Storia d’Italia

Alessandro Verri
SAGGIO SULLA STORIA D’ITALIA (1764-1766)

Testo critico stabilito da Barbara Scalvini (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001), revisionato da Gianni Francioni (2021)

Prefazione.

Capo I. Princìpi di Roma. Tempi della monarchia; suo cambiamento in Repubblica. Digressione su Pitagora e la sua setta.
Capo II. Inutili sforzi di Tarquinio per ritornare in Roma. Discordie fra i patrizi ed i plebei. Dispotismo de’ decemviri. Venuta de’ Galli. Guerre co’ popoli della Magna Grecia sino alla totale conquista d’Italia.
Capo III. Della credibilità dell’antica storia romana.
Capo IV. Le tre guerre puniche.
Capo V. Decadenza della libertà. Guerre esterne e civili fra Mario e Silla.
Capo VI. Della costituzione civile di Roma.
Capo VII. Di Cesare e Pompeo, e della riforma del calendario.
Capo VIII. Triumvirato di Ottavio, Antonio e Lepido. Osservazioni sul­la forense eloquenza de’ Romani. Battaglia d’Azio che riduce nel solo Ottavio il comando dell’impero. Sulla questione se il lusso fosse cagione della rovina della Repubblica. Carattere d’Augusto. Coltura del suo secolo.
Capo IX. Degl’imperatori sino alla incursione de’ barbari.
Capo X. Delle incursioni de’ popoli settentrionali e degl’imperatori sino a Costantino.
Capo XI. Di Costantino e’ seguenti imperatori sino a Teodosio il grande.
Capo XII. Nuove incursioni de’ barbari e fine dell’occidentale imperio.
Capo XIII. Del regno de’ Goti.
Capo XIV. Del regno de’ Longobardi e sua estinzione. Rinnovazione dell’impero occidentale in Carlo Magno. Alcuni usi di que’ tempi.
Capo XV. Di Lodovico il Pio e’ seguenti imperatori. Scisma di Fozio. Divorzio di Lottario. Disordini d’Italia. Incursioni de’ barbari. Degli Ottoni. Giudizi di Dio. Faide.
Capo XVI. Rivoluzioni nel governo d’Italia. Degl’imperatori Enrico II, Corrado il Salico, Enrico III. Venuta e conquista de’ Normanni. Contese fra Arrigo IV e Gregorio VII. Arrigo V e Pasquale II. Loro conseguenze e fine. Repubbliche d’Italia. Letterati di que’ tempi.
Capo XVII. Del commercio d’Italia. Crociate. Giudizi del fuoco. Guerre di Ruggero re della Puglia con i papi Onorio ed Innocenzo, con Lattanzio imperatore ed i Greci. Introduzione delle manifatture di seta. Studio delle leggi romane in Bologna. Idea di questi studi. Del decreto di Graziano. Teologia scolastica. Scienze degli Arabi.
Capo XVIII. Di Federico I imperatore. Tumulti in Roma e nel Regno di Napoli. Distruzione di Milano. Dieta di Roncaglia tenuta dall’im­peratore. Antipapi. Lega Lombarda contro Federico. Pace di Co­stanza. Nuove crociate.
Capo XIX. Incoronazione di Enrico VI. Contese d’Innocenzo III con Filippo re di Francia e suo figlio Luigi, e con Giovanni re d’Inghil­terra. Imprese di Enrico sul Regno di Napoli. Suo figlio Federigo II e l’imperatore Ottone IV se lo disputano. Aspre contese fra Gregorio IX, Innocenzo IV e gli imperatori Federigo e suo figlio Corrado. Delle fazioni guelfa e gibellina.
Capo XX. Dei flagellanti. Venuta in Italia di Carlo d’Angiò. Sue guerre con Manfredi e Corradino, e lor fine. Parte che v’ebbe il papa Innocenzo IV. Rodolfo imperatore. Riunione instabile della Chie­sa greca nel Concilio di Lione. Vespro siciliano e suoi conseguenti. Di Guglielmina. Invenzione degli occhiali.
Capo XXI. Mutazione nel governo delle repubbliche. Invenzione del­l’ago magnetico. Controversie fra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. Spettacoli de’ tempi. Trasporto della Santa Sede in Avignone. Di­spute fra Clemente V ed i Veneziani per Ferrara. Abolizione de’ Templieri. Letteratura de’ tempi.
Capo XXII. Guerre fra l’imperator Enrico VII, Roberto re di Napoli e Federico re di Sicilia. Parte che v’ebbero i papi Clemente V e Giovanni XXII. I gibellini lombardi chiamano in Italia Lodovico il Bavaro. Disprezzi delle scomuniche. Della lingua volgare. Prin­cìpi della coltura. Costumi.
Capo XXIII. Infelice spedizione in Italia di Giovanni di Lucemburgo re di Boemia. Inutili istorie di Lodovico il Bavaro per l’assoluzione delle scomuniche. Carlo IV proclamato imperatore. Di Giovanna regina di Napoli. Di Nicola da Rienzo. Dei Visconti di Milano. Loro dispute co’ papi.
Capo XXIV. Scisma della Chiesa. Venuta di Carlo della Pace a Napoli. Morte della regina Giovanna. Di Urbano VI. Erezione del Ducato di Milano. Genova si sottomette al re di Francia. Compagnia de’ Bianchi. Della cavalleria.
Capo XXV. Seguito dello scisma e suo fine. Vicende de’ Visconti e del Regno di Napoli. Concili di Costanza, Basilea e Ferrara. Loro circostanze ed esito. Instabile riunione co’ Greci.
Capo XXVI. I Turchi prendono Costantinopoli. Timore de’ papi che non vengano in Italia. Inutili tentativi del duca d’Angiò sul Regno di Napoli. Assassinio del duca di Milano e di Giuliano de’ Medici. Zizimo fatto prigioniero da’ cavalieri di Rodi. Letterati greci fu­gono in Italia. Risorgimento della letteratura.
Capo XXVII. Venuta in Italia di Carlo VIII e di Lodovico XII. Imprese loro nel Regno di Napoli e nel Ducato di Milano. Come il Regno di Napoli si unisse a quello di Sicilia. Di Alessandro VI. Di Giro­lamo Savonarola. Di Giulio II e sue gesta. Del predicatore Gabriele da Barletta.
Capo XXVIII. Guerra di Francesco I e Carlo V per il Ducato di Milano ed il Regno di Napoli. Prigionia di Francesco e scisma della Chiesa sotto Leone X. Sacco di Roma sotto Clemente VII. Paolo III e Giulio III suoi successori; loro condotta. Rinuncia di Carlo V.
Capo XXIX. Stato delle scienze in Italia nel secolo decimosesto.
Capo XXX. Di Paolo IV; sue controversie con Ferdinando imperatore e Filippo II, ed Elisabetta regina d’Inghilterra. Inquisizione di Roma e di Spagna. Di Pio V; suo governo; sua bolla «In coena Domini». Lega da lui promossa contro de’ Turchi. Strage degli ugonotti in Francia. Riforma del calendario.
Capo XXXI. Di Sisto V. Suo governo; sue dispute coi re di Francia Arrigo III ed Arrigo IV. Di Clemente. Sue gesta. Di Paolo V. Interdetto e cospirazione di Venezia. Guerre d’Italia.
Capo XXXII. Stato d’Italia e sue guerre. Presa di Candia. Sollevazioni in Palermo ed in Napoli. Controversia fra il papa ed il re diFrancia. Dei scrittori seicentisti. Di Giovan Battista Andreini.
Capo XXXIII. Sollevazione di Messina. Questione della regale fra il papa ed il re di Francia. Bombardamento di Genova. I Veneziani pren­dono la Morea. Strage degli ugonotti in Francia. Tumulti in Roma per le franchigie degli ambasciatori. Guerre e pace di Riswich.
Capo XXXIV. Guerra della successione di Spagna. Ribellione della Cor­sica. Guerra per l’elezione del re di Polonia. Situazione del papa Clemente XII. Cambiamenti nei governi d’Italia.
Capo XXXV. Del pubblico atto di fede seguito in Palermo l’anno 1724.
Capo XXXVI. Guerra per la successione dell’imperatore Carlo VI. Solle­vazione di Genova. Spedizione degli Austriaci in Provenza. Tumul­ti in Napoli. Pace di Aquisgrana; suoi effetti quanto all’Italia.
Capo ultimo. Conclusione.

Prefazione

Mio scopo è stato, scrivendo questo saggio, di svellere dalle mani de’ pochi eruditi la storia nostra per diffonderla ne’ molti leggitori. Perciò ho temuto di fare un grosso libro, ed ho dirette le mie fatiche a scegliere, a restringere, come altri a compilare ed ammucchiare.

Non si aspetti il lettore descrizioni di guerre, non discussioni erudite, non genea­logie di principi. Fors’è più facile il compilare queste opere che il leggerle. Nella storia, come nella poesia, furono gli uomini più coraggiosi che in qualunque altro genere di letteratura. Ogni nazione, per poco colta ch’ella sia, ha una vasta biblioteca di cronisti, e pur pochi son coloro che li conoscano. Non condanniamo questa ignoranza. Rare sono le opere di tal genere che si meritano la pazienza de’ lettori.

Quanto a me, scrivendo non ho misurato il mio stile colla benignità, ma col piacere de’ leggenti, perciò non la imploro, ma ho cercato di meritarla.

Che mi offre alla mente quello sterminato mucchio di follie e di atrocità, di vizi e di virtudi che formano gli annali del genere umano? Una confusa ed immensa folla di vicende. Chi può tutte descriverle, e chi le deve? Conviene pur dunque ridurre questa gran materia in poco e, misurando la brevità della vita e la molteplicità delle cogni­zioni, non pretendere che gli uomini consacrino tutti se stessi per sapere che fecero i loro antenati, onde è necessario il contentarci di non ignorare quanto di più utile e degno a sapersi giace involto nelle infinite memorie che ci sono tramandate. Deplori l’erudito il saccheggio che noi faremo della istoria sfiorandone il sommo sugo, e lasciando nella oscurità il molto che ci par degno di rimanervi. Noi cerchiamo d’istrui­re, di piacere e di far pensare. Ciò che non ottiene questo fine ci è sembrato inutile.

Non è che la storia non possa scriversi con dettaglio. Non sono mai bastevolmente copiose quelle de’ scrittori contemporanei, e le vaste raccolte. Le prime assicurano a’ posteri la conoscenza de’ fatti e, se sono anco scritte con inutile abbondanza, egli è sempre questo un piccolo male in paragone della irreparabile sterilità. Quanto poi alle vaste raccolte, esse son grandi magazzini, il di cui pregio è d’esser tali che ogni sorta di letterato vi trovi merce opportuna a’ suoi lavori. La sola possibilità che a qualcosa servir possa una notizia basta per inserirvela.

Ma conviene distinguere questi due generi di storia da quello di chi intraprenda la pittura di molti secoli. Il minuto dettaglio e la vastità della erudizione sono in tal caso fuor di luogo. Sono condannati gli uomini a sempre ignorare la storia s’ella ha d’esser sempre copiosissima. Conviene distinguere l’erudito dallo storico. Quello prepara i materiali ed i colori, questo fabbrica e dipinge; egli è come il punto d’ap­poggio fra il comune degli uomini e gli eruditi. Presenta a’ leggitori il risultato di studi immensi.

Non farò gli elogi della nostra istoria. Essa è la più antica di Europa se ne eccettuate la greca. Prima ci presenta una nazione che aveva resi soggetti ed ammira­tori tutt’i popoli ch’ella conobbe, il di cui governo, milizia, leggi, scrittori, eroi sono tutt’ora la nostra meraviglia ed instruzione. Roma, ch’era stata signora delle genti colla forza, la divenne colla religione. E come il Senato romano dava e toglieva i regni, ed i trionfatori consoli e dittatori conducevano i cattivi re al Campidoglio, così i pontefici reggevano l’Europa colla non meno possente forza della veneranda opinione. Diero, tolsero scettri, e corone; vider supplici a’ lor piedi i re; viderli vassalli e tributari; unirono armate colle crociate, le sconfissero cogl’interdetti.[1]

Non sono opere leggiere i compendi. È facile il compilar la storia con tutto quello che si sa, non mai rinunciando alla propria vanità in favore de’ lettori, a’ quali vogliamo imprimere alta idea di nostra erudizione coll’opprimerli di mille discussioni. Più illuminato è l’amor proprio, più utile è l’opra di chi cerca di ridurre in sugo la vasta e diradata materia istorica, di chi cerca sempre di nascondere la fatica piuttosto che di palesarla, di chi sparge il suo stile di riflessiva, semplice, facile narrazione, e presenta in poco l’estratto di lunghi e faticosi studi. Egli otterrà di esser letto, egli renderà universali quelle notizie che stanno sepolte in volumi immensi, ispidi per molta pedan­teria. Non v’è altro mezzo di render comune la storia.

Non mancò chi si lagnasse che tal sorte di opere abbia fatte perire le grandi. S’incolpa Giustino d’aver fatto perire Trogo Pompeo. Ma fortunato quel compendiatore che faccia cader nell’oblio le opere voluminose! Bisogna che le abbia rese inutili. Non avrà perduto molto la filosofia riducendo un grosso libro in un piccolo. In questo genere di letteratura tutto dipende dalla buona scelta, e dal non sostituire la nostra persona a quella del lettore, ma bensì porre noi al suo luogo.

A forza di abituazione ne’ studi, si acquista per essi un grado di stima, si dà loro una importanza che il lettore non conosce. Da qui ne viene che, poco giudiziosamente attribuendo altrui le nostre passioni, crediamo che i lettori debbansi compiacere di alcune minute discussioni e di alcune notizie, le quali noi amiamo assaissimo, come in ogni arte avvenir suole, ch’ella sia stimata all’eccesso da’ suoi professori. Ciascuno si ferma volontieri, e siede agiatamente a discorrere del proprio mestiere; ciascuno è chiacchierone nell’arti sue. Anche lo storico ha questo difetto, se non è cauto ad evitarlo. La difficoltà è grande. Per intraprendere e condurre a fine un’opera faticosa vi vuol molta passione; e per iscriverla non ve ne vuol tanta. Vi sono de’ gravi trattati sul modo di fare il caffè e le perrucche; loro altro non vedevano che perrucche e caffè. Ciò può avvenire in ogni altra materia. Io non so se mi sia riuscito di sfuggire questi difetti; ben so che ho proccurato di farlo. Ho sempre avuta fretta di correre il mio cammino, ho rispettata la impazienza degli uomini, ho cercato d’istruire in buona fede, non mi sono proposto di rendere il mio lettore un profondo erudito, ma un uomo colto. Come chi de’ fare un lungo viaggio con un compagno, cui voglia mostrare le vedute, le campagne, i villaggi laterali al cammino, indica, dà notizia, dimostra in breve ciò ch’è degno di attenzione, e prosiegue la sua strada, senza fermarsi su due piedi ad ogni momento ed opprimere il suo compagno lettore con lunghe disquisizioni e con minute osservazioni su tutti gli alberi, e le vedute, ed i rottami, e le capanne, coll’immancabil successo di render lunga e faticosa la via, ed annoiato, non instrutto il socio suo.

Mi son guardato parimenti da un altro difetto, che egualmente nasce da una lunga dimora in un solo genere di studi. Non v’è, per avventura, nella storia uno stile più sconciamente falso che il poetico, quando dipingere vogliamo le azioni ed i fatti come se vi fossimo presenti. L’immaginazione arriva a trasportare l’erudito in Atene ed in Roma, e quasi a sognare di esservi propriamente. Quindi si descrivono le battaglie con un calore da cui sembra che lo storico istesso vi stia combattendo; quindi non mancano le esatte descrizioni delle passioni; i sospiri, il pianto, l’ira, il valore, la compassione si dipingono su volti da noi più secoli distanti, si entra con mirabil coraggio ne’ pensieri de’ principi, e si annullano gl’invalicabili anni che stanno di mezzo fra lo storico ed i fatti. Questa è una falsa vivacità di stile. Essa non disconviene a’ contemporanei; ma nei posteri deve comprendersi una esatta e cauta discussione del vero, e trasparir de’ sempre in loro, per mio avviso, uno timido spirito di dubitazione che escluda ogni sospetto di romanzesco arbitrio. Bisogna conciliarsi fede e benevolenza ne’ leggitori: bisogna perciò ch’essi vedano nello scrittore un amico che, seco loro favellando, cerca il vero per quelle poche e scabrose vie che rimangono, dopo molti secoli di menzogne. Egli è incredibile quanto indisponga gli animi, in ogni genere, lo stile magistrale. Sembra ch’ei rimproveri ad ogni momento la ignoranza del leggitore, il quale si offende, diventa nemico, ostilmente va in traccia dei difetti dell’opera, non ne cura le bellezze: l’amor proprio è un giudice inesorabile.

Bisogna ancora guardarsi nella storia dalla voglia di sistemizzare. Per poco che si abbia d’ingegno, se ne può in tal guisa abusare. Si scoprono delle relazioni fra fatti e fatti; tutto si vuol ridurre ad un fattizio sistema della mente; si alzano de’ vasti edifizi su due dita di terreno; vi sono, per così dire, i suoi Descartes anche nella storia; vi sono i suoi microscopisti che vedono colla immaginazione, e non cogli occhi. Non cadono in questo difetto gli uomini mediocri e freddi; i grandi e fervidi ingegni hanno questo felice inconveniente, padre d’illustri ed ammirabili deliri. Ma più si conosce la storia, più comprendonsi le cagioni degli avvenimenti, più la mente ne abbraccia una gran massa, più ancora ella è cauta nel formar sistemi. Chi vede pochi fatti e sceglie quelli che sieno conformi alle sue idee, può facilmente sistemizzare; chi ha viste più lontane vede come possano formarsi questi sistemi, ma anco come distruggersi.

Ben di rado la fortuna delle vicende presenta allo spirito una costanza di avveni­menti, la qual ci conduca ad una general cagione, di molti affetti produttrice. Ad ogni momento il tumultuoso ammasso dei deliri e delle crudeltà degli uomini tronca il filo allo storico che avea cominciato ad entrare in questo laberinto, ed ei la ritrova, per lo più, composta d’isolati e disgiunti pezzi, difficilmente costituenti la materia, molto meno una serie di conseguenze generali. La storia istessa di tutto il globo non porge­rebbe che di rado questa materia; che sarà in quella di un gruppo di persone abitanti un piccol canto del mondo? Perciò conviene, preferendo il timido vero agli splendidi errori, limitarsi per lo più a qualche fuggitiva riflessione, e, paragonando fra di loro le parti della storia, vederne piuttosto le varietà che le somiglianze; perchè quelle son molte, e poche queste; in quelle non ci seduce l’immaginazione, ed in queste ci lusinga il piacere di ridur molte azioni ad un sol punto.

Non v’è, per avventura, che il popolo romano che nella nostra istoria ci presenti un soggetto di concatenate generali riflessioni. È una nazione che passò a traverso d’infinite vicende; è una nazione grande, e strana in tutte le cose sue, di una costante condotta in molte parti, ove ritrovi vasta materia di ragionare, perchè è una massa di avvenimenti l’uno all’altro appartenenti, e paragonabili in molti prospetti. Dopo di questi secoli più non ritrovi sì grande nazione. Sono crudeli e pazzi, poi imbecilli imperatori che guidano una mandria di uomini. Sono barbari che saccheggiano le ruine di un vasto impero, che lo squarciano, poi se lo dividono. Quindi sorgono le atroci controversie fra i contraddittori diritti dell’imperio e del sacerdozio, cui vanno dietro le nazioni, dal seno delle quali rinacque in Italia la libertà; libertà funesta che la divise in tante piccole e gelose repubbliche perpetue nemiche, e spente alla fine dall’abuso di una licenziosa indipendenza. Successero a lei i tiranni, finchè, vinti anch’essi da maggior potenza, le sparse forze in queste si riunirono, e, cangiate le trepide opinioni con princìpi più conformi alla nascente coltura, le grandi idee dei terreni dritti del sacerdozio scemaronsi e, decaduta questa sola gran potenza che ci rivolgeva lo sguardo delle genti, divenne l’Italia una provincia obbliata in un canto d’Europa; finchè con mezzi meno funesti riscosse l’ammirazione, diventando la madre delle belle arti, nelle quali, un tempo maestra, ora gli è serbato un posto men glorioso. Tai furono le vicende sue: e s’elleno presentano un sempre instruttivo e variato quadro, non sono però, per la loro irregolarità e tumulto, il soggetto di un vasto e seguito sistema. Egli è ben vero che la stranezza e varietà delle cose essendo materia di molte particolari riflessioni, esse divengono così importanti come le generali.

V’ è chi brama ritrovare nella storia i puri e succinti fatti, lasciando a’ lettori il merito di ragionarvi. Questo metodo è ottimo quando si possono presentare i fatti così strettamente uniti che, per poco di finezza abbia il lettore, ne può dedurre le conseguenze. È lo stesso il far riflessioni come il farle necessariamente fare. Anzi la storica pedanteria consiste in ciò, di far le più triviali riflessioni, quelle che altro non esiggono che un mediocre buon senso. Ma sono ben pochi i casi ne’ quali si ritrovi questa fortunata combinazione. Troppo si stima colui il quale si crede di poter fare, su di una serie di vicende, riflessioni così esatte e vere, quante ve ne farà chi si è consacrato ad esaminarle e conoscerle. Egli è più in istato di paragonare fatti con fatti, di vedere la materia nella sua estenzione; vi ha impiegati lunghi studi, ne ha fatto il soggetto delle sue meditazioni. Devono bensì nascere spontaneamente queste rifles­sioni; nè si veda nell’autore la voglia e quasi il mestiero di riflettere. Ei sia più frequente nel farle che prolisso, più rapido che discusso, più agiato che faticoso; riunisca al momento i fatti, poi gli abbandoni, e siegua il suo viaggio: non mai esaurisca la materia. Indichi, e lasci pensare. Non è esatto quel precetto, che le riflessioni devono essere fatte per la storia, non la storia per le riflessioni. Basta dire che in esse vi regni uno spirito di filosofia. Se non formeranno una storia, formeranno un buon libro.

Non bisogna mai esser municipale nella storia: non bisogna ristringer la piccola mente in un palmo di paese. È prodigiosamente modesto chi non brama d’aver qualche voto dagli stranieri: ogni serie di vicende è capace d’interessare generalmente i leggitori, se sia dettata dal condimento d’ogni cosa, lo spirito di filosofia. Il filosofo rende importante tutto ciò che passa fra le sue mani. Non v’è cronica d’un oscuro villaggio ch’egli non sapesse render più grande, che non quella de’ più vasti regni, scritta da’ raccontatori di battaglie, di leghe e paci, di matrimoni e successioni di principi.

Devo i miei omaggi alla illustre memoria del signor Muratori. Quel gran letterato ha tanto scritto sulle cose nostre, che ad ogni momento bisogna ricorrere a lui. Egli è dapertutto. Prima di lui sapevamo poco della nostra storia, dopo le gloriose sue fatiche non abbiamo d’invidiare nessuna nazione. Non mi s’incolpi di essere il suo compendiatore. Egli comincia da Augusto, io da Romolo; e spero che svanirà tal sospetto, anche di que’ secoli de’ quali ei scrisse, confrontando questo mio opuscolo colle vaste opere sue. I suoi gran lumi m’hanno dato il filo, ma quando l’ebbi fra le mani camminai da me stesso.

Il metodo che scelse quel rispettabile uomo non mi sembra il migliore, quan­tunque il più comune. M’intendo il dividere la storia in annali. Ella così tutta si sfracella: la catena degli avvenimenti si frange ad ogni passo. La divisione non è mai arbitraria, molto meno può esser così regolare nelle vicende umane. Ella nasce dai fatti istessi; essi determinano i confini del racconto, non già i dodici segni dello zodiaco. Da qui ne viene che la storia diventa una gazzetta, e come l’Ariosto si troncano a mezzo tutt’i racconti. Si lascia Rinaldo per parlare di Angelica. Questo inconveniente si vede negli annali del signor Muratori, e vi sarà in ogni opera di tal genere. Tal metodo rende ancora difficile l’intelligenza de’ fatti, e reca alla memoria una confusa serie di avvenimenti che più si sminuzzano più s’involvono e si confon­dono.

Ho creduto necessario il citar gli autori. Non tanto perchè mi si credesse, quanto perchè gli ho risguardati come una interessante parte della storia. Importa il sapere chi di mano in mano la scrisse. Questa filologia costa nessuna fatica, ed è di molta instruzione. Perciò io non credo da seguirsi il metodo degli antichi, grandi nemici delle citazioni. Forse alcuni le temono, perchè danno in mano del lettore il filo per mettere a prova la fedeltà ed esattezza del racconto. Ma bisogna far in guisa da non aver questi timori. Non sono però stato così scrupoloso di citare ad ogni parola. L’ho fatto quando mi parve necessario. Chieggo per fine di esser giudicato con quella imparzialità con cui ho scritto. Non esigo altro sentimento nel lettore che questo; ho desiderato di scriver in modo ch’ei solo mi bastasse.

Capo I. Princìpi di Roma. Tempi della monarchia; suo cambiamento in Repubblica. Digressione su Pitagora e la sua setta.

Mio pensiero non è d’indagare l’oscura origine degli Aborigeni, Arcadi, Siculi, Umbri, Ausoni, Pelasgi, Liguri, Sanniti, Sabini e di tanti altri popoli che dicesi abitas­sero l’Italia prima de’ tempi di Romolo. Se, dopo più di due mila anni, puossi aspirare a cotanto, fia questa l’opra de’ pazienti compilatori. Noi con Livio, che fu assai più vicino a que’ tempi, non oseremo di affermare quella storia o di negarla. Forse vi furono in queste regioni, in antichissimi tempi a noi ignoti, popoli conquistatori, genti ed imperi di gran nome, che, ricoperti di poi dalla folla de’ secoli, o da altre nazioni ingoiati e dispersi, giaciono in seno di quella oscurità a cui l’immenso spazio di tempo che da noi li divide, e la perdita delle memorie in quelle strepitose rivoluzioni cui soggiaciono le nazioni e l’universo, le ha condannate. O forse, chi sa che non molto abbia preceduto i tempi favolosi quel fenomeno, quel terremoto, quella scossa che alzasse dal mare questa penisola?

Non è permesso agli uomini ragionevoli l’esser eruditi dove si tratti di ricercare la verità della origine delle nazioni. Ella dev’essere sempre favolosa o perchè non aveansi in que’ tempi selvaggi i mezzi di tramandare alla posterità la memoria de’ fatti, o perchè ardivano i mortali ricoprire le oscure cose coll’augusto velo della divinità, la di cui immagine lor sembrò trasparire da quelle tenebre remote dove altro non giunge che l’ammirazione. Quindi tutte le nazioni interessarono gli dei nella origine loro, anche per ciò, che l’avere sì illustri princìpi piacque all’umano orgoglio, cui parve che sì alta stirpe imponesse venerazione ai popoli vicini.

Per la qual cosa, gli amatori delle antiche cose qui non s’aspettino alcuna disqui­sizione su gli antichi popoli d’Italia, soggetto de’ coraggiosi scritti di taluno e sul quale giammai altro non sapremo che alcuni nomi di popoli e di città, informi ruine del tempo distruggitore. Non ci fermeremo tampoco a parlare degli antichi Etrusci, gente che dicesi avere contato molto in Italia, del governo e re de’ quali qualche incerta e confusa notizia danno gli antichi. Neppure qui trascriveremo quanto dice Dionigi d’Alicarnasso intorno al regno d’Alba. Ad esso ricorra[2] chi la venuta d’Enea in Italia più di quattro secoli prima della fondazione di Roma, chi il suo regno stabilito in Lavinio, chi la città d’Alba fabbricata dal di lui figlio Ascanio, e tutta la stirpe di ben sedici re suoi discendenti da cui Romolo sortì, chiama istoria, quantunque scritta da un autore che vivea nel secolo ottavo di Roma. Antichissima anche per lui, troppo dubbiosa, e poco importante per aver luogo in questo compendio. Il sapere che fu scritta è bene, l’indagarla è inutile. Cominciaremo adunque la storia dove cessa di esser un mucchio di rottami, e diventa un vasto edifizio, del quale daremo prima la descrizione, esaminandone poi la costruzione ed i fondamenti.

Il fratricidio di Romolo die’ principio a Roma. Geloso egli del comando, sagrificò il fratello Remo, col pretesto degli àuguri e della violata santità delle mura. Capo dei banditi, conquistò i vicini Ceninesi,[3] Antemnati, Crustumini, Fidenati, Camerini, e tutt’i vinti popoli unì a’ suoi. Distruggere li nemici, conservare i prigionieri, dar la cittadinanza romana ai deditizi fu un sistema costantemente osservato in appresso. Così crebbe Roma in poco tempo, e ben presto fu in istato di rigurgitare nelle colonie il superfluo di sua popolazione. Questa da Romolo accresciuta coll’aprire l’asilo a’ fuorusciti, e donne non avendo per continuarla,[4] invitò ad una festa di Nettuno i popoli vicini. Mentre ch’era quella moltitudine attenta allo spettacolo, ciascun Ro­mano una donna si rapì. Tale selvaggia maniera di ammogliarsi accese la guerra di tutte quelle genti contro la nascente città, i di cui illustri princìpi furono il Fratricidio e ’l Ratto. Più potenti degli altri, i Sabini avrebbero spenta la gloria di Roma nella sua origine, se le spose, non malcontente de’ nuovi mariti, non fossero state mediatrici della pace, per la quale Tazio re de’ Sabini fu associato al comando con Romolo. Ma se questi non sofferse di avere in una il regno col fratello, molto meno si dolse che i Laviniesi uccidessero il collega Tazio, di lui malcontenti, perchè non vendicasse l’assassinio de’ loro ambasciatori spediti a Roma. Rimasto così egli solo, volendo deprimere anche il Senato, fu tolto di vita dai senatori profittando eglino di un turbine insorto mentre che Romolo arringava il popolo, spacciando dippoi ch’era salito al cielo, ed avere comandato che qual dio l’adorassero col nome di Quirino. Non so­spettò il popolo il recidio, e la superstizione lo collocò fra gli dei.[5]

Numa Pompilio tolto da’ boschi, bastevolmente avveduto per far credere che avea colloqui colla ninfa Egeria; Tullio Ostilio più feroce ancor di Romolo, al dir di Livio,[6] che gli Albani conquistò col famoso combattimento degli Orazi e dei Curiazi, e che Alba distrusse quattrocentoottantasette anni dopo la di lei fondazione; Anco Marzio che spinse le sue conquiste sino alla imboccatura del Tevere, ove fabbricò il porto d’Ostia: Tarquinio Prisco rinomato per gli suoi acquidotti, e per avere soggiogati gli Etrusci con nove anni di guerra; Servio Tullio politico superiore alla barbarie de’ suoi tempi; Tarquinio il Superbo da Roma cacciato per la violazione di Lucrezia, è la serie dei re successori di Romolo. Meritano d’essere tratti dalla folla Numa e Servio Tullio, che con mezzi differenti stabilirono il dispotismo.

Non è mal fondato sospetto che Numa avesse qualche coltura da’ Greci. Al dividere, com’egli fece, l’anno in dodici mesi alternativamente di ventinove e trenta giorni, quantunque lo ritrovasse mal diviso da Romolo, che avea confuso l’anno solare col lunare facendo d’entrambi un anno solo di trecentosessanta giorni,[7] ci può far pensare che non fosse del tutto barbaro. Si avvicina troppo alla verità questa scoperta astronomica per esser prodotta dal caso. La religione istessa, ch’ei fece sì bene servire alla politica, ebbe qualche cosa di più augusto, per modo che, per anni cento settanta dopo di lui, i Romani non adorarono simulacri.[8] L’instituzione del collegio de’ ponte­fici a lui devoti di cui fe’ capo il suo genero Numa Marco; gli auguri; i giorni fasti e nefasti, insensibili ed occulti ingegni della somma potenza, furon opera di quel re. Allora, al non mai ragionante popolo, colla veneranda maestà d’una falsa religione, celaronsi gli arcani di un indiretto dispotismo, e la guerra e la pace e le leggi dai prodigi, dal tuono, dal volo degli uccelli, dalle palpitanti viscere delle vittime ebber norma. Nulla in cui non s’interessino gli dei. Volle in un popolo facinoroso conservare il diritto di proprietà appena stabilito? Egli fa dei i termini de’ campi; il violarli diventa un orribile sacrilegio. Volle in una scostumata nazione introdurre la buona fede? Egli ne fa una dea, vi alza un tempio, e nessuna gente fu più inviolabile nelle promesse. Non si troverà un Romano che mancasse al giuramento per fidem meam. Volle far conquistatrice una truppa di fuorusciti? Egli fa discender dal cielo lo scudo Ancile e spaccia che la ninfa Egeria gli disse che avrebbe ottenuto l’impero del mondo quella nazione che lo custodisse. Quindi tutto in Roma è immortale. Eterno il Campidoglio; eterno il fuoco di Vesta, eterni i confini dell’impero. Scrisse Numa alcuni libri, ordinò che fosser con lui sepolti nella tomba. Furono dissotterrati a caso l’anno di Roma quattrocento. In essi spiegava le ragioni per le quali avea instituita la sua religione; erano cotanto puerili, che il Senato fece abbruciare que’ scritti[9] temendo qualche rivoluzione nelle opinioni.

Sorprese per altra via l’ignoranza degli uomini Servio Tullio, avveduto legislatore, che i pubblici comizi ridusse ad una pura apparenza di libertà. Ciò ottenne colla sua famosa divisione delle centurie, per la quale diede in mano de’ patrizi il governo, ed in tal guisa constituì nella nazione forse il più fatale d’ogni sistema, il dispotismo diviso fra molti, gelosi e deboli tiranni. Tito Livio[10] e Dionigi d’Alicarnasso[11] accuratamente ci spiegano quale arte adoperò in questa divisione. Di tutta la nazione fe’ primamente sei classi. Nella prima pose i più ricchi, poi di mano in mano i meno ricchi nelle altre, gettando nell’ultima tutta la plebe. Suddivise le classi in centurie. La prima in novantotto, la seconda in ventidue, la terza in venti, la quarta in ventidue, la quinta in trenta; l’ultima classe non fu suddivisa. Ella era una centuria sola. La comune di una centuria formava un suffragio, ond’erano tanti voti quante centurie. Tutte le centurie erano centonovantatre. La prima classe essendo divisa in novantotto, essa sola aveva tre voti più di tutte le altre insieme. Per lo che i comizi si terminavano quasi sempre nella prima classe; ben di rado si raccoglievano i suffragi sino alla quarta; le ultime due erano affatto inutili. I potenti adunque in tal sistema comandavano. Il volgo fu deluso, perchè gli uomini contentansi dell’esterno delle cose, gli usi ed i costumi venerando più in là non vibrano lo stupido sguardo, sicchè, lasciando intatte le parole, lor si tolgono le cose agevolmente.

A tal guisa due sagaci uomini furono obbediti da una barbara nazione, da un aggregato di masnadieri e di prigionieri, e parve che a tempo nascessero sì l’uno che l’altro. Poichè egli era d’uopo che Numa intimidisse l’umana ferocia collo spavento degli dei, e che quasi gli avesse per colleghi sul trono, per così preparare il luogo a Servio Tullio di esercitare una più fina politica. Nè per certo era saggio il re Tulio Ostilio, che, al dire di Plutarco, si burlava della religione instituita da Numa.

Rivolgiamo un momento gli sguardi sul cammino che abbiamo trascorso. Qual fosse il sistema di questa monarchia, che per anni duecentoquarantaquattro durò, ben ce lo prova il leggere come Romolo, Tulio Ostilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo usurparono il regno coll’assassinio e colla frode, e che del pari furono tolti di vita per congiura, se ne eccettuate quest’ultimo che fu da Roma scacciato. Argomenti non deboli ch’era tirannico il governo, non potendo esservi tal successione di recidi in un sistema moderato.

Fa d’uopo che quella porzione d’Italia, che Romolo occupò, fosse del tutto priva d’abitatori, se ivi aperse asilo a’ malviventi, se donne non ebbe e le dovette rapire a’ vicini. Con altri mezzi adunque non susistè ne’ princìpi quel popolo, che saccheg­giando i contorni e le città confinanti, onde ritornare carichi di preda nelle mura. Da qui trassero origine i trionfi. Romolo il primo ne diede l’esempio offrendo le spoglie opime a Giove Feretrio, e Giove istesso era fatto dio tutelare del saccheggio essendovi un tempio dedicato Iovi praedatori. Quindi, se ne eccettuate il regno pacifico di Numa, tutti gli altri furono un seguito di guerre e zuffe figlie della necessità. Per questo un re non si sentiva obbligato ad osservare la pace stabilita dal suo antecessore. Dalla descrizione de’ cittadini Romani, fatta da Servio Tullio, risultò il loro numero di ottantaquattromila e settecento.[12] Da sì ristretta popolazione ben si vede perchè tante piccole e sanguinose tenzoni facessero co’ vicini senza dilatare considerabilmente i confini; onde ebbe a dir Varrone che in ducentoquarantaquattro anni di regno Roma manomise più di venti popoli, e non distese più di venti miglia il suo dominio. Perciò menavano una durissima vita per resistere continuamente a’ popoli più agguerriti che li circondavano. Quindi tutto spirava valore, ma valore feroce. Mezio Fuffezio ditta­tore degli Albani, squarciato vivo per avere tentato di sottrarsi alla dipendenza di Tulio Ostilio;[13] il vincitore Orazio che la sorella piangente la morte dello sposo trafigge impunemente; Lucio Tarquinio, che la moglie uccide e per isposare la di lei sorella la induce ad uccidere il proprio marito Oronte, contraendo dippoi le nozze più scelerate;[14] Tullia, che il padre Servio Tullio fa uccidere dai sicari e scorre sul di lei cadavere col cocchio quasi in trionfo; sono i tristi avvenimenti di questi barbari secoli della monarchia. Nissun esempio di virtù ritrovi che li ricompensi.

Niente più indegno di un re, l’uomo ch’esser dovrebbe il più giusto della nazione, quanto la maniera con cui Tarquinio il Superbo conquistò i Sabini. Fingendo egli di essere adirato col figlio Sesto, pubblicamente lo battè nel foro colle verghe e caricollo d’ingiurie; se ne fuggì Sesto a’ Sabini quasi sottraendosi alla tirannia del padre. Eglino, nulla sospettando della frode, lo fecero loro re. E così, asceso al trono, tolse di vita i principali di quella nazione loro imputando vari falsi delitti.

A questi tempi appartiene la scoperta dei libri attribuiti alla Sibilla Cumana. Una incognita donna li vendè al re Tarquinio, e furono aggiunti alla lunga schiera delle politiche imposture. Usossi consultarli ne’ più gravi affanni della Repubblica per ordine del Senato. Vi si trovava sempre ciò che faceva d’uopo: «Callide enim (dice Cicerone di que’ libri) qui illa composuit perfecit, ut quodcumque accidisset, praedictum videretur».[15]

Destossi finalmente il popolo da un lungo letargo, e s’accorse di sua schiavitù. L’attentato del figlio reale Sesto Tarquinio parve un sì gran delitto a’ Romani, che servì d’epoca alla libertà. Si scacciò la famiglia reale, e divenne esecrando il nome di re. L’unica immagine che rimase della monarchia fu il rex sacrorum o sagrificale. Tal nome avea un augure, il quale faceva i sagrifizi all’aprimento de’ comizi, nè avea alcuna sorta di magistratura.[16]

Questo fu un tempo di pericoli e di turbolenze ripieno, come lo è sempre quel­l’intervallo in cui ferve la mutazione del governo. Vidersi i tratti di quel furore popolare, che, difendendo ancor la buona causa, suole aver sempre qualche cosa di prepotente. Furono costretti i due primi consoli, Bruto e Collatino, a sacrificare al nuovo ardore di libertà l’uno i figli, l’altro i nipoti fautori degli esuli re. Bruto condannogli a morte ed assistette alla esecuzion della sentenza; Collatino, per non aver imitato un sì feroce eroismo, fu costretto a deporre il consolato ed i suoi nipoti furono dal popolo condannati a morte. Il console Valerio, di lui successore, avendo una casa più elevata del comune livello, venne obbligato ad abbassarla. Tanto temeasi ogni spirito d’ineguaglianza.

Fu appunto verso quel tempo in cui tale rivoluzione succedette,[17] che Pitagora venne in Italia. Malamente si disse ch’ei vi approdasse regnando Numa, e che fosse stato suo maestro. Livio e Dionigi d’Alicarnasso osservano esser questo un insigne anacronismo.[18] Pitagora si credea nativo dell’isola di Samo. Viaggiò nell’Egitto, dove lungo tempo dimorò; fu in Babilonia, nelle Indie, e finalmente venne da noi. Peregrinò in varie città d’Italia declamando da per tutto contro il lusso ed il libertinaggio. La sua voce fu ascoltata. Alcune città riformarono i costumi. Stabilissi di poi in Cortona, città vicina a Taranto. Ivi dimorò circa quarant’anni. Ebbe molti seguaci, e si pose a stabilire la sua setta. A tal fine si predicava un uomo celeste che avea scienza rivelata. Non mancò di esser preso in fallo. Alcuni lo credettero in appresso il profeta Eze­chiele.[19] Ebbe l’arte di spacciare non pochi miracoli e prestigi per autenticare le sue dottrine. È celebre, fra le altre di lui imposture, il nascondersi ch’ei fece in una grotta dicendo di poi ch’era stato all’inferno, e che ne ritornava.[20] Per convincere gl’increduli ch’egli era un demone, e non un uomo mortale, fece vedere che avea le cosce d’oro.[21] Non sappiamo che alcuno trovasse cattiva questa ragione. Mettendo da parte molti miracoli che i suoi seguaci gli attribuirono, bastevolmente ne rimangono per riporlo nella classe degl’impostori.

 

 

Fu avidamente accolta e coltivata la sua setta nella Magna Grecia, cioè in quella parte d’Italia che corrisponde all’incirca all’odierno Regno di Napoli, così detta perchè popolata da molte colonie greche, anticamente colà venute. Questa è la cagione per cui Italica la sua setta appellossi.

Qual fosse veramente la di lui dottrina non bene si sa, essendo la principal parte di essa un misterioso segreto. Pitagora non lasciò scritti, ed i settari di lui che scrissero il fecero con simboli, arcani e forme misteriose. Tale era lo spirito di minatore della sua setta. Viveano i pitagorici con beni e abitazione in comune, con regole e parcità di vitto quasi simili a quelle de’ monaci. Alla mattina e sera, fra le altre cose, aveano per legge di fare l’esame di conscienza. Questa conformità di vivere fra essi ed i monaci die’ campo, in un capitolo generale tenuto da’ carmelitani in Beziero verso la fine del secolo passato, ad illustrare terribilmente le antichità del loro instituto. Si sostenne che Pitagora era carmelitano, e che era stato priore nei conventi di Samos e Cortona.[22]

Quali erano le dottrine di Pitagora? Farebb’egli buona figura fra di noi chi spacciasse tutti i strani simboli numerici che formavano il capo principale della sua scienza? Che il numero dispari è quello della divina e masculina virtù, il pari femminile ed imperfetto; quello significare l’identità e la cospirazione dell’universo, questo l’eguaglianza e la ragione del divisibile e mutabile; la monade essere una quantità, che scemando la moltitudine privata di ogni numero si mette in riposo, e chiamasi mente, Dio, caos, ragione seminale; che il numero sei è perfetto, il sette venerabile, il dieci avere in sè tutte le ragioni numerabili ed armoniche, e così tante altre prodigiose cose che raccolse Platone nel suo Parmenide e nel Timeo, e che chiama idee, e che avrebbe potuto chiamar parole?

Delle cose naturali, che diceva Pitagora se non se uno inintelligibile impasto di simboli? I nomi delle voci e de’ tuoni avere ricevuto il loro nome da pianeti, i quali col girare facendo dolcissimo concento insegnarono agli uomini la musica, e Pitagora si vantava d’averlo udito; dalla unità e dal numero due indeterminato nascere le cose; il mondo essere cominciato dal fuoco e dal quinto elemento; essere animato, intelli­gente; l’aria morbida, immobile; il Sole, la Luna, le stelle dei; essere l’anima un numero che si muove in se stesso. Questi furono quegli arcani che esercitarono la erudizione di molti. Quanto si è scritto per ritrovare i più sublimi precetti della morale in que’ famosi detti pitagorici: astenersi da chi ha la coda negra; non tagliare il fuoco colla spada, nè i legni per la strada al lume della lucerna; non parlare di sapienza se non al chiaro; non doversi forbire con una torcia accesa ecc., il che ognun vede essere un ottimo precetto, e simili cose alle quali manca il buon senso, e ve l’hanno voluto imprestare taluni che forse non ne doveano essere cotanto generosi?

