui il sovrano, il governo e tutti gli altri ordini di uno stato vengono avvincolati. Se molti autori dell’antichità errarono nel confonder la monarchia colla tirannia, ve ne furono però alcuni che ne seppero analizzare le ben differenti nature. Fra questi Platone e Zenofonte, come i più illuminati, lasciarono scritto che fra il monarca ed il despota altra differenza non ritrovavano se non che il primo regna colle leggi, e questo senza leggi e di sua privata volontà. In seguito di questi filosofi cel dissero l’illustre Montesquieu e molti altri doppo ed anche prima di lui.


Se molti scrittori s’ingannarono, ed altri dieder nel segno nell’individuare la differenza fra il monarca ed il despota, tutti caddero in errore nel parlare del dispotismo. Quasi ch’il principe non potesse regnare con un potere miglior delle leggi, tutti fanno del sopradetto governo un mostro orribile, il di cui nome porta l’animo al timore ed allo spavento. Tutti i politici e filosofi dipingono il dispotismo come una forma di regnare che distrugge ed atterra ogni virtù, che rompe l’ordine ed i vincoli delle società, e che nulla fa produrre che di vizioso e pessimo. Lo confondono in fine colla tirannide, facendone di due un solo ed unico esistente. Distinguendoli intieramente l’uno dall’altra, separo il dispotismo dalla tirannia; potrei sottodividere questi complicati oggetti, ma per rendermi più chiaro mi attengo soltanto a questa semplice e natural divisione.


Intendo dunque per dispotismo quella volontà che da sè sola agisce senza consultare le altrui, che in sè rinchiude tutta la legislativa ed esecutiva potenza, e che per virtù della più forte attrazione in sè riunisce ed attrae tutto il vigore e le diramate forze del sovrano, del principe, del governo e di tutto lo stato, dipendendo dal suo proprio moto quello di tutta la machina politica. Questa in vero è una forza formidabile che distrugge ogni altro potere, ma che però, ben lungi di spaventare chi ne considera la struttura, può esser l’origine la più facile della pubblica prosperità, se colui in cui sono riunite tante forze viene regolato dalla virtù e dalla cognizione de’ veri mezzi per mantenervisi. Benchè superiore alle leggi, potendone formare e distruggere a suo grado, può elevarsi con una assoluta volontà uguale o migliore in bontà alle leggi stabilite, che il più delle volte ed in più paesi possono esser cattivissime. Così questa volontà, essendo ottima e pura, finchè si conserva tale, produrrà un genere di dispotismo che ridondar deve in pubblica utilità. Che se andrà degenerando, allora produrrà l’altra malefica forma di dispotismo che chiamerò tirannia.[6]

Questa maniera di governare deve a ragione ispirare orrore agli uomini, mentre non consiste che in una malefica arbitraria volontà, non potendosi dire essere questa una forma di governo, ma bensì una distruzione d’ogni ordine sociale e che troppo si oppone a quello della natura; imperciocchè non è da suppore che gli uomini dicano o abbiano detto con pieno piacere e scienza ad un uomo lor pari: Fate ciò che volete di noi, delle sostanze nostre e delle vite, giacchè vi accordiamo irrevocabilmente la facoltà di distruggerci ed annichilarci a vostro buon grado e capriccio, senza consultare in verun modo l’utile commune e l’equità. Contro un mostro sì orrendo ed abbominevole declamate, o savj filosofi, e meriterete allora i suffragj dei veri pensatori. Ma finchè l’assoluta volontà non è diretta che al pubblico bene, quantunque in sè non sii legitima, lasciatela pur agire, ringraziando il destino di avervi accordato un essere benefico che la cura si prende della pubblica felicità.


III. Sovranità usurpata e diretta al vero dispotismo.

Sebbene ogni usurpazione sii un attentato contro la libertà delle nazioni, quando una usurpata sovranità sarà indirizzata al bene di tutti, se la distruzione di un tal potere può costar sangue e mettere il popolo a pericolo di cadere sotto un peggiore governo, sarà sempre una azione biasimevole il formare attentati contro la stessa.[7] Imperciocchè cosa importa agli uomini di esser piuttosto governati da uno solo che da molti o pochi, purchè vengano mantenuti nel godimento di quel bene e di quella felicità che si propongono nell’istituzione di qualunque governo? Così ben lungi di riguardar con entusiasmo di ammirazione gli omicidi degli usurpatori, quando erano uomini benefici, li risguarderò piuttosto come cattivi cittadini. I Bruti, i Cassi, i Dolabella eran nemici dell’umano genere, poichè, se Cesare era usurpatore, mostravasi un vero despota ed un esser benevolo che di altro non si occupava che del pubblico bene, meritando di esser cantata da’ posteri la generosa umanità che ne accompagnava le azioni. Perdonami Bruto, ombra onorata, se ardisco darti una taccia sì orribile; anch’io rispetto la virtù degli eroi, anch’io entusiasta dell’amor della patria ammiro il valore ed il generoso coraggio che ti spinse ad una sì difficile e disastrosa intrapresa. Veggo pur bene che quel grand’uomo non ha portato le sue mire fino a prevedere che Roma non poteva più ammigliorar la sua sorte, quand’anco ricuperata avesse la pristina libertà. Altro non poteva avvenire che una anarchia, molti essendo i partiti, varie le opinioni e troppo ricchi diversi cittadini per assoggettarli allo stato della primitiva uguaglianza, influendovi parimente l’alterazion de’ costumi e la vastezza dell’impero.


IV. Altre riflessioni sopra il dispotismo.

Non soltanto ritrovo nel governo di un solo, legitimo o usurpato, il senso di dispotismo, ma in tutti i governi sì aristocratici che democratici. Siccome sarebbe odioso l’indagarne le prove ne’ presenti governi, principalmente se questi sono in Europa, ricorriamo per poco alla feconda antichità, ritenendo sempre la massima fondamentale essere il dispotismo un’assoluta volontà indipendente dalle leggi e convenzioni delle nazioni.

Tale è la forza del dono della parola, sempre apprezzato in tutte le repubbliche, e tale fu sempre l’attrativa della virtù, apparente o reale, che in ogni tempo si viddero ne’ popolari governi uomini che seppero far fissare in loro i pubblici suffragj della patria ammiratrice, de’ quali servendosi con destrezza, produssero tutte le pubbliche risoluzioni. I Milziadi, i Temistocli, i Cimoni, gli Aristidi a vicenda governarono con ogni impero Atene; e sebbene quel popolo fosse gelosissimo della sua libertà, pure si faceva gloria di cedere alle insinuazioni di così illustri cittadini, i cui sublimi meriti facevanli risguardare quali oracoli delle parlanti divinità.

I Bomilcari e gli Zantippi, col loro credito e serviggj resi alla patria, li vediamo esercitar co’ consiglj il dispotismo in Cartagine; i Coriolani, i Camilli, gli Scipioni ed i Gracchi in Roma, ne’ secoli che non erano i più corrotti, li vediamo padroni delle pubbliche decisioni ne’ comizj e nelle centurie. Se alcuni fra questi furono esigliati ed altri per fino condannati alla morte, fu l’effetto dell’invidia imperiosa, che soffocando le sensazioni di umanità in alcuni cattivi cittadini, li seppero render oggetti della pubblica diffidenza ed odio, passioni che non si estinguevano ne’ popoli liberi se non colla punizione di coloro de’ quali i benificj resi alla patria servir doveano di cammino alla generale benevolenza e gratitudine. Così se pria despoti erano i nominati eroi, tiranni mostravansi que’ uomini perversi che l’arte aveano di persuadere i popoli ad infligere pene sì ingiuste. In qualunque modo, tutte ugualmente erano azioni di volontà assoluta, quelle tendenti al vero benefico dispotismo, queste alla tirannide. Ma come accennarne tutti gli esempj, se le storie d’ogni nazione ne vanno arricchite? Quando un’azione è prodotta da una volontà assoluta, per qualunque maniera che l’uomo vi pervenga, sempre sarà un’azione dispotica.

Rileggendo i mei pensieri mi ero proposto di dare alla luce alcuni riflessi tendenti a provare non esservi mai stato altro governo che il dispotismo e la differenza tutta consistere del più al meno. Ne scrissi di che farne un volume, ma diverse vicende mi fecero risolver a formar l’opera presente.

Prima di conchiudere questo capitolo, mi viene in acconcio un’altra riflessione; e si è che non si possono soltanto chiamar dispotismi le volontà assolute di un solo, principe o cittadino, che fa ricevere le di lui opinioni ad uomini liberi, ma ancora i governi dei molti. In questo caso, per intendere la mia arrischiata opinione, convien personizzare un tal governo e ridurlo all’unità; e se un simile dato corpo agirà con una volontà superiore alle leggi, migliore di queste o peggiore, uno stato ove una simile assoluta volontà avrà luogo sempre sarà un vero dispotismo oppure una tirannia.


V. Dispotismo il più facile.

Quella volontà che sarà la più prossima della pubblica libertà naturale sarà sempre la più facile a stabilirsi ed a conservarsi. Quella volontà che non consulterà le cattive leggi e che da sè sola agirà liberamente, per il mantenimento della politica armonia, con un arbitrio sublime in bontà, sarà il dispotismo il più semplice ed il più agevole in tutte le sue operazioni. La volontà di quel principe che non distinguerà i suoi privati interessi da quelli de’ suoi popoli, e che non ammetterà altra epoca della propria distruzione che quella de’ suoi sudditi, sarà la più ragionevole e la più solida. Infine il dispotismo il più facile consiste nel voler ciò ove il popolo ritrova i suoi vantaggj. Simil governo non trovando difficoltà nella volontà generale, tutte le di lui operazioni sono pronte, ferme e sicure, perchè fondate sopra la ragione e la virtù.


VI. Pubblica armonia.

La perfetta disposizione di ogni cosa, che tende a produrre ed a conservare il buon ordine e la tranquillità delle società, forma la pubblica armonia. Presa in questo senso, altro non è dunque che la pubblica felicità e la combinazione di azioni tendenti all’utilità individuale ed universale.

Per mantenere questa armonia non basta che le diverse volontà vengano controbilanciate, ma fa d’uopo che una forza superiore ed indivisibile produttrice di tutte le azioni operi senza contrasti. Questa vera unità di azioni è il vero mio dispotismo, che non soffre divisione, diminuzione nè accrescimento; governo fra tutti il più facile a mantenersi. Siccome però in uno stato d’uopo è che vi sieno diverse autorità, se queste devono produrre un’unità di azioni, bisogna che ritornino nella massa generale di questa sublime forza dalla quale ne ebbero il primo moto; come le acque tutte de’ fiumi che, uscendo dal mare per scorrere ed irrigare le terre ed i campi, dopo aver resi pieni i voti dell’ingordo colono e le mire degli intrepidi naviganti, con unde spumose e rapidi flutti gorgogliando a lui sen ritornano, per ricominciar quindi con più vigore la sempre ammirabile e non mai intesa circolazione.

L’aggregato della volontà e delle forze di tutti i contrattanti che compongono la nazione costituisce questa forza. Se della somma di queste riunite volontà si osa farne qualche sostrazione permanente, diminuendosi la medesima, diminuisce nello stesso tempo il rapporto del desposta a’ sudditi; troppo convenendo per conservar l’unità di azioni nel vero dispotismo aver di mira il nominato punto di assoluta volontà, in cui gli interessi particolari, quantunque fra di loro divisi, si riuniscono, come i raggj di un dato cerchio che vanno ad interseccarsi al loro centro commune.

La perfetta unità di azioni non solo conserva la pubblica armonia, ma rende formidabile il poter di chi la dirigge a qualunque estero nemico, finchè si conserva colla supposta purezza. Quel principe che ne saprà far uso, si vestirà di un potere che non verrà bilanciato da alcun altro, la di lui voglia superiore a qualunque legge o convenzione non avrà limiti. Ecco il vero mio dispotismo che mi propongo di sviluppare.


VII. Della virtù.

Ben vedo che un autore il quale oggidì parli della virtù come di un principio del più sodo potere corre il rischio di passare per un benefico visionario. Le immaginazioni degli uomini dell’odierno secolo sono sì affascinate da tante complicate idee fattizie che isdegnano di gustare le mire della primiera, quantunque dilettevole, semplicità, credendone o impossibile l’esecuzione o chimerico il pensiero. Nulladimeno, chi ha già gustata la insinuante carriera delle belle azioni, chi si sentì il cuor palpitante alla vista di un uomo afflitto dal dolore e dalle sventure, e chi ebbe già l’inesplicabile diletto di sollevare un oppresso, aprirà nuovamente il varco del suo cuore per ricevere quelle benefiche impressioni delle quali ne provò il delizioso sentimento, allorchè si lasciò vincere dal piacere di esercitare qualche atto degno della lode di un vero filantropo.

Se Montesquieu ed altri uomini grandi ci stabilirono il timore per l’anima del dispotismo e la virtù quella di un popolare governo, perchè mai non sarami permesso di riporre il mio nobile edifizio sopra questa base? Essi parlando del dispotismo altro non intendendo che la tirannia, hanno ben ragione di stabilirne il timore per il principio motore: ma il mio governo fondato sopra la giustizia, l’unanime concorso de’ desiderj ed il pubblico contento, perchè dovrà dunque riconoscere altra origine ed altro stimolo che la virtù?

Trovandosi le odierne nazioni dirette da principj diversi produttori di tutte le azioni, parrà impossibile il voler scancellare dal cuore degli uomini tutte quelle perniciose massime che vi hanno una sì profonda radice; ma se si riflette all’esito felice di tanti virtuosi sovrani e savj legislatori che vi seppero lodevolmente riuscire, dirò che tali gloriosi trionfi riportati sopra l’umanità possono servire di una giusta norma a quei principi che sembrano occupati dal divino progetto della pubblica felicità.

Se poi si riflettesse sopra la forza con cui si fanno sentire le impressioni ne’ sudditi, quando l’esempio del principe ed il di lui desiderio le precedi, si dileguerebbero tante difficoltà che ci sembrano insormontabili. Quando un sovrano si prefigge di non distinguere che il merito, i grandi ciechi immitatori sì dei vizj che delle buone qualità dei medesimi, seguendone le onorevoli traccie, in breve vedrebbonsi riformati i costumi di una nazione, imperciocchè si osserva che il più delle volte l’uomo diviene o mostrasi giusto o perverso, intanto che spera o che crede che la virtù o il vizio lo conducano al di lui scopo, agli onori ed alla grazia del principe e dei grandi.

L’esercizio della virtù ne’ sovrani loro procura la conquista de’ cuori de’ popoli sensibili a’ beneficj. Questi allora si persuadono di vedere nel di lui privato interesse ed assoluta volontà il volere di tutti. Così si accresce la fiducia ne’ sudditi, che dimenticano la rinuncia fatta delle porzioni di libertà naturale e si rallegrano allorquando vedono la benefica autorità del capo divenir sempre più assoluta, perchè credono che la loro libertà acquisti una forza maggiore.

In fatti Vespasiano, Tito, Traiano, Antonino Pio e Marc’Aurelio, benefattori del genere umano e veri seguaci della virtù, erano ben più despoti dei crudeli Tiberio, Caligola e Nerone, mentre questi, sebben regnanti con un’arbitraria volontà, erano tremanti sopra il loro vacillante trono: loro pareva di vedere a’ piè del soglio il coltello della libertà che doveva essere immerso nel loro seno, e temevano che ne’ deliziosi falerni circolassero i mortiferi acconiti che dovevano gettarli estinti in braccio delle loro favorite. Così passavano i loro dì fra le angoscie, mentre i rimproveri dei comessi delitti trasmutavano avanti la loro riscaldata immaginazione tutti gli oggetti i più indifferenti e i dilettevoli in triste larve ed in orribili mostri. Laddove l’animo de’ primi sempre tranquillo, sicuri nella fiducia che loro ispirava la virtù, paghi di sè medesimi, in un beato riposo pareva loro ad ogni momento di udire il Campidoglio, il Foro e tutte le pubbliche piazze di Roma risuonanti di lodi e di acclamazioni.


VIII. Sopra il medesimo soggetto.

Sebbene le attrative della virtù abbiano tutta la capacità di ravvivare le nostre idee più di qualunque altro oggetto, nulla di meno voglio accennare alcuni altri potenti mezzi per stabilirla. Gettati i fondamenti con l’esempio del principe e de’ grandi, si potrà prendere in soccorso l’amor proprio degli uomini, che fra gli uni suol produrre l’interesse e la vanità e fra gli altri l’onore e la gloria. Queste passioni, che sono inseparabili dalla umana natura, possono essere messe a proffitto dalla abilità del mio despota, in maniera che concorrano alla pubblica e di lui privata conservazione; così, ben indirizzate, le medesime possono altresì cangiarsi in cause produttrici della virtù.


I premj ne saranno un mezzo efficace, non già que’ premj che consistono in una vana ostentazione di inutili ed alcune volte nocive profusioni,[8] ma bensì in ricompense che abbiano origine nella natura delle azioni produttrici del merito. Siccome per lo più le azioni virtuose producono utili morali e gloriosj, così nella gloria convien ritrovarne i premj, i quali si possono a tempo anche frammischiare con l’interesse, ogni qualunque volta lo esigga il caso e le circostanze.

Se vanno premiate le lodevoli azioni de’ grandi e della nobiltà, che più ricchi han­no avuta una migliore educazione ed esempj da imitarsi ne’ avoli loro, trovo che ben più degni d’esser premiati sono que’ tratti che si vedono negli ordini i più inferiori della società: metodo ugualmente possente per fare esercitare la virtù che per far fiorire le arti e l’agricoltura. Non sarà dunque il nascer grande che stabilisca il prezzo delle lodevoli azioni. Gli oscuri tugurj de’ poveri artigiani e le rozze capanne de’ negletti agricoltori, derelitti ricoveri di molte anime generose ed innocenti, non devono reccare verun impedimento alla mano benefattrice del mio regnante. Fra i grandi, i ricchi ed i nobili, alcuni la esercitano per farsi strada agli onori, altri per acquistare la pubblica riputazione di onest’uomo (cosa apprezzata dagli uomini i più iniqui) ed altri per arrivare a fini illeciti o vituperevoli; ma quelli che la esercitano per solo dovere o inclinazione, che non ne fanno una pompa fastosa, che la nutriscono nell’oblio e nella oscurità senza l’ambiziosa mira di produrla avanti il trono, mi sembrano ben più degni di que’ uomini virtuosi che sono gli abitatori de’ superbi e deliziosi palazzi e delle splendide corti.

Per scuoprire tutte le lodevoli azioni de’ sudditi, potrebbe un principe amante della vera gloria, all’esempio di altri sovrani, entrare incognitamente in ogni ordine della società, ed intanto che le di lui altre sublimi occupazioni non gli danno tutto il tempo che si richiede in una sì utile ricerca, potrebbe sostituire alcuni magistrati di una conosciuta illibatezza che, investigando secretamente le azioni de’ privati, producessero gli esempj di generosità, d’intrepidezza, di fedeltà e di altre simili virtù, interessandosi nella ricompensa delle stesse, come vien pratticato anche oggidì in un vasto impero.[9]

Vorrei che in tutte le arti, in tutti i mestieri, nelle città e nelle ville, l’uomo creduto il più giusto per le di lui buone azioni avesse delle preminenze e comandasse agli altri; ma che non durassero in lui quelle prerogative che fin tanto che egli conserva la sua virtù. Questi premj e distinzioni parlerebbero con indicibile eloquenza ne’ cuori sensibili di tali sudditi. Se alcuni dei medesimi esercitassero la virtù per inclinazione, altri lo farebbero per riunire in loro la maggior possibile quantità dei pubblici suffraggj. Così, sia per un principio di virtù scolpita nel cuore o per l’ambizione di meritarsi gli altrui eloggj, il prodotto di un tale sistema sempre influirebbe nella totalità, a formarne un popolo intrepido ed invincibile contro i nemici della patria, sensibile alle altrui miserie, generoso in tutte le azioni, magnanimo nelle intraprese, esatto nel commercio ed in tutte le di lui difficili occupazioni, e ciaschedun di loro, travagliando per il bene di tutti, sarebbe il popolo il più felice ed il più ricco.

Fondati alcuni ragionatori sopra le perversità che si vedono giornalmente commettere a declamare contro la malignità del cuore umano, mi rappresenteranno l’impossibilità di un così difficile sistema. O cecità, o confusione! Non dipenderà forse dal legislatore di formare un popolo virtuoso e felice?[10] Ma oltre l’esempio di tanti fondatori d’imperj, che per render sode le loro leggi istituirono la pratica della virtù colla via de’ premj e delle lusinghiere distinzioni, avrò loro da opporre per confutarli la propria sua attrativa; imperciocchè tale è il diletto e la insinuante sodisfazione di chi ne fa saggio con qualche bella azione, ancorchè venga alla stessa sforzato, che più non sa risolversi di abbandonarla.

Quando poi i sudditi vedranno la virtù in un modello sì illustre come la vita del sovrano, si conformeranno con facilità a menare assieme con amicizia e concordia, con giustizia e temperanza una vita felice. Chi sa ispirare una sì nobile inclinazione e condurli ad una sì perfetta felicità è il più degno dei re ed un vero despota, e sarà quel medesimo soggetto tanto cantato da Platone, in cui riunendosi per una divina fortuna il sovrano potere e la filosofia, renderà la virtù vittoriosa del vizio, liberando, come prosiegue quel filosofo, le città e gli uomini da’ loro malori.

IX. Conseguenze.

Chi volesse opporre per argine all’impetuoso torrente de’ vizj e irregolarità, dalle quali trovasi innondata la gemente società, quelle stesse pene che si sogliono infligere per li delitti, oltre il meritarsi il titolo di tiranno, precipiterebbe in maggiori guai e sciagure la stessa società. Le carceri, i pubblici travaglj ed altri simili castighi si risentirebbero di troppa crudeltà. A questa sorta di pene non si può sempre condannare un ingrato, chi rivela il segreto di un amico, un figlio poco affezionato, un aspro genitore, un fratello inumano, nè un soldato o uffiziale codardo, sebbene questi mali meritino in qualche modo il nome di delitti.

Per impedire i tristi effetti che scatturiscono dalla fonte inesausta delle mal dirette passioni, sarà bene il ricorrere ai medesimi principj già stabiliti per l’introduzione della virtù, conciosiachè la corrutela de’ costumi viene da che si ricompensano gli uomini i più ingiusti e perniciosi. L’amor proprio sarà dunque lo strumento con cui devonsi punire simili delitti, ed allontanando que’ castighi che si risentono di una fisica severità, ricorrere a quei rimedj che tendono a distruggere la stima e la fama di colui che, acciecato da qualche mal diretta passione, cercò di sconvolgere la società.

Simili delitti è bene che pervengano alla pubblica cognizione, affinchè il reo sia reso l’oggetto dell’altrui indignazione e disprezzo. Lo spoglierei con ludibrio di una magistratura e di ogni altro impiego che tenda alla conservazione della sociale sicurezza, non convenendo a’ malvaggj o ad uomini di vile carattere il gerir carriche. Ad un delinquente di quella natura, non avrei difficoltà di togliere il diritto di testare in mancanza di parenti e di servir di testimonio in qualunque contratto. Ogni uomo che manifestò il suo cattivo pensare con qualche vile azione, sia pure da tutta la società conosciuto, affinchè il pubblico di lui si diffidi. Chi ha comessa un’azione infame, con l’infamia va punito, perchè, avendo operato contro lo spirito delle sociali virtù, non è più degno di godere i suffraggj de’ suoi concittadini ed i privileggj degli uomini giusti, ritenendo però che tali pene non comunicano infamia a’ congiunti. Trovo più giusta la legge dei Spartani, che infligevan un perpetuo obbrobrio a coloro che ritornavano vinti o fugati da davanti il nemico, di quella dei Romani, che condannava alla morte chiunque perdeva le armi in un conflitto. Posso dunque sostenere che certe pene d’infamia e di ludibrio servono assai più ad impedire le cattive azioni degli uomini che le priggioni e la morte, ciò che si vidde in tutte le nazioni e in tutti i tempi.

Fra i molti vizj che si presentano alla mia immaginazione, oserò nominar tale l’ipocrisia, mostro abbominevole, da cui ne scatturiscono le più neffande passioni. Simili scellerati, entrando nella società con l’impronto della religione e della autorità de’ costumi, ingannano il mondo incauto, seminano gli odj nelle innocenti famiglie, rompono i più sacri vincoli della natura e dell’ordine sociale, sagrificando la stessa virtù, vittima del lor privato interesse ed inerzia. Se si armano della religione, non lo fanno che per meglio distruggerne i principj, prendono l’esteriore della modestia per sedurre la docile innocenza, improntano il candore e la dolcezza per sorprendere la pieghevole ignoranza ed imbecillità. Fossi io principe, che punirei l’ipocrisia qual barbaro delitto, cioè secondo il danno che accagiona: nè vedo perchè si dovrà aver riguardi per un impostore che, servendosi della stessa, si erigge in perturbatore dell’altrui riposo.

In ogni altra sorta di vizj, si dovrà analizzare la natura del male nell’infliggerne le pene ed andar sempre all’origine della passione produttrice della nociva azione.

X. Delle leggi.

Sebbene nella numerosa compilazione di tante leggi molte ve ne siano di ogni nazione, e principalmente delle romane, fondate sopra l’equità naturale ed i sodi principj della ragione, fatte per proteggere l’innocenza dei deboli contro le intraprese ardite de’ potenti, non è meno incontrastabile che alcune delle medesime non sono più adattate alle nostre giornaliere circostanze, rese inutili dalla rivoluzione e dei tempi e delle passioni, ed altre ancora inventate dalla malizia de’ pochi per opprimer i molti, dalla cupidigia dei ricchi per conservarsi opulenti a dispetto dell’equità e della giustizia. Quelle molte leggi che si risentono di uno spirito di rettitudine e di virtù le vedo esposte con mistero[11] e frammischiate da mille contraddizioni, colle quali, pur troppo, tanti compilatori, commentatori ed interpreti le seppero inviluppare di oscurità, con varie ridicole contraddizioni, afin di renderle soggette alle arbitrarie e tumultuose interpretazioni dei tiranni, che ne vollero rendere l’esecuzione o troppo difficile o incostante.

Le prime leggi fatte doppo l’istituzione del diritto di proprietà, perchè composte da uomini forse meno corrotti, erano più facili nell’esecuzione. In fatti si vede che fra le nazioni le più antiche e le più rinomate per la loro saviezza, ognuno può decidere i contrasti littigiosi de’ particolari, senza aver d’uopo che della virtù e dell’altrui consentimento per formare un atto decisivo. Facile è presso di loro il conservarsi l’acquistato, per via di commercio o di successione, contro le intraprese di qualunque altro concittadino che sia animato dallo spirito di usurpazione. Fra di loro non si trova chi abbia gravemente istituito che un uomo possa vivere ed agir doppo morte con forza uguale ed alle volte maggiore,[12] che si possa esser dispensato d’indannizzare chi sopra la fiducia di ristituzione ci sollevò nelle nostre miserie,[13] e di non essere tenuti a seguire i parlanti doveri della natura nel ripartir co’ proprj figlj quelle sostanze sopra le quali essi vi hanno un sì legitimo diritto.[14] Queste sono pur troppo leggi che fra di noi sono la sorgente di non mai finiti litigiosi contrasti, che fanno languire fra le continue e violenti palpitazioni di cuore, prodotte dalla speranza e dal timore compagne inseparabili, tanti soggetti che potrebbero essere utili alla patria; disordine in vero funesto, giacchè impedisce lo stabilimento di molte famiglie e che tanto danno recca alla popolazione. Ecco come la giurisprudenza, che da tutti viene deffinita per quella benefica scienza di rendere a ciascuno ciò che se gli aspetta, a forza d’inconseguenze prodotte dalle più malefiche passioni, sembra quasi divenuta l’arte di acquistare arditamente l’altrui e di conservar con tranquillità l’usurpato; scienza funesta d’inviluppati raziocinj, che scatturisce dal diritto di proprietà, diritto barbaro, fatale, che per costituire cento indolenti nell’opulenza ha dovuto formare un millione di miserabili.

XI. Altre riflessioni sopra la legislazione.

Se l’oscurità delle troppo inviluppate interpretazioni fu la cagione di tanti guai, le diverse confuse formule di giudicare non furono certamente un dono men crudele, poichè le fallaci contraddizioni che ne formano la tessitura produssero il funesto metodo di vestire la nuda verità e di armare i giudici male intenzionati di un’apparente forza di ragione, come a loro sembra più utile ed avvantaggioso e più conforme alla loro avidità. L’officio sì onorevole di diffendere il debole innocente contro le ingiuste intraprese del forte usurpatore, confidato a persone mal istrutte o di cattiva intenzione, altri officj sottoposti a questo, divenuti il veleno della aflitta società, perchè accordati ad una infinità di persone di corrotti costumi, che col loro interessamento nell’eternar i litiggj si rendono gl’insidiatori si de’ privati che del pubblico riposo, sono mali che, in seguito agli altri già annunciati, minori sciagure non produssero al genere umano delle guerre più aspre e più sanguinose.

Molti principi in ogni tempo viddero là necessità di una totale riforma; ma o avendo vissuto troppo poco per poterla effettuare, oppure, doppo l’esecuzione, essendo stata corrotta una sì utile fatica e divina intenzione dai successori, sempre ne arrivarono tristi inconvenienti. Solo oggidì cominciansi a vedere benefici cambiamenti in diversi principi, che non hanno altro principio che il desiderio del soglievo de’ popoli. Fra molti sovrani, l’imperatrice delle Russie ne dà un non mai abbastanza celebrato esempio: fa ella una compilazione, fra tutte le leggi possibili, delle migliori, aggiungendone altre di propria sua invenzione, ma tutte regolate secondo il genio, il clima e l’umore delle nazioni assoggettate al di lei vastissimo impero, e doppo una seria riflessione sopra tutti quegli oggetti da consultarsi in una buona legislazione. Questa sarà un’opera memorabile degna di un grand’uomo, che obbligherà ogni buon suddito ad erigerle un altare nel suo cuore come alla benefattrice del secolo e delle future età. Una Semiramide ed una Zenobia hanno commandati eserciti, debellati molti nemici, ma ne furono anche vinte e debellate; Catterina sarà sempre immortale ed invincibile, per aver non solo resi invincibili i di lei popoli, ma col renderli migliori e più felici con sì savie leggi e forme di giudicare, che spirano l’umanità del presente secolo.

Vedo un altro gran principe nell’Europa, il quale, con esito felice, ha travagliato alla riforma della legislazione. Si è il gran duca Leopoldo, il Tito della Toscana, nato per far la delizia di que’ popoli che hanno la sorte di vivere sotto il di lui benefico governo.


XII. Dello spirito di legislazione.

Vauvenargue dice che chiunque è più severo delle leggi è un tiranno; così chi è più mite delle medesime sarà un vero despota. Non bisogna credere per questo che io prepari un sistema d’impunità. Il sol pensarlo sarebbe rendere l’umanità infelice. La soverchia indulgenza apporterebbe le medesime conseguenze dell’estrema severità, cioè di abbatter i coraggiosi e di render gli uomini vili e malvaggj. Ove vi è troppo rigore nel punire o l’impunità ne’ delitti, si comettono le maggiori scelleraggini. Il diritto di punire è la conseguenza di qualunque contratto fatto fra i sudditi ed il principe, ed il vero dispotismo, fondato sopra la dolcezza, non vi forma verun contrasto, essendo anch’io del parere di Platone, che alcun dio nè alcun uomo non oserebbe sostenere che colui che ha fatto del male ad altri non debba esserne punito. Così chi volesse dire essere ingiusti gli umani castighi, non si mostrerebbe amico della società.[15] Quali debbano poi essere le proporzioni fra i delitti e le pene, la prontezza delle medesime e le qualità, è una materia stata sì abilmente trattata nell’immortal libro Dei delitti e delle pene, che sarebbe a me impossibile il voler dire utili verità che non sieno state profondamente esposte da quel famoso autore. Egli ci ha dimostrato fin dove può estendersi un legislatore nel punire, ed una tal opera merita di essere meditata da tutti i veri pensatori.

Quantunque simil materia sia stata sì ben sviluppata dal su lodato autore, pure, siccome tutti quelli che hanno scritto del dispotismo hanno suggerito esser cosa essenziale dover il despota punire certi reati con una secreta severità, mi vedo in obligo di accennare alcuni miei pensieri.

Dirò dunque primieramente che qualunque legge, o assoluta volontà di un vero despota, civile o criminale, deve essere l’espressione della volontà generale e pubblica autorità, ed ogni volta che si discosta dalla medesima diviene un atto di tirannia. Una legge ancorchè bella ed utile, quando debba costare una sola stilla di sangue non sarà più l’espressione della pubblica volontà; e se ambigua, o destituita della necessaria chiarezza e semplicità, difficile essendone l’esecuzione o arbitraria ad un privato giudice, più non spirerà quella sapienza e giustizia che formar deve il vero spirito delle leggi del mio governo. La clemenza è il distintivo carattere del medesimo. Le ruote, le mannaje, le torture e le scurri non hanno che fare sotto di lui.[16] Quelle poche pene lievi che sono indispensabili vengano almeno date con pubblica cognizione de’ processi e doppo un perfetto risultato di un delitto; mentre assai meglio è in dubbio lasciar impuniti cento rei che condannare un solo innocente. Il secreto poi nelle pene fa tremare ogni buon cittadino, che sicuro più non si crede nella propria innocenza, forma ben fondati sospetti contro il principe, non si fa persuadere della di lui giustizia, nè più rimira in lui il legitimo sovrano ma un tiranno crudele, a cui l’imperversata coscienza suggerisce di punir nelle tenebre per sostrarsi alla giusta vendetta dell’oltraggiata innocenza, a guisa di quegli assassini che agiscono di notte e che, vergognandosi de’ loro reati, passano i giorni fra gli orribili antri delle oscure e tetre caverne.[17] I principi giusti non agiscono mai nelle tenebre, vogliono che i sudditi conoscano la loro buona fede e candore, perchè così si acquistano 1’amore, la fedeltà e l’ubbedienza. Abborrono le massime di crudeltà come contrarie ad una sana politica. Nella legislazione non consultano che la pubblica libertà, afin di formare popoli felici e sommessi.[18] Questo è il metodo di farsi amici anche i nemici, di far ravvedere i più incalliti nelle colpe e di acquistarsi un potere che non può mai esser distrutto, perchè ha le radici ne’ cuori sensibili della beneficata umanità.

XIII. Della elezione dei magistrati.

O visionario, o uomo inconseguente! diranno molti leggitori, come mai un governo assoluto e dei magistrati? Quali contraddizioni!

Tali objezioni non mi verranno fatte da’ veri pensatori; posso dunque entrare nel dettaglio delle magistrature, le quali, colle porzioni di pubblica forza che loro communica il principe, devono mantenere le leggi e le volontà colle quali ei regna; volontà che, avendo la vera sorgente nel piacere di tutti, non temono ostacoli, tardanze e vicissitudini. La necessità delle magistrature vien anche provata nell’uso che ne fecero tutti i despoti, senza eccetuarne i governi orientali i più arbitrarj del mondo. Passiamo dunque a ragionare sopra le diverse maniere con cui possono divenire il sostegno, la conservazione e la sicurezza de’ popoli.

Svaniscan pure, avanti di proporre qualunque pensiero, le brighe e le venalità con cui viene accordato il potere di protegger l’innocenza e di punir i delitti.

Esaminati con rigore i candidati, non si accordi una carrica se non doppo la positiva sicurezza della capacità di un soggetto. Basterà la sapienza per gerirle? No al certo; dunque l’analisi del carattere e della vita privata di un tal cittadino serva di regola al legislatore nell’elezion delle carriche, mentre chi è un padre spietato, un fratello ingiusto, un insolente e litiggioso cittadino, non potrà certamente essere un buon magistrato. 

Quanti mali non si farebbero evitare al pubblico ed ai privati, se fra l’esame e l’istallazione di qualunque magistrato si lasciasse un ragionevole intervallo di tempo, durante il quale fosse data ad ogni suddito un’intiera libertà di portare qualunque accusa contro la condotta del medesimo, senza aver da temere gli effetti di una privata vendetta, ma piuttosto da sperarne i premj? Come possono mai sì il principe che i popoli avere fiducia in un magistrato, se certi non sono della di lui probità? La minima provata accusa contro una delle doti che essenzialmente si richiedono in un pubblico amministratore dovrà bastare per escluderlo. Le private vendette, gli odj ed altre cattive passioni possono con un tal metodo anche armare un mal intenzionato cittadino colla forza delle supposte accuse. La severità delle pene corra allora al soccorso dell’innocenza, e giacchè, come si spiega il profondo Grozio, ognun che riunisce le cognizioni ed il merito ha un diritto incontrastabile agli impieghi della patria, non si permetta che a lui vengano tolti i frutti de’ talenti, e questa venga privata de’ suoi serviggj. L’infamia, il pubblico sdegno suggeriscono in simili delitti le pene le più adattate.

Spirato il dato intervallo, se non vi sono accuse, o che siano ingiuste, ecco in un simile candidato un uomo illustre, che oltre la stima del regnante meritati avendo anche i voti dell’inesorabile pubblico, avrà tutti gl’impulsi possibili per avanzar nel bel cammino della virtù e della gloria.


XIV. Del necessario rigore per impedire la corruttela ne’ magistrati.

Ogni uomo che ha un potere limitato e precario ama di esercitarlo, non solo in tutta la sua estensione, ma di dilatarne pure se sia possibile i confini: da qui nasce un nuovo obligo in chi regna, di preservare lo stato da queste differenti autorità, le quali con un urto continuo e violente ne rallentiscono le operazioni.

Abbiamo in vero stabilita la virtù qual principio del nostro governo. Se questa onorò qualcuno di una magistratura, chi ci potrà assicurare che la dimostrata probità sia vera o apparente? O sventurato genere umano, da quanti mali non sei minacciato, quali infinite precauzioni non sono necessarie per vegliare alla tua sicurezza!

Egli non è che troppo vero che gli onori corrompono gli animi degli uomini. In fatti un aspirante ad una carrica avrà da lungi gustato il piacere di sollevare un oppresso, ma non si sarà immaginate le impressioni funeste che a lui dovevano poter cagionare i doni interessati che fanno pervertir le menti ed i giudizj[19] con cui si seducono i magistrati; pria di pervenirvi avrà detto a se stesso: fugga lungi da me l’oppressione, non s’occupi il mio cuore che del pubblico bene, senza garantirsi dalla fatale attrativa de’ metalli seduttori che offuscano i lumi della sapienza, dissipano i dubbj, s’accomodano alla capacità de’ più piccoli ingegni, aprono le fortezze, confondono il zelo, ed argomentando tal volta contro la fedeltà ed il dovere, scuotono la stessa virtù. Vediamo come si possano prevenire tante vicissitudini.

Che i governi, le magistrature e tutte le carriche debbano essere precarie, lo conobbero molti legislatori; anzi fra i medesimi quasi tutti istituirono di sottometter chi le ha gerite agli esami i più severi; ma per effetto di tanti lagrimevoli sconvolgimenti, si negligentarono da’ successori que’ metodi che potevano render benefiche simili risoluzioni. Che giova a’ popoli sventurati che i grandi suoi tiranni all’esser rilevati dalle cariche che possedevano vengan esaminati, se non si puniscono le colpe e se si isdegna di sentir i lamenti di quelli che gemono in secreto di non aver alcuna forza politica di far sentire le tremanti loro voci sino ai piedi del trono? Egli è così che poi, ricompensando i delitti de’ potenti, si corrompono le passioni ed i costumi.

Volete, o sovrani, felicitar le nazioni e rendervi i veri oracoli della parlante divinità? Punite i delitti dei dispensatori delle vostre grazie e di coloro presso de’ quali risiede il sacro deposito delle leggi; non si ascolti la clemenza che si cangia in crudeltà. Sappiate che non fu mai sicuro il potere di que’ sovrani che lasciaron impunite simili colpe.

Vuol forse sapere il leggitore quali sieno i miei sentimenti sopra lo spirito di tali pene? L’infamia, che ha maggior forza nel animo degli uomini de’ più atroci tormenti. Ma dove e come verranno eseguite quelle pene? In que’ stessi luoghi e provincie ove furono commesse le concussioni, indannizzando pria chi soffrì de’ loro attentati.

Se si confiscano parti de’ beni dei rei degli accennati delitti, non sieno a profitto del sovrano, profitto che lo coprirebbe d’ignominia e di vitupero, ma bensì di quegli che ne furono le vittime, oppure in pubblico vantaggio. Abbandoni il mio regnante a’ soli tiranni l’ardore d’imitare l’avidità di Tiberio, che, lasciando arricchire sì in Roma che nelle provincie i di lui proconsoli e magistrati, richiamandoli quando li sapeva ben doviziosi, opulente rendeva il di lui erario di tesori che costavano i pianti e le doglie a’ sudditi desolati.

Le pene in simili casi non debbono portare alcuna taccia d’ignominia alle innocenti famiglie. Si agirebbe colla più saggia politica, se nell’atto di punire un simil reo si accordassero distinzioni onorevoli a’ congiunti, quando resi non se ne fossero indegni colla complicità nel delitto.

XV. Altri mezzi di prevenire l’abuso dell’autorità nelle magistrature.

Quantunque la libertà delle accuse allontanerebbe molti magistrati da’ delitti di concussione, non rallentirebbe per questo l’ardire de’ più determinati ad esser malvaggj. Essa guarentirebbe al certo un suddito coraggioso, ma non già un’infinità di scoraggiti agricultori nè un numero grande d’intimoriti cittadini, a’ quali tutti la facilità delle più crudeli e pronte vendette ne’ prepotenti suggerirebbe di tollerare con segretezza tali persecuzioni, più forti essendo le impressioni de’ mallori sofferti di quelle di un soglievo che non si vede se non in una caliginosa lontananza; tanto egli è vero che la sola idea della rinovazione di un dolore offusca le immagini ed ingrandisce gli oggetti.

Vuolsi veramente proteggere la timida innocenza del debole e reprimere le tirannie subalterne, che giusta i sentimenti di un grand’uomo sono le più odiose?[20] S’accordino premj a chi, animato dal nobile entusiasmo della virtù, ha il coraggio di scoprire i delitti degli incarricati della sociale amministrazione. O stabilimento benefico! Quante repubbliche non preservasti dall’oppressione de’ ricchi e quante nazioni assogettate al governo di un solo, dal potere sempre imperioso de’ magistrati, le cui autorità intermedie e precarie avrebbero roversciata quella del capo col stabilire l’anarchia!

Se nelle repubbliche antiche era sommamente lodevole lo scoprire le cattive azioni degli uomini i più illustri per le loro gesta, afin di contenerli in una perfetta uguaglianza, perchè non sarà utile un simil metodo sotto il governo di un solo per conservare illibato il legitimo potere del regnante? Sia pure l’impiego di tali accuse la più illustre carriera di pervenire agli onori. Queste sono le idee del filantropo che, doppo aver provato fin dove può estendersi l’abuso dei subalterni poteri, altro non sa addittar mezzo più sicuro di preservar la società che ama da sì funeste sciagure.

Non inorridisca il leggitore al nome di delatore. Se per il più infame deve essere riguardato l’ufficio di colui che riferisce celatamente al tiranno gl’incauti discorsi de’ sudditi offesi, altrettanto è gloriosa l’azione di chi cede alla nobile passione di avertire apertamente il regnante che in un canto del suo impero vi è un suddito fedele che soffre, nel tempo che egli occupandosi della pubblica contentezza crede tutti felici.

Ma qual difficoltà ad accordare onorifiche distinzioni a chi scuopre i delitti de’ cittadini possenti! Qual altra regola può avere un sagace legislatore di misurare le azioni che l’utile generale? Non è la medesima forse che decider deve de’ vizj e delle virtù? E se queste non consistono (come dice l’autore dello Spirito) che nelle gesta avvantaggiose alla generalità de’ sudditi, non dovrà dunque esser stimato magnanimo chi procura a’ più oscuri cittadini tutti gli effetti di un benefico governo?

Con tali precauzioni, mi dica chi s’interessa nella commune tranquillità se si vedrebbero ancora tanti intermediarj oppressori, circondati da quella pomposa apparenza che sola s’acquista co’ gemiti lugubri delle desolate famiglie, per le quali ne accrescono il disprezzo ed il vilipendio con un orgoglioso fasto che ne calpesta vieppiù l’indigente innocenza.

XVI. La necessità de’ prefatti stabilimenti.

Se si avessero da riguardar con orrore gli scopritori delle vessazioni, come potrà il principe prevenirle, principalmente quelle di coloro che esercitano un potere più esteso nelle lontane provincie, ove lungi dagli sguardi del regnante possono con maggior facilità lasciare un libero sfogo alle passioni? Pochi sono quegli uomini grandi, avidi soltanto della vera gloria, che, potendo impunemente esser tiranni ed estender fuori di un limitato centro il desio di acquistare una forza maggiore, non lo fanno per il solo orrore di opprimer l’innocente e di dovere esercitare un potere illegitimo. Se non vi fossero stabilite pene contro tal sorta d’oppressori, chi fra di loro non cercherebbe di aspirare al dispotismo, ove sembra tender l’uomo per la propria sua natura? Dunque le pene, l’infamia saranno il freno delle ingiuste azioni de’ medesimi. Ed a che serviranno i castighi, se se ne ignora la condotta?

Avessero almeno tutti i sovrani formati simili stabilimenti, che vedute non si sarebbero tante sanguinose mutazioni di governo,[21] sempre terribili per le devastazioni e rapine che accagionano, ed assai più per il sangue de’ cittadini, al di cui spargimento vennero tal volta obligati loro malgrado anche i principi benevoli! Se dunque gli enormi delitti di que’ magistrati che ributtarono con orgoglio la nobile modestia dell’innocente, se gli avari usurpatori delle altrui industriose fatiche e coloro che formarono trame barbare ed atroci contro la vita o l’onor di sudditi fedeli, pervenute alla pubblica cognizione, colle libere doglianze ed accuse ottenute ne avessero le pene ben meritate, tante vaste provincie e regni sostratti non si sarebbero all’ubbedienza di molti monarchi, che credevano di governar con saviezza? Tanti sudditi forsennati in fine, mossi da un eccessivo furore, portate non avrebbero sopra le sacre loro persone le mani parricide e versato il sangue prezioso di que’ regnanti, a’ quali alle volte non mancava un cuor giusto e compassionevole. Se già stabilita non avessi l’infamia qual spirito direttore delle pene de’ prepotenti, direi che se dovesse esser permessa sotto il mio governo la pena di morte, i soli delitti de’ grandi e dei magistrati ne stabilirebbero la legitimità.

XVII. Nuovi mezzi per impedire l’abuso dell’autorità.

Un principe, i di cui sublimi doveri sono sì complicati, potrà forse sviluppare tante accuse e portarvi nelle decisioni quel filosofico carattere d’indifferenza che solo può dirigger l’uomo che governa alla vera idea del giusto? Cesserebbe forse di essere il supremo giudice della nazione, ed il vero regolatore di tutte le politiche e morali azioni, se presso di sè stabilisse un gran Consiglio di uomini savj, veri pensatori, persone gravi ed illustri, sì per la consumata sapienza come per le prove già date delle più esimie virtù, un tribunale in fine eccelso, che veruna relazione avesse cogli altri dicasterj dello stato?

Egli si è avanti del medesimo che dovrebbero essere portate le accuse contro de’ magistrati; da esso lui essere dovrebbero esaminati i pretendenti alle carriche, ed allo stesso converebbe affidarsi la cura di decidere quali ricompense si sono meritate presso del sovrano, oppure quali delitti sono da punirsi con una inesorabile severità; severità veramente benefica, perchè diverebbe lo scudo della timida innocenza, il soglievo della squalida povertà ed il sostegno del principato.

Qui finite non sarebbero le cure di un tal Consiglio, a cui deve anche appartenere l’esame delle buone o nocive azioni ed il calcolo superiore della forza delle passioni produttrici delle medesime, affin di saper animar quelle che sono di pubblica utilità, e le altre distruggere che a questa si oppongono col mezzo de’ premj ed altre onorevoli distinzioni, dispensate con generosità dalla prodiga mano del regnante a’ sudditi buoni e virtuosi, o de’ pubblici ludibrj e vituperj agli uomini ingiusti e cattivi.

Gli atti di un tal Consiglio devono essere saputi da ognuno, e deve esser permesso di accusar le azioni anche di chi lo compone, se meritano biasimo, affinchè chi fra di loro si allontanò dall’idea del giusto non vada impunito. Che bel sistema per eccitar i cuori alla virtù e per allontanarli dai vizj!

Felice quel sovrano che così governa il suo popolo! Un tal potere, sì ben diretto, diviene la più nobile funzione dell’umanità, un impiego che eleva l’uomo sopra la stessa sua natura, per partecipargli parte di quella vera felicità e di quel delizioso piacere che appartiene alla divinità, consistente nel potere di render felici e fortunati i mortali: la più bella e la più lusinghiera di tutte le autorità.


XVIII. Scioglimento di alcune difficoltà.

Se la minima frode ha da aspettarsi pene sì atroci, mi dirà taluno, se i magistrati hanno da essere ornati di tante e si rare qualità, ed essere assoggettati a tante censure ed esami, come ritroveransi soggetti, e di questi un numero sufficiente, per supplire a tutte le magistrature e carriche? Siccome ogni secolo ed ogni nazione ha forniti per le magistrature d’uomini illustri per il sapere e per la virtù copia assai numerosa, altro non possono esser tali obiezionj che il frutto di una profonda cecità, oppure il prodotto dell’ignoranza di quelle nobili passioni, germi delle lodevoli azioni.

In fatti fra le nazioni più famose dell’antichità, ove il bene di tutti era il sol segreto della grand’arte di regnare, la base sempre ne era il rigore con cui si osservavano tutte le operazioni di quelli che vegliar dovean alla sociale armonia.

Non mi appiglierò già a rammemorare gli stabilimenti delle repubbliche greche, ove si esaminavano con ogni attenzione da’ popoli le azioni degli uomini i più famosi, assoggettati alle amende, all’esiglio ed ai supplicj quando si disviavano dalle leggi; nè parlerò di quei primi secoli della repubblica romana, secoli di libertà e di virtù, ove la più gloriosa carriera agli onori era quella delle accuse, e dove i consoli, i pretori che abusato avevano della commune autorità, sì nelle guerre che nel civile governo, se assolti venivano dall’indulgente senato o dall’inavveduto popolo, sempre avean da temere l’inesorabile severità de’ censori. Sebbene il rigore delle leggi in questi governi non impedisse un gran numero di cittadini di brigar le magistrature, e che tali esempj bastino a distruggerne le objezioni, nulladimeno, per essere costumi di paesi liberi, non ne farò alcuna menzione, ricorrendo ad esempj ancor più efficaci perchè stabiliti fra le nazioni soggette al governo di un solo.

Lo dican dunque i Ciri, i Cambisi nel persiano impero, se tanto rigore rallenti il zelo con cui si brigava la cura di vegliare alla conservazione dello stato? Parlin gli Antonini, i Marc’Aureli, gli Alessandri Severi, i Giuliani e tutti i migliori principi che colmarono di gloria le nazioni, assicurino pure il mio regnante che una tal severità giammai diminuì il numero de’ cittadini verso quegl’impieghi il di cui buono adempimento assicura la tranquillità di un impero. E non vi sarà altro eccitamento che crudeli intenzioni verso l’ingiusto? Non saranno forse gli uomini che un composto di anime avilite, a’ quali il desiderio di piacere al sovrano, l’amor della patria, passione degli spiriti elevati, la gloria, il contento di sollevare l’oppresso, di render aggradevoli le dolci sensazioni che sa produrre la virtù, sorgenti inesauste di delizie e di veri piaceri, sieno stimoli inutili ed inefficaci? O cecità de’ cuori perduti ne’ delitti, quanto turbate sono le vostre immagini, chi spiegherà l’orrore che sensi sì crudeli ispirano ad un vero filantropo!

Non sia per questo la gloria il solo compenso di chi rinuncia al proprio riposo. Abbia pure ognun che veglia alla pubblica tranquillità di che viver negli aggj ed esercitar la virtù. O assurdità di principj regolatori di molti governi! Si pretende da un magistrato un’anima pura, un carattere sempre indelebile verso le sole mire della probità; e si abbandona alle angoscie dell’indigenza, che comincia ad avilirne il cuore e che indi lo corrompe! Tolgasi dunque a chi deve vegliare alla comune prosperità il periglioso contrasto di poter esitare fra la tanto sollecita necessità di provedere alla squalida miseria di alcune livide e macilenti creature, figlj di un amor tenero ed innocente, e quello di adempire gli oblighi di una carrica, grandi in vero, ma che tacciono allor che devono urtare gl’indispensabili doveri di una sempre parlante natura; doveri che soffocano nel cuore umano tutte quelle sensazioni che vengono prodotte da un men forte eccitamento, e che annidar non si possono finchè gli stimoli efficaci della più naturale passione non trovansi scancellati da quella benefica providenza che l’umanità ed una ben calcolata politica deve ispirare ad un sovrano occupato della pubblica felicità.


XIX. De’ primi ministri.

Se chiara è la necessità dei supremi ministri, assai più palese parmi il bisogno in chi governa di averne tanti quanti sono i dicasterj di uno stato; giacchè la guerra, la marina, l’interno, l’esterno, le finanze esiggono in particolare uomini profondi ed intieramente occupati, affin di togliere la naturale tardanza nelle intraprese e le facili confusioni che pur troppo si vedono in quegli imperj ove più dicasterj vengono adossati ad un solo; purchè non si ritrovino di quegli ingegni felici che chiamansi lo sfarzo dei secoli e de’ quali stati ve ne sono e tutta via se ne trovano anche oggidì nell’Europa, che, possedendo i principj delle diverse parti di un’amministrazione ed i dettaglj di ciascheduna, con una rapida occhiata, pronta, giusta e decisiva abbraccian con vigore più oggetti in un solo fortunato momento.

Come felici state sarebbero le nazioni, se non si fossero ammessi ne’ ministerj se non quegli uomini grandi che, più amanti della gloria che de’ piaceri de’ sovrani, sanno avertirli con una libera franchezza che prosperare non può uno stato se non col confondere i loro interessi con quelli del pubblico, e nel procurare ad ogni cittadino la sicurezza e la prosperità, per cui rinunciò le porzioni della sua natural libertà; quegli illustri ingegni in fine che con tanta enfasi vengono decantati da un illuminato poeta.[22] Allontaninsi dunque da quelle carriche eminenti gli esseri ingiusti e crudeli, ne’ quali la clemenza è una sconosciuta virtù, e che per saziare una cieca privata ambizione di dominio versano il sangue de’ sudditi i più cari alla patria, e che sarebbero i più utili anche al sovrano. Essi sforzano i più virtuosi cittadini, col mezzo di delatori infami, a comparire tremanti avanti dei tribunali terribili e sanguinarj, ove con una atroce severità vengono giudicate le incaute parole e talvolta ancora gli immaginati pensieri. Uomini di tal carattere, scancellando dal cuore sensibile de’ principi i semi di virtù, empiendoli di dubbj e di diffidenze, gli obbligano a passare una vita infelice, perchè agitata da un continuo timore di pronte sollevazioni e di congiure, che sono il più delle volte l’effetto di una riscaldata immaginazione e non già dell’odio de’ popoli, pronti ad amare il sovrano, che in tal caso lo considerano come la prima vittima.

Sedotti tal volta i conviventi da certi atroci delitti, che hanno l’apparenza di qualche lucida virtù, accordano a simili mostri il titolo di grande e di ingegno sublime, che svanisce poi presso la posterità sempre sincera, la quale non arriva a scoprire in essi loro se non quel solo genere di celebrità tanto gustata dagli spiriti incalliti nella crudeltà; cioè di aver saputo ritrovare, fra le melanconiche e fredde meditazioni suggerite dal timore che internamente li agita, nuovi generi di torture e supplicj per far perir fra gli spasmi i più ricercati quegli illustri innocenti la cui virtù render li doveva oggetti di odio; odio sovranamente ingiusto, come dice Tacito, e per conseguenza implacabile.

Lungi altresì dal supremo ministero quegli esseri sensuali e voluttuosi che, dimentichi della gloria de’ loro sovrani e poco amanti della pubblica stima, saziando l’occhio affascinato con mirare i loro vasti e ricchi palaggj ed i più deliziosi giardini, presenti non hanno alla memoria lo stuolo infinito de’ sventurati che questa soverchia vanità ha saputi avvincolare colle più pesanti catene. Cotesti uomini perduti fra le dovizie, a guisa degli orgogliosi satrapi orientali, quando si trovano alle mense le più laute si dimenticano di chi languisce nella miseria; satolli di delicate vivande e corricati fra morbide piume, pria di lasciarsi vincere dal sonno non si ricordano degli sfortunati che la loro barbara indolenza mantien nella veglia o in un sonno sempre interrotto da funeste idee, idee tetre ed orribili, pronto o tardo frutto delle loro oppressioni. Contenti di governare il principe che ingannano e di farsi credere da esso lui necessarj, lasciano la cura della pubblica amministrazione a soggetti incapaci, e tal volta a coloro che servir dovrebbero di ludibrio alla società. Contentandosi poscia di ricevere i tributi delle concussioni, loro permettono di vendere la giustizia e di affidarne le carriche a chi seppe dedurre l’innocenza, produrre l’invenzione di qualche nuovo divertimento o piacere alle loro favorite.

Ecco, o povero genere umano, i veri strumenti de’ tuoi infortunj! Per saziare l’avarizia di costoro, tu vieni oppresso da tanti insupportabili imposte e vessato dalla crudeltà de’ fermieri, armato per esercitar le loro private vendette e servir di trastullo alla loro ambizione.

Tali ministri sono ben degni di servire un Nerone, un Domiziano, un Caracalla, ma non già principi che aspirano alla conquista de’ cuori. Fugga pur lungi dal trono del mio regnante la tirannica loro impostura e l’audace temerità di una insensata politica, svaniscano oramai gli orribili misterj delle loro massime funeste, mostrinsi pure e cuopransi della meritata ignominia. Non entrerò in una vana ostentazione di precetti nel prescrivere le qualità che convengono in un ministro di un buon sovrano. Con tanti utili stabilimenti, non potrà egli già ingannarsi nella scielta di quelli che esser devono i primi depositarj delle leggi; purchè non abbia la funesta mania di preferire a’ necessarj gli uomini aggradevoli, a lui già non mancheranno i Mecenati, gli Ulpiani, i Misitei, i Sully ed altri ingegni sublimi che travagliando per la sua gloria sapranno meritar i suffraggj della riconoscente società.

XX. De’ grandi.

Ho detto che, non volendo gli uomini vivere isolati in una confusa e guerriera indipendenza, si unirono per formare società.[23] Lo stabilimento del diritto di proprietà, origine di tutti i delitti, ne fu la prima conseguenza, mentre ognuno ha voluto col frutto di quella unione conservare ciò che aveva acquistato colla forza o coll’industria per indi trasmetterlo a’ proprj successori. Questi stimoli, necessarj prodotti dell’amor proprio, che spinge l’uomo verso la felicità o vera o apparente, lo diressero sempre anche doppo la formazione delle medesime; di sorte che ognuno sempre cercò, o colla frode chiara e palese o con una sottile sagacità, di acquistarsi il più che poteva delle ricchezze, quai mezzi di multiplicare in lui la maggior somma possibile de’ pubblici suffraggj. Il diritto di proprietà si mantenne dunque nel medesimo vigore, e se ne accrebbero le forze per sostenerlo in proporzione dell’ambizione di ognuno per dominare o per conservare una famiglia non più dispersa ed indipendente, ma unita e sommessa.

Queste mutazioni dunque, col diritto di proprietà, produssero le malintese distribuzioni e la mal calcolata disuguaglianza. Chi trovò i mezzi i più seducenti d’ingannar la moltitudine, divenne il tiranno; ed i più ricchi o i più forti in seguito, essendo i più accreditati presso la stessa moltitudine, associar li dovette, facendoli suoi favoriti e ministri. Ecco l’origine de’ grandi, che per conservarsi nulla dimenticarono per sostenere il diritto di proprietà, benchè sì funesto alla maggior porzione del genere umano. Vivendo fra le dovizie, concepirono che l’ignoranza era il fondamento della loro potenza; imposero dunque silenzio, affinchè non venendo rivelati gl’infortunj coi diritti a’ deboli, non si armassero poi contro gl’ingiusti possessori delle ricchezze. Così fecero languire in una livida indigenza la generalità degli uomini, affinchè occupati a provedere a multiplicati bisogni ed a vegliare ai molti oggetti limitati dai quali vedevansi circondati, sciorre non mai potessero il fosco velo dell’inerte ignoranza e non indagassero le loro pretese sopra il totale, che con la distruzione degli usurpatori gli avrebbero inalzati al colmo della felicità.[24]

Felici que’ popoli ove questo diritto fatale fu abolito da alcuni sagaci legislatori, veri benefattori dell’umanità, che, mettendo i beni della nazione in una perfetta communità, stabilirono il fondamento del più naturale governo, cioè l’uguaglianza. L’idra dell’avarizia e la turba innumerevole delle più vili passioni, che sortono dal di lei lacerato seno, non essendovi conosciuta, i molti, sempre poveri nelle altre società, non erano la preda dei pochi ricchi intraprendenti. Punto invidiosi delle dovizie de’ vicini, opulenti sì, ma soggetti a tiranni, le poche necessità e la frugalità ne erano il baluardo e la trincera, il coraggio e la disciplina le inespugnabili rocche, e la virtù le doviziose finanze. Il valore e la prudenza era la carriera delle militari dignità, la giustizia quella delle magistrature, inutili quasi tutte le leggi civili, poche le criminali, niun ricco e niun indigente, il tenero amor della patria ne formava il nodo delle azioni, lo stabile fondamento della politica. Quantunque le terre fossero communi, ciascuno si sforzava di sorpassare gli altri nel lavoro, la ricompensa eran le lodi de’ virtuosi cittadini, che tutti finivano le loro fatiche con giostre ed altri divertimenti, ove regnava la vezzosa innocenza, a’ quali succedeva un sicuro riposo, sconosciuto a quegli indolenti che vivono fra il fasto tumultuoso de’ più ricercati piaceri, che sempre gli avvicinano ad una gravosa vecchiaja peggior della morte; le diversità di opinioni non eccitavano querele, l’orgoglio di una chimerica nobiltà nè l’interesse non mai mettevan distinzioni fra le condizioni.

Sebbene non fosse impossibile, anche colle idee fattizie di commercio e di finanze che affettano oggidì le moderne nazioni, di ristabilire l’uguaglianza de’ beni, nulla di meno parendo forse essere una idea incompatibile col governo di un solo, non istenderò le mie benefiche visioni sino a proporla qual base del proposto governo.

Ma poichè devo ragionare in conseguenza delle idee addottate, giacchè la disuguaglianza delle fortune deve andar di pari colla commune felicità, dirò dunque che un savio legislatore, che un sovrano despota, senza distruggere i grandi, senza privarli delle loro ricchezze, sempre può estendere la sua benefica mano per soccorrer l’infelice moltitudine nell’impedire che l’orgoglio degli uni non oltraggi la timida povertà degli altri,[25] obbligandoli tutti ad una uguale obbedienza alle leggi, alla stessa soggezione de’ magistrati ed al medesimo adempimento dei sociali doveri.

XXI. De’ grandi e della nobiltà.

Stabilite le monarchie, era punto essenziale il rimunerare chi aveva agito per la gloria del monarca. Pensarono indi i principi di trasmettere tali benefizj col diritto di proprietà alle famiglie dei medesimi, affin di opporre una barriera alla moltitudine sempre incostante e tumultuosa e farne un sostegno del principato. Ecco come si formò la nobiltà,[26] corpo intermediario fra il sovrano, i grandi ed il popolo.

Sarebbe fuori del mio soggetto il voler parlare di quelle monarchie ove tutti gli stati della società hanno autenticamente voluto conservare alcuni diritti alla sovranità, e dove il corpo de’ grandi e della nobiltà sono il vero nodo del governo e quella potenza intermedia che frappone ostacoli agli impeti tumultuosi della moltitudine a roversciar il principato, e impedisce che questo sconvolga le libere prerogative della nazione. Tal sorta di governi, finchè conservano l’equilibrio fra le diverse autorità che li compongono, sarebbero forse i migliori per tutti gli esseri pensanti ed i soli confacenti all’umore di certe nazioni.

Prescindendo dunque da que’ governi ove la fondamentale costituzione è mista, dirò non essersi punto ingannati que’ politici che ne’ grandi e nella nobiltà trovarono il sostegno del regnante. Questi due stati saranno dunque carriere belle e lusinghevoli, sempre aperte al sovrano per ricompensare le gesta magnanime e generose de’ proprj sudditi; purchè le buone azioni conducano a tali stati e le perniciose degradino chi li possiede. Qual fonte di felicità allora non diverrebbero?


Se la spada, le magistrature e le scienze sono sempre stati mezzi in ogni ben regolata monarchia per conseguire la nobiltà, devono esser questi altresì del mio governo, ove la virtù ed i beneficj resi al pubblico conducono il cittadino agli onori ed anche alle ricchezze, ma queste sole giammai alla nobiltà; poichè sarebbe lo stesso che porre l’avarizia, l’ingiustizia oppure una sottile industria a livello delle più eroiche e insigni azioni.[27] Non vorrei che qualche leggitore s’ingannasse nel trarne la funesta consequenza di voler io qui escludere dalla nobiltà que’ profundi calcolatori delle produzioni della natura, che alcune volte nudriscono le nazioni e che sempre sono l’origine della pubblica opulenza. E che mai potrà impedire un buon cittadino arricchito dal commercio di aspirare a lodevoli ed utili azioni che meritevole lo rendano degli onori della patria e della nobiltà?

Fra i grandi e la nobiltà, ove le dovizie unite ad una meno imperfetta educazione rendono i sudditi meno soggetti alla corruzione, ritroverà il principe con maggior facilità anime generose per le magistrature ed ancor più per le carriche militari, ove un certo nobile orgoglio ed il glorioso entusiasmo per le azioni memorabili degli antenati sarà sempre un seme produttore di belle intraprese contro i nemici della patria o del principe.

Prodigati esser devono dalla mano del sagace legislatore a’ grandi ed alla nobiltà gli onori ed infinite le distinzioni, ma giammai permettere che si arroghino qualche esclusivo potere o il privileggio di sprezzare quello de’ magistrati e di aver, come nobili, ingerenza ne’ pubblici affari. Guai a quel sovrano che, vinto dalla debolezza, si lascia sedurre da qualche utile apparente a permettere che essi facciano politiche unioni o prendano uno spirito di corpo; allora è perduto, vien roversciato un simil governo, a cui succede l’oligarchia o l’aristocrazia, i peggiori fra i sovrani. Voglion i reggitori de’ popoli prove più efficaci di un tale raziocinio? Volgano uno sguardo lacrimevole alla Polonia, ove gli antichi re, cadendo spensieratamente in questo errore, permisero che insensibilmente i grandi e la nobiltà li spogliassero de’ più preziosi diritti della reggia autorità, togliendo loro per fino il vacillante potere di bilanciare le altre autorità, che con continui sconvolgimenti mantengono il popolo nelle angoscie e lo stato politico nell’anarchia.

Ma chi potrà dipingere con giusti e vivi colori le funeste rivoluzioni di un feudale governo? I monarchi sempre vacillanti sopra un trono contaminato di straggi ed intriso del sangue di chi l’aveva occupato, istabili le constituzioni, giammai sicura l’esecuzione delle leggi, la moltitudine oppressa e gemente nella schiavitù, persecutori e perseguitati i grandi e la nobiltà, bizzarre le procedure de’ tribunali, ma più ancora le pene, che interessavano i re ed i grandi nella multiplicazione de’ delitti, abbandonati i sovrani contro i nemici della patria e non mai diffeso lo stato dalle incursioni de’ barbari. Governi crudeli ed atroci, quantunque sì avvantaggiosa ne fosse la distruzione alle nazioni, quanti reati non costarono a chi la intraprese? Impallidisca l’umano leggitore se nel considerare una sì utile verità avrà presente i supplicj e le cataste colle quali il cardinal di Richelieu inondò la Francia allora tumultuosa e sconvolta. Ma più non si pensi al sangue di tanti illustri personaggj, che non solo in quel regno, ma in tutte le altre contrade di Europa erano stati a vicenda il sostegno e la ruina della patria.