Che si volessero dire i Pitagorici con questi simboli misteriosi non si sa: s’eglino contenevano vera e grande filosofia, fa d’uopo confessare ch’essa non fu mai sì sconciamente vestita. Forse la ignoranza di questi simboli non è poi molto da com­piangersi. È difficile che uomini veramente ragionevoli si sottomettessero a quel noviziato per lo quale doveasi passare prima di essere ammesso alla rivelazione degli arcani. Si facevano digiunare i novizi per molto tempo; loro s’imponeva penitenza, vestire dimesso e lacero, dormire pochissimo. Tollerar doveano mille insulti fatti a bella posta per avvezzarli al disprezzo, alle riprensioni e vessazioni d’ogni sorte. Era loro comandato il silenzio di due, tre, sino a cinque anni continui, nello spazio de’ quali non dovevano che ascoltare. Qual uomo di buon senso avrebbe avuta la docilità veramente inimitabile di fare cotal noviziato da capuccino e certosino col pericolo di ritrovare poi alla fine di tanti incomodi qualche impostura? È difficile ch’abbia questa ignorante pazienza un uomo di merito. Al certo si può affermare che Neuton e Montesquieu non l’avrebbero avuta. Un uomo che arrivava all’avvilimento di abbandonarsi ciecamente a persone che gli dicevano avere gran misteri da rivelargli, se resisteva al noviziato, avea provato di essere un imbecille curioso a cui, se v’erano delle verità importanti e contrarie alle opinioni ricevute, non doveansi in conto alcuno confidare.

Alcuni sospettarono che questi arcani in altro non consistessero (come ancora quegli degli Egizi ed altri) che in dare una più sublime idea dell’essere creatore, e fossero una sorte di deismo, onde venisse a rivelarsi l’impostura della volgare religione. Ma se i Pitagorici ed altri tali settari, de’ quali molti n’ebbe l’antichità, avean gran dottrine, egli è ben difficile che si sottoponessero ad una vita squallida e dura quale era quella che menavano. Oltredichè fu osservato che tal razza di uomini non si dà molta briga di far proseliti. La stampa, quel flagello d’ogni mistero, e qualche sper­giuro ha fatto conoscere a che si riducesse il preteso arcano de’ franchi muratori, cui l’oscurità dava tanta importanza. Forse altro non mancava che lo stesso mezzo per far vedere che quelle sette antiche aveano di comune con questa, non che il mistero ed i simboli, anche la futilità.

La morale però de’ pitagorici era purissima: è stato filosoficamente osservato che nessuna setta n’ebbe di cattiva. Non sussiste società se le passioni private non cedono al comune interesse. Quest’è il cardine della buona morale. Il predicarne una diversa è lo stesso che il non avere ascoltatori. Vi si aggiungeva una buona dose di ascetica, a cui erano dati per professione. Lo spogliarsi delle passioni, il distaccarsi collo spirito di contemplazione dall’ingombro del corpo erano i loro princìpi favoriti. Chi arrivava, dicevan’eglino, a questa cognizione intuitiva di Dio, che credevano l’anima del mon­do, non si stupiva più di nulla. Quest’è ciò ch’esprimevano col motto: Nil admirari.

Delle arcane dottrine di quella setta si può adunque dire ciò che degli uomini misteriosi: non meritano la fatica di essere conosciuti. Una società di uomini ragionevoli non ha fanatismo, non fa strepito, ama la tranquillità, non fa scene, non ha simboli, non arcani, non stranezze di costumi, non cerca di fare solenne società, coltiva in pace il vero, senza digiuni, noviziato, prove, musica, prestigi, falsi miracoli. La vera filosofia teme, e non cerca l’entusiasmo. Pitagora usava dei cibi artefatti per accendersi d’or­gasmo ascetico, e questo era lo spirito del suo instituto. Forse erano i pitagorici ingannati, forse volevano ingannare, imporre al popolo, acquistarsi distinzioni; forse tutte queste cose insieme. L’orgoglio è il prezzo delle umane passioni, ed il più raffinato di tutti è quello di coloro che fanno professione pubblica di non averne. I cinici ne forniscono un esempio.

Che se Pitagora ritrovò la semplice proposizione che il quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo è eguale alla somma de’ quadrati de’ due lati opposti, se disse essere la Terra rotonda, esservi gli antipodi, esser obliqua la sfera, la Luna ricevere la luce dal Sole, mischiò queste verità con molte chimere, nè esse aveano bisogno di tanto mistero e del corredo di tante buffonerie, di digiuni, di astinenza dalle carni, dal vino, e di vivere da monaco per essere sapute. Oltredichè elleno lasciano il buon senso dove lo trovano.

La novità dell’instituto, la quantità de’ seguaci che correvano in gran folla, eccitò ben presto la persecuzione. Fu quasi estinta quella setta appena nata. Si abbruciarono le case a’ nuovi settari, se ne uccisero alcuni, molti in esilio furono scacciati, e tutti dispersi. I Romani, benchè non accettassero nè le dottrine, nè i costumi pitagorici, ebbero venerazione a Pitagora come ad un uomo che avesse insegnate cose grandi della divinità. Nel tempo della guerra sannitica gli fu alzata una statua ne’ comizi.

[Vedrai in Livio lib. quinto che nell’anno di Roma 362 all’assedio della città di Vei, per la prima volta si usò da’ Romani il porre il campo d’inverno con la parucche, sendo sempre per lo addietro riposo nel verno. Di che fecero querele i tribuni quasi fosse [†††] la plebe nelle guerre perpetuamente. Lo che nell’epitome di quel libro si accenna come segue: «Ea obsidione Veiorum hibernacula militibus fuit et sunt. Ea res quum esset nova indignationem tribunorum plebis movit querentium secondari plebi nec per hiemem? nilitiae requiem». Più largamente nel testo.]

Capo II. Inutili sforzi di Tarquinio per ritornare in Roma. Discordie fra i patrizi ed i plebei. Dispotismo de’ decemviri. Venuta de’ Galli. Guerre co’ popoli della Magna Grecia sino alla totale conquista d’Italia.

L’esule Tarquinio mosse contro di Roma Porsenna re degli Etrusci, i Sabini e le città latine. I memorandi esempli di virtù, che altro non è che l’utile comune, allora sfoggiarono. Orazio Coclite, Mucio Scevola e per fino il sesso imbelle di Clelia, tutti dal nuovo vigore di libertà animati, fero attonite le genti. Son domi i nemici dallo stupore di tanta virtù. Valerio Pubblicola, benchè console, morì cotanto povero che i funerali furongli fatti a pubbliche spese. Gran prova che il governo era repubblicano. Altro non dubbio segno che Roma era patria, e patria amata da suoi cittadini, in che consiste il sentimento di libertà, fu l’aver data licenza con un senato consulto alle donne latine sposate a’ Romani ed alle romane sposate ai Latini di ritornare ciascuna alle case loro, e l’esser le latine rimaste a Roma e le romane spose de’ Latini alla patria ritornate.[23] Allora a capo di soldati che pugnavano per il proprio, non per l’altrui utile, puotè il dittatore Postumio uccidere e far prigionieri trentamila Latini al lago Regillo. Prima memorabil vittoria de’ Romani, ed ultima sconfitta del partito reale.

Ma questo breve intervallo più d’indipendenza che di libertà non molto durò, giacchè cominciarono le funeste discordie fra i patrizi ed i plebei. Queste nacquero dalla tirannia de’ creditori, tirannia stabilita dalle leggi. Il creditore, dopo varie inti­mazioni di pagare al suo debitore, lo riduceva in ischiavitù, e lo poteva uccidere se lo voleva. Qualora più creditori agivano contro un solo debitore insolubile era loro permesso di tagliarlo in pezzi, e di proporzionatamente dividerselo. Il che, quan­tunque non si ritrovi mai usato, ciò non ostante basta che far si potesse perchè fosse tirannico il sistema. Il dispotismo non tanto consiste in ciò che si fa, quanto in ciò che si può fare. Quando i patrizi in questi tempi sollicitavano la plebe a prendere le armi avea ragione di rispondere: «Provino i patrizi i danni della guerra, giacchè essi soli godono il frutto di nostre vittorie. Esporre noi le nostre vite perchè l’inimico non venga a distruggere le nostre prigioni, ed a rompere le nostre catene?». Quest’era la libertà di quella nazione che avea combattuto al lago Regillo. Crebbero a segno le discordie che i plebei non solo ricusarono di far guerra, ma ritiraronsi nel Monte Sacro tre miglia distante da Roma, dopo la metà del secolo terzo.[24] Se le lunghe declamazioni, riferite da Dionigi d’Alicarnasso come se vi fosse stato presente, sono credibili, così rispondevano i plebei ai patrizi che gl’invitavano a ritornare in Roma: «Con qual animo richiamate voi quegl’istessi che avete scacciati dalla patria, e che da liberi faceste servi? Con qual fede terrete voi le promesse, voi che tante volte le avete mancate? E poichè volete voi soli esser cittadini, andatevene, che’ non più la misera e bassa plebe vi recherà molestia. Quanto a noi, saremo contenti di quel paese nel quale potremo conservare la nostra libertà, e quello, ovunque egli sia, chiameremo patria nostra».[25] Se queste non erano le parole precise della plebe in quella occasione, erano del certo i sentimenti. Menenio Agrippa col famoso apologo dello stomaco e de’ membri, ma per certo ancor più con accordare l’abolizione de’ debiti, ed i tribuni, ricondusse la plebe in Roma. Coriolano, volendo abolire il nuovo tribunale del popolo, dignità che sacrosanta appellossi e fu, venne condannato all’esilio. Prima volta in cui il popolo avesse facoltà di giudicare i patrizi.[26] L’esule Coriolano collegossi co’ Volsci, e ridusse la patria a chiedergli perdono benchè ribelle. Roma era tutta in fermento per gl’incerti limiti dell’autorità del popolo. Questo era già fatto un vizio di costituzione. I patrizi, perchè il volgo dimenticasse i suoi diritti, lo impegnavano in guerre più che potevano. Le dissensioni civili aprivano il campo a sempre veglianti nemici, ond’era circondata Roma, di sorprenderla nel seno delle discordie, la necessità di difendersi le sedava; e così a vicenda le gare civili erano cagione di guerra, e la guerra sospendeva le gare civili: ma queste due cose non potevano mai cessare. Se Roma non fosse stata sempre vessata da nazioni che le stavano d’intorno, non essendovi nissuna diversione all’intestino contendere, sarebbesi tosto deciso il suo destino. O vera repubblica, o dispotismo. Il moto era troppo violento per non andare agli estremi, e tutte le genti forse vi andrebbero in breve se fossero isolate.

Pure ciò non arrestava la gloria di Roma. I trecentosei Fabi s’incaricarono essi soli della guerra contro de’ Vei, e tutti s’immolarono alla patria rendendo celebre il castello di Cremera; e Cincinnato, tolto dall’aratro, fatto dittatore contro degli Equi, gli fe’ passare sotto il giogo, trionfò, e ritornò a suoi campi, tutto ciò in sedici giorni.[27]

Al principio del quarto secolo ai Romani abbisognarono leggi. Eglino furono nostri legislatori, non lo seppero essere di loro stessi. Mandarono a mendicare la greca sapienza. Funesta fu tal spedizione, poichè i decemviri, a capo de’ quali era Appio Claudio, destinati a raccogliere e promulgare la nuova legislazione, s’eressero in tiranni della Repubblica. Queste sono quelle leggi dette delle dodici Tavole. Ritirossi la plebe di nuovo nel Monte Sacro lasciando la quasi vota città in preda della tirannia. Rovinò ella anche questa volta per avere tentato Appio Claudio uno di que’ delitti che non furono mai tollerati da’ Romani. Si fu questo la violazione della figlia di Virginio. Esso e lo sposo della figlia furono creati tribuni, e vendicarono la privata e la pubblica libertà. Sembra che vada sempre del pari in questa Repubblica qualche gran lampo di virtù col risorgimento della libertà. Il tempo delle rivoluzioni è quello de’ grandi vizi e delle grandi azioni. Il dittatore Camillo ricusò i figli del re di Falisco che il pedante colla frode gli esibì prigionieri; anzi fu consegnato il traditore ai giovanetti perchè lo punissero. Dieronsi per tanta probità i Falisci ai Romani.

Ma la probità di Camillo non era quella della Repubblica. Gli Aricini e gli Ardeati, popoli confinanti, avendo fra di loro una controversia per un campo limitrofo, ne fecero giudici i Romani. Eglino finirono la questione col usurparselo. Qualche anno dopo, trecentocinquantotto prigionieri tarquiniesi de’ più riguardevoli frustrati nel foro furono uccisi. E prima nella guerra[28] co’ Volsci il console Appio fece tagliare il capo a trecento ostaggi di quella nazione ch’erano in Roma.[29] La guerra de’ Romani era una distrazione. Aveano quell’istesso diritto delle genti che ultimamente fece tanto orrore nel Messico.

L’anno 421 centosettanta matrone romane congiurarono di avvelenare i loro mariti. Scoperto l’attentato, furono costrette a bevere il preparato veleno.[30] Mesco­lanza ammirabile di grandezza e di crudeltà, che fu sempre il carattere di quella nazione.

S’acchetarono le non mai spente dissensioni civili, per resistere al torrente de’ Galli Senoni, popoli che abitavano quel paese che sta fra Parigi e Meaux. Questa nazione, regnando Tarquinio Prisco, scese giù in Italia condotta da Beloveso, figlio del re de’ Celti Ambigato. Scacciati gli Etrusci dall’Insubria, vi fondò la città di Milano occupando quel tratto di Paese che è tra l’Alpi e ’l Po, e Gallia Cisalpina chiamossi. Di mano in mano poi altre colonie di Galli Celti vennero in Italia, occupando a presso a poco que’ contorni; e ben quattro spedizioni se ne ritrovano prima della presente, nella quale, condotti da Brenno lor generale, Roma assediarono, distrussero. Scarsamente parlano le storie di questa emigrazione, nella quale, dopo l’urto che diedero a Romani, si diffusero nella Panonia, Grecia, ed Asia sino al monte Tauro ed ai confini della Siria. Finirono col fondare il regno di Gallogrecia, ossia Gallia.

La scelta del popolo romano si racchiuse nel Campidoglio. Sarebbe perita la gloria di Roma, se alcune oche non avessero una notte avvertito col loro canto Manlio, il difensore di quella rocca, che i Galli lo sorprendevano. Con quanto gracili anelli sono talvolta legati i più grandi avvenimenti! Non fu così grande la gratitudine che s’ebbe per chi salvò la patria, come per questi animali. Furono in seguito alimentati a pubbliche spese, e solevasi per fino condurre un’oca su di una specie di carro trionfale. I cani per non avere abbaiato in quella occasione vennero cotanto odiati che se ne impalava uno periodicamente ogni anno.[31] Manlio, a cui tanto dovea Roma, illustre per tre consolati e due trionfi, fu gettato dal Campidoglio istesso, miseramente sfran­tumato alle falde di quel colle, monumento di sua gloria e suo supplicio. Fu egli accusato di cattivarsi l’aura del volgo per farsi re. Il suo delitto era di esser popolare in un governo aristocratico. Il gran Camillo, il più necessario de’ Romani, era in esilio involontario perchè ingiustamente accusato dal popolo. Fu richiamato per difenderlo. Tacque la vendetta in faccia della gloria. I Galli sconfisse con una vittoria che fu chiamata un macello più che una battaglia; di poi l’armi rivolse contro de’ Volsci; guerra inestinguibile in raccontar la quale Livio istesso teme di annoiare il lettore[32] e lo teme poco.

Giacchè seguiamo le tracce dell’armi romane, giovi osservare che l’anno 410 ebbe principio una guerra, di cui la più importante non ebbero i Romani coi popoli d’Italia. Per settantadue anni durò, di trentuno trionfi fu il soggetto. Si fu questa coi Sanniti, popolo potente e colto, come quasi tutta la Magna Grecia lo era, mentre che i Romani si poteano dir barbari. E pure di que’ popoli altro non ne sappiamo, che quanto scrissero di loro i romani storici, cioè poco più che il nome de’ Campani e Tarentini, popoli incolpati di essere dati al lusso, il che prova ch’erano colti; de’ Lucani ed Apuli, nulla parlano i romani scrittori, prima del quinto secolo di Roma, e là dove la storia di quella Repubblica fu compilata riascendendo sino a tempi favolosi, ed a noi giunse; quella di tali nazioni, che sarebbe, per avventura, più degna di sapersi, giace nascosta nelle tenebre dell’antichità. L’armi di Roma giunte in quelle regioni vi portarono la loro ferocia: parve che le conquistassero per desolarle. I popoli della Magna Grecia erano molto più colti prima di esser conquistati dai Romani; gli Etrusci sono ripresi da Dionigi di esser stati delicati, sontuosi e molli. Dopo che fu conquistata l’Italia da’ Romani vi troviamo tutt’altri costumi. Lungo sarebbe il tessere la noiosa cronaca di leghe, paci e guerre coi popoli della Magna Grecia, coi Galli e per fine in ogni canto d’Italia. Ciò che forse fia più utile da osservare è che al principio di questo secolo troviamo esempi atroci di durissima, militar disciplina che giammai non vi furono nella romana nazione di poi. Allora il console Manlio Torquato rinnovò il tristo esempio di Bruto, e fece uccidere il figlio perchè avesse combattuto coi Latini senza averne avuto ordine, nè il ritornare da loro vittorioso, e di spoglie carico, il tolse a sì rigida sentenza. Allora il di lui collega Decio, perchè i soldati cedevano all’urto degli stessi Latini, s’immolò a’ dei d’Averno, e il suo figlio, Decio pure detto, fece altrettanto combat­tendo coi Sanniti. Come gareggiare altrimenti coi Privenati in vista, il di cui ambascia­tore interrogato in Senato qual pena credesse che meritassero i suoi, «Quella», rispose, «che meritano coloro i quali si credono degni di libertà»;[33] come resistere ai valorosi Sanniti, che emulando la generosità de’ Romani non vollero accettare la spontanea schiavitù del console Postumio, e degli altri ufficiali che al famoso passo delle Forche Caudine aveano vergognosamente subito il giogo, se non avesse avuto Roma un console qual Curio Dentato che si burlò dell’oro offertogli da quella nazione, dicendo che grande impresa non gli sembrava possedere dell’oro, ma bensì comandare a chi lo possedeva?[34]

Con tale spirito di ostinato eroismo furono pure vendicate le ingiurie fatte da’ Tarentini all’ambasciatore romano. Quel popolo imbecille e ridicolo ritrovò cotanto ridicoli i Romani che accolse fra le fischiate e le risa un loro ambasciatore, e per fino un buffone gli pisciò sulla vesta, mentre ch’esponeva la sua ambasciata. Il console Emilio spedito a dar migliore opinione del popolo romano ricusò il soccorso che i Cartaginesi gli offrivano, lor dando in risposta che: «Roma faceva guerra co’ suoi, non cogli altrui soldati»; e, se pur furono i Romani sconfitti in quella guerra nelle prime azioni dagli elefanti e dalla cavalleria tessalica di Pirro re dell’Epiro venuto a difendere i Tarentini, dovette quel re ammirare i vinti, e vedendo i cadaveri de’ Romani carichi di ferite caduti colla faccia rivolta all’inimico, «Oh quanto facile sarebbe stato, diss’egli, il conquistare l’universo se io comandassi a’ Romani!». Quindi spedì a chieder loro pace l’ambasciatore Cinca. Egli, entrando in Senato, disse che gli sembrava un con­sesso di re. I doni e le preghiere di lui non ottennero pace da benchè vinti, ed il medico del re esibendosi d’avvelenarlo se ben fosse pagata la sua perfidia, fu sdegnata tale offerta da’ Romani, ed il re stesso avvisarono che «Si guardasse dalle insidie, distin­guesse gli amici dagli inimici». Quella guerra durò anni sei. Finì col condurre per la prima volta Tessali, Epiroti e Macedoni avvinti al carro di Curio Dentato.

Nulla di più grande per fine di queste guerre lunghe ed ostinate che terminarono colla conquista d’Italia, opera di cinque secoli. Sembra veramente che una militare disciplina come quella de’ Romani, una serie di uomini formati ad una robusta virtù, dovesse produrre un più grande effetto in tempo sì lungo. Ma, se non sono coraggiose le congetture sui fatti lontani, forse un motivo che ritardò i progressi delle armi romane fu il terreno istesso di questa penisola dagli erti monti dell’Appennino diviso, ed allora, più nella Grecia e nell’Asia stesero rapidamente le conquiste i Romani, di poi non poteano aver per sudditi i vicini abitatori della Liguria, e di altri montuosi e difficili paesi. I Liguri fra gli altri furon messi ad abitare la pianura non vi essendo altro mezzo di contenerli stabilmente. Le montagne furono sempre e dovunque i migliori garanti del diritto delle genti.

Intanto le gare fra i patrizi ed i plebei, quantunque fossero più sedizioni che dispute, non impedivano il progresso delle conquiste. Diede motivo ad un nuovo fermento degli animi la non mai tolta crudeltà de’ creditori. Il popolo ricorse al solito mezzo. Ritirossi per la terza volta nel monte Giannicolo. Ottenne la liberazione dei debiti, e tutto ciò che seppe dimandare. Il dittatore Q. Ortensio non puotè negar nulla alla plebe. Può stabilirsi a quest’epoca la di lei libertà. Ella fu tranquilla sotto la tutela delle leggi sino a tempi de’ Gracchi, cioè per più di un secolo e mezzo. Poi abusò delle leggi, si corruppe, e fu serva.

Capo III. Della credibilità dell’antica storia romana.

Chi compila e non dubita scrivendo la storia, la comporrà ben più di ciò che si disse che di ciò che si fece. Quella che ho scritta, sia ella degna o no del nome d’istoria, è sempre una parte di erudizione che non puossi ignorare da chi si pregi di sapere le cose romane. Ora giovi gettarci nel seno dell’antichità con quel libero spirito di fredda discussione a cui, se in ogni cosa umana ha diritto la ragione, molto più dove si tratti degli antichi annali, soggetto di venerazione per li molti e di dubbio per li pochi in tutte le nazioni, a quegli il dirsi e il ridirsi delle cose e la sacra nebbia della venerata antichità accrescendo la credenza, come a questi scemandola.

Qualche secolo di mitologia, che però ha un fondo di verità, è un tributo che pagarono tutte le nazioni. I non ancor conosciuti fenomeni della natura estorsero i primi gemiti e fecero risonare di strida inascoltate le vaste solitudini; quindi l’errore, il falso spavento accompagnarono l’imbecille infanzia delle genti, come quella degli uomini. Per questo le nazioni si fabbricarono falsi dei, l’ira de’ quali placasse il sangue delle vittime anche umane, e la benevolenza v’acquistassero i doni, loro attribuendo le proprie passioni. Potenze celesti eziandio non malevole, non irate ma protettrici, e che particolar cura avessero della nazione, la scaltrezza d’alcuno o l’orgoglio umano, che tiene di sè occupata tutta la natura, inventò; lusinga dolcissima, facilmente ascol­tata. Profittarono i primi re degli errori della moltitudine; amici, ministri, collocutori delle divinità si predicarono, che se uomini soltanto come gli altri si fosser detti non sarebbero stati creduti. Ma allorchè i lenti tentami della industria, dopo un lungo intervallo di barbari secoli, colsero l’arte di eternare la memoria delle passate cose, quale ammasso di errori non si offrì al primo scrittore credulo e barbaro, di una credula e barbara nazione? Vediamo se l’antica istoria romana sia esente da questi mali.

I più antichi scrittori delle romane cose furono i due greci Geronimo Cardiano e Timeo, ed i due latini Q. Fabio e Cencio.[35] Ma tutti questi storici egli è certo che furono posteriori alle guerre di Pirro in Italia, e perciò viventi cinque secoli dopo la fonda­zione di Roma. Avvegnachè Gironimo scrisse la storia dell’assedio di Sparta fatto dallo stesso Pirro,[36] il che viene a cadere verso l’anno di Roma 480; quanto a Timeo, fu a Geronimo posteriore,[37] e Fabio e Cencio a tutti due que’ greci posteriori si fanno da Livio.[38] Da questi fatti è d’uopo conchiudere non esservi scrittori contemporanei de’ primi cinque secoli di Roma. E come ritrovarne in una nazione barbara ancora a segno di non avere altro mezzo di segnare la cronologia degli anni che il ficcare nel tempio di Minerva de’ chiodi, poco o nulla conoscendo in que’ tempi l’arte della scrittura?[39]

Que’ scrittori, lungi dal meritar fede ne’ fatti accaduti più secoli prima di loro, poca ne ottennero in quegli attribuiti al loro tempo. Polibio[40] considera Timeo per istorico poco degno di fede anche nelle cose de’ suoi tempi, accusandolo d’averle alterate per malignità, ed accusa Fabio d’avere di troppo esaltate e riempiute di fole le romane istorie per spiritò di patriotismo.[41] Dionigi d’Alicarnasso, il più sagace e paziente erudito delle antichità romane, è di quel parere di cui esser dovrebbero tutti gli uomini ragionevoli, cioè avere quegli istorici raccolte tutte le voci del volgo, e le sue false tradizioni. «Ciascuno di loro», ei dice, «scrisse degli opuscoli senza accura­tezza, seguendo le varie dicerie»,[42] e particolarmente de’ Romani: «Appo loro non v’è alcuno scrittore antico, ma quegli ch’essi ebbero, raccolsero le antiche tradizioni e le memorie registrate nelle sacre tavole»;[43] e queste sono chiamate da Livio e da Plutarco documenti apocrifi.

Tito Livio, quantunque per lo meno tanto superstizioso e credulo quanto detta­gliato e grave, paragona la storia de’ primi secoli di Roma ad un oggetto lontanissimo a cui l’occhio non giunge.[44] Plutarco dice,[45] non merita quella storia di essere discussa, perchè troppo incerta. La mancanza di memorie fedeli la rende totalmente oscura e dubbiosa. Il partito adunque più ragionevole che possiamo prendere è d’esser del parere de’ più accreditati scrittori delle cose romane.

Quale storia si presentava a’ cronisti del secolo quinto di Roma? Era tradizione comune, autenticata dagli annali de’ pontefici, che Remo, figlio di Enea[46] e fratello di Ascanio e di Romolo, avesse fabbricate quattro città, Roma, Eneade, Anchise e Capua. Zenagora scrisse che Remo era figlio di Ulisse e di Circe, ch’ebbe due fratelli, Anzio e Ardea, che fondò Roma, e gli altri le città del lor nome. Aristotile il filosofo, Cefalone antichissimo scrittore, Demagora, Agatillo, e molti altri asserirono Roma essere stata fabbricata da’ Greci che ritornarono dopo la guerra di Troia, e che furono gettati da una tempesta sulle coste d’Italia. Altri, per lo contrario, dicevano che Roma fosse stata edificata prima della guerra troiana. Lo storico delle sacerdotesse di Argo, e Dimaste da Sigea con altri non pochi, attribuirono la fondazione di questa città ad Enea, e che le avesse dato il nome di Roma vergine troiana. Altri per fine, più comunemente creduti, pongono Romolo quattro secoli dopo di Enea capo della stirpe dei re d’Alba, lo dicono figlio di Marte e semidio, come non si poteva far di meno. E tante sono le differenti origini che si assegnarono a quella città, che Dionigi d’Alicarnasso dopo di averne riferite molte, dice di passare le altre dicerie sotto silenzio temendo di non sembrare troppo verboso. Tosto si affaccia la prodigiosa lunghezza de’ regni, ossia la aperta confusione della cronologia dei re di Roma. Sono senza esempio i regni succes­sivi di trentasette anni come quello di Romolo, di quarantatre di Numa, trentadue di Ostilio, ventiquattro di Anco Marzio, trentotto di Tarquinio Prisco, quarantaquattro di Servio Tullio; Tarquinio il Superbo si fa vivere novant’anni. La stessa incredibile lunghezza de’ regni si trova nella serie de’ re d’Alba. Ascanio dopo Enea regnò anni trentotto, poi Silvio ventinove, poi suo figlio Enea secondo trentuno, poi Latino cinquantuno, poi Alba trentanove.[47] Neuton ha calcolato che un regno per adeguato dura venti anni. A questa affatto incredibile cronologia tengono dietro i prodigi. L’augure Azio Nevio a’ tempi di Tarquinio Prisco avea tagliata una pietra con un rasoio in faccia a tutto il popolo, e presso il Senato v’era la di lui statua a’ piedi di cui si conservava per memoria del portento la pietra ed il rasoio.[48] A’ tempi ancora di Cicerone era una di quelle verità che si dicono all’orecchio fra di loro i ragionevoli che fosse impostura fatto prodigio. «Riguardate con disprezzo il rasoio, ed il sasso del famoso Azio», diceva Cicerone al suo fratello Quinto,[49] «quando si ragiona da filosofo non bisogna avere alcun rispetto per le favole». Castore e Polluce aveano combattuto per la gloria di Roma al lago Regillo; ciò era cotanto creduto che si mostrava il vestigio del piede del cavallo di Castore.[50] Che Romolo e Remo fossero stati allattati da una lupa non se ne dubitava, e per fino a’ tempi di Tacito e di Plinio susisteva la pianta di fichi sotto della quale ciò era avvenuto.[51] Le vergini vestali pretendevano di avere elleno il vero Palladio nel tempio di Vesta, eppure Luceria e molte altre città si vantavano anch’esse di possederlo. Il Campidoglio aveva una prodigiosa origine. Si era trovato nello scavarne i fondamenti un teschio appena reciso, ed ancor grondante di sangue, presagio sicuro che Roma sarebbe stata capo dell’I­talia.[52] Il più sicuro presagio era il crederlo. Gli dei di Lavinio, trasportati ad Alba, ritornarono da loro stessi a Lavinio. Questi erano chiamati da’ Romani i dei penati.[53] Prodigiosa è la maniera in cui o l’errore o la vanità corruppeva il racconto della guerra co’ Galli. Livio, Plutarco, Floro, Aurelio Vittore, tutti si uniscono in dire che, dopo esser stati i Romani assediati per lungo tempo nel Campidoglio, si risolsero a far pace coi Galli mediante grossa somma di danaro. Tutto era conchiuso e si stavavi pesando le monete. Successe qualche alterco, perchè i Galli voleano che si pesasse il pattuito danaro su di una falsa bilancia ch’essi esebivano, ed i Romani vi si opponevano. Sopragiunse Camillo, disciolse questo vil trattato, e sconfisse talmente i Galli, che non rimase al dir di Livio[54] «chi potesse narrare questa strage». Pure da Polibio, scrittore più esatto e più antico, che non avrebbe nè ignorata, nè taciuta questa gloriosissima vittoria de’ Romani, da Trogo Pompeo, e dalle memorie della famiglia Livia si ricava[55] come dopo avere i Galli presa tutta Roma fuorchè il Campidoglio, sapendo che i Veneti aveano fatta una irruzione ne’ loro paesi, accettarono il danaro che in prezzo della pace loro offersero i Romani, e se n’andarono carichi di ricchezze senza più spargere una goccia di sangue.

Pullulano da tutte le parti le contraddizioni fra gli scrittori, intorno i fatti più importanti. I trecento Fabi uccisi alla giornata di Cremera sono attestati da Livio, da Ovidio, da Aurelio Vittore, da Festo e da Valerio Massimo. Dionigi d’Alicarnasso mette questo avvenimento fra le favole. Sono piene le storie della volontaria schiavitù di Regolo e della crudel sua morte. Polibio, autore contemporaneo, non ne dice una parola. Dopo un impasto di tante contraddizioni circa i più grandi fatti, dopo una congerie di tanti prodigi, quale critica ci è rimasta per segregare il vero dal falso, a noi che siamo distanti più di venti secoli?

Sembra che vi sia un’antichissima tradizione, che forma la storia di molte nazioni. Forse le une delle altre furono colonie ed emigrazioni. Il moltiplicarsi del genere umano, i terremoti, le inondazioni, soggetti delle querele dell’antichità, saranno state cagioni di questi rigurgiti. Gli Ebrei, gli Egizi, i Persiani, i Greci hanno molte cose comuni ne’ loro annali più antichi. I Romani inserirono buona parte della greca mitologia ne’ loro annali; qualche fatto hanno pure che in altre storie si ritrova. Romolo, tradito dal suo zio Numitore per usurpargli il trono, somiglia molto a quanto dice Giustino di Ciro. Il di lui avo Astiage re de’ Medi avea dato ordine che si uccidesse appena nato. Non fu eseguito il comando: fu esposto in un bosco, dove fu ritrovato ch’era allattato da una cagna, come Romolo lo era stato da una lupa; fu educato da’ pastori. Vendicossi finalmente dell’avo Astiage, ed ebbe il regno.[56] Romolo ebbe appresso a poco le stesse avventure. Molti altri eroi si dissero allattati dalle bestie. Il re Albis lo fu da una cerva, Esculapio da una capra.[57] Romolo fondò la sua città aprendo asilo. Così Cadmo avea fatto fondando Tebe, così Ercole in Atene.

Ma le vicende di Romolo e di Remo si ritrovano anche più chiaramente nella greca storia. Filomene figlia di Nitti ch’ebbe da Marte due gemelli, che furono gittati nel fiume Erimanto, da una lupa allattati, accolti da un arcade pastore, educati da lui[58] sono perfettamente avventure eguali a quelle che di Romolo e Remo scrivono i Ro­mani. Quest’istesso Romolo ucciso da’ senatori e fatto dio, veduto salire al cielo per aquietare il popolo, non è egli Pisistrato re d’Ocomeno che fu assassinato da’ Primati, e per nascondere il reccidio si spacciò che, asceso il monte Pisco, s’era colà trasformato in un dio?[59] La vergine Tarpea, che aveva introdotti in Roma i Sanniti col patto che le dessero gli ornamenti che avevano nella mano sinistra, intendendosi i braccialetti, e che poi col gettarle addosso i loro scudi che in tal mano tenevano la soffocarono sotto di essi, non è ella Demonica che promise a Brenno re dei Galli di aprirgli una porta di Efeso, e che, conquistata la città da quel re, venne sepolta nell’oro e nell’ar­gento? Il celebre combattimento degli Orazi e Curiazi, se ne cangiate i nomi, non è egli l’istesso, colle più minute circostanze, di quello de’ Fageati e Feneati, due popoli che facendo guerra ne rimisero la decisione a tre fratelli gemelli ch’erano in ciascuna delle armate? In questo combattimento due fratelli Fageati caddero morti, e i tre Feneati erano feriti; il superstite Fageate, Critolao, finse di fuggire, ed in tal guisa, dissipando i tre feriti che ad ineguali distanze lo inseguivano, tutti l’un dopo l’altro uccise. Critolao ritornato a’ suoi, fra gli applausi incontrò una sorella che piangeva la morte di Demonico, uno de’ Feneati a lei promesso in isposo. Critolao trovando importune queste doglianze uccise la sorella. Fu accusato di omicidio da sua madre, e portata la causa al popolo fu assoluto.[60] Nissuna differenza si ritrova col fatto degli Orazi e Curiazi.

Muzio Scevola, che tenta di uccidere il re Porsenna, che sbaglia il colpo e mette la mano nel fuoco, non è egli Agesilao ateniese, che tenta di uccidere Serse, e che avendo fallato il colpo, preso, e condotto avanti quel re, mise la mano nel fuoco di un’ara ivi preparata al sacrificio, e, come disse Mudo al re toscano, dice anch’egli a Serse: «Altrettanto farebbe ogni Ateniese. Se non mi credi porrò anche la sinistra nel fuoco»?[61]

Curzio, che si getta nella voragine, è egli un altro che Ancuro principe frigiano? Apertasi in Celene una voragine, e l’oracolo avendo detto che bisognava gittarvi ciò che v’era di più prezioso, egli, vestito ed armato come se avesse a combattere, vi si rovesciò a cavallo; dopo di che la caverna si chiuse.[62] Di Curzio si dice lo stesso; ed era circondato in Roma di mura quel sito dove ci s’era rovesciato nella caverna per memoria del fatto. Tarquinio che taglia la testa ai papaveri, non è egli Trasibato tiranno di Mileto che abbatteva col bastone le spiche più alte in presenza degli ambasciatori di Periandro consigliandoli con tale emblema di togliere di mezzo i più potenti cittadini di Corinto?[63]

V’era in Roma un tempio dal quale era tradizione che Ercole avesse discacciati gl’insetti, mediante la protezione del dio Miagro a cui avea fatto un sacrificio per ottenere tal grazia: quest’Ercole romano inimico degli aerei insetti non somiglia egli all’Ercole greco il quale, secondo l’antica credenza degli Eleani,[64] essendo importunato in Olimpia da simili insetti, avea fatto per liberarsene un sacrificio al dio Apomuios che gli Eleani annualmente solennizzavano? Il fuoco eterno custodito dalle vergini ch’era in Roma lo ritroviamo anticamente in Grecia: in Atene ed in Delfi v’era questo religioso costume, colla sola differenza che custodivasi dalle vedove.[65]

Macrobio e Plutarco raccontano che dopo l’assedio del Campidoglio fatto da’ Galli le latine città si collegarono contro di Roma, e minacciavano d’invaderla se loro non venivano consegnate tutte le dame romane. Intanto che il Senato deliberava su tal proposizione, le donne de’ schiavi si offersero di deludere i Latini; si vestirono cogli abiti delle loro padrone, andarono nel campo de’ nemici, i quali, dopo avere passata tutta la notte fra il libertinaggio, furono sorpresi e battuti dai Romani. Dasillo nella storia della Lidia racconta lo stesso fatto fra i Sarmiani e Sirmiesi, che quegli facessero a questi la stessa domanda, che fosse delusa collo stesso stratagemma, e che il successo fosse eguale.

Cotal somiglianza di fatti prova troppo chiaramente come i Romani ritenessero le antiche tradizioni de’ Greci d’onde traevano la origine, e che le intrudessero ne’ loro annali. Era antica ed universale tradizione che i popoli i quali in varie truppe vennero ad abitare l’Italia fossero colonie greche. Molte città egualmente che Roma dicevansi fabbricate da gente venuta dall’assedio di Troia. Molto prima della fonda­zione di Roma v’erano varie colonie di Greci nella Puglia e nella Calabria; onde Magna Grecia furon dette quelle regioni. Evandro, Oenotrio si dicevano anticamente dall’Ar­cadia in Italia venuti con numerose colonie; poi Enea; insomma non v’era tradizione più comune di questa, che vari popoli di Grecia si fossero stabiliti in Italia, e vi avessero fondate città. Questi avranno avute le loro storie, e non si può a meno che non venissero confuse e corrotte dagli Italiani, ed immischiate colle loro. Dionigi d’Alicarnasso prova che i giochi, i sacrifizi, i trionfi, in somma la religione ed i costumi degli antichi Romani erano tutti greci[66] nè altro si propone di provare nel primo libro se non se che da essi traevano i Romani l’origin loro. I Latini usavano per fino i caratteri greci. Il trattato d’aleanza fatto da Servio Tullio colle città latine era scritto su di una colonna di bronzo con lettere greche.[67] Essa dunque sino a’ tempi di Dionigi era nel tempio di Diana.

Capo IV. Le tre guerre puniche.

Avendo impiegato quasi cinque secoli il romano valore nella conquista d’Italia, ne’ due secoli susseguenti dilatò rapidamente fuori di essa il suo impero. Che se dice Dionigi «Per tutta la terra abitata dagli uomini, e che non altro confine aveva, che l’Oriente e l’Occidente»[68] ciò prova più la mancanza di geografia che la vastità del dominio. Tamerlano conquistò più paese in otto giorni che non ne conquistarono i Romani in ottocento.

La prima spedizione fu in Sicilia, in cui più che le guerre (noiosa e funesta monotonia negli annali di tutte le nazioni) importa l’osservare come il console Valerio portasse da Catania un orologio solare che fu esposto in Roma pubblicamente.[69] Plinio dice essere stato questo orologio molto imperfetto: «Ne congruebant ad horas ejus lineae». Ma ciò forse dimostra, più che la sua imperfezione, la ignoranza de’ Romani che non seppero mettere un gnomone nella sua giusta posizione. È molto naturale questo sbaglio in una nazione che per quattro secoli non avea conosciute altra divi­sione del giorno che l’orto, l’occaso e ’l mezzodì, e questo non si congetturava che quando scagliavasi un raggio solare fra la tribuna delle arringhe ed un sito chiamato greco-statin. Dicesi che Lucio Papirio facesse conoscere a’ Romani il primo orologio solare circa trent’anni avanti di questo; ma fa d’uopo che fosse assai rozzamente o costruito o adoperato, se Valerio ne portò uno da Sicilia. E se non circa un secolo dopo, Scipione Nasica fece fare un clepsidro onde conoscere le ore anche di notte e ne’ tempi nuvolosi. Altra non poteva essere la coltura di quella nazione che aspettò sino a questi tempi a conoscere la moneta argentea. La prima di esse fu veduta in Roma cinque anni avanti il principio della prima guerra punica[70] in occasione che Tolomeo Filadelfo re d’Egitto spedì alla Repubblica ambasciatori con doni d’argento. In vano cerchi fra quel popolo di eroi le arti, le scienze, i comodi della vita; che anzi Fabricio, udendo ad una cena di Pirro ragionare della filosofia d’Epicuro, «Deh», disse, «sieno queste sempre le dottrine di Pirro e de’ Sanniti!».

Si pone il principio delle guerre puniche all’anno 488. I Cartaginesi furono il primo popolo fuori d’Italia col quale facessero aleanza i Romani. Sino dopo l’espul­sione dei re, sotto il consolato di Bruto e d’Orazio, s’era con loro fatto trattato. Questo monumento esisteva al tempo di Polibio, scolpito in tavola di rame nel Campidoglio. Era scritto nell’antica lingua romana, ed essa era per modo cangiata, che lo stesso Polibio[71] assicurava che difficilmente lo poteano intendere anche i più eruditi.

Non senza ammirazione si legge nelle storie come in poco tempo i Romani, che quasi nessuna conoscenza aveano dell’arte di navigare, diventassero sì potenti in mare da atterrire la commerciante Cartagine. Non è però da credersi Polibio[72] quando asserisce che i Romani prima di tal guerra non sapevano formare una nave. Ei si contraddice ove attesta[73] come nell’antico trattato fatto da loro coi Cartaginesi fino al tempo dei primi consoli, Giunio Bruto e Marco Orazio, v’era fra le altre condizioni quella che i Romani avessero per confine del loro navigare un promontorio detto il bello. Tal patto suppone navigazione. Egli è in oltre costante che già prima i Romani assediarono Tarento con dieci galere, e che ancor prima il console Menio avea tolte venti navi agli Anziati. I duumviri navales, la dignità de’ quali consisteva in sopraintendere alla marina, eran già introdotti prima delle guerre puniche.[74]

Fu l’occasione a questa guerra l’avere Messina, dal re di Siracusa Jerone ridotta agli estremi, implorato nel medesimo tempo l’aiuto de’ Romani e de’ Cartaginesi. Si teme’ la vicinanza di un popolo sì potente, e si volle prevenire. Ma la più universale cagione di tal guerra si era quel moto concepito che non poteva fermarsi. Era guerriera per instituzione la romana Repubblica; la Politica e la Religione conspiravano per farla conquistatrice. Come avrebb’ella limitate le sue conquiste a sì piccolo paese? Il guer­reggiare in mare, al che non erano avvezzi i Romani, mise a prova tutta la loro costanza. Non è difficile l’intendere che i Cartaginesi li superassero di molto nelle forze marit­time. Eglino nel commercio fondavano loro grandezza come Roma nell’armi. Sulle coste d’Africa, nelle Spagne aveano stabilimenti. La Corsica, la Sardegna, buona parte della Sicilia, le isole costiere d’Italia, il Mediterraneo era loro. Onde le prime imprese de’ Romani furono il perdere ne’ scogli e nelle borasche le intiere flotte; per modo che più volte pensò il Senato di non più fabbricarne. Quali fossero le navi di quella Repubblica in tale occasione, ben si conosce da ciò che fece una di lei flotta, la quale, andata all’assedio d’Ippona in Africa, e saccheggiatala, mentre stava per ritornarsene carica di preda, fu chiusa nel porto. Si spinsero le navi verso della catena, e quando che i rostri le furono vicini i soldati subito trascorsero alle poppe, e così alzatesi le prore ed appoggiate sulla catena in quella positura trascorsero velocemente alle prore istesse onde discesero le navi.[75] La qual cosa non si può fare, che con piccoli battelli tutt’al più. Il numero sterminato di navi fabbricate in pochissimo tempo, può egual­mente provare un meraviglioso travaglio, e la loro piccolezza. Essendo naufragata la prima flotta di cento navi galere se ne fece una di duecentoventi navi nello spazio di tre mesi[76] cioè più di due navi al giorno. Quale si può fare in meno di dodici ore se non se una che ne sia appena il modello? Crederem noi a Polibio quando ci dice che ciascuna nave conteneva trecento remiganti, e centoventi soldati?[77]

Attilio Regolo e Clodio Pulcro si resero famosi in questa guerra. Quello coll’amor della patria, questo col disprezzo degli dei. Attilio fatto prigioniero de’ Cartaginesi, spedito da essi a Roma per farne il cambio, promise non potendolo ottenere di ritornarsene. Venuto alla patria, sostenne in Senato che pernicioso era il cambio de’ prigionieri, nè le lagrime degli amici, de’ figli, della moglie il tennero dal ritornare in ischiavitù, dove d’inedia morì. Giunio Pulcro, spedito con armata navale contro di Cartagine, preso auspicio da’ polli, non volendo essi mangiare gettolli in mare dicen­do: «Se non vogliono mangiare, vadano costoro a bere».[78] Non era quello il tempo di aver dello spirito, poichè avvilito il coraggio de’ soldati la flotta naufragò: nè vincer poteva credendo d’avere inimici gli dei.