I soverchj diritti dunque della nobiltà diminuiscono quelli del sovrano; se essa poi è troppo numerosa impoverisce lo stato, rovinando il numero maggiore de’ sudditi, cioè di quelle persone che sono le più utili e le più necessarie alla società. Quando il corpo de’ grandi e de’ nobili può arrogarsi qualche potere nell’amministrazione, e si crede lecito sotto l’ombra degli allori de’ suoi antenati di poter vivere nell’indolenza e freddamente calpestare la debolezza della plebe, si accostuma a credere la prepotenza necessità, l’ingiustizia un diritto. L’odio dissimulato diviene allora lo spirito della moltitudine: le passioni de’ sudditi essendo in una continua ed agitata rivoluzione, il primo che ha il coraggio di gridar libertà si sostrae all’altrui ingiustizia, diviene l’idolo d’un popolo sconvolto che spera, e spesso così s’erige in tiranno.


XXII. Della religione.

Potransi lusingare i sovrani di aspirare al vero dispotismo finchè, sommessi ad un altro impero del lor più formidabile, permetteranno che i cuori de’ sudditi animati dalle coscienze ribelli servan di limite alle sociali costituzioni ed alle più provide leggi, impero che colle armi del fanatismo scuoter seppe i troni de’ maggiori monarchi? Ma isdegnerà forse il leggitore che, pria d’indagar l’origine delle turpitudini reccate dal clero cristiano nell’era nostra volgare, parli di quelle che commisero fra le più recondite genti que’ stessi sacerdoti che ne dovevano procurare la felicità?


Checchè ne sia dell’origine delle differenti religioni, egli è ben sicuro che di questa in ogni tempo tutti i legislatori si servirono per stabilire i loro politici sistemi. Con l’ajuto della medesima seppero ispirare a’ cittadini l’amor per la patria, a’ sudditi il rispetto e l’ubbedienza per il regnante ed ai guerrieri il valore e l’intrepidezza. Ben pochi al vero furono que’ popoli sopra la terra che in essa non ravisassero un principio del loro stabilimento. Presiedeva alle diete ateniesi e spartane, a’ comizj consulari, alle centurie di Roma ed alle unioni di tutti i popoli liberi; ed i principi, sì gli ambiziosi che i più giusti, se ne servirono in ogni occasione per diffendere, ingrandire o mantenere il loro impero. Ma vediamo come la religione, quel benefico dono accordatoci dalla divinità, nelle mani di sacerdoti ambiziosi ed avari divenne un germe produttore d’inganni e di frodi. I primi fondatori delle società, quantunque tutti non fossero i migliori fra’ mortali, pure non mancarono di dare a que’ popoli che dirigevano colla religione la più sensata una morale semplice e sublime, quale ne era il culto unicamente fondato sopra l’indelebile riconoscenza dell’uomo verso l’Esser Supremo. Quelle nazioni che seppero conservare una tal semplicità si mantennero felici, e se governate da principi, questi, ugualmente sicuri sopra il trono perchè capi visibili della stessa, erano sì padroni delle coscienze de’ sudditi che delle vite e sostanze de’ medesimi. Ma col volger de’ tempi, multiplicandosi colle società le cure dei monarchi, questi, poco avveduti ne’ loro interessi, concedettero a’ sacerdoti, che non erano stati fino allora che meri esecutori delle sovrane volontà, un’intiera ispezione al culto, loro abbandonando in seguito tutti gli altri affari che dipendevano da quello: epoca funesta ed ugualmente fatale a’ principi che alle repubbliche! Vedendosi allora i sacerdoti padroni del culto, cominciarono a distruggerne l’antica semplicità; e doppo di aver inventati molti misterj, ne impedirono l’accesso non solo al volgo, ma a’ principi colla barriera funesta della superstizione, che seppero a tempo sì bene ispirare agli uomini, facili a sedurre ed a ingannare; celebrandoli in oscure caverne e folte boschereccie impenetrabili e conosciute soltanto agli iniziati,[28] diretti dall’avarizia in ogni intrapresa, accorgendosi che l’unità di un dio non era favorevole per arricchirsi, travagliarono all’invenzione di molte divinità, alcune propizie, altre malefiche, o piuttosto mostri rappresentatori dei vizj, delle quali ne vollero essere i guardiani ed interpreti, inventando mille ridicole rivelazioni; e cuoprendole dalla fosca caligine della cieca venerazione, obbligarono i viventi a placarne lo sdegno o a ricercarne le grazie con infiniti doni che fra di loro ripartivano, tendendo così continue insidie alla generosa pietà degli imbecilli. Quindi in preda gli uomini ad ogni stravaganza, si viddero tremanti adorar metalli, e belve ridicole e furibonde non mai sazie del sangue de’ cittadini.[29]

Ecco come gl’infortunati mortali divennero pagani per l’avarizia del clero. Ecco come questo sempre si abusò della credulità de’ popoli e dei doni de’ principi, che ne furono le prime vittime; facendoli ora salire ed ora scendere da’ soglj, spronandoli ora ad una intrapresa ora ad un’altra, alcune volte fautori ed altre distruttori a vicenda dei diritti de’ medesimi, secondo che loro suggeriva l’avidità, l’orgoglio e l’ambizione; ecco finalmente come la superstizione, il flagello della filosofia, venne introdotta dall’ignoranza e dalla barbarie, sostenuta in vero dall’ipocrisia, dalle vane cerimonie e puerili invenzioni; il falso zelo la sparse in ogni parte della terra e l’interesse la perpetuò.

Ma chi potrà mai appieno descrivere tutti gli abominj coi quali i sacerdoti delle antiche religioni attentarono alla pubblica felicità per sottometterne le opinioni alle loro decisioni? Gli spaventevoli trepiedi, gli antri oscuri ed orribili da dove sortivano quelle voci confuse e tremende pronunciate a nome de’ dei da quelli avari impostori, i barbari oracoli fabricati dalla loro perfidia sempre ingegnosa ed accreditati dalla stupidità degli intorpiditi cittadini, e tante altre ludibriose stravaganze che empivano il mondo di terribili e menzognere profezie, di tante umane vittime innocenti, che fanno fremere persino i leggitori imparziali di quelle recondite storie, sarebbero oggetti in vero degni di spavento, ma poco meritevoli della nostra credenza, se gli autori i più accreditati non ce li attestassero, se i monumenti tutti dell’antichità non li confermassero e se in fine doppo molti secoli non si fossero veduti esempj ugualmente ignominiosi fra i popoli ed i sacerdoti cultivatori di una religione vera e pacifica, che ha per principio un Dio di dolcezza e di verità.[30]

XXIII. Che gli odierni abusi dell’autorità del clero vengano dai principj sovra esposti.

Chi può dubitare che il cristianesimo abbia da principio riposto ogni fondamento sopra la verità, il candore e le più eminenti virtù? Egli è sì vero che gli apostoli ed i primi padri, ben lungi di arrogarsi alcun dominio, di far nuove leggi e d’imporre a’ loro seguaci più di ciò ch’era stato prescritto dal Divin Legislatore, come loro insegnava il Vangelo,[31] sempre mostraronsi sottomessi ai popoli uniti per giudicare le questioni che insorgevano, indi ai sovrani quando l’ebbero abbracciato, professando a’ medesimi somma venerazione ed ubbedienza anche in quelle cose che riguardavano lo stesso dogma e l’ecclesiastica disciplina.[32]

Lo spirito dunque de’ primi padri era la dolcezza e la mansuetudine, proibivano a’ vescovi di battere[33] e loro commandavano, in vece della forza, d’usar la persuasione[34] come quella via che sola può convenire al sacro loro carattere. I pontefici stessi, i quali non si distinguevano sopra gli altri che con una più umile povertà, in ogni azione e scritto riconoscevano il supremo potere degli imperatori regnanti, e non solo mostravano una somma esatezza nell’adempiere simili insegnamenti, ma ne pubblicavano l’esecuzione allo stuolo degli ubbedienti fedeli.[35] Il clero era sommesso ed esemplare perchè povero e senza potere. Non si parlava fra di loro di imposizioni e decime, nè si agitavano per anco sediziose questioni per esimersi da quelle giuste imposte che si pagavano a’ sovrani, ma anzi gli altri precedevano coll’esempio.

Tanta umiltà e tante virtù negli ecclesiastici loro attirarono la venerazione de’ popoli sempre portati ad ammirarli e la fiducia de’ principi che cominciarono a distinguerli con onori, doni e prerogative. Ecco come ebbe principio la potenza del clero, che col volger dei lustri più non riguardò tali doni come effetti della prodiga generosità de’ principi, ma bensì come beni suoi proprj; ed all’esempio dei sacerdoti pagani, enormità non vi furono che non inventasse per multiplicarne i pesi, inviluppando le più sublimi verità del Vangelo, che tanti ostacoli frapponevano alle mire che a lui suggeriva l’avarizia e l’orgoglio.

Lo stesso pontificato, che nei primi secoli era lo specchio della moderazione, si cangiò in ispirito di avidità, ed acquistata ch’ebbe forza maggiore, rompendo gli argini della legitima autorità dei sovrani, lo divenne per sedizione, sconvolgendo le convenzioni tutte e le leggi delle nazioni. Quei medesimi cristiani che erano stati vittime innocenti della crudeltà de’ pagani, suscitati dai pontefici e dal clero divennero persecutori, dando però il nome di zelo a quelle barbarie che sopra dei medesimi si fecero ad esercitare. Più non si viddero in ogni parte che torture e supplicj, inventati dal clero orgoglioso coll’ajuto della stupidità de’ popoli e de’ principi, impiegati quali strumenti per la conversione degli uomini, facendo perire fra i più studiati tormenti chi abbracciar non voleva ogni sua opinione; in fine si viddero i mortali furibondi correre alla morte trasportati di gioja e di allegrezza.

Durarono pur troppo molti secoli queste enormità, ed anzi si accrebbero coll’invenzione di certi diritti e leggi che le confermavano. La fede de’ trattati non legava, quando i pretesi interessi di Dio chiedevano che si violassero: le leggi, i costumi e gli economici stabilimenti de’ stati non avevan forza contro un diritto che si chiamava divino.[36] Le falsità le più impudenti erano ricevute come autentici monumenti dell’antichità. La superstizione, il falso zelo, mostri mai sazj di sangue umano, erano allora le armi sacrileghe del maggior numero de’ pontefici, che, per voler trionfare di ogni nazione e tutte sottometterle al duro giogo del loro insupportabile dispotismo, tribunali per fine inventarono orribili e sanguinarj, ove, col mezzo di delatori vili ed infami, continue insidie si tendevano alla desolata innocenza. Seminavansi così i tradimenti nelle famiglie, e gli uomini i più strettamente avvincolati dai legami del sangue vivevan da nemici, facendosi giocondo spettacolo ed un dilettevole dovere a risguardar qual atroce delitto l’ingenuità e la compassione, ed a tenere il braccio sempre armato con che multiplicar le vittime onorate de’ perseguitati cittadini.

Erano le cose pervenute a tal segno che più non giovava a’ principi il convocar concilj e l’avere mire salutari per la felicità de’ popoli. In simili radunanze ecclesiastiche, il numero dei prelati venduti agli interessi di Roma sorpassava di gran lunga quello degli affezionati alla patria; vano era lo sperarne soglievo, poichè tutto si decideva a norma delle pontificie volontà.

I giuramenti, le promesse vi erano risguardate quali vincoli deboli e frangibili che non gli impedivano di sacrificare un nemico.

Si minacciavan i monarchi, se ne avviliva la maestà, loro si prescrivevan leggi.[37] Chiamavansi or queste or quelle nazioni ad invader l’Italia,[38] affinchè nelle confusioni accrescesse la potenza de’ papi, che non trovandosi tal volta in forze coll’ajuto anche degli alleati a vincere, movevan le crocciate contro i principi i più zelanti del cristianesimo,[39] davan mano alle più orribili carnificine per distruggere le squadre nemiche,[40] distribuendo gli altrui territorj a chi loro piaceva, riconoscendone per legitimi sovrani e possessori coloro che, alberando lo stendardo di felonja, se ne erano impadroniti.[41] Con modi sprezzanti al sacro carattere dell’imperiale corona, obligarono i loro legitimi padroni ad azioni umilianti ed obbrobriose,[42] dando a chi loro più piaceva anche il diritto di eleggerli.[43] I filosofi amanti delle verità, gli autori dei libri i più veridici, gli inventori di eccelsi sistemi e tutti quelli che sparsero i primi lumi delle verità esser non potevano guarentiti dalla potenza de’ principi, che vilmente cedevano al panico terrore dell’ecclesiastiche censure. Così quelli che cercarono di rischiarire la mente dei sovrani, di sostrarre i sudditi da tante durezze, si resero vittime sopra l’altare funesto e sempre terribile delle crudeli e sanguinose ro­mane vendette.

Quasi che non bastassero tante empietà a colmare il genere umano di calamità, molti sedentarj, portati dalla profonda melancolia ad odiar l’umanità, con un zelo ridondante si unirono per viepiù procurare forza al fanatismo de’ popoli ed alle intraprese di Roma. I sogni entusiastici che si compiacquero di chiamare estasi e rivelazioni, figlj naturali del ritiro, delle macerazioni e di una mal intesa austerità, loro fecero inventare tutti i differenti ordini de’ regolari, vere milizie del pontificato, che, spandendosi nel mondo cristiano quali presidj di quella potenza, animarono in ogni luogo le passioni de’ popoli, ma assai più quelle de’ monarchi[44] che già purtroppo erano agitate, dirigendole obliquamente al fanatismo; sapendo colle armi di una seduttrice eloquenza riscaldar le menti degli entusiastici, indurli alle più nefande atrocità, con promettere a larga mano le grazie infinite del cielo imperioso, trasmutando con sottigliezza i reati in virtù, purchè impiegati fossero quali strumenti dell’ingrandimento del loro monarca. Questi stessi regolari, sebben da principio non mostrassero che una umile ed abjetta povertà, abusando della debole credulità de’ popoli con una apparente austerità, spargendo la divisione nelle famiglie, con facilità si arricchirono. Gli orrori commessi dai bonzi, dai bramini, dai talapoini, dai dervichi nei climi orientali, svaniscono a fronte delle enormità de’ regolari di Europa. I delitti non ebbero più limiti, il clero non volle sottomettersi ai regnanti, a’ quali ardiva dar leggi,[45] si vendettero a miglior aggio le grazie del cielo, i mancamenti a’ divini voleri furono assolti dal potere dell’oro che a fiumi andava scorrendo nelle ampie contra­de di Roma, per facilitar a’ pontefici il metodo d’ingrandirsi anche fra i gemiti dolenti e confusi di un popolo aflitto ed indigente. Inorridisco al vero al considerare i disordini, le guerre, le stragi, i tradimenti, che da regolari in ogni parte furono con patetiche declamazioni predicati. Qui le mani loro sacrileghe dell’Eucarestia si servivano per avvelenarne gl’imperatori,[46] altri si armavano di coltelli per immergerli o farli immerger nel sen de’ monarchi.[47] In alcune provincie si animavano i figlj contro i genitori, i sudditi contro i sovrani.[48] In altre si continuava con una venale eloquenza ad obbligar i principi e le genti a sparger tanto sangue prezioso alla patria in climi stranieri e lontani, acciocchè le pingui eredità degli estinti servissero di alimento all’avidità del sacerdozio. Si scusavano i ripudj, si permettevano le mancanze di fede e si assolvevano per accostumare gli uomini a’ maggiori abbominj. Si arrivò finalmente fino a sciogliere i popoli dai giuramenti, i regnanti più non furono sicuri sul trono; bastava essere giusto e filosofo per essere immolato dalla rapace ed orgogliosa ambizione di una compagnia in specie che ne predicava con maggior entusiasmo la funesta dottrina, e che portando il nome del più pacifico fra’ legislatori non mai ne seguì le virtuose vestigia.

Simili scelleraggini dalla parte del clero ebbero pur troppo il fatale ascendente di alterare le passioni dei sventurati abitanti dell’Italia, che ne furono le prime vittime. In questo altre fiate sì fortunato suolo, a tanti esempj invitti di generosità e di valore altri ne succedettero di viltà e d’ignominia. Gli espugnatori delle città, i debellatori degl’imperi, i legislatori delle nazioni, quei che barbare chiamavan le altre genti, si cangiarono in insidiatori della virtù, in distruttori della libertà ed in fautori della tirannia, scuotendo con una mano il tempio della gloria ch’avean edificato coll’altra. Questo or squalido avanzo di una formidabile ed orgogliosa potenza cercò poi di conservar colla frode e coll’inganno sopra ogni nazione quella superiorità e primazia che per lo passato era il frutto del suo valore e della sua intrepidezza. 

Guai alla misera Europa, se non fossero comparsi, di quando in quando, ingegni arditi che molte nazioni sostrarono da un giogo sì insoffribile! Non vi sarebbe oggidì altro sovrano che un despota sanguinario, ugualmente padrone delle vite e sostanze che delle coscienze; più non era essa suscettibile di altra divisione. Le campagne deserte, gli spiriti inculti, un clero insidiatore dell’onore, della vita di tanti schiavi: ecco quale sarebbe l’odierno stato de’ popoli. Quantunque tali mutazioni abbiano costato alla stessa Europa torrenti di sangue, hanno pero guarentita l’umanità da guai sempre maggiori, che trasportati ci avrebbero ai tempi dei più antichi e più barbari teocratici dispotismi.

Le cose non si sarebbero portate a tante estremità, se i primi imperatori nell’abbracciar le leggi del Vangelo, ad imitazion de’ regnanti pagani, assunto avessero anche il supremo pontificato. Impedite avrebbero le calamità accagionate dal contrasto sempre violente e continuo del sacerdozio e del principato; stata non sarebbe l’Italia e il mondo intiero bagnato dal sangue de’ suoi migliori cittadini, vedute non si sarebbero tante monarchie, regni e principati formati dagli invilluppati avanzi del vacillante romano impero divenire preda del clero, indi ricuperarne la pristina libertà; nè gli esempj della più nefanda barbarie oscurare i regni de’ Neroni, de’ Domiziani e de’ Caracalla, permessi ed eccitati da quei medesimi sacerdoti che in vece di abolirli li lasciavan impuniti. Le vite le più care di tanti eroi dell’Europa non si sarebbero estinte nell’Asia e nell’Africa, acciecati dall’entusiasmo di un zelo insano, e per saziar la cupidigia di alcuni avidi ecclesiastici, che inghiottita avrebbero per fino la stessa natura. Nè un filantropo più ragion avrebbe di fremer di dolore per li tanti reati ne’ quali furono immerse anche quelle nazioni che fanno oggidì sì bella figura nel teatro del mondo.


XXIV. Come si possono riformare e prevenire i nominati abusi.

Se la face delle ridicole e sempre perniciose discordie del clero, possente perchè ricco e numeroso,[49] poco mancò che non incendiasse il mondo cristiano, se l’audacia de’ pontefici calpestò co’ piedi quelle sacre fronti cinte di diademi, se il rapace furor de’ regolari conta tante vittime coronate, qual ragione impedirà mai il mio regnante a distruggere il soverchio potere e le smoderate ricchezze del sacerdozio, fonti inesauste di tante sventure?[50] Se la menzogna e l’ignoranza non possono mai esser l’appoggio di una religione utile, sensata e vera, chi farà ostacolo al mio sovrano a distrugger questi due mostri de’ quali gli odierni teologi si servono, quali umane precauzioni, per mantener la loro potenza contro i benefìci progressi della sana filosofia, quasi che si diffidassero della fede che dicono di professare?

O filosofia, sostegno de’ troni, conservatrice della libertà, felicità delle nazioni, corri veloce in ajuto del mio regnante, ispiragli quel profondo disprezzo che meritansi quelle anime vili seduttrici dell’innocenza, scaccia da’ cuori de’ sudditi suoi quegli enormi pregiudicj avvincolati dal panico terrore, figlio dell’ignoranza e del fanatismo, fa che i loro tesori, frutti dell’industria e del coraggio, più non sortano da’ suoi stati, per arricchire il capo ed i ministri di quella sempre fatale teocrazia, fa che gli abitanti di quell’alma città, altre volte padrona di quasi tutte le genti ed ora sede dell’orgoglio e della doppiezza, più non s’empinguino delle ricche spoglie degli altrui sudori, ma che ritrovino un tal compenso in un genio ed in una fatica resa sempre più industriosa dalla necessità e dal bisogno! Allontana sopra tutto la superstizione, assai più ingiuriosa[51] a Dio della noncredenza[52] e sol degna di abitare negli abissi, e che ivi rilegata per sempre più non intorbidi la tranquillità delle famiglie, i sudori de’ laboriosi agricoltori, le rimunerate pene dell’industria, i prodotti di un florido commercio e la pace degli uomini uniti in società resa felice da un illuminato governo.

La tolleranza di qualunque religione che ha per principio la credenza di un solo Dio e che viene accompagnata da una sana morale, quella tolleranza[53] madre della felicità e dell’opulenza de’ popoli, origine della potenza di molti reami, nodo dell’amicizia, commendata da’ più sagaci legislatori, l’abolizione del mortifero celibato, distruttore delle società, e quella del diritto di testare, sorgente delle illuminate ricchezze del clero, la riforma de’ regolari, inimici dei principi e dei tribunali:[54] ecco la maniera di stabilire l’autorità del sovrano. Può ciò servire qual mezzo per far fiorire la stessa religione, che giammai non fu più pura che allorquando le sublimi dignità della Chiesa non si conoscevano che al distintivo di una più particolare umiltà, che rendeva il sacerdozio sempre più degno della pubblica venerazione,[55] ed ove il tributo de’ popoli all’Esser Supremo non consisteva che in voti ed offerte semplici ed accette al Dio di bontà, perchè accompagnate da un cuor giusto ed innocente.

Volete, o sovrani, prevenire le insidie del clero, volete assoggettarli alla potenza civile, la sola legitima? Non date colle vostre decisioni dell’importanza alle di lui contese, che con eriggere barbari supplicj sconvolgon gl’imperj;[56] riformate il fasto imperioso di tanti inutili prelati. A che tanti opulenti vescovati, abbazie e priorati se non a multiplicare al popolo il numero de’ suoi intermediarj tiranni, ed elevar idoli immaginarj che impoveriscono lo stato e che indeboliscono l’autorità del legislatore? Qual altro bisogno avrà il cristianesimo per mantenersi puro ed illibato che un numero sufficiente di semplici parochi dotti ed istruiti, sì nei lumi della religione e della filosofia che nell’ubbedienza dovuta a’ padri communi de’ popoli? Egli è così che, abolite nel clero le unioni, le diete e lo spirito terribile di corpo, trionferà doppo tanti secoli la verità e potranno agir con sicurezza le benefiche volontà de’ monarchi. Quali mezzi non avrebbero per diminuire il peso delle imposte, per accrescer con l’erario i meritati emolumenti alle magistrature, ma assai più a quelli che tutto sacrificano per la loro difesa?

Ma come sperare sì utili riforme,[57] benchè necessarie, finchè esiste quella fatal società, quell’idra enorme che osò fondare una sì terribil potenza, contro di cui vani furono fin ora gli sforzi de’ più savj governi?

Non vi seducan, o reggitori degli uomini, le vane lusinghe, le sommissioni, le riforme ed i cambiamenti; pieghevoli ed umili, cercan di sorprendere la vostra clemenza, ed indi, impadroniti degli spiriti de’ sudditi imbecilli, conquisteran le colonie, daran leggi a chi le governa, e nuovamente arricchiti delle spoglie de’ popoli sopra la rovina del commercio de’ sudditi fedeli, empiranno il mondo de’ stessi delitti che si leggono nelle storie di ogni nazione.

XXV. Della libertà di parlare e di scrivere riguardo alla religione ed alle leggi.

Il pretender di voler sottomettere con una cieca ubbedienza gli altrui sentimenti ad una arbitraria autorità, che l’intendimento dell’uomo non riconosce, il non voler lasciare allo spirito de’ popoli soggetti una libera carriera alla scoperta delle utili cognizioni, che gl’intolleranti dogmatici vorrebbero impedire, sono attentati atrocissimi contro la libertà naturale d’ogni esser pensante.[58] O funesta intolleranza che tanto agitasti le umane società, non porgesti forse la tazza fatale di un acconito distruttore al virtuoso Socrate?[59] Non obbligasti il saggio Aristotele a fuggir i patrii lari per trovar presso altri popoli scampo e sicurezza? Non minacciasti la vita del grande Anassagora e non esponesti in fine i più gravi filosofi ad una infinità di mallori?

In tutti i governi che permettono di esporre i proprj pensieri senza pericolo, gli errori cessano di esser dannosi, poichè potendo venir confutati, le verità alla fine galleggiano sopra la vasta estensione della ignoranza e della confusione. Una tal libertà estesa ne’ libri e nelle stampe distruggerebbe le imposture de’ pedanti, i sofismi perniciosi de’ dogmatici, le oscurità degli inintelligibili legali, errori che riscaldan le menti ed i cuori degli imbecilli; rischiarerebbe la stessa religione, che ama l’ordine e la verità, e renderebbe inutile la malizia seduttrice degli uomini male intenzionati e venali.

Questa stessa libertà è sì utile alla società ed a’ principi che già ne provarono la necessità. Sì benefica è la sua dolce influenza a’ costumi ed alle forme dei governi, che se i litterati ed i filosofi, veri benefattori dell’umanità, co’ loro scritti tolto non avessero e squarciato il velo al simulacro dell’ignoranza e della imperiosa abitudine, che governò per sì lunga serie di secoli lo spirito pieghevole de’ popoli, ognuno divenuto sarebbe schiavo del clero e sottomesso ad una legislazione oscura e confusa, che ad onta d’ogni buona intenzione de’ sovrani avrebbe accresciuto il tirannico ed arbitrario potere de’ giudici.

XXVI. Della libertà di parlare e di scrivere riguardo al governo.

Ogni legge che vieta al suddito il poter parlare e scrivere di quegli oggetti che interessano la giornaliera amministrazione degli affari del principato non è men crudele. Il punire chi si lagna delle politiche disposizioni e chi parla o scrive con quella libertà[60] che perfeziona lo spirito e la ragione, non solo suppone un pessimo governo, ma, castigando nella sincerità una sì bella virtù sociale, è lo stesso che l’insegnare ai popoli il cammino dei delitti, ed impedisce con questo il principe a sè medesimo il poter penetrare i sentimenti de’ particolari e del pubblico.

Un esperto e dotto medico vieta forse all’infermo di esporre con libertà lo stato de’ proprj mali, le varie crisi ed i differenti periodi de’ medesimi? Come saper potrebbe in sì fatta guisa l’origine della malatia, i sintomi e l’effetto de’ suoi rimedj? Non può dunque conoscere il frutto de’ suoi provedimenti un savio legislatore se chiude egli stesso le vie che conducono a simili cognizioni. Un tal divieto corrompe gli uomini, principalmente gli abitanti di certi climi, e li fa divenire malvaggj. Non potendo dar sfogo alle passioni, non per questo restano interamente assopite, mentre esse, a guisa di quel fuoco che sembra estinto, e che trovando nell’aere qualch’ajuto si riacende per produrre rovine ed incendj, così il contegno delle passioni di un tal popolo, doppo di averlo internamente agitato, doppo di aver serpeggiando sparso in tutta la circolazione il più mortifero veleno di una dissimulata vendetta, alla prima occasion favorevole si apre un varco e si sviluppa con un sì impetuoso sconvolgimento che perviene a roversciare le genti e gl’imperj.

La maggior parte de’ politici la credono la via la più sicura per arrivare al dispotismo. Sedotti da utili apparenti, prendono quel finto riposo de’ sudditi, o piuttosto quella deplorabile tristezza, per una pacifica tranquillità. Vedono un popolo miserabile ed umiliato, i magistrati sommessi e tremanti, gli altri ordini della società abbattuti ed avviliti; non si suppongono minacciati dal pubblico sdegno, si credono sicuri finchè qualche congiura faccia ricuperare la libertà alla nazione, immolando gli autori di tante sciagure ad una giusta vendetta; li fa sortire allora dall’oscuro letargo, ma per involgerli nel sen della morte.[61]

Un governo sì diffidente delle intenzioni de’ sudditi, dovendo stipendiar delatori, gente la più vile e la più indegna della società, anima i medesimi e molti altri cittadini a così iniquo mestiere; ammettendo le loro accuse, va in eccesso il processare gli uomini i più illibati e virtuosi, mentre chiunque ha nemici corre a denunciarli come rei di questo delitto. In un tal paese viene proscritta la schietezza, tolta la libertà, proibite le confidenze, condannata la fedeltà. La dissimulazione, la tristezza ed il timore,[62] figlie della costernazione, agitando l’animo del principe e del ministero, si communicano in tutta la società, di modo che l’amicizia viene riguardata come uno scoglio preparato alla virtù, l’ingenuità come un’imprudenza, la purità ne’ costumi come un insulto fatto al tiranno; i più turpi vizj e le più nefande passioni agitano ogni cittadino, che teme e che si vede oggetto dall’altrui terrore.[63]

Il mio vero despota, ben lontano da tali spaventi, non sarà circondato che da oggetti dilettevoli. Sentirà con piacere quelle anime grandi e sincere, che dal fondo dell’oscurità, oppure impiegate in subalterne magistrature, scuotendo il timore che imprime la prepotenza d’un ministero corrotto, osano implorare il di lui paterno ajuto contro coloro che immersi nell’opulenza ardiscono per fine tendere insidie a chi nell’ineguale riparto non ha avuta la minima porzione sovra il totale.

Egli, che è fonte di ogni giustizia, seguendo sempre le orme della beneficenza, lascierà libero lo sfogo alla lingua ed alle penne de’ sudditi.[64] Spesso entrando in società, e facendovi entrar chi avrà cura d’informarlo, saprà ogni pensiero. Una tal libertà diviene il sostegno del suo trono, essendo permesso a’ sudditi di biasimarlo, le lodi dei medesimi non saranno della natura di quegli eloggj dati da schiavi a tiranni, ma bensì sicuri tributi della riconoscenza. Questa libertà facendo sviluppar le passioni, che sono gli strumenti della umana felicità, più facile gli sarà con una saggia legislazione il diriggerle al ben commune dello stato. Conoscendo il piacere e le inclinazioni de’ popoli, qual facilità non avrà per ben governare?

Vorrei che i popoli godessero la libertà dì un governo repubblicano e che il regnante loro dicesse come Timoleone rispose a’ suoi concittadini, che tumultuosamente uccider volevano coloro che ne biasimavano la condotta sebben lodevole: O Siracusani, che fate? Riflettete che ogni cittadino ha il diritto di accusarmi; guardatevi, cedendo alla riconoscenza, di portare un colpo fatale a quella stessa libertà che mi è stato sì glorioso di avervi ristituita.[65] Per meglio far gustare a’ sudditi una sì dolce libertà e renderla più fruttuosa, perchè non permettere che si porgan avvisi e consigli, pubblicandone gli autori di quelli che sono utili allo stato e ricompensandoli in proporzione dell’avvantaggio che ne riceve? Tal volta viene in pensiero di un uomo limitato ciò che fugge dall’esame di un profundo investigatore.

Una sì graziosa condotta nel sovrano introdurrà ne’ cuori sensibili de’ sudditi l’amicizia, la schietezza, la riconoscenza e tutte le altri sociali virtù. L’ingratitudine, la doppiezza, la frode e la dissimulazione, più non venendo dall’abuso delle leggi rimunerate, abbandonerebbero allora un tal soggiorno per riprender le redini di quell’orribile desolato impero ove una tal libertà si trova proscritta dalla crudeltà de’ tiranni.

XXVII. Delle radunanze popolari.

Le unioni, i conciliaboli, le turbe in fine di un popolo radunato, sebben siano credute nocive da tutti i politici, pure non mi sembrano di una sì fatale conseguenza. Se gli attrupamenti di popolo possono reccar danno e partorir sedizioni, ciò non seguirà che sotto governi tirannici e crudeli. Tiberio, Caligola, Domiziano, benchè scortati da schiere di guardie estere e numerose, erano tormentati dallo spavento al vedere il minimo gruppo di gente, perchè la rea coscienza loro rimproverava ogni sorta di più nefandi delitti. Le grida de’ popoli li sconvolgevano, ed a ragion le credevano espressioni d’ira e di vendetta, pronostici di rivoluzioni e di straggi. Se talun de’ sudditi per avventura alzava la mano, già que’ tiranni vedevan sovrastar loro pronta la morte qual giusta pena delle commesse barbarie. Se alcuni cittadini secretamente parlavano, solleciti i loro satelliti il comando eseguivano d’immolarli alle diffidenze ed ai sospetti. Se il senato, se i magistrati, se i loro amici stessi incontravano attoniti o aflitti, credendoli rei di qualche attentato, servivan di pascolo alla fame sempre rabbiosa di fiere mantenute col sangue e colle membra degli uomini i più virtuosi ed i più cari alla patria. Tale è la persuasione e la diffidenza di chi regna fra gli orrori dell’ingiustizia e de’ reati.