Dopo ventiquattro anni finì la prima guerra punica, in cui la Sicilia, la Corsica, la Sardegna furono conquiste de’ Romani, ed erette in loro provincie.

In quello spazio di tempo d’anni diecinove, che la prima dalla seconda guerra punica divise, il console Marcello trionfò de’ Galli Insubri, e quel paese fu ridotto in provincia romana. Ma sia questa che le guerre coi ribellanti Sardi e Corsi, coi Liguri, Istri ed Illirici piuttosto molestarono che esercitarono l’armi romane.[79] Fu verso questi tempi che un certo Arcagato venne dal Peloponneso in Roma, e vi esercitò il primo la chirurgia. Fino a quest’epoca in altro non consisteva quell’arte presso de’ Romani che in alcuni rimedi che si conservavano per tradizione nelle famiglie.[80] Fu molto onorato Arcagato in quella città, ebbe la cittadinanza romana, e gli fu assegnato un alloggio a pubbliche spese. Le operazioni ch’egli faceva parvero sì crudeli che fu sopranno­minato il Carnefice. La medicina tardò ancor più ad introdursi fra i Romani. Di essa ne fecero senza per sei secoli ne’ quali tutti i loro medicamenti consistevano nel purgarsi con de’ cavoli. Fino a’ tempi di Plinio i Romani non l’aveano esercitata, tutti i medici di Roma erano greci. Catone il Censore era cotanto di mal umore verso di loro, che diceva esser venuti a bella posta per esterminare i Romani, e per non altro farsi eglino pagare che per ricoprire un cotal disegno. Se Catone non ischerzava può dubitarsi della finezza di sua politica. Egli per altro era un uomo che al dir di Plutarco[81] si lodava eternamente. Quando sentiva biasimare alcuno soleva ripetere sempre: «Egli è scusabile, non sono poi tutti Catoni».

Fu più tregua che pace, quella fatta coi Cartaginesi. Annibale avea giurato sull’are degli dei di essere inesorabile nemico de’ Romani. Nessun giuramento fu mai più religiosamente osservato. Cominciò egli ad aprire la seconda guerra punica nella Spagna, dove ridusse talmente agli estremi i Sagontini collegati de’ Romani, che stimarono minor male, al dire di Valerio Massimo,[82] di alzare nel foro una catasta, e di tutti abbruciarsi. Bisogna che fosse o smisurato il luogo, o pochissima la popola­zione di Sagonto.

È degna di nostra attenzione la famosa discesa in Italia d’Annibale. Tratti in prima dal suo partito i Galli Circumpadani e Subalpini, traversò la metà delle Spagne e la Francia, soggiogando nel passaggio i popoli abitanti fra l’Ibero ed i Pirenei. Quindi scese in Italia per le Alpi Taurine, che furono sempre la porta di chi viene a noi dalla Francia, passaggio vantato come portentoso, e che tante volte succedette di poi senza che alcuno se ne meravigliasse. Con qual arte per mezzo di fuoco ed aceto[83] s’aprisse una via fra il duro macigno di quell’erte montagne se ne lascia di buon grado la investigazione a chi abbia il coraggio di combatter colla fisica per difendere la storia. Si pretende che il sito ove Annibale passò le Alpi era stato fin’allora impraticabile. Egli è far torto ad un grande uomo il fargli scegliere così male le strade. Le Alpi senza aceto e senza fuoco erano state già passate, per lo meno, quattro volte dai Galli, nazione molto inferiore ai Cartaginesi, e diretta da generali non paragonabili ad Annibale. Con un esercito di ventimila fanti e seimila cavalli, al dir di Polibio,[84] prese in prima Torino, sconfisse al Ticino il console Scipione, poi il console Sempronio alla Trebia, poi al lago Trasimeno il console Flaminio, sconfitta che fe’ dire al console Pomponio: «Con grande battaglia siamo vinti»,[85] quindi a Canne die’ la famosa rotta a cui simile non sofferse in prima quella Repubblica, nè ad altro servì l’utilissimo e biasimato temporeggiare di Fabio che a ritardarla. Così arrivò Annibale sino agli estremi d’Italia con ammirabile velocità di vittorie per svernare in Capoa fra i piaceri, il che fe’ dire a Marcello che era a Capoa la Canne di Annibale.[86] Di là ritornò egli a Roma, nella quale avea già scagliata, al dir di Plinio, un’asta.[87] Estremo fu lo scompi­glio di quella città in tale occasione. Si consultarono, come si soleva ne’ grandi pericoli, i Libri Sibillini: questi erano i soccorsi che la superstizione somministrava contro di un possente nemico. Ma il Senato, capo imperturbabile in mezzo della più grande costernazione, d’una gravità, d’una fredda e pensata constanza senza pari, fe’ mettere alla pubblica asta il campo di Annibale stesso e, ciò che è ancor più meraviglioso, ritrovò compratori senza che si diminuisse di prezzo. Narrasi che ad Annibale bastasse tal nuova per ritirarsi da Roma. Asdrubale suo fratello venne dalle Spagne, e passò le Alpi. Fu sconfitto al fiume Metauro, ove dicesi che i Romani si saziassero di uccidere. Asdrubale vi morì, ed il di lui teschio gettato negli accampamenti del fratello gli fe’ proferire quel doloroso detto: «Or veggio quale esser deve la sorte di Cartagine».[88]

Si sarebbe deciso in questa seconda guerra se Cartagine o Roma dovessero avere gli encomi della posterità (quanto giusta nel giudicare del merito degli autori, altret­tanto irragionevole nel giudicare quello delle nazioni), se i due gran generali Fabio ed Annibale avessero ottenuta quella stima ch’erano in diritto di esigere dalla lor patria. A Fabio soltanto poteva opporsi un Annibale, come un Fabio a lui. Eppure l’uno era temuto da’ suoi, l’altro disprezzato. Il temporeggiare di Fabio fu il soggetto di mille dicerie in Roma. Appena fu egli fatto dittatore e spedito contro di Annibale, che venne richiamato. Gli fu sostituito Minucio, uomo degno di tutto quel disprezzo che aveva per lui, dovettesi rimandare Fabio all’esercito, e lo salvò da una sconfitta a cui l’aveva esposto Minucio. La battaglia fatale di Canne non venne confidata a Fabio, ma alla audacia ignorante del console Varrone suo nemico. Così era trascurato il più gran­d’uomo che avesse la Repubblica. Dall’altra parte Annibale fu lasciato in Italia senza soccorsi; venne richiamato col pretesto di difendere Cartagine, il che ben più nocque agli interessi della sua patria che l’ozio di Capua. Fugli tagliata a mezzo l’impresa la di cui sicurezza cresceva colla rapidità d’eseguirla. Aveva questo grand’uomo ridotti i Romani a dar l’armi agli schiavi. Questa fu la prima volta che ciò accadesse. Se Cartagine avesse conosciuto Annibale non so se Roma avrebbe resistito; ebb’egli gran ragione di dire, sortendo d’Italia, di non essere stato vinto dal popolo romano, «ma dalle calunnie e dalla invidia del Senato cartaginese».[89]

Giunto Annibale in Affrica, pugnò a Zama, città distante da Cartagine settantacinque miglia, col famoso Scipione detto l’Affricano, che, dopo avere conquistate tutte le Spagne al popolo romano, minacciava Cartagine. Questa battaglia è celebre per i gran generali che la diressero, e per il gran soggetto di cui si trattava. Avanti dell’ara si abboccarono i due generali; dicesi che al primo vedersi rimasero attoniti senza proferir parola. Annibale fu vinto[90] e quella sconfitta fe’ cheder pace a’ Cartaginesi a’ quali fu accordata con tali condizioni che venivano ad essere sudditi di Roma. Fra gli altri articoli vi fu che consegnassero tutte le loro navi eccettuatine dieci galere. Con che fu affatto privata Cartagine di forze marittime. Così finì questa seconda guerra punica, che durò diciotto anni. I Romani vi acquistarono le Spagne, delle quali i due Scipioni Cneo e Publio ne aveano cominciata la conquista: l’Affricano Scipione figlio di Publio la finì.

Terminata questa guerra, l’armi romane portaronsi in Macedonia contro del re Filippo. Agguerriti e vittoriosi, chi loro poteva resistere? Chiese pace quel re, e gli fu concessa a quelle condizioni che impongono i forti ai deboli. Furono per tal pace dichiarate libere tutte le città della Grecia che Filippo avea ridotte al suo governo; la qual nuova pubblicata da un araldo romano per parte del Senato, ne’ comizi della nazione greca, infinito ne fu il giubilo, e fecesi molte volte ripetere quel desideratissimo avviso, quasi agli occhi propri, alle orecchie non credendo. Antioco re della Siria tentò di togliere a’ Greci quella libertà che loro diedero i Romani. Fu sconfitto alla battaglia di Magnesia, che lo costrinse a chieder pace. I Romani non profittarono delle conquiste fatte su di lui, ma le divisero fra gli Rodi ed Eumene re di Pergamo aleati. Non mai nazione si mostrò più degna di vincere quanto la romana in questa occasione.

Dopo ventisei anni di pace colla Grecia, rinnovossi la guerra con Perseo re di Macedonia, figlio di Filippo. Questa è quella guerra che gli storici chiamano Macedonica seconda. Finirono gli sforzi di quel re col essere condotto a Roma in trionfo insieme co’ suoi figli da Paolo Emilio, trionfo alla di cui magnificenza non meno contribuì che un totale saccheggiamento dell’Epiro. Così ebbe fine il regno di Mace­donia. Forse Paolo Emilio dovette questa insigne vittoria alle cognizioni di Sulpizio Gallo il quale gli predisse che la notte antecedente al giorno della battaglia vi doveva essere un ecclisse lunare.[91] Fin’ora nessuno fra i Romani ne aveva saputo tanto di astronomia. Sulpizio fu il primo di quella gran nazione che conoscesse la cagion di quegli ecclissi. Emilio avvisò i soldati di quanto doveva accadere, ne spiegò loro la cagione, e con ciò prevenne quell’avvilimento che tai fenomeni recano ai popoli ignoranti.

Se nessuna guerra fu più generosa di questa, se in essa i Romani apparvero dei protettori della greca libertà, nessuna guerra fu più feroce, ed al nome romano più ignominiosa di quella ch’eglino nello stesso tempo facevano nelle Spagne. I pretori colà erano detestabili ed implacabili tiranni. La città di Aza rinnovò l’esempio di Sagonto. Fu distrutta da’ suoi cittadini piuttosto che rendersi a Scipione Africano, il quale aveva loro insegnato quanto grande sventura fosse l’esser vinto da lui. Alla presa della città Miturgo il suo esercito uccise quanti abitatori puotè. Non si perdonò alle donne, non ai fanciulli. Fu incendiata, distrutta tutta la città.[92]

Con quanto differenti mezzi vinceva questa nazione in Grecia che nelle Spagne? Servilio Cepione non altrimenti debellò l’illustre ribelle lusitano Viriato, chiamato da Floro il Romolo delle Spagne,[93] che col farlo trucidare da alcuni suoi domestici corrotti dal danaro.[94]

Già perito Annibale per la perfidia di Prusia re di Bitinia, Catone il Censore non finiva di muovere il Senato a distrugger Cartagine. Egli conchiudeva tutti i suoi voti con queste parole: «Inoltre io sono di parere che si debba atterrare Cartagine». È noto che Nasica vi si oppose, ma inutilmente. Merita attenzione come i Romani obbligas­sero Prusia ad abbandonar loro Annibale che presso a lui s’era ricoverato. Quella stessa nazione che aveva trattato così generosamente con Pirro, impedendo che fosse avvelenato, ora per opprimere un vecchio, rispettabile e disarmato nemico sforzò un principe ad essere un ospite traditore.

Finalmente si pronunziò la condanna contro di Cartagine. Vi volle tutta quella ostinazione propria del Senato romano in non disdirsi giammai, ed in eseguire imperturbabilmente qualunque progresso, per contrapporre l’estrema durezza alla estrema umiliazione. Appena arrivarono i consoli in Sicilia, i Cartaginesi spedirono ambasciatori i quali si esebirono interamente all’arbitrio del Senato romano. Furon chiesti trecento giovani in ostaggio, vennero dati senza replica. Andarono di poi i consoli coll’armata presso di Utica. Accorsero colà di nuovo gli ambasciatori cartaginesi dicendo a che d’armi vi fosse d’uopo, essendo eglino disposti a tutto fare. Fu risposto che l’armi consegnassero, che la patria distruggessero. Questa estrema tirannia non fu tollerata. Cartagine si difese con quel valore che hanno gli uomini disperati. Sci­pione Emiliano[95] fu destinato a distruggerla, ed in Roma trionfò. Impresa più da guastatore che da generale.

La ricca, la commerciante Cartagine fu vinta da Roma povera e barbara, perch’essa ritornava dalla grandezza, e la sua nemica vi andava. Cartagine era una corrotta repubblica nella quale il popolo abusava della libertà. In Roma per lo contrario la maggior potenza in tai tempi era del Senato, cioè di un ceto di uomini grandi. Qual differenza fra la condotta di queste due repubbliche? In una comandavano i capricci di un volgo licenzioso, nell’altra le opinioni di cittadini educati e formati con grandi princìpi. In Roma v’era un Senato che ragionava profondamente sugl’interessi dello stato, in Cartagine la politica era abbandonata al tumulto del popolo. La diversa disciplina militare di queste due Repubbliche ne fa prova. I Romani avevano per principio di non mai avvilire un generale perchè fosse stato sfortunato. Gli si negava il trionfo tutt’al più. I consoli Fulvio ed Emilio sotto il comando de’ quali perì quasi tutta l’armata navale, ben lungi dall’essere perciò rimproverati dal Senato, ne ricevet­tero la proroga della imperatoria dignità, benchè l’anno consolare fosse spirato. Il console Varrone dopo di essere stato sconfitto alla battaglia di Canne non ritrovò in Roma che compassionevoli cittadini, i quali lo consolavano di sua disgrazia.[96] I Carta­ginesi, all’opposto, già si vide come trattarono Annibale. Il crocifiggere un generale perchè era stato sconfitto fu una loro barbarie di sistema. Così fecero con un loro comandante quando perderono Messina e con un altro per nome Annibale (non già il famoso) perchè era stato battuto da’ Romani in un porto della Sardegna.[97] Di Xantippo spartano, altro loro generale di gran merito, furono così gelosi, che lo fecero proditoriamente naufragare[98] quantunque avesse insignamente migliorati gl’interessi di Cartagine con molte rotte date a’ Romani. Tanta diffidenza da una parte, tanta confidenza dall’altra non poco influivano a render Roma superiore a Cartagine. Il sistema de’ Romani era fatto per produrre eccellenti generali, quello de’ Cartaginesi per avvilirli. Il gran merito è sempre delicato: il punire la sfortuna di un generale come la perfidia è spegnere il coraggio nella sua sorgente.

Troviamo in oltre che gli eserciti cartaginesi non di rado crucifiggevano i loro generali per dedizione. Non vi può essere maggior disordine nella disciplina. Egli ne prova infiniti altri. Presso i Romani non v’era tampoco l’idea di tal delitto. Il generale, se fossero stati sconfitti i suoi soldati, gli riprendeva con vigorose e patetiche arringhe, li decimava, li riconduceva all’inimico. Per quanto fosse severa la loro disciplina militare, ella era lontanissima dall’estinguere i princìpi d’onore. V’erano pene, v’eran premi, ma gli uni e le altre tratte per lo più dall’onore. Le corone obsidionali, civiche, murali ecc. distribuite con scelta e moderazione mettevano a profitto quell’inesauribil fondo pe’ saggi legislatori, l’umana vanità. Duilio, per avere vinta la prima battaglia navale, si stimò fortunato di ottenere dal Senato il privilegio di ritornare da cena colle torce, ed al suono di flauto.[99] Nulla dico del trionfo. Egli non tanto bastava alla vanità, ma anco alla ambizione.

Se v’erano pene corporali nella milizia, ve n’erano ancor d’ignominiose. La perfi­dia e l’atrocità era punita con pene afflittive, ma la codardia colla vergogna. Si dava al colpevole in vece della solita misura di frumento dell’orzo; si spogliava del cingolo militare e delle armi, lasciandoli la sola tunica, ch’era la camiscia de’ Romani, colla spada ignuda in mano si obbligava a mangiare e bere in piedi finchè fu terminata la guerra;[100] gli si cavava sangue per indebolirlo, e simili pene che dimostrano un grande fondo d’onore ne’ soldati romani.

Un’altra ragione della superiorità di Roma era l’avere l’armata composta di citta­dini, intanto che i Cartaginesi l’avevano di mercenari greci, galli, africani e spagnuoli. Dopo la prima pace sentirono i Cartaginesi gl’inconvenienti di questo sistema. Il loro esercito si sollevò e dovettero combattere colla armata stessa per finire la sedizione. Fu quella repubblica per cadere in sì fatta occasione. Allora che il personal valore era necessario, perchè non supplito dalla industria delle armi, passava gran differenza fra un’armata che combattesse per la famiglia, per la patria, ed una che facesse il mestier d’ammazzar le persone per tanto al giorno.

L’invenzione del corvo fu assai utile a’ Romani. Con questa macchina dicono gli storici che afferravansi le navi, e dentro vi scendeva con molta facilità. A ciò si attribuisce la superiorità che ben presto ebbero sulla marina de’ Cartaginesi.

Chi negherà a’ Romani la sapienza nelle cose di guerra! Quest’arte gloriosa e sterminatrice fu da loro portata ad un grande raffinamento. Tanto considerabili e continuate conquiste non possono esser che l’effetto di una costanza e sapienza di princìpi. La disciplina trasformava l’uomo in un soldato di straordinaria robustezza. Ciascuno portava corazza, spada, stocco, catena, frumento per quindici e talvolta trenta giorni, pali per le palizzate sino a sette[101] cosicchè Giuseppe Ebreo paragona un soldato romano ad un giumento che porta i bagagli:[102] eppure con tal peso facevano venti miglia in cinque ore. Quest’era la solita marcia.[103] La corsa fu in questa nazione sostenuta all’incredibile. Plinio assicura come cosa di pubblica notorietà che i cursori facevano nel circo più di centosessantamila passi.[104] Il principale esercizio delle armate romane era il marciare ed il correre, lo che distinguevano in ambulatio e decursio. Credevano importantissima l’arte delle evoluzioni, nè ritroviamo che stimassero utile alla disciplina, e mezzo di trionfare, il presentar l’asta in tre tempi, o il fare vari giuochi collo scudo e colla spada. Tutti i soldati sapevano nuotare e saltare. Non v’è che d’ammirare in simili istituzioni. I Romani per fine non solo avevano i vantaggi nella bontà del proprio sistema, ma ancora nei difetti di quello degli inimici.

Capo V. Decadenza della libertà. Guerre esterne e civili fra Mario e Silla.

Alla distruzione di Cartagine venne dietro quella di Corinto nell’anno istesso. Poi tredici anni dopo il distruggitore di Cartagine Scipione Emiliano atterrò Numanzio città delle Spagne, illustre per valore ed amor di libertà. Celebri ed orrendi misfatti! Tanto costava in tai tempi la gloria di Roma al genere umano.

La ricca eredità di Attalo re di Pergamo finì di bandire la severa povertà dalla Repubblica romana. Tanti così immensi bottini insegnarono nuovi piaceri a quella ancor barbara nazione. Il console Mumio, mandando in Italia statue e pitture da Corinto, fessi promettere da’ conduttori che, se perdute le avessero, sarebbero obbli­gati a restituirne altrettante di nuove. Tal era il contratto di assicurazione che faceva sulle opere di Zeus e di Appelle un console romano.

Credesi volgarmente che abbruciando quella città si formassero dalle liquefatte statue d’oro e d’argento e da altri ornamenti quelle vene di metallo detto di Corinto, di cui i Romani facevano grand’uso. Ma un secolo prima della distruzione di Corinto si facevano in Roma que’ lavori di metallo chiamati appunto corinti,[105] forse perchè di là era venuta tale arte. Plutarco[106] chiama favola quanto si disse sulla origine di questo bronzo. Un errore di meno è sempre un bene.

Così Roma, distruggendo ogni ostacolo alla sua potenza, avicinava la propria decadenza, accelerando quella grandezza sotto al di cui ingombro si piegò, fu sepolta, ed ivi giacque. Sulle di lei ruine risorse la servitù. Una utilissima attenzione a conservarsi, un continuo esercizio a guerreggiare, una gara di sapienza e di virtù furono vantaggi irreparabili, e non conosciuti, che Roma perdette co’ nemici. E già gli effetti d’una falsa grandezza eran troppo manifesti. A misura che allargavano i confini della dominazione, scemava la forza delle leggi. Già il console Papirio Masone, poco dopo la prima pace punica, avendo sedate le ribellioni della Corsica pretendeva il trionfo, ed essendogli stato negato se lo attribuì da se stesso entrando in Roma all’altezza dell’armata vittoriosa. Portossi trionfando al tempio di Giove Laviale sul monte Al­bano.[107] E qualche anno appresso la seconda guerra punica il console Cneio Manlio Vulsone trionfò dei Gallo-greci che al monte Olimpo avea sconfitti, benchè avesse fatta tal guerra senza saputa del Senato;[108] ed anni tre dopo la distruzione di Cartagine, essendo negato al console Claudio Pulcro l’onor del trionfo per aver combattuto con poca fortuna i Salassi (popoli delle Alpi verso l’origine del Po), trionfò a sue private spese[109] ad onta del popolo e del Senato. Questi son segni troppo chiari del decadi­mento della Repubblica. Non merita tal nome un governo in cui tanto sia il potere degli uomini, e sì debole quello delle leggi.

Or tocchiamo i princìpi de’ Gracchi, illustri e sfortunati repubblicani nati già troppo tardi per esserlo. L’anno seicentoventi, vale a dire tredicesimo dopo la distruzion di Cartagine, Tiberio Gracco[110] tribun della plebe volle rinnovare la legge agraria detta Licinia, legge promulgata e non mai osservata sino dall’anno trecentottantacinque di Roma. Ella stabiliva che ogni cittadino non possedesse più di cinquecento iugeri di terreno. Dopo le ricchezze dell’Asia, della Grecia e di tante provincie danneg­giate, quale maggior assurdo di tal legge? A forza di disordini lo diventano anche le ottime istituzioni. Le crudeltà che in quella occasione fece il Senato furono eguali al suo interesse. A chi poteva maggiormente rincrescere la eguaglianza delle fortune? I patrizi ed i senatori uccisero il tribuno, e la strage si stese su tutti i suoi seguaci. Caio Villio, il più zelante fra i difensori della libertà, morì in una botte fra i serpenti. Così era rispettata quella legge importantissima, che un cittadino romano non perisse se non se per sentenza ne’ comizi. Il Senato dopo di questi orrori pubblicò un editto in cui li giustificava. Il penultimo grado della miseria pubblica è quando la tirannide cerca il soccorso delle leggi per mascherarsi.

Non meno inveirono i senatori contro di C. Gracco fratello di Tiberio che seguitò le di lui mire e sfortune. Vi fu in tali tumulti per la prima volta in Roma una vera guerra civile. C. Gracco fu messo alla taglia, e morì combattendo co’ patrizi. Il console Opimio, difendendo ben più i suoi campi e quelli de’ senatori che la Repubblica, vendicò la sollevazione del popolo con crudeltà degne d’un ricco patrizio in una corrotta Repubblica. Basti dire che condannò a morte Fulvio, un fanciullo di dodici anni, figlio di Fulvio Flacco intimo amico di Caio. Quest’era il suo delitto. In così tenera età fece arrossire i suoi giudici, e prevenne la sentenza uccidendosi. Tali furono gli effetti degli infelici sforzi di chi tentava di ristabilire l’antica libertà.

Le dissensioni fra i patrizi ed i plebei divennero guerre, e guerre le più crudeli che fomentasse lo spirito di partito. Mario e Silla, grandi ed atroci uomini, contesero non già pel popolo o pel Senato, ma per non poter soffrire un uguale non che un superiore. Essi furono di quegli uomini le cui grandi qualità tanto costano al genere umano. Eran questi i tempi ne’ quali P. Ruttilio Ruffo stato console, e bandito ingiu­stamente da Roma, ritiratosi in Smirne, ritrovò la patria così poco degna di un buon cittadino che essendovi richiamato non vi volle ritornare.[111] Primo esempio che un cittadino romano rinunciasse alla sua patria: ma patria non v’era più. Ciò si vide charamente in occasione che Giugurta uccise i suoi fratelli, ed usurpossi il regno di Numidia. In altri tempi quella veramente atroce usurpazione sarebbe stata vendicata con imparzial rigore. Ora si videro in Roma i più costanti segni di quel privato interesse ch’è incompatibile collo spirito repubblicano; non perchè gli uomini amino più la patria di sè, ma perchè nelle vere repubbliche amando sè non possono non amare la patria.

Giugurta fu citato in Roma a rendere conto del fatto, vi venne per coprir di vergogna i suoi giudici. Corruppe con danaro il Senato, i consoli, i tribuni, e fu così ignominioso questo mercato che meritossi per fino il disprezzo di Giugurta istesso. Partendo rivolsesi a quella madre dei Valeri Pubblicola, dei Cincinnati, dei Curii, dei Catoni, «Venale città, ei disse, ben presto perirai se ritrovi un compratore».[112] La contagione arrivò a segno che quel re corruppe per fino le armate spedite in Numidia contro di lui, e rimandolle senza che nulla intraprendessero. Era conforme a tanta corruzione il mercato che il tribuno della plebe Suplicio teneva nel foro pubblicamente. Ivi vendevasi la romana cittadinanza, e v’era preparato il banco per contarvi il danaro.[113] Nell’istesso tempo vi fu la famosa guerra sociale delle città italiane per essere ammesse alla cittadinanza romana, il di cui esito fu di esser loro accordata l’anno seicentosessantatre.[114] Il censore Cneio Domizio Enobarbo credeva di rimediare alla ruina della Repubblica con un puerile rigore. Accusò il suo collega L. Crasso per avere messo il lutto, ed alzato un sepolcro ad una murena a lui carissima che gli era morta. Cicerone chiama questo Crasso la meraviglia de’ suoi tempi nella eloquenza. Egli è molto se amava la patria come le sue murene. Roma avea tutt’altri mali che quegli che in lei vedeva il censore. Le abbisognava qualche cosa di più che due censori uno de’ quali mettesse il lutto per piangere la morte di un pesce, e l’altro che ne istituisse con romana gravità la seria accusa.

Mario e Silla si fecero guerra in mezzo a Roma per decidere qual di loro far la dovesse a Mitridate re del Ponto. Venne messo in fuga Mario, fuga chiamata da Cicerone acerbissima perchè errò molto tempo per mare e per terra ovunque insidiato. Intanto che Silla era impiegato nella guerra con Mitridate, venne Mario richiamato a Roma in cui entrò come un devastatore. Si dice che il segno con cui Mario ordinava il macello di chichessia in quella occasione era di non rispondere al saluto: al momento si eseguiva la sentenza. Come conoscere nella folla a chi Mario non rispondesse il saluto? Quanti non sarebbero periti anche de’ suoi partigiani! Progetto impossibile e strano. Mario era un tiranno, ma non uno stolido. Al console Ottavio fu reciso il capo, ed esposto su i rostri. Primo teschio consolare così violato. Mario avrebbe meritato d’esser chiamato il più crudele uomo di quel secolo, se non avesse avuto contempo­raneo Silla, che tanto adoperò le proscrizioni, perfidia la più scellerata che inventasse la tirannide. La casa di Silla divenne un mercato delle vite de’ proscritti. Ivi portavansi i teschi, ivi ricevevano i sicari il prezzo di quelle vite delle quali nulla di più sacro v’era stato un tempo. Mentre che quattro mila prigionieri faceva egli trucidare nel circo, unì il Senato nel tempio di Bellona a lui contiguo. Giunsero a quel consesso i gemiti e le strida de’ moribondi. Qual conto di ciò rese Silla al Senato? «Stiamo attenti agli affari, o padri, ei disse, sono alcuni sediziosi che vengono uccisi per mio ordine.»[115] Il Senato soffrì tal risposta. In questi tempi, in cui dipendeva la fortuna dall’essere più scellerato, era un gran delitto la ricchezza non meno che la virtù. Aurelio, quantunque uomo lontano da’ pubblici affari, vedendo il suo nome in quella fatale tavola de’ proscritti, «Ah, disse, la mia villa Albana è cagion di mia morte!». Per tal via sanguinosa giunse Silla alla dittatura essendo Mario di vecchiezza morto. Uomo d’una ferocia di carattere eguale a quella di Silla, ma della di lui freddezza e riflessione nella atrocità, il che è veramente il suo colmo, Silla sarebbe stato, per avventura, un prodigio di crudeltà se rinunciando alla dittatura non si fosse esposto inerme pubblicamente nel foro dicendosi pronto a rendere ragione di suo governo a chiunque se ne lagnasse.[116] Confidenza che avrebbe occultate le di lui colpe col suo splendore se potesse attri­buirsi a’ sentimenti della propria grandezza, anzi che al conosciuto avvilimento a cui aveva degradata la sua patria. L’assassino di più di centomila cittadini romani finì tranquillamente da privato i suoi giorni nelle delizie d’una villa vicino a Cuma. Un popolo corrotto crede di non poter nulla tosto che un ardito tiranno glielo dice.

Se i talenti militari possono rendere meno odiosi i delitti di Mario e Silla, loro conviene il nome d’uomini grandi. Sembra che li riunissero in sommo grado. Le guerre con Giugurta e co’ Cimbri furono imprese di Mario. Essendosi finalmente saziata la romana venalità fu decretata guerra daddovero a quel re. Aulo Postumio speditovi passò sotto il giogo; Mario riparò la di lui ignominia; condusse Giugurta in trionfo; ridusse la Numidia in poter dei Romani. Poco dopo sconfisse, anzi distrusse nelle pianure de’ Campi Raudi i Cimbri[117] e Teutoni, e Galli transalpini ad essi uniti, il che formò un torrente di barbari. Fu questa la prima volta in cui i Romani combattessero colle germaniche nazioni, e la prima incursione delle settentrionali genti in quell’im­perio.[118] Teutoboco re dei Teutoni fu da Mario condotto in trionfo.

Per Mitridate (inimico di cui dopo Annibale non ebbero il più grande i Romani) non meno vi voleva, che un Silla. Tolse loro quel re le provincie di Oriente.[119] Con lettere segrete e circolari comandò che nello stesso giorno ed ora[120] fossero uccisi tutti gl’italiani ch’erano in Asia. Ottantamila ne furono uccisi con ubbidienza crudelissima, il che prova quanto fossero colà odiati, e quanto potente fosse un re sì esattamente ubbidito. Mario Aquilio nobile romano fra gli altri fu posto su di un asino, per le città d’Asia fu condotto, ed obbligato a proferire in quel vergognoso trionfo il suo nome.[121] Versossigli poi in bocca oro liquefatto per così rimproverargli la romana insaziabile avarizia. Orrendo strazio di un cittadino romano vendicato da Silla a Cheronea, poi ad Orcomeno, con due insigni vittorie su di Archelao generale di Mitridate.

Del resto sì Mario che Silla erano due superstiziosissimi tiranni. Mario era pusil­lanime pe’ cattivi auguri sino alla imbecillità. E Silla, il grande, il sanguinario Silla soleva tenere in tutte le battaglie al collo una immagine di Apollo che aveva portata da Delfo, nè mancò nei perigli maggiori delle battaglie d’indirizzargli ferventi pre­ghiere.

Sertorio proconsole nelle Spagne, uomo che univa una gran dolcezza di carattere al valore militare, celebre per la fortunata impostura della sua cerva bianca[122] sostenne il partito di Mario a fronte di Metello e di Pompeo di cui diceva: «Questo fanciullo avrei mandato colle staffilate a Roma se non vi fosse quella vecchia di Metello».[123] Ben diverso giudizio profferì dell’istesso Pompeo Silla, allorchè, speditolo in Africa a sedar la fazion di Mario che volea rinascere, die’ fine in quaranta giorni a quella guerra. Siila teme’ di avere un sì gran difensore. Lo richiamò tosto in Italia, lo accolse con estreme dimostrazioni di stima, e fu allora che gli die’ il nome di grande[124] e che tanto gl’increbbe che lo meritasse. Sertorio non fu vinto da’ due più gran generali del suo secolo, non diede lor quasi battaglia che non fosse una vittoria per lui. Fu assassinato per congiura. Così ebbe fine quella guerra.

Capo VI. Della costituzione civile di Roma.

Ora, è pregio dell’opera che si rivolga il pensiero sulla romana Repubblica, che si penetri, per quanto si può, nello spirito del suo sistema, e si determini con quali leggi si reggesse un così grande edifizio le di cui rovine istesse saranno dappresso un soggetto importante d’istoria. Altri ha prima di noi cavato con sì sagace filosofia, dal seno di quella gran madre della politica e della menzogna, la storia, l’intima conoscenza di questo governo, che sembra altro non rimanere se non se di profittar delle sue osservazioni, o fors’anco soltanto di ripeterle. Se v’è maniera di sviluppar lo spirito di una costituzion di governo tanti secoli da noi distante, ciò sembra fatto per modo che risorgendo Cicerone, Cesare e qualch’altro gran cittadino romano, benchè non ritrovasse in tai ricerche la verità, vi troverebbe sempre somma industria e filosofia.

Considerando le diverse parti ond’era composto questo governo, ovunque par che s’incontrino mal sicuri e violenti confini della potenza di ogni magistrato. Un Senato che avea la somma podestà, l’erario e l’arbitrio della guerra, e della pace in conseguenza; dieci tribuni della plebe che col famoso lor veto potevan tutto comandare proibendo; due censori che toglievano la cittadinanza a qualunque patrizio o plebeo col degradarlo nelle tribù inferiori, nelle di cui mani era il censo ed una dispotica autorità col pretesto della correzion de’ costumi; aruspici, àuguri e pontefici che al par de’ tribuni avevano il loro veto nel volo degli uccelli e nelle viscere delle vittime, ed in qualunque altro sinistro augurio facilmente ritrovato, e più facilmente creduto, che con tai mezzi dichiaravano inauspicata, e perciò nulla, una legge, una creazion d’un magistrato, e qualsivoglia importante risoluzione; un popolo che unito per tribù poteva tutto, unito per centurie poteva niente, ed avea la rassegnazione di unirsi quasi sempre per centurie, tutte sembrano contrarietà inintelligibili di quel sistema, cioè la somma potenza direttamente od indirettamente collocata in vari ceti. Lo che importò un continuo tumulto, un urto possente e rovinoso fra tante opposte forze, d’onde il fermento degli animi, poi le dissensioni, poi le inimicizie, poi le guerre civili, poi lo sfracello d’ogni cosa.

V’è chi ebbe la fortuna di scoprire in questa selva di magistrature un’ammirabile organizzazione di sistema. Sono un grande argomento in suo svantaggio le continue dissensioni che in breve produssero la rovina della Repubblica. Un ben costrutto governo non sembra potere dar luogo a dissidi sì grandi. È vero che, per intrinseca lor natura, i liberi stati non giaciono in quella tranquillità in cui dormono i regni dispotici. Non vi può esser questo letargo dov’è libertà. Richiede un continuo moto per riparare ad ogni istante il sempre ruinoso di lei edifizio, e vigilanza continua per tenere a livello ogni magistrato. Poichè ogni uomo vuol sempre alzarsi se non ritrova ostacoli, ed il porre ostacoli alle molte insidie degl’interessi particolari è l’opera d’una non interrotta vigilanza di governo, là dove in quelle genti che il dispotismo ha istupidite nessuno si muove dal suo posto, e se n’ha desiderio lo nasconde, che troppo è pericoloso esser libero fra gli schiavi. Ma non perciò mi indurrò io a credere che fosse salutare in Roma questo contrasto di potenza con potenza. Non era una agita­zione che impedisse l’ammasso della sovranità in un ceto, non era quell’ondeggia­mento che preserva le acque dalla corruzione, ella era una furiosa tempesta in cui tutta naufragò la Repubblica. Non potè resistere più di quattro secoli agl’intestini dissidi, che rodevano. Il qual breve di lei periodo rende sempre più sospetta la forza de’ suoi princìpi. Sparta durò più di sette secoli cogl’istessi costumi, e senz’alcuna munizione di leggi.[125] Roma cangiò continuamente di leggi, di costumi, e di princìpi. Fu brevissimo il tempo del suo vigore, corta la sua durata.

V’è chi ha attribuita a questa Repubblica la più fina politica e la più sagace previsione nella formazion del suo sistema. Ella è per taluno organizzata dagli stessi dei. Vi prendono per mano il lettore, ve lo conducono in Senato, nella casa de’ tribuni, ne’ comizi per ammirare ogni cosa. Ma nascono gli stati come le lingue. I governi si formano giusta i bisogni che successivamente offre la imprevedibil serie delle vicende, così come le voci sono dettate dalla necessità senza disegno, o previdenza. Viene in appresso compilata la grammatica, si discoprono nella lingua delle connessioni, de’ punti generali di veduta, i quali dan luogo a regole e precetti. Dirassi perciò che tali precetti furono anteriori alla grammatica? Ritrova il sagace politico industriose combi­nazioni di fatti, ne arrischia delle universali conseguenze, attribuisce la propria filo­sofia, la tranquilla previdenza, la meditazione della sua solitudine alle nazioni, bastevolmente coraggioso per isviscerar l’intimo spirito di esse in poche dal tempo e dalle passioni degradate memorie. Ma quando la plebe ed i patrizi facevansi guerra in Roma colle meno eroiche passioni, quando il Senato si teneva per sè le terre conquistate col sangue della nazione e le sottraeva con frode, quantunque destinate al pubblico, lasciando il volgo, cioè i conquistatori, nelle catene oppresso da’ creditori; quando i consoli spediti alle guerre eran gelosi ben più della lor gloria che di quella della patria, a segno di far paci anche svantaggiose e di arrischiare battaglie imprudenti per inde­bolire a bella posta le armate acciocchè al successore non fosse riserbata la gloria;[126] quando si mendicavano col danaro i suffragi di quel popolo di eroi, e che ciascuno, come in tutti i viziosi governi avvenir suole, trovava l’utile proprio nel violare le leggi, e dividevansi i desideri su mille diversissimi oggetti privati, crederemo noi che dallo sfregamento fortuito di tanti interessi particolari ne sorgesse un ammirabile sistema figlio più della sapienza che del caso? Polibio[127] pensava che la repubblica di Sparta era stata instituita da Licurgo con princìpi costanti, e perciò esser ella susistita quanto mai altra non susistè, ma i Romani non esser stati guidati nel formar la loro da verun progetto, bensì dalle guerre e dai tumulti continuamente spinti e respinti, aver di mano in mano presi i partiti più utili, ed imparato a governarsi dalle proprie vicende.

Non è nuovo l’indagare quai fossero i princìpi con cui si governasse questa nazione. Non v’è argumento sul quale siasi più scritto. Ma il non bene distinguere le differenti età di questa Repubblica ha prodotti vari anacronismi. Ella in meno di quattro secoli passò per tutti que’ gradi intermedi che stanno fra il dispotismo e l’anarchia, cioè fra l’abuso del potere e l’uso della libertà, due estremi che si toccano. Le rivoluzioni, al traverso delle quali dall’uno all’altro stato rotolò questa nazione, presentano ad ogni tratto nuova forma di governo. Roma è una dispotica monarchia sotto ai re, poi oligarchia sotto i consoli, poi in aristocrazia si converge, poi alla democrazia, poi all’anarchia, poi al dispotismo inclinò, ed ivi si ruppe.

Se le memorie che ci avvanzano de’ tempi della monarchia possono esser sicuri fondamenti su’ quali instituire qualche raziocinio, egli è manifesto che il governo era dispotico. I sacrifici e le cose tutte di religione appartenevano al re, egli conosceva i delitti, egli comandava la guerra e la pace, conduceva le armate. Il Senato non poteva mischiarsi degli affari se il re non glieli proponeva. Il popolo poteva creare i magistrati, decidere della guerra e della pace, dare i suoi suffragi sulle leggi, ma soltanto se il re glielo permetteva.[128] La barbarie ed i fatti atroci che formano la storia di questa monarchia escludono ogni idea di moderato governo.

Non si creda che sia libero un popolo perchè ha dei comizi. Erano liberi i Franchi a’ tempi di Carlo Magno, perchè avevano le diete di maggio? Eran liberi gl’italiani perchè gl’imperatori tenevano le diete in Roncaglia? Quasi tutte le antiche nazioni si riunivano in comizi ne’ campi aperti, vi si trattava delle leggi e degli affari, ed erano sotto al governo dispotico dei re. I Romani istessi ebbero i comizi fino ai tempi di Tiberio. Non è l’unione di un popolo, non sono i suoi suffragi che lo faccian libero, ma la forma di queste unioni, e l’oggetto su cui cadono i suffragi. Che sono stati per lo più i comizi de’ Romani, quel segno che si pretende il più sicuro per la libertà? Primieramente la sola apparenza della democrazia per lo sistema stabilito da Servio Tullio, e poi tumultuose unioni di venali suffragi nelle quali i patrizi si facevano mille partiti colle clientele.

Lasciamo i tempi oscuri della monarchia, e portiamoci alla instituzione della Repubblica.

Scacciati i re, si crearono due consoli. In loro fu trasfusa la potestà regia. Ciò è constantissimo. La differenza consisteva nel numero e nel tempo. Erano i consoli due re annui. Ma la differenza era grandissima. Eglino aveano il comando delle armate, giurisdizione su tutti i magistrati fuorchè i tribuni, presedevano al Senato. Non perciò l’autorità loro era la prima della Repubblica. Essi erano parti inabili del governo, l’autorità delle quali, quantunque grande, perchè breve, perchè divisa, era in effetto tenue. I corpi eterni della Repubblica erano il Senato ed il popolo, e da essi deve desumersi la costante natura della costituzione.

Quando si crearono i consoli egli è certo che si stabilì una Repubblica di ottimati. Livio e Dionigi sono d’accordo in ciò. La libertà del popolo era un nome molto equivoco. Non bisogna misurarla dalle leggi che fece in di lui favore uno de’ primi consoli, Valerio. Egli aveva stabilito che si potesse appellare al popolo da qualunque magistrato, il quale avesse condannato a morte, a verga, a multa un cittadino.[129] Questa legge faceva il popolo giudice supremo in grado di appellazione de’ criminali giudizi, e stabiliva la libertà personale. La ritrovo rinnovata l’anno trecentosei, e poi l’anno quattrocentocinquantadue: «Causam renovandae saepius, haud aliam fuisse reor, quam quod plus paucorum opes, quam libertas plebis poterat», dice Livio.[130] Non fu adunque costantemente staccata dalle magistrature patrizie la punitiva facoltà per più di quattro secoli e mezzo; facoltà che davano al popolo le leggi delle dodici Tavole pubblicate anteriormente l’anno trecentotre: «de capite civis nisi per maximum comitiatum ne ferunto», e per caput intendevano i Romani la vita, la libertà, la cittadinanza, il diritto di famiglia e l’onore. Era adunque trasgredita anche questa legge fondamen­tale. Non hanno bisogno di tante conferme le leggi osservate.

Sono una gran prova dell’autorità de’ patrizi le loro opinioni. Essi risguardavano come una contaminazione del lor sangue, de’ loro auspici, ed una orribile diffamazione delle loro famiglie il mischiarsi in matrimonio co’ plebei. E se non se dopo infinite dispute questi ottennero l’anno trecentodieci d’avere i coniugi comuni co’ patrizi.[131]

Qual distanza vi fosse tra questi due ceti si può ancora comprendere dalle leggi della clientela, specie di servile tutela colla quale i patrizi proteggevano la plebe. Romolo avea instituito questo sistema. Ogni plebeo bisognava che scegliesse un patri­zio, altrimenti, destituito di protezione, sarebbe stato abbandonato alla superchieria di ognuno. I patrizi erano come padri d’una gran turba di plebei; essi dirigevano i lor clienti come pupilli; giudicavano le loro cause, amministravano il loro patrimonio. Doveano i clienti, in ricompensa di questa protezione, concorrere a dotare le figlie del patrizio, e redimere, alla prigionia de’ nemici, tanto lui quanto tutti que’ di sua famiglia. Se perdeva qualche lite in giudizio, toccava ai clienti il pagarne le spese, come anche le multe pecuniarie alle quali venisse condannato, dovean imprestargli danaro senza interesse, e concorrere nelle spese delle sue magistrature.[132] E queste clientele a lungo sussisterono.

Ebbe di poi nella grandezza della Repubblica un più importante oggetto la clien­tela. Non più i cittadini erano protetti da cittadini, e non dalle leggi; ma le nazioni istesse ebbero onore e fortuna di esser clienti delle più illustri romane famiglie. Così i Siciliani si posero sotto la clientela de’ Marcelli, gli Allobrogi de’ Fabi, Cipro e la Capadocia de’ Catoni, i Bolognesi degli Antoni.