Se queste popolari radunanze erano per que’ tiranni oggetti sì mostruosi di turpitudine e di spavento, altrettanta gioja e contento accagionavano a tutti que’ principi che facevano la propria delizia di quella de’ popoli. Jao, regnante incomparabile, visitava le vaste provincie della Cina, ovunque volgeva i passi i sudditi affollati lo acclamavano dicendo: Il cielo ti colmi, o gran monarca, di ricchezze, t’accordi una prole numerosa e non ti levi dal tuo popolo finchè, ben carco d’anni e di gloria, sazio tu sii della stessa vita.[66] I Nerva, i Titi, ed i Giuliani tripudiavano nel vedersi circondati da’ sudditi affollati per vederli. Tranquilli nell’animo, con un cuor contento e pacato, qui vedevano una famiglia riscattata dalle mani loro vittoriose dal sen de’ barbari nemici, ivi un altra sollevata dall’oppression de’ pubblicani o dall’avidità di qualche corrotto magistrato. Ravisavan ne’ sudditi dei fratelli, dei figlj e degli amici; quanto maggiore era lo stuolo di gente da cui vedevansi circondati, altrettanto più grande altresì credevano la propria sicurezza. Se udivan qualche tumulto, non si temevano minacciati; tolta la cagione, punito l’oppressor dell’innocente o il calunniatore della virtù, provedendo con prontezza a’ disordini,[67] sentivan raddoppiate le evviva. Se pieni eran i tempj di popolo, lo credevan intento a far voti sinceri e divoti a’ numi immortali per la preziosa conservazion di chi li governava, nè punto s’ingannavano. Se doppo le guerre, debellati gl’inimici della patria, ristituita la pace entravan trionfanti, sentendosi acclamati padri della medesima dall’augusto senato e da un numero infinito di giojosi cittadini, più si gloriavano di quelli pubblici contenti, di queste dimostrazioni di amore, che de’ nemici estinti, delle città espugnate e delle stesse vittorie.

Quando vedo in un paese proibite le unioni, dico qui il governo è crudele, nè mal m’appongo, imperciochè se si teme che si uniscano gli uomini per far sedizioni, segno è che sono mal dirette le finanze o corrotta la giustizia. Non v’ha turba, non v’ha mormorio di gente impaurita che per alzar funeste le grida contro intollerabili imposte, attentati di alcuni giudici o altri atti di nascente o inveterata tirannide. Se tali unioni si vedono sotto governi benefici, non temono per questo i monarchi;[68] come mai non vedranno la cagion della turba nel contento di vederli e nel desio di celebrar con entusiasmo i meritati encomj? Se circondano i sudditi il cocchio del mio principe, non alzaran già strida di sdegno e di spavento, ma accenti di gioja e d’allegrezza, interpreti sinceri di un cuore grato e leale, penetrato d’amore e di riconoscenza.

XXVIII. Popolazione.

A che servirebbe al principe il regnare sopra aridi e vasti deserti?[69] Come potrebbe mai resistere alle ambiziose intraprese de’ suoi invidiosi vicini, se pochi fossero gli abitatori delle sue regioni? Per formar dunque un potere stabile e permanente sarà conseguenza il pensare a’ mezzi i più efficaci per incoraggire la popolazione.

Giacchè lo spirito di bilancia, sommo regolatore delle odierne nazioni, rende meno perniciosi gli sforzi eccessivi dell’ambizione a roversciare gli imperj; giacchè le massime di umanità siedono sul trono, ove vedonsi i monarchi rigettar con isdegno i sanguinarj principj di una funesta antica politica, e che più non credono necessarj i supplicj per tenere in contegno gli animi de’ sudditi; giacchè in fine oggidì fra le repubbliche spenta trovasi la face delle più crudeli continue guerre, queste divenute più rare e meno feroci,[70] perchè, cangiati i sistemi, più non si vedono le medesime stragi, nè le genti incatenate vendute schiave dai vincitori, poche le città saccheggiate[71] e le provincie devastate dalla furia degli eserciti; maggiore sarà altresì la sicurezza nell’azardar pensieri sinceri benchè arditi intorno alla popolazione, oggetto secondo di cui sembra che i principi cominciano a comprenderne il bisogno.

Non mi perderò già in una fastosa e vana ostentazione di erudizioni per provare che la poligamia, adottata da molte nazioni antiche e moderne, urta di fronte i principj della popolazione e della sana politica. Le copie numerose delle più vaghe donzelle, rinchiuse ne’ serraglj per satollar di delizie alcuni pochi opulenti signori, i tanti uomini impiegati ne’ medesimi a una gelosa tirannia, e resi pria inutili alla propagazione della specie,[72] e tanti altri effetti non meno funesti, sarebbero ragioni incontrastabili per distruggerla, ma inutili perchè a noi non necessarie ed indifferenti all’autore, che non scrive per i climi orientali, ma bensì per gli Europei suoi concittadini.

Parliam piuttosto del celibato, mostro non men distruttore dell’umana specie, sciolto dalle catene della natura dalla malignità di alcuni fautori del fanatismo, introdotto qual sostegno di un estero dispotismo, sostenuto fra alcune nazioni europee dall’autorevole imbecillità di alcuni governi, vinto e debellato nella stessa Europa presso di altre genti da una ragione di stato ben diretta e dai lumi della più benefica filosofia. Presso i popoli di queste regioni, la distruzion di un tal mostro è l’origine della libertà, di un commercio vasto e prodiggioso, di una florida marina, di eserciti formidabili, dell’opulenza e della felicità di numerosi cittadini. La tolleranza del medesimo tien gementi altri popoli sotto il giogo della tirannide, mantiene un commercio limitato e vacillante, rovina le manifatture, devasta le campagne; spopola le città, sottomette gli animi alla durezza de’ costumi, rende dipendenti alcuni sovrani da altri, che sarebbero men possenti e men ricchi di loro; fa languir la marina, snerva gli eserciti, ed un profundo letargo accagiona a tutta la società. In un simil paese, turbe si vedono di numerosa e robusta gioventù rigettar il prezioso dono della natural libertà, rinunciar con voti ugualmente nocivi che ridicoli ciò che non conosce, e pria dell’età che sola costituisce la legitimità di un contratto,[73] privando così lo stato degli ingegni i più felici, acciocchè sotto pretesto di una vita più perfetta[74] rinchiusi ne’ chiostri, elevati con massime che distruggono il principato, non ne sortano da’ medesimi che per alborare lo stendardo fatale della superstizione nel seno delle famiglie, o per vendicare a’ danni dell’altrui onore e quiete l’oltraggiata natura.

Sebben tali verità sieno conosciute dalla maggior parte dei veri pensatori, pure inutili giammai saranno le continue e replicate declamazioni contro le pretese virtù di quegli insensati che si abbandonano ad uno stato di vita contrario al pubblico bene, ove facendo una pomposa ostentazione di austerità, con dedicarsi ad un nocivo e poco osservato[75] celibato, pretendono a quella venerazione che sola si aspetta a chi pratica le vere virtù, quelle virtù però che costituiscono un buon cittadino.

Ma che sento? Quanti gemiti confusi mi distraggono nello scrivere? Diversi esseri ingolfati in uno stato aflittivo m’avvertono di non porli in oblio. Implorano il soccorso della mia penna impiegata al nobile ufizio di trattar gl’interessi della umanità, e già mi sembra che esclamino in tali accenti: Scrittore, il di cui cuore sembra commoversi alla vista ed al sol pensiero d’ogni umano infortunio, e che si compiace al ridente aspetto per fin di una apparente felicità; volgi per poco pietosi i tuoi sguardi alle reali sventure d’un numeroso stuolo d’innocenti donzelle, vittime dell’interesse e del fanatismo, che gemono dalla più tenera età, fra gli antri lugubri de’ chiostri, prive non sol della politica, ma ancor della natural libertà!

In fatti qual ragione, qual legge, qual diritto consigliò, prescrisse o permise di rinunciar per sempre al più bel dono fatto all’uomo dal suo Autore in una età in cui non è concesso di giuridicamente disporre di poche monete? Se giusta l’opinion de’ più gravi filosofi non poterono gli uomini, nel primitivo sociale contratto, rinunciar del tutto alla loro natural libertà in favor di un sovrano, come può concepirsi che simil rinuncia sii legitima, anche spesso strappata a forza dalle tenere labbra di semplici fanciulle, in un tempo ove lor si divieta sin di concorrere a qualunque contratto?[76] Concigli chi può simili contradizioni.

Reggitori degli uomini, o voi, sovrani da cui dipende la prosperità delle nazioni, se amate la virtù, se cara vi è la religione, se bramate che i vostri sacri nomi si leggano dalla sempre imparziale posterità colle medesime sensazioni di piacere di quelli degli Antonini e dei Marc’Aurelj, degnate accogliere con bontà i loro lagrimevoli lamenti, v’inteneriscan i singhiozzi che sortono quai vortici da’ più profondi recinti de’ cuori, sempre palpitanti e desolati, di queste sventurate, che si servono di un oscuro filosofo per avvertirvi che giusti esser non posson i vostri governi, finchè esistono simili monumenti di crudeltà e di barbarie.

Queste dunque esser dovrebbono le prime intraprese de’ sovrani; intraprese gloriose e magnanime che loro torrebbero la taccia di oppressione ed inumanità ne’ secoli successivi, secoli che saranno sempre più rischiariti dalla verità, da un naturale diritto e dalla benefica filosofia.

XXIX. Sopra il medesimo soggetto.

Non basterebbe al legislatore l’abolir la professione del celibato, se non pensasse a togliere gli infiniti ostacoli che impediscono a molti cittadini l’aspirare a quello stato che loro vien comandato dalla natura, sempre parlante al cuor dell’uomo.

L’opulenza delle famiglie in certi stati della società unita per la felicità di un solo, le ricchezze nelle mani di pochi,[77] le manifatture, le arti, i mestieri privi della necessaria emulazione, la miseria degli agricoltori che vedono crescere l’indigenza in proporzione de’ prodotti del loro coniugale amore, la troppo affollata moltitudine di popolo nelle capitali, ove sempre si unisce a spese dell’agricoltura che ne soffre, la depravazione de’ costumi nelle medesime procedente dal lusso, le molte pene crudeli, le mal calcolate procedure a certi pretesi delitti, gli eterni contrasti di un foro civile troppo dispendioso e difficile, la distribuzione inesatta e mal concepita nelle imposte, le concussioni delle Ferme e quelle de’ possenti cittadini, gli infiniti abusi in tutti quegli oggetti che interessano il nutrimento e la salute de’ sudditi: ecco le principali sventure che, unite al celibato, sono i veri impedimenti alla popolazione, ostacoli però de’ quali è facile prevenirne le fatali conseguenze.

Sebben per lo più non sia il sol piacere che porta gli uomini allo stato conjugale, ma lo spirito di dispotismo per poter regnare sopra una numerosa famiglia, nulladimeno se una autorità limitata e legitima sarà utile alla popolazione, quando essa sia troppo estesa ed insupportabile ne formerà un invincibile ostacolo. Inutilmente si affaticano alcuni cattivi politici, nemici dell’umanità, per autorizzare una tal tirannia, di citare le sempre crudeli ed orribili leggi di Roma e di molte repubbliche greche. Vivendo in un secolo rischiarito ed umano, non avrò già d’uopo di longhe declamazioni per nutrire ne’ cuori de’ leggitori l’aversione che si meritano leggi sì dure fra gli amatori della virtù e li pacifici coltivatori della filosofia. In fatti, qual cosa havvi mai di più crudele che il veder condurre colla forza prepotente della paterna autorità un figlio o figlia sventurata fra le braccia di chi non ama e da chi non viene amato, nel mentre che ciascun di questi innocenti volge un languido sguardo ed i te­neri stimoli di un cuor sensibile verso un altro oggetto ove ritrovar potrebbe un eterno contento? Ecco l’origine delle sempre mai funeste dissensioni in molte famiglie, che impediscono il multiplicarne la prole, ed ecco gli eccitamenti che portano tanti infelici nella tenebrosa carriera de’ delitti.

E perchè non mi sarà permesso il fare anche un eloggio ragionato e sincero del divorzio, stabilito da’ più illuminati legislatori e confermato da molti saggi regnanti, benchè contradetto fra molte odierne nazioni, ove i pregiudizj radicati colla ruggine fatale ma imperiosa della venerata antichità e della tradizione sono più forti dell’evidenza? O sempre mai felici que’ popoli ove i politici fondatori, veri conoscitori dell’umana natura, stabilirono che l’imeneo esser non dovesse una eterna schiavitù![78] Ben vedevano che la durezza di un legame indissolubile portati avrebbe i maggiori ostacoli alla popolazione. Contuttociò erano ben rari fra di loro i divorzi; se si amavano, la cagion ne era che l’invidia, la gelosia, ed i soverchj diritti di un marito non opponevano impedimento alla felicità delle spose sempre fedeli perchè libere. In quelle fortunate contrade l’orgoglio di una chimerica nobiltà nè l’avarizia non mai mettevan distinzioni fra le condizioni, e la donna che regalava maggior numero di cittadini bene affetti alla patria, quella era la più dipinta ed onorata.

Egli non è men vero che certi onori e certe preferenze che sortono dall’amor proprio, fonte inesausta di umani incoraggiamenti, unita ad una continua emulazione al travaglio ricompensato, lusingherebbero anche oggidì gli artisti ed i contadini, quantunque la rozza loro educazione sembra che gli allontani da quella gloria alla quale lasciansi trasportare le anime grandi. Uno stato più agiato e più felice che agli medesimi procurasse il regnante in proporzione del numero de’ figlj e della loro educazione, sarebbero mezzi ugualmente possenti per animarli a multiplicare il numero di cittadini frugali, virtuosi e robusti che renderebbero lo stato felice e possente.

XXX. Agricoltura.

Non vorrei che il leggitore s’aspettasse dall’autore del dispotismo un esatto dettaglio di quella coltura che può rendere fertile ogni paese. Sarebbe un paradosso il voler fondarne principj incontrastabili ed un fisso sistema impratticabile, perchè la natura, l’analisi del clima e del terreno, il bisogno de’ vicini, il genio degli abitanti variando in ogni regione, devon variare altresì i modi delle diverse colture.


Se impossibile riesce il fissare una data coltura, si possono bensì stabilire principj invariabili per animare il travaglio degli agricoltori. Ma ogni volta che mi pongo a considerare i mezzi di eccitare ogni sorta di industria e per fornire al coltivatore il modo di smaltire i prodotti delle sue laboriose fatiche, mi si presentano le più dure oppressioni, sotto le quali pur troppo geme questa porzione d’uomini avilita, dagli altri la più negletta, sebbene la più degna della nostra riconoscenza. Come si potrà mai pretendere d’incoraggiar l’agricoltura, finchè i soverchj carrichi sì de’ principi come de’ proprietarj de’ fondi la faranno languir nell’indigenza,[79] che per pagarli sono minacciati di continui saccheggi e vengono obbligati a nutrirsi di cibi mal sani o poco sostanziosi che loro tolgano quelle forze che sono sì necessarie alla conservazione dello stato, che soccorso ne chiede anche contro i nemici della patria?[80] Le poche analisi che si fanno de’ terreni,[81] la scielta non sempre ben intesa delle diverse piantazioni, le immonde abitazioni delle povere famiglie, le giornate mal pagate,[82] il premio non mai concesso alla fatica, l’alto prezzo dell’interesse che si esigge da’ fermieri, le tante mani impiegate al lusso ed alla mollezza e tolte dal travaglio delle terre, non sono forse inconvenienti che impediscono i benefici progressi dell’agricoltura? Che dirò delle ingiuste distribuzioni de’ fondi fra i travagliatori, de’ quali alcuni ne possiedono men del bisognevole per nutrirsi ed altri una porzion maggiore senza il numero di mani bastevoli? Qui non finiscono i loro guai, congiurano a’ danni dei medesimi i medici ed i chirurghi, i mercanti e gli operaj con esigger interessi i più duri ed insupportabili sopra le derrate. Nè giova agli infelici l’esclamar contro i disordini e le oppressioni, perchè, privi di tribunali di apellazione, esimer non si possono dal caso di un ingiusto aggravio che lor imponga un signore, ed ovunque volgan lo sguardo trovano giudici inesorabili e parti inflessibili.

Per introdur l’emulazione, dovrebbe un legislatore sottrarre i contadini dalla dura persecuzion de’ signori, render infruttuose le ingiuste intraprese di questi colla forza di un Consiglio esatto e severo nel protegger l’innocente.[83] Resa così la libertà a questo stato, si potrebbe animar la virtù col mezzo di preferenze e distinzioni,[84] che hanno tanta forza nel cuore umano e che sempre più li animerebbe al travaglio ed alla fatica, che sa nutrir il valore e l’intrepidezza.

Abolirei nelle campagne l’ignoranza degli ecclesiastici, che otturano lo spirito degli agricoltori con pratiche superstiziose che, corrompendone i cuori, li rende stupidi ed aviliti, soffocando quel fuoco di valore che in loro col travaglio germoglierebbe e che li renderebbe anco più atti alla guerra. Proveduti i parochi di buoni emolumenti,[85] guarentiti dall’indigenza e dai bisogni, sieno illuminati non solo in una buona morale e ne’ sodi principj di una vera religione, ma negli elementi della stessa agricoltura. Sarebbero allora non solo gl’istruttori della rustica gioventù oggi sì rozza, ma nel tempo stesso padri amorevoli de’ medesimi ed autori della loro felicità. Ecco come l’agricultura, divenendo un’arte nobile e lucrosa, renderebbe coloro che la coltivano sani, robusti, intrepidi ed atti alle più ardite intraprese. Agricoltura, arte sublime e benefica! Chi potrà farne i lusinghieri meritati encomj se già pubblicarono i tuoi eloggi i più illustri filosofi, se chinato t’implora il genere umano nel riconoscerti suo scudo e sostegno! Non vi è sagace legislatore di nazioni e fondatore d’imperj che in te non ravisi l’origine d’ogni dovizia. Gli uomini i più grandi, i magistrati e capitani i più illustri delle repubbliche si facevan gloria ed onore di coltivarti con quelle stesse mani vittoriose che avevano debellati i più fieri nemici della patria; finito il tempo delle magistrature, spenta la face delle guerre, ristituita la pace a’ cittadini, scendevan dal cocchio trionfale colmi di gloria per riprender l’aratro e viver tranquilli fra le rustiche cure, degne di occupar la mente e lo spirito di chi si segnalò nella carriera di Marte. Fu sì onorevole l’agricoltura, che nella Persia i monarchi abbandonavano in certi giorni il fasto e l’orgoglio per ripartir cogli agricoltori il laborioso travaglio ed il frugale compenso. Qual è quel leggitore che ebrio non si senta di gioja nell’ammirar i regnanti chinesi, che, rigettando anche oggidì con disprezzo la mollezza ed il fasto della loro grandezza, precedon coll’esempio i sudditi nella cerimonia sempre memorabile di solcar i primi le terre? È sì ben scolpita nel cuore di quegli imperatori la beneficenza dell’agricoltura, che si inalzano alle più sublimi dignità chi sa perfezionarne i metodi:[86] sistema ragionato e sublime, ben degno della saggia legislazione e della maestà di quel grande impero, origine della sua popolazione e delle immense ricchezze! Ecco in fine come ammigliorando ed incoraggendo le arti ed il lavoro delle terre può un sovrano rasciugar le paludi, render colte le rocche scoscese, sempre più carriche di ricche spoglie le amene campagne, multiplicar la popolazione e formarsi reali conquiste, in vero assai più lusinghiere che le debellate provincie, perchè non irrigan di sangue umano le devastate regioni, non costan lamenti e pianti a popoli desolati e non espongon le vite preziose de’ sovrani a funeste rivoluzioni, che seco porta la sete di una vana ed orgogliosa ambizione.

XXXI. Lusso.

Che si riguardi il lusso relativamente al commercio o a’ costumi de’ popoli, l’eccesso del medesimo sarà ugualmente dannoso. Non addurrò le prove che ci somministrano la rovina de’ più opulenti imperj distrutti dalle più povere e più frugali nazioni, non quelle di molti popoli che vissero nel seno della più perfetta libertà finchè puri conservarono i loro costumi e che, corrotti da un lusso eccessivo, preda divennero del medesimo, cadendo sotto la tirannide de’ più ricchi e quasi sempre de’ più crudeli loro concittadini. A che serve, per provare che il lusso soverchio è nocivo, ricorrere a stati delle storie sì antiche che moderne, quando l’analisi del medesimo evidentemente lo dimostra a chiunque si appiglia a considerarlo sotto quel filosofico aspetto che sempre conduce alla scoperta delle verità?

Egli è incontrastabile che corrompe i costumi, snerva il coraggio, ammollisce l’educazione ed è l’origine della disproporzione delle ricchezze de’ cittadini, ove l’intorpidita multitudine, misera ed indigente, schiava diviene dei pochi indolenti ed oziosi. Troppo grande essendo in un tal paese il numero de’ miserabili, i pochi signori vivendo fra i deliziosi divertimenti della capitale, ma possessori de’ terreni delle vicine e lontane provincie, coll’ergervi magnifici monumenti di grandezza, molti de’ medesimi convertendone in superbi palazzi, in vasti serragli per le fiere, in recinti di razze di scielti destrieri, ameni viali, parchi e voluttuosi giardini, li lasciano incolti nelle mani di avari fermieri e di scoraggiti coltivatori. Ecco come, decaduta l’agricultura, vera e sola nutrice del genere umano, vien portato il colpo il più fatale alla popolazione, che diminuisce sempre più colle frequenti emigrazioni de’ coltivatori che cercan altronde un frugale sostentamento.

Se il lusso eccessivo fa prosperare alcuni pochi operaj, col lavoro ben pagato di certe arti ideali e di alcune poche e troppo ricche manifatture, accagiona la decadenza delle altre, e di quelle arti e mestieri che sono di pura necessità, col prezzo eccessivo de’ generi e delle fatture, che procura alle vicine sobrie nazioni i mezzi di somministrarcele ad un prezzo meno esorbitante. Egli è così che una infinità di operaj, sortendo da un tal paese, corrono ad arricchire tanti altri popoli collo stabilimento delle manifatture le più utili e le meno dispendiose a perfezionare.


Qual sarà il legislatore che, doppo aver considerati i tanti danni che apporta un lusso eccessivo, non sarà di sentimento ad allontanarne gli effetti colle più provide leggi? Chi oserà ancora invidiare alle genti voluttuose, perdute in un tal labirinto d’idee confuse, una sì apparente prosperità? E chi penserà mai a lagnarsi della privazione di tante superfluità, che sempre accompagnano i vizj, lo sregolamento de’ costumi, la rovina dell’agricoltura e della popolazione, funesti inconvenienti che sono le vere cagioni della decadenza di qualunque impero?

Ecco i tristi effetti del lusso se è eccessivo. Se poi è limitato, sarà una sorgente di ricchezze che, con una continua e benefica circolazione spandendosi ne’ muscoli e nelle fibre, empieran di vigore tutti i membri del corpo politico, estendendosi in tutti gli stati della società, non più squalida e piena di languidezza, ma laboriosa, perchè si vede ricompensato ogni frutto delle sue fatiche. Il lusso allora, in vece di corromper gli animi, di rovinar l’agricoltura, divien la cagione dell’incoraggimento della medesima e della prosperità di un governo.

Se mi si richiede sin dove si può estender il lusso a prosperar una nazione, in risposta pregherò di calcolarlo in proporzione dell’estensione de’ mezzi di uno stato, sì naturali che fattizj, della sua popolazione e delle circostanze de’ suoi vicini. Per fine sarà tanto meglio diretto, quanto più generali ed estese saranno le ricchezze che ci faranno scorgere, come dice un autore,[87] essersi gli uomini più allontanati da costumi rozzi e selvaggi a misura de’ commodi e vantaggj veri o immaginarj che acquistano in una più grande generalità.

XXXII. Commercio in generale.

Il commercio doppo l’agricultura dovrebbe riputarsi l’arte la più nobile di una ben organizzata società. Egli è che rende forte una nazione nell’interno e che riscuotere le fa il dovuto rispetto presso le estere genti, colla possente attrativa di addolcire i costumi e di scuotere gli uomini dall’inerzia per animarli ad un continuo travaglio che li arricchisce. Essendo quest’arte scientifica piena di dettaglj e di difficoltà, perchè non formare pubblici stabilimenti, ove potesse la gioventù d’ogni stato (quella intendo che ne dimostra precozj talenti), sotto maestri ugualmente abili che virtuosi, impararne i principj, eccitati vieppiù ad acquistarne le cognizioni colla più viva emulazione?

La machina sì complicata del commercio, che riposar deve sopra la virtù e la buona fede, communemente si aggira 1° sopra la materia, 2° il lavoro e l’industria, 3° il trasporto, punti essenziali sotto i quali deve esser divisa. 


XXXIII. Materia.

Qui scorgo un campo vastissimo d’idee feconde ed amene! A questo nome di materia, tutti m’offre la natura i suoi possenti soccorsi. M’aprono i monti e le rocche il lor seno, e coll’ajuto del fuoco, a ruscelli faccio sortir dalle sue viscere i metalli ed ogni sorta di minerali: da un canto olj, zolfi, sali, bitumi, dall’altro vitrioli formati con un acido coagulato di particole metalliche, che ne provan i principj. L’acqua e la terra, tutti uniscon le loro offerte affinch’io ritrovi mille di commercio fonti inesauste. Se volgo lo sguardo su gli esseri capaci di dolore e di piacere, mandre vedo d’innocenti agnelli e pecore che docili mi abbandonano le ricche lor spoglie. Le più fiere belve vinte e soggiogate m’accordan mille tributi. I testacei, gli animali cinti di conchiglie, i rettili, i pesci, gli uccelli mi empion di meraviglia, non solo colle lor diverse figure e proprietà, ma coll’utilità che ne provo. Fra i deboli insetti, alcuni mi fan tessere stoffe preziose, altri miele, cera, balsami e generi d’ogni sorta mi procurano. Gli albori, le erbe e gli arboscelli, sì varj di colori, di grandezze, di forme e di proprietà, sparsi confusamente sopra la vasta superficie della terra, mi presentan nelle tre lor divisioni le qualità atte ad ogni genere di manifatture ed a vivificar con più e più modi il traffico. O sempre mirabili produzioni della natura! Se la sorprendente catena con cui si congiungono mi rende attonito, le immense ricchezze che possono procurare ad uno stato sono ben degne di occupar la mente di chi governa i popoli, acciocchè aperti sieno al di lui intelletto i laboratoj e le officine con cui essa natura forma i suoi travaglj. Non entrerò già troppo ardito senza vele e senza sartie a solcar un oceano di sì vaste cognizioni, ma atterromi soltanto a quel genere di materia che ci dà con tanta generosità la benefica agricoltura.

Questa dunque sarà il principale degli oggetti che formano il commercio. I mezzi i più efficaci per eccitar i popoli a procurarne una quantità sempre maggiore li ho già aditati con tutta la possibile chiarezza nell’articolo dell’agricoltura. Quanto più si esamina la necessità di multiplicar la materia, tanto più deve crescere altresì l’entusiasmo nel pubblicar i lusinghieri eloggj e l’indispensabile importanza della stessa, sempre suscettibile di maggior perfezione. Le produzioni della medesima sono di due sorte, i generi necessarj alla vita e gli altri per i piaceri e comodità della stessa.


Attenendomi soltanto alle prime, che consistono in ogni specie di grani e di altre derrate di prima necessità, sono di una tale importanza che converrà vederne i popoli sempre provisti, affinchè troppo non si incarisca il loro vitto. Non pretendo con ciò di sostenere esser necessario l’impedirne l’estrazione ed il libero traffico.[88] Le estrazioni non sono dannose che allorquando vengono concesse dall’avarizia degli intermediarj prepotenti a pochi uomini da’ quali si lascian corrompere, che li fanno incarire co’ loro monopoli; e possono essere rovinose anche quando un’estrema avvedutezza in un sovrano gli suggerisce il farne un privato ed esclusivo commercio.

Molti investigatori pretendono esser oggetto di perpetua abbondanza i pubblici granaj distribuiti nelle rispettive communità ed amministrati da’ capi delle medesime. E chi ci prommette di ritrovare in ogni luogo uomini sì occupati dell’amor della patria, sì pieni di probità e d’intelligenza, per gerirne l’amministrazione con giustizia e senza confusione? Il credere tutti gli uomini generalmente cattivi è forse minor difetto in un politico che il supporli tutti penetrati della più perfetta equità; e come poi trasmutar i Clodj in tanti Catoni colle presenti legislazioni?[89]


L’entrata e la sortita de’ grani dipender dovrebbe dal prezzo fissato ne’ pubblici mercati.[90] Allora la libertà di questo commercio accresce la fiducia in chi ne forma magazeni, assicura l’abbondanza alla nazione e fa sempre più circolarne la specie.

Ogni genere di commercio sarà sempre più utile se si avrà cura di spedire alle estere genti i prodotti d'industria e di riceverne quelle materie che possono essere trasmutate in manifattura; mentre il cangiare i generi semplici contro i travagliati sarà ognora il commercio il più rovinoso. Quanto minore è il lavoro delle merci che si ricevono da’ forastieri, tanto maggiore è il nostro guadagno; sempre convenendo agire in maniera che gli altri popoli ci paghino i prodotti della nostra industria colle specie o coi frutti delle terre: metodo di accrescer la nostra popolazione e di sminuire quella delle altre nazioni.

XXXIV. Industria e lavoro.

L’industria, secondo oggetto del commercio, è di una tale importanza che può far sussistere una infinità di cittadini, anche ne’ paesi ove un suolo ingrato non corrisponde agli sforzi indefessi de’ laboriosi agricoltori. Si può dire che sia il primo mobile del commercio, in quanto senza il medesimo non avremmo alcun prodotto dalla stessa agricoltura. È già un grande avvantaggio il possedere le prime materie, ma se a questo ancora si aggiunge un industrioso lavoro, le stesse materie che si ricevono dalle mani del provido agricoltore, prendendo diverse forme e perfezioni, ne multiplicano i prodotti nella pubblica circolazione. In fatti quante nazioni vi furono, e tutta via esistono, che co’ simplici frutti della loro industria attirano quelli dell’altrui agricultura e si procurano l’abbondanza con tutti i comodi che ne dipendono, benchè abitatrici d’ingrati terreni? L’industria ed il lavoro sono l’origine delle arti, de’ mestieri e delle manifatture. Ma quali saranno i mezzi d’incoraggirle e quale il metodo di procurarne la perfezione? La libertà, quella libertà protetta dal legislatore e da lui conservata ne’ limiti del dovere col mezzo de’ magistrati che ne impediscono gli estremi.[91] Lungi dal vero dispotismo tutte le esclusioni, le privative ed i monopoli che, per troppo arricchire i più cattivi cittadini, mettono una barriera insuperabile al genio dell’uomo, che, vedendosi concentrato, rientra colla pristina languidezza nell’inerte miseria.

Per avvalorare l’industriosa emulazione de’ popoli, dovrebbonsi eccitar le passioni co’ premj e distinzioni, sempre eloquenti pel cuor dell’uomo. Ognun che perfezionasse qualche arte o qualche mestiero dovrebbe esser premiato in proporzione dell’utilità che una tal invenzione può portare alla massa del commercio. Un più vago e particolare disegno nelle stoffe, un metodo, una machina per accelerare o migliorare un lavoro, essendo un risparmio del tempo troppo prezioso e sempre calcolato dall’ottimo fabricatore, saranno oggetti degni dell’attenzione de’ più illuminati sovrani, oggetti sì importanti, che sono le cause produttrici dell’industria e delle ricchezze di molti popoli.


Le manifatture in specie saranno l’oggetto della cura del mio regnante. Che col pretesto di averle sott’occhio, non sieno stabilite nelle troppo popolate capitali, ove la maggior carezza del vitto le rende meno fruttuose.[92] Esse dunque dovransi situare nelle campagne o nelle piccole città, lontane dalle tumultuose distrazioni e dalla facilità della corruzione de’ costumi, dove con minori spese si possono mantenere più operaj ed aver questi più attenti al lavoro. Dovransi pagare non a giornate, ma bensì in proporzione della quantità e qualità del medesimo, buon sistema per eccitare vieppiù il loro interesse a perfezionarle. Le manifatture che esiggono legna, pronto trasporto o continui soccorsi di prime materie grosse e pesanti dovransi situare alla marina o alle rive de’ fiumi per renderle ognor più lucrose, acciocchè una tale economia possa rientrare nella stessa massa generale di un sempre attivo commercio.


XXXV. Trasporto.

Il trasporto dipende dalla situazion locale e dagli avvantaggj che la benefica natura ha voluti ripartire alle diverse nazioni. La marina, che è il più importante, può esser cagione della ricchezza di un popolo. Tante sono le utilità che procura, che da sè sola è sufficiente per animare l’industria dell’agricoltore, quella dell’artista e dell’operajo. Essa fa smaltire i generi ed i prodotti delle terre e delle arti con minori spese e maggiori facilità, e ne’ più sterili paesi accrescer fa il numero degli abitanti. Coll’ajuto della medesima, si procurarono un esclusivo commercio i popoli laboriosi di Tiro, divennero formidabili i Cartaginesi, i quali conservato avrebbero una tanta potenza se la decadenza della marina, forse più della cattiva costituzione del loro governo e disciplina, non avesse forniti a’ Romani i più efficaci mezzi per distruggerli. Chi è padrone del mare lo è della terra, direi che così l’intendevano i Temistocli, gli Alcibiadi, i Geloni, gli Scipioni e tutti i migliori capitani e politici regolatori dei sistemi dell’antichità, se l’odierna esperienza non ce ne somministrasse le più evidenti ragioni. Lo palesino gli Spagnuoli, i Portoghesi, che, imponendone all’attonita ammirazione degl’Indi, eressero tanti barbari trofei fra le genti le più rimote. Lo dican quegli opulenti repubblicani che, scosso il giogo del più imperioso e più formidabile monarca, non contenti di dar leggi a’ regnanti dell’Asia, si resero perfin signori della pubblica circolazione; lo assicurano in fine gl’intrepidi Britani, veri domatori di quel infido elemento, che, regolando il destino di molti imperj, soli san conservar l’equilibrio in quell’Europa che ne ammira le morali virtù più ancor delle glorie.[93] Se la perfezione della marina mantiene alcune odierne nazioni nell’opulenza e nello splendore, e se la decadenza della stessa fece perdere ad altre molte possedute provincie, qual sarà quel sovrano che non ne comprenda la necessità di incoraggirla?


Quelle nazioni che ristrette e suffocate nel continente non ne estendono i limiti sino al mare colla congiunzione dei laghi e fiumi, la formazion di molti canali, possono, all’esempio degli industriosi Cinesi,[94] servirsi delle acque per l’irrigazione de’ campi come per la navigazione interna, che sempre procurarebbe parte di que’ vantaggj che loro niega il mare, facilitando il trasporto de’ generi ed una maggior quantità di prodotti. Per simili popoli vi sono altri mezzi di render più agevole il trasporto, de’ quali non fo quivi alcuna menzione, mentre piuttosto spettano alla polizia conservatrice dell’abbondanza, dei comodi e della sicurezza.

Ma a che serve parlar dei mezzi che fanno fiorir il commercio se non se ne distruggono gli ostacoli? L’usura, che ne è il principale, arma la mano di alcuni uomini avidi e perniciosi per empiere le società di confusioni e di rapine. Si è questa che obbliga il laborioso agricoltore di contentarsi di un pane affumicato, che in lui snerva la forza ed il coraggio, che sminuisce le penose cure dell’artista e dell’operajo e che limita le intraprese de’ uomini industriosi. E chi potrà annoverare i guai che cagionasti a tanti popoli, chi le leggi le più crudeli che rendevan vittime di pochi indolenti i più valorosi romani? Chi le sedizioni in fine di quella e di altre genti, tante volte esposte alle guerre civili, alle rapine ed alle straggi?

È incontrastabile che ogni legislatore, conoscendo esser questo un vizio fatale alle costituzioni di un governo ed ai progressi del commercio, non mancò di lasciarne favorevoli leggi; ma data la cura dell’esecuzion delle medesime da’ sovrani successori a chi ne era interessato negli eccessi, inutili divennero sì provide disposizioni.

Le leggi e le pene più severe non basterebbero, anche oggidì, ad impedire i tristi effetti di un mostro sì vorace, se il sovrano non stabilisse un pubblico banco,[95] ove ogni suddito con pegni ed altre sicurezze possa ritrovar qualunque somma con un interesse fissato dall’umanità dello stesso legislatore,[96] proporzionato a’ bisogni ed alle circostanze; stabilimento salutevole che impedirebbe molti fallimenti, i monopolj e la rovina di tanti sudditi, la di cui industria passa a contribuire alla ricchezza di altre nazioni.

XXXVI. Circolazione.

Se vien dimostrato dalla giornaliera sperienza che la felicità di uno stato e la sovrana autorità di un regnante aumentano in proporzione dell’opulenza dei particolari, figlia dell’agricoltura e del commercio, non è al certo meno incontrastabile che le ric­chezze non procurano un tale avvantaggio che fin che sono sparse e diramate per tutte le provincie di un impero. Venendo allora versate dalla provida mano del sovrano sopra sudditi affettuosi, a lui se ne ritornano, come il sangue che, uscendo dai seni del cuore, centro della circolazione, doppo avere del suo balsamico liquore riempiute vene ed arterie con un periodico e libero corso più fiate al giorno con rapidi rivi, volontieri a lui sen ritorna; che se mal vien distribuito, se impingua di sanguinei umori soltanto certe vene, privandone molte altre, lascia allora le estremità di un corpo fisico in una sempre fredda paralisia senza moto e senza vigore; così le ricchezze, mal dirette da una odiosa parzialità o da un assurdo capriccio d’impinguar la capitale o qualche prediletta provincia, lasciando le altre scarse de’ loro benefici fluidi, accagionano al corpo politico crisi in un pericolose e funeste. Dunque, quanto più grande sarà la disproporzion delle ricchezze in uno stato, altrettanto maggiore sarà la sua miseria e più vicina la sua fatal decadenza.

La circolazione dunque sarà l’anima del movimento interiore della prosperità di un popolo. Quando parlo di circolazione, non intendo solo dell’oro e dell’argento e di altri segni di rappresentazione dei generi e delle merci, ma dei generi e delle merci stesse, e di tutti gli altri prodotti della natura e dell’arte; circolazione che costituisce il commercio interno di uno stato, senza di cui inutili sarebbero quelle profonde speculazioni che tendono a trasportare i nostri prodotti alle più recondite terre ed il procurarci l’abbondanza di quelli degli altri popoli.

Quando i generi o altre merci d’esteri climi avranno nell’entrare de’ nostri stati pagate le tasse ne’ porti o ne’ confini, e che i frutti dell’agricoltura o dell’industria avranno contribuito sopra i carrichi delle terre, perchè aggravare il commercio di tanti inutili dazj e gabelle che, oltre il defraudare il lucro di chi negozia, apportano tanti ritardi alla stessa circolazione? Il tempo che vi si perde può essere impiegato dal sagace negoziante e dal laborioso manifatturiere in altre nuove speculazioni che aumentarebbero sempre più la pubblica opulenza.


La prontezza delle spedizioni resa più facile dall’invenzione del cambio, che deve la sua origine alla persecuzione,[97] è un nuovo fondo di commercio che, in concorso di altre nazioni più lente o più imbarazzate da governi meno illuminati, può procurare nuovi mezzi di fornire merci con maggiore avvantaggio per la diminuzione delle spese. Oggetto tanto più interessante quanto è più vasto ed esteso il commercio.

La riduzione di tante complicate imposte, e queste fatte facili e semplici, non solo renderebbe il traffico più agevole, ma diminuirebbe sempre più le frodi, le vessazioni e le spese dello stesso sovrano, che troverebbesi in istato di avere un numero maggiore di soggetti per la marina, per le truppe e per altri impieghi di pubblica utilità. Renderebbesi in questo modo più pronta la circolazione d’ogni ricchezza, e sempre più sicura la felicità e la quiete che deve parimente circolare in tutti gli stati della società, se ha da esser ben organizzato il corpo politico e perfetto un governo in ogni operazione.


XXXVII. Finanze.

Essendosi gli uomini uniti per formare società, ciaschedun di loro, nel rinunciare la più piccola parte possibile di libertà naturale per farne un pubblico deposito di autorità o un sovrano, acciò conservar si potesse colla commune armonia il vigor del contratto e l’unità di azioni nello stesso, volle obbligarsi di contribuirgli un certo numero di azioni e di travaglj, affin di esser condotto a quello scopo di difesa e di felicità che si propose in una tale rinuncia. Ecco l’origine delle imposte e di ogni finanza, che ne’ primi secoli, secoli di semplicità e di buona fede, non consistevano che in serviggj e fatiche, le quali da’ sovrani venivano dirette a loro utile privato ed a quello del pubblico. Finchè si conservò un tale sistema eran più numerosi gli eserciti, perchè poco costavan a’ principi, che nel tempo di pace impiegavano le mani laboriose de’ sudditi nel fabricar vaste e superbe città, fortissime rocche, o se ne servivano per la costruzione di altri grandiosi edificj, non meno sorprendenti per la particolarità dell’archittetura che per l’amenità e solidità de’ medesimi. Quindi, se si riflette alle fatiche di tante numerose nazioni che vi venivano impiegate, non avremo più luogo di dubitare nè di essere soprafatti da una cieca ammirazione nel considerare i palazzi, gli obelischi, gli acquedotti, le piramidi ed altri simili superbi monumenti dei Nimbroti, dei Nini, delle Semiramidi, dei Sesostri e di altri potentissimi sovrani che regnarono fra i Babilonesi, gli Assirj, gli Egiziani ed in altre spaziose e popolate contrade dell’antichità.

Durarono simili imposte finchè, maggiormente dilatato il funesto diritto di proprietà, si resero più disproporzionate le ricchezze fra’ cittadini. A misura che il commercio e le monete s’introdussero, i ricchi si sostrarono a tante pene e travaglj, ed indi, venendo più grato al legislatore l’aver mezzi meno complicati perchè più facili ad incamerare, permise che anco i popoli liberar si potessero dall’obbligo di tante pene, contribuendo invece con quella quantità di monete che capaci eran di pagare, o almeno con una porzione di certi generi ed altri frutti della loro laboriosa industria.

Se fossero più ricchi i principi dell’antichità colle braccia de’ sudditi, a’ quali con libertà ordinavano qualunque sorta di travaglio, o gli odierni sovrani colle loro finanze, meriterebbe un’opera ugualmente lunga che erudita, per addurne le prove che militano per l’una o per l’altra parte. È certo però che non venendo le odierne nazioni distratte da tante penose ed alle volte inutili fatiche e da guerre sì arbitrarie, possono più facilmente godere i frutti di un pacifico governo e chiamarsi assai più felici.

Cangiato il sistema delle contribuzioni, il voler fissare in che consistessero le prime imposte pecuniarie o generiche dei diversi popoli sarebbe un ingolfarmi in un pelago di dispute e di erudizioni molto difficili ed inutili alle mie speulazioni, le quali non si aggirano che sopra que’ mezzi che possono render opulente le odierne nazioni.

Quantunque sia impossibile lo stabilire un piano d’imposte che ugualmente possa convenire ad ogni popolo, diversi essendo i gradi d’industria, le qualità de’ suoli e dei climi, le situazioni locali, i vari mezzi del commercio, nulladimeno si può sempre assicurar che tutte quelle tasse che mettono a contribuzione le prime materie atte alle manifatture ed alle arti, o che fanno languir l’agricoltura e soffrire il commercio e la navigazione, sempre saranno onerose e pregiudicievoli.

La capitazione, che sembrò ad alcuni legislatori la più facile e la più lieve, la ritrovo sì gravosa che sola può esser capace a rovinar una nazione ed a suffocar fra la medesima ogni germe di industria; non essendo in vero cosa assurda ciò che vien notato da’ più profundi scrittori, non esser soltanto la trasmutazion della fede ma questa onerosa imposizione la cagion della decadenza del romano impero. I diversi popoli, non potendo più supportare un dominio così odioso, vollero piuttosto sottomettersi ai barbari che vedersi vittime dei pubblicani, i quali con tante vessazioni rendevano un giogo già sì duro sempre più insupportabile.


Il formare un fondo di finanze nelle pene pecuniarie è lo stesso che interessare il fisco[98] ed il sovrano nella depravazion de’ costumi e far desiderare che si commettano delitti. Il pretender di misurar gli onori e le dignità coll’oro è lo stesso che il confonderlo colla virtù, di cui il più delle volte è il corruttore. Se si toglie al merito una tal ricompensa, come si animeranno gli uomini alle belle azioni?

Che le terre non siano le sole a pagar le imposte, poichè cadendo il peso sopra l’agricultore ed il possessor delle medesime, resterebbero aggravati questi due stati i più utili alla società, quali conviene incoraggire.

Le imposte sopra le farine, il sale ed altre consumazioni di prima necessità, ben regolate, saranno le più utili sì al principe che al popolo. La riscossa delle medesime, essendo sicura ed impercettibile, sarà la meno onerosa. Se si risponde che in tal caso i contadini e gli operaj, che hanno numerose famiglie, saranno più aggravati dei ricchi, allora soggiungo che non potrà arrivare un tal errore se il legislatore, ad imitazione di molti principi e repubbliche dell’antichità, dividerà i contribuibili in più classi secondo i loro mezzi. Fatta questa distribuzione, se verrà fissato che i cittadini delle classi più povere sieno sollevati in un tal pagamento in proporzione del numero delle figliuolanze, allora una tal imposta non solo cessa di esser gravosa, ma diviene un nuovo metodo per incoraggir la popolazione nel multiplicarsi sempre più i mezzi della sussistenza fra gli uomini. Se il timore che tali distinzioni, troppo incoraggendo la popolazione, riducano a nulla le imposte, spaventa qualche sovrano, deh! non tema, poichè, accresciuto il numero degli abitanti, multiplicata l’industria, perfezionata l’agricultura, vieppiù si aumenteranno le di lui finanze. Stabilite le imposizioni in modo che sollevata si trovi l’agricultura e l’industria, ed ognor più aggravato il lusso,[99] fate, o despota, che chi è più ricco o più ozioso assai più degli altri contribuisca a’ pubblici pesi. Che le contraddizioni di alcuni poco illuminati non vi ributino, che i sediziosi lamenti degli ecclesiastici, che esimer si vorrebbero dal mantenere il sovrano, non vi intimoriscano e che le grida di un popolo più ignorante che ingrato non rallentisca il vostro fervore. Stabilita la bilancia, s’accorgeranno ben presto i buoni cittadini che siete un eroe magnanimo ed un padre affettuoso.

Tutti que’ pesi che oltrepassano il bisogno e la vera prosperità di uno stato, avendo per origine la tirannia, saran contrarj a’ principj di un vero dispotismo. L’oppressione accaggiona le sedizioni e le mutazioni di governo, e spesso la libertà.[100] Un popolo infelice, che nulla ha da perdere, facilmente si porta agli eccessi; e questi, come ben dice Salustio, sempre cominciano da’ più poveri, che sono i più pronti ad intorbidare lo stato perchè trovar vi possono qualche profitto. Giacchè gli uomini vi hanno fatto padroni, sappiate, o sovrani, che nella loro rinuncia non pretesero di eriggere un idolo di crudeltà, di sorte che, se il desiderio di renderli felici non empie il voto del vostro cuore, quantunque despoti sarete gli uomini i più infelici; ma che dico despoti? sarete tiranni.

Che importa ad un sovrano l’aver nel proprio tesoro minori ricchezze di un altro, se mantien avvincolati i cuori con multiplicati beneficj?[101] O forza incantatrice della beneficenza, chi può resister alla tua attrattiva? Ben ti conobbero i più celebri regnanti, che volevan piuttosto rinunciar a nuove imposte che diminuire ne’ sudditi un amore che li rendeva ognor più fortunati e possenti. Arriva un giorno dalla reggia alla superba capitale il grande Enrico IV per far registrare nel parlamento una nuova tassa, perchè costretto da un nuovo bisogno; ma più non vedendo in que’ cittadini il noto entusiasmo, con cui soliti eran di accompagnarlo fra gli evviva e le grida di giubilo, grida che ispira la riconoscenza, resta attonito, versa lagrime di dolore, esita per poco, si risolve e sen ritorna dicendo: Amici, ritorniamo, non si pensi ad altre imposte, assai più del denaro bramo possedere i cuori de’ miei sudditi fedeli, e vederli ricchi e contenti. S’accorge il popolo della risoluzion del monarca, a lui si affolla d’intorno, cangia il tristo silenzio in un pianto di amore e di tenerezza, ognuno a vicenda vuol vedere il suo tenero padre, si radoppian le acclamazioni, si rinovan le proteste di affetto ed il ritorno alla reggia diviene un trionfo; trionfi lusinghieri, che, formati dalle più dolci sensazioni, più vaglion de’ sanguinarj trofei che si erigon nei campi di Marte e che, rendendo i principi opulenti, soli li innalzano al più assoluto potere.

XXXVIII. Seguito delle finanze e delle Ferme.

Non basta che le imposte sieno lievi e ben distribuite, ma anche riscosse con prontezza, con facilità e senza aver d’uopo di ricorrere a certi mezzi che rendono odiosa l’autorità di un sovrano. Ogni metodo troppo difficile e complicato è l’origine della miseria sì de’ sovrani che de’ sudditi; mentre quando le rendite di un principe passano per molte mani, arricchendo diversi particolari che sono incarricati di deporle nell’erario, appoveriscono il sovrano e la nazione. A guisa del Reno, che volgendo maestosamente le sue onde rapide e veloci si unisce nel suo corso a diversi fiumi che gonfia, spandendosi in torrenti per alcune campagne che rende desolate ed inculte, finisce poi come un picciol ruscello che perde nelle arene il nome e la gloria; simili finanze, doppo di aver arricchiti i cittadini più cattivi, non apportano al sovrano ciò che gli è d’uopo per sostenere i complicati pesi del principato. Ecco come, per supplire a tante fattizie necessità, comincia un governo ad aggravar una nazione, per indi ridurla agli ultimi periodi della sua decadenza.


cadenza.


La maniera la più viziosa di levare le imposte e di riscuotere le regalie saranno le Ferme, mezzo suggerito dall’avarizia di cattivi ministri, prodotto da’ nemici del genere umano ed inventato da que’ favoriti che assai più amano il proprio interesse che i veri vantaggj e la gloria de’ regnanti che governano. Se alcuni sovrani vengono ingannati dalle apparenti utilità di alcuni avanzi fatti al bisogno da’ fermieri, avviene dal non penetrare a sufficienza i mezzi distruttivi che li pongono in istato di accordare tali somme, l’importanza delle quali sola è capace di scoprirne l’arcano. Mezzi son questi e facilità, dice il più celebre autore de’ nostri tempi, che rovinarono la Francia. [102]

L’introduzion delle Ferme non può aver luogo in una nazione senza rompere le convenzioni tacite o palesi che si fecero nell’originario stabilimento delle società. Dovendo un sovrano accordar a chi le dirigge la forza per farle valere, crea una nuova potenza che urta ogni principio di sovranità e che, favorita dall’oscurità delle leggi, si erigge in osservatrice delle azioni de’ sudditi, che, non avendo la voce sì forte per farsi sentire sino al trono, sono sicuri di non trovar giustizia avanti i magistrati stipendiati dai tiranni che li fanno agire; potenza sì distruttiva che inutile rende ogni buona intenzione del regnante per renderli felici.


E come sarà mai possibile l’offrir al pubblico un più tristo spettacolo delle umane sciagure, di una imagine viva e spirante delle concussioni sotto le quali gemono gli uomini in un simil governo? La maggior parte delle entrate defraudate al sovrano e sortite tal volta per sempre dallo stato, la general coruttela di quasi tutto un ministero,[103] le frodi e le rapine e fin gli omicidj sofferti e rimunerati, le pene rese arbitrarie,[104] il ricco sempre d’accordo co’ fermieri a perseguitar l’innocenza, la modestia e l’onore che non han più ricovero, i sudditi, fra gli spasimi delle torture, strascinati anche al supplicio coll’autorità di giudici profusamente guadagnati dalle Ferme, non sono oggetti ad inorridire un filantropo? E chi potrà mai descrivere tutti i disastri di cui sono cagione se hanno la forza di assopire l’industria, di rovinar l’agricultura, di far languire il commercio, d’indebolir il vigore della legislazione e di obbligare i migliori cittadini di abbandonare la patria, per trovare alle loro rovinate famiglie qualche sicuro asilo? In questa guisa avvien poichè, ridotta parte della nazione dalla miseria a vivere del vile mestier di delatore o di quello di satellito, moltiplicandosi il numero de’ vagabondi ed oziosi, si corrompono i germi della virtù e di ogni più sacro dovere. Ma come ragiona il sovrano che appalta i diritti di riscuoter le imposte? In tali accenti: Diminuirò le mie rendite, ma non avrò tante inquietudini, e per evitar tali cure, che non sono invero tanto difficili, alienerò alcune porzioni della mia sovranità per conferirle a chi non sarà che troppo sollecito a rendermi odioso presso de’ miei popoli.

Non sarà possibile, doppo tante considerazioni, doppo l’esperienza di molte nazioni rese esauste e desolate, che i gemiti di tante famiglie oppresse e profughe per timor di divenir lo scopo della vendetta di un vil delatore, i tanti monopoli contro la salute de’ cittadini, non sieno ragioni sufficienti a movere i cuori clementi e sensibili degli odierni regnanti, affin di animarli ad allontanare dal genere umano tante sventure, che ci richiamano alla memoria i regni assai meno crudeli dei Busiris e dei Domiziani, tollerati in un secolo di umanità e di dolcezza in quella stessa Europa ove sopra il trono delle nazioni non siedono che principi magnanimi e generosi?

Il reggere le proprie finanze, l’incamerare ogni regalia ed imposta sarà uno de’ più sacri doveri del mio despota, che, oltre il procurargli maggiori ricchezze, gli farà riscuotere i voti della più viva riconoscenza, unico metodo per conservare l’unità di azioni in un governo. Siccome una quantità di esattori sono necessarj per riscuoter le entrate, egli è sopra i medesimi che, ad esempio del gran Giuliano, deve obbligare i magistrati ad invigilare, affinchè colle loro avanie non intorbidino la troppo preziosa tranquillità dello stato e la fiducia de’ popoli nella sua giustizia, nodo dolce e sensibile ove convien che si uniscano gli interessi d’ogni società.


XXXIX. Mine.

La natura, sempre provida ai bisogni degli uomini, nutrisce fra le sue viscere i benefici metalli, quali mezzi possenti di rappresentazione dei generi e di tutte le altre merci, affin di render le finanze più agevoli ed il commercio più pronto nelle sue operazioni. Gli stessi metalli, sottoposti già da lungo tempo[105] dall’ingegno nostro a prender qualunque forma, ci forniscono strumenti per render le arti, i mestieri e le scienze stesse sempre più facili, ci procurarono armi taglienti, indi quelle con cui resi ci siamo immitatori dei folgori del cielo affin di difenderci dagli impeti furiosi delle belve, dalle quali altrimenti trovare non potremmo scampo e sicurezza. Felice il genere umano, se di questi doni non si fosse servito e tutta via non gli impiegasse per vicendevolmente distruggersi, a guisa di certe fiere che, per meglio alimentare alcuni dei proprj parti, gli altri sagrificano alla famelica loro voracità.

La ricchezza delle mine nelle mani generose di un principe possono essere i mezzi per sollevare la miseria de’ popoli, poichè, contento di quelle doviziose spoglie, non è più necessitato a soverchiamente aggravarli. Si guardi però che l’inclinazione di allegerire i sudditi da molte imposte gravose ciecamente non lo trasporti a sagrificare tante vittime innocenti fra gli oscuri ed orribili recinti del seno della medesima natura, ove i vortici anneriti dal distruttore Mercurio colla malignità del suo venefico fumo loro accorcian la vita. Al travaglio il più pericoloso e più difficile di queste mine devonsi condannare i rei dei delitti capitali e gli uomini i più perniciosi della società, nè giammai permettere che i buoni cittadini vi concorrano, almeno che non si trovino altre materie separatrici migliori del venefico Mercurio, che sempre non si inviscera col metallo e che sempre non lo separa dalla feccia della massa minerale.

Coll’invenzione di certe machine di una miglior composizione, si potrebbe benissimo con assai minor numero di gente tirare una assai maggiore quantità metallica, se a tal effetto si accordassero generose ricompense ai più sapienti matematici ed artisti, per incoraggirli a ritrovati sì necessarj che tanto beneficherebbero l’umanità. E perchè non si dovranno anche co’ premj animare i chimici,[106] allontanandoli da certi chimerici ed entusiastici pensieri ne’ quali rovinan lor stessi e la società, affinchè colle profonde loro speculazioni e reiterati esperimenti ci ritrovino l’arte, difficile sì, ma a mio parere sicura, di rendere la separazione più facile, ed i metalli sempre più malleabili e pieghevoli ai nostri bisogni?

XL. Economia.

Se i principi non venissero stimolati ad opprimere i popoli che da un cuore corrotto, da principj inumani radicati nell’animo o dal piacer di veder le nazioni miserabili ed infelici, ad un assai picciol numero si ridurebbe lo stuolo copioso de’ tiranni, de’ quali pur troppo, a perpetua ignominia della umana specie, ne vanno arricchite tutte le storie. Analizzando le nostre passioni, trovando nel desiderio di evitare il dolore e di procacciarsi il piacere l’unico promotore di ogni azione, non posso andar persuaso che un tale stimolo sia solo capace di portar l’uomo ai delitti per ritrovarvi delizia e contento, quando, a misura che il mortale s’approssima alla tenebrosa carriera de’ reati, sempre più si va immergendo nell’abisso del dolore che la propria natura gli addita d’isfuggire. Essendo adunque pochi que’ sventurati ne’ quali un deciso carattere di crudeltà e di barbarie soffoca le vere cagioni prodottrici delle utili azioni, vi dovranno in conseguenza esser altre cause fisiche e politiche che possano apportare un tal sconvolgimento.

Prescindendo da quei governi ove i principj di amministrazione non possono esser fissati per qualche fatal combinazione di circostanze, che al mio soggetto non appartengono e che inutile sarebbe lo svilupparle, egli è sicuro che in tutte quelle regioni ove l’autorità di un monarca trovasi assodata o dall’autorità delle leggi o dalla stessa necessità delle nazioni, la concussione de’ popoli sovente non ha altra origine che la mancanza di lumi in chi dirigge sì la pubblica che la privata economia del sovrano, o certe virtù nel medesimo che, portate all’eccesso e mal dirette, vizj divengono e cagioni delle afflizioni de’ sudditi.


Non entrerò in una lunga discussione di tutte quelle virtù che, facilmente portate all’eccesso da’ reggitori degli uomini, possono divenir il veleno della società e la loro propria rovina. Un esatto dettaglio mi trasporterebbe troppo lungi dall’idea prefissami. Fra le molte, l’amicizia, sentimento dilettevole e generoso in ogni uomo, ma più in un sovrano, elevando favoriti, dando motivo alle più nocive profusioni, può divenire un sentimento di pubblica mestizia. La generosità è una magnanima e necessaria virtù finchè, occupando il cuor di un principe, spande un fluido benefico nella nazione, che ne rissente i dolci effetti, ma se viene cangiata in prodigalità fonte diviene di mille mallori.[107] I frutti della laboriosa industria di una nazione, le dovizie delle sue mine, i prodotti di un vasto commercio, versati a larga mano sopra i più perniciosi cittadini per nudrir nell’opulenza i fautori de’ vizj del principe e chi sa destramente fornirgli mezzi per satollare un lusso insano, empiono di languidezza i sudditi virtuosi che si corrompono. Reso esausto l’erario, scemate le finanze, consunte le regalie, si cercano mezzi per rimediare a’ bisogni dello stato, che, se viene attaccato da un nemico più prudente, trovandosi indebolito, vittima diviene dell’altrui forza. Quindi per guarire da tante sventure si sentono con piacere gli abbominevoli progetti degli uomini più cattivi e si premian i magistrati che, fra i pianti di un popolo afflitto e desolato, sanno con un barbaro coraggio cavare le ultime stille di quel sangue che, altre fiate ben circolato, fu la cagione della pubblica opulenza.

Tale è la marcia della prodigalità in un regnante, che gli apre il cammino sempre funesto alle più dure concussioni, dimentico di quell’amore che, ben lungi di farlo circolare nel pubblico, lo tien concentrato nel seno de’ suoi favoriti, de’ quali spesso prova la turpe ingratitudine. Ed avvien così che la noja ed il fastidio s’impadronisce o de’ principi, quando più non han con che donare, o de’ favoriti, quando più non han che pretendere.[108]

Ecco gli eccessi a’ quali una mal diretta generosità ed altre virtù divenute vizj, perchè allontanate dal vero centro, portano alcuni principi a divenir peggiori delle tigri, le quali almeno i loro parti nutriscono, se fanno straggi di altri animali.

È si importante l’oggetto di una ben calcolata economia che, senza la medesima, inutile stato sarebbe il valore e la sapienza di certi principi ad asservire molte nazioni; essa è che, mal diretta, fa languire nell’indigenza tanti popoli anche fra’ segni di una prosperosa opulenza, di suoli fecondi e i più segnalati dai favori della natura; ma ben lungi poi che le soverchie ricchezze in un erario ed un’eccessiva economia apportino una sì benigna influenza, accagionando la mancanza di circolazione, recar potrebbero effetti ugualmente tristi delle più dure concussioni, alle quali vengono assoggettati certi popoli, ove i sovrani con un esausto erario gemon fra’ disordini.

Non avendo il mio regnante alcun favorito, diretto essendo il di lui ministero dalla virtù, l’onore e le distinzioni essendo il premio il più grato, non si consumeran le sue finanze in tante nocive ed inutili profusioni.

Lasciato nella circolazione quanto basta per incoraggir l’agricultura e vivificare il commercio, riservisi l’avanzo per i bisogni dello stato, principalmente in un secolo ove, tutto essendo fattizio, le specie metalliche son divenute un necessario alimento d’ogni sociale potenza. Che non sia però da lui abbandonata la virtuosa indigenza. Venghino ristorate le provincie che soffriron dalla grandine o da disagj, che il pudore periclitante sia sostenuto, che i veri serviggj de’ sudditi buoni e valorosi non sian dimenticati, mentre il lasciarli in oblio gemer farebbe il merito che implora soccorso. Non accordi a persone contaminate di delitti salarj e pensioni, perchè sarebbe un defraudarle a chi ne ha un autorevole diritto, e coraggiosamente ne privi, ad imitazione del prudente Adriano, chi è destituito dei veri principj di giustizia per aspirarvi.[109] Ecco come la generosità ben condotta sa felicitare un popolo ed esser per fino il sostegno di un vero dispotismo.

XLI. Divertimenti del principe.

Che dirò delle feste e dei piaceri che, impadronendosi colle più fine lusinghe de’ cuori de’ sovrani, li portano talvolta al fasto ed alla mollezza, li allontanano dalle utili occupazioni e loro fanno dissipare quelle stesse finanze che non sono accordate da’ sudditi che per la pubblica conservazione? Non mi perderò in vane ostentazioni di precetti di una morale dura e severa contro il lusso delle corti, rovinoso quando è eccessivo, necessario allo splendor de’ sovrani quando è moderato.


Il voler loro insinuare una spartana frugalità, in un secolo ove gli oggetti vanno osservati con minore entusiasmo ma con maggior precisione, sarebbe uno scrivere ciò che non può convenire che ad un governo imaginario e chimerico. Dirò che quando i piaceri non sian di quelli che tendono a corrompere i cittadini ed a distoglier i sovrani dagli affari, non possono esser dannosi alle grandi monarchie.


Il lusso ed i divertimenti delle corti devono essere in proporzione delle forze. Se è assurdo in un principe ricco e possente il privarsi di ogni spettacolo ed il viver senza decoro, sarà un oggetto ridicolo e dispreggievole il vedere un picciol sovrano, vinto da una apparente grandezza, vivere orgoglioso nei confusi tumulti di una splendida corte fra le feste e le veglie, spesso insultando alle pubbliche e private sciagure, imitar ne’ vizj i più turpi i Commodi e gli Eliogabali, intorpidito nella pomposa inerzia, che seppe per fin roversciare i più possenti imperi. Ma vediamo quali siano i divertimenti che posson convenire ad un vero despota.


Egli, che odia ogni allegrezza se non la divide co’ sudditi, deve sbandire le vane ostentazioni di una soverchia pompa, che costan gemiti all’indigenza e pianti al popolo avvilito. Alle nozze, alla nascita di eredi o ad altri simili oggetti di pubblica gioja, ben lungi di farli contribuire a spese gravi e sfarzose, abbandona i tornei, i troppo sontuosi spettacoli; e que’ divertimenti grandi, sebben limitati, che accorda al pubblico piacere, affinchè siano goduti con maggiore diletto, li previene con qualche allegerimento, qualche editto favorevole a’ popoli, o con nuove leggi, che sempre più guarentiscano la moltitudine dagli insulti del prepotente. Ecco come una sincera consolazione, circolando ne’ cuori di un tal popolo, gli rende grati i divertimenti, perchè preceduti dalle prove dell’amor del sovrano. Simili piaceri che loro degna communicare non saranno già della natura di que’ congiarj usati dagli imperadori romani, piaceri sì distruttivi che tal volta furono la cagione della tirannia e della perdita degli stessi regnanti.[110]


Fra i divertimenti de’ quali possono occuparsi i sovrani, la musica è uno de’ più aggradevoli ed innocenti. Commove i cuori e può rendere i loro sentimenti sempre più inclinati all’amenità, purchè, abbandonando le pubbliche facende, non pretendan di governare i popoli in cadenza[111] La caccia sembra in vero a primo aspetto utile e necessaria; ma riflettendo a’ tristi effetti della medesima, non posso far a meno di riguardarla con orrore: ha il potere di troppo alletarne i regnanti, che, lasciando al ministero la cieca cura del pubblico bene, precipitano tal volta i popoli nell’abisso delle angoscie. Il barbaro piacere di trovarsi fra le belve esangui può minare poco a poco i principj di dolcezza ne’ giovani principi, che tal volta si accostumarono a versar con indifferenza anche il sangue umano. Se è necessario qualche divertimento corporale per mantener la salute de’ sovrani, mille ve ne sono stati, cari agli antichi, più capaci della caccia di mantenere l’agilità e la robustezza.[112]


Le leggi proibitive, il crudele rigore e la brutalità di coloro che son pagati per vegliarvi non sono forse cagioni che possono assicurare esser le medesime del tutto opposte al bene de’ popoli? Le legna ne’ boschi restano infruttuose, le belve si multiplicano e devastan i campi, divorando alla preferenza degli attoniti ed impauriti agricultori, che non hanno il diritto d’impedirlo, i frutti dell’industria e delle indefesse fatiche. E tacerò poi l’insano costume di alcuni sovrani, nuovi Neroni, che ne’ miei viaggi d’Allemagna mi fece più volte fremere? Questi, per la mania di voler caccie estese al par di quelle de’ monarchi, riducono alla meschinità que’ pochi sudditi de’ quali la sorte ha per eredità loro confidato il governo, cangiando in deserti le più amene e le più fertili campagne. Quindi poi si vedono tante emigrazioni, sortire i popoli a schiere, abbandonar i domicilj e correre da forsennati a cercare in altri stati, non ad arricchirsi, ma i mezzi soltanto di far sussistere le loro languide famiglie; que’ stessi mezzi che con tanta inumanità loro vengono rifiutati dall’ingratitudine e dalla inumanità de’ loro carnefici, piuttosto che sovrani, quali a mio parere sembra che così se la discorrino: Cosa sono mai questi uomini che i filosofi ci dicono di rispettare? Giammai contenti del loro stato, il ben essere li fa gettare sguardi arditi sopra chi li governa. Affin che sian sommessi, manteniamoli nella servitù; non contenti di averli resi miserabili con leggi sì dure, insultiamo co’ nostri divertimenti a’ loro gemiti. I cervi ed i caprioli veloci, i cignali voraci, tutti i selvatici devastino i loro campi. Guai a chi li uccide, la vita di un tal uomo paghi pur quella della belva, tremi in fine chi osa disturbar i nostri piaceri.