Il primo gran colpo che diede la plebe all’aristocrazia fu l’ottenere il tribunato in occasione ch’ella ritirossi per la prima volta nel Monte Sacro. Con questo terribile scudo non solo si difese dalla prepotenza, ma divenne prepotente. Fu dopo questa instituzione che tolse il governo a poco a poco dalle mani de’ patrizi.

Chi osservi la podestà di questa magistratura avrà meraviglia di come la plebe non ingoiasse tosto la somma del governo. Egli era assurdo un tribunale che poteva sospendere col veto tutte le determinazioni de’ consoli e del Senato. Chi può tutto proibire, può tutto comandare. In breve dovea ridursi la Repubblica in anarchia, e costringer i patrizi a non proporre che quanto fosse conforme agl’interessi od ai capricci de’ tribuni. Ma varie ragioni rendettero questo tribunale molto più limitato di quello che sembrava.

Mal intesero i plebei i loro vantaggi quando cercarono che si accrescesse il numero de’ tribuni sino a dieci. Era stabilito che ciascun di loro potesse impedir le risoluzioni di tutti gli altri.[133] Quest’era un mostruoso sistema, ma parve necessario al popolo, il quale temette d’avere sì potenti difensori. Sminuì l’autorità loro, con l’accrescerne il numero. Vi furono dei patrizi così poco avveduti, che voleano non concedere al popolo questa domanda. I più la riconobbero come la maggiore diminuzione che si potesse fare della tribuna potestà, e questo parere vinse.

Un tal sistema produsse che i patrizi non meno dei plebei avessero il loro tribuno. V’era sempre qualcuno di essi guadagnato dal Senato, il quale impediva col suo veto particolare quelle risoluzioni del collegio de’ tribuni le quali nuocessero all’autorità de’ patrizi.

Sembra che forse sarebbe stato più conforme ai vantaggi del Senato lo stabilire leggi determinate in difesa del popolo, che il concedergli un così dispotico tribunale. La di lui instituzione era di proteggere la plebe contro i consoli,[134] e non si determinò che dovesse intendersi per proteggere. Ma i patrizi intesero mirabilmente i loro interessi astenendosi dall’entrare su di ciò in leggi particolari. In tal guisa non si definì il gran punto cosa dir si dovesse oppressione della plebe, e vi fu sempre luogo ad interpretazioni favorevoli a’ patrizi. La tribunizia potestà si fondò con vaghe ed indeterminate leggi. Non si fissò alcun sistema. I patrizi allorchè la plebe si chiamava oppressa citavano i lor privilegi e la instituzione della Repubblica; e poichè l’abbiezion della plebe era fondata sull’antico sistema di governo, i patrizi facevano vedere che le doglianze di lei provenivano da spirito di ribellione, perchè tendevano a sovertirlo. Queste massime e questa condotta la osserviamo in tutte le civili dissensioni fra l’uno e l’altro ceto. Non si sbaglierà di molto attribuendo queste finezze al Senato e ai patrizi. Eglino ragionavano, il popolo tumultuava.

Non si sceglievano i tribuni, in principio, dalla plebe, ma da’ patrizi. Ciò è manifesto, perchè non si creavano ne’ comizi tributi,[135] ma ne’ centuriati. La prima volta che si scegliessero per tribù fu l’anno trecentottantatre: «Haud parva res» dice Livio «sub titulo prima specie minime atroci, sed quae patriciis omnem potestatem per clientium suffragia creandi quos vellent tribunos, auferret».

Dopo tutto ciò non sarà difficile il comprendere perchè un tribunale in apparenza così terribile cotanto tardasse a produrre effetti proporzionali alla sua potenza. Senza questi indiretti ostacoli era incontrastabilmente il maggiore della Repubblica.

Fu un gran vantaggio, che prese la plebe, la condanna all’esilio di Coriolano. Era questi un terribile patrizio che volea ad ogni costo abolire il tribunato. Vari furono in tale occasione i vantaggi del popolo. Prima di tai tempi, qualunque volta si univano i comizi, gli affari non vi si proponevano che non vi fossero definiti dal Senato[136] con un suo senatoconsulto. Il console Mumio diceva in queste controversie a’ tribuni: «Voi ben potete essermi testimoni che fin da quando i nostri maggiori fondarono questo governo, non mai la plebe giudicò d’alcuna cosa, senza senato consulto, e niente co’ suoi soli suffragi».[137] Solevansi di più sempre convocare i comizi per centurie. Ora i tribuni li convocarono per tribù la prima volta. I patrizi se ne dolsero altamente, e dicevano sovvertito tutto il sistema della Repubblica. In oltre, non mai prima un patrizio era stato giudicato dal popolo. Fu questa una novità sorprendente. «D’allora in poi, dice Dionigi,[138] la podestà tribunizia ebbe un grande aumento».

Quanto perderono i patrizi nella condanna di un loro collega, altrettanto guadagnarono in quella di Manlio. Coriolano pretendeva che il Senato mancasse di fede alla plebe, col toglierle i tribuni che gli aveva appena concessi; Manlio volea mutar la forma di governo, e di un aristocratico instituirne un popolare. V’è gran differenza fra questi due progetti. L’uno tendeva ad ingrandire i patrizi, l’altro a distruggerli. Era più importante per essi l’impedire quel di Manlio, che l’aiutare quel di Coriolano.

Non v’è esempio che provi meglio quanto fosse aparente la libertà ne’ comizi, come questo giudizio. Un passionatissimo partigiano del popolo, rispettabile per tre consolati e due trionfi, fu dal popolo condannato ad essere rovesciato dalla rupe Tarpea. Questo sembra un paradosso se non si consideri che a differenza de’ comizi uniti per giudicar Coriolano, ora si riunirono per centurie.[139] Bisognava accusar Manlio avanti di un popolo che lo amava come un suo protettore, e l’accusa dunque non poteva essere di favorire il popolo. Venne in campo l’accusa di tirannia; fu incolpato di aspirare al regno col pretesto di proteggere la libertà della plebe. Livio attesta che in nessun antico documento egli ha ritrovata la menoma prova di tale imputazione. Notisi che il giudizio di ribellione: perduellionis, si fece sempre ne’ comizi centuriati. Ciò è importante. Con quest’accusa toglievasi di mezzo qualunque tentasse di smi­nuire la podestà de’ patrizi. Egli era un ribelle che sconvolgeva lo Stato; e si facevan temere alla plebe i suoi stessi difensori.

I comizi uniti per giudicar Manlio dovettersi trasportare fuori di Roma, perchè la plebe non vedesse il Campo Marzio dal Campidoglio, difeso da quel cittadino istesso che di colà dovea rovesciarsi. Il popolo fremea ne’ comizi, e sempre si dolse della condanna di un suo gran benefattore, ma fu Manlio gettato dalla rupe.

Un vizio di costituzione in Roma fu il continuo gareggio fra i patrizi ed i plebei. La gelosia vicendevole conserva gli stati, l’emulazione li distrugge, ed in Roma era emulazione. I plebei non cercavano di conservar il sistema; non si opponevano ai progressi de’ patrizi, ma volevano cangiar un sistema che loro era troppo svantaggioso. Le continue dissensioni non nacquero dalla libertà, ma dalla servitù. Essi erano gli sforzi di una misera plebe contro di patrizi inesorabili. Quando le cose erano all’estremo, che i plebei ricusavano di andar alla guerra, erano costretti i patrizi a conceder loro degli assurdi privilegi. Da qui ne venne che troviamo in questa costituzione delle contraddizioni, per esser ella composta di varie parti come per successiva accessione, non come formanti un tutto. S’incavallavano per così dire le magistrature in Roma, e le une alle altre opponevansi, dice Dionigi.[140] Il consolato e la tribunizia podestà erano in continua contraddizione. Se i consoli convocavano i comizi, e nascesse dissensione negli affari propositivi, gli tribuni col veto discioglievanli; ed al contrario i consoli avendo il diritto di esigger i suffragi dal popolo, s’opponevano alla intercession[141] de’ tribuni. Così ciascuna delle parti avea un contraddittorio diritto. Il tribuno mandava il suo apparitore per imprigionare il console, questo mandava il suo littore a far lo stesso col tribuno. Si azzuffavano plebei e patrizi, ognun di loro circondando il proprio magistrato, si ferivano, volavano dei sassi, e la discordia, dice ancor Dionigi, era poco dissimile dalla guerra civile. Allora bisognava ridursi al dispotismo de’ decemviri, del dittatore, de’ tribuni militari, degli interrè, il solo scampo per ridurre la rovina dello Stato, il suo discioglimento nella anarchia. Un governo, che tante volte ebbe d’uopo del dispotismo per susistere, avea, a dir vero, grandi mali e rimedi pericolosi.

Il sistema, stabilito fino dalla fondazione della Repubblica, era che tutto dipen­desse dal Senato, fuorchè la creazione de’ magistrati, la promulgazione di leggi, il diritto di guerra e pace, le quali tre esse appartenevano al popolo.[142] Questo è ciò che ripetono tutti gli scrittori del governo di Roma.

Quanto al diritto di guerra e di pace, i fatti ci provano il contrario. Per lungo tempo non troviamo ch’egli fosse presso al popolo.

Il console Cassio fu incaricato dal Senato di far la pace coi Volsci e cogli Ernici a quelle condizioni che gli fossero piaciute, senza che il popolo vi avesse parte alcuna. Così fece, e trionfò.

Il console Emilio fu delegato dal Senato a far la pace co’ Veienzi, nè trovo che il popolo guardasse quest’atto come contrario alla instituzion del governo.[143]

In appresso il Senato intimò di propria autorità la guerra agli Equi.[144]

Il console Fabio fece la pace cogli Equi istessi colla sola approvazione del Se­nato.[145]

Come mai i tribuni, che si opponevano capricciosamente a tante altre risoluzioni del Senato, tacquero in tutte queste congiunture? Avrebbero taciuto se fossero stati offesi i più importanti diritti del popolo? Questi replicati fatti provano che se il popolo poteva dare i suoi suffragi sulla guerra e sulla pace, ciò dipendeva dal Senato, il quale poteva proporgliele arbitrariamente, o non proporgliele. Tutt’al più susisteva in questi tempi lo sistema stabilito dai re, d’interessare il popolo in tali materie quando il volessero. Che se troviamo in appresso portata al popolo la decisione di qualche guerra importante, troviamo adoperata la solita industria di convocarlo per centurie. Così fecesi in occasione della guerra macedonica contro del re Filippo.[146] Ed è tanto vero che il sistema era di non proporre guerra o pace alla decision del popolo, se il Senato non lo vedesse, che verso la fine del sesto secolo il pretore Giovencio Thalna fu risguardato come un cattivo cittadino, per avere da se solo proposta al popolo la guerra contro de’ Rodi, onde dice Livio:[147] «Sed praetor novo maloque exemplo rem ingressus erat, quod ante non consulto senatu de sua unius sententia rogationem ferret… antea semper prius senatus consultus esset, deinde ad populum latum». Ecco la prima volta che il popolo trattasse di guerra, senza che il Senato gliela proponesse; il quale avvegnachè senza comizi di sorte alcuna facesse guerra e pace, come s’è osservato; così sembra che molto meno fosse obbligato a proporre l’una o l’altra al popolo prima di prender qualche determinazione. E questo sistema, per la prima volta violato, sino verso la fine del sesto secolo, come non poteva esser costante e fondamentale in una Repubblica in cui la plebe era costretta ad andare alla guerra, e vi era sforzata con indicibili durezze dai consoli, e che il Senato si impegnava, di lei malgrado, in continue spedizioni militari per distrarlo dalle sue pretensioni, lo che fu il soggetto di tanti tumulti e discordie che formano la storia di questa nazione?[148] Altro non ci rappresen­tano gli Annali di Roma che una misera plebe cacciata ora a forza ora ad arte contro sua voglia. Quando, per esempio, cercava la plebe un privilegio così importante, com’era quello di essere ammessa al consolato, per troncare questa pretensione i consoli ordinarono la guerra contro de’ Volsci e de’ Veienti.[149] Di tai fatti è piena la storia romana.

Quanto alla pubblicazione delle leggi, o alla abrogazion loro, ciò in somma che costituisce la facoltà legislativa, ella era presso al popolo in apparenza soltanto, perchè le leggi si proponevano ne’ comizi centuriati, e per fino il codice istesso, le leggi delle XII Tavole, fu pubblicato in que’ comizi.[150] Le leggi promulgate ne’ comizi tributi i patrizi non le ammettevano come leggi che li obbligassero, ma per contrario la plebe era costretta ad osservar quelle stabilite ne’ centuriati. Lo che riduceva la magistratura ne’ patrizi. Non fu che sotto la dittatura di Q. Ortensio, quando la plebe ritirossi nel monte Giannicolo, che si stabilì: ut quod tributim plebs iussisset, populum teneret. Cotal legge era stata decretata sino l’anno trecentosei al tempo de’ primi consoli, immediatamente dopo la tirannia de’ decemviri, e s’era stabilita pena di morte e di confisca contro chi la violasse.[151] La ritrovo rinnovata anche nell’anno quattrocentosedici dal dittatore G. Papirio.[152] Lo che prova la sua inosservanza malgrado una così severa pena.

Tutte le leggi favorevoli al popolo soffrivano queste vicende d’esser violate da’ patrizi. Eglino ridotti alle estremità le concedevano al popolo, e poi altro non cercavano che di abolirle. Così appena concessi i tribuni della plebe si vollero torre; così poichè fu concesso il consolato anche a’ plebei, furono più d’una volta tutte due i consoli patrizi, malgrado le querele de’ tribuni; così ancora quantunque Servio Tullio avesse stabilito con legge che non s’imprigionasse per debiti un cittadino romano, ma che l’azione non cadesse che su’ beni,[153] troviamo tante volte la plebe incatenata ne’ comizi, e sepolta nelle prigioni per gli debiti, lo che fu una delle cagioni di tante discordie per più secoli, e così per fine si osservava la chiara legge delle XII Tavole, la quale disponeva che soltanto ne’ comizi si potesse decretare personal procedura contro di un cittadino romano. Non v’è accusa che più sovente facessero i tribuni ai patrizi quanto quella di mancanza di fede. E come non dovevano violarla, patrizi resi potenti dal sistema nazionale, in faccia di una plebe oppressa dai debiti, e costretta a fuggir più volte dalla patria. Ve ne può esser di meno libera?

La legge del dittatore Ortensio fa epoca nei vantaggi che ottenne il popolo quanto alla facoltà legislativa. Con essa fu tolta al Senato la podestà di annullare i plebisciti. Prima di lei il Senato poteva negar la sua approvazione ai plebisciti, e così annullarli, ed ora limitossi la sua autorità alla semplice prerogativa di proporgli al popolo, da’ suffragi del quale dipendeva l’esito della proposta legge. Onde in appresso il Senato proponeva le leggi in incertum comitiorum eventum.[154] Tale fu l’importanza di questa mutazion di sistema, che disse Livio: «Plus eo anno domi acceptum cladis a dictatore, quam ex eius victoria, bellicisque rebus foris auctum imperium patres credebant».

Quanto alla terza facoltà che apparteneva al popolo della elezion de’ magistrati, essa non mutò punto per lungo tempo il sistema aristocratico, perchè si eleggerono ne’ comizi centuriati. La unione del popolo per centurie era la ordinariamente usata, essa sola si credeva la legittima, essa chiamavasi nelle XII Tavole maximum comitiatum. Per fino i primi consoli furono eletti in tai comizi, benchè fosse un tempo in cui il popolo era gelosissimo della libertà a segno di far abbassare al console Valerio la sua casa per esser un poco più alta delle altre.[155] «Comitia curiata quibus consules tribunosque militans creatis», diceva Camillo al popolo.[156] Se tutte le maggiori dignità non si fossero scelte ne’ comizi centuriati, ma ne’ tributi, non vi sarebbero state tante discordie, per essere ammessi alle cariche ancora i plebei. Eglino stessi ne’ tributi comizi si sarebbero fatti consoli. Onde tampoco questa facoltà, ch’era in apparenza presso al popolo, cangiava il sistema di avere i soli patrizi le magistrature, e di sceglierle essi soli.

La vista di ciò giudichisi con qual cautela debba prendersi quanto si dice comunemente della libertà popolare. Ma se in alcuni fatti troviamo non sussistere quella libertà che si attribuisce al popolo, troviamo in altri tampoco sussistere alcuni privilegi che si attribuiscono al solo senato.

Così il trionfo, il quale si dice che soltanto veniva concesso dal Senato, lo vediamo concesso più volte dal popolo. Il console Servilio trionfò de’ Volsci contro il volere del Senato.[157]

Lo stesso fecero i consoli Valerio ed Orazio. Il Senato lor negava il trionfo avendo sconfitti i Sabini; il popolo ne’ comizi glielo concesse.[158]

Il primo dittator plebeo C. Marcio trionfò degli Etrusci senza il consenso del Senato, per comando del popolo.[159]

L’istesso fece il console Postumio trionfando de’ medesimi.[160]

Questi erano gli effetti delle civili discordie. Intanto che il popolo per l’una parte era offeso nella sua libertà malgrado le leggi, usurpava dall’altra la giurisdizione de’ patrizi. Ma non tanto guadagnava concedendo qualche trionfo, quanto perdeva coll’essere escluso dalle magistrature, obbligato alle guerre, imprigionato per li debiti, e tolto di mezzo or con leggi, or con industria, or con violenza dalla somma del governo. Anche questi fatti provano la incertezza de’ confini delle podestà in quella Repubblica, anzi la manifesta contraddizione fra queste podestà. Non bisogna giudicare del si­stema di una nazione dalle sue leggi, ma dalla loro esecuzione. Ella è forse questa la sorgente dell’errore in cui caddero molti scrittori della romana Repubblica. Eran, per avventura, più le leggi violate, che le osservate, e chi sulle leggi fabbricasse un sistema lo troverebbe in ogni momento in contraddizione colla istoria.

L’unica parte ove ritrovo libertà nel popolo era nel sindicato de’ consoli scaduti. Così il console Menenio fu condannato a multa dal popolo;[161] così i tribuni citarono al popolo il console Spurio Servilio come reo di morte per esser stato sconfitto dagli Etrusci.[162] Non eran però, questi giudizi del popolo, fondati su di un determinato sistema, anzi erano in opposizione colla podestà consolare, nella quale essendo stati transfusi i regi diritti, era un’assurdità il soggettarla in tal guisa al popolo. Eran questi gli effetti della intraprendenza de’ tribuni, perchè trovo posteriormente a questi fatti che avendo essi tribuni citati i consoli Romilio e Vetturio a render ragione di lor condotta al popolo, il ricusavano dicendo: «esser tanto lontano che tal diritto competesse a’ tribuni, che non potevano citar tampoco l’ultimo de’ patrizi innanzi alla plebe senza la permissione del Senato».[163] Nè ciò stabilissi per sistema che l’anno seguente in cui si promulgò legge che fosse lecito ad ogni magistrato il condannare a multa chiunque turbasse la pubblica disciplina e la constituzion di governo, con che, osserva Dionigi, si stabilì indirettamente che il popolo potesse giudicare i consoli e qualunque magistrato, la quale facoltà era stata riservata fino allora a’ soli consoli. Crederebbesi migliorata di molto la popolare libertà con queste disposizioni; ma qual pena era imposta contro chi turbasse la pubblica disciplina e la constituzion di governo? La multa di trenta pecore e due buoi,[164] ed era la più grande in tai casi. Questa tenue multa non tanto prova la povertà repubblicana anche de’ patrizi, quanto la loro potenza, e sagacità d’aver imposta sì debol pena ad una legge contraria a’ lor vantaggi. Due buoi e trenta pecore eran la cauzione d’una delle più importanti constituzioni che siensi mai promulgate in Roma. Un patrizio avrebb’egli avuto meno di patrimonio che il valore di dugento pecore e cinquanta buoi? Un delitto che meritava la totale confisca ne avea una così esigua.

Il censo della prima classe sino a’ tempi di Servio Tullio non poteva esser minore di centomila danari,[165] lo che corrisponde, per quanto se ne può sapere in queste materie, a centocinquantasei marchi parigini d’argento ed once due. Chi possedeva tal patrimonio era de’ più poveri della prima classe, nella quale erano quasi tutti i patrizi. La povertà istessa di que’ tempi prova ch’era ricco considerabilmente chi possedeva tal somma. Sembra che i patrizi usassero questa industria tutte le volte che potessero. Così quando per la terza volta si stabilì dal console Marco Valerio la legge d’appellazione al popolo[166] ne’ giudizi criminali, non altra pena si aggiunse a chi ne impedisse la esecuzione se non se: «Si quis adversus ea fecisset nihil ultra quam improbe factum adiecit». Livio crede che questo solo bastasse alla cauzione di una legge in que’ tempi virtuosi; ma osservo che in que’ tempi istessi v’eran pene di morte stabilite per cauzione d’altre leggi meno importanti, come contro di un cliente che offendesse un patrizio, contro di una impudica vestale, i ladri notturni ecc. Anzi, lungi dal ritrovare, fino ne’ princìpi di Roma, pene miti, vi osserviamo una terribile legisla­zione. L’arbitrio di morte lasciato a’ padri su de’ figli ed a’ mariti sulla moglie infedele, o che soltanto avesse bevuto vino, ne fa una prova non equivoca.

I tribuni cercavano di dividere la somma potenza co’ patrizi con isforzi turbolenti ed arditi, ed il Senato di conservarla con ragionata e costante politica. Tutto era spirito di partito nella plebe; tutto era sagace, profonda ed indiretta prudenza ne’ patrizi. Se non potevano imporsi davanti alla intraprendenza de’ tribuni, la deludevano. La religione era così unita al sistema di governo che ne faceva una costituzione sola. Fu anche questa una delle cagioni per le quali il governo degli ottimati susistesse lunghis­simo tempo, malgrado tante civili discordie che sembravano distruggerlo ad ogni istante. Niente facevasi in Roma senza auspici: «Auspiciis hanc urbem esse condita, auspiciis bello ac pace omnia geri, quis est qui ignoret?» diceva al popolo Appio Claudio Crasso;[167] e dopo la famosa impostura dell’augure Accio Nevio dice Livio:[168] «Auguriis certe, sacerdotioque tantus honos accessit, ut nihil belli domique postea nisi auspicato gereretur; concilia populi, exercitus vocati, summa rerum, ubi aves non admisissent, dirimerentur». I patrizi soli aveano in mano una così importante parte del governo e non vi poterono essere ammessi i plebei, se non se passata la metà del secolo quinto.

È celebre il detto di Catone che gli aruspici doveano ridersi in faccia l’un l’altro, quando s’incontravano.[169] Il dichiarare inauspicata ogni soluzione era lo stesso che l’annullarla. Essendo stato creato dittatore Marco Claudio, perch’era plebeo gli auguri decisero che non si erano presi gli auspici legalmente, onde rinunciò alla dittatura.[170]

In seguito, essendo stati creati i consoli tutti due plebei, con loro Marcello dovette rinunziare, perchè tuonò nell’atto ch’ei prendeva possesso della carica: «Vulgoque patres ita fama ferebant, quia tum primum duo plebei consules facti essent, id diis cordi non esse».[171] A Marcello fu sostituito il patrizio Fabio Massimo. Ecco in qual guisa gli aruspici in queste due importanti occasioni esclusero i plebei.

La censura eziandio cospirava ai fini de’ patrizi istessi, quantunque sembrasse destinata per corregerli. Ella era un tribunale che avea molti mezzi per abbassare un patrizio troppo repubblicano. Potevano i censori rimovere dal Senato un senatore, far plebeo un patrizio col degradarlo nelle inferiori classi. Avendo il dittatore Mamerco Emilio rinunziata la dittatura prima del tempo, e fatta legge la quale riduceva la censura a dieciotto mesi da cinque anni ch’essa durava in prima, i patrizi, malcontenti di questa diminuzione di lor podestà, lo fecero rimovere da’ consoli dalla sua tribù, e gli furono inoltre confiscati i suoi beni, senza che si parlasse di confisca o di pena. Ciò avvenne perchè i censori stimavano le di lui facoltà otto volte più di quant’elle valessero, acciocchè dovesse pagare otto volte di più di tributo.[172] Le occulte ed indirette forze agivano più in questo governo, che le palesi. Tutto cospirava alla conservazion dell’aristocrazia.

Tolsero grado a grado i plebei il governo dai patrizi. Prima ottennero il consolato, poi la censura, poi gli auspici, finalmente il pontificato massimo. Così accomunaronsi tutte le dignità fra questi due ceti, fuorichè quella degl’interrè. Non mai la plebe uscì di Roma, senza ritornarvi meno schiava, e questi privilegi ch’essa ottenne di mano in mano furono importanti mutazioni di sistema.

Non si possono seguire gradatamente le successive vicende di questo governo. Fra tante civili tempeste si perde la disquisizione, e molto più la esattezza della disquisizione. Egli è un burrascoso mare le cui onde non si possono descrivere o numerare. Il popolo fra continue oscillazioni arrivò alla somma potenza, poi divenne così licenziosamente libero, che pesogli la sua istessa indipendenza.

Quando fu il popolo al sommo della libertà civile? Questo è un problema, per isciogliere il quale sembra che la storia ce ne somministri i dati. Se essi non bastano per conoscere le successive progressioni, bastano però per fisare le epoche più importanti.

Dopo l’ultima volta che la plebe si ritirò nel monte Giannicolo, ritrovo come fino a’ tempi de’ Gracchi non vi furono in Roma pericolose dissensioni. Vi fu una lunga calma, che non v’era mai stata da prima. Perchè ciò, se non se perchè eran tolte le cagioni delle discordie fra i patrizi ed i plebei, con avere concesso a questi ciò ch’era il soggetto di ribellioni, cioè d’aver parte al governo? La plebe avea già, egualmente che i patrizi, le magistrature tutte, che anzi non solo comuni le ebbe con loro, ma per sè sola ancora. L’anno cinquecentosettantanove furono per la prima volta tutti due i consoli plebei.[173]

Ora appunto son questi que’ tempi, de’ quali, più che d’ogni altro, se ne può avere una esatta nozione. Polibio è il solo autore che parli con precisione ed universalità del governo romano, ed è autore che vivea in tai tempi.[174] Conosciamo adunque che fosse nel maggior suo vigore questa Repubblica, il quale fu nell’intervallo de’ centoquaranta anni che dividono l’ultimo recesso della plebe e la distruzion di Cartagine, l’uno, per mio avviso, epoca della libertà, l’altro del decadimento. Ecco in succinto la contezza che ci dà Polibio.[175]

La romana Repubblica è fatta in guisa che sembra monarchia ne’ consoli, aristo­crazia nel Senato, democrazia nel popolo. Ma chi più dentro vi mira, ritrova che da tutti questi governi ella è composta, i quali si temprano e si uniscono a vicenda.

I consoli hanno il diritto di condur le armate. La loro potenza in tempo di guerra è dispotica. Fanno reclusi, uniscono truppe ausiliarie, hanno la punitiva giurisdizione delle armate.

Il Senato ha l’erario e tutte le rendite della Repubblica in sua mano.

Il popolo ha il diritto de’ giudizi criminali, di legislazione, e di far guerra e pace.

Tale è la giurisdizione che Polibio assegna a queste tre podestà. Egli spiega in seguito come le une dipendano dalle altre.

Il console, quantunque in tempo di guerra sia dispotico, è nella dipendenza del Senato e del popolo. Dal Senato, perchè il vitto, il frumento, le vesti, i stipendi delle armate somministransi da lui avendo l’erario in sua mano. Se il Senato cessa di dar queste sovvenzioni, il console è troncato a mezzo nelle sue imprese. Finito l’anno consolare, il Senato può o prorogare il comando dell’armata al console scaduto, o sostituirgli un altro de’ nuovi. Il trionfo dallo stesso Senato vien concesso. Così i consoli da lui dipendono.

Questi dipendono anche dal popolo, perch’egli può terminar la guerra, approvare o disapprovare i trattati da lor fatti, e finito il comando devono renderne conto al popolo.

Dipende il Senato dal popolo, perchè i tribuni possono proporre leggi che sce­mino la di lui autorità, ed essere dal popolo approvate, il quale ha la podestà legislativa. Inoltre un veto tribunizio sospende ogni senato consulto.

Dipende il popolo dal Senato, perch’egli prende in affitto tutte le pubbliche rendite, e quasi tutto ha parte in simili contratti. Su tali gabelle susiste la maggior parte delle famiglie, e da lor traggono gran lucro. Così dal Senato dipende la fortuna de’ molti.

È finalmente il popolo nella dipendenza de’ consoli, perch’essi sono dispotici in tempo di guerra. Così Polibio conchiude esser unite queste parti, e conservansi con uno salutare sospetto che alcuna di esse non usurpi gli diritti altrui, d’onde ne risulti un ammirabile sistema, in cui ritrovi la robustezza della monarchia, la sapienza della democrazia, la libertà del popolare governo, tutti ivi sommati i vantaggi di queste tre costituzioni e nessuno de’ lor difetti. Io credo che in Roma si ritrovassero misti tutti questi governi, perchè ella era passata per tutti e tre; al tempo dello stato popolare conservava le ruine degli anteriori sistemi.

Dalla notizia però che Polibio ci dà risulta come la preponderante potenza fosse il Senato. Egli, padrone dell’erario, avea il pegno massimo dell’autorità. Il diritto di guerra che aveva il popolo era ben limitato, perch’esso cessava se il Senato non soccorreva le annate. Questo diritto era importante in un sistema militare. In una nazione fatta per le conquiste eran frequenti i casi di esercitarlo. Il Senato avea in mano la fortuna di quasi tutte le famiglie, i comizi si riunivano per censo, i più ricchi vi prevalevano, e questi doveano sempre temere e sperare dal Senato. Tale era la natura del governo romano nella sua più grande libertà popolare, tempo in cui la Repubblica era così ben costituita, che Polibio la risguardava come al sommo della sua potenza, e già ne temea lo decadimento. Egli, portando la previsione ne’ fati di Roma con quella sicurezza ch’è propria de’ grandi uomini i quali, conoscendo le ragioni, determinano gli effetti, profetò ch’essa perirebbe perchè il popolo abusando della libertà sarebbe caduto nella licenza, poi nel dispotismo. E tale fu la sorte di Roma. Niente fa più grand’onore ai lumi di quel gran ministro e gran generale, che questa previdenza, che un tal uomo, avesse occupato i primi posti di Roma, ne avrebbe ritardata la ruina.

Successe un fenomeno politico nel popolo romano, ben raro per mio avviso. Poichè sempre fra gli dissidi e le oppressioni scosse a poco a poco il giogo della servitù, con una costanza che sembrar potrebbe cagionata da un progetto premeditato. In altre nazioni, con urti violenti fu in un lampo, fra il sangue e le stragi, decisa quella gran questione, se doveasi esser libero o servo; ma il popolo di Roma ben tre secoli impiegò in opera sì grande qual è quella di far di un volgo una nazione. Ella è indole del popolo violenza, ribellione, scosse ruinose irresistibili, ma non dirette, ma non ben progettate, muovono e non mutano le cose. Il popolo di Roma, per lo contrario, con arte, politica e fermezza vinse un ceto aristocratico di cittadini pensatori. Sembrerebbe questo un paradosso a chi non pensasse che la plebe oppressa in una aristocrazia non vede il capo del dispotico sul quale debba scagliarsi, e che alla saggia ferocia de’ tribuni, per i quali la libertà dei plebei doveva essere un oggetto di ambizione, non già a se medesima la plebe dovette la sua libertà. Una moltitudine non ragiona.

Prima di questi tempi, che ho fisati come quelli del massimo popolare governo, tu ritrovi la servitù mescolata con qualche sfogo d’impetuosa indipendenza, piuttosto che di libertà, e dopo ritrovi la licenza, l’anarchia, il dispotismo che l’un l’altro si succedono e si confondono.

La distruzione di Cartagine serve d’epoca al decadimento della libertà, anzi al sovvertimento totale del sistema. Essa decise che la nazione era troppo vasta per essere retta popolarmente. È una vacillante democrazia quella nella quale sono eguali i cittadini quanto alle leggi, non quanto alle fortune. Tal’era il sistema di Roma. Le conquiste arricchivano i soli patrizi. Quest’era il punto che la plebe non aveva mai potuto vincere. La legge agraria era stata violata fino dallo stesso legislatore. Caio Licinio Stolo, che ne fu l’autore, venne condannato ad una multa di dieci mille denari per averla delusa.[176] Emancipò un suo figlio per fargli possedere cinquecento iugeri, onde il suo patrimonio veniva ad essere con tal frode di mila iugeri. La legge non ne permetteva che cinquecento.

Dall’una parte v’era un popolo pieno di soli privilegi, dall’altra un ceto di patrizi carichi delle spoglie dell’Asia, dell’Africa, della Grecia e delle Spagne. Come le leggi avrebbero vinto in questo confronto? Roma era fondata per esser conquistatrice, tutto in lei conduceva a questo fine. Le conquiste rendevano sempre più potenti i patrizi. Esse adunque doveano distruggere la libertà.

I bisogni che legavano i patrizi alla plebe cessarono colla destruzione de’ più gran nemici. Roma non fu più la patria, non più il centro dello stato. Se il popolo era sovrano ne’ suoi recinti, i patrizi avean cento Rome nelle provincie. Senza un soldato romano potevano unire un esercito con truppe ausiliarie e venali. Il popolo romano, ch’era in origine tutta la nazione, divenne una piccola parte di una vasta nazione. Perciò quel gran scudo che opponeva ai patrizi, il rifiuto di andar alla guerra, non sarebbe più stato che un ridicolo capriccio da fanciulli. Se la plebe, dopo la distruzion di Cartagine, si fosse ritirata nel Monte Sacro, nessuno l’avrebbe richiamata. Ricadde adunque Roma nel potere de’ patrizi, anzi di pochi patrizi. Dopo la distruzion di Carta­gine dice Sallustio:[177] «Plebs paucorum arbitrio belli domique agitabatur: penes eosdem aerarium provinciae, magistratus, gloriae, triumphique erant: populus militia atque inopia urgebatur, praedas bellicas imperatores cum paucis diripiebant». Allora i Gracchi, che vollero ristabilire il governo democratico, non solo eccitarono una dissensione, ma una guerra civile, nè i patrizi ebbero alcun riguardo per il popolo, ma lo trattarono da tiranni. Tutto è disordine in que’ tempi d’orrore. I tribuni giunsero perfino ad imprigio­nare i consoli. Così P. Scipione Nasicca e Giunio Bruto consoli furono imprigionati per ordine del tribuno Curiazio.[178] Così il console Filippo per ordine del tribuno M. Livio Druso, soltanto perchè l’avesse interrotto mentre che parlava al popolo.[179] Fu strascinato per la gola così violentemente che sortigli il sangue dalle nari, del che se ne rideva il tribuno, dicendo non esser quello sangue, ma «salsa di tordi». Nell’istesso modo il console G. Metello fu messo in carcere dal tribuno Flavio.[180] Questa licenza prova l’anarchia, e non la libertà. I tribuni da difensori del popolo eran divenuti capi di sedizione. La sapienza de’ patrizi fu cangiata in comperare col danaro il favore di un popolo licenzioso. Così i patrizi corrompevano il popolo, e questo i patrizi, a vicenda. In tal guisa questa gran nazione si preparava a soffrire un tiranno, e tosto nacque nel suo grembo.

Capo VII. Di Cesare e Pompeo, e della riforma del calendario.

Se Mario e Silla ottennero tutto colla forza, Pompeo dopo di loro ottenne ogni cosa dalla confidenza del popolo. Era infestato il mare Mediterraneo da’ corsari della Cilicia: Pompeo fu ne’ comizi destinato contro di loro: impresa importantissima per cui la Repubblica consegnava tutte le sue forze ad un privato. Risorse la guerra con Mitridate: fu dato a Pompeo il comando dell’armata. L’Italia era tutta ripiena di sedizioni per la scarsezza de’ grani: a Pompeo fu data la cura di provvedervi. Dopo d’avere, brigando con mille rigiri il favore de’ tribuni e del popolo, ottenuta la somma potenza, esclamava: «Ahi quante guerre! Me fortunato se fossi un uomo del volgo, poichè lungi dall’invidia me ne starei tranquillamente in villa!».[181] I suoi amici liberti non gli perdonarono sì fatta dissimulazione.

Meravigliossi il Senato romano, come Pompeo unisse la potenza alla modera­zione. Di fatti la crudeltà non fu il suo vizio. Ma uopo non è di violenza ove nissun’ostacolo s’incontra. L’allievo di Silla avrebb’egli usata moderazione, se non avesse veduto appianato il cammino del dispotismo? Di lui scriveva Cicerone ad Attico:[182] «Il nostro Pompeo ha una gran voglia di governarci come ha fatto Silla, e non ci nasconde queste sue intenzioni»; il che altrove ci dice in due parole: «Sillatavit animus eius, et proscriptavit».[183] Un uomo che conquistò tutto il paese fra la palude Meotide ed il mar Rosso[184] avrebb’egli sofferte, in una corrotta democrazia, contraddizioni?

Non annovererò Catilina fra gli emuli di Pompeo, la di cui mal pensata, mal condotta e con poco rischio sopita congiura seppe far divenire importante l’industre vanità di Cicerone. Egli avea a segno la voglia d’esser immortale che scrisse a Luceio, il quale stava compilando la storia di quei tempi: «Itaque te plane, etiam, atque etiam rogo, ut et ornes ea (cioè le mie imprese) vehementius etiam quam fortasse sentis, et in eo leges historiae negligas, amorique nostro, plusculum etiam quam concedit veritas, largiaris».[185] Pure altro non fu questa congiura che l’aggregato de’ giovani più sventati di Roma, i quali aveano fatto lo strano progetto di abbruciare la patria per arricchirsi. Collo stesso spirito di rapina il console Crasso portò la guerra contro de’ Parti: pensò egli di far la sua fortuna, ma finì coll’essere ucciso, e la sua destra e ’l suo teschio portati ad Orode, re de’ Parti, servirono di ludibrio ai vincitori.

Ma già Cesare, sconfitti gli Elvezi e vari popoli della Germania che tentavano di fare irruzione nelle Gallie, e le Gallie per fine conquistate,[186] pretendeva qualche cosa di più che d’esser privato cittadino in un governo in cui, chi tiranno non era, sarebbe stato schiavo d’un tiranno. Si disse di lui che, dopo aver conquistate le Gallie col ferro romano, soggiogò Roma coll’oro de’ Galli.

Stando nelle Gallie disse molte volte al Senato che se Pompeo lasciava l’esercito anch’egli l’avrebbe lasciato; al che fu sempre risposto che pria l’abbandonasse egli, e poi si sarebbe patteggiato. Questa era la risposta di Pompeo, non del Senato, l’interesse del quale era che sì l’uno che l’altro abbandonasse l’esercito. Passò Cesare il Rubicone, confine di sua provincia; Pompeo fuggì, non che da Roma dall’Italia tutta, ed in un canto della Grecia si ricovrò. Se fu acerbissima la fuga di Mario, questa fu vergognosissima, poichè non altro lo vinse che il timore. L’entrata di Cesare nella patria fu degna di lui, tanto più ammirata quanto che ognuno s’aspettava che si rinnovassero gli orrori di Mario e di Silla. Non conquistò l’Italia, ma tutte le città gli si diedero a gara, nè si sparse una goccia di sangue per sì grande impresa: Ritornò quindi nelle Spagne, e le fe’ sue: poi volò a Farsaglia ove diede l’ultima sconfitta a Pompeo; il quale fuggì ancora sino in Egitto dal re Tolomeo ove fu ucciso. Andò di poi Cesare in Egitto, ove ritrovò quel re e Cleopatra sua sorella disputanti fra loro il regno. Erano in lui possenti i diritti della bellezza; perciò ebbe Cleopatra quel trono. Quindi si tolse dal seno degli amori per isconfiggere Farnace re del Bosforo Cimeriano; sconfitta sì veloce che gli fe’ dire quel motto «venni, vidi, vinsi».

La maniera con cui usò della vittoria è conforme al suo carattere. Ognuno sa come risguardasse con sentimento di compassione il teschio di Pompeo. Svanirà il sospetto ch’ei non fosse sincero in quella occasione, se si consideri come inducesse Tolomeo a dare la libertà a tutti gli amici di Pompeo ch’erano stati imprigonati da esso re. Non mentiva certo, perchè non avea interesse di farlo, quando scriveva a’ suoi amici di Roma che il principal bene che gli avea prodotto la vittoria era di salvare ogni giorno la vita a qualche cittadino romano che avesse prese le armi contro di lui.[187]

Catone, in Utica racchiuso, animò in vano l’avvilito partito di Pompeo, che non so per qual ragione si chiamasse quello della Repubblica. Sdegnò di sopravvivere alla libertà. Si ritrovano nella storia romana schiavi che si uccisero per fedeltà a’ loro padroni. I loro nomi sono oscuri. Catone è ascritto fra gli eroi. Forse i colori co’ quali dipingono nelle storie la sua morte e le circostanze in cui seguì la resero famosa. Non vi manca per fino in questa tragedia la sua arringa ben lunga registrata a parola a parola, che fece Catone prima di ferirsi, com’è costume. Ciò che qualche nazione moderna fa per noia di vita facevano i Romani per noia di schiavitù. Quanto costassero queste guerre civili al genere umano si scorge dal leggere, come dal censo fatto in Roma l’anno seicentottantadue erano i cittadini romani atti a portar l’armi quattrocentocinquantamila e per un altro censo fatto da Cesare nel settecentosette erano soltanto centocinquantamila,[188] per modo che in anni venticinque due terzi degli abita­tori di Roma perirono.

Nissun uomo più di Cesare stendeva la sua ambizione su tutti gli oggetti. Egli cercava tutte le vie di giugnere alla immortalità. Quella stessa ambizione che lo fe’ sospirare nelle Spagne alla vista della statua d’Alessandro, pensando ch’esso alla sua età era già conquistatore,[189] fu quella che gli fe’ scrivere i comentari de’ quali nulla ebbe di più caro, e spinse l’umano orgoglio sino ad alzarsi templi, ed avere culto e sacerdoti ancor vivente. Qual disprezzo non doveva avere degli uomini, colui che dopo avergli soggiogati gli vedea sedersi tranquillamente a ventiduemila tavole magnificamente imbandite? Così ei fece al popolo romano, già schiavo a segno di esser lieto nella servitù.

Ebbe un più nobile oggetto questa sua voglia di distinguersi nella riforma del calendario. Era grandemente disordinato a’ suoi tempi, per la venalità de’ pontefici che Numa avea preposti alla sua direzione. Guadagnati così ora da’ magistrati ch’erano in carica per prorogare l’anno, ora da’ candidati per accorciarlo, e così appros­simare il giorno della elezione, avevano talmente confuso il calendario, che l’equinozio civile si allontanava dall’astronomico quasi tre mesi. Giulio Cesare, coll’opera di Sosigene, stabilì l’anno di 365 giorni ed un quarto, e per compensare questo quarto stabilì l’anno bisestile di giorni 366 ogni quattro anni. Questo nuovo regolamento fu chiamato l’anno Giuliano. Egli ebbe il difetto di essere maggiore di undici minuti dell’anno solare; questa differenza ogni 131 anni fa lo sbaglio d’un giorno. Dal che venne la correzione che dopo molti secoli vi si dovette fare. Il primo anno giuliano fu l’anno 45 avanti la nascita di Gesù Cristo, e l’anno 708 della fondazione di Roma. Ebbe Cesare nello stesso anno la celebre battaglia di Munda nelle Spagne, ove scon­fisse i figli di Pompeo, Cneo e Sestio. Quale differenza di gloria, fra l’inzuppare di sangue umano le Spagne, e ’l regolare la misura de’ tempi?

Da Sulpizio Gallo sino a Cesare non vi fu un astronomo nella capitale d’Europa. Cesare fu molto superiore al suo secolo in questa scienza: Plinio trascrive de’ squarci delle sue opere,[190] e Tolomeo lo cita nel trattato delle apparenze fisse, annoverandolo fra gli osservatori de’ quali ha molto profittato.

Perì Cesare per aver ignorata la dissimulazione. Ei non sapeva tacere che «non v’era più Repubblica», nome ancora amato benchè vano. Silla, dopo avere riempiuta di stragi l’Italia, morì tranquillo; Cesare, che fu tanto avaro del sangue romano, fu massacrato avanti la statua dell’emulo Pompeo per mano di Bruto e Cassio chiamati per azione sì poco generosa gli ultimi fra’ cittadini romani. «Nulla sarebbe rimasto della cena degli Idi di Marzo», diceva Cicerone a Tribonio, «se io vi fossi stato». Era questa la cena in cui si formò la congiura contro di Cesare. Egli voleva dire con ciò che avrebbe sacrificato anche Antonio e Lepido.