I viaggj, se servono d’istruzione a’ principi prudenti, possono rovinar le finanze di que’ regnanti che amano la magnificenza e che non pensano quanto costa a’ popoli, alle provincie il fasto delle corti sontuose che li accompagnano.[113] Il vero despota, ad esempio degli Adriani, dei Marc’Aureli, ma assai più del regnante AUSTRIACO CESARE, viaggierà le regioni del suo impero senza lusso e senza fasto, pel solo piacere d’informarsi de’ bisogni, delle ricchezze, del commercio dello stato. Dimentico della grandezza della sua eminente dignità, con una magnanima semplicità di costumi accoglierà con maggior bontà il negletto agricultore ed il rozzo artigiano che il ricco imprudente ed il nobile orgoglioso. S’informerà dello stato delle provincie e delle città, allegerendo quelle che soffrirono della penuria, degli incendj, delle aridità e più delle rapine de’ prepotenti ministri; in altre lascierà monumenti di munificenza con edificj di pubblica utilità. Sentirà con piacere e riconoscenza chi, vincendo il timore che imprimon i grandi, avrà il coraggio di rappresentargli i diritti de’ popoli oppressi dall’avidità de’ fermieri e dalla venale cupidigia di chi si avvilisce col proteggerli. Colmerà di grazie e di favori chi avrà il nobile ardire di eriggersi in accusatore dei delitti de’ grandi e de’ magistrati, e punendo fra di loro i rei insidiatori dell’innocenza, renderà oggetto di pubblica stima chi non si abusò d’un intermediario potere. Severo coll’oppressore, getta uno sguardo ridente e grazioso sopra l’innocente, che si consola. Vero ispettor de’ costumi, della militar disciplina e dei doveri di coloro che devon vegliare alla pubblica e privata sicurezza, darà alle attonite nazioni tali esempj di umanità, di dolcezza e di virtù, che avran l’ascendente di riformar i popoli i più intorpiditi negli abusi trasmessi dalla cieca abitudine.

Ecco i divertimenti che, oltre i molti altri che si presenteranno al leggitore nel progresso dell’opera, parlando de’ diversi oggetti della sociale felicità, daranno un’idea come un buon regnante, anche fra i piaceri, può gustare il contento della pubblica amorevolezza, che sola è capace di costituire in un sovrano il più assoluto potere.


XLII. Necessaria emulazione alle scienze ed altre utili cognizioni.

Le scienze, le lettere e le belle arti ebbero in ogni tempo la forza di abbattere la superstizione[114] e di raddolcire i costumi delle nazioni. Quelle che più le coltivarono si resero le più forti, di modo che, quasi in ogni clima, l’epoca delle filosofiche cognizioni fu quella della prosperità dello stato, epoca tanto più interessante che, debellando la tirannia, figlia dell’ignoranza, ed i governi licenziosi, ajutò ad introdurre la libertà giusta e ragionata o il vero dispotismo.

In fatti giammai non fu più dolce e più assoluto il potere degli egiziani regnanti che allor quando, resi coltivatori della filosofia, la seppero far amare a’ popoli, che divennero i più felici ed i più opulenti, effetti che provarono ancora i Caldei ed i Persiani. Passando le scienze nella Grecia, ne mitigarono i costumi e la resero ognor vittoriosa delle innumerevoli schiere e flotte de’ barbari,[115] indi distruttrice de’ medesimi e di mille innanzi ignorate nazioni, che succomber dovettero all’intrepidezza del re macedone, il quale, anche fra gli allori ed i trionfi, si gloriava di meditare Aristotele e di onorare ogni scienza. I Romani, che ne soggiogarono i successori, erano i più colti di que’ secoli, dappoichè le utili cognizioni state vi erano introdotte dagli Scipioni, l’un vincitor e l’altro distruttor di Cartagine. E se, corrotti quei cittadini dal lusso e dalle mal distribuite ricchezze, caddero nell’anarchia o sotto la barbarie di alcuni precarj tiranni, respirarono quindi aure felici sotto Cesare, a cui gli scientifici lumi suggerivano nell’umanità e nella clemenza resiedere il più assoluto potere. Le arti e le scienze protette da Augusto lo fecero inorridire delle commesse proscrizioni, e, trasmutata la crudeltà in amorevolezza con generosamente incoraggirle, fece gustare al romano impero tale amenità che non solo lo inalzò al vero dispotismo, ma rese memorabile presso de’ posteri un’epoca sì felice.

Ma a che serve annoverare i fasti delle antiche prosperità di cui furono apportatrici le arti e le scienze, se gli stessi esempj si trovano ne’ secoli più vicini e se tutte recano utili reali agli uomini? In fatti alcune illuminano gli spiriti e capaci li rendono de’ più elevati pensieri, che si estendono a facilitare tutte le scienze politiche, e le altre spandono un fluido benefico in tutte le società, introducendovi l’amenità ed il buon gusto.


I mezzi di farle fiorire saranno i premj, le distinzioni ed alcune poche academie, mentre la multiplicità delle medesime produce un contrario effetto. I premj dovranno esser regolati secondo lo stato e la condizione di chi li avrà meritati, e sempre proporzionati all’utilità che il pubblico ne riceve o pure alla sublimità del travaglio. Statue,[116] pubblici eloggj, ritratti saranno stimoli lusinghieri per eccitar l’emulazione di chi viene trasportato al piacer delle scienze dalla bella gloria, le pensioni ed altri simili incoraggiamenti dovranno esser dati principalmente a chi non fu troppo favorito dalla fortuna. Il voler poi accordare simili ricompense a chiunque ne fa qualche saggio, sarebbe lo stesso che pretendere di distogliere i sudditi da tante altre utili fatiche per formare un popolo di dottori.[117] L’educazione facendo sviluppare le proprietà dei diversi talenti, sarà ispezione di que’ magistrati che vi presiedono il destinar ciascuno a quel genere di scienza o arte di cui è più capace.

Veduta la necessità di animar le scienze e le altre utili cognizioni, lasciamo pure alla vanità di alcuni entusiastici libero lo sfogo alle più patetiche declamazioni, colle quali vorrebbero dimostrare i danni che dalle medesime vennero recati a’ costumi di que’ popoli che più le coltivarono, e quanto sventurati si resero a forza di divenire ben accostumati.[118] Ma qual cordoglio non destami nel cuore nel vedere un grand’uomo, un profondo investigatore dei più secreti arcani della filosofia, contribuire a tali declamazioni con la più persuasiva eloquenza? Questi, per provare che le scienze furono la cagione della decadenza degli imperj, raccoglie in un tratto le più scelte erudizioni. Ma addoterà forse il di lui cuore, sì sensibile alle sventure dell’umanità, tali principj? Come non potrà persuadersi non esser le scienze, ma bensì il disprezzo della virtù, la vera origine dei funesti sconvolgimenti delle nazioni?

XLIII. Polizia civile.[119]

Non si aspetti il leggitore un esatto dettaglio di una sì vasta materia, poichè, avendone il giudizioso politico Barone di Bielfeld ed altri autori diffusamente parlato, altro non mi resta che di proporre alcune riflessioni utili sopra il buon ordine, la sicurezza e l’abbondanza, tre oggetti primitivi che la compongono.

Il buon ordine sarebbe un termine vago e di una illimitata definizione, se non avvisassi che altro non intendo pel medesimo che la nettezza, gli ornamenti, le commodità di una nazione, e tutte quelle cure che dai Greci venivano comprese nella astrinomia.

È indubitabile che gli antichi assai più degli odierni reggitori de’ popoli erano portati ad arricchirli co’ più superbi edificj e monumenti di magnificenza, perchè stimolati dalla gloria di eternare la memoria de’ loro regni presso de’ posteri, stupidi ammiratori di tali grandezze. Que’ principi che consumarono parte de’ loro tesori in fabriche grandiose di pubblica utilità e necessarj divertimenti erano degni di lode, mentre, occupando alle medesime le soldatesche ne’ tempi di pace e la plebe la più bisognosa, allontanavano la tumultuosa multitudine dai delitti e dalle sedizioni, per mantenerla in que’ travaglj che loro conservavan la robustezza di corpo, l’amor della fatica e quel coraggio che ne’ tempi calamitosi era il vero sostegno della società. Ma i molti regnanti che, soltanto spinti dalla vana gloria o dai loro privati piaceri, impiegavano i prodotti dell’industria e delle fatiche de’ sudditi in eriggere vastissimi teatri, reggie troppo superbe ed altri simili edificj, ove l’amore del pubblico era sagrificato al fasto ed alla stupidità de’ medesimi, degni in vero si mostravano dell’odio de’ conviventi e del disprezzo della posterità.


Abborrendo la torpida condotta di cotesti tiranni, il mio regnante, ammirator delle vere grandezze ed inimico delle vane ostentazioni di un fasto eccessivo, non penserà se non agli edificj ove vengono interessati gli utili piaceri del pubblico, la facilità del commercio e la prosperità dello stato. Ben lungi di fabbricar domicilj per nudrire l’inerte pigrizia di alcuni oziosi cittadini, penserà ai ricoveri di tanti innocenti, necessarj prodotti dell’umana debolezza, abbandonati al rigor delle pene crudeli di un buon ordine mal inteso o all’indigenza de’ genitori; provedimento utile alla popolazione[120] e che impedirebbe i tanti delitti che in simili casi pur troppo si commettono ne’ paesi ove i veri avvantaggj non vengono calcolati con quella filosofica ponderatezza che sola può giudicare delle azioni utili o nocive. In vece di fabricar spedali, piuttosto perniciosi che utili alla sanità de’ sudditi,[121] instituirà case ove la misera infanzia, destituita del sostegno de’ perduti genitori, possa ritrovar un decente ricovero.[122] Non essendovi fra i medesimi diritto di proprietà, non sarebbero forse suscettibili di quella naturale educazione che sola può formare nel cuor tenero dell’uomo i veri germi della virtù? E qual ragione impedirebbe il dar una spartana disciplina?

Profittando della local situazione, renderà il vero despota navigabili i diversi fiumi ed acque. Avrà cura che le pubbliche strade, sì le maestre che le accessorie, sieno di una sufficiente larghezza[123] e ben selciate, acciocchè i carri che conducono alle popolate città i prodotti della provida agricoltura, per ivi trasmutarsi in nudrimento delle arti e dei mestieri ed in segni di opulenza, non trovino alcun ostacolo nella lunghezza delle tratte. Che gli uomini perniciosi alla società ivi sieno impiegati, come nel mantenere la nettezza delle città, a’ necessari travaglj alle fortezze ed a tutti quegl’impieghi che richie­dono uno sforzo di straordinaria fatica.

Che i luoghi ove vien venduta al viaggiatore l’ospitalità sieno bene osservati, affinchè la carezza, la poca politezza o la mancanza di sicurezza non impediscano a’ forastieri di scorrere le nostre provincie, nelle quali cresce il piacer di viaggiare in proporzione del buon prezzo, della nettezza ed affabilità di chi le dirigge, il buon ordine de’ quali dà l’idea se colti sieno gli abitanti e se sia ameno il carattere di chi governa.


Per rendere pronta la circolazion delle lettere e degli ordini communicabili alle più lontane provincie, veglierà che le poste, stabilimento sì antico, ma soltanto perfezionato in questi ultimi tempi,[124] sieno ben provedute, affinchè i molti ritardi non possano arenare le speculazioni del commercio e la circolazion della specie. Siccome il mio regnante dovrà pensare a diffender la nazione contro le ingiuste intraprese di qualunque ambizioso vicino, non dovrà dunque dimenticare veruno di quegli utili provedimenti che rendono facili i trasporti de’ magazeni ed il moto de’ più numerosi eserciti. Ma a che mi gioverebbe il farne una lunga descrizione, quando imitando le cure di un gran monarca[125] potrà esaminarne i dettaglj, i quali pur troppo hanno contribuito a’ tanti felici successi con cui si è reso l’oggetto della pubblica ammirazione?

Certe manifatture nelle città, la poca cura di riasciugar le paludi nelle campagne, la tolleranza di alcune apparenti utilità, il modo di sepellire,[126] le visite inesatte, in fine tutto ciò che interessa la salute de’ cittadini, essendo tanti ostacoli alla pubblica felicità, saranno tutti oggetti degni di attenzione per ogni sovrano, che vede interessato l’aumento della propria autorità in proporzion degli avvantaggj che i popoli ritrovano nel riconoscerla.

XLIV. Sicurezza.

Se nello stabilirsi delle società gli uomini rinunciarono al principe che elessero alcune porzioni di libertà naturale, altro fine non essendosi proposti che un godimento tranquillo e sicuro di que’ beni che hanno voluto ritenere, sarà dunque una necessità indispensabile in ogni regnante il vegliare alla pubblica sicurezza, condizione essenziale de’ sociali contratti.

Essendomi riserbato di trattare nella seconda parte del modo di difender i popoli dagli esteri nemici, qui non parlerò se non di quella interna sicurezza che deve circolare nelle città e nelle provincie le più lontane, se ogni suddito ha da goder gli effetti del più dolce sebbene il più assoluto governo.

Non è già la dolcezza delle leggi, non le estese e diramate provincie, nè i sudditi troppo numerosi che possono rallentire le cure di un sovrano verso la pubblica sicurezza, ma piuttosto la troppo austera severità della stessa legislazione, la cattiva scelta de’ magistrati, l’impunità de’ loro mancamenti, l’abbominevole vitupero a cui vengono condannati quelli che sono destinati ad arrestare i cittadini perniciosi e ad eseguire gli ordini de’ giudici; abbominio in vero mal inteso, giacchè è capace di allontanare da tali impieghi sì necessarj alcuni soggetti ne’ quali la povertà è rispettabile, se guardando con orrore i veri delitti sono suscettibili al piacere dei suffraggj. In fatti se la virtù rimunerata, animando ogni stato, ha da essere la base del più felice governo, perchè ributarne gli uomini incarricati di purgar la società de’ sudditi malvaggj, che a perpetuo oltraggio della stessa si abbandonano alla torpitudine de’ sociali disordini?

La sicurezza ha da esser procurata ad ogni suddito. Gli innocenti abitanti delle capanne, quelli dei più poveri tugurj hanno da goderne gli effetti non meno degli indolenti possessori delle ricchezze. Le città bene illuminate di notte, custodite le strade da guardie, obbligate le guarniggioni a continue pattuglie, esatte le informazioni di chi arriva e sorte dalle città, investigati i mezzi di che vive ogni cittadino, ben diretti e sicuri que’ luoghi destinati allo sfogo delle umane debolezze, resa inutile la multiplicità dei medesimi (sì dannevole alla popolazione) dalla facilità del sostentamento che induce a legitimi vincoli, limitato a tal effetto il lusso, distrutta la troppo grande disproporzione delle ricchezze, inquartierate alcune bande di soldati ne’ distretti delle provincie, i confini ben guardati, sforzati al travaglio gli oziosi, assicurati e mantenuti a pubbliche spese gl’incapaci di ogni fatica, tolte le perniciose immunità, costretto ogni cittadino ad assistere la giustizia, rinchiusi i poveri, abolita anche la mendicità di coloro che in nome di un Dio di pace intorbidan colla superstizione la tranquillità delle famiglie e mettono anche a contribuzione l’industria ed il travaglio degli agricoltori per sostenere la loro inerzia; facile sarà allora con provide leggi, colla pronta esecuzion delle medesime e colle pene sicure, benchè lievi, date ad ogni reato, di far circolare e mantenere la sicurezza nello stato.

Ma come sarà mai possibile che i popoli ubbidienti e sommessi ad un tal governo non sieno sicuri di un pacifico godimento dei frutti dell’industria e del travaglio, se la virtù verrà premiata, se i fautori de’ vizj perniciosi alla società saranno resi oggetti di pubblico ludibrio, se le magistrature, non che sieno accordate al vile interesse dell’oro che ne annichila la vera autorità, verranno affidate a’ migliori cittadini, se in fine il mio despota, conoscendo la teoria del cuore umano, darà ogni carrica da cui dipende la pubblica sicurezza a chi se ne è reso degno co’ meriti e colla virtù?


XLV. Abbondanza.

Ecco un altro fine di ogni sociale contratto. Ma quantunque abbia già allontanata la penuria colle libere estrazioni ed introduzioni de’ grani,[127] ed animati i popoli ad ogni sorta di industria, se la nazione è debitrice all’errario per la sofferta oppressione, benchè sortita dal letargo e dalla tirannide potrà forse godere della pubblica abbondanza? Come rimetterla da una sì fatta costernazione, se la diminuzion delle imposte a lei non basta per incoraggirla? Quale debba essere in questo caso il contegno di un buon sovrano ce lo insegnano gli Adriani e gli Antonini,[128] che con una illuminata beneficenza, togliendo agli ubbedienti cittadini ogni cagione di languidezza, restituirono, in un col coraggio e l’industria, la pubblica abbondanza.

Per stabilire la medesima sì nelle campagne che nelle città, non solo esser deve libero il commercio dei grani e degli altri generi, ma la stessa panisazione, affin d’impedire i tanti monopolj, non solo nocivi alla privata economia, ma alla stessa salute de’ cittadini. Una ben calcolata libertà, estesa in tutti que’ luoghi ove si vendono i cibi ed i necessarj mezzi alla nostra conservazione, mi parrebbe salutare e degna dell’attenzione de’ più illuminati governi. Le case ed i mercati ove si vendono in dettaglio le vittovaglie dovranno in ogni tempo formare un oggetto della più indefessa vigilanza de’ magistrati e tal volta della cura del più elevato ministero.

Montesquieu riconosce per tirannica l’azione di quel sultano che fece impallare un fornaro sorpreso in frode. Penso che se l’inganno di tali venditori non si estende che sulla borsa del compratore, simili delinquenti dovrebbero essere condannati ad una pena di pubblica vergogna ed al pagamento quadrupplicato dello stesso inganno in favore di chi ne fu defraudato; ma se la frode del venditore interessa la salute, mi sembra che più gravi pene sieno necessarie per rintuzzare un sì grave delitto.

Siccome i monopolj e le frodi in tutto ciò che interessa l’abbondanza ed il buon ordine vengono dalla trascuratezza o dalla venalità de’ magistrati, ecco un nuovo oggetto di vigilanza contro chi, dimentico di così sacri doveri, osa aspirare ad arricchirsi colle pubbliche miserie, che animano talvolta i popoli ad alzar voci lamentevoli contro i principi benevoli che le ignorano; ma co’ mezzi indicati nei differenti articoli della magistratura, potrà forse il mio governo esser esposto a simil sorta di disordini?


XLVI. Educazione del successore.

A che ci servirebbero le massime della più sana politica, a che le mire le più salutari se, estinto nel mio savio despota l’eroe, la nazion ricadesse sotto la barbarie di un ministro crudele, le violenze di un avido favorito o i disordini di una sempre dannosa anarchia? Dunque per eternare la felicità de’ popoli dovrà il mio principe formare nel successore un altro eroe, in cui si riuniscano alle più eminenti virtù i germi profundi delle scienze ed i chiari lumi delle più sublimi politiche cognizioni. Pur troppo la storia ci dimostra ad evidenza quanti principi stupidi abbia formati un’educazione molle o cattiva, che furono la cagione delle pubbliche sventure. Così non vi sarà dono più grato che il mio despota possa fare a’ suoi popoli che di istillar al successore i medesimi principj del suo saggio governo.


Nel adossar cure sì penose al mio regnante, non pavento già le obiezionj, che sciolte verranno dalla stessa natura. I tanti complicati affari del principato non avranno dunque la forza di distoglierlo, perchè avrà sempre presente, oltre l’amore de’ sudditi, i celebri esempj di tanti monarchi che vi riuscirono in tempi più difficili e fra l’inviluppata multiplicità degli oggetti di vastissimi imperj.[129]

Non pretendo con ciò di sostenere essere inutili i precettori presso di un principe; alcuni sono necessarj per assisterlo in quegli intervalli di tempo troppo preziosi perchè dati dal sovrano a’ pubblici affari. Sieno però persone illustri per il sapere e per la virtù, e che ben lungi d’infettare il suo tenero cuore col fatal veleno dell’adulazione,[130] che ne corromperebbe l’animo, gli parlino con sincerità e gli insegnino sino dall’infanzia non essere già gli stati di un principe vaste possessioni[131] che devono far valere colle mani industriose de’ loro schiavi, per goderne i frutti in una tranquilla indolenza fra i divini onori della corona, ma bensì una unione di uomini liberi che la giustizia e la virtù deve mantenere nell’opulenza, affin di renderli vieppiù soggetti e felici. Istruttori sì savj e sagaci, oltre le ricompense del sovrano, avran a pretendere agli effetti della più viva riconoscenza de’ popoli,[132] sempre pronti ad accordare i loro sufraggj al merito ed alla virtù de’ veri benefattori.

Felici in vero i primi popoli dell’Egitto, ove il vero dispotismo essendo della natura del mio, i re distribuivano il tempo di una vita sempre laboriosa e frugale fra l’amministrazione della giustizia e la più illuminata educazione de’ loro successori.[133] Non insegnavano che tanti popoli sono nati per la loro felicità, ma creati i re per formar quella de’ sudditi. Sempre dicevano esser impossibile il ben regnare senza virtù ed esser questa il più forte legame per mantenere i popoli sommessi. Chi, sotto l’ispezione del monarca, ripartiva la cura dell’educazione de’ principi, scolpiva ne’ teneri animi dei medesimi che la sovrana autorità veniva emanata dall’unione delle volontà dei contrattanti e che non si conserva legitimo un tal potere che in quanto viene impiegato pel pubblico bene.

Chi ne’ primi anni dell’adolescenza osa adulare i principi è un nemico del genere umano. Suffocando così in essi i doveri d’umanità, mantenendosi nella mollezza e nel lusso fra gli oggetti i più grati di contento e di gioja, allontanandone quelli di tristezza e di lutto, osan persuader loro che i sudditi si risentono de’ medesimi buoni effetti, e crescendo d’età in questa persuasione, credono poi sediziose le giuste rappresentanze de’ più gravi magistrati, e stimando necessario il punir i più sinceri, si aprono il funesto cammino di una tirannide che li rende infelici in un co’ popoli.

Quell’adulazione, figlia dell’interesse, che sbandisce ogni emulazione, essendo la causa dei pochi progressi che fanno alcuni principi nelle scienze e nelle arti, sarà allontanata co’ lumi superiori del mio regnante dall’educazione dei proprj figliuoli. Saprà scolpire ne’ loro animi una nobile ambizione per la virtù, li accostumerà di buon’ora a seguir l’esercito nelle guerre, gli accampamenti ne’ tempi di pace, a portar le armi, a desiderar ogni fatica ed a disprezzar l’adulatore. Li empirà della brama di trasmetter co’ nomi anche la loro gloria alla posterità che non è sì facile ad ingannare, sapendo ben discernere la vera grandezza de’ principi dalla apparente, e che, ben lungi di soffrir con indulgenza i diffetti degli uomini i più illustri, le più picciole macchie le sembrano enormi.

Ecco in fine i primi sentimenti che, ad esempio di un gran monarca,[134] imprimerà il vero despota al di lui successore: Figlio mio, rimira tutti i giorni del tuo regno come i foglj di un gran libro, e guardati bene di non scrivervi che quanto desideri che possa esser letto con piacere dall’inesorabile posterità.

XLVII. Educazione de’ sudditi.

Formato con una elevata educazione nel successore un pegno di gloria alla nazione che l’assicuri d’una perfetta e continua felicità, non sarà più impossibile il perfezionare quella de’ popoli, oggetto in verità vasto e difficile, ma necessario.

Ciro il Grande, Licurgo, Solone, Minosse e tanti altri fondatori d’imperj e di repubbliche, Zoroastro, Platone, Senofonte, Aristotele ed altri filosofi che univano le più profonde cognizioni della natura ai lumi della più sana politica, tutti stabilirono nell’educazione la riforma delle nazioni, tutti nella medesima vedevano l’origine della bontà e dei vizj dei differenti governi, e tutti in fine la conobbero qual base d’ogni politico sistema.


Egli è incontrastabile che gli antichi erano evidentemente persuasi dell’importanza di questo oggetto, intieramente negletto dagli odierni legislatori. Essendosi ribellati i popoli della Lidia contro Ciro che li avea soggiogati, Creso già prigioniero, che ne era stato il monarca, principe divenuto ognor più saggio, perchè istrutto dalle sue triste vicende, non gli consiglia già di sedarne il tumulto colle straggi, ma di rendere i Lidiani umili e sommessi col lusso e coll’intera riforma della loro educazione.[135] Quando Filopemene ebbe vinti i Lacedemoni, presa Sparta, affin di renderla soggetta ed avvilita, vi abbolì i più utili stabilimenti e sforzò la gioventù a rinunciar alla loro educazione per prender quella dell’Accaja. Egli ben prevedeva che fin tanto che gli Spartani osservate avessero le leggi di Licurgo, conservandosi fieri ed arditi, avrebbero ognora nudriti nobili pensieri, che animati li avrebbero alle più generose intraprese contro gli oppressori della patria libertà. L’educazion degli antichi era ragionata, perchè si estendeva in tutti gli stati della società; e come poi istupirci nel leggere i tanti esempj di virtù, di forza e di coraggio alli quali venivano ispirati?

Quale esser potrebbe la migliore educazione ce lo ha dimostrato un grand’uomo, eccitando i cuori nascenti de’ giovani colla forza dei sentimenti alla virtù. Sventurate le nazioni che, con tante sociali istituzioni, non ne possono approfittare! Il voler comporre un piano da adattarsi alle circostanze de’ diversi stati sarebbe un’opera salutare, mai a sufficienza rimunerata da un vero despota. Da lui si animino per tanto i migliori conoscitori dell’umana natura, acciocchè un tal codice di educazione serva di base fissa e durevole alla pubblica felicità. O me felice, se colla scoperta di alcune utili verità vi potessi un giorno contribuire! Un avvantaggio sì sensibile reso al pubblico mi compenserebbe di ogni fatica, ristituirebbe la calma allo spirito e dal mio cuore si dileguerebbero per sempre le cagioni di ogni tristezza.


Non basterebbe un piano di buona educazione senza scegliere un tribunale dei più virtuosi ed insigni magistrati a cui accordarne la cura. E siccome la grand’arte di elevar la gioventù gradatamente a’ più nobili sentimenti ed allo scopo di commune utilità consiste nel conoscere le proprietà dei talenti, la difficil commissione di un tal esame affidar si dovrebbe al medesimo. A lui s’aspetterebbe il vedere se quegli ecclesiastici che sono impiegati nelle campagne capaci sieno di dirozzare i contadini e renderli istruiti ne’ primi doveri dell’uomo, ma più ancora in quelli del loro stato. Alcuni magistrati si potranno dellegare nelle provincie per vederne i progressi, ed il gran Consiglio de’ savj invigilare poi sopra di essi, come sopra quelle persone a cui viene affidato il perfezionamento de’ costumi. Non verrebbe allora più destinato allo stato ecclesiastico chi non ha i talenti, le esimie virtù e la santità di costumi che richiede una tal vocazione. Allo studio delle scienze le più difficili non sarebbe impiegato chi manca di quella vivacità di genio necessaria per arrivarvi. Colui che divenir potrebbe un buon giurisconsulto più non sarà un medico inesperto, nè verrebbe confidato il privileggio di difender l’innocente contro le ingiuste intraprese del forte a chi è più atto à divenire un buon geometra che un eloquente avvocato, non verrebbe multiplicato il numero dei destinati a’ pubblici studj, stabilimenti oggidì mal assortiti,[136] che tanto danno arrecano all’agricoltura, a’ mestieri ed alle arti; nè tanti talenti gemirebbero nell’indigenza di uno stato avvilito, quando in molte scienze ed arti divenir potrebbero ingegni sublimi. Si distruggerebbero que’ ridicoli e sempre perniciosi stabilimenti, detti coleggj, ove i germi nascenti produttori della virtù vengono suffocati ne’ cuori de’ giovani, che vittime divengono delle mal dirette passioni o dell’ignoranza di chi, in vece di istruirli, ne atterra il benefico entusiasmo dell’onore [137] con pratiche che li avvilisce.

Svanirebbe quella odierna fattizia educazione, inventata per formare un uomo menzognero ma aggradevole, non già un grave magistrato, un buon soldato ed un perfetto cittadino. I genitori in fine più attenti alle prime impressioni che danno a’ fanciulli non verserebbero allora con tanti doni e preferenze que’ primi semi di contaggio con cui si corrompono i cuori e si portano sino ai delitti.

Introdotto un tal sistema e reso ognor più facile dalla ricompensata emulazione, la virtù e l’ubbedienza ai voleri del re e de’ magistrati sarebbero allora le prime istruzioni dell’uomo; crescerebbe nel suddito coll’età il profundo rispetto e l’amor riconoscente verso del regnante nel vederlo occupato della pubblica felicità, e sarebbe più possente il sovrano nel vedersi non più l’oggetto dello spavento e del terrore, ma di una affettuosa ammirazione e di una volontaria ubbidienza.


XLVIII. Divertimenti popolari.

Multiplicata la popolazione colla provida agricoltura, resi colla perfezion dell’educazione più colti e più industriosi i popoli, atterrato l’orgoglio e la prepotenza de’ grandi, tolte le immunità, spente le cagioni delle sollevazioni, allontanato ogni pericolo di penuria col commercio e l’ozio coll’emulazione alle arti ed alle utili cognizioni, abbisognerà pensare a divertir la nazione, affin di tenerla occupata ne’ giorni festivi, giorni di riposo e di soglievo, per impedire lo stravizzo e lo sfogo delle passioni verso que’ vizj che indeboliscono le forze del corpo e preparano gli animi della plebe a que’ disordini produttori de’ più atroci delitti. Questo è un oggetto che presso gli antichi investigatori era creduto sì importante, che sempre lo collegavano colla legislazione. In fatti non vi fu popolo fra di loro che non avesse pubblici giuochi, corse di carri e di destrieri, giostre, tornei, lotte, combattimenti ed altri simili giocondi spettacoli, che, mantenendo loro la forza, la salute e l’agilità, li rendeva altresì coraggiosi ed ognor più atti alla guerra. Simili divertimenti non solo occupavano la multitudine, che durante i medesimi non pensava a’ tumulti ed alle sollevazioni, ma erano la cagione per cui tanti cittadini di diverse regioni si univano coi vincoli dell’ospitalità; vincoli grati e preziosi, che sempre più raddolcivan i costumi, formavan le amicizie ed assopivan gli odj e le vendette.

Non mi appiglierò a descrivere i pubblici divertimenti delle più vetuste nazioni, quelli degl’antichi Persiani che facevan parte dell’educazione, de’ quali ce ne fanno grate narrative gli Erodoti ed i Senofonti; non gli olimpici ed altri simili che con tanto piacere occupavan i popoli della Grecia, descritti dall’innumerabile stuolo de’ loro autori; non quelli di Roma, de’ quali ne danno sempre pompose descrizioni i Titilivj, i Polibi ed altri scrittori; non già quelli de’ popoli dell’antica Germania, sì esattamente trasmessi alla posterità dalla penna sagace ed eloquente di Tacito, nè tutti infine gli altri giuochi e divertimenti colli quali si agguerrivano le genti delle diverse nazioni. Non mi occuperò per ora di tante magnifiche erudizioni, belle in vero e degne dell’attenzion di un filosofo, ma le cui digressioni renderebbero quest’opera troppo estesa e voluminosa. Pretendo soltanto di dire che fra i molti consiglj di saviezza e di politici regolamenti che ci vengono trasmessi dalla venerabile antichità, questo non è il men utile, nè il men giudizioso.

Distribuita la plebe nelle città ed i coltivatori nelle campagne in diversi battaglioni e compagnie di uniformata milizia, poche ore di esercizio in certi giorni loro già sarebbero di un nobile trattenimento che manterebbe un certo spirito di dipendenza e di disciplina, il quale all’occasione esser potrebbe il sostegno del principato. Una simil nazione, che, oltre l’affetto e la riconoscenza verso del despota, avesse una tintura di militari elementi, sarebbe in istato di complettare le legioni di uomini non rozzi ed avviliti, ma ben disposti alla guerra e già eccitati colle ben dirette passioni alla difesa della patria.


Oltre un certo spirito di militar disciplina, non vorrei che si negligentassero que’ divertimenti fra i quali dovrebbero passar i giorni destinati al soglievo, giusto compenso alle sofferte fatiche. Vorrei che avessero per trattenersi non già giuochi e spettacoli che possono lusingare un genio sanguinario e violente, ma quelli bensì che sono capaci di nudrir i sentimenti i più elevati ed i più magnanimi. Lungi da loro que’ barbari divertimenti ove le vite preziose de’ cittadini sono messe a pericolo di essere immolate alla furia di certe belve eccitate pria da un genio feroce alla rabbia ed alla vendetta. Lungi altresì quelli ignominiosi spettacoli che si davano a’ popoli allora i più colti, ove era misurato il piacere della crudel multitudine[138] in proporzione della quantità degli estinti, quali restavan sull’arena tinta ed ondeggiante del sangue copioso di vili gladiatori.


I giuochi de’ popoli del mio despota devon consistere in rappresentazioni che non fomentano la superstizione e l’ignoranza, ma bensì quelle virtù che rendono gli uomini più colti e più sociabili, migliori cittadini, e risvegliano i sentimenti. Quei combattimenti[139] che, senza esporre le vite, conservano la salute e la robustezza saranno sempre i più lodevoli, perchè eccitano le passioni verso la bella gloria e quella sorta di emulazione che sempre ajuta l’uomo ad aspirare all’entusiasmo della virtù. Queste frequenti unioni di popolo spanderebbero fra la nazione una tale amenità di costumi, con continue nè mai interrotte relazioni e confidenze, che produrrebbero gli imenei e spronar saprebbero gli uomini all’utile agricoltura ed alla popolazione.

XLIX. Conclusione.

Approfonditi i principj, dedotte le immediate o prossime conseguenze, riunite le omogenee ed eterogenee massime de’ vari governi, esaminati con occhio veramente filosofico gli usi ed abusi delle multiplicate legislazioni, analizzata per fine l’intrinseca natura de’ sociali contratti, ne veggo scatturire questo incontrastabile risultamento.

La tirannia (impropriamente detta dispotismo) è uno stato violente, che porta seco il germe mortifero della propria ruina. Fa tremare il tiranno e gemere i sudditi. Non v’ha nella natura mostro più abbominevole. Il dispotismo della virtù è dolce, spande i suoi benefici influssi in tutti i corpi dello stato, ama e si fa amare, comanda senza impero ed è ubbidito senza contrasto, niun tenta di distruggerlo, perchè ognun ama sè stesso. Il bel corteggio delle scienze, delle arti e d’ogni prodotto dell’industria vezzosamente sorridono a’ piè del trono e gli prommettono gloria, abbondanza ed inviolabil sostegno. La via della tirannia è spinosa e difficile, quella della virtù spianata e facile. Chi potrà esitar nella scelta?

Riflessioni in risposta ad una lettera del Signor Linguet al celebre Marchese Beccaria


Avviso.

Essendomi a caso caduto nelle mani il primo volume del Mercurio di Francia del mese di luglio, vi trovai una lettera scritta dal Signor Linguet al Signor Marchese Beccaria. Ho procurato di rispondere a’ varj articoli che formano il soggetto della critica. Queste riflessioni, essendo analoghe ad alcuni articoli della mia opera, giudico convenevole porle al seguito della medesima.

S’aspetta a’ filosofi più che ad ogni altro genere di persone di alzar grida lamentevoli contro i delitti. Giammai non saprebbero a sufficienza scolpirne il tanto salutevole orrore. Tale sembrami esser stato l’interno movimento che stimolò il Signor Linguet in una sua lettera al sempre mai celebre Marchese Beccaria a dichiararsi in favore della pena di morte contro il di lui sistema. Ma siccome alle volte, malgrado i lumi delle scienze le più profonde e la giusta brama di esser utile agli uomini, può addivenire che un sapiente s’inganni, o troppo trasportato dal fuoco che suol ispirare l’amore della pubblica felicità, o mosso da certi pregiudizj di usi inveterati e sempre più creduti degni di venerazione, quando coperti vengono dalla ruggine di una patriotica antichità; è dovere indispensabile di chi crede veder tali oggetti sotto l’aspetto il più ragionevole di communicare i suoi pensieri, acciocchè, dall’accozzarsi che fanno le diverse opinioni, la verità ne risulti nella sua necessaria chiarezza. So che parlo ad un uomo dotto ed a un filosofo, così, ben lungi di temer gli strali di vendetta co’ quali sogliono rispondere alle critiche imparziali gli spiriti vani ed aspri e gl’ingegni mediocri, vivo sicuro di acquistarmi la di lui benevolenza, se con alcuni benchè brevi ragionamenti posso sciorre le di lui obbiezioni formate contro il sistema giudizioso del trattato Dei delitti e delle pene. O me più felice ancora, se l’esposto di coteste idee arriveranno a confermare i leggitori nel dolce fremito che seppe a ragione destare una tal opera, e se potrò sempre più aumentar le ragioni colle quali convinse l’illustre mio concittadino i diversi governi essere non solo ingiusta, ma inutilissima la pena di morte per impedire i disordini che avvelenano la sociale armonia!

Per accrescer le prove che dicono esser ingiusta la medesima, non implorerò i gemiti confusi di una moltitudine d’innocenti strascinati al supplicio o di rei appiccati per essersi appropriate alcune piccole monete o utensile da nulla involato ad un avaro padrone, nè le strida spaventevoli de’ sciagurati che, spirando fra i rivoltanti tormenti della ruota, implorano vendetta dal Cielo. Pene più miti per quelli, una morte men dura per questi, procedure più ragionevoli per tutti sarebbero allor le risposte per confutarmi.

Non intraprenderò già di alleggerire le enormità di un assassino. Troppo colpisce la mia immaginazione il precozio spavento dell’attaccato; l’idea di un bene che credeva sicuro e che gli vien rapito, la fame divorante a cui vanno essere esposti tanti infelici pargoletti, che stendono le deboli lor mani alla tenera madre che più non sa come nutrirli, perchè ha perduto lo sposo i frutti de’ suoi sudori e che il desio di proveder ai bisogni di una sì sfortunata famiglia lo può portare al delitto, mi pone in costernazione; una subitanea rivoluzion di umori che scorre e scuote tutte le sue fibre mi agita, e l’idea lugubre di una morte imminente di cui vien minacciato, accresciuta da quella sempre più forte di correr io medesimo un tal pericolo, mi rendono la persona dell’aggressore sempre men degna di compassione. O pelago profundo di angoscie! O misera condizion de’ mortali! Ma sebben grande debba risultar l’abbominio de’ delitti e per chi li commette, vediamo come l’umanità sa renderli meno frequenti col diminuire l’atrocità delle pene.

Il Signor Linguet è di sentimento che il potere di punir colla morte gli scelerati viene dal diritto il più naturale, cioè da quello della propria difesa. La forza di un tal diritto è si evidente che, ben lungi di volerlo indebolire, ne ammiro la fonte e ne conosco tutta l’estensione. Ma come può sostenersi aver la pena di morte per origine un tal diritto, se non vien data che doppo una infinità di mal calcolate procedure e sovente di una confessione strappata a forza dalla bocca di molti infelici, che non ebbero il coraggio di resistere ai tormenti delle più crudeli torture? L’omicidio suggerito dalla difesa suppone necessariamente un pericolo di perder la propria vita. Voglio già commesso il delitto: non si proverà mai in sana filosofia che per la difesa di un individuo già estinto un governo debba toglier la vita ad un altro cittadino. Ma per sostrarsi al timore bisogna però punirlo? Lo concedo, ma colla morte? No. Perchè? Ed a chi ispirerà timore di perder la propria vita? All’estinto, a’ giudici o agli altri cittadini? All’estinto, risponderò colla parabola di Diogene. A’ giudici ed a’ cittadini, come mai? Carico di catene pesanti, senza armi e senza forze, circondato da robuste guardie che lo seguitano e che ne regolano i movimenti? Se dunque il potere di punire i rei colla pena di morte non può aver origine che nel diritto di difesa, come potrà esser giusta quella che vien data sotto i diversi governi, la quale, ben lungi di esser un pronto effetto di un pericolo presente e sicuro, non è che il puro risultato di un sistema riflesso, di un lungo esame di giudici il più delle volte indiferenti, e data con tutte quelle formalità che non solo esiggono tempo, ma varietà di circostanze?

Il nostro autor francese sostiene che, se può aver sembrata ingiusta la pena di morte al Signor Marchese Beccaria perchè, non avendo i popoli rinunciata che la più picciola porzione di libertà naturale, non potevano accordare il diritto della loro distruzione, dovrà per la stessa ragione esser stimata illegitima anche quella del travaglio e della prigione. Per provare esser ingiusta la prima, e questa ben adattata, ricorriamo per un momento alla natura del medesimo sociale contratto.

Si proposero gli uomini, nella rinuncia delle porzioni di libertà naturale, la conservazione delle lor vite e quella delle loro sostanze. Queste convenzioni fra i popoli ed i sovrani e questi patti di reciproca difesa non hanno al certo potuto fissarsi senza che i contrattanti si sieno proposti di contribuire a questo oggetto con una certa data somma e qualità di azioni necessarie. Con un tal contratto hanno voluto distruggere la prepotenza de’ forti e l’indolenza con cui si viveva ne’ tempi infelici, anteriori alla formazione di esse società. Hanno voluto che il robusto ed il debole, l’ardito ed il timido, il ricco ed il povero, tutti ridotti fossero alla medesima condizione di sicurezza e di tranquillità. Hanno detto di più a chi confidarono il deposito delle nominate porzioni: Osservate le leggi che vi abbiamo prescritte; se la necessità vi obbliga a farne altre, sieno l’espressione della pubblica volontà. Servitevi del sacro deposito delle nostre autorità, che risiede presso di voi, per impedire le altrui violenze. Guai a coloro che formeranno attentati contro la vostra vita o contro quella di ciascun di noi! Provi pure un tal uomo un giusto sdegno, in modo che ne conservi un continuo dolore, privo della forza di ripetere la stessa azione. Punite l’insano coraggio di colui che vorrà viver di rapine. Reprimete lo sfogo delle tumultuose passioni de’ vostri concittadini, impeditene non solo l’abuso, ma dirigetele al ben di tutti. Obbligate in fine ogni contraventore di questi patti taciti o palesi a dare un autentico esempio di una più sommessa obbedienza ed a riparar con pubblici lavori il male recato a voi, alla moltitudine ed ad ognun di coloro che entrarono nella formazione di un simil contratto. Ecco il linguaggio tacito ma espressivo de’ primi uomini che si unirono in società, e come accordarono a’ sovrani l’autorità di punire i delitti.

Se tale veramente è la natura de’ sociali contratti, come mai voler trarne conseguenze che giustifichino il diritto di punire i rei colla pena di morte? In seguito di questi raziocinj, ma più ancora di quelli che profundamente espone in ogni parte della sua opera il mio celebre concittadino, posso arrischiare la seguente definizione: essere il diritto di punire i rei colla pena di morte un diritto imaginario, fabbricato dal gelido timore in cui si trovarono i primi usurpatori, che non si credettero sicuri se non fra le cataste alzate in ogni parte, ove perir fecero tutti coloro che ebbero il coraggio destituito di forze di pretendere la loro porzione sopra il totale.

Sembra che la difficoltà di nudrire e di custodire tanti scelerati formi una delle più forti obbiezioni; passiamo per tanto ad esaminare co’ lumi puramente naturali se queste ragioni possono aver forza di decidere un umano legislatore in favor di un pubblico pensato assassinio e di preferire un vile interesse alla conservazione di tanti uomini.

Una supposizione s’offre a prima vista al mio esame. Dico: se tutti costoro che si portarono a’ delitti, pe’ quali furono riputati degni della pena di morte, ne avessero in vece commessi alcuni altri meno gravi, per cui si avesse dovuto assicurarli nelle galere o ne’ pubblici travaglj, era forse dispensato il legislatore di provedere al lor mantenimento? La difficoltà se si devono nutrir per appalto oppure ad economia privata del sovrano[140] potrà forse in questo caso ralentire l’attività di que’ principi che negli uomini i più cattivi sanno sempre con una mente veramente filosofica rispettar l’umanità? Se nel supporre che abbiano potuto commettere colpe meno atroci vediamo il modo di far sussister tanti miserabili, perchè dunque il solo disegno che ci suggerisce l’economia dovrà portare il legislatore a privar pubblicamente di vita un cittadino?

Ancorchè loro si accordasse un mantenimento adattato all’intiera sodisfazione de’ loro fisici bisogni, a torto imaginiamo esserne gravosa la spesa. Sosterrò essere il più picciol travaglio sufficiente a procurar all’uomo da che vivere. Il mio piano m’interdice di entrar nè dettaglj, e se qualcuno mi vorrà disputare quella economica verità, avrò per difendermi in mio favore le autorità de’ più rispettabili scrittori e le prove reiterate che mi somministra la giornaliera sperienza.

Un’altra idea mi si presenta per render il mantenimento di simili sventurati men gravoso. Consiste nel diminuire il numero esorbitante di tanti infelici che gemono negli antri oscuri delle prigioni, o che sospirano sotto i replicati colpi di spietati agozzini nelle galere o ne’ già mentuati pubblici travaglj. Colla graduale progressione nella diminuzione delle pene si troverebbe il compenso per somministrare il vitto a’ veri delinquenti.

In fatti perchè condannare con tanta severità un povero mercadante, il quale, fundi non avendo di far grandi intraprese e troppo limitato vedendo il proprio guadagno per nudrir una tenera sposa ed una numerosa famiglia, cercò col sorprender l’avvedutezza dell’astuto gabelliere d’introdurre o di sortire una merce, sopra cui l’avaro fermiere impose una tassa oltraggiante al sovrano e troppo gravosa al commercio della nazione? Passiamo che un uomo arricchito su gli usurpati diritti delle gabelle de’ principi venga punito; qual ragione e qual legge tratta dalla natura del sociale contratto condannerà l’indigente per aver seco portate poch’oncie di sale, polve, tabacco o acquavita, oppure a venir stroppiato colla tortura, in modo di non esser più capace a procacciarsi pane con che nutrir se stesso e molto meno la di lui rovinata prole? Perchè infine punire con tanto rigore una infinità di azioni che non meritano in verun modo il nome di delitti? Se tutte qui mi facessi a considerarle con quella filosofica tranquillità che sempre conduce alla morale esatezza, quanti esempj potrei produrre di perpetuo avvilimento a certe odierne legislazioni, quali sembrano non aver altra mira che di multiplicare il numero di que’ cittadini che si vogliono render oggetti di publico disprezzo? O vastissimo campo di riflessioni sopra le Ferme![141] Fortunata quella nazione ove il sovrano comincia a comprenderne l’orrore che debbono ispirare ad un vero padre de’ popoli![142] Quando cesseranno mai i governi per riscuoter i pubblici carichi di servirsi di metodi che ad altro non tendono che ad accrescere il numero de’ malintenzionati cittadini, a crear nuovi generi di delitti ed aumentare in conseguenza la quantità degli infelici?

La tolleranza diminuirebbe parimenti il numero dei delitti. Ove è introdotta, i popoli son men rozzi, e certi lumi benefici essendo sparsi nella generalità, più puri si vedono i costumi. Una nazione colta non conosce certi delitti di opinione, o se li conosce non ne fa caso e li rimira con occhio filosofico. Le imaginazioni degli uomini non vi sono accese dal fanatismo, che offusca le idee e che produce un’infinità di azioni, che suo malgrado deve alle volte punire un illuminato legislatore, che teme di sminuire la somma della pubblica fiducia. Non son questi i soli effetti della tolleranza: sa ella pur produrre uomini grandi ed esimj talenti. Testimonio ne sia la patria mia ed i molti sublimi ingegni che quai nuove spiccanti comete rilucer si veggono sul nostro orizonte. MILANO oggidì è l’emporio delle lettere, lettere che devono la loro origine ed i loro progressi al gran ministro il CONTE DI FIRMIAN. Venerator sincero de’ dogmi della religione, quest’illustre mecenate seppe renderla ancor più rispettabile spogliandola delle prattiche superstiziose, e colla tolleranza, effetto immediato delle arti e scienze che coltiva e protegge, infranse l’idolo del fanatismo, preparando così l’aurora fortunata di un dì puro e sereno, che farà riviver la pristina gloria de’ Lombardi.

Siccome sembrerà impossibile ad alcuni leggitori, se si toglie quella di morte, il potersi fissare un sistema di pene colle loro progressioni secondo i diversi gradi di atrocità che accompagnano i delitti, vediamo con una rapida occhiata sotto qual aspetto presentar si possa ad un legislatore una idea di un codice di punizioni, calcolate dagli interessi dell’umanità e regolate da quella filosofica mira di voler colle pene assicurar gli uomini perversi, guarentendone il pubblico e privato riposo, stabilir un monumento di perpetuo esempio e di salutare ribrezzo per i reati, e di far riparar in qualche modo all’offesa società il danno che può averle recate uno sciagurato, trasportato dal furore nel varco tenebroso delle scelleragini.

Non v’ha dubbio che se grande è la differenza fra i delitti, grande altresì ha da esser quella di punirli. Una tal verità troppo sentita ci fu dimostrata ad evidenza dal profundissimo mio concittadino; verità per cui infinita si è meritata la riconoscenza de’ reggitori degli uomini e di tutti gli esseri che fanno profession di riflettere.

L’idea però di un sistema di pene che non annichilino l’esistenza di chi commette delitti non esclude al certo una ben calcolata proporzione. Vediamo.

Chi è per commetter un omicidio, mi dirà taluno, non potendo esser condannato alla morte, nè aver maggior pena di un continuo travaglio, può decidersi ad accompagnarlo colla crudeltà de’ modi nell’eseguirlo e col rafinato pensiero di preparar da lungi le più atroci circostanze. Cadrebbe nel medesimo caso colui che togliesse a molti la vita, ed assai più que’ sciagurati che, tacer facendo tutti i dolci stimoli della benefica natura, la rapissero a’ benefattori, a’ congiunti, dirò forse a’ genitori?

Chi c’impedisce mai nell’infliger le pene de’ travaglj agli assassini di stabilirvi una progressiva differenza? Se condanniamo ad un perpetuo lavoro un ingiusto rapitore della vita altrui, perchè accrescer non potremmo i gradi di dolore che suol accompagnare uno sforzato travaglio, ed assai più quelli di una infamia riflessa e di una pubblicità che ne impone sino agli uomini i più corrotti? Se lavora in pubblica utilità l’assassino, colui che lo è con circostanze aggravanti lo faccia con maggior apparato, con pene che strappin dal cuore della attonita moltitudine che lo osserva l’orror della cagione, e con maniere che rendino la persona di un tal reo sempre più degna dell’altrui colera. Obblighinsi i più colpevoli a certe azioni che capaci sieno di aumentar negli astanti l’odio per quel reato che li condanna. Sforzinsi tutti in certi giorni solenni a pubblicare i loro delitti, pianger i medesimi avanti il popolo che li osserva colle più patetiche dimostrazioni, sempre proporzionate all’atrocità della colpa. O sistema salutare! E qual è quello sventurato sì privo d’amor proprio (anima di tutte le azioni) che non fremerà allora al pensar certi delitti! Qual sarà quell’infelice sì abbandonato dal piacer della pubblica stima che potrà indursi a commetter azioni che lo degradan dall’umanità per ridurlo ad una trista condizione, molto peggiore di quella delle più infime belve? Consulti chi mi legge e desia di farmi obbiezioni la natura del cuore umano, e non si decida a contraddirmi se non doppo averne eliminate tutte le traccie le più segrete. Chi ne conosce la complicata teoria potrà forse non andar persuaso esser pronto ogni uomo a subir mille morti, prima di pene sì ripetute e sì sensibili?

Il timore che simili scellerati possan corromper l’animo di chi li custodisce svanirebbe allorquando questi stabilimenti si trovassero sotto l’autorevole direzione di qualche grave ed incorruttibile magistrato, che avesse nello stesso tempo la cura di dirigerne i lavori alla pubblica utilità.

La difficoltà che sembra più d’ogn’altra turbar l’animo del Signor Linguet, e che a ragione deve far la maggior impressione, mi sembra quella che espone all’articolo della nobiltà. I delitti degli uomini possenti, che hanno ricevuta una men cattiva educazione, che hanno le autentiche virtù degli avoli da imitare, sono senza contesa i più odiosi ed i più degni di pena. Se con lasciarli impuniti si renderebbero sventurate le società, nel castigarli colla pena di morte non si otterrebbe l’intento di prevenirli.

Sarebbe ugualmente impratticabile ed ingiusto ogni sistema che infliggesse alla nobiltà quelle stesse pene colle quali si puniscono gli altri rei. Una ben intesa proporzione non è soltanto necessaria per i diversi delitti, ma fra i diversi stati della società. Felice quel legislatore che, conoscendo i profundi recinti del cuore umano e le fonti di tutte le passioni, saprà allontanarvi la fisica severità collo stabilire un corso di pene che spaventi l’imagine d’ogni nobile, al solo ripassar che fa per la mente l’idea di un delitto! Più felice ancora, se saprà sradicare que’ funesti pregiudizj che diminuiscono la stima verso quelle famiglie, che ebbero la sventura di aver data la luce ad un infelice che trasportar si lasciò a commetter qualche delitto. Il timore che i possenti congiunti, occupando i più riguardevoli impieghi de’ governi, possano liberare un delinquente nobile e renderlo con tutte le di lui forze e cattive intenzioni alla stessa nazione di cui turbò la pace, si svanirebbe dall’idea dello scrittor francese se si stabilissero pene per chi osa implorare a suo favore la sovrana clemenza, che diverebbe in questo caso un attentato contro le convenzioni fatte fra i popoli ed il principe. Non so se quest’ultimo sii in diritto di servirsi del pubblico deposito delle autorità per far grazia ad un delinquente che seppe moverlo a pietà doppo di aver offeso il popolo che lo stabilì suo vendicatore. Sii dunque il sollecitar la libertà del nobile audace, che ruppe i vincoli della società, risguardato dal legislatore qual reato.

Sembra voler io qui distruggere i dolci sentimenti della natura, che ci portano ad in­tenerirci alla dura sorte de’ sventurati ed assai più per coloro a’ quali uniti siamo co’ sacri vincoli del sangue. Il delitto è fatto per porre una distanza infinita fra l’innocente ed il reo, che più degno non è de’ suoi sguardi. Quando non si priva di vita chi lo commette, quando si rispetta in esso lui l’umanità, mi sembra essere un sovrano in diritto di punir chi ne cerca la libertà. Se ad un tal reo s’infliggesse poi qualche rimarchevole impronto d’infamia, chi fra simili colpevoli acconsentirebbe a proffitarne?

La voce della natura si fa ognor più sentire al mio cuore, mostrandomi la vasta estensione degli errori, e l’abbisso immenso di guai e di miserie da cui viene circondata l’umanità mi dice: Vani saran sempre gli sforzi de’ legislatori ad impedir i sociali disordini, e le passioni degli uomini non vengano ben dirette alla virtù dalla più tenera infanzia, se non si cerca di dirigere le pieghevoli inclinazioni della gioventù verso quell’unico scopo che solo può render beate le nazioni: que’ sovrani che sapranno interessare i sudditi nel di lei esercizio, cominciando da quell’età ove tutto è facile e tutto è eseguibile, avran trovato il gran segreto di riformar le nazioni, e soli potranno aspirar alla gloria di stabilire il più facile e più fortunato governo e di prevenire i delitti.

Se tale veramente è la marcia della natura, perchè dovrà l’uomo dotto e chi si dedica allo studio di contemplare il cuore umano alzar la sua voce contro chi cerca di modificar la troppo crudele severità delle pene e d’ispirar massime di umanità a’ padri de’ popoli? Cessino in lui questi stimoli, ed impieghinsi piuttosto i di lui sforzi alla scoperta di quelle luminose verità che ci possono condurre a formare un sistema di educazione praticabile, di cui ne hanno tanto bisogno tutte le nazioni. Nel corso della mia opera espongo con ardire molte idee che tendono ad impedire i delitti: siccome sento tutta la debolezza de’ miei talenti, invito i veri filosofi a seguir le orme onorate del gran cittadino di Ginevra, ed esaminando i di lui sublimi pensieri, travagliar d’accordo al piano dell’educazion la più utile, mezzo efficace per prevenire i delitti. Procurerò in seguito di contribuirvi, e non essendo efficaci le mie fatiche, mi contenterò di sapere che
in magnis et voluisse sat est.
Dalla soluzione di questi politici problemi, ed in seguito delle massime profunde del mio illuminatissimo amico, credo di essere in diritto di trarne il seguente corolario, preso nella vera essenza della natura dell’uomo: la pena di morte è ingiusta, s’oppone al più forte degli avvantaggj, il qual consiste nella popolazione, inasprisce gli uomini senza sminuire il numero de’ scelerati, ed è contraria alle primitive convenzioni. Quella de’ pubblici travaglj conserva la popolazione, ispira un orror men forte ma più ripettuto, e perciò più salutevole, ripara il danno recato da’ rei alla totalità ed a’ particolari della nazione, e può esser data senza romper convenzioni tacite o palesi che formano le diverse società.

[1] Qui istinto altro non significa che la passione prima motrice delle umane azioni.


[2] Guai a noi se questo amor proprio si diminuisse, diverremmo uguali a’ bruti in tutte le nostre facoltà di agire e di riflettere; l’amor proprio soltanto diviene un vizio quando è regolato da alcune perniziose qualità o impiegato per nudrire le sole maligne passioni degli altri.

[3] Se ne parla nell’articolo X del secondo volume.

[4] Locke nel di lui Saggio sull’intelletto umano dice che la cieca sommissione ai sentimenti dei più grand’uomini più di ogni altro ostacolo ha impedito il progresso delle cognizioni ed allontanata la verità. § 23 del cap. III, lib. I.

[5] Non può sostenersi avere i popoli il poter di fare una intiera cessione della loro libertà naturale. Lo provo altrove, e chi avanzasse un tal paradosso direbbe che gli uomini possono privarsi anche della vita, dono dell’Esser Supremo, che al certo non è più prezioso della libertà. Si stabilirebbe allora qual legge invariabile il suicidio, punto essenziale della dottrina di Zenone, che urta i dettami del cristianesimo, quelli di una saggia politica e i principj della vera filantropia.

[6] Insisto sui principj, distinguo e definisco colla possibile filosofica precisione. Sembreran forse aridi e fastidiosi questi primi capi. Il leggitore ne sarà compensato, standomi sì a cuore il suo diletto che ho procurato nel testo o con alcune notarelle di render piacevoli ed ameni fino gli articoli della sterilità militare.

[7] Quando Pisistrate s’impadronì del castello di Atene e del sovrano potere, Solone, doppo aver fatto il possibile per impedirlo, pronunciò nella gran piazza avanti tutto il popolo le seguenti celebri parole: Prima di questo giorno era pur facile il suffocar la tirannide per anco nascente, ma ora che è formata e stabilita non è più onesto e glorioso l’abolirla. Aristofane diceva che non bisogna nudrire alcun lione nella propria città, ma che se si fa tanto di nudrirne qualcuno, bisogna accomodarsi al di lui natural feroce.

[8] Montesquieu e l’autore Degli Estremi dicono che le grandi ricompense in una monarchia ed in una repubblica sono i segni evidenti di una vera decadenza, mentre provano che i loro principj sono corrotti e che da una parte l’idea dell’onore non ha tanta forza. I tiranni donarono molto e i buoni principi poco, ma accordavano soltanto distintive ricompense che non rovinavano l’erario.

[9] Nella China, per rendere la virtù aggradevole, havvi stabilita la legge che i mandarini partecipano alla gloria o all’onta delle buone o cattive azioni che si comettono ne’ loro governi. Questa è anzi la via la più sicura agli avvanzamenti, ecco come si obligano gli uomini alle azioni lodevoli.

[10] Gli uomini, dice un odierno scrittore, non sono cattivi, ma sottomessi ai loro interessi, e le grida de’ moralisti contro la malignità umana non cangeranno certamente questo principio motore dell’universo morale. Non bisogna dunque lagnarsi della perversità dell’umana natura, ma dell’ignoranza dei legislatori che sempre misero l’interesse particolare in opposizione con l’interesse generale. Se i primi Egizj erano più virtuosi di noi, la cagione si è che le leggi e costumi introdotti da’ loro principi erano fatti per ispirare la probità. Così sarà una buona o cattiva legislazione che ecciterà alla virtù o al vizio; ciò dipendendo dal arbitrio del legislatore, ben si vede come deve agire un buon regnante.

[11] Le leggi (dice Baccone) in vece di servirci di fiaccola per rischiarirci nel cammino, sono altrettanti ostacoli che ci arrestano ad ogni passo.

[12] Il diritto di testare, che fra gli altri malori è l’origine delle ricchezze del clero.

[13] Fidei comissi, soltanto favorevoli ad arricchire i tribunali della giustizia civile.

[14] Patria potestas.

[15] Un gran punto di legislazione si è che non vada impunito alcun delitto. Oh Dio! Quanti malvaggj non veddonsi insultare quella società che hanno resa infelice, perchè, o elevati a cospicue dignità, oppure in uno stato ove l’impostura li rende oggetti della pubblica e cieca venerazione, credono di poter tutto osare; mentre molti altri meno scellerati di loro sono strascinati con ludibrio e vitupero ai più crudeli supplicj, soltanto perchè non seppero amassare di che affascinare lo sguardo a giudici che con piacere li avrebbero assolti. Simili illustri rei non sono forse più degni di pene più atroci, giacchè aggiungono ad altri delitti l’impostura e la codardia? Quando finiranno una volta i filosofi di poter esclamare con un gran poeta? Dat veniam corvis, vexat censura columbas. Juv. Sat. V. 63.

[16] I più forti e i più maliziosi, impadronendosi delle ricchezze e facendo sì dure leggi contro il furto, dissero pur troppo: condanneremo a morte chi avrà l’audacia di cercar la di lui porzione sopra il totale.

[17] In un simil governo le viziose passioni si fermentano con una uguale segretezza, ed alla minima occasione impetuosamente si sviluppano con una furiosa violenza, al pari funesta alli schiavi che al tiranno. La storia purtroppo ne fornisce esempj terribili ed ontosi per la gemente umanità.

[18] Dipende dalla volontà del legislatore il formare popoli ove rare non siano le virtù. Non è il clima nè la situazion locale che tanto influiscono ne’ costumi delle nazioni, ma bensì la legislazione; egli non sta che troppo nel potere del legislatore il trasformare un popolo cattivo o stupido in un aggregato di uomini giusti, coraggiosi e magnanimi. Oltre Licurgo, quanti altri non riformarono le più indomabili nazioni!

[19] Nec accipies munera, quae etiam excaecant prudentes, et subvertunt verba justorum. Exod. 23. v. 8. Declinaverunt post avaritiam, acceperuntque munera, et perverterunt judicium. I. Reg. C. 8. v. 3.

[20] Vedi Duclos, Considérations sur les moeurs de ce siècle, chap. IV.

[21] Le avanie de’ magistrati, governatori e ministri romani furono in buona parte la cagione della rovina di quell’impero. Machiavello, Storia Fiorentina Lib. I.

[22] Justum et tenacem propositi virum, | Non civium ardor prava jubentium, | Non vultus instantis tyranni | Mente quatit solida, neque Auster | Dux inquieti turbidus Adriae, | Nec fulminantis magna Jovis manus. | Si fractus illabatur orbis, | Impavidum ferient ruinae. Orat. Od. III. Lib. 3.

[23] Nella Prefazione e nell’Introduzione.

[24] Non contenti i ricchi e i grandi dell’avvantaggio che hanno sopra l’innumerabile quantità degli indigenti, sempre gridano, sempre mostransi furiosi contro chi si contenta di aspirare alla minima porzione di tante dovizie, ed implorano la forza delle leggi, nel mentre che il numero infinito de’ miseri, con una voce lamentevole e sommessa, chiama in soccorso l’opulente ma perciò sordo legislatore.

[25] I poveri (è sentenza di un moderno filosofo) hanno sempre torto nello spirito de’ grandi; il minimo fallo che fa uno di essi è un pretesto plausibile per negar loro ogni soccorso. I grandi vorrebbero che i miserabili fossero perfetti.

[26] Un filosofo, che seppe destramente render utili anche i romanzi, formandone un corso intero di sana politica e di buona morale, così definisce la nobiltà: Ce sont des avances (dice Belisario a Tiberio) que la patrie vous fait sur la parole de vos ancêtres, en attendant que vous soyez en état de faire honneur à vos garants. Massima che dovrebbe inculcarsi alla nobile gioventù, in vece dello stupido orgoglio che loro pur troppo si ispira.

[27] In ogni paese ove le ricchezze conducono alla nobiltà e questa alle carriche, gli uomini devono esser malvaggj, poichè tutto pongono in opera affin di sostrarsi alle altrui persecuzioni e di divenire persecutori.

[28] Plinio parlando dei sacerdoti bretoni, I. 126, cap. I.

[29] Mais cent fois la beste a vû l’homme hypocondre | Adorer le métal que lui-même il fit fondre. | A vû dans un païs les timides mortels | Trembler aux pieds d’un singe assis sur leurs autels; | Et sur les bords du Nil les peuples imbécilles | L’encensoir à la main, chercher les crocodiles. Despréaux, Sat. 8.

[30] Prego il leggitore a riflettere che in verun luogo della mia opera non si fa menzione di dogma. Lo avviso mentre gli ecclesiastici e regolari, sortendo dai limiti di quella caritatevole docilità che non conoscono, ma che con tanta enfasi ci insegnano dai pergami, forse non mancheranno colla solita loro prodiga generosità di darmi la taccia turpe e calunniosa d’incredulo, empio ed ateo, titoli che sempre accordarono ai dicitori delle verità e de’ quali sempre si sono serviti per confutare le ragioni ed i fatti che depongono contro di loro.

[31] Luc. XX. 26. S. Petr. V. 2. 3.

[32] S. Paolo, Epist. prima a Timoteo, III. 3 ed altri.

[33] S. Giov. Crisostomo, S. Girolam. in più luoghi.

[34] Giannone, Storia civile del Regno di Napoli, libro 3, cap. 6.

[35] Agnosco Imperatorem a Deo concessum non militibus solum, sed sacerdotibus dominari. S. Gregorio Papa, Epistol. 94, libro 2. S. Bernardo stesso, scrivendo all’arcivescovo di Sens, Epist. 42, dice: se ogni anima è soggetta alle potenze sovrane, soggetta ne deve essere parimente la vostra. Chiunque si studia di trovarvi eccezione, si studia d’ingannare. E scrivendo a papa Eugenio dice: Apostolos lego judicandos stetisse, judicantes sedisse non lego.

[36] Qual cosa più ridicola del leggere nella bolla In Coena Domini fra i diversi capi di scomunica quello di nuova pedagia aut gabellas imponentes vel easque augentes, come se in diverse circostanze non fosse utile allo stato l’aggravare e per fino il proibire l’introduzione delle estere manifatture. Il clero non era però così severo in quelle imposte che riguardavano il suo proprio interesse, giacchè col pretesto delle decime seppe mettere a contribuzione l’industria, il travaglio, la paga de’ soldati, e per fino pretendere la sua porzione sopra i profitti delle meretrici. Vedi Frà Paolo, pag. 132.

[37] Chi non si sente inorridire nel leggere l’alterigia di Alessandro III, che, quasi scacciato da’ propri stati, osa con tanta audacia imporre ad Enrico Re d’Inghilterra obblighi sì vergognosi, a’ quali oggidì un uomo privato si vergognerebbe di pensare a sottomettersi? E non ebbe Innocenzo III, nel principio del XIII secolo, l’ardire di fare in quel regno un primate a suo piacimento? Se ne offese il Re Giovanni, ma egli lo scomunica e lo pone in uno stato sì afflittivo che lo costringe per fino a dichiararsi vassallo della Chiesa ed a pagargli tributo.

[38] I papi lo fecero in ogni tempo, ma assai più sotto i re longobardi: non vi era allora monarca oltramontano che non fosse segretamente chiamato ad assalire l’Italia, e che fatto potente non ne fosse scacciato colle brighe de’ medesimi. Vedi Machiavelli, Storia Fiorentina, e Giannone, Storia civile del Regno di Napoli.

[39] Onorio III bandì la crociata contro Frederico II; Urbano IV contro Manfredi Re di Napoli. Ma, oh Dio, infiniti sarebbero gli esempj se tutti gli volessi addurre!

[40] Papa Nicolò III di casa Orsini machinò segretamente la trama famosa del Vespro Siciliano con Pietro Re di Aragona; trama abbominevole seguita da Martino IV di lui successore nel pontificato, sotto di cui pur troppo ebbe effetto.