Quanto oscure sieno le nozioni morali nell’umano intelletto può conoscersi an­cora da’ differenti giudizi che su questa impresa di Bruto e Cassio si proferirono. Chi li fa eroi, chi traditori. L’azion di Cassio fu comunemente attribuita a’ suoi tempi ad odio personale contro di Cesare per avergli negata una pretura. Egli era altronde un uomo che in Grecia avea fatte orribili estorsioni per accumulare danaro, del qual vizio non lo scusano tampoco i suoi difensori. Bruto non da altra passione fu mosso, al dire di tutti gli storici, che dallo entusiasmo di libertà. Egli era un cittadino pieno di virtù. Laonde si disse che «Bruto odiava la tirannia, e Cassio il tiranno». Egli è grande il liberare la patria da un dispotico. Ma poteva Roma non averne, od averne uno più umano? Cesare che spira sotto i colpi di un coltello che immerge proditoriamente nel suo seno un Bruto, cioè un figlio, un beneficato, un amato teneramente da lui: Cesare che non si difende, che non altro rimprovero fa al suo assassino, che «tu ancora o mio figlio!» sarà ella un’impresa che abbia quel non so che di magnanimo e generoso che rende illustri per fino gli atroci delitti? Sarà un’anima schiava chi la ritrovi detestabile? Sarà egli un vile adulatore del dispotismo chi non ha un cuore capace di riporsi al luogo di Bruto? Ponete in mano un coltello a’ suoi rispettabili apologisti, dite che lo imitino, ed i Cesari non morranno. Lo stesso nobile entusiasmo di libertà che li fa Bruti scrivendo, ha un tal fondo di grandezza che gl’impedirebbe di esser traditori ed ingrati. E questa è una delle contraddizioni fra la fredda ragione e ’l sentimento, le sole che facciano onore alla specie umana.

Quand’io considero qual’uomo fosse Cesare, altro non ne ritrovo più degno di lui di comandare agli uomini. Il difficile accoppiamento della ambizione colla uma­nità, dell’amor delle lettere coi violenti militari, della dolcezza de’ costumi colla robustezza di animo che ammiraronsi in quel grand’uomo, fecero la sua patria sotto di lui nè libera nè schiava, solo stato al quale poteva essa aspirare. Ciò chiaramente si vide allorchè Bruto, dopo d’avere assassinato Cesare, unì i comizi e propose al popolo di riprendere l’antica forma di repubblica. Per quanto si sforzasse Bruto a persuaderlo, egli accolse le sue arringhe bellissime con agghiacciata stupidezza, nè punto si commosse al nome di libertà. Avvezzo al danaro, alle profusioni, al grano, ai giuochi, più non la conosceva. La stessa insensibilità mostrò il popolo alle declamazioni del console Dolabella e di Cinna, e di quanti tentarono in quella occasione così inutile e generosa impresa. Perciò vediamo come Tito Livio che scrisse con lode di Bruto e Cassio vivendo Augusto, non avesse nissuna persecuzione. Eppure nulla di più sedizioso che il lodare gli uccisori di suo padre. Spenta la libertà non solo nelle leggi, ma ancora negli animi, che aveva da temere un dispotico? Non mi sembrano degne di quel grand’uomo di Cesare le rigorose leggi sontuarie ch’ei promulgò, e fece eseguire con grandissimo rigore. Dopo di avere trionfato in Roma con un lusso infinito, dopo d’avere dati al popolo per più giorni spettacoli pieni di magnificenza e di profusione, di gladiatori, di finti combattimenti per terra e per mare, di pubblici conviti a tutta la plebe, d’avere profuso danaro immenso al popolo, a’ soldati, egli promulgò leggi prammatiche con cui restringeva l’uso delle lettighe, frangie d’oro, e gioie alle persone di primissimo rango. Arrivò tant’oltre la riforma, che fu limitato il numero e la qualità delle vivande, e gli soldati ed i littori destinati a vigilare su di ciò andarono non di rado nelle case, togliendo ad un tratto dalla tavola il più dello stabilito dalle leggi.[191] I mercati pubblici erano pieni di spie, perchè Cesare avea la minuta politica di voler sapere tutto ciò che si vendeva e comperava. V’era egli, per avventura, alcun regolamento più inopportuno, che il far mangiare a pranzo tre piuttosto che quattro specie di cibi, a’ discendenti de’ Scipioni e de’ Paoli Emili?

Capo VIII. Triumvirato di Ottavio, Antonio e Lepido. Osservazioni sulla forense eloquenza de’ Romani. Battaglia d’Azio che riduce nel solo Ottavio il comando dell’impero. Sulla questione se il lusso fosse cagione della rovina della Repubblica. Carattere d’Augusto. Coltura del suo secolo.

Ottavio, o Ottaviano, nipote di Cesare e suo figlio adottivo, ebbe una nascosta politica superiore alla sua età, ch’era d’anni dieciotto, quando suo padre fu assassinato. Cominciò a poco a poco a cattivarsi colle immense ricchezze di Cesare l’amore de’ soldati, nè poco contribuì ad aizzare la sua ambizione il disprezzo di Cicerone che fanciullo chiamar lo soleva. Non ebbe compiuti i venti anni, che il molte volte negato consolato seppe ottenere con un esercito, e formare quel terribile triumvirato con Antonio e Lepido, in cui si rinnovò il più orrendo ritrovato della tirannia, le proscri­zioni, con tanto maggior furore quanto erano tre i tiranni. V’era stato in prima un altro triumvirato fra Pompeo, Cesare e Crasso. Avendo conosciuto Pompeo che Cesare era da rispettarsi per l’amor del popolo e per le imprese militari, Crasso da temersi in una corrotta repubblica per le sue immense ricchezze, prese il partito di unirsi con loro. Ma la morte di Crasso tosto disciolse questa lega. Ora fu ben più costante. Non v’era sentimento che non cedesse alla ragion di stato. Gli amici, i parenti e congiunti l’un l’altro si sacrificavano.

Trecento fra i senatori, duemila fra i cavalieri furono uccisi. I più ricchi fra i cittadini furono mietuti per confiscare i loro beni. Roma era un continuo macello. Dopo tutto ciò si volle imporre una tassa pesantissima alle principali dame romane, per la quale venivano ad esser ridotte alla mendicità. Ortensia, figlia del famoso oratore Ortensio, si pose a capo di esse e le difese recitando un’orazione avanti i triumviri. L’eloquenza forense che fioriva in questi tempi era l’unica seduzione che soffrisse la tirannia. Non mai tanto quest’arte fu coltivata, che nelle più grandi civili tempeste. Adoperata dai Crassi, dai Ciceroni e dagli Ortensi, era divenuta la parte più onorata della letteratura. Ne’ tempi della repubblica trattavano gli oratori degl’interessi d’una gran nazione, e chi non è eloquente in sì alti soggetti? Ma poichè la proprietà de’ beni e le vite divennero malsicure, furono risguardati gli eccellenti oratori come esseri mediatori fra ’l dispotismo e la debolezza. Niente tralasciarono i Romani per rendere seduttrice quest’arte. Non solo si avea cura che fosse eloquente una orazione, voleasi ancora un’armoniosa declamazione ed una nobile decenza di gesto. E queste due cose erano comprese sotto il nome di musica «ritmica», moltissimo studiata dagli oratori. Le lunghe e le brevi regolavano la declamazione, i tempi, i modi suoi, come la musica le crome e le semicrome. Questa era cosa comunemente saputa: «Sanno, dice Quintiliano, ancora i fanciulli, esser la lunga composta di due tempi, e la breve di un solo»,[192] e lo stesso Quintiliano: «sonus in oratione quoque varie pro rerum modo adhibetur sicut in musica. Namque et voce et modulatione grandia elate, iucunda dulciter moderata (orator) leniter canit».[193] E tanto fu curata questa melodia nella eloquenza, che Caio Gracco, non men famoso oratore che repubblicista, usò di tenere dopo di sè nel declamare un suonatore di flauto, il quale gli dasse i tuoni per modular la voce.

Questo istrumento chiamavasi tonorium, nè poteva non essere comune ad altri l’usanza di uno de’ primi oratori. Cicerone la riprese come cosa indegna di un oratore l’aver bisogno di tal soccorso nella declamazione:[194] il qual rimprovero dimostra l’esistenza di tal costume. Pare dunque che tempo ed espressione si richiedesse in questa sorte di musica. Non meno fu coltivata l’arte di gestire. Cicerone non isdegnò d’essere scolare di Roscio, il più famoso commediante de’ suoi tempi. Si comprende ch’ella entrava ne’ precetti più importanti della rettorica, vedendo come Cicerone e Quinti­liano parlino dell’arte di gestire con gusto e giudizio raffinatissimo. Nè è questa strana cosa, giacchè non potrebbe un Garik abbellire e rilevare coll’azione e colla declama­zione la filosofica eloquenza del gran Cancelliere d’Aquenseau?

Cicerone, che tanto bene avea fatto altrui colla sua eloquenza, trovò il suo Sicario in Pompilio tribun de’ soldati, quell’istesso cui, accusato di fratricidio, avea salvata la vita. Fu anch’egli nel numero de’ proscritti. Uomo vano, motteggiatore nella buona, imbecille nella avversa fortuna, ottimo cittadino, il più rispettabile letterato de’ suoi tempi, se i secoli non ascondono opere più erudite delle sue. Il suo delitto, delitto illustre!, furono le Filippiche, ed eclamazioni contro di Antonio, nelle quali se manca talvolta la urbanità, non manca mai un onorato zelo. Portato il di lui teschio ad Antonio, lo vide con segni di gioia. La di lui moglie Fulvia incrudelì contro di esso pungendo con uno spillo d’oro, che trasse dalle sue trecce, la lingua di Cicerone. Fu quindi il teschio, e la mano sinistra esposti sulla tribuna delle arringhe, dove la voce di quel rispettabile oratore avea sostenuti gl’interessi dello Stato, e difesa la vita altrui.

Nulla resistè alla sempre vegliante ed artificiosa politica di Ottavio, la di cui eguale e costante condotta corrodeva gli ostacoli, non li rovesciava. Già Bruto e Cassio, sventurati difensori della libertà ne’ campi Filippici, a lei non aveano sopravvissuto. Fu con poco rumore spogliato Lepido dell’esercito, uomo di molto inferiore al suo posto, e Sesto Pompeo, figlio di Pompeo il grande, ognora mal profittando di sue vittorie, in Sicilia avea ceduto ad Ottavio.

Antonio si preparava ad esser vinto dimorando in Alessandria vestito da Bacco e da Osiride fra la noncuranza di sè e del governo, tutto intento a rendersi grato a Cleopatra con sua indolente beneficenza, regalando provincie e regni a quella regina, e figli da essa avuti. In Grecia ancora fece la stessa figura. Furono adulate le pazzie di chi tanto poteva. Gli Ateniesi si posero un giorno a pregarlo come essendo il dio Bacco (tal nome molto gli piaceva) volesse mostrarsi con Minerva dea protettrice di Atene. Antonio profittò di una sì poco cauta adulazione. Acconsentì al celeste maritaggio, domandando però mille terreni talenti per dote di Minerva sua futura sposa: e gli Ateniesi dovettero pagarli.[195]

Sorpreso Antonio fra gli amori, fu vinto alla battaglia di Azio, ove, abbandonato da Cleopatra, seguitolla come un forsennato per morire con lei nel sepolcro dei re. Uomo indolente, ed imbecille per voluttà di molto merito militare, non crudele e sincero quanto lo poteva essere un triumviro. S’egli avesse saputo tanto regnare quanto amare, nissuno più grande di lui. Cleopatra, stesi gli stessi lacci a Cesare, ebbe da lui un regno ed un figlio, ma non il sacrificio d’ogni cosa, perchè il primo nume di Cesare era la propria fortuna. Non la dimenticò un momento fra le delizie e gli amori.

In tal guisa ridotta stabilmente ogni cosa nel potere di un solo, tolti di vita i cittadini, non rimasero che i sudditi, e furono tranquilli gli uomini per stanchezza e spossamento dell’umana natura. L’inerzia successe alla libertà, e si cessò per fino di sospirarla. E qual anima romana trovar si poteva dopo Mario, Silla, il triumvirato, le battaglie di Farsaglia, de’ Filippici campi, e di Azio? Dal fondo del settentrione e d’Oriente vennero popoli a fare omaggio ad Augusto: ricevette ambasciatori sciti, sarmati, seri ossia chinesi, indiani, e questi ultimi al dir di Floro[196] impiegarono quattro anni a fare il viaggio.

Non bisogna prender norma delle forze militari di quel secolo dalla popolazione di Roma e dalla vastità dell’impero. Luigi XIV ebbe quattrocento mila uomini armati, e non possedeva che una provincia romana destinata a far la fortuna di un pretore. Augusto non avea la metà di questa armata. Le forze militari di tutto l’impero non arrivavano a dugento mila uomini. E questo piede di esercito fu molto tempo conservato da’ suoi successori. Eppure dal censo fatto da Augusto dopo la battaglia di Azio risultò il numero de’ cittadini atti a portar l’armi di quattrocentosessantatre mila, ed in tali tempi dicesi che Roma avesse cinquanta miglia di circuito, e contenesse quattro milioni di abitatori.

Or saria tempo, per avventura, di ripetere la troppo comune declamazione contro il lusso e la corruzione de’ costumi, chiamate cagioni del decadimento della repub­blica. Ma i ragionevoli lettori vedranno crescere il lusso in Roma coi confini dell’im­pero. Onde furono le ricchezze, ed i nuovi bisogni, effetti della grandezza del dominio, e questa grandezza cagione di sua rovina. Poichè essendo lo spirito repubblicano spirito d’eguaglianza, questa non si può conservare per lungo tempo nelle vaste società, se non quella che produce la schiavitù, la quale fa tutti gli uomini eguali perchè tutti gli riduce al nulla. Ma quella eguaglianza di fortune, che è l’anima della repub­blica, come poteva conservarsi in uno Stato che dall’oceano all’Eufrate, dal Mediter­raneo all’oceano settentrionale avea già stesi i suoi confini? Per movere macchine sì grandi vi vuol molta forza, per muoverle con celerità fa d’uopo confidarla a pochi, e sovente ad un solo; e la forza in pochi od in un solo condensata più non ritorna nella massa comune, se non è unita ad una moderazione senz’esempio.

Forse tutti i vizi politici della costituzione della repubblica romana si riducono ad avere interposti mezzi troppo costantemente efficaci e violenti, per arrivare a quel colmo di violenza a cui quando si giunge altro non rimane che discendere. Poichè gli Stati hanno loro infanzia, adolescenza, virilità, vecchiezza e morte, per parlare con Floro[197] e colla ragione. Per lo che procurare non devesi soltanto che la vita de’ governi sia robusta, ma ancor lunga. E per avventura la perfezione consiste in ben determinare quel punto di mezzo in cui nè manchino le forze per arrivare al massimo della grandezza, nè tanto ne concorrino che in breve giro di vicende vi si arrivi. Tumultuosa grandezza a cui sta dietro il decadimento! Quella ostinata imperturbabilità del Senato romano, quell’invincibile orgoglio che cresceva cogli ostacoli, quel torre di mezzo ogni impedimento a qualunque costo, quella gran pretensione di non avere inimici, o di esterminarli, quel gran vigore, per fine, che presedeva a tutti i progetti fe’ Romani, ben presto loro fe’ compiere la misura della grandezza. Non è che un paradosso apparente il dire che il più gran difetto nel sistema di Roma era la sua perfezione. M’intendo per riguardo a’ suoi nemici: poichè faccio una gran differenza fra il governo suo, quanto a se stessa e quanto alle altre nazioni. L’interno di Roma era tutto in iscompiglio, quando essa era il terrore d’Europa. A forza di far nascere nel suo seno uomini conquistatori, ne fabbricò a se stessa. Chi l’Asia e le Gallie e la Grecia avea vinte, come non avria vinto la patria? Come un cittadino a capo d’un’armata possente, d’una provincia, d’un regno, non avrebbe abusato di tanto potere? Fu al certo intem­pestiva la voce del severo Catone il Censore, il quale volendo richiamare l’antica severità de’ costumi si dolea degli effetti, e non delle cagioni. Più del suo rigido censurato, più del suo tante volte ripetuto consiglio di distruggere Cartagine, sarebbe stato utile il parere del suo oppositore Scipione Nasica, che Cartagine si conservasse come un’utile nemica, e più di tutto il restringere i confini della dominazione.

Or dunque che ognuno s’incurvò sotto il peso della somma potenza, prese Ottavio il titolo di dittatore, sempre bramandolo, e ricusandolo colla più fine dissimulazione, sino a piegare le ginocchia a terra per non volerlo.[198] Voleagli dare il Senato il titolo di signore, dominus, egli proibì d’esser così chiamato con un editto. Ma avea la destrezza di ricusar le parole per assicurarsi il dominio delle cose.

La sfortuna di suo padre lo aveva instruito quanto fossero utili tali lusinghe, perchè non s’avvedesse il popolo del dispotismo. «Sprezziamo le parole», scriveva Augusto a Tiberio in occasione che un certo Eliano avea parlato male di lui; «sprez­ziamo le parole, e consideriamoci ben felici che non ci si possa recare un più gran danno».

Seppe Augusto nascondere il dispotismo e l’ambizione, seppe dar pregio alla moderazione quando di tirannia più non avea bisogno, e die’ quasi in beneficio la schiavitù.

Quanto non fec’egli valere la sua clemenza verso di Cinna ed i congiurati suoi compagni? Non solo gli perdonò, ma lo fe’ console. Fu questa la più umana e sagace maniera di spegnere le congiure. Il vendicarla avrebbe inasprito gli animi, il benefizio li sedò. Essendo divenuta facil cosa, anzi premiata, l’insidiare vita sì importante, quella ch’era grande impresa divenne un vile assassinio, non più oggetto di gloria, ma di perfidia. Tolta la pena, il pericolo, l’ostacolo alla congiura, ella più non ebbe alcun pregio. E qual altra, se non ragionata clemenza, poteva esser quella di un uomo che tante vittime freddamente sacrificò nelle proscrizioni al suo interesse? Dicesi che sua moglie Livia lo consigliasse di perdonare a’ congiurati. Quella Livia che Dione e Tacito ci dipinsero per donna abbominevole, a cui attribuirono non meno che la distruzione della famiglia di suo marito, essendo il suo progetto di mettere in sua vece sul trono i propri figli. Marcello, Caio, Lucio, Agrippa Postumo, tutti di famiglia ottaviana, ed Augusto istesso, si sospettò fortemente che fossero stati sagrificati alla sua ambizione. Avrebbe tal donna dati consigli di clemenza se non quelli di una raffinata politica?

Non è difficile persuadersi che Ottavio si guardasse d’intorno con occhio sospet­toso. Per questo ad altri non confidò le armate che a quelli di sua famiglia. Destinò Lucio, Gaio e Tiberio, suoi figli adottivi, alla Spagna, all’Oriente, alla Germania; Germanico, di Tiberio nipote, a’ sollevati Pannoni e Dalmati. Non si curava che ne avessero i talenti, o la età. Lucio non avea che dieciotto anni, e Gaio diecinove, quand’ebbero sì importanti commissioni.

La dissimulazione e la timidezza formavano la più gran parte del carattere d’Ottaviano, e punto non scemavano una grande ambizione. Arrivò alla somma potenza col non risparmiare il sangue de’ Romani, e giuntovi fu umano e dolce il suo governo. Non era gratuitamente crudele: cessati gli ostacoli al regime, parve che non fosse più lo stesso. Salì al trono da tiranno, vi dimorò da buon principe. Pure superstizioso, imbecille, non fatto per le armi nelle quali ebbe la gloria altrui, temente i cattivi auguri, il tuono, i giorni nefasti, ne’ quali non avea il coraggio di mettersi a nessun affare importante. L’amicizia e la stima del merito furono sentimenti ch’ei conobbe. Agrippa e Mecenate, uomini bastevolmente conosciuti, ebbero la di lui amicizia, Virgilio ed Orazio la stima e benevolenza sua. V’era una gran contraddizione fra i suoi costumi e quegli che volea introdurre in Roma. Amò il libertinaggio tutta la sua vita. L’esilio d’Ovidio viene attribuito all’avere sorpreso Ottavio in una non molto augusta situa­zione:

«Cum aliquid vidi cur noxia lumina feci,
Cur imprudenti cognita culpa mihi est?»

diceva quel poeta.[199] E pure quest’istesso principe trattò crudelmente per la stessa ragione la propria figlia Giulia e la di lei figlia, del medesimo nome, relegando l’una nell’isola Pandataria, l’altra nell’isola Triniera, esilio ad ambe durissimo. Alcuni de’ più illustri cavalieri romani furono da lui condannati a morte perchè fossero stati partecipi del libertinaggio di sua figlia. Un suo liberto Proculo ebbe la stessa fine perchè di donne maritate amatore. Castissime leggi, licenziosissimo legislatore. Ognu­no sa quanto promovesse il matrimonio colla legge Papia Poppea. Credette di rime­diare alla spopolazione prodotta da lunghi disastri, coll’arringare severamente i cava­lieri viventi in celibato, quei cavalieri istessi i padri infelici de’quali eran periti nelle proscrizioni del suo orribile triumvirato. La morte di Ottavio, come la raccontano gli storici,[200] sembrerebbe in contraddizione col suo carattere, se la contraddizione ap­punto non fosse stata in lui. Con che sangue freddo spirò quell’uomo, la di cui ambizione tanto avea costato al genere umano. Disse a’ suoi amici, ond’era circondato, dopo d’aversi acconciati i capelli alla foggia de’ commedianti: «Ho io rappresentata bene la mia parte?». Ed essendogli risposto che sì: «Ebbene, disse, battete le mani perch’ella è terminata». E pochi momenti dopo morì. Questa morte non è volgare.

Se i secoli trascorsi meritarono l’attenzione colle guerre e colle crudeltà, delle quali nulla v’ha di più comune nella storia degli uomini, questo fisa l’attenzione de’ pacifici coltivatori delle lettere. Virgilio, Orazio, Ovidio, Cicerone, Lucrezio sono l’ornamento di tal secolo, e monumenti immortali della letteratura. L’incolta poesia di Ennio fu cangiata in una dolce armonia di ragione e di parole. Ma non puossi senza parzialità, dove si tratti di pensare, dare il vanto a tal secolo sopra il seguente, chiamato, con metafora stranissima, d’argento. Poichè in questo, quantunque aureo, non ritrovi la filosofia di Seneca, la politica di Tacito, la fisica di Plinio. Ebbero le lettere in que’ tempi nel loro nascimento le stesse vicende che da noi nel secolo decimoquinto. Fu in quel secolo coltivata la lingua e la poesia, nè so se fossimo più sapienti di parole o d’idee; il secolo seguente fu quello in cui nacque l’arte di pensare, e pure gli fu posposto.

Non è da stupirsi che una nazione guerriera di sua instituzione tardasse cotanto a coltivare l’ingegno. Non fu se non verso la fine del sesto secolo, che i Romani cominciarono a conoscere la greca letteratura, e quella congerie di sublimi errori, di poche verità, di molte opinioni che greca filosofia chiamavasi. Anzi ne’ tempi della repubblica risguardavasi questa greca coltura come una funesta contagione dalla quale il sistema di Roma dovea preservarsi, come quella che i valorosi e per felice rozzezza intrepidi eroi avrebbe cangiati in cavillosi sofisti, in studiosi indolenti. La prima volta che vennero a Roma greci filosofi fu al tempo di Marco Porcio Catone detto il Maggiore. Carneade, Diogene e Critolao furonvi mandati come ambasciatori da Atene che era stata condannata a pagare un enorme tributo per avere diroccata la città di Oropo. Tutta la gioventù lor s’affollava intorno, e principalmente a Carneade, uomo di eloquenza seduttrice. Catone risguardò l’affare come seriissimo. Questa curiosità della greca filosofia gli parve una contaminazione de’ costumi severi. Il Senato fece tosto partire i legati e decretò che tal razza di gente fosse bandita da Roma. La gioventù, non ostinata negli usi, non ricusante le mutazioni, mentre andava in Grecia a comandare le armi romane, cominciò ad ascoltare i filosofi del paese, ed a frequen­tarne la scuola con molta assiduità. Scipione e Lelio Africano furono i precursori di questa riforma. Seguirono però ne’ studi che fecero in Grecia lo spirito del sistema. La stoica filosofia lor piacque a preferenza delle altre, come conforme a quella feroce virtù ch’era al fondo del carattere romano, a cui s’aggiungeva un orgoglio grandissimo, solo perdonabile alle genti che sanno esser libere. Questa filosofia non fu ritrovata da proscriversi, che anzi parve utile alla legislazione. Quindi ella fu assai coltivata da’ giureconsulti, fra i quali massimamente da Scevola e Tuberone. Pure in seguito si stese la toleranza di religione anche alle sette greche, e d’ogni sorte ne furono professate. Cicerone, grande ed indeciso compilatore della greca filosofia, può dirsi il primo che di lei dassi a’ Romani una copiosa notizia. Le sue Questioni Tusculane ne sono poco meno che un trattato universale. S’egli e Diogene Laerzio ci mancassero, sapremmo poco dell’antica filosofia. Questa letteratura che i Romani ebbero da’ Greci per tradizione, per tradizione ancora la conservarono. Non v’erano che maestri e scolari, nessun ragionatore. Era più l’erudizione della filosofia, che la filosofia: e così immuta­bilmente e costantemente eternavansi nelle menti le vere e le false cose senza esame e discussione. Parea che i Romani si dimenticassero d’esser liberi, dove si trattasse di ragionare. Testimonio ne sia Cicerone stesso, le di cui opere filosofiche non sono che un esatto ammasso delle opinioni altrui. Poichè qualunque setta di filosofi fu ammessa in Roma, non si ha memoria che alcun genio riformatore aprisse una via intentata fra quella folla di opinioni che ingombravano la ragione. La setta accademica successe a tutte le altre. Non si aveano bastevoli lumi per liberarsi dalle opinioni: si cadde nella indifferenza accademica di sostenere egualmente qualsisia partito, per modo che la versatilità dell’ingegno, funesto e piacevole abuso della ragione, divenne la filosofia più ricevuta. Influì di molto a renderla tale l’esser ella accomodata alla forense elo­quenza, insegnando a sostenere due contrari con qualche apparenza di ragione.

Con tutto ciò, furono ben pochi i progressi di quella nazione nelle cose di scienza, come grandissimi in quelle d’immaginazione. Nella letteratura, nella eloquenza e nella poesia arrivarono i Romani al sublime; ma di scienza che sapevano eglino? Cicerone parla alcuna volta con istima delle matematiche. Varrone scrisse sull’astronomia e sulla geometria, e fuorchè questo, altro di lui non sappiamo. Nigidio Figulo fece un libro sulla differenza della disposizione del cielo in Grecia, paragonato a quello d’Egitto. Egli era più astrologo che astronomo. Vitruvio nella meccanica, Frontino nella idrau­lica furono non dispregevoli in que’ tempi mancanti de’ mezzi per essere uomini grandi. Plinio di poche verità e molte fole ammucchiò nella sua, per alora pregevol, Storia naturale. Nel suo libro secondo vi sono delle memorie interessanti sulla astro­nomia. In molti luoghi è d’una invincibile oscurità: è molto s’egli intendeva se stesso. Seneca, nel settimo libro delle Questioni naturali, seguitò l’opinione di Appollonio Mindriano, ch’ora non è più una opinione, dicendo esser le comete pianeti aventi il lor periodico giro, e predice che verrà un tempo in cui sarà conosciuta l’orbita loro come quella degli altri corpi celesti. Anche il credere una verità senza prove è un pregiudizio. Che penseremo delle astronomiche cognizioni de’ Romani, leggendo in un loro accreditato e gravissimo scrittore[201] che Decimo Bruto, spedito nelle Spagne, non senza grande spavento e timor di sacrilegio sorprese il sole al suo cader nel mare, e videlo dalle sue acque ricoperto? Un generale d’armata era così rozzo, uno storico così credulo. Tutto ciò che dell’optica romana sappiamo, si riduce ad alcune palle di vetro riempite d’acqua, le quali esposte al sole abbruciavano le vesti. Plinio ne parla con una sorte di ammirazione.[202] Ora questo è un giuoco de’ fanciulli. Plutarco dice che le vergini vestali riaccendevano il loro fuoco unendo i raggi solari in un globo di vetro. Eccovi quai furono le scienze presso quella gran nazione.

Fa onore a questi tempi l’obelisco che fe’ innalzare Augusto in Campo Marzio per osservare la lunghezza dell’ombra meridiana ed il movimento annuo del sole. Avea settanta piedi di altezza, e la sua ombra si stendeva su di una linea orizzontale ch’era segnata con delle lamine di bronzo incassate nelle pietre del pavimento colle sue divisioni.[203] Il matematico Manlio diresse quest’opera, ma poco essa durò nella sua perfezione poichè Plinio attesta che a’ suoi tempi eran già trent’anni che a nulla serviva. Attribuisce egli ciò o all’essersi mutato il corso del sole, o all’essersi smossa da’ suoi cardini la terra, o ai terremoti, o alle inondazioni che avessero inclinato e abbassato l’obelisco. Plinio è indeciso a quale di queste quattro ragioni debbasi dar la preferenza. Ei non vide che le ultime erano tanto più verisimoli delle prime, quanto è più facile che un obelisco si muova dal suo posto anzichè si scompigli l’universo. Altro monumento di scienza che un gnomone ci porge quel secolo illuminato.

Le arti però, l’architettura e la magnificenza degli spettacoli presero nuova forma sotto di Augusto. Sin’ora gli anfiteatri erano stati costruiti di mattoni come tutte le altre fabbriche, egli introdusse i marmi, e così fabbricaronsi que’ monumenti ammirandi d’architettura celebri non meno pe la maestosa loro simetria, che per li crudeli spettacoli che ne insanguinavano le arene. Vantavasi Augusto di lasciar Roma di marmo, ch’egli avea ritrovata di creta.[204] I pantomimi furono introdotti in Roma a’ suoi tempi. Era questo lo spettacolo in cui l’arte del teatro fosse in maggiore perfezione presso de’ Romani. Pilade e Batillo sono famosi per essere gl’inventori di tal sorta di rappresentazione. Ella consisteva, com’è noto, nell’esprimere co’ soli gesti un’azione teatrale. I Chinesi usano tutt’ora questo spettacolo. La novità della cosa incontrò le sue critiche. Pilade facendo un giorno la parte di Ercole furioso, gli spettatori trova­rono ch’ei gestiva di troppo, e cominciavano le fischiate. Levò egli la maschera dal viso, e disse ad alta voce: «Pazzi che siete, io rappresento un più gran pazzo che non siate voi».[205] Questa espressione sola prova che Pilade era un gran maestro; ella è piena di sicurezza di se stesso, e di un genio vigoroso. Di un altro genere, ma non meno rimarcabile, è quella risposta che diede ad Augusto allorchè gli rimproverava di aver divisa Roma in due partiti, uno per lui, l’altro per Batillo, dolendosi ch’ei fosse l’autore di questi tumulti: «Signore, gli disse, voi siete un ingrato, lasciate che il popolo si occupi delle nostre discordie».[206] Piacque in seguito questa sorte di spettacolo a segno, che il Senato dovette decretare a’ tempi di Tiberio: «che i senatori non frequentassero le case de’ pantomimi, e che i cavalieri non li corteggiassero in pubblico».[207] Si dovet­tero poco dopo bandire da tutta l’Italia questi commedianti. Tant’era la pubblica dissipazione per cotale spettacolo di cui più che d’ogni altro furono amantissimi i Romani. Ma quantunque scacciati altre volte, sempre furono richiamati.

Non è già che prima di questi tempi non vi fossero teatri in Roma. Sino dall’anno trecento novantuno[208] presero i Romani quest’arte dagli Etrusci, come avean da loro avuta la pretesa scienza degli auguri. Istrioni fur detti i commedianti dalla voce Hister che in Etrusco significa gioco; e l’anno cinquecento quattordeci Livio Andronico riformò il teatro romano sostituendo alle cattive farse etrusche commedie sul gusto greco, le quali però al dir di Cicerone eran cotanto noiose, che non era possibile di leggerle due volte.

Per quanto però esser potesse magnifico il teatro romano, a gran fatica m’indurrei a sospettare che nell’arte di fare illusione e di porre in moto i sentimenti del cuore pareggiasse l’odierno francese. Un autore tragico montato su due alti coturni, ch’erano come una specie di trampoli, ed imbottito a proporzione la persona, con una sconcia maschera in viso, declamando, o meglio, urlando per essere inteso in un vasto teatro, oppure sovente ancora non facendo che gestire, ed un altro in iscena declamando la di lui parte, come poteva eccitare, ed esprimere le passioni dilicate?[209]

In mezzo al lusso ed alle belle arti Roma fu desolata da una fiera carestia, per la quale furono banditi tutti i forastieri, gladiatori, atleti e schiavi, non potendo essere alimentati in quella città, in cui s’adunavano tutte le ricchezze d’Europa. Fu questo un male, che quantunque sovente sofferto, mai non fe’ pensare solidamente alla agricoltura. La fecondità d’Egitto fomentò l’indolenza della nazione, indolenza trop­po utile perchè si pensasse a scacciarla da un popolo che col pane e cogli spettacoli era in tutela degli imperatori.

In questo aureo, in questo coltissimo secolo v’era in Roma Vedio Pollione cava­liere romano, che si rese celebre nelle istorie per la sua inumanità verso de’ schiavi. Una menoma mancanza gli serviva di pretesto per fargli uccidere e gettarli in una peschiera ad ingrassare le sue murene.[210] Il che non tanto prova la barbarie di Pollione, come quella delle leggi, quella della nazione. Al tempo di Cesare furono sacrificati agli dei due uomini in Campo Marzio dai pontefici e dal flamine marziale.[211] Questo era un sistema religioso appo i Romani. L’anno 525, essendosi ritrovato ne’ libri sibillini che i Greci ed i Galli avrebbero occupata Roma, furono fatti seppellir vivi da’ pontefici nel Foro un uomo ed una donna galli, ed un uomo ed una donna greci.[212] L’istesso avvenne dopo la battaglia di Canne,[213] e poi nell’anno 639.[214] Solevano i Romani, dice Dionigi,[215] consagrare a’ dei d’Averno chi volessero uccidere impunemente.

L’orribile spettacolo de’ gladiatori era cotanto usato in questi tempi, che fu proi­bito dal Senato a’ cavalieri di combattere da gladiatori.[216] S’introdusse in Roma sino dall’anno quattrocento novanta dai fratelli Bruti.[217] La passione del popolo per queste carnificine era grandissima. Cicerone, essendo console, fece una legge, che ne’ due anni antecedenti alla petizione di una carica non potesse chi v’aspirava dare al pubblico spettacolo di tal sorte.[218] Si portò il raffinamento destinato alle pacifiche arti, in questo orribile divertimento. Mantenevansi questi tristi olocausti nelle case chiamate ludi, ed erano ben nutriti, perchè fossero belli a vedersi nelle pugne, ed il loro sangue meglio gorgogliasse dalle carnose ferite. I lanisti erano i loro maestri, ed aveano scritti de’ trattati per l’instruzione de’ scolari. Infame mestiero, ne’ primi tempi destinato solo a’ servi, prigionieri o condannati, ma poi in seguito si vendevano a tal professione anche uomini liberi. La formola del giuramento che prestavano era questa: «Io come legittimo gladiatore do il mio corpo ed anima al mio padrone, e sarò abbruciato, legato, bastonato, scannato, s’ei lo comanderà».[219] Facevansi i gladiatori un dovere di morir bellamente: «Qual mediocre gladiatore» dice Cicerone[220] «gemette, o mutò di volto egli mai? Quale combattè o morì sconciamente?». Varie, e strane erano le maniere di dare questo spettacolo. V’erano i reziari che dovevano prendere in una rete l’avversario, poi ucciderlo con un piccolo tridente; gli andabati combattevano a cavallo cogli occhi bendati. E fuvvi un tempo in cui piacque far combattere de’ nani. Ferito che fosse il gladiatore, se il popolo lo voleva salvare poteva ritirarsi, se no doveva combattere ancora, e per lo più finiva col presentare il collo al vincitore perchè lo scannasse. Tal’era il divertimento più comune de’ Romani; tale era quello che nel tempo del maggior lusso, della maggior coltura de’ loro ingegni, usavano nelle volut­tuosissime cene. Esse erano una orribile mischianza di egualmente raffinata crudeltà che mollezza. Lavati e profumati escivano dal bagno ed andavano nel triclinio ove, coricati su di morbidi e ricchi letti, cinti di ghirlande di fiori giacevano alla mensa, da lascivi balli e da’ pantomimi circondata. Tutto vi respirava l’amore ed il piacere. Il principe della cena, il teliarco, reggeva i brindisi alle innamorate, ed il trinciante, che dicevasi carptor, doveva tagliar le vivande con tale decenza di gesto, che questa era divenuta un’arte pantomima, per apprender la quale v’erano le sue scuole. Il che fe’ dire a Giovenale:[221]

«Nec minimo sane discrimine refert
quo gestu lepor, et quo gallina secetur».

Nello stesso tempo, intorno alla mensa squisita e gioconda si scannavano i gladia­tori. Quale orribile contrapposto! Lasciare il triclinio inondato di fumante umano sangue, di sangue e di falerno lorde le mense fra i cadaveri confuse, e lo spirante gladiatore caduto coll’ubbriaco parasito, per trasportarsi festevolmente al bagno od al teatro! Quando io considero ch’era divenuto uno squisito piacere la vista degli uomini moribondi fra le strida e le fischiate di un anfiteatro, che le vergini vestali vi avevano il loro posto distinto, che i fanciulli non ne aveano orrore, che l’arte atroce di uccidersi era divenuta un soggetto di buon gusto, un soggetto di piacere, di frivolo piacere, di piacere di bel mondo, di lusso ai giovani dissipatori, io mi sento nascere una onorata vergogna di essere della specie umana. Tale era la mischianza di barbarie e di coltura che formava il carattere di questo secolo. Così accade alle nazioni che passano ad un tratto dall’uno all’altro stato. La coltura non è che apparente: essa è l’effetto d’alcune circostanze, non di una total mutazione di costumi, perchè questa è l’opera più lenta che faccian le leggi. In tal guisa il vecchio fondo rimane, e v’è sovraimposta la cultura. Come un contadino che ha fatta una rapida fortuna in cui si scorge sempre il borghese sotto il gentiluomo.

Capo IX. Degl’imperatori sino alla incursione de’ barbari.

Entriamo in que’ secoli d’orrore ove altro non incontri se non se una serie di tiranni, che con atroci follie ressero il destino d’un vasto impero; secoli non d’altro abbondanti che di monumenti della infelicità degli uomini, ne’ quali parve che i Tiberi, i Caligola, i Neroni, i Claudi si trasmettessero in eredità il far ludibrio di una nazione di servi.

Tiberio fe’ molto sospirare la perdita di Augusto. Avea nessuna delle sue virtù, superava i suoi vizi, diffidenza e dissimulazione. I primi colpi della tirannia si scaglia­rono contro della propria famiglia. Augusto avea confidata la sua potenza a’ congiunti, Tiberio gli riguardava come i più gran nemici. Agrippa e Germanico, suoi nipoti, e la moglie di questo, Agrippina, Nerone, e Druso, di lei figlio, furon vittime di que’ crudeli sospetti che gli facean chiamar felice Priamo per aver veduto morire tutti i suoi. Col ferro, col veleno, colla inedia si proccurò questa barbara felicità.

Sua madre Livia che lo avea fatto adottare da Augusto, e che avealo fatto impe­ratore, sentivasi autore di sì grand’opera e voleva regnare con lui. Il primo ministro Seiano avea il grande vantaggio d’esser necessario al suo signore. Uomo crudele, ed altiero quant’altri mai, era utilissimo per opporlo all’ambizione dell’imperatrice, alle congiure de’ potenti. Mostro quanto il suo sovrano; ma i suoi vizi anzichè esser opposti a que’ di Tiberio, servivano a’ di lui fini.

L’avea fatto dispotico perchè impedisse le trame di Livia, poi temendolo pensava a deprimerlo. Di fatti appena morta l’imperatrice fece condannar Seiano dal Senato come reo di lesa maestà. Si fece orrida strage di tutti i suoi amici e congiunti. Gl’innocenti suoi figli istessi furono avvolti nella sfortuna del padre, e dal Senato condan­nati a morte; chè ben poteva essere atroce e vile ministro della tirannia per quel «consesso di gente nata alla schiavitù», come la chiamava per fin Tiberio istesso.[222] Una fanciulla di Seiano, menata al supplizio, dimandava ove la conducessero, e che se avea commesso qualche fallo, senz’altro inquietarla, le dessero le staffilate. Questa istessa fanciulla prima di esser suppliziata fu sverginata dal carnefice, perchè non mai una vergine si era condannata a morte.[223] Barbara maniera di rispettare le leggi capricciose violando quelle della umanità! Così ancora aveano fatto i triumviri per far morire un impubere. Gli diedero la toga civile, e lo condannarono come maggiore.[224] Tacito disse di questi tempi che tanto s’era vessato dalle leggi quanto dai delitti.

Ma il flagello della tirannia non percuoteva che i primati. Il popolo era abbando­nato al suo avvilimento, che anzi per quante leggi violasse il dispotismo, a certe opinioni vecchie e rispettate Tiberio non si oppose, ma le declinò! Il suicidio era onorato come un atto generoso, e perciò non si confiscavano i beni di chi essendo condannato si toglieva la vita. Non si osò di por mano a questa legge. Vibuleno Agrippa essendo accusato prese in faccia del Senato il veleno. Caduto a terra, mori­bondo fu strascinato in carcere, ed ivi strangolato perchè non si dicesse che si era da sè ucciso, e si potessero confiscare i suoi beni. Molti de’ più riguardevoli cittadini per salvar le sostanze alla famiglia, essendo condannati, ricorrevano al suicidio.

Tiberio ritirandosi nell’isola di Capri seguitò quello spirito di timore e di diffi­denza che gli era proprio, e che lo dovea esser di un uomo la di cui esistenza era in contraddizione colla felicità di molti. Regnando tuttavia suo padre Augusto, si era ritirato per qualche anno nell’isola di Rodi: ripetono la maggior parte degli storici che in quella misteriosa solitudine si desse in preda alle maggiori voluttà! Ma non comprendo in qual maniera potesse egli meritare tali rimproveri alla età di sessantasette anni, che tanti ne avea quando andò a Capri. Non si prova una così inverisimile accusa col dire ch’egli era sempre stato insigne nel libertinaggio fino dalla prima gioventù. Gli imperatori non sono inesauribili. Una licenziosa vita giovenile promette una stanca vecchiezza. Non si può tampoco intendere come gl’infami costumi che gli si attribui­scono si sapessero dagli scrittori con quella minutezza con cui gli narra Svetonio, autore o sincero o credulo, od appassionato sino alla indecenza. Tiberio in tutte le sue cose dissimulato e misterioso, ritirato con pochi amici in quell’isola, inaccessibile ad ognuno, come non avrebbe coperti col velo della più cauta oscurità i suoi scostumi? Quanto più sembrano esatti questi racconti, altrettanto è probabile che non lo sieno.

Intanto in Roma la diffidenza era grandissima. In ogni parte v’erano delatori, il sublime della politica de’ governi deboli. Si poteva esser reo di lesa maestà con una parola. I premi invitavano ad accusare, l’impunità a calunniare, ed i mezzi più sicuri di salvarsi eran questi. Ciò discioglieva tutti i legami d’amicizia o di parentela. Si trovò un figlio che accusò suo padre Vibio Sereno di lesa maestà![225] L’imperatore lo protesse, benchè calunniatore. L’innocente Sereno fu relegato. Cato Firmio così calunniò una propria sorella. Il Senato lo bandì, Tiberio richiamollo.[226] Roma era piena di stragi. Lunga ed orrenda è la serie delle vittime sacrificate a’ sospetti di Tiberio, che se ne stava come un timido mostro inselvato in Capri, ove dimorò undeci anni.

Nulla guadagnò la felicità di Roma nel successore di Tiberio, Caligola, benchè centosessantamila[227] vittime fossero svenate agli dei per la gioia d’aver mutato il governo. Egli era figlio di Germanico e di Agrippina, e l’unico superstite di quella famiglia. Schivò i colpi della sospettosa tirannia di Tiberio col piegarsi al suo carattere, ed imitarlo per fino ne’ gesti e nel portamento. Il che fe’ dire di lui che «non vi fu giammai un miglior servo, nè un sì pessimo padrone».

Il suo governo ci viene descritto come quello di un pazzo crudele. Caligola si ammalò. Due fecero questi voti agli dei. Uno di combattere fra i gladiatori se l’impe­ratore si risanava, l’altro di uccidersi. Caligola avendo ricuperata la sanità obbligò entrambi a mantenere il voto. Fe’ combattere co’ gladiatori in sua presenza chi avea fatta questa promessa, nè senza gran difficoltà lo lasciò andare, benchè vincitore! Obbligò l’altro ad uccidersi.[228] Quale contraddizione non s’incontra ad ogni passo in questa storia fra l’autorità e la ragione! Sono incredibili questi voti senza una pazzia. Come ritrovare tanto affetto per un ridicolo e crudel principe? E se pur v’era tanto desiderio della sua conservazione, qual voto contradditorio è questo che toglie il piacere di goderla?

Caligola amò le sue sorelle, e più dell’altre Drusilla. Ella morì, e la fece porre fra le dee. Si dice che gran quantità di persone ei facesse uccidere per questo entimema, che sarebbe il più barbaro che abbia fatto la pazzia congiunta alla potenza. Era egualmente reo chi si dolesse di tal morte, come chi non se ne dolesse. Quelli perchè non si dovea piangere la morte di una ch’era ascritta fra gli dei, questi perchè si dovea piangere la morte di una sorella dell’imperatore.[229] È vergognoso per la specie umana il dettaglio orribile delle crudeltà di Caligola che fanno Svetonio e Dione Cassio. Questi sono annali scritti col sangue, se non lo sono colle passioni. Essi suppongono una serie di carnefici deliranti, ed una infinita pazienza de’ Romani. Sono due grandi supposizioni.

Fra gli mezzi stravaganti, de’ quali si serviva questo imperatore per accumulare danari, ritrovò quello di convertire il suo palazzo in un pubblico postribulo. Egli riceveva il prezzo degli avventori, e ne teneva il registro come di cittadini che veramente amavano il principe.[230] Avrebbe creduto Augusto quando riprendeva il liberti­naggio che un giorno avrebbe un tal successore?

Svetonio chiama quest’imperatore «mostro furioso». Seneca lo dice prodotto dalla natura in esterminio ed obbrobrio del genere umano.[231] Filone non ne dice men male. Il Senato chiamava Dio questo pazzo perchè potente; gli furono alzati tempi, ebbe sacerdoti ed adoratori. Egli si nominava «il Pio, Figlio del Campo, il Padre delle armate, ottimo e massimo Cesare».[232] Fe’ sacerdote il suo cavallo Incilato. Il che fe’ dire che tal sacerdote a tal Dio era conveniente. Per quasi quattro anni, al più pazzo degli uomini fu consegnata la felicità di molti milioni d’uomini. Alcuni congiurati pretoriani lo uccisero.

Claudio fu suo successore; il primo imperatore eletto da’ pretoriani già divenuti in un dispotico governo ciò che i giannizeri in Turchia, i sterlitz in Moscovia, i mamelucchi in Egitto. Seiano era stato il vero institutore di tale sistema. Ei rendè potente questo corpo ch’era la scelta delle armate. Se il dispotismo prima di Tiberio era di fatto, a’ suoi tempi divenne di sistema. Fu stabilito il governo militare. La tirannia vuole una funesta semplicità. Tutto si faceva per mano de’ soldati. Lo stesso imperatore tolse al popolo quell’avanzo di comizi che gli rimaneva, consistente in nominare qualche magistrato. Un’ombra di libertà v’era tuttavia, «quaedam studiis tribuum fiebant», dice Tacito.[233] Tiberio trasferendo nel Senato i comizi, come fece, pose l’ultima mano all’arbitraria potenza. Si assicurò che in avvenire non vi sarebbe stata persona in carica che non fosse scelta da lui.

Era Claudio un principe di carattere dolce non per sentimento, ma per timida stupidità. Sua madre Antonia quando volea dar dello sciocco a qualcuno soleva dire: «Voi lo siete come il mio figlio Claudio». Augusto lo chiamava il «meschinello»: «misellus».[234] Perdonò più volte a’ congiurati. Corresse le barbare leggi della schiavitù. Ritrovo per altro, che sotto al suo successore Nerone furono suppliciati ben quattrocento servi di Pedanio prefetto di Roma, perchè fu ucciso da uno di essi. Così stabi­livano le antiche leggi romane. Se un servo uccideva il suo padrone tutti si uccidevano. L’imperatrice Messalina, donna egualmente feroce negli amori che nella ambizione, ed i liberti della corte regnavano per Claudio. Molte vittime l’indolente principe sacrificò a’ sospetti della imperatrice. Era stupido a segno, che non si ricordava di que’ che avea fatti morire, e gli tornava a condannare. Il liberto Narciso diresse la congiura per cui fu uccisa Messalina. L’imperatore lo fece questore. Claudio, ricevutane la nuova essendo a cena, chiamò da bere senza chiamare nè dove, nè in che modo morisse. Di lei più non parlò come se non mai fosse vissuta.[235] Ebbe di poi Agrippina per moglie, in tutto eguale a Messalina. Essa lo fe’ morir di veleno.[236] Il sesso destinato ad ammollir la ferocia parve che allora lo fosse a fomentarla. Claudio scrisse la Storia Romana cominciando da’ tempi di Cesare, e parte ancora della propria vita.[237] Nasce gran curiosità di vedere le produzioni di un tale autore.

La conquista di una parte dell’Inghilterra ove Cesare il primo avea fatta una passaggiera incursione; gli acquedotti delle acque Curzia e Cerulea per quaranta miglia di viaggio al traverso di monti e valli, sono di quelle poche opere di questi tempi che non sieno crudeli.

Tant’era meravigliosa cosa che un imperatore pensasse alla felicità de’ suoi sud­diti, che si scolpì in una colonna d’argento il discorso, non del tutto irragionevole, che tenne Nerone al Senato del futuro suo governo. Propose egli un altro giorno di levare tutti i dazi e le gabelle. Approvò la sua clemenza il Senato, ma gli rappresentò che senza tributi non sussistono gli imperi. Misera condizion di que’ tempi, in cui tal verità si dovea insegnare al padrone delle vite e delle fortune di tanti uomini!

Nerone era figlio di Agrippina. Non avea questa donna risparmiato il proprio marito per farlo salire al trono. Ma essa volea non lasciargli d’imperatore altro che il nome. Così Livia avea fatto con Tiberio. Nerone la fece accoppare a colpi di bastone dal liberto Aniceto. Fece ancora morir di veleno il suo fratello Brittanico e la sua zia Domizia. Fece accusare d’adulterio la sua moglie Ottavia, il di cui delitto era di esser da lui meno amata di Poppea Sabina. Furon messe a’ tormenti le damigelle di corte. L’imperatrice fu condannata. Poppea ebbe un breve trionfo. Nerone istesso l’ammazzò. Tale era la frode e la barbarie che regnava nella corte imperiale.

Fu spenta con infinite stragi una congiura che si tentò contro di Nerone. Vi entrarono per fino molte dame. Il poeta Lucano era de’ congiurati, e lo fu perchè Nerone pretendeva di esser migliore poeta di lui. Perì egli, e Seneca eziandio, i cui scritti furono così differenti dalla vita. Tacito ci annovera molti sacrificati all’avarizia ed a’ sospetti di quest’imperatore. In mezzo agli orrori, gran doni si facevano al popolo. Instituì Nerone i giochi Giovenali in memoria del giorno che si fe’ radere la barba. Richiamò i pantomimi che Claudio avea banditi, ed egli stesso viaggiò nelle greche città con gran seguito di commedianti, suonatori e buffoni d’ogni genere, pubblicamente cantando e suonando sui teatri. Egli aveva cattiva voce, pure volea essere un eccellente musico. Fece strozzare sul teatro un musico, perchè avea cantato meglio di lui.[238] Spedizione in somma piena di buffonerie e di crudeltà.

Fu grande incendio in Roma in questi tempi, che ne consunse una gran parte. Per quanto Nerone avesse fatto per ispegnerlo dando le più salutari disposizioni, in modo che fu una delle poche volte in cui fosse buon principe, ciò non ostante non si lasciava d’incolparlo egli stesso di quest’incendio. Per divertire queste accuse, le rivolse su i cristiani, i quali furono perseguitati.[239] Non v’è nessun fondamento per credere nè Nerone, nè i cristiani autori dell’incendio. Il desiderio che l’imperatore avea sempre dimostrato di volere rifabbricare la città diede campo a questa diceria. L’odio in cui erano i cristiani, che ben si ricava da Svetonio, che li chiama «genus hominum superstitionis novae ac maleficae»,[240] e da Tacito: «quos per flagitia invisa vulgus Christianos appellat… exitiabilis superstitio et cetera»,[241] porse a Nerone una facil maniera di rivolgere altrove i rumori che v’erano contro di lui. Non si sa intendere perchè fossero così risguardati i cristiani in questi tempi. L’imperator Tiberio propose in Senato di ascrivere fra gli dei Gesù Cristo,[242] ed Alessandro Severo in appresso teneva la di lui statua nel suo gabinetto insieme di Orfeo, di Abramo e di Apollonio Tianeo.[243] I Romani altronde, quantunque ne i primi tempi proibissero le straniere religioni, in appresso però, ed in questi secoli massimamente, lasciavano su tal punto una intiera libertà. Roma ammetteva nel suo grembo tutti i dei delle nazioni. Non si proibiva una religione se non turbava lo Stato. Così regnando Tiberio l’egiziana fu sbandita. Ma ciò avvenne perchè i sacerdoti del dio Anubi prostituirono Paulina a Decio Mondo. Guadagnati con danaro fecero credere a Paulina che Anubi era innamorato di lei, e nella oscurità della notte Decio Mondo fece le parti di quel dio. Così pure a’ tempi dello stesso Tiberio furono scacciati i Giudei per avere convertita alla loro religione Flavia, gentildonna romana; e persuasola che mandasse i più preziosi suoi arredi al tempio di Gerusalemme, con tal pretesto se li ritennero.[244] Quattro mila di essi furono mandati in Sardegna.[245] Dopo la distruzione di Gerusalemme furon di nuovo ammessi, mediante un grosso tributo che pagavano.

Galba fu proclamato imperatore nelle Spagne, Ottone in Roma, Vitellio in Ger­mania. Galba fu tosto ucciso; Ottone fu vinto da Vitellio alla battaglia di Bodriaco,[246] e Vitellio istesso fu vinto poi nel sito medesimo dall’armi di Vespasiano eletto imperatore nella Giudea. Nerone avea intanto contro di sè in Roma tutti i pretoriani. Egli fuggì dalla città, ritirossi in casa di un suo liberto, ove si uccise. Grandi e rapide rivoluzioni! Arse in un momento di guerra tutto l’impero, e in un momento fu talmente sedato ogni tumulto che vi fu una pace universale.

La ribellione della Giudea, cioè un infelice sforzo di recuperare la libertà con quegli stessi mezzi co’ quali fu tolta, punissi da Tito, figlio di Vespasiano, colla famosa distruzione di Gerusalemme. I profeti l’aveano predetta. Il popolo deicida dovea soffrire sì gran flagello, per quelli imperscrutabili diritti che Iddio ha sull’opere sue. Ma il diritto de’ Romani era la lor potenza. Sulle rovine del primo tempio fabbricato al vero Dio alzò di poi l’imperatore Adriano un tempio a Giove e mandò una colonnia a riedificar Gerusalemme, che chiamò Elia Capitolina.[247]

Nella inscrizione dell’Arco di trionfo di Tito si pose ch’egli fu il primo che assediasse quella città. Fu questa certo una grande adulazione, o una grande igno­ranza. Chi non dovea sapere che Pompeo non solo l’aveva assediata, ma conquistata prima di lui?

Non si richiedeva molta virtù per essere creduto buon principe, dopo una serie di tiranni. Vespasiano fu perciò molto amato. Forse l’attribuirsegli per fino miracoli, come si fece, proviene dalla istessa cagione. Un uomo dopo tanti mostri sembrava un benefico dio. Che penseremo dei fatti storici leggendo in Svetonio, e per fino nella filosofica Storia di Tacito, i molti miracoli di quest’imperatore autenticati dalla presenza d’un popolo? Tali furono que’ due celebri fatti mentr’era in Alessandria, di dar la vita ad un cieco col sputargli negli occhi, e di risanare un altro rattratto di una mano con un calcio: «La mano» dice Tacito,[248] «incontanente si adoperò, ed il cieco vide. Dell’uno e dell’altro ci ha testimoni di veduta ancor oggi che non possono guadagnare della menzogna».

Giulio Sabino Gallo si ribellò contro di Vespasiano. Egli lo condannò a morte con tutta la sua famiglia. La di lui moglie Peponilla condusse avanti l’imperatore due suoi figli, e con materna eleganza pregò per essi. Piansero tutti i circostanti, e Vespa­siano istesso, ma fece ciò nonostante eseguire la sentenza.[249] Tratto crudele a scancel­lare il quale non basta il suo detto: «Oh, potess’io comandare ai saggi, ed i saggi comandare a me». Per abbellire Roma impose gabelle e tributi senza fine. Le cariche vendevansi, i delitti con danaro riscattavansi, facendo magnifica la città ed infelici gli abitatori. Egli morì in Rieti sua patria con istoica tranquillità. Sentendosi svenire si burlava della apoteosi dicendo: «Ora parmi di diventar dio». Furono al di lui funerale, giusta l’usanza, i mimi che solevano rappresentare il carattere, e per fino i gesti del morto. Favore Archimimo fece in tale occasione la parte di Vespasiano; dimandò in una scena quanto costasse la sua pompa funebre; rispostogli da un altro attore che la spesa ascendeva a due milioni, «Eh», rispose Favore, «risparmiamoli: datemi cento mila scudi, e gettate il mio cadavere nel Tebro».[250] Prova non poca libertà il parlar così in pubblico di un imperatore. Quanto gli fa torto l’avarizia ch’è qui ripresa, altrettanto fa onore al suo governo questa licenza. Se egli fosse stato un tiranno non si avrebbe ardito di parlarne con sì poco riguardo. Essi sono temuti anche morti.

Tito, di lui figlio, fu chiamato la delizia del genere umano. Poco ei regnò, e poco di lui parlano le storie per potere esaminare se meritasse il più glorioso titolo a cui possa aspirare un uomo. Non basta per ottenerlo alcun detto clemente. Credeva molto agli auguri, e nel fine della sua vita fu di una eccessiva pusilanimità perchè ne vide di funesti. Nissuna grandezza, molta dolcezza in lui. Lasciò la felicità dell’impero ove la ritrovò. Domiziano fe’ ritornare i tempi di Nerone. Il popolo, sepolto in un ozio profondo ricevendo il pane dalla liberalità degl’imperatori, d’altro non era occupato che di feste, giuochi, spettacoli. Le confische degli opulenti fornivano l’errario per queste immense spese. Per fino le dame romane combattevano da gladiatore ne’ circhi. Ciò avvenne anche ne’ tempi di Nerone.[251] L’accusa di lesa maestà era un fondo inesauribile per la tirannia: in questi tempi, dice Plinio nel Panegirico di Traiano, «il delitto di lesa maestà era quello di chi altri non ne avesse». Giulio Agricola, la di cui vita scrisse Tacito con sì filosofica penna, dopo varie conquiste in Inghilterra finì i suoi giorni in una vita tranquilla ed oscura. Altro scampo egli non ebbe all’odiato suo merito. Se quel grand’uomo fosse vissuto a’ tempi degli Antonini, con un Tacito che scrivesse le cose sue, ei sarebbe uno de’ più famosi.

Mentre che i Daci, i Germani, i Marcommanni rompono i confini dell’impero, che fa Domiziano? Gioca ai dadi e prende le mosche. Occupazioni le più serie del signore di buona parte d’Europa. La credenza ch’egli aveva agli astrologi fu a molti funesta. Se uno di essi prediceva che taluno avrebbe insidiata la vita dell’imperatore, egli era sacrificato. Non mai questa misera impostura fu più fatale agli uomini.

Nerva, vecchio e disprezzato imperatore, scelse per suo collega Traiano, e tosto morì. Per quanto sospette sieno le lodi di cui Plinio ricolma Traiano nel suo Panegirico fatto per ordine del Senato, pure la storia ce lo dipinge come un grand’uomo. Fu una disgrazia comune a’ suoi antecessori l’aver mogli che sconvolgevano lo stato cogli amori e colla ambizione. Traiano ebbe in Pompea Plotina una imperatrice non d’altro emula che della sua virtù. Traiano fatto console giurò nella pubblica piazza d’osservare le leggi. Ordinò che ne’ voti che si facevano per la salvezza dell’imperatore si aggiun­gesse: «Purchè egli conservi saggiamente la Repubblica, e procuri la felicità di tutti». Nel creare il prefetto del pretorio, porgendogli, secondo il costume, la spada, disse: «Prendi questo ferro per valertene in mia difesa se rettamente governerò, contro di me se malamente». Il più dolce governo è quello di un dispotico, illuminato e virtuoso principe. Ei fa sempre ciò che deve, e non ritrova ostacoli. Quello che Traiano disse pubblicamente sarebbe in bocca di un privato una sediziosa dottrina, anzi un delitto di Stato. Per altro, ben lungi di esser state quelle massime pericolose alla di lui sicurezza, fu adorato da’ sudditi, ed alla sua morte le di lui ceneri furono accolte in Roma con un pianto universale. Parea che ognuno avesse perduto il suo buon padre. Tributo di lui degno, da lui meritato; voti sinceri perchè un popolo intiero non può simulare.

Adriano fu un misto di contraddizioni. Clemenza, crudeltà, amor delle lettere furono in lui, nè sai di tai cose quale più. Die’ ricovero a’ migliori letterati de’ suoi tempi, abolì il barbaro diritto di morte contro i servi, fondò l’Ateneo in Roma, cioè la prima università che vi si instruisse. Le latine e greche lettere erano tutto ciò che vi si insegnava, ma era tutto ciò che si sapeva. Fin’ora di pubblici studi non ve n’erano stati. I maestri davano lezione nelle case private che chiamavansi pergole. Chi crede­rebbe che quest’istesso imperatore avesse fatto uccidere l’architetto Apolodoro per avergli criticato un tempio fatto da lui fabbricare,[252] e che avendo poco prima di spirare ordinata la morte di varie persone facesse di poi questi versi?

«Animula, vagula, blandula
hospes, comesque corporis
quae nunc abibis in loca
pallidula, rigida, nudula
nec ut soles dabit iocos».[253]

La tranquillità in cui si visse regnando Antonino il Pio non fornì molti fatti agli storici, i quali più sogliono parlare della miseria, che della felicità delle nazioni. Si ritrovò chi insidiasse alla vita di un così buon principe. Furono esiliati i congiurati, ed il Senato facendo istanza perchè se ne cercassero i compagni, rispose l’imperatore «che non era bene il far di più, non desiderando egli di scoprire quanti l’odiassero». Se Antonino avesse delle guerre lo giudichino gli eruditi. Capitolino, che scrisse la di lui vita, dice che n’ebbe di molte.[254] Aurelio Vittore asserisce che non se ne fece alcuna.[255] Questo imperatore concesse la cittadinanza romana a tutte le città dell’imperio.[256] In tal guisa si abolirono i privilegi suoi. Avendoli tutti non gli ebbe realmente alcuno.

Marco Aurelio avverrò il detto di Platone che «sarebbero felici gli uomini se regnassero i filosofi». I suoi scritti meritano di essere il catechismo de’ principi. Si consolano gli uomini della distanza che gli divide dal sovrano, udendolo dall’alto suo seggio dar lezioni di umanità e di beneficenza. In tali opere non si richiede precisione e novità per riuscire, basta che vi sia l’entusiasmo della virtù; pare che in esse si accresca l’autorità alla ragione.

Fu attribuita una vittoria che riportò quest’imperatore su i Germani alle preghiere de’ cristiani militanti nella sua armata. Una legione di essi, detta la Melitina, mentre stavasi per dar la battaglia si pose tutta in ginocchio pregando Iddio, e tosto ne avvenne che caddero infiniti fulmini contro gl’inimici, i quali furono dispersi, e nell’esercito de’ Romani cadde una dirotta pioggia colla quale si ristorarono della sete che gli avea ridotti agli estremi.[257] Gli scrittori pagani attribuirono concordemente questo miracolo a M. Aurelio.[258] Non è del nostro instituto il provare come l’essere eterno si degnasse di aiutare colla sua mano onnipossente le vittorie degli adoratori d’Antinoo e di Venere, e’ persecutori suoi, senza che facesse un solo proselita tanto prodigio. È stata così dottamente chiusa la via al coraggio dagli indiscreti, che altro non rimane, se non se di guardarsi di non esser ascritto nel loro numero. Per altro sembra opposto alle massime de’ cristiani d’allora ed alle frequenti persecuzioni, delle quali vi sono tante querele negli autori nostri, l’esservi nell’esercito una legione di cristiani. Teofilo nel suo trattato ad Autolico[259] dice essere massima de’ cristiani di non assistere a’ spettacoli de’ gladiatori per non farsi complici di quelle stragi, di non andare a’ teatri ed a nessuna sorte di pubblici spettacoli. Quest’autore vivea i tai tempi. Tertuliano nella sua Apologia dice:[260] «Non saremmo noi atti alla guerra, anche a forze eguali, noi che ci facciamo ammazzare così volontieri, se non fosse una delle nostre massime di soffrire la morte piuttosto che di darla altrui». Troviamo esempi che confermano come fosse ricevuta questa massima. S. Massimiliano, riportano gli Atti Sinceri, scusossi dall’esser soldato dicendo che ciò non gli era permesso essendo cristiano. S. Marcello rinunciò pubblicamente alla milizia, e condotto in giudizio disse non dovere un cristiano militare per altri che per Gesù Cristo. S. Taraco condotto per l’istessa ragione avanti del governatore di Cilicia Numeriano Massimo, e interrogato di qual condi­zione ei fosse, rispose: «La mia condizione è militare, la mia famiglia è romana, e perchè io sono cristiano ho lasciato il servizio militare».[261] Lo spirito adunque della Chiesa in que’ tempi sembra che fosse quello del ritiro, della lontananza dagli affari, anzichè compatibile col sanguinoso mestier dell’armi. In oltre, se erano perseguitati i cristiani, se erano odiati e disprezzati, come vi potea essere una legione intiera di essi nell’armata imperiale? Questi fatti possono forse meritare qualche considerazione.

Comodo non ebbe altro di comune con suo padre Marc’Aurelio che il nome d’imperatore. Uomo timido, sospettoso e mentecatto, stette racchiuso nel suo palazzo tra le concubine, che fa montare Lampridio sino a trecento,[262] combattendo in questo ritiro co’ gladiatori e colle fiere.[263] Quest’era l’unico mestiere ch’ei facesse bene, lasciando la cura dell’imperio a’ prefetti del pretorio, i quali colle confische provve­devano sè e l’imbecille lor principe di immense ricchezze. Lampridio si prese cura di fare un lungo catalogo delle di lui crudeli follie. Intanto che la storia lo dipinge un mostro, le medaglie aveano per iscrizione publica felicitas. Egli era in oltre chiamato il Pio. Uno strano esempio di pietà fu quello che diede portando in processione la statua d’Anubi nella festa d’Iside.[264] Con questa andava percuotendo fortemente le teste de’ preti che gli erano vicini, e per compimento di pietà obbligò i sacerdoti a battersi per lungo tempo il petto colle pigne che tenevano in mano, della quale mortificazione molto ne soffrirono. Scena ridicola, se la pazzia di chi ha la coscienza di nuocere potesse esser ridicola!

Elvio Pertinace accettò suo mal grado l’impero, divenuto una carica pericolosa.[265] Fu ucciso dopo ottantasette giorni di regno. Giuliano il giureconsulto comprò all’in­canto l’impero; fu condannato dal Senato al taglio della testa come usurpatore. Pescennio Negro fu imperatore in Soria per un momento. Albino in Inghilterra tentò la stessa impresa colla stessa fortuna. Tutto cedè a Severo che sopranotò alla tempesta. Uomo pieno di ferocia, di valore e di ostinazione. Egli rinnovò il flagello delle proscri­zioni, facendo uccidere tutti coloro ch’erano stati del partito di Albino.[266] Questo altierissimo uomo che morendo in Yorch diceva della sua urna: «In te capirà un uomo a capir cui non era bastevole il mondo intero», fu signoreggiato da Plauziano, crudele e orgoglioso ministro, come lo fu Tiberio da Seiano. Quando andava il ministro per la città, mandava ad ordinare a tutti che tenessero gli occhi bassi. Uno de’ tanti strani fatti che narrano gli autori di questo tempo. Fece castrare, malgrado le leggi romane, cento cittadini[267] per servire di eunuchi a Plautilla sua figlia maritata. Ciò basti per darci una idea di lui e de’ suoi tempi.

Caracalla figlio di Severo avea più volte insidiato alla vita del padre inutilmente. Giunto al comando collo stesso spirito di domestica distruzione fe’ uccidere la moglie Plautilla ed il fratello Geta in braccio della stessa madre Giulia, il di cui grembo non gli fu d’asilo.[268] Corse di poi ad adorare gl’idoli rendendo grazie agli dei d’esser scampato da un gravissimo pericolo; ei fe’ perire ventimila cittadini, al dir di Dione,[269] allora senatore.

Eliogabalo stancò la sofferenza del popolo e de’ soldati. Da sacerdote del sole in Soria divenne imperatore in età d’anni quattordeci. A lui cedè Macrino prefetto del pretorio imperatore di pochi mesi. Giulia Soemia madre d’Eliogabalo si pose a sedere in Senato, ed un Senato di donne fu eletto nel monte Quirinale. Quest’è quanto di ridicolo ha il suo regno. Ciò che vi fu di crudele è il sacrifizio al Sole di molti giovani nobili scelti per tutta l’Italia, e scannati.[270] La crudeltà unita alla pazzia è il carattere de’ tiranni che formano questa storia. Ella è divenuta noiosa per un tristo motivo, per la frequenza delle istesse atrocità. Le vite di Nerone, di Caligola, di Domiziano, di Comodo, di Caracalla e di Eliogabalo sono in sostanza l’istessa cosa.

Alessandro fatto imperatore ad anni dieciotto nodriva diecimila uccelli; e la madre Giulia Mammea con un consiglio di giurisconsulti regnava per lui.[271] Furono proibite le usure; fu vietato che le donne andassero al bagno cogli uomini, e pensossi per fine a vestire diversamente i vari ordini de’ cittadini. Leggi da giurisperiti, e non da legislatori. Era in uso il dazio delle meretrici, de’ ruffiani e de’ garzoni. Si vollero bandire questi ultimi, ma si ritrovarono tanti contraddicenti, che si desistè dalla impresa.

Alessandro per altro fatto maggiore fu un imperatore distinto fra i militari. Egli trionfò del re di Persia Artaserse.[272]

Da quanto si è veduto sin ora si potrà conoscere che in questi due secoli e mezzo dopo d’Augusto, l’impero romano fu come una vasta mole senza grandi rivoluzioni, la quale non per altro si reggeva che per la propria vastità, e stava per il suo peso. La vita degl’imperatori si è tutto il materiale di questa storia. Svetonio, Dione e Tacito non ci trasmisero di più. Tali dovevan esere necessariamente gli annali di un dispotico impero. Le brighe del palazzo del principe, i suoi amori, i suoi costumi, le sue crudeltà, alcune guerre, le continue sollevazioni ne formano tutta la materia. Il restante della nazione non somministra molto a dire. Dove un uomo è tutto, ed i popoli sono niente, che può scriversi di loro? Monumenti di arti o di lettere tu cerchi in vano in tai governi. Tutt’al più magnificenza nelle opere pubbliche e negli spettacoli. Queste sono le arti sole che stieno col dispotismo. Le sette de’ greci filosofi furono sotto gl’imperatori o protette o perseguitate, non mai trascurate. Caligola, Claudio, Nerone, Domiziano scacciarono i filosofi da tutto l’impero. Traiano, Adriano e gli Antonini onorarono la filosofia. Non erano indifferenti questi settari al dispotismo. Gli stoici erano uomini che predicavano la libertà ed il disprezzo della morte; i cinici non aveano difficoltà di riprendere la tirannia in faccia degli stessi tiranni. Fra i filosofi che fecero gran strepito in Roma, fu, a’ tempi di Nerone, il celebre Appollonio da Tiene, città della Cappadocia. Egli era un impostore, quanto Filostrato che scrisse la sua vita. Ella è piena di miracoli. Credesi che fosse compilata per opporla a quella di Gesù Cristo al fine di dar a dividere che Appollonio avea fatti più miracoli che lui.

I confini del romano impero restarono immobili come ogni cosa, malgrado le guerre continue co’ Germani e co’ Parti. Traiano colle sue conquiste fu l’imperatore che possedesse la massima estensione dell’impero. Ma Adriano suo successore le perdè, onde non fu che momentaneo il cangiamento de’ confini. Un letargo universale facea simile questo vasto regno a quelle spaziose paludi le di cui acque marciscono nella quiete. I buoni imperatori non poterono far tanto bene quanto male, nè aveano fatto i cattivi. La disciplina militare fu sbandita. Le imprese degli eserciti erano di creare e di uccidere gli imperatori. I congiuri ed i spettacoli facevano dimenticare al popolo la passata grandezza, la tirannia presente.

Capo X. Delle incursioni de’ popoli settentrionali e degl’imperatori sino a Costantino.

Questa vasta nazione si sfrantumò per una quasi dissoluzione di se stessa. Massimino, i tre Gordiani, Puppieno, Balbino, i due Filippi, Decio si contrastarono l’im­perio; più non si sapeva chi fosse l’imperatore. Se ne contarono fino a trenta a’ tempi dell’imperator Gallieno.[273] Non diam peso alla memoria dei nomi di oscuri uomini, in un mese, in un giorno alzati al trono, e da quello precipitati. Notizie preziose per i raccoglitori di medaglie, inutili per chi studia gli annali del genere umano, non colla memoria ma coll’ingegno.

Lo sfracello di questo gran corpo aprì per così dire buchi in ogni parte alle genti settentrionali. Se da prima esercitarono tal volta l’armi romane, ora al tempo di Triboniano Gallo, cioè alla metà del terzo secolo, quasi che fosser rotti gli argini ad un torrente inondatore, devastarono l’impero con una terribile irruzione. L’avrebbero conquistato in un momento, se fosser stati popoli conquistatori e non saccheggiatori. La lor guerra non consisteva in altro che in far rapide scorrerie, e ritornarsene carichi di preda. Sciti, Germani, Persiani, vaste e bellicose nazioni, saccheggiavano l’Europa, nè ritrovavano resistenza. Gli Sciti arrivarono sino alle vicinanze di Roma.[274] Gli Alemanni sino al Lago di Garda nel Veronese.[275]

«Le violenze de’ Romani avevano fatto ritirare i popoli del Mezzodì al Nord», dice il signor di Montesquieu;[276] «finchè susistè la forza che gli riteneva vi si fermarono, quand’ella fu indebolita, rigurgitarono da tutte le parti; ecco a che si riduce la famosa questione, perchè il nord non è più così popolato come anticamente». È degna di qualche obbiezione sì grande autorità.

Non credo famosa la questione perchè il Nord non è più così popolato come lo era anticamente? Egli non lo è, perchè immense emigrazioni vennero verso il mezzodì. È bensì famosa la questione perchè queste emigrazioni succedessero? Quel gran filosofo, i di cui errori istessi fanno più pensare che non le verità degli uomini mediocri, sembra avere posta una grande immagine della verità in vece di lui. Quando mai i Romani fecero fuggir le nazioni avanti di sè, essi il di cui costante sistema era di vincerle per averle socie ed ausiliarie? In qual modo cacciarono ed addensarono, per dir così, le nazioni nel Settentrione, se pochissimo avanzarono verso quelle parti? Ebbero stabilimenti in Inghilterra, ma non mai tutta quell’isola. Non la conobbero che tardi, e nella loro decadenza, nè andarono più oltre. Dalla parte della Germania non anda­rono le loro conquiste al di là del Danubio e dell’Elba, ove Tiberio giunse il primo. Le meno grandi conquiste furono verso il Polo. Buona parte d’Inghilterra, le Spagne, le Gallie, le coste d’Affrica, l’Egitto e le sue vicinanze, l’Asia Minore, la Grecia coll’Italia ed un tratto della Germania formavano la forse un po’ troppo vantata grandezza dell’imperio. Tali furono le conquiste romane. Ma qual di questi popoli si ricovrò nel Settentrione? Gli Sciti, i Goti, i Vandali e cento altre nazioni, della di cui origine ed istoria ne sappiamo pochissimo, saranno adunque stati popoli fuggenti avanti le vittorie de’ Romani, s’eglino non le conobbero, e se anzi le genti che sole sieno state sempre terribili a Roma furono le settentrionali? Se le violenze de’ Romani doveano produrre delle emigrazioni, non doveano mai spingerle al Settentrione. I popoli delle coste d’Affrica doveano internarsi nell’Affrica istessa, que’ dell’Asia andar verso le Indie orientali, que’ della Grecia ricovrarsi nel cuore dell’Asia; e perciò il rigurgito loro da queste parti non dal Nord doveva farsi.

Egli è più probabile che qualche fenomeno, cui di tempo in tempo soggiace il globo, cagionasse queste irruzioni. La prima fu a’ tempi di Mario. Qual ne fu l’origine? I Cimbri, i Teutoni ed i Tigurini, dice Floro: «quum terras eorum inundasset oceanus novas sedes toto orbe quaerebant».[277] Esclusi dalle Gallie e dalla Spagna cercarono al Senato regioni d’abitare. Non è adunque troppo coraggiosa congettura l’attribuire alle innondazioni dell’oceano l’origine di queste emigrazioni. Il mare va anche attualmente guadagnato da quelle parti. La dolcezza de’ climi meridionali, in paragone del rigido cielo del Nord, la facilità di trasportarsi dall’uno all’altro paese che avevano popoli cacciatori e viventi nelle caverne, nelle capanne, sotto le tende più in truppe che in nazioni unite, sui carri portando loro famiglie e patrimoni, produssero l’immensità e la continuazione di tali irruzioni. Di esse ne ritrovo cinque grandi nel globo. La prima dopo la distruzione di Troia. Sia questa una favola, od una storia, egli è certo che in molte parti d’Italia, di Grecia, della Gallia ed altrove troviamo varie città che attribuivano la loro fondazione a popolazioni venute dall’eccidio di Troia. Una co­stante, universale ed indipendente tradizione deve avere un principio comune di verità. La seconda è questa de’ Settentrionali. La terza de’ Saraceni, la quarta delle crociate, l’ultima in America. Delle due prime se ne sospettano le cagioni, le ultime tre ebber ciò di comune, di portar coll’armi alla mano la religione.

Chi vuol trovare il più infelice uomo dell’imperio in questi tempi, cerchi l’impe­ratore. Gallieno vedea squarciati i suoi Stati da mille piccoli tiranni, e dovea sostenere l’impeto de’ Settentrionali. Intanto Valeriano suo padre fatto prigioniere da Sapore re de’ Parti serviva di sgabello al vincitore per montare a cavallo. Quest’era l’ufficio de’ servi in quel paese, e Valeriano lo fece tutta la sua vita.[278] Dopo morte scorticato, la sua pelle fu esposta in un tempio, e soleva mostrarsi agli ambasciatori romani.[279]

Claudio secondo ed Aureliano riunirono in poco tempo le membra dissipate di un vastissimo corpo, e dispersero le barbare nazioni. Claudio in poco più di due anni di regno sconfisse Aureolo a Pontirolo.[280] Dall’Italia respinse gli Alemanni,[281] e trecentoventimila[282] Goti, venuti dal Mar Nero, sconfisse in una battaglia campale nell’alta Mesia. Pochi si salvarono.

Aureliano con una simile battaglia esterminò nelle campagne di Pavia una im­mensa moltitudine di Svevi, Sarmati e Marcomanni.[283] Poi ricuperò le Spagne e la Gallia da Tetrico, che le avea conquistate, e vinse Zenobia che dallo stretto di Costan­tinopoli sino a tutto l’Egitto aveva steso il suo regno; son queste imprese di tre anni di governo.[284] Se il caso ed i tempi avessero men parte nell’assegnare il posto che devono occupare gli uomini nella storia, quai più gran generali di questi i di cui nomi non sanno che gli eruditi? Belisario e Narsete son celebri per aver scacciati i Goti d’Italia in dieci anni di guerra, Mario per aver respinto i Cimbri, Camillo i Galli; Claudio ed Aureliano si opposero ad immense nazioni, diedero battaglie campali le maggiori che insanguinassero il globo, e non sono messi che da alcuni poco conosciuti scrittori in quell’ammmirato e triste ruolo de’ grandi uomini di guerra?

Queste imprese prepararono quella pace che si godè pochi anni dopo a’ tempi dell’imperatore Probo, e misero in istato l’Europa di sostenere ancor più di un secolo l’urto delle nazioni. Caro, Numeriano, Carino, Valente sono imperatori dei quali poco più ne sappiamo che il nome.

Diocleziano dopo di loro scelse per dimora l’oriente per chiudere il varco alle settentrionali nazioni. Non più da que’ confini poteva esser lontana la capitale. Ivi era il teatro di guerra. Perciò egli in Antiochia, poi Costantino in Bizanzo si stabilirono. Non bisogna in ciò ripetere le doglianze che facevano i Romani. Essi non potevano approvare un trasporto che li rendeva città di provincia.

Era troppo vasto e tumultuoso l’impero per esser posseduto da un solo. Perciò solevasi associare un figlio adottivo che chiamavasi Cesare, a differenza dell’imperatore, cui davasi il titolo di Augusto. Questi Cesari erano come oggidì il re de’ Romani. Diocleziano divise in quattro parti l’impero con Costanzo, Galerio e Massiminiano. Questi ebbe l’Italia.[285] Si accrebbero ad ismisura i tributi per mantenere quattro armate e quattro imperatori. L’Italia, che per lo addietro non era obbligata che a somministrare i viveri alla corte ed alle milizie del suo seguito, cominciò a pagare i tributi egualmente che le altre provincie. Diocleziano ed i suoi colleghi «opprimendo con enormissime imposte i sudditi», dice Eusebio,[286] «lor rendevano più insoppor­tabile la vita di qualunque morte». Non troviamo in tai tempi molti suicidi. Nulla di più contrario alla verità che l’attribuire a Diocleziano la persecuzione che Galerio mosse contro de’ cristiani. Anzi egli lor fece quanta difesa puotè, dicendo ch’era pericolosa impresa il turbare lo Stato con simili persecuzioni.[287] I cristiani avevano un tempio in faccia del palazzo imperiale in Nicomedia. Galerio volea proceder contro di loro con violenza, Diocleziano impedì che si spargesse il lor sangue.

Deve, in oltre, fisarsi il principio della persecuzione non al primo anno del regno di Diocleziano, ma al ventesimo. Essa durò dieci anni, secondo Eusebio,[288] dopo de’ quali gl’imperatori fecero degli editti favorevoli a’ cristiani.

Rinunciarono Diocleziano e Massiminiano al trono. Aurelio Vittore, Eutropio ed altri dicono che lo fecero per grandezza d’animo; Eusebio e Lattanzio per istupidità. Contradizioni frequenti in questi secoli, in cui la storia ha sempre due partiti. Noi sì lontani di tempo, troppo timidi o prudenti, crederemo le lodi che danno i cristiani a’ pagani, e questi a quelli, ed il biasimo che ciascuni faranno a que’ di loro religione. Quest’è la sola via che rimane per cogliere la verità entro la folla delle passioni.

Diocleziano visse tranquillamente il rimanente de’ suoi giorni in Salona. Massiminiano alla prima occasione riprese il regno. Gliela presentò il figlio Massenzio che si era fatto proclamare imperatore in Roma. Da lui invitato a regnare, vi andò. Corri­spose a sì generosa offerta col insidiargli la vita.

Diocleziano, eccitato più volte a riassumere il governo, rispondeva: «Se vedeste qui in Salona gli erbaggi coltivati dalla nostra mano non ci dareste tal consiglio! Niente è tanto difficile come ben regnare. Anche un buono, un prudente, un ottimo imperatore è ingannato».[289] Egli aborriva il regnare come «la peste», dice Aurelio Vittore.[290]

Libanio e Giuliano colmarono di elogi quest’imperatore; Aurelio Vittore ne parla come di un principe cui non mancava nessuna virtù. Ammiano Marcellino, benchè non lasci i suoi difetti, lo dipinge come un ottimo imperatore; le di lui leggi, che abbiamo nel Codice romano, confermano queste lodi. Eusebio gli fa il carattere di un pazzo furioso.

Capo XI. Di Costantino e’ seguenti imperatori sino a Teodosio il grande.

Costantino era figlio di Costanzo. Tribuno de’ soldati, si fece proclamare impera­tore in Inghilterra. Licinio suo cognato, Massenzio e Massimino dividevano l’impero con lui. Massenzio fu vinto al celebre ponte molle ove si affogò. Massimino morì d’una terribile malattia, attribuita ai castighi celesti. Egli è dipinto da’ nostri scrittori come un atroce persecutore. È strano dopo questa imputazione il ritrovare il di lui nome sottoscritto a tutte le leggi che si promulgarono in favore del cristianesimo da’ suoi colleghi. Dopo la di lui morte Licinio esterminò tutta la sua famiglia. Fe’ gettare la sua moglie nel fiume Oronte e fe’ uccidere i due suoi figli, l’uno di anni otto, l’altro di sette.[291] «Così Dio, dice Lattanzio, debellò i suoi persecutori». Licinio, ch’è detto lo stromento dell’ira di Dio contro dell’infedele Massimino, era egli stesso idolatra; portava gl’idoli nella testa delle sue armate[292] e morì pagano.

Si disputarono il regno Licinio e Costantino rimasti soli. Licinio vinto si abban­donò alla fede di Costantino, il quale dopo di avere giurato di conservargli la vita lo fece strangolare, e molti uffiziali e ministri suoi tolse di vita. [293] In tal guisa ottenne l’impero.

Fu nell’anno 313 che Costantino pubblicò in Milano il celebre editto in favor de’ cristiani. Non fu per altro il primo. Galerio due anni avanti avea fatto lo stesso.[294] Consistevano entrambi nella sola tolleranza della religione cristiana, non già nel proi­bir la pagana. «Io ho pubblicato, dice Costantino al preside di Bittinia, il mio editto in Milano: ut daremus, et cristianismi et omnibus, liberam potestatem sequendi religionem quam quisque voluisset».[295]

Non è ben fisato dove vedesse quest’imperatore il celebre prodigio di una croce sovra imposta al sole. Di tanti panegirici che ci rimangono di Costantino, in nessuno troviamo questo fatto. Eutropio, Sesto Vittore, Zozimo non ne parlano. Lattanzio contemporaneo altro non dice, se non se Costantino ebbe una visione in sogno. Eusebio è il solo che rapporti questo prodigio. Non cita altri testimoni che Costantino istesso dal quale scrive di averlo saputo. Con tal prova, chi ne può dubitare, dic’egli? Lo stesso autore fu di un’indifferenza veramente prodigiosa nel trascurare di darci notizia del luogo dove un così insigne miracolo avvenisse. Andava, ei dice, Costantino «non so dove».[296]

Quest’imperatore si oppose apertamente agli usi, alle leggi, al sistema del romano governo. Giuliano lo chiamò novatore e perturbatore delle antiche instituzioni. Limitò la podestà de’ padroni verso de’ servi in ciò che concerne le pene afflittive del corpo.[297] Introdusse nuove forme di manomissioni. Ordinò che bastasse, senza le antiche forma­lità, il dichiarar libero uno schiavo in chiesa alla presenza de’ sacerdoti[298] cristiani. Abolì le pene che le leggi romane aveano imposte al celibato.[299] Egli fu atroce legislatore per conservare la castità, lo che per i Romani non era uno de’ soggetti più importanti di legislatura. Condannò ad essere abbruciato chi rapisse una vergine anche col di lei consenso; anzi in tal caso dispose che la rapita, egualmente che il rapitore, fosse punita. Dispose poi che se le nutrici fossero complici di questi rapimenti, col far da mediatrici, od intromettersi in qualunque maniera in questo misfatto, fosse loro versato in bocca piombo liquefatto perchè così venisse turato quel buco ond’erano escite le nefarie persuasioni.[300] Concesse alla Chiesa la facoltà di acquistare per testamento,[301] la qual legge fu l’origine delle sue ricchezze. Sembra che quest’imperatore si proponesse di mutare ancor più che di riformare tutto l’antico sistema. Abolì per fino le procedure e le formole giudiziarie instituendone di nuove. Cangiò i nomi delle dignità sia nelle magistrature, sia nella milizia. Tutto si abbracciava colla religione nel governo romano. Bisognava adunque per distruggerla annientare tutti gli oggetti sensibili che in qualche maniera le appartenessero.

Non so perchè Costantino proibisse il crudele spettacolo de’ gladiatori.[302] Egli era quell’uomo istesso che nelle guerre ch’ebbe co’ Franchi si compiacque di esporre alle fiere i più illustri prigionieri di quella nazione nelle magnifiche feste che celebrò per le sue vittorie.[303]

Egli è quel legislatore che fe’ uccidere il suo figlio Crispo su false accuse fattele dalla imperadrice Fausta sua madrigna. Essa odiavalo. Lo accusò di aver tentato incesto con lei; Costantino senza prove o forma di giudizio lo condannò a morte, giovane pien di valore e d’innocenza. Poi dopo punì Fausta d’aver calunniato un suo figlio col farla soffocare in un bagno ardente. Molti di lei amici furono in quella occasione suppliziati, non si sa di che colpevoli. Si vociferò per esser stati complici delle sue disolutezze. Licinio, figlio del già ucciso, fu anch’egli tolto di vita. Ei non avea che undici anni. Non fa bisogno di dire che fosse innocente. Il suo delitto era la sfortuna di suo padre. Queste sono macchie al regno di Costantino che le storie provano e l’umanità non può difendere. Ablavo, ministro in sua corte, paragonava il suo regno a quello di Nerone.[304]

Tutti ripetono che Costantino fosse cristiano. Sappiamo ch’egli disprezzava il culto degl’idoli apertamente. Lo che reselo così odioso in Roma che vi fu caricato di strapazzi e di maledizioni da ogni sorta di persone.[305] Ciò forse contribuì a farli trasportare la sede in Bizanzo. Teodoreto scrive ch’egli fe’ chiudere i templi degl’idoli, e trovò che nelle leggi si dimostrava idolatra. «Se il fulmine, dice in un suo editto Costantino, cadrà nel nostro palazzo, od in qualunque pubblico edilizio, si cerchi dagli aruspici, seguendo l’antica usanza, ciò che tal portento significhi, e ci venga comuni­cata la risposta in iscritto; così ancora diamo licenza a ciascuno di mettere in pratica questa consuetudine».[306] L’editto è indirizzato a Massimo prefetto di Roma. È pubbli­cato otto anni dopo la sua conversione. Ciò conferma quanto dice Zozimo,[307] cioè che quando Costantino fu solo a regnare usava ancora i patri riti, d’onde ne veniva che avesse gran fede agli aruspici. Quest’imperatore scriveva al prefetto di Bittinia di aver concessa la tolleranza alla religione cristiana; «acciocchè la somma Divinità, la di cui religione con libero cuore veneriamo, ci presti il suo solito valore e benevolenza, in tutte le nostre imprese».[308] Qui non si scorge che un uomo la di cui religione consiste in adorare la somma Divinità. Egli promulgò leggi favorevoli agli Ebrei, dando esen­zioni a chi era destinato al servizio delle sinagoghe.[309]

È noto quanti fossero a’ suoi tempi i torbidi nella Chiesa d’Oriente fra Ario che negava la divinità di Gesù Cristo ed i SS. Anastasio ed Alessandro. Costantino volle assistere al Concilio di Nicea, dove si esaminò la dottrina di Ario. Ivi mostrossi niente informato della questione. Ordinò di poi due concili, l’uno in Tiro, l’altro in Gerusa­lemme. Il risultato de’ quali fu che in quello di Tiro fu deposto l’arcivescovo S. At­tanasio, ed in quello di Gerusalemme Ario fu ammesso alla comunione della Chiesa. Anastasio portossi dall’imperatore per arringare la propria causa ed egli lo rilegò nelle Gallie. Costantino, per altro, si prendeva leggier briga di sì fatta controversia, e nel maggior calore di esse fra Ario ed Alessandro scrisse ad entrambi perchè ormai si tacessero, trattando la questione da frivola, e da disputa di oziosi.[310] Si fe’ battezzare in Nicomedia da Eusebio vescovo di quella città, ed ariano. Se fosse prima catecumeno non si sa. Non è adunque facile lo stabilire quai dogmi formassero la religione di Costantino.

Fu un gran colpo che diede quest’imperatore alle autorità de’ prefetti del pretorio il farne quattro di due ch’essi erano. Tutto l’impero era loro confidato. Egli non solo ne creò quattro, ma divise in quattro provincie lo Stato, assegnandone a ciascheduno una sola di esse.[311] La immensa autorità di quel magistrato, necessario e terribile al dispotismo, fu quasi annientata con questa instituzione.

Si attribuisce a Costantino il periodo della indizione. Egli è composto di quindici anni. Di tutti i sospetti che si hanno dell’origine di questa usanza il meno inverisimile parmi quello del Cardinal Baronio. Egli crede che quest’imperatore riducesse a quin­dici anni il tempo del servizio militare che prima era di sedeci; che però dopo tal tempo, imponendosi un tributo straordinario per pagare i soldati che si licenziavano, dal verbo latino indicere tributum venisse il nome dell’indizione.

Per quante macchie abbia il carattere di Costantino, non gli si possono negare delle grandi qualità. I pagani istessi gliele accordavano. Ve ne vogliono di grandi per aspirare ad un vasto imperio essendo tribuno di una legione, per vincere tre emuli, rovesciare un sistema, far delle grandi guerre con buon successo; ma anche gl’illustri vizi fanno queste imprese.

L’arianismo si diffuse in un tratto sì in Oriente che in Occidente. In Oriente anche più. Alessandria, Antiochia e tutte le principali chiese vennero occupate da vescovi ariani. Egli era il partito preponderante.

Costante e Costanzo figli di Costantino proibirono il culto degl’idoli sotto pena di morte.[312] I Germani, i Sarmati, i Persiani saccheggiavano nello stesso tempo i confini dell’imperio.

L’imperator d’Occidente era Costanzo. Egli associò al governo suo figlio Giu­liano.

Giuliano fu spedito contro de’ Germani che saccheggiavano le Gallie. Gli scon­fisse ed arrivò a Parigi, il di cui nome comincia in tai tempi a sorgere nelle storie. Consisteva in un castello riposto nell’isola della Senna. Costanzo fu ben tosto geloso della gloria di suo figlio. Egli era un grand’uomo in guerra amatissimo da’ suoi soldati. Quali demeriti per il sempre timido dispotismo! Fu richiamata buona parte del suo esercito sotto pretesto di opporla a’ Persiani. I soldati non vollero partire, ed invece proclamarono Giuliano imperatore. Egli si oppose a questa ribellione, ma si arrese perchè il minacciavano di morte.[313]

Non è meraviglia che quest’imperatore non accettasse la nuova religione, ma seguitasse l’antica. Egli non era mai stato cristiano nel fondo del suo cuore. Sembra che fosse idolatra di persuasione. Gli storici tutti si accordano nel dipingerlo come superstizioso nella sua religione.

Il paganesimo, quantunque proibito con pene di morte, era forse tuttavia la religione dominante. I principali di Roma e quasi tutti i senatori lo seguivano.

L’armata di Giuliano era composta di Batavi e di Celti, nazioni gentili. Essi l’aveano fatto imperatore, potevano anco disfarlo. Avrebbe per lo meno perduto questo principal suo appoggio se non fosse stato della loro religione. Se qualche motivo di politica ebbe Giuliano nel dichiararsi apertamente idolatra fu questo per avventura. Inoltre le brighe, le dissenzioni, le violenze degli uomini screditavano l’opera di Dio.

Non può opporsi nulla di ragionevole al carattere di questo principe. Uomo di una durissima vita militare, pur d’animo buono; d’incorrotti costumi, pure umano; amante delle lettere, attaccatissimo alla sua religione, pur tollerante del cristianesimo.

Si rapportano de’ martiri in questi tempi. Alcuni abbattevano le are degl’idoli ed ingiuriavano per fino personalmente lo stesso imperatore. Fuori di tai casi non trovo puniti i cristiani, anzi Giuliano richiamò dall’esilio i vescovi banditi da Costanzo.

La stessa tolleranza seguitò dopo di lui Valentiniano I, imperator d’Occidente: «Unicuique», dic’egli in un suo editto,[314] «sudo animo imbibisset colendi libera facultas tributa est». Così pure Valente suo fratello, e nello stesso tempo imperatore d’Oriente, die’ la libertà a’ gentili di far pubblicamente i lor sacrifizi.[315]

I papi in Roma cominciarono a godere di qualche considerazione. Le dame principalmente troviamo che aveano un grande rispetto per quella dignità. L’imperator Costanzo, fra i vari vescovi che avea mandati in esilio perchè si opponevano all’arianesimo ch’egli favoriva, mandò ancora il pontefice Libero. Le dame romane tutte in corpo pregarono l’imperatore perchè lo richiamasse.[316]

Regnante Valentiniano vi furono delle stragi in Roma per l’elezione di un ponte­fice. Damaso ed Ursino erano i rivali in questa immagine delle guerre che Mario e Silla si eran fatte nell’istesso luogo per un vasto impero. Le zuffe furono terribili. Le chiese erano piene di cadaveri. Nella sola basilica Vaticana se ne ritrovarono in un giorno centotrentasette.[317] Damaso vinse. Questo papa sollecitava Pretestato prefetto di Roma e gentile a farsi cristiano: «Fatemi, rispose, vescovo di Roma, ch’io non vi troverò difficoltà».[318] Conviene che questa dignità fosse già meritevole di esser disputata coll’armi alla mano. Ammiano Marcellino scrive di questi tempi:[319] «Io non mi mera­viglio, considerando l’ostentazione con cui vivono (i pontefici), che si cerchi con ogni sforzo tal posto. Poichè quando l’hanno ottenuto son certi d’arricchirsi colle obblazioni delle matrone, andare in cocchio, vestire con magnificenza, e pascersi così profusamente che le mense loro superino quelle dei re».

Le obblazioni delle matrone erano così abbondanti che Valentiniano I indrizzò un editto a Damaso vescovo di Roma[320] nel quale proibiva sotto pena di morte agli ecclesiastici di andare nelle case delle vedove e delle pupille, nè di potere acquistare le loro sostanze in nessun modo. Eusebio e S. Gerolimo, lungi dal negare o scusare questi abusi, apertamente li rimproveravano. Ella è molto sincera la descrizione che fa S. Gerolimo di questi insidiatori di vedove:[321] «Alcuni pongono tutto il loro studio per sapere il nome, la casa, i costumi delle matrone. Si levano all’aurora, hanno disposte le lor visite, e questi vecchi importuni vanno per fino dentro le stanze dove ancor dormono. S’eglino vedono un guanciale, una veste elegante; se alcun’altra suppelletile che lor piaccia, lodanla, ammiranla, prendonla, e con aria dogliosa dicendo aver eglino bisogno di tal cosa, non tanto la cercano, quanto la estorquono. E tutte per tema di offenderli non si oppongono».

È degno di osservazione il matrimonio che fece Valentiniano con Giustina. Egli la prese quantunque fosse maritato con Severa, e lungi dal ripudiarla pubblicò legge in cui permetteva di aver due mogli.[322] È inutile l’avertire ch’egli era cristiano.

Graziano suo figlio e successore fu tanto persecutore della idolatria quant’egli ne era stato tollerante. Fu il primo che all’assunzione al trono ricusasse la carica di pontefice massimo. Da Cesare fino a lui tutti gl’imperatori l’aveano avuta.[323] Fece in oltre distruggere l’Ara della Vittoria che stava in Senato; sul che disputarono S. Am­brogio e Simaco prefetto di Roma, l’uno giustificando l’imperatore, l’altro portando le doglianze del Senato.

Graziano tolse ancora tutte le immunità e privilegi a’ sacerdoti gentili, e confiscò tutte le rendite destinate a’ sacrifizi.

Dividendosi l’imperio in occidentale ed orientale parve che ancora si dividessero le opinioni religiose. Vi fu sempre uno spirito di scisma fra l’una e l’altra chiesa. Teodosio primo, detto il Grande, fatto imperatore d’Oriente dopo Graziano, pubblicò ne’ suoi stati una legge colla quale obbligava tutti i suoi sudditi a professare la religione che i S.S. Pietro e Paolo avevano predicata in Roma. Egli comanda che si «creda che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una sola Deità, sotto l’istessa maestà e l’istessa pia Trinità. Chi seguirà questo dogma, ei soggiunge, si chiamerà cristiano cattolico; gli altri pazzi e deliranti che lo ricuseranno sosterranno l’infamia di esser eretici, e li puniremo secondo l’impulso del celeste nostro arbitrio».[324]

Sei anni dopo l’imperator d’ Occidente Valentiniano II, detto l’iuniore, promulgò legge in Milano in cui proibiva sotto pena di morte di fare alcuna molestia agli Ariani.[325] L’imperatrice Giustina di lui madre lo indusse a promulgarla. Ella era ariana.

Teodosio può dirsi il primo fra gl’imperatori che volesse costantemente render dominante la cristiana religione. Nessuno più di lui promulgò tante leggi per ottenere questo fine anche con quella violenza che discredita per fino la verità.

Non mancava mai in quest’imperio di torbidi e di controversie ripieno qualche ribelle. Massimo fu proclamato imperatore nelle Gallie e nella Spagna. Scese in Italia. Valentiniano fuggì in Oriente a chieder soccorso a Teodosio. Egli venne in Italia, vinse Massimo, gli fe’ tagliar la testa e fe’ uccidere il di lui figlio Vittore, benchè fanciullo. L’imbecillità di Valentiniano aperse il campo a Teodosio di patrocinarlo. Colse questa occasione per venire a Roma ed a Milano e promulgare leggi contro gli ariani.

Fu nel tempo che Teodosio dimorava in Milano, tutto intento a stabilire la religione del Dio di mansuetudine, ch’ei decretò l’orrenda strage di Tessalonica. Quel popolo sollevossi contro di Boterico comandante delle armi imperiali nell’Illirico perchè avea fatto imprigionare un pubblico auriga. Uccise tumultuariamente Boterico istesso, e vari ufficiali dell’imperatore. Il delitto di pochi fu punito con un macello universale. Quindicimila persone furono massacrate da una truppa di soldati spediti a questa carnificina; innocenti, forastieri indistintamente.

Fa onore a S. Ambrogio il suo zelo in questa occasione. Vendicò i diritti della religione e della umanità. Chiuse le porte del tempio in faccia a Teodosio come indegno d’entrarvi e lo indusse a far pubblica penitenza. Quest’arcivescovo godeva molta stima dell’imperatore ed avea gran parte negli affari di governo. Il suo zelo fu puro. Dov’altri avrebbe simulato, o fors’anche adulato, ei fu un severo censore.

Valentiniano fu strangolato per congiura diretta da Argobaste suo generale e da Eugenio gran mastro del palazzo imperiale. Eugenio si fece proclamare imperatore. Nel poco tempo del suo governo permise il pubblico esercizio della idolatria. Teodosio volle vendicare l’assassinio del suo collega. Fu sconfitto da Eugenio e si ritirò in un oratorio situato nelle Alpi. Ivi stette una notte, e raccontò poi all’esercito che aveva avuta un’apparizione di S. Filippo e S. Giovanni, i quali gli promisero la vittoria. Riattaccò Eugenio, e lo vinse. Levossi un turbine furioso nel tempo della battaglia, il quale cacciò la polvere in faccia dell’inimico. Lo che fu attribuito a miracolo, cioè a fenomeno fuori de’ confini molto noti della natura. Eugenio, legato e spogliato delle insegne imperiali, fu condotto avanti del vincitore. Teodosio ebbe la non molto generosa compiacenza di deridere il suo avvilimento, e di burlarsi della confidenza che avea avuto in Ercole per vincere. Intanto che prostrato a’ suoi piedi gli chiamava in dono la vita, interruppe le sue preghiere col fargli tagliare in quella istessa positura il capo. Argobaste fuggì, e si uccise.

È di Teodosio la famosa legge intorno a chi mormora contro l’imperatore:[326] «Se alcuno con petulanti maldicenze offenderà il nostro nome o il nostro governo, noi non vogliamo che soffra alcuna pena, nè che gli sia fatta alcuna molestia. Poichè se lo fa per leggierezza merita disprezzo, se per demenza, compassione, se per ingiuria, per­dono». Legge piena di umanità e di filosofia se il legislatore fosse stato maggiore d’ogni imputazione. Ma qual disprezzo della fama dopo la strage di Tessalonica, la morte di Eugenio[327] e del figlio Vittore?

Capo XII. Nuove incursioni de’ barbari e fine dell’occidentale imperio.

Arcadio ed Onorio figli di Teodosio furono due imbecilli imperatori nel tempo che v’era un estremo bisogno d’averne di grandi. Quello regnò in Oriente, questo in Occidente. La religione cristiana, che volea rendersi dominante, anche co’ mezzi della non mai persuasiva violenza, irritava gli animi. Le dispute, le eresie, le intestine dissensioni ed i barbari sconvolgevano tutto l’imperio. Gl’imperatori combattevano co’ lor sudditi con più coraggio per distruggere l’idolatria, che non colle genti setten­trionali, delle quali eran già tutte ripiene le provincie e le armate. Altro mezzo non si ritrovava per difendersene, che regalar loro delle intere provincie. Erano per fino stati ammessi i barbari alle più cospicue cariche. Teodosio il Grande, invece di resistere a’ Goti, gli aveva fatti suoi confederati ed ausiliari.

Nel quinto secolo parve che tutto il Settentrione ricadesse sull’imperio romano. Alarico re de’ Goti si spinse nella Insubria con un immenso esercito. L’imperatore Onorio fuggì e ricovrossi in Asti. Stilicone, gran generale di un imbecille principe, riparò in un momento la sua timidità. Scacciò d’Italia Alarico e tutti i suoi. Era divenuta questa provincia un soggetto di preda. Le incursioni erano flutti che l’un l’altro si succedevano. Radagaiso re degli Unni rientrovvi tosto con quel diluvio di barbari che Zozimo[328] fa ascendere a quattrocentomila. Lo stesso Stilicone ridusse questa enorme armata nelle montagne di Fiesole presso Firenze. Ivi quasi la esterminò. Chi sopravvisse a questa carnificina fu venduto come pecore. Radagaiso fatto prigioniero come un giumento fu ammazzato.[329]

Dopo queste imprese Stilicone fu accusato d’ordir trame segrete co’ barbari per toglier l’impero ad Onorio. Non v’era sospetto più ingiusto. Come pensare che Stili­cone, il quale aveva appena salvato l’imperio al suo principe, volesse usurparglielo? Egli non era stato ribelle quando Onofrio ricovrato timidamente in Asti udiva di lontano la fama delle sue vittorie, non avea profittato di sì comoda occasione, avea messa a prova la sua fedeltà col rispettare il suo signore desolato e ridotto agli estremi, e fu possibile accusarlo di far lega con quella nazione della quale era l’esterminatore? Pure Onorio decretò la morte di quell’uomo a lui necessario, per quella istessa debo­lezza con cui gli avea abbandonata la cura d’ogni cosa. Altrettanto fe’ Tiberio con Seiano. Zozimo,[330] scrittore pagano, attribuisce quest’infelice fine di Stilicone alla vendetta degli dei, perchè avesse fatte togliere le lamine d’oro ond’erano ricoperte le porte del Campidoglio. Se fosse stato reo non ritroveremmo così cattive ragioni di sua morte.

Alarico più non ritrovò in Italia un Stilicone. L’invase di nuovo. Invece di cercar le cagioni di queste irruzioni nella debolezza del governo, si cercavano nelle pretese corrispondenze co’ barbari. A tutte le grandi calamità si assegnano sempre le più strane ed inverisimili cagioni. Non v’è peste che non sia stata attribuita a ridicoli motivi. I gran timori fanno degli atroci paralogismi. Questa nuova emigrazione de’ Goti fu incolpata dal Senato a Serena figlia di Stilicone. Fu condannata a morte. Si eseguì la sentenza. Lo stesso Zozimo[331] dice ch’ella era innnocente; ma esser stata in tal guisa punita dagli dei perchè avea tolta una collanna preziosa dalla statua di Rea. I pagani contraponevano queste riflessioni a quelle di Eusebio e di Lattanzio, i quali dipingevano il cattivo fine che avean fatto tutt’i persecutori della nostra religione. Alarico stringendo Roma d’assedio diceva ch’ei non per sua voglia il faceva, ma ch’era sforzato da un superiore impulso a diroccarla. Sono terribili queste persuasioni per chi è assediato. I pagani attribuivano tutti questi mali alla religione cristiana. Furono in tale occasione proposti da alcuni senatori sacrifizi ed espiazioni agl’idoli, e Zozimo scrittore contemporaneo dice[332] che il prefetto di Roma «fe’ parte di questo lor desiderio ad Innocenzo allora papa, il quale anteponendo alle sue opinioni la salvezza della città permise ad essi che facessero ciò che chiedevano». Il cardinale Baronio per salvare Innocenzo da questa imputazione ricorre a Zozomemo scrittore cristiano, ed egualmente contemporaneo, il quale dice bensì che i pagani proposero di far sacrifizi, ma non parla che Innocenzo vi aderisse. Egli conchiude perciò che Zozimo non merita fede; dovea conchiudere che questo silenzio di un altro contemporaneo può diminuire la sua autorità. Quest’è il solito paralogismo in simili casi. Bisogna guardarsi dalla retorsione. Il silenzio de’ scrittori gentili per la sua stessa ragione nuocerebbe alla storia ecclesiastica de’ primi secoli. Se la credenza de’ fatti dipende da questa condizione, che tutti gli scrittori contemporanei lo debbano riferire, la storia è distrutta.

I Romani assediati da una nazione, più che da un esercito, ottennero tregua da Alarico. I patti furono di dargli cinquemila lire d’oro, tremila d’argento, quattromila tonache di seta, tremila pelli tinte di porpora, e tremila libre di pepe.[333] Vi si conosce il patto d’una barbara nazione con una ricca.

Onorio, timido e capriccioso signore d’un regno desolato, aggiunse ai mali della sua indolenza quelli della ostinazione. Non volle in nessun conto approvare questa pace. Fu spedito a persuaderlo il papa Innocenzo. Intanto che trattavasi l’affare, Roma fu presa. Alarico entrovvi, saccheggiolla, traversò tutta l’Italia, morì in Calabria all’assedio di Regio.

Crederebbesi che il sacco di Roma fosse il più orribile del mondo perchè fatto dai Goti? Alarico prima di entrarvi ordinò ai soldati che risparmiassero il sangue umano più che potessero.[334] Orosio contemporaneo attesta[335] che non vi fu se non se un solo senatore ucciso, e ciò avvenne perchè non fu riconosciuto. Le chiese, e massimamente le più vaste de’ santi Pietro e Paolo, furono destinate da Alarico per asili pubblici. Ivi rifugiaronsi quante persone vi poterono abitare.[336] Si erano trasportati i vasi d’oro ed argento dalla sacrestia di S. Pietro per timore del saccheggio, Alarico li fece riportare con gran solennità alla chiesa. I Goti scortavano la processione, cantavano anch’eglino gl’inni co’ Romani. Gran quantità di persone per poter entrare in S. Pietro si univa alla processione; i soldati le ammettevano e le contorniavano, e più ne venivano più si mostravan premurosi di accoglierle perchè sicuramente giugnessero alla chiesa.

Un giovine soldato goto faceva violenza ad una donna romana. La minacciò di ucciderla. Ella presentò la gola al ferro. Il giovine sorpreso da quest’atto di costanza generosa non solo cessò dalle violenze, ma la condusse egli stesso a S. Pietro, raccomandolla alle guardie, gli diede sei monete d’oro perchè si alimentasse, e pregò ch’ella fosse restituita a suo marito.[337] In quanti assedi conosciamo di noi colti Europei, è difficile il ritrovare simili tratti. La inumanità delle civili nazioni e la umanità delle barbare son sempre grandi.

Fa qualche meraviglia come S. Gerolimo e S. Agostino riferiscano la maggior parte di questi fatti, e pure dipingano nello stesso tempo questo saccheggio come un lamentevolissimo eccidio. Roma, secondo S. Girolimo, fu sepolta sotto alle sue ceneri con un totale abbruciamento, ed i morti, al dire di S. Agostino, furono tanti che non si poterono seppellire. Orosio attesta[338] che pochi anni dopo quella città era così ristabilita che non sembrava essere mai stata presa; ed Albino prefetto del pretorio, cinque anni dopo quest’assedio, scrisse all’imperatore che non bastava più la solita quantità del pane che si distribuiva al popolo, essendo ad ismisura cresciuta la popolazione.[339] Voglio credere che ciò provenisse dalla poca sicurezza delle campagne per le scorrerie de’ barbari.

L’imperatore in mezzo a tanti tumulti se ne stava racchiuso in Ravenna promulgando leggi contro gli eretici. Per quanto l’idolatria fosse stata proibita con pene di morte, ella aveva un grosso partito in Roma. È naturale che più susistesse nel grembo dell’antica sua madre. Forse questa fu la cagione per cui gl’imperatori d’Occidente non vi dimoravano, ma avean posta la lor sede prima in Milano, poi in Ravenna. Numanziano in questi tempi prefetto di Roma, una delle prime dignità, era idolatra. Ciro egualmente pagano era console in Oriente; Flavio Zenone vi era generale di tutta la milizia dell’imperatore, e pure anch’egli era idolatra. Pochi anni appresso troviamo patrizio di Occidente Marcelliano. Egli era pagano. Poi Severo console parimenti pagano. Così i più cospicui magistrati, i consoli, i prefetti del pretorio in ambi gl’imperi erano idolatri, in tempo che si proscriveva l’idolatria con replicati, anzi continui editti. Gli stessi imperatori che condannavano a morte i pagani lor davano le principali dignità. Sono contraddizioni strane.

Le feste Lupercali, cioè quelle della gentilità ch’erano maggiormente contrarie allo spirito del cristianesimo, nelle quali i sacerdoti quasi nudi scorrevano per le strade percuotendo co’ flagelli le donne che si credevano di divenir feconde con queste sferzate, susisterono in Roma sino a’ tempi del pontefice Gelasio regnando in Italia Teodorico re de’ Goti.[340] Nel Panteon rimasero gl’idoli sino al pontificato di Bonifacio IV, che gli tolse con licenza dell’imperatore Foca al principio del settimo secolo. Vi furono adunque avanzi d’idolatria in Roma quasi tre secoli dopo Costantino.

Onorio era destinato ad esser un ingrato principe. Olimpio era succeduto a Stilicone: fu come lui accusato di tradimento. Gli furono tagliate le orecchie, ed a colpi di bastone fu ucciso. Come avere gran generali? Facean bisogno, ma erano temuti. Allovico altro general di Onorio venne nell’istesso modo incolpato di congiura. L’imperatore tremava al nome de’ suoi comandanti come a quello de’ barbari. Non fu più cauto nel condannare di quanto lo era stato. Il timore è un gran tiranno. Un giorno che Allovico, secondo il costume, lo precedeva a cavallo per la città, ordinò che fosse trucidato a tradimento. La sentenza fu subito eseguita. Allora scese Onorio da cavallo, inginocchiossi, rese grazie a Dio d’averlo liberato da un insidiatore. Sono tratti ben vivi per dipingere un carattere. L’istesso fe’ Caracalla. Uccise il fratello Geta, e poi corse agli dei a ringraziarli che lo avessero disfatto da un nemico. Le dissensioni fra due pretendenti al pontificato, Bonifacio ed Eulalio, furono risguardate come affari di poca importanza. Onorio fe’ scacciare da Roma Eulalio, lo rilegò nel territorio di Capoa, e fece riconoscere per papa Bonifacio.[341] Più seriamente si risguardò la pazzia di Libanio mago di professione che si vantava che avrebbe discacciati barbari senza adoperare armi o soldati, ma colla sola virtù degli incantesimi. Onorio lo fe’ uccidere.[342]

Tre donne formano in questi tempi il principale soggetto di storia.

Valentiniano III era succeduto ad Onorio. La sorella di questo Galla Placidia liberò l’Italia dai Goti. Il loro re Ataulfo ch’era succeduto ad Alarico la chiese in moglie, e l’ottenne. Questa fu l’alleanza di pace. Andossene quel re dall’Italia venuto a saccheggiarla, ed ammogliarvisi.

Onoria sorella di Valentiniano fe’ ritornare i barbari nell’imperio. Ella fu mandata alla corte di Teodosio il giovine in Oriente per esser stata ingravidata da Eugenio suo proccuratore. Vedendosi ridotta a questa specie di prigionia per tutta la sua vita, ebbe maniera di far proporre ad Attila re degli Unni, popoli della piccola Tartaria, di maritarsi con lei, che con tal coniugio gli avrebbe acquistato il diritto all’impero. Quando Attila venne in Occidente le avea già promesso di maritarsi.[343]

Il senatore Petronio Massimo uccise Valentiniano per vendicarsi di avere per forza violentata la moglie, e poi indusse la vedova imperatrice Eudossia a prenderlo per marito. Ella ignorava ch’ei fosse l’uccisore di Valentiniano. Un giorno Petronio istesso le rivelò il mistero. Allora Eudossia, inorridita di nozze così scelerate, chiamò contro del marito Genserico re de’ Vandali stabiliti in Mauritania. Venne quel re, saccheggiò Roma. Petronio fuggendo fu ucciso dal popolo colle pietre. Eudossia istessa fu con­dotta prigioniera da Genserico ch’era venuto a vendicarla. Non si sa la cagione di questa contraddizione. Serie di confusi e barbari avvenimenti degna di tempi oscuri e feroci. Così tre matrimoni determinarono il destino di grandi imprese.

Fu nelle vaste pianure di Chalons sur Marne nelle Gallie che si diede la prima battaglia ad Attila, il di cui esercito fassi ascendere allo sterminato numero di settecentomila soldati.[344] Non è da meravigliarsi di questa moltitudine. Non era un esercito di uomini vestiti in uniforme, armati egualmente, disciplinati, e di truppa regolata; ella era una nazione che, guerriera e profuga di sua instituzione, cambiava d’alloggio. Fu quella giornata una delle maggiori carnificine che racconti la storia. Venne di poi in Italia quel grande esercito, ne devastò la parte occidentale. Da questa incursione derivano gli storici veneziani il principio della loro repubblica. Ritiraronsi alcuni nelle isole di Grado, e si diedero una forma di governo.

Di queste grandi rivoluzioni a noi non giunse che il timore de’ nostri padri. Poche e confuse notizie ne abbiamo. Valentiniano III spedì ambasciatori ad Attila, e fra di essi Leone papa. Quel re ritirossi tosto d’Italia. Con quai condizioni, per quai motivi non si sa. Andò nella Pannonia ove poco dopo morì, e con lui si disciolse il grande impero degli Unni. I suoi figli non ebbero altro regno che la piccola Tartaria ond’erano usciti. Così il regno di Alessandro alla sua morte si ristrinse alla Macedonia. Quest’è quanto sappiamo delle imprese di quel terribile conquistatore in Italia, cui lo spavento diede il titolo di flagellum Dei. Queste grandi spedizioni di Ragaiso, Alarico ed Attila non furono che scorrerie. Simili ai torrenti, devastano, ma poi si rasciugano.

Fra tante desolazioni non lasciavano i pagani d’incolparne la religione cristiana. «Qual cosa (scriveva a Teodosio il Grande Simmaco prefetto di Roma) può farci meglio conoscere gli dei, che la memoria ed i documenti della passata prosperità? Fingiamo che il genio di Roma ci sia presente, e così parli. Principi ottimi, padri della patria rispettate la mia vecchiezza, alla quale io son giunto sotto la tutela de’ miei sacri riti. Questa religione mi sottopose la terra, per lei fu respinto Annibale dalle mie mura, per lei i Sennoni dal Campidoglio. Che importa per qual strada si cerchi la verità? Lasciamo le controversie agli oziosi, offriamo preci, e non battaglie al cielo».[345]

I Romani guardavano sotto questo falso aspetto la santità della nostra religione perchè ella si opponeva direttamente alla loro più che ogni altra. E poichè la loro religione era dipendente ed adiutrice del sistema politico, così per essi era lo stesso distruggerla, che rovesciare tutti i princìpi dell’antico governo, le di cui rovine rispet­tavano.

La romana religione era fatta dagli uomini per la grandezza terrena, tutto in lei conduceva a questo fine. La cristiana porge speranze più sublimi non che vere, risguarda questa vita mortale come un infelice alloggio. I timori d’una miseria futura, le promesse d’eterne ricompense non erano molto vive ne’ Romani. Non le conosciamo quasi in essi, se non se per lo disprezzo che di tai dogmi aveano i più colti scrittori! Nella santa nostra religione queste verità sono le principali; ella ci atterisce, e ci consola. Ella antepone alle morali virtù le religiose, e ne ha d’indipendenti da quelle perchè di natura superiore; i Romani non conoscevano questa distinzione. Virtù religiosa e virtù civile eran sempre la stessa. La nostra santa religione va al cuore, impone molti doveri, esigge sentimento e contemplazione; la romana consisteva in sacrifizi, in giuochi, in feste. La nostra santa religione, per fine, consiste in dogmi sublimi; la pagana in solennità. L’una è una religione, e al di più rivelata, l’altra è un rito. Questa opposizione di princìpi produceva quell’orrore che avevano per lei, come si conosce dalle espressioni di Svetonio, Tacito e Dione, ed altri. Perchè, umanamente parlando, i Romani che ammettevano tutte le religioni tanto si opposero alla nostra se non se per queste ragioni?

Le querele de’ gentili che rimanevano in questi tempi avevano dei fondamenti. Ora si dicevan eglino i perseguitati. I cristiani usavano indiscretamente della prote­zione degl’imperatori. Gli ecclesiastici e per fino i vescovi disotterravano i cadaveri de’ gentili e rovinavano i loro sepolcri. Valentiniano fu obbligato ad opporsi a quest’abuso. Ei dice in una legge promulgata a tal proposito:[346] «Fra le querele che ci vengono fatte contro i rei di questa abominevol sceleraggine, le più forti sono contro degli ecclesiastici. Essi armati di ferro deturpano i cadaveri, e scordati di Dio portano ai sacri altari le mani ancor lorde di ceneri. Intollerabile, esecrandissima, imperdonabile cosa è prender il nome ed il titolo di santi e l’esser ricolmi d’iniquità. Chi adunque di tal ceto violerà i sepolcri, perda immediatamente il nome di ecclesiastico, e sia punito con perpetua deportazione. Non si perdonerà nè ai sacerdoti, nè a’ vescovi».

Teodosio iuniore dovette parimenti promulgar legge contro de’ cristiani, i quali «abusando della autorità della religione ardiscono fare insulti personali, e saccheg­giare i beni ai pagani ed ai Giudei, i quai se ne stanno in quiete senza far cosa contraria alla tranquillità pubblica ed alle leggi».[347] Queste ultime parole fanno vedere che l’imperatore permetteva la privata idolatria.

I gentili perciò, or dalle leggi, or da’ sudditi vessati, si ricovravano nelle terre, abbandonando le città; d’onde ne venne il chiamarli pagani, cioè abitatori dei pagi, come chi ora dicesse terrazzani, borghesi, villani ecc. In questi luoghi susisterono le reliquie della idolatria, la di cui totale estinzione non si può fisare. Forse, ricoperta dalla oscurità, ebbe ancora per molto tempo seguaci. È lunga la vita degli errori, e quasi eterna quella de’ superstiziosi. Massimamente nelle isole il paganesimo ritrovò asilo. S. Gregorio Magno pontefice scrisse verso il principio del sesto secolo a’ vescovi di Corsica de’ rimproveri, perchè lasciassero allignare de’ pagani nel loro territorio. Gl’impone di convertirgli, e se non lo vogliono di condannarli a pena pecuniaria.[348]

L’impero romano da Augusto sino alla metà del terzo secolo fu una vasta massa di servi che dormivano nel dispotismo. Dopo le incursioni de’ barbari furono servi che difendevano le loro catene. Tutto si cangiò in moto e violenza. Goti, Alani, Vandali e cento popoli saccheggiavano l’Occidente; Persani, Saraceni, Unni, Isauri l’Oriente. Fra queste nazioni si ritrovavano perfino degli antropofagi. S. Gerolamo attesta d’aver veduto nelle Gallie alcuni degli Scoti, gente britannnica, che tagliavano le natiche ai pastori e le mammelle alle donne. Lasciavano le pecore ond’erano ricoperte le campa­gne, per questo cibo ch’eglino preferivano ad ogni altro.[349]

Di qual sorte era il governo di questi due imperi? L’anarchia, e ’l dispotismo. Essi a vicenda succedevansi.

Se la storia non provasse che in tai tempi era il dispotismo che reggeva l’Oriente e l’Occidente fra i disordini ed i saccheggi, basterebbero a persuadercelo le leggi che abbiamo degl’imperatori. Lo stile di essi è sempre un grande indizio della forma di governo. «Gli afflati divini, gli arbitri nostri divini e del divino imperatore, la nostra mansuetudine, le leggi uscite dal nostro sacrario, gli oracoli delle nostre sanzioni» etc. sono frasi che ad ogni tratto s’incontrano negli editti imperiali di questi secoli; vi si vede l’orientale dispotismo. In un moderato governo sarebbero per lo meno ridicole. Graziano, Valentiniano e Teodosio imperatori colleghi giunsero per fino a pubblicare una legge in cui dicevano non esser permesso il disputare su di una sentenza profferita da un magistrato imperiale, «perchè è un sacrilegio il dubitare se non sia degna una persona che ha scelta l’imperatore».[350]

Ella è dettata dalla timida tirannia la legge di Onorio ed Arcadio contro i rei di lesa maestà. «Chiunque, essa dice, ecciterà fazioni sarà punito di morte, ed i di lui figli ai quali per un atto speciale della imperial nostra clemenza concediamo la vita (perchè dovrebbero esser compagni del supplizio paterno coloro ne’ quali si temono gli esempi della ereditaria perfidia) sieno privati d’ogni eredità, sieno perpetuamente miseri e mendici, ognora gli accompagni l’infamia paterna, sieno finalmente a tal segno ridotti, che resi sordidi da una perpetua povertà sia loro la morte sollievo, e supplizio la vita».[351] Non v’è legge che maggiormente dimostri la debolezza del legislatore. Non tanto si temono i ribelli in un dolce governo. Egli è un tremante dispotico, che fa lo squarcione.

Era sempre stato costume che gl’imperatori istessi decidessero le liti private. Il Codice Teodosiano e Giustinianeo è pieno di tali editti indirizzati ai differenti magistrati. Un grande uomo ha già provato che non vi è maggior dispotismo di quando il giudice ed il legislatore sono la stessa persona.

Troviamo sovente nelle leggi di questi tempi che gl’imperatori perdonavano i tributi a questa e quella provincia. Non tanto ciò prova la clemenza quanto la estrema miseria. Ella è somma quando merita compassione dal dispotismo.

I lunghi e desolatoti saccheggi de’ barbari divennero finalmente conquiste. I Vandali si stabilirono in Africa, i Goti nella Spagna e nelle Gallie, ove ancora i Borgognoni ed i Franchi; gl’Inglesi e Sassoni nella Gran Brettagna. Tutti questi popoli erano ariani, fuorchè i Franchi e gl’Inglesi ch’erano idolatri. Tale era lo stato delle cose quando Odoacre, scita di nazione, trasse in Italia Eruli, Turcilingi, Goti, ed altri settentrionali popoli, e conquistò in un momento questa provincia. Augustulo ancor fanciullo vi regnava. Suo padre Oreste l’avea fatto divenir imperatore, non curandosi di sì pericolosa e misera dignità. Augustulo divenne pensionario del vincitore che lo rilegò nella Campania passandoli seimila soldi d’oro all’anno.[352] Suo padre fu ucciso. Così fu estinto l’occidentale imperio.

Nulla dirò di quel mucchio d’imperatori, Maggiorano, Severo, Antemio, Olibrio, Glicerio e Nipote che furono tra Augustolo e Valentiniano III. Regnarono fra le stragi, l’un dopo l’altro si rovesciarono. Nomi oscuri, e degni di esserlo.

Capo XIII. Del regno de’ Goti.

Teodorico re de’ Goti era stabilito nell’Illirico. Egli avea ridotto Zenone imperator d’Oriente a donargli la Dacia Ripense, la Mesia Inferiore, ad adottarlo per suo figlio, a farlo console.[353] Non era difficile dopo così grandi ed involontarie beneficenze l’aspirare a farsi re d’Italia, cioè di una provincia abbandonata alle incursioni, più di peso che di vantaggio ai greci imperatori. Zenone non si oppose al progetto di Teodo­rico. Consentì ch’egli intraprendesse questa conquista. Venne quel re in Italia dalla parte del Friuli seco traendo un torrente di Goti. Odoacre fu assediato per tre anni in Ravenna. Si arrese. Si aprirono le porte; l’arcivescovo ed il clero incontrarono il vincitore in processione, si gettarono ai suoi piedi. Non erano più i tempi de’ Romani, quando assediati da Annibale mettevano all’asta il di lui campo. Era l’Italia di chi aveva il coraggio di conquistarla. Genti escite dalle caverne del Nord se la disputavano. I discendenti de’ Scipioni e de’ Camilli aveano la parte di timidi spettatori. Le nazioni colte quando ritornano nella barbarie conservano i vizi della coltura, e non riacquistano le antiche virtù.

Teodorico vilmente incominciò il suo regno glorioso. Dopo di avere mostrata una apparente umanità col vinto Odoacre, invitollo a pranzo co’ suoi cortigiani, fe’ strage di lui e di tutto il suo seguito.[354] Così ebbe principio il regno de’ Goti in Italia. Fin’ora questa provincia era stata saccheggiata per più secoli da’ barbari, e mal difesa dagl’imbecilli suoi principi. Era ridotta a trovar utile una stabile conquista.

Teodorico, benchè ariano, come lo erano i Goti e quasi tutte le settentrionali nazioni stabilite nelle provincie dell’imperio, nulla tentò contro la religione de’ vinti. Altrettanto avea fatto Odoacre, altrettanto fecero tutti gli altri re goti. Nulla si cangiò al nostro sistema. Teodorico si piegò a’ nostri costumi. Si vestì alla romana ed ordinò che tutta ancor la sua nazione così facesse. Leggi, magistrati, ogni cosa rimase senza alcuna mutazione. Egli era perciò amatissimo. Niente più lusinga gli uomini, quanto l’imitarli.

Fu un principio di governo in questo re la più imparziale tolleranza. Colla morte del papa Anastasio II si aprì in Roma guerra civile fra Simmaco e Lorenzo, ambi pretendenti al pontificato. Il popolo, il clero, i principali signori, e per fino le vergini sacre avean parte in queste fazioni: esse erano tratte fuor da’ monasteri, battute e ferite da que’ di contrario partito. Roma era piena di stragi. Fu rimessa a Teodorico la controversia. Ei decise che l’eletto da più voti e primamente consacrato fosse il papa.[355] Tal sentenza fu eseguita. La vinse Simmaco. A lui convenivano que’ due requisiti.

Quando Teodorico andò a Roma non lasciò di subito andare alla basilica Vati­cana, e venerò il sepolcro di S. Pietro. Quest’atto di divozione piacque infinitamente. Fece in oltre un dono di sei candelieri d’argento del peso di sessanta libre alla stessa basilica, e fe’ ricoprire in quella una trave con lamine d’argento del peso di mille e quaranta libre.[356]

In Ravenna i cristiani diedero il fuoco alle sinagoghe degli Ebrei. Essi ricorsero a Teodorico, il quale ordinò che fossero restaurate a spese de’ Ravennati.[357]

Cassiodoro tanto stimato ed amico di quel re stava alla sua corte, era il suo segretario, ed era cristiano cattolico. Finì i suoi giorni benedettino.

Epifanio vescovo di Pavia, Lorenzo arcivescovo di Milano erano impiegati da Teodorico nelle più importanti ambascerie. Tal era il suo sistema. Non sentivano il poter delle leggi che i perturbatori della pubblica tranquillità.

Si conosce da tutta la condotta di questo re ch’egli avea fatto il progetto di regnar colla benivolenza. Volle anche stringer parentela con quanti vicini puotè! Ammogliò una sua figlia ad Alarico re de’ Visigoti nelle Gallie: un’altra al figlio di Sigismondo re de’ Borgognoni; ed Amalatirga sua sorella ad Erminfrido re de’ Turingi; «Et sic», dice l’Anonimo Valesiano, «per circuitum placuit cunctis gentibus».

Non so per altro di che peso sieno le relazioni di tale autore dove estende la felicità di questo regime sino a dire: «Tant’era il buon governo di questi tempi che se alcuno volea riporre nelle campagne oro ed argento era così sicuro come se fosse stato custodito nelle mura della città; e Teodorico non faceva in nessuna città d’Italia le porte, nè esse chiudevansi: ciascuno faceva gli affari suoi in qualunque ora come se fosse giorno».[358]

La chiesa romana era già considerabilmente ricca. Non ricorreremo alla dona­zione di Costantino. I papi avevano già delle possessioni che chiamavano Patrimoni di S. Pietro. Ne avevano in Calabria, in Sicilia ed altrove. Erano queste pie donazioni private. Chiamaronsi in appresso Patrimonio di S. Pietro anche gli stati posseduti da’ papi come principi. Fu abusando di tale espressione e della or docile or feroce ignoranza che s’inventò la donazione di Costantino.

Troviamo una prova non equivoca della ricchezza de’ papi in questi tempi. Trasimondo re de’ Vandali in Africa esiliò dugento venti vescovi cattolici per cui volea rendere dominante l’arianismo. Furono relegati nell’isola Sardegna. Il papa Simmaco li mantenne mandando loro annualmente vesti e danari.[359] Vediamo ancora in Anastasio Bibliotecario la prodigiosa quantità di vasi d’oro e d’argento che i papi regalavano alle chiese. Sembra eziandio che ciò provi non essere stata in que’ tempi affatto nova l’oreficeria.

Due altri principi esiggono in questo secolo la nostra attenzione: Clodoveo re de’ Franchi, ed Anastasio imperatore d’Oriente. Ma il paragone fra essi e Teodorico loro è molto svantaggioso.

Anastasio, lasciando in preda de’ barbari un vasto regno quasi non più suo, disputava caldamente di teologia col papa Simmaco. Agitavasi allora in Oriente la controversia promossa da Eutichio: se in Gesù Cristo fossero una o due nature. Eutichio non ne ammetteva che una sola, rigettando la distinzione di due nature, una divina ed una umana. L’imperatore accusava il papa di esser manicheo perchè ammet­tesse due nature, ed il papa accusavalo d’esser eretico. Tanto fu molesto a’ suoi popoli il delirio polemico di Anastasio, e le crudeltà colle quali volea convincere, che fu assediato a Costantinopoli e fu ridotto a chieder pace a’ suoi sudditi.

Clodoveo fattosi cristiano ne sfregiava il nome colle sue atrocità. Colla frode e cogli assassini vinceva i signori franchi da’ quali era diviso quel regno. Principe ippocrita e crudele, dopo avere fatta strage de’ suoi congiunti esclamava con geremiaco stile: «Sfortunato ch’io sono, poichè rimasi qual pellegrino fra genti straniere, e non ho più alcun parente che mi possa dar soccorso nelle mie disavventure!». Gregorio Turonense, dopo aver raccontato come Clodoveo inducesse Cloderico figlio di Sigiberto re di Colonia ad uccidere il proprio padre, e come poi facesse anche uccidere il parricida Cloderico, e per tai mezzi unisse al suo regno quella città, riflette: «che Dio abbatteva tutto dì i nemici di Clodoveo ed accresceva il suo regno, perchè camminava con retto cuore avanti di Dio, ed operava solo ciò che a Dio può piacere».

In poco tempo Clodoveo fu re di un vasto regno. I Goti erano stabiliti nell’Aquitania, aveano la sede in Tolosa. Clodoveo li vinse, ed aggiunse quella provincia a’ suoi stati. L’ultimo re fu Alarico. Trasportossi la sede di quel regno in Toledo nelle Spagne, ove i Goti la tennero sino a che gli Saraceni non glielo tolsero al principio dell’ottavo secolo. Il regno poi de’ Saraceni vi durò sino all’anno 1492.

Troviamo i Goti, or chiamati Ostrogoti, or Visigoti. Ciò dipendeva dal sito che abitavano. I Visigoti, propiamente detti Vestrogoti, erano quegli stabiliti ne’ paesi occidentali come nella Francia e nella Spagna. Gli Ostrogoti erano quegli stabiliti ne’ paesi orientali. Queste denominazioni eran prese da’ venti, Vestro ed Ostro. Così pure dividevano gli Stati in Austria e Neustria, cioè in orientali ed occidentali. Austria perciò fu detto il Paese di Germania ch’è riposto all’oriente della Baviera.

Teodorico signore di tutta l’Italia, della Sicilia, della Dalmazia, del Norico, di parte della Pannonia, della Rezia, della Svevia, della Provenza col littorale sino a’ Pirenei, e della maggior parte della Spagna, avea richiamata una immagine del secolo di Augusto sia quanto alla vastità del dominio, come quanto alla dolcezza del governo ed alla coltura.

Se col nome di barbari chiamiamo una feroce ed incolta nazione, tal nome non conviene a’ Goti. Sarebbe strano che per lungo tempo siensi creduti una detestabil razza di uomini, se la loro storia fosse stata conosciuta. Giordano, l’Anonimo Valesiano, Procopio ed Enodio, che sono gli scrittori che di loro lasciaronci memorie, non mai li dipinsero come tali. Il signor Muratori ha finito di disingannarci da questo errore.

Quel poco di scienze e di letteratura che avea sopravvissuto al saccheggio de’ barbari fu accolto e protetto da Teodorico. Il suo segretario Cassiodoro, e Severino Boezio impiegato e stimato nella sua corte, onoravano questo regno.

Severino Boezio cominciò a far conoscere in Italia ed in Occidente gli scritti greci de’ quali non se ne sospettava l’esistenza. Egli era stato alle scuole di Atene: ne tradusse in latino quanti potè: così fece colle opere di Pitagora il musico, di Platone, di Aristotile, di Nicomaco, di Tolomeo e di Euclide. Anche Dionigi il Piccolo nello istesso tempo seguitò le di lui mire con tradurre molte opere dei Greci.

Pure questa reviviscenza delle cogizioni in altro non consistè che in traduzioni. Scrisse Severino sull’aritmetica e sulla geometria, ma seguitando i Greci e quasi ricopiandoli. Non è strano che quest’uomo fosse risguardato in tempi d’ignoranza come un miracolo di sapienza; egli è ben strano che in tal secolo riunisse tante cognizioni, e che fosse protetto anzichè perseguitato.

I nostri imperatori aveano fatto molto per deprimere le scienze colla imbecillità e colla superstizione: toccò ad un uomo escito dal fondo del Settentrione promuovere la nostra coltura, e siamo così giusti che chiamiamo barbaro Teodorico e divi augusti gl’imperatori.

Troviamo una lettera indirizzata da Teodorico a Severino nella quale lo prega di costruire due orologi, l’uno solare, l’altro idraulico per il re de’ Borgognoni. Egli è lodato in quella lettera come un prodigioso uomo che sapeva tutti i miracoli della natura. Vi ci si vede lo stile di Cassiodoro segretario del re. Di un altro orologio solare che avea fatto Severino si dice in essa lettera: «Se gli astri avessero sentimento invidiarebbero quest’arte e declinarebbero dal lor cammino per non esser soggetti a cotanto ludibrio».[360] Tant’era meraviglioso un gnomone, tant’era corretto lo stile del più sti­mato scrittore di que’ tempi.

Lo stesso Teodorico mandò come un gran regalo al re Clodoveo un cantore che si accompagnava colla cetra.[361]

Tutto ciò ch’era barbaro fu chiamato gotico. Così la cattiva architettura e scrittura de’ secoli bassi furono dette gotiche. Ma per tutto il tempo che da noi regnò questa nazione, non v’è documento da cui si ricavi che l’architettura prendesse nuova forma. Nelle lettere di Cassiodoro vediamo che il re Teodorico ordinava che le fabbriche si facessero alla romana. Così pure è un insigne anacronismo l’attribuire a’ Goti, che non sapevano scrivere, i rozzi caratteri di molte stampe fatte sulla fine del secolo decimoquinto. Questi caratteri sono germanici, e si mischiarono colla nostra scrittura dopo il Mille. Tai furono i giudizi profferiti su de’ Goti da chi loro attribuì la propria barbarie.

Taluno troverà inverisimile ciò che attesta l’Anonimo Valesiano, cioè che Teodo­rico non sapesse scrivere. Egli teneva, secondo questo autore, una lamina d’oro nella quale erano tagliate queste lettere: Theod, e quando voleva sottoscriversi ponevala sulla carta conducendo la penna dentro que’ caratteri. Egli è certo che i Goti risguardavano la letteratura come funesta distruggitrice del valor militare. Atalarico nipote di Teodorico gli era succeduto sotto la tutela di Amalasonta sua madre. Ella volle farlo instruire nelle lettere: i duchi della nazione non soffrirono questa novità, e rappresen­tarono alla regina che: «Le lettere snervano la virtù, ch’esse avrebbero cangiata l’antica educazione in un umiliante tirocinio: che perciò era d’uopo toglier d’intorno il timor de’ maestri al loro re se dovea esser coraggioso in guerra e glorioso nell’armi: che Teodorico non avea mai permesso che i lor figli andassero alle scuole de’ pedanti, solendo dire che giammai avrebbero impugnate le aste e le spade con animo corag­gioso se avessero temuta la sferza».[362] Non parrà esagerato quanto dice l’Anonimo, benchè Teodorico fosse stato a Costantinopoli nella corte imperiale prima di venire in Italia, se si rifletta che in questi istessi tempi l’imperatore Giustino anch’egli non sapeva scrivere[363] e si serviva di una lamina di metallo come quella di Teodorico.

La legge che promulgò Giustino contro gli eretici[364] loro proibendo ogni dignità civile e militare cagionò una funesta mutazione in Teodorico. Tolse al di più lo stesso imperatore le chiese agli ariani. Questa era una guerra dichiarata contro di una setta della quale erano seguaci i re e la nazione gota. Ciò pose in sospetto Teodorico che si pensasse a scacciarlo dal regno. Non vi volea molto nel trovare tale animo nell’imperatore. Non si dimenticavano gli Augusti d’avere regnato in Italia. L’aveano abbandonata per non poterla conservare: si aspettava l’occasione di ricuperarla. Era manifesto che se non si soffrivano in Oriente gli ariani, non si sarebbe sofferto in Italia un re ed una nazione di tal setta. Parea che si tentasse di rendere odioso l’arianismo agl’Italiani, e di far risguardare il loro re come un empio. Non si poteva dichiarare l’imperatore maggiormente suo nemico che coll’apertamente disapprovare la sua religione, in tempi di fanatismo e di superstizione. Teodorico avea sempre temuto questo colpo. Lo dimostra la gran cura ch’egli ebbe di non inquietar alcuno per cagion di religione.

Successe positivamente in questo re una specie di furore. Da umano e buon principe divenne un tiranno sospettoso. I primi segni di questo suo cambiamento si palesarono quando i cristiani incendiarono in Ravenna le sinagoghe. Si avvide che non bastava a spegnere il fanatismo una imparziale neutralità. Allora immantinente fece diroccare in Verona la chiesa di S. Stefano, ed ordinò che nessun romano potesse portar armi.[365]

Appena Teodorico ebbe notizia delle novità fatte da Giustino, spedì a Costanti­nopoli il papa Giovanni per ottenere la restituzione delle chiese agli ariani. Dice l’autore della Storia Miscella che Teodorico minacciava l’imperatore che se non aderiva a tale inchiesta: «Avrebbe esterminati tutti i popoli d’Italia».[366] Minaccia veramente strana di rimanere senza sudditi per far dispetto a Giustino. Narrando questi fatti l’Anonimo Valesiano dice che vi furono terribili presagi di tal mutazione dell’animo del re. Una donna gota, secondo lui, partorì sotto ai portici contigui al palazzo reale di Ravenna quattro gran dragoni, e due altri dragoni si videro trasportati dalle nubi d’Occidente in Oriente, e poi precipitarsi in mare, ed un altro dragone nacque con due corpi ed un sol capo, e quindi vi aggiunge comete ed orribili terremoti. Il papa ottenne la pace agli ariani e la restituzione delle chiese.[367] Ciò non ostante al suo ritorno Teodorico lo fe’ imprigionare co’ senatori del suo seguito. Vittime tutte de’ suoi sospetti. Gli rincrebbe la magnifica accoglienza che Giustino fece al papa. Esso in carcere morì.

Il supplicio di Severino Boezio e di Simmaco di lui suocero sono due grandi macchie al regno di Teodorico.

Severino era accusato da tre testimoni di congiura contro del re. Essi erano falsi, ma erano tre. L’accusa fu portata al Senato, che lo condannò a morte. Teodorico commutò la pena nell’esilio. Fin qui egli fu un principe ingannato e clemente. Ma quando fece clandestinamente uccidere nella solitudine quell’illustre uomo, perchè le voci del pubblico vendicavano la sua innocenza, allora Teodorico fu un tiranno.

Simmaco fu immolato a que’ crudeli sospetti che avevano invaso l’animo del re. Egli temea che non vendicasse la morte di suo genero. Non ve n’era alcun indizio. Pur Simmaco fu a morte condannato. Rese così funesti gli ultimi giorni del suo regno uno de’ più saggi ed umani re che annoveri la storia. L’indiscreto zelo di Giustino indusse un ottimo principe alla tirannia. Dopo trentotto anni di regno morì Teodorico piangendo la condanna di due illustri innocenti.[368] Questo profondo dolore lo agitò sempre sino a farlo delirare, e vedere de’ fantasmi vendicatori intorno di sè. Sono detestabili e compassionevoli i delitti di tal principe.

Intanto tutta la barbarie parea ridotta nelle Gallie, come lo spirito di controversia in Costantinopoli. Clotario figlio di Clodoveo ne seguiva le tracce coll’uccidere i propri nipoti per impadronirsi del regno d’Orleans;[369] e Giustiniano imperatore d’Oriente confiscava i beni a tutti gli eretici e gentili. Frutto di tanto zelo fu qualche ippocrita, molto guadagno, strage grandissima.[370] Fra tante violenze per ispirare la pacifica verità a’ miscredenti, Flavio Giovanni era prefetto del pretorio, patrizio, console e pagano. Che penseremo della purità de’ motivi che inducevano l’imperatore a queste crudeltà? Sino da Teodosio iuniore erano stati per legge esclusi i pagani per la prima volta dalle cariche,[371] e pure Giustiniano ed altri imperatori tennero i pagani alla corte, loro diedero le maggiori dignità.

Malgrado la poco augusta figura che faceva nelle vicende umane l’impero orien­tale, le straniere genti che lo avevano soggiogato conservavangli molta venerazione. Clodoveo ebbe a grande onore di esser dichiarato console dall’imperatore Anastasio:[372] e Procopio attesta che i Franchi non avrebbero creduto sicuro il loro dominio nelle Gallie, se non glielo avessero confermato gl’imperatori.[373] Anche Teodorico si fece dall’imperatore confermare nel regno. Troviamo nelle monete de’ Franchi e de’ Goti delle inscrizioni che usavano nelle loro monete gl’imperatori. Tali sono victoria Augg. e Conob.: di questa espressione se ne ignora il senso. In vano si affaticarono gli eruditi. Ciò poco importa. L’averle usate è non piccolo indizio di dipendenza. Le troviamo nelle monete de’ duchi di Napoli quand’erano vassalli degl’imperatori d’Oriente. Di più, nelle monete de’ Goti si vede dall’una parte l’impronto del re, e dall’altra quello dell’imperatore. Tant’erano rispettate le ruine del romano impero. Più durano le opinioni che le cose.

Due gran generali viveano in Oriente, Belisario e Narsete, mentre che l’Italia era tutta in tumulto.

Colla morte di Teodorico era ricaduto il suo regno in quella barbarie della quale era uscito per un momento. Egli avea dichiarato suo successore Atalarico figlio di Amalasunta sua figlia. Non avea dieci anni quando cominciò a regnare. Morì sotto la tutela di sua madre. Il governo di una donna sarebbe stato disprezzato da’ Goti. In una nazione nella quale il re era il primo generale d’armata sarebbe stata ridicola una regina. Amalasunta perciò associossi al trono il suo cugino Teodato. Questi poco dopo la fece strangolare nel bagno. Teodato istesso fu ben tosto ucciso da Vitige suo generale che fu proclamato re.[374] Tale era lo stato delle cose quando Belisario venne alla conquista d’Italia. Queste vicende gliela rendevano facile. S’impadronì di Roma senza combattere. Ivi depose il pontefice Silverio e creò in suo luogo Vigilio. Era forse Silverio reo di Stato? No: l’imperatrice Teodora seguiva l’eresia di Eutichio detta ancora acefalica. Ella volea un papa acefalico. Vigilio le promise di esserlo. Fu questa la cagione di tal deposizione. Silverio fu ucciso da un sicario. Un gran generale era ministro di tai deliri.

Vitige ricorse a’ Franchi per resistere a Belisario e per patto della lega loro cedè i paesi che possedeva nelle Gallie. Essi vennero in Italia condotti da Teodeberto lor generale, batterono Greci e Goti, e ritornarono al loro paese.[375] Narsete venne ad unirsi a Belisario. Vitige era troppo debole per resistere a sì gran generali. Si rese a Belisario, che entrò in Ravenna. Le donne gote credevano i Greci di molto superiori in numero, e misurandoli col timore de’ lor mariti si persuadevano che fosser giganti. Quando ne videro pochi, e grandi come gli altri uomini, entrare in Ravenna, sputavano in faccia de’ soldati e li rimproveravano di codardia.[376] Il vinto re visse tranquillamente il restante de’ suoi giorni a Costantinopoli.[377] Ildibaldo, poi Errarico, regnarono dopo di lui fra i torbidi; furono l’un dopo l’altro uccisi. Giustiniano abolì la carica di console la quale sin’ora era sussistita nell’uno e nell’altro impero. Furono in appresso consoli perpetui gli augusti, e questa fu l’ultima dignità che si aggregasse costantemente alla corona.

Giustiniano divenne geloso delle conquiste di Belisario. Un principe che non vide mai guerra qual’egli era ha bisogno di grandi uomini, e deve tenerli. Gli è forza confidar tremando la somma delle cose ad un uomo solo. I Goti pregavano Belisario a farsi loro re: egli ricusava. Fu ciò non ostante richiamato: gli fu tolta la carica di generale, e per qualche tempo il vincitore de’ Goti e de’ Vandali dovette cercare un asilo nella oscurità contro le insidie che gli tendeva quel principe ch’era grande per lui. Anche Narsete fu richiamato.

Totila fatto re de’ Goti riacquistò la maggior parte d’Italia. Le armi di Giustiniano erano rivolte contro di Cosroe re della Persia che gli moveva una furiosa guerra e de’ Slavi che invadevano l’Illirico e la Tracia. Bilanciavasi l’imperatore fra tanti nemici. Se spediva le armate dall’una parte mancavangli dall’altra. Da ciò ne veniva che ora i Greci, ora i Goti in Italia aveano alterni vantaggi, or gli uni erano in alcuna città, or gli altri, nè altrimenti finiva tal funesta vicenda di vittorie e di sconfitte, di prese e di perdite, che col saccheggio universale di questa provincia.

Giustiniano lungi dai rumori delle guerre, cattivo teologo e cattivo principe, disputava di controversia col papa Vigilio. La questione era sulla opinione di Nestorio. Ella consisteva in mettere in Gesù Cristo due nature e due persone dividendo il Dio dall’uomo, e sostenendo che il figlio di Maria non era che il tempio della divinità, ed un puro uomo. La differenza che passava da questa opinione a quella di Eutichio intorno a tal punto della incarnazione era che Eutichio avea sostenuto esser confuse in Gesù Cristo le due nature di deità e di umanità, e Nestorio le faceva distinte e separate. È difficile il chiamar questa una disputa d’idee. La credenza della Chiesa cattolica è che Gesù Cristo sia una sola persona in due distinte nature.

Giustiniano sosteneva la dottrina di Nestorio. Fece venire a Costantinopoli il papa Vigilio. Si disputò: nè altrimenti lo convinse che col farlo fuggire. Molte violenze sofferse il papa. Fu insidiato a morte. Dovette ricovrarsi in una chiesa ove fu sorpreso da’ soldati che lo ricercavano. Lo svelsero dall’altare a cui s’era rifugiato, tirandolo per li piedi, per la barba e pe’ capelli.[378] Dopo vari insulti si sottrasse, e fuggì a Roma. Tali erano le imprese dell’imperatore.

Belisario era troppo necessario ad un principe teologo fra guerre pericolose, per non essere richiamato. Fu spedito in Italia. Anche Narsete vi ritornò. Sconfisse Totila che morì in battaglia, uomo pieno di valore e di umanità. La sua veste insanguinata e la sua corona carica di gemme furono presentate a Giustiniano con un fasto ben orientale. Vennero gettate queste spoglie a’ piedi dell’imperatore.[379] Teia ultimo re de’ Goti fece dopo di Totila gli ultimi sforzi. Ma per poco; e in lui fu estinto questo regno, che circa sessantaquattro anni durò. Eutropio[380] dice che fra i patti della pace de’ Goti con Narsete vi fu che tutti sortissero d’Italia. Taluno ha pur creduto che questo si avverasse. Dopo molti anni che vi dimoravano avrebberonla quasi spopolata col partirsene. Questa promessa è inverisimile. Egli è però certo che i Goti seguitarono a soggiornare in questa provincia.

Forse contribuì alla estinzione del loro regno il non avere accettata la religione cattolica. Per quanto dolce sia stato il loro governo, erano tuttavia risguardati non senza quell’orrore con cui si vedono gli uomini di credenza diversa. Sono dispareri troppo grandi. Non bastava la insigne lor tolleranza. Eran tempi di controversie furiose. Gl’imperatori che combattevano co’ loro sudditi per disputare di teologia che non intendevano, perchè avrebbono lasciata tranquilla una nazione di eretici che loro occupava parte dell’impero?

Se Teodorico abbandonava l’arianismo, come fecero Clodoveo e Ricaredo re de’ Visigoti nelle Spagne, avrebbe, per avventura, regnato lungo tempo com’essi.

Le frequenti dissensioni nella elezione de’ pontefici aveano insegnato a’ re Goti a renderla da loro dipendente. Quella carica era divenuta troppo importante perchè i principi non se ne dovessero ricordare. Perciò era già stabilito, regnando Teodorico, che non si consacrasse il papa eletto, senza l’approvazione del re. Seguirono tal costume gl’imperatori sino oltre la metà dell’undecimo secolo. Si sceglieva il papa, come tutti gli altri vescovi, dal clero, magistrati, nobili, soldati e popolo. Dopo se ne inviava il decreto a Costantinopoli per ottenere la confermazione. Si pagava in tale occasione un certo tributo all’imperatore.[381] Davano altresì i papi dopo la conferma un regalo al clero: questo dono chiamavasi roga. Tal costume discendeva forse dal congiario che davano gl’imperatori a’ soldati quand’erano eletti.

Giustiniano si dimenticava della Italia, appena conquistata. I barbari entravano per fino in Costantinopoli. Egli intanto si mischiava nelle fazioni veneta e prasina. Erano partiti nati ne’ teatri e ne’ circhi e tutto sconvolgevano Costantinopoli. L’im­peratore era de’ prasini, e lor permetteva di entrare violentemente nelle case de’ veneti, di saccheggiarle e di ucciderli impunemente.

Per quanto la vecchiezza lo avesse reso quasi stupido, non si dimenticava della teologia, e poco prima di morire pubblicò una legge nella quale dichiarava incorruttibile e non soggetto a passione il corpo di Gesù Cristo[382] avanti la resurrezione. Stava per bandire tutti i vescovi che non erano del suo parere. La morte troncò i suoi teologici deliri.

Si è celebre quest’imperatore per aver fatta fare da Tribuniano la raccolta e la riforma delle leggi romane. Con questa vive la maggior parte di Europa. Teodosio iuniore prima di lui avea fatto lo stesso. Abbiamo il suo Codice detto perciò Teodosiano in cui sono raccolti gli editti degli antecedenti imperatori. Questa legislazione fu molto stimata da’ Goti, dai Franchi e dagli altri popoli settentrionali, che la segui­rono in molte parti.

Giustiniano fece un più vasto progetto: ordinò che si riunisse in una raccolta l’estratto di tutto ciò che costituiva la romana giurisprudenza: editti de’ pretori, senatus consulti, comenti, opere de’ giureconsulti, risposte loro, constituzioni impe­riali. Questa gran massa di leggi formava, al dir di Eunapio, il carico di molti cameli. Lo stesso accade oggidì. Abbiamo ventimila volumi di opere legali in foglio. In tutte le nazioni la cosa men semplice sono le leggi. In mezzo alla somma coltura v’è questa somma barbarie. I filosofi non hanno fin’ora rivolti i loro sguardi a queste materie.

Come un principe qual Giustiniano pensò a sì grand’opera? È troppo facile l’attribuire a lui il pensiero di qualche giureconsulto de’ suoi tempi. Qual legislatore poteva esser Giustiniano! Egli era così diretto dalla imperatrice Teodora che consult­ava le leggi con lei: «abbiamo preso il parere», ei dice talvolta, «da quella che Dio ci ha data, reverendissima consorte». Notate ch’ella è stata una donna di teatro prosti­tuita. Le leggi favorevoli alle donne che si ritrovano in questo codice si attribuiscono a lei. Tribuniano poi eletto per legislatore vendeva le leggi.[383]

Vennero in seguito le leggi de’ Longobardi, nè queste per lungo tempo abolirono il diritto romano, ma bensì era permesso a ciascuno di scegliere con quale delle due legislazioni viver volesse: laonde troviamo in tante carte un tale vivens lege Longobardorum, oppure lege Romanorum. Era obbligato ciascuno a fare publica e solenne professione a qual legge volesse esser sottoposto.

Capo XIV. Del regno de’ Longobardi e sua estinzione. Rinnovazione dell’impero occidentale in Carlo Magno. Alcuni usi di que’ tempi.

Altro non produsse la conquista d’Italia fatta da’ Greci che un lento macello de’ suoi abitatori. Il successore di Giustiniano, Giustino II, intento alla non mai finita guerra persiana, nulla si curava di questa penisola, riposta in un canto del suo vacil­lante imperio.

Parea che le immense emigrazioni di molti secoli dovessero aver spopolato il Settentrione, ma quella vagina delle genti non cessava di rigurgitare. L’Europa, parte dell’Asia e le coste dell’Affrica erano ricondotte all’antico stato di barbarie. Nelle piccole isole di Grado cresceva la popolazione. Era questo l’unico ricovero all’universal disordine. Roma e Venezia cominciarono coll’asilo. Fu creato il primo doge in Eraclea l’anno seicentodiecisette. Ebbe nome Pauluccio.[384]

Alboino re de’ Longobardi, soggiogati i Gepidi, venne dalla Pannonia in Italia seco menando, oltre la sua nazione, Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannoni, Svevi, Norici ed altri popoli saccheggiatori.[385] I Longobardi erano una nazione già anticamente conosciuta. Strabone, Tacito, Tolomeo, Patercolo ne parlarono. Ma non ne conosce­vano che il nome questi autori. È inutile fatica il ricercar l’origine di questi popoli settentrionali per chi non si contenti di qualche congettura. Chi può conoscere la storia di gente che non la scriveva? Paolo Diacono stesso, l’unico storico de’ Longobardi, vivendo nell’ottavo secolo non ritrovava memorie di questa nazione anche dopo ch’era venuta da noi. Ne’ primi anni del loro regno in Italia ei non rinvenne altri che un certo Secondo vescovo di Trento che registrasse qualche notizia di que’ strepitosi avvenimenti.

Le spedizioni de’ Settentrionali erano come quelle degli odierni Tartari. I Longo­bardi venendo in Italia seco condussero donne, fanciulli e su de’ carri ogni cosa, come se cangiassero d’abitazione. Questa sicurezza di conquistare poteva sconcertare anche un grand’uomo di guerra. Così avevano fatto i Goti, così prima di loro i Cimbri, quando vennero da noi.

Più non vivea un Belisario. I Longobardi quasi non ebbero da combattere per istabilirsi in Italia. Narsete, lungi dal difenderla, fe’ venire in quella essi Longobardi. L’imperatore Giustino non temette di offendere un grand’uomo. Richiamollo d’Italia, gli tolse il di lei governo e mandovvi Longino che col titolo di esarca la reggeva dimorando in Ravenna. Narsete vendicossi di questa ingiusta preferenza. Era amico intimo di Alboino, lo persuase a far questa conquista.[386]

Era costume de’ Longobardi, come di quasi tutti i popoli settentrionali, di bere nel cranio de’ nemici. Alboino si serviva di quello di Cunimondo re de’ Gepidi che aveva ucciso in battaglia.[387] Nello stesso tempo egli avea per moglie Rosmonda figlia di quel re. Quai costumi. Abbracciando la figlia, ubbriacarsi nel cranio del padre. Al­boino arrivò un giorno all’orrore d’invitare Rosmonda istessa a bere in quella coppa funesta dicendoli per ischerno che così berrebbe in compagnia di suo padre. Ciò fu cagione della morte di Alboino. Rosmonda si vendicò di quest’atroce insulto. È strana la maniera in cui lo fece. Un certo Perideo era amante di una di lei cameriera. Volea indurlo ad uccidere il re. Rosmonda di notte si sostituì al luogo della cameriera. Perideo senza saperlo contrasse una illustre parentela. La regina dopo il fatto se le scoprì e lo pose in necessità o di uccidere il marito, o di esser punito da lui. Maritossi di poi Rosmonda con Almichi scudiero di Alboino. Volle rimaner vedova la seconda volta. Tentò di avvelenare il nuovo marito. Egli avea già in parte bevuto il veleno quando s’avvide del tradimento: fe’ trancannare il restante a lei, con che ambi morirono. Quest’è un cumulo di atrocità.

Raunaronsi i capi della nazione in Pavia per iscegliere un re. Quella città fu la sede de’ Longobardi, come Ravenna de’ Goti, e poi degli esarchi. Fu eletto Clefo. Il cerimoniale in quest’occasione era di presentare un’asta. Tal fu il costume degli antichi Germani, gente a questa similissima. Clefo in dieciotto mesi di regno fe’ uccidere molti Italiani, poi fu assassinato da un suo famiglio.[388] Per dieci anni in seguito i Longobardi non ebbero re, ma si governarono co’ loro duchi, che arrivarono al numero di trentasei costituendo un’aristocrazia.

Lasciamo per un momento le vicende politiche. Paolo Diacono così descrive l’abito de’ Longobardi.[389] Radevansi dalla cervice sino alla nuca, e gli altri capelli divideano lateralmente lasciandoli crescere sino alla drittura della bocca. I loro vesti­menti erano larghi, principalmente di tela, come usavano in que’ tempi anche gli Anglosassoni; ornavanli di larghe liste tessute a vari colori. Le scarpe aveano aperte al di sopra, ed allacciavanle con stringhe di pelle.

Portavano la barba lunga. Perciò furono detti Longobardi, come crede Paolo Diacono. Parea loro un non so che di servile il radersi. L’istesse idee aveano i Greci, i quali si burlavano de’ Latini perchè si radessero la barba; gli accusavano perciò di mancare alla disciplina. Accusa ridicola, seriamente confutata da Enea vescovo di Parigi e da Ratranno monaco di Corbeia.

Talmente era onorevole la barba lunga presso questa nazione, che era un soggetto di gran lode l’averla. V’era in Ravenna questa inscrizione di un Longobardo:

«Terribilis visu facies, sed corda benigna;

Longaque robusto pectore barba fuit».

Era sommo oltraggio il porre le mani nell’altrui barba. Le loro leggi punivano qui surgente rixa per barbam aut capillos hominem liberum taxerit. Erano onorati a preferenza gli uomini più robusti. Idea di tutt’i popoli guerrieri prima che l’invenzione della polvere rendesse inutile il valor personale. Le doti apertamente utili alla società sono sempre stimate. Si recavano, per conseguenza, a grande ingiuria l’esser chiamati codardi; lo che dicevano nella loro lingua arga. Chi profferiva quest’ingiuria era condannato dalle leggi alla multa di dodici soldi ed a disdirsi solennemente, oppure a sostenere in duello quanto avea detto.[390]

Bisogna che questi popoli settentrionali amassero molto il vino. Carlo Magno stabilì con legge che: «Iudices ieiuni causas audirent et discernerent».[391]

Benchè i Longobardi venissero in Italia con un torrente di popoli i quali sembrava che al momento doverserla tutta soggiogare, pure Roma, Ravenna, Gaeta, Amalfi ed alcune marittime città della Puglia e della Calabria non furono mai in loro potere. Meglio sarebbe stata una totale conquista, perchè tutto il tempo che vi rimasero questa provincia fu teatro di guerra fra loro ed i Greci. Ogni città avea il nemico poco lontano, e si custodiva con estrema gelosia. Ogni cittadino era soldato. Il clero, i monaci, i vescovi, gli abati non erano dispensati dalla milizia; le leggi glieli obbligavano. Seguitò tal costume sin dopo il secolo decimo.

Finì l’aristocrazia de’ duchi longobardi con iscegliere per re Attuari. Maurizio imperatore d’Oriente per vincerli s’appigliò a quel partito che avea già inutilmente provato il re de’ Goti Vitige. Ricorse a’ Franchi. L’esito fu lo stesso. Comprò l’impe­ratore il coraggio di Chidelberto re de’ Franchi con cinquantamila soldi d’oro, perchè scacciasse i Longobardi d’Italia. Venne quel re. I Longobardi con altrettanto danaro lo fecero ritornare.[392] Attuari poco dopo morì di veleno.

Gli successe Agisolfo. La famosa regina Teodolinda era sua moglie. Ella fece abbracciare la religione cattolica a suo marito, fece fabbricare il tempio di S. Giovanni in Monza, fece assassinare Gundoaldo suo fratello duca di Asti, perchè era troppo amato da’ Longobardi.[393]

Agisolfo fu il primo re longobardo che accettasse la religione cristiana. Pure la dominante seguì ad essere l’ariana mista d’idolatria; quasi tutti i successori suoi furono di tal religione. Adoravano i Longobardi certe fonti e certi alberi che chiamavano sanctivi. La vipera era molto venerata appo loro; credevanla una dea protettrice, era il loro palladio, ciascuno ne teneva un’immagine in casa. L’istesse superstizioni aveano i Franchi, e convien credere che fossero comuni ai popoli settentrionali poichè tutti a un di presso si somigliavano. A questi alberi sacri attaccavano i Longobardi un pezzo di cuoio, e correndo a cavallo scoccavano all’indietro i dardi contro di lui. Se colpivano e staccavano un poco di quel cuoio lo masticavano divotamente. Le prime leggi contro l’idolatria si ritrovano più di un secolo dopo regnando il re Liutprando, ed alla fine del secolo decimo i Longobardi beneventani adoravano ancor la vipera. V’è tuttavia in Milano nell’antica chiesa di S. Ambrogio una vipera di metallo su di una colonna. Sembra un avanzo di questa superstizione.

Benchè i Longobardi fossero ariani-idolatri tollerarono, come i Goti, la religione de’ vinti. Non inquietarono i cattolici per tal motivo. In quasi tutte le città v’era un vescovo ariano ed un altro cattolico.[394]

Adaolaldo, poi Ariovaldo furono successori di Agisolfo; questo è quanto può dirsi di loro. Rottari fu re dopo di essi, degno di uno sguardo per avere il primo date leggi scritte alla sua nazione, che fin’allora non ebbe per norma de’ giudizi se non se alcune tradizioni.[395]

Una serie d’imperatori imbecilli avea ridotto l’impero d’Oriente alla impotenza di soccorrere l’Italia. Vi spedivano un esarca in Ravenna e de’ governatori nelle città, i quali non altra cura si prendevano che di arricchirsi colle estorsioni. Gli esarchi compravano con trecento libre d’oro la pace da’ Longobardi, dividendo con loro la preda, perchè gliela lasciassero impunemente fare. Molti oppressi da tal governo si ricovravano dai Longobardi. Il papa Gregorio M. che tanto si lagna nelle sue lettere della ferocia di questa nazione scrive: «benigniores sunt hostes, quam republicae iudices, qui nos malitia sua, rapinis atque fallaciis interimunt».

Non v’era chi pensasse agli affari d’Italia come il papa Gregorio. Ei comandava in Roma da sovrano e si chiamava nelle sue lettere «verme della terra»[396] e suddito dell’imperatore. Non v’era chi si prendesse briga di resistere a’ Longobardi. Il papa si maneggiava per far le paci, scriveva a’ vescovi ch’erano nelle città greche, di ben custodirle, di difenderle, dava tutte le disposizioni; uomo pieno di attività, degno d’unir lo scettro alla tiara.

Questo pontefice chiamava sempre i Longobardi nefandissima gens, ed i loro re vostra eccellenza. Questo era il titolo che allora i papi davano ai principi. Lo usavano ancora co’ re franchi. Giovanni il Digiunatore patriarca di Costantinopoli si diede in questi tempi il titolo di Ecumenico. Gregorio per opporre la umiltà al fasto si chiamò servo de’ servi del Signore. Fu il primo che usasse tal titolo.

Gregorio M. dipinge la nazione de’ Longobardi come un aggregato di mostri, ed il loro governo crudelissimo. Essi aveano spopolata, secondo lui, l’Italia, minate le città, e quasi ridotta a deserto questa provincia. Paolo Diacono così ne scrive: «Vi fu ciò di meraviglioso nel governo de’ Longobardi, che non v’era alcuna violenza; non insidie, non angherie, non oppressioni, non furti, non ladroneggi. Ciascuno poteva andar dove più gli piaceva sicuro e senza timore».[397]

Gli Arabi erano divenuti una nazione terribile. Lo spirito di conquista che colla sua religione loro inspirava Maometto[398] faceva tremar gl’imperatori d’Oriente. Si vedeva dall’una parte una distruggitrice, dall’altra una cavillosa superstizione. Gl’im­peratori, circondati da grandi nemici, riducevano il loro regno alle mura di Costanti­nopoli. Eraclio pensò a ricovrarsi in Africa, più non credendosi sicuro in quella capitale. Diocleziano e Costantino si avvicinarono a’ barbari per loro resistere, ora si pensava a fuggire.

In quest’istesso secolo nel quale Maometto seduceva e desolava l’Asia vi fu un men fortunato impostore nella Francia.[399] Egli era nativo di Bery. Chiamavasi Cristo ed avea con sè una donna che si diceva Maria. Non mancò di spacciar miracoli: gli venivano fatte molte oblazioni. Assaltava alla strada i viandanti e poi faceva elemosina delle loro spoglie. Uccideva chi non lo adorava. Con tal metodo di ragionare convinse gran quantità di persone che lo seguitarono. Saccheggiava la Francia con questi discepoli. Spediva nelle città ad annunciare la sua venuta uomini ignudi che saltavano e gridavano come baccanti. Finalmente fu ucciso l’impostore e torturata la donna. Non per questo si cessò di venerarlo. Anzi molti altri simili Cristi vennero dietro le sue tracce vagando con una Maria, ed esercitando la sempre grande bontà dei popoli.

L’eresia de’ monoteliti, neganti due diverse volontà in Gesù Cristo, cominciava a dar nuovo alimento al non mai spento fuoco di controversia. Si era già disputato delle due nature e delle due persone. Teodoro arcivescovo di Faran nell’Arabia ora fu l’autore di questa disputa. Ei sosteneva in Gesù Cristo una sola volontà. Sergio patriarca di Costantinopoli e Ciro vescovo di Faside seguivano la stessa opinione e la difendevano caldamente. Sergio avea consultato il papa Onorio su di tal questione, il qual gli rispose: «Noi confessiamo una sola volontà in Gesù Cristo», e trattò di novità scandalosa il dire che vi sieno nel figlio di Dio due volontà, e finì coll’imporre silenzio a questa disputa ch’ei chiamava di parole.

In seguito l’imperatore Costante, avendo in vista le decisioni di Onorio, credette di poter pubblicare un editto in cui proibiva di fare simile disputa. Quest’è il famoso Tipo di Costante. Il papa Teodoro, che allora viveva, non trovò giusto il Tipo, nè gli altri papi vi sottoscrissero. Teodoro scomunicò Paolo patriarca di Costantinopoli che avea indotto l’imperatore a pubblicare quella legge. Martino dopo di lui vi si oppose egualmente. La controversia si cangiò al solito in una guerra. L’imperatore ordinò all’esarca di Ravenna che facesse prigione il papa Martino. Fu preso nella Basilica Lateranense, dove s’era rifugiato, in letto avanti dell’altare. Veniva accusato d’essersi fatto consacrare senza il consenso dell’imperatore, di avere scomunicato il patriarca di Costantinopoli, e di aver dichiarati eretici i monoteliti. Condotto in Costantinopoli, gli furono tolti gli abiti pontificali e, con un colare di ferro condotto per la città, fu mandato in esilio, dove morì.

Costante venne di poi in Italia. Egli avea fatto il progetto di scacciarne i Longo­bardi. Entrò in Roma, ove i dodici giorni che vi dimorò altro non fece che saccheggiare gli ornamenti di metallo che usavansi nelle architetture. Tolse le tegole di rame del Panteon. Portò da quella città un ricco bottino, e ritirossi in Sicilia. Fu ucciso in Siracusa mentr’era nel bagno.[400]

Venendo i Longobardi in Italia si erano formati fra gli altri tre insigni ducati, Friuli, Spoleto e Benevento. Il duca di Benevento poteva dirsi un altro re d’Italia. Comprendeva quel ducato quasi tutto l’odierno Regno di Napoli. Questi duchi erano vasalli dei re. Altri conti aveano il governo di una o più città. Si distinguevano que’ di Capoa e di Torino. Tutto era governato da’ Longobardi con duchi e conti. Sono queste le prime tracce del governo feudale in Italia.

I Longobardi possono veramente dirsi gli autori di tal sistema in quanto che le loro leggi e consuetudini feudali furono ricevute in tutta l’Europa. I Libri de’ feudi che abbiamo sono originariamente composti dalle loro tradizioni. Questo sistema produsse delle continue discordie civili. I re longobardi avevano ad ogni momento in questi troppo possenti vasalli un ribelle da vincere. Reca meraviglia come susistesse questo regno fra gli urti continui de’ Franchi, de’ Greci, degli Arabi e de’ suoi conti e duchi.

In questi secoli tutti gli Stati d’Europa erano divisi in feudi. I popoli settentrionali ci portarono questa usanza. Il feudo consisteva in concedere le rendite e la signoria delle terre, castella e città a condizione di servire alla guerra il suo sovrano. I feudatari subinfeudavano i loro piccoli Stati per aver sotto gli occhi un’immagine di potenza. Tutt’i loro inservienti aveano per salario qualche villa, castello o terreno in subfeudo. Fabri, portinai, marescalchi, cantinieri, cuochi, sartori, fornai, scudellari, facchini, corrieri, muratori, litighieri, falignami ecc., erano tutti feudatari. Da vecchi documenti apparisce che tal uso era nella corte dell’arcivescovo di Milano e de’ patriarchi di Aquileia.

Le cariche di contestabile e di mariscalco erano delle più distinte. Le troviamo alle corti de’ re franchi e de’ principi di Benevento: ambe consistevano in sopraintendere alle stalle del principe, o nel grado di primo cavallerizzo. Queste dignità non potevano essere originalmente cotanto onorevoli, se non se in popoli che molto usavano il cavalcare. I settentrionali prima di venire da noi si stabilirono nella Scizia e nella Pannonia, oggidì dette Gran Tartaria ed Ongheria. In questi paesi fu sempre in grand’uso il cavalcare. Forse vi sarebbe stato fra gl’idoli di queste nazioni anche il cavallo, se gli oggetti troppo comuni potessero inspirare venerazione e timore. Questi due titoli di mariscalco, che si mutò in maresciallo, e di contestabile, si diedero in appresso ai generali d’armata.

I due fratelli Bertarido e Godeberto si disputavano il regno d’Italia. Grimoaldo duca di Benevento profittò di queste dissensioni. Uccise Godeberto. Il fratello Berta­rido a tal nuova se ne fuggì a Cacano re degli Avari. Il duca minacciò questo re di fargli guerra se dava asilo ne’ suoi Stati al fuggitivo Bertarido, il quale prese il partito di gettarsi ai piedi del duca. Esso gli promise di tenerlo ne’ suoi Stati senza alcuna molestia: gli diede alloggio e pensione. Poi, vociferandosi che i Longobardi pensavano a rimetterlo sul trono, ordinò che fosse segretamente ucciso. Ciò scopertosi da Berta­rido, se ne fuggì la notte istessa destinata al suo eccidio e si ricovrò in Francia. Aveano diretta questa fuga due suoi fedeli cortigiani. Furono presi, e Grimoaldo, lungi dal punirli, rispose a chi glielo volea persuadere: «Per quel Dio che mi ha fatto nascere sono degni costoro di essere premiati perchè furono fedeli al loro principe con pericolo della vita istessa»;[401] di fatti li ricolmò di lodi, li regalò e li mandò al loro padrone. Non si può essere più generosamente usurpatore.

Bertarido indusse Clotario III re di Parigi e della Borgogna a vendicarlo. Venne quel re per ritornarsene sconfitto. Intanto che tai dispute v’erano per un regno, Mauro arcivescovo di Ravenna ed il papa Vitaliano contendevano di gerusdizione. Vicende­volmente scomunicatisi rimisero la controversia all’imperatore. La questione era che entrambi pretendevano alla autocefalia, ossia all’indipendenza d’ogni altra Chiesa. Decise l’imperatore che la Chiesa di Ravenna non dovesse avere nessuno superiore ecclesiastico e massimamente che il papa non dovesse ingerirsi nel di lei governo in conto alcuno.[402] Non è strana questa decisione. La capitale de’ Greci in Italia era Ravenna, in essa risedeva l’esarca, in essa avea autorità l’imperatore, in Roma quasi nessuna.

Benchè i pontefici fossero risguardati di tempo in tempo dagl’imperatori come sudditi, pure la loro considerazione andava crescendo; anzi gl’insulti che talvolta soffrivano provano che gli augusti non erano lor sovrani. Chi ha il potere non adopera tai mezzi per comandare. Erano sfoghi di un debol principe che si vendicava, quando il poteva, della loro indipendenza. Ho detto che la considerazione de’ papi andava crescendo. L’imperatore Costantino II mandò in dono a Benedetto II i capelli de’ suoi figliuoli Giustiniano ed Eraclio. Questi capelli furono accolti in Roma con grande solennità.[403] Tale offerta era un segno di omaggio. Chi riceveva i capelli di un giovine era considerato come suo padre adottivo.[404] Il re de’ Bulgari fece altrettanto. Mandò i suoi capelli al papa con dichiararsi servo del B. Pietro e del suo vicario. I gentili ebbero l’istesso costume. Offrivano le chiome agli dei; si era questo un dichiararsi lor servo.

Non v’era guerra più costante di quella delle teologiche opinioni. Ella forma la più funesta, lepida e copiosa parte della storia di questi tempi. Appena sopita la controversia de’ monoteliti un’altra ne venne in campo, coll’avere l’imperatore Leone Isauro proibito in tutti i suoi Stati il culto delle immagini. L’imperatore era in buona fede. Credeva che questo fosse un avanzo d’idolatria e che la potesse far revivere. Vi entrava anche la politica. Si persuadeva che distruggendo queste, ch’ei credeva reliquie del gentilesimo, il suo regno sarebbe divenuto più stabile, e si comprometteva di riacquistar l’Italia. Non eran sublimi questi ragionamenti. Dispiacque a tutti quest’e­ditto, e la violenza con cui Leone lo volea far eseguire. Non fu però egli il primo che facesse guerra alle immagini. Bardane Filippico gliela fece prima di lui.

Gregorio II era il pontefice; si