[41] Benedetto XII fra gli altri si distinse in simil sorta d’ingiuste intraprese. Riconobbe per legitimi sovrani tutti quei ribelli che avevan usurpate le città e terre del imperator Ludovico.

[42] L’esempio che ispira la maggior indegnazione è quello di Enrico, che cinto di cilicio e spogliato degli imperiali ornamenti, chieder dovette scusa e perdono all’orgoglioso Gregorio. Vedi Voltaire, Essai sur l’Hist. Gen.

[43] Gregorio V, scacciato da’ romani e rimesso in Roma dall’imperator Ottone III, per vendicarsi tolse loro l’autorità di elegger l’imperatore e la diede agli elettori germani l’anno 1011.

[44] Chi volesse annoverare tutti i tratti impudenti con cui i regolari infiammarono i cuori de’ principi deboli, non avrebbe mai finito; il più forte fra gl’innumerevoli che si trovano nelle storie mi parve il discorso tenuto da un ardito domenicano al buon Luigi IX Re di Francia. Costui doppo di aver lodato il re sopra l’ingiusta e bizarra intrapresa delle crocciate, lo persuase a compiere le volontà dell’Altissimo col prender l’abito di S. Domenico. Esitò il debole monarca a sì funesti consiglj, e se ebbe la forza di resistervi, non fu se non l’effetto che produssero nel di lui cuore i pianti dell’inconsolabile regina e le doglianze della desolata sua famiglia. Felice in vero la Francia, se cedendo alle savie rappresentanze del germano e del figlio successore, avesse quel principe scacciato dal suo regno quel sciagurato e gli altri che si disviavano dal retto sentiero del giusto. Vedi Histoire de France de Mr. l’Abbé Velly, tom. 5eme, ediz. di Parigi del 1761.

[45] Federico Barbarossa fu obbligato dal clero a sottomettersi al pontefice, in modo che fu costretto di andarlo ad adorare in Venezia.

[46] Papa Gregorio VII, monaco benedettino che osò deporre alcuni principi, sciorre i sudditi dal giuramento di fedeltà, fu quel detto che fece avvelenare l’imperator Enrico VII nella communione datagli da un domenicano.

[47] La fine di Enrico III e di Enrico IV e di altri monarchi è nota ad ognuno.

[48] L’imperator Enrico IV e Federico II traditi dai loro figliuoli, e contro di essi animati i popoli per opera di alcuni frati mandatarj.

[49] La superstizione de’ nostri padri, dice Hume, elevò sì alto il clero che bilanciava tutto lo stato; quindi ecclesiastico e laico sono divenuti termini fra loro opposti nelle nostre lingue moderne.

[50] La cupidigia del clero e degli ordini regolari è la sola cagione che i principi della religione romana sono inferiori in forze alli sovrani protestanti, relativamente l’estensione de’ diversi stati; l’imbecillità messa a contribuzione, le continue sostrazioni del travaglio colla multiplicità dei giorni festivi ed i molti digiuni, quali vantaggj non procuran all’Ollanda, all’Inghilterra e a tante altre nazioni?

[51] La superstition est plus injurieuse à Dieu que l’athéisme, dice quel autore che ne’ suoi Pensieri filosofici ha fatto vedere esser egli veramente filosofo: Diderot, XII.

[52] Un ateo, soggionge il gran Bacone, ben lungi di far novità è un cittadino interessato alla publica tranquillità per l’amore del suo proprio riposo; ma il fanatismo nato dalla confusione delle immagini roversciò gli imperj.

[53] Lo spirito d’intolleranza, dice il suddetto Bacone, è l’inimico della pace, e per conseguenza della monarchia.

[54] I regolari quasi sempre furono gli emissari delle scomuniche, i primi ad ubbidire a’ comandi ingiusti de’ pontefici ed a intorbidare la pace de’ popoli colle più sediziose declamazioni. Fra i molti fatti di sua disubbidienza a’ governi, ci basteranno quelli di Venezia, ove al tempo dell’interdetto vollero piuttosto sortire da quei stati che sottomettersi agli ordini del senato; e di Francia, ove riconosciuto Enrico IV dal parlamento, non vollero prestare alcun giuramento pria di averne ricevuti gli ordini da Roma; i gesuiti, i teatini, i cappucini, i franciscani riformati, fra tutti gli altri si segnalarono in tali ribellioni.

[55] Il sacerdozio dice, Machiavello, sarebbe decaduto dalla venerazione de’ popoli, se la povertà di alcuni ordini monastici espiato non avesse il lusso de’ vescovi.

[56] Les décisions ne font que des persécuteurs, des persécutés, des herétiques et des rebelles. Abbé de St. Pierre, Annales politiq., I part., pag. 166, edition de Londres 1757.

Più sopra, pagina antecedente, dice: On se trompe lourdement, quand on croit appaiser les disputes des théologiens par des décisions, on ne fait qu’aigrir les esprits de ceux qui sont condamnés, et autoriser l’esprit de persécution qui fait naître les révoltes.

[57] Presieda però alle riforme l’umanità. Nello stesso tempo in cui le provide leggi de’ sovrani seviscono contro i diversi ordini regolari, rispettinsi gl’individui che li compongono. Figliuoli anch’essi de’ padri communi de’ popoli, indegni non sono de’ loro teneri sguardi. Che nel distrugger dunque i monumenti dell’imperiosa superstizione abbiasi riguardo a coloro che sotto un abito che eccita con ragion del ribrezzo, non mancan tal volta di talenti sublimi e di un’anima elevata. Fra di loro i più dotti, perchè non distribuirli in impieghi ove possan contribuire alla pubblica gloria? E se in fin alcuni fra i medesimi vennero sforzati dalla crudeltà di inumani parenti, o indotti dallo stupido fanatismo sì naturale all’adolescenza a disviarsi dalla felicità, nell’abbracciarne le regole sforzinsi con una illuminata riforma loro malgrado ad esser felici.

[58] Una fiducia troppo cieca in alcuni monaci ignoranti non ha fatto forse condannare come eretica la tese dell’esistenza degli antipodi?

[59] Ciascheduno sa la condanna di Socrate. Aristotele fu accusato da Eurimedone, sacerdote di Cerere, di empietà, avendo colla fuga evitata la sorte del nominato filosofo. Anassagora fu condannato a morte per aver sostenuto che il sole è una massa ardente, e non fu salvato che dal saggio Pericle.

Fra i molti filosofi perseguitati nell’era vulgare, i più celebri sono Gallileo e Vanini; questo abbruciato in Tolosa e quello obbligato a ritrattarsi nell’Inquisizione.

[60] Egli non è che perfezionando la medesima, osserva il giudizioso Hume, che le nazioni possono lusingarsi di ammegliorare i loro governi, le loro leggi e la loro polizia (a).

(a) Voce che significa quella parte dell’amministrazione che i Francesi chiamano Police.

[61] Tale era lo stato nel quale gemevano gli sventurati Portughesi governati dalla duchessa di Mantova, o piuttosto dal suo perfido ministro Vasconsellos, uomo avido, superbo e crudele. Nel bel principio della sollevazione (maravigliosa in vero) egli fu immolato alla furia di tutto il popolo, che lo sagrificò ad un giusto furore. Così perdette Filippo IV per la tirannide quel regno, che ripose il suo diadema nell’augustissima casa di Braganza e nella persona di Giovanni IV.

[62] Il timore in un tiranno è una passion sanguinaria mortifera; laddove il vero coraggio è dolce, umano e lontano da ogni sospetto.

[63] Se il leggitore desidera di prendere una idea ancor più espressiva di un governo sì vituperevole, legga i termini con cui si esprime Tacito parlando del regno tetro e lugubre del melanconico Tiberio, ove fra le altre toccanti espressioni mi restarono sempre impresse le seguenti: Non alias magis anxia et pavens civitas, tegens adversum proximos; congressus, conloquia, notae ignotaeque aures vitari; etiam muta atque inanima, tectum et parietes circumspectabantur. An., lib. IV, p. 69.

[64] Il buon imperadore Antonio Pio amava che si discorresse con libertà del suo governo. Marco Aurelio per sapere ciò che si diceva di lui manteneva spie: se si parlava male, non lo aveva a delitto; se eran vere le cose che si dicevano, correggendosi meritava nuove lodi ed applausi; se eran false non ne faceva alcun caso. Vedi Murator. Annali d’Italia.

[65] Plutarco vita di Timoleone.

[66] Qual principe senza accusarsi reo, sapendo queste giojose acclamazioni fatte in favor di un sovrano benefico, potrà interdire le popolari adunanze!

[67] Le sedizioni sono come gl’incendj, cominciano da una scintilla negletta in casa di qualche privato cittadino, indi si estendono a’ pubblici edificj. Le sedizioni con certe salutari e pacifici provedimenti si sedano ne’ principj con ogni facilità, ma se si lasciano fermentare, eccone una inevitabile necessità di versar sangue, e di confondere alle volte le vite degli innocenti con quelle de’ colpevoli. Ma come prevenirle? Coll’essere attentivo a’ più piccioli disordini, giacchè come diceva Paolo Emiliano, non vi è alcuno che comincii a inturbidar un governo con un gran delitto.

[68] Quelli che predicano a’ principi la diffidenza sì attentiva, sotto colore d’insinuare la loro sicurezza, gli predicano la loro rovina e vergogna. Montagn. Essais, libre I, chap. 23.

[69] In tutte le terre ove pochi sono gli abitatori, la natura è bruta ed alcune volte diforme. Buffon, Histor. Nat. tom. I, art. 10.

[70] Le guerre degli antichi erano assai più sanguinose delle nostre. Le battaglie di oggidì raramente privan d’ogni speranza i vinti, laddove presso i medesimi ne seguiva che ostinatamente combattendosi, l’uno degli eserciti veniva distrutto. I vincitori trovando maggior difesa, le vittorie costavan più sangue. Tanto poteva il timore presso di loro di cader nella schiavitù!

[71] Anticamente si permettevano i saccheggj che animavano i combattenti colla speranza del bottino.

[72] Non è certo men barbaro il costume ne’ nostri climi di sagrificar al piacer dell’udito tanti infelici, che uniti a mutilati orientali formano la terza specie, non produttrice del genere umano; costume che disonora ugualmente la nazione che i governi e gli ispettori della religione che lo permettono.

[73] Se le leggi di ogni nazione costituiscono l’età di anni 20, 22 e 25 per formare un contratto di pochi feudi, avran poi da permettere che quella di 16 basti per rinunciare al diritto di essere uomo?

I padri che componevano il Concilio di Trento erano di parere che non si permettesse l’ingresso negli ordini regolari che all’età almeno di 18 e due di professione; ma i generali degli ordini, fra i quali il più audace fu il gesuita Luines, temendo la diminuzione di quei che militano sotto i loro stendardi, risposero che quella di 16 essendo stata stimata capace dalla Chiesa in un tempo in cui il mondo era meno svegliato, conveniva piuttosto d’abbassar l’età che d’inalzarla, adoperando la stessa ragione per il biennio de’ novizj.

Siccome queste disposizioni furono trattate in fine del Concilio, in tempo che i padri desideravano di partire, doppo diversi contrasti dalla parte di alcuni saggi prelati ultramontani, si volle piuttosto sagrificar l’umanità che la noja di qualche maggiore ritardo. I prelati italiani, assai più dipendenti dalla corte romana, furono i primi ad aderire. Storia del Concilio di Trento di Frà Paolo Sarpi, Lib. VIII. Sess. 72.

[74] Aristotele dice che è una crudeltà di voler elevar l’uomo ad una perfezione della quale non è capace.

[75] Aboliti i regolari, qual legge del Vangelo vieterà al clero il procreare alla patria zelanti cittadini? Giacchè il solo interesse di Roma, che prevedeva nel clero ammogliato un ceto dipendente dal principe, ne fu l’unico ostacolo? Storia del Concilio di Trento di Frà Paolo Sarpi. Altre volte non era al clero proibito lo stato coniugale, e ben lungi di ciò, si tennero nella Germania, avanti la riforma, molti sinodi che permettevano per fine a’ giovani ecclesiastici il tener concubine, ordinando loro soltanto per evitare ogni scandalo di cercare per formalità il permesso a’ vescovi e ordinarj; se la dignità dello scrivere lo permettesse, quanti fatti e leggi ridicole si potrebbero accennare? E quand’anche sia poco osservato il celibato dal clero e dai regolari, ciò non reca alcun utile alla popolazione, mentre non è diretto che verso la prostituzione. M’intenda chi può.

[76] Vedi la quinta nota di questo stesso capitolo.

[77] Ogni paese ove le ricchezze sono in poche mani, le poche persone doviziose divenendo prepotenti, devono rendere il popolo infelice, facendo cader sopra i più miserabili le imposte le più gravose. Così quanto maggiore è il numero de’ ricchi in una nazione, altrettanto felice sarà la medesima.

[78] Quando si trovano dissensioni irreconciliabili in una famiglia, odj scambievoli e mutue aversioni; quando gli umori sono diametralmente opposti; quando la sterilità priva il matrimonio de’ cari nodi che più strettamente lo avvincolano, perchè lasciar le famiglie nel seno di tante continue sciagure, quando il divorzio potrebbe renderle felici? Non è forse dovere indispensabile del legislatore di provedere a simili inconvenienti, cagioni funeste della spopolazione? Se l’unione de’ due Tarquinj colle figliuole di Servio fosse stata meglio assortita, come esser lo poteva, sarebbonsi forse veduti tanti delitti? Delitti abbominevoli, quantunque debba Roma a questi la distruzione della monarchia e l’erezione della repubblica.

[79] Se la miseria fa perdere il coraggio, quali ne saranno i frutti? La pigrizia e l’inerzia.

[80] In fatti come potrà un magro e squallido contadino divenire un coraggioso soldato? (a).

(a) Qui non posso passar sotto silenzio alcuni versi pieni di energia del Signore di Correvon, conosciuto nella repubblica letteraria pe’ suoi ottimi scritti: Vous lirez dans leurs yeux la taille e les impots, | Et sur leurs corps usés la peine et les travaux; | On diroit que le faim sous leurs toits se retire, | Le doux sommeil les fuit et jamais dans leurs maux, | S’ils osent y penser, ils n’oseroient le dire. Lettre sur les Bains d’A

[81] Una academia di agricoltura con una buona distribuzione di premj per gli scopritori delle rustiche verità, di qual utilità non sarebbe? Lo dican le diverse stabilite nell’Europa.

[82] Pagherei non solo i contadini, ma ogni operaio in proporzion del travaglio e dell’utile che apporta: il laborioso non si confonderebbe allora col negligente.

[83] Tali Consigli trovar si dovrebbero in ogni provincia, composti però d’uomini i più esperti nella coltura delle terre, e regolati cogli stessi principj di quelle Camere che erette furono in Francia dal gran Colbert per il commercio.

[84] Chi sa meglio coltivar il suo terreno e renderlo più fertile de’ suoi circonvicini, goder dovrebbe alcuni vantaggi o ottener onori.

[85] Perchè vivranno nell’opulenza i prelati e quegli indolenti che non hanno altro dovere che di cantare raucamente inni e salmi, nel tempo che i parochi, affaticati in mille e mille oggetti veramente utili e necessarj, languiscono in una non meritata miseria? Obblighinsi quelli ad adempiere gli officj della società e distribuiscansi indi a questi le smisurate dovizie de’ primi, sollevando però da ogni contribuzione i poveri agricoltori.

[86] Vien fatto mandarino del 8° ordine.

[87] Il Signore Melon dice le precise parole: Que les societés ne s’éloignent des moeurs sauvages qu’à proportion des plus grandes commodités qu’elles se procurent dans la plus grande généralité.

[88] Col proibir le estrazioni si scoraggiscono i coltivatori sempre premurosi di vendere.

[89] Qui curios simulant et bacchanalia vivunt. Orazio.

[90] Quanto utile sarebbe il ricorrere come nella Gran Bretagna a premj per estrarne se vi è soverchia abbondanza o per introdurne se vi è scarsezza!

[91] Un Consiglio di commercio sarà necessario; ma se ha da esser utile, di tre sorte di persone deve esser composto; cioè, di uomini intelligenti nel traffico speculativo di nazione a nazione, di veri negozianti arricchiti nel commercio e di alcuni giurisconsulti per decidere con equità ove entra il punto di ragione. Il presidente dovrebbe essere profundo sì nel commercio che nella giurisprudenza.

[92] Prima di stabilire nuove manifatture, si dovrebbe far attenzione al prezzo delle prime materie che esigono ed ai mezzi di smaltirle. Quanti errori non si commettono in questo genere da molti governi? Ingannati da certe apparenti utilità, danno orecchio ad ogni progetto, senza pria ponderare se il clima, la situazione ed i bisogni de’ paesi limitrofi lo permettono. Ho veduto per esempio in alcuni paesi settentrionali introdurre a gara manifatture di seta, senza por mente che loro negando il clima copia sufficiente di un tal frutto (che esigge sempre più spese ove l’aria è più fredda e più soggetta a variazioni), non possono averne la necessaria quantità senza ricorrere al forastiero, impiegando così in un lavoro che non può riuscire (anche con tutta la forza delle leggi le più severe ed ingiuste) tante mani, che potrebbero arricchire lo stato se fossero adoperate in altre manifatture relative alle produzioni del clima. La scielta delle posizioni è un’altra circostanza non meno essenziale. In fatti, chi oserà contrastare esser le isole i luoghi i più proprj per rafinare la cera? La polve agitata da un continuo passaggio di carri e di cavalli ne’ continenti fa impregnar i raggi del sole di una infinità di particelle sabbiose, che si frammischiano poi colle altre materie che entrano in una simil manifattura, a cui impediscono d’acquistare una più rafinata candidezza.

[93] Se non signoreggiassero ne’ mari, come mai potuto avrebbero difendere i diritti altrui, e sotto l’ombra de’ loro spesso venerati e sempre temuti stendardi sostenere le altrui vacillanti corone, stender possente il braccio per sollevar il debole principe che l’implora, contro le oculte o aperte violenze de’ forti? Das, adimitque regna.

[94] I Chinesi hanno una marina, ma imperfetta di molto.

[95] Parlando poi di quelle banche ove s’impiegano somme col riscuoterne un regolato interesse, dirò esser più utili le medesime a’ piccioli stati, ed ove è più raro il denaro, che nelle vaste monarchie, e dove esso è più abbondante. Le banche sono mezzi per accelerar la circolazione delle monete, per impedirne l’amasso presso dei privati e per procurarne ne’ casi i più calamitosi pronti espedienti; ma esistendo esse unicamente nelle capitali, ritardano ed anzi impediscono alle città e provincie lontane quella circolazione sì necessaria a vivificare le arti, il commercio e l’agricoltura.

[96] È da osservarsi che il grave interesse, quando è generale, non è da confondere coll’usura, non avendo altra origine che la scarsezza delle monete, lo scoraggimento dell’agricoltura o qualche commercio troppo lucrativo perchè nascente. Diminuisce allor che cresce il numerario, che viene incoraggita la cultura o che vien reso più generale e più esteso il commercio, perchè men lucrativo.

[97] È noto ad ognuno che gli Ebrei perseguitati in Francia stati sono gl’inventori del cambio, col cui modo impareggiabile fecero passare i loro effetti nella Normandia; e si è in questa guisa che i metalli preziosi son divenuti in un segni rappresentativi e merci reali.

[98] Il Fisco poi è come la milza, la quale crescendo fa dimagrare tutte le altre membra. I migliori imperatori e principi sempre ebbero una grande attenzione che il medesimo non si arricchisse. Il buon Trajano non gli lasciava giammai guadagnare alcuna causa, ed il di lui successore Adriano ordinò che le pene pecuniarie più non si pagassero alla camera imperiale, ma bensì al pubblico. Qual è quel sovrano premuroso della conquista de’ cuori che non si dichiarasse contro il proprio erario? Molti cittadini di Parigi chiesero in diversi tempi di empiere le fosse della città per edificarvi case: l’affare fu disputato più che mai l’anno 1682. Gli avvisi essendo ripartiti, Luigi XIV pronunciò per decidere le seguenti memorabili parole: Je vois bien que si l’affaire ne me regardoit pas, il y auroit eû quelques avis de plus en faveur des proprietaires; ainsi je me déclare pour eux contre le domaine de ma couronne. Il fut juste et digne de louange dans ce jour, esclama il virtuoso Abb. St. Pierre, Annal. Politic. I part.

[99] Sovrani, ecco, ecco l’oggetto delle più forti e men gravose imposte!

[100] Eraclea urbs Bithyiniae diu tyrannorum saevitiam passa, mox libera facta est. Just. lib. 6. 15.

[101] Ciro il Grande diceva: Ho consegnate le mie ricchezze alla cura de’ miei amati sudditi.

[102] Vingt places de Fermiers généraux et quelques emprunts, suffisent pour soutenir les premières années de la guerre. Facilité funeste qui ruina bientôt le royaume. Volt., Siècle de Louis XV, part. 2, ch. 31.

[103] La virtù di qualche ministro amico del pubblico o viene ignorata dal sovrano o vittima rende chi la professa degli intermediarj tiranni.

[104] Le pene sopra i contrabbandi non offendono forse la stessa natura? Esse non vengono regolate in proporzion del danno che apportano alle Ferme, ma da una inaudita tirannia, dando più di una pena ad un solo delitto di opinione. È rimarcabile che ordinariamente le leggi severe per i contrabbandi si cangiano in premj per chi li fa ed in eccitamenti per farli. Il legislatore collo stabilire una gabella esorbitante di 50 o 60 per 100 ed un castigo aflittivo per chi introduce o sorte una tal merce, fa lo stesso che dire darò il 50 o 60 per cento, oppure il tal altro premio a chiunque avrà l’industria di introdurre o di sortire dallo stato senza mia saputa la tal merce, ed infligerò la tal pena per chi non avrà la destrezza di sorprender la vigilanza de gabelieri. Il troppo eccessivo guadagno a fare un contrabbando anima a farlo; la quantità sorprendente delle guardie che si mantengono per vegliarvi, non solo fanno un torto manifesto all’agricultura e ad ogni sorta di industria, ma multiplicano il vero numero dei contrabbandieri. Non si ha che ad interessarli in un tanto per cento in proporzione delle tasse fissate, per aver qualunque merce proibita o per farla sortire. Chi vuol convincersi di questa verità viaggi le spiagge della monarchia spagnuola.

 

[105] L’antichità della metallurgia, o sia dell’arte di travagliar i metalli, è sì recondita che ne parla la stessa Scrittura: Sella quoque genuit Tubalcain, qui fuit malleator et faber in cuncta opera aeris et ferri. Genez. Cap. 4. V. 22.

[106] Con tali premj si potrebbero eccitare a trovar modi di perfezionare i colori, sì necessarj nelle manifatture. Quante altre utilità non si procurerebbero le nazioni coll’animare questa scienza, i cui veri principj non tendono che ad analizzar la natura e farla comparire sotto forme diverse!

[107] In fatti Nerone, Caligola, Eliogabalo, ben lungi di esser avari, facevano continue profusioni non solo a’ favoriti ed a’ pretoriani, ma per fino alla plebe di Roma.

[108] An satias capit, aut illos, cum omnia tribuerunt, aut hos, cum jam nihil reliquum est, quod cupiant? Tac. Ann. lib. III.

[109] Questo saggio imperatore diceva che era cosa indegna ed anzi crudele il lasciar divorare il pubblico da chi non gli ha prestato serviggio alcuno. Muratori, Ann. d’Italia. Il buon Luigi XII non solo resister sapeva alle avare istanze de’ cortiggiani importuni, ma, deriso per la di lui mancanza di generosità, seppe lasciare ai posteri le seguenti memorabili parole: Ho maggior piacere che la mia avarizia li faccia ridere che se li facesse piangere. Duclos, Consider. sur les moeurs, c. IV.

[110] Il primo, dice un grand’uomo, che rovinò la repubblica fu colui che cominciò a dar festini al popolo, distribuendogli denari e generi.

[111] Menedemo, filosofo greco, diceva che si governano intiere città con buone massime e che non si perverà giammai a condurre una sol famiglia colla musica. Diogen. Laertio, Vita di Mened.

[112] Chi pensasse voler io consegliare il cesto o altri giuochi di simil tempra, mi capirebbe sì male che potrebbe qui tralasciar di legger quest’opera.

[113] Antonino Pio diceva di non viaggiare perchè sapeva quanto era costosa a’ popoli la corte di un imperatore. Murat., Annal. d’Ital.

[114] Quando Agricola ebbe fatte conquiste nella Bretagna, per distruggere il fanatismo imperioso dei Druidi e per render i popoli colti ed ubbidienti, a chi ricorse se non alle arti ed alle scienze?

[115] Non pretendo dire che le sole scienze abbiano resi vittoriosi i Greci ed altri popoli, mentre sarebbe far un torto manifesto al loro valore. Dirò che il coraggio sostenuto dalla prudenza e dalle scienze sarà sempre vincitore di quel valore che secondato non si trova dalle cognizioni troppo utili e necessarie nelle guerriere intraprese.

[116] È un problema forse più difficile che non si pensa a decidere se la statua che si erge a Parigi al più grande e più sapiente fra tutti gli autori antichi e moderni sia più onorevole pel signor di Voltaire o per la Francia stessa.

[117] Un popolo di sapienti sarebbe al certo dannoso in ogni vasto governo. Alla sola Ginevra è riservato questo bel vanto. Non è difficile di rinvenire in questa repubblica industri artefici portar da una mano gli strumenti della lor arte e dall’altra libri scientifici e penne eloquenti. Reca sommo stupore il vedere il numero grande de’ letterati di questo paese e la scelta de’ veri sapienti. Il signor Carlo Bonnet, nome prezioso alle scienze e sì caro all’umanità, il signor Le Sage, Vernet, Trembley, Tronchin, il barone des Lubières, Moultou, De Luc, Mallet e Pictet son tutti celebri nell’Europa, oltre gli eccellenti soggetti che compongono il Senato academico e la Compagnia. Nel seno di codesta repubblica ho veduto io stesso, non senza gran meraviglia, un calzolajo sottoscriversi per la seconda edizione dell’Enciclopedia, ed avere in casa sua una ben scelta biblioteca del valore di mille scudi e spolverizzata; un imballatore della dogana ed un falegname possedere a fondo gli elementi della geometria. Portenti inauditi della libertà e della tolleranza!

[118] È sì falsa una tal idea che in ogni tempo si viddero i popoli colti, quando anche furono soggiogati, conservare una grande superiorità sopra le nazioni barbare ed ignoranti. Quanti esempj non ci somministra la China, ove i Tartari conquistatori sempre addotarono gli usi ed i costumi de’ vinti!

[119] Police. Quella parte di amministrazione che potrebbe in italiano esprimersi colla voce forse equivoca di Polizia civile.

[120] E perchè non far ivi sgravare le semine senza che abbiano da temere gli effetti del disprezzo e dell’ignominia?

[121] Scha-Abbas, il grande re di Persia, eriggendo nel suo vasto regno tanti utili stabilimenti, fu richiesto perchè fondato non avesse alcuno spedale. Non voglio, rispose, che i Persiani abbiano bisogno di spedale. Non v’è in alcun luogo maggior numero di ammalati che in quelle città ove si trovano spedali. Non sarebbe forse meglio di ajutare chi ha bisogno di medici e di medicine nelle loro proprie case, che di unirli in siti ristretti, ove la multiplicità de’ medesimi e la comunicazione di tanti mali diversi vi accagionano spesso l’infezione? Dico poco, ma potrei dir molto.

[122] Cocecjo Nerva fu il primo imperadore che facesse sì belle istituzioni, ed alcuni di lui successori ne accrebbero il numero e ne ammigliorarono il mantenimento. I fanciulli non dovrebbero esser uniti in un sol luogo, mentre, infettandosi l’un l’altro collo scorbuto ed altri mali, buona parte dei medesimi perirebbe, ma devono piuttosto esser elevati separatamente sino all’entrar dell’adolescenza.

[123] Quando esse sono troppo spaziose recano danno all’agricoltura ed impiegano terreni che possono nudrire molte famiglie.

[124] Ciro il Grande, per essere informato di ogni cosa ed affine di poter istruire con facilità tutti i governatori delle provincie de’ suoi ordini, fu il primo che stabilì l’uso dei corrieri o sia poste. Le case che servivano alle medesime erano distanti un giorno di cammino l’una dall’altra. Augusto nell’introdurle nel romano impero le ammigliorò. Trajano ed altri imperadori ne accelerarono le spedizioni. Il corso era allora ad aggravio del fisco, giacchè non serviva che al trasporto degli uficiali e degli ordini degli imperadori. In Francia le poste s’introdussero con un miglior sistema l’anno 1472 sotto Luigi XI, ed in Germania dal Baron Taxis, che per ricompensa le ebbe in feudo l’anno 1616 dal imperador Mattias.

[125] Il re di Prussia.

[126] I Romani in diversi tempi fecero leggi assai provide sopra questo oggetto, ma esse furono negligentate dai successori. Antonino Pio ed altri imperatori le rimisero in vigore, perchè le ritrovarono troppo necessarie alla salute dei cittadini; se troppo rare e costose non fosser le legna in certi paesi, direi che il miglior metodo sarebbe, imitando i costumi della più recondita antichità, l’abbruciare i corpi e richiuderne nelle urne le ceneri.

[127] È da notarsi che una tal libertà non sarebbe di vantaggio a certe nazioni che possiedono piccioli territorj e circondati da vicini più potenti. Presso di queste dunque un pubblico granajo, come quello di Ginevra, sarà un capo d’opera di politica saviezza.

[128] Adriano condonò tutti i debiti che i privati e le provincie da 16 anni in addietro avevano colla Camera imperiale. Antonino Pio l’anno 10° del suo regno fece la medesima generosità. Ecco come sapevano que’ magnanimi monarchi far rissorger i popoli dalla miseria e restituire l’abbondanza.

[129] Oltre l’esempio di Cambise, padre di Ciro, vi è quello di Augusto celebrato da Svetonio e da Orazio: Nepotes, et litteras et notare aliaque rudimenta per se plerumque docuit – Neque coenavit una, nisi ut in imo lecto assiderent; neque iter fecit, nisi ut vehieulo anteirent, aut circa adequitarent. Sv. In vit. Aug.

quid mens rite, quid indoles / Nutrita faustis sub penetralibus / Posset, quid Augusti paternus / In pueros animus Nerones. Lib. IV, Od. IV.

[130] Diogene diceva che di tutte le morsicature delle belve private, la più velenosa era quella dell’adulatore, come fra le fiere quella del calunniatore.

Aruistene, filosofo greco, sosteneva esser meglio cadere fra le zane de’ corvi che fra le mani degli adulatori; imperciochè quelli non offendon che i morti, invece questi divorano i vivi.

[131] Gli uomini malvaggj che s’avvicinano de’ principi, loro vanno continuamente dicendo che le sovranità vengono da Dio e che i re possono fare ciò che vogliono senza aver d’uopo di consultare che i loro privati interessi. Meditate, o arbitri del genere umano, ciò che dice un gran filosofo, eccone le parole: On ne peut nier, puisque la religion nous l’enseigne, que l’autorité légitime des rois ne vienne de Dieu; mais c’est le consentement des peuples, qui est le signe visible de cette autorité légitime, et qui en assure l’exercice. Mélanges de littérature, d’hist. et de philosophie de Mr. d’Alembert.

[132] Gli Ateniesi sagrificavano un agnello alla memoria di Chonnidas in riconoscenza di aver data buona educazione a Teseo.

[133] L’Egitto fu uno stato felicemente governato finchè i sacerdoti vi furono poveri e soggetti, ma divenuti ricchi e possenti, immersi tenendo i popoli nelle tenebre dell’ignoranza, l’adito delle scienze essendo loro esclusivamente aperto, i principi si viddero costretti di confidar a questi l’educazione de’ successori, a’ quali destramente seppero ispirare non so qual sacro rispetto pel sacerdozio, armandosi del lor braccio per signoreggiare sulla nazione col più arbitrario potere.

[134] Feridoun Re di Persia così parlava a Manougeher suo nipote e successore.

[135] Così parlò Creso a Ciro: Signore, vendicatevi di Pachtyas, che essendo posto da voi alla guardia dei tesori osò ribellarsi. Egli sia punito, giacchè è solo colpevole, e contentatevi di metter i Lidiani fuori di stato di nocervi. Poibite loro le armi, comandate loro di portar abiti magnifici e senza cintura, di calzar brodechini, di far imparar a’ loro figliuoli a sonar strumenti, a cantare, ad abbandonarsi allo stravizzo ed ad ogni sorta di sollazzi. Vedrete tosto uomini cangiati in femine, ed allora nè voi, nè i vostri successori avranno più da temere. Tutto arrivò come Creso avea predetto. Herodot., cap. 154, 156.

[136] Ne’ principj della più saggia metafisica vien provato che l’uso di applicar la tenera gioventù ne’ primi anni de’ studj a cose che non può capire o amare non è proprio a svilupparne i talenti. Vedi Essai sur l’origine des connoissances humaines, tom. I, chap. V, § 50, sect. 12; indi tom. II, chap. III, sect. 11, § 44.

[137] Non mi si dimandi qual sia l’idea o il numero d’idee che debbono attaccarsi a questo nome. Ciascuno deve sentirlo: e se si arrivasse mai a deffinire cosa sia, non vi sarebbe onore.

[138] Credo che simili giuochi abbominevoli abbiano contribuito ad accostumare certi tiranni a far verun conto delle vite de’ sudditi.

[139] In queste unioni di popolo nelle campagne, vorrei che sotto gli auspicj di qualche magistrato vi presiedessero quelli fra tutti i contadini che al maggior sapere nelle rurali cognizioni unissero la maggior integrità de’ costumi.

[140] Guardinsi i filosofi dal proporre giammai simili difficoltà! In man di un tiranno diverebbero armi terribili, spesso grondanti di sangue innocente. Par certo che il Signor Linguet non pose mente alle funeste conseguenze che ne derivano.

[141] Legger si possono nel capo XXXVIII del primo volume di quest’opera.

[142] Nelle tue lusinghiere speranze ravvisa, Milano, il paterno cuor del tuo gran principe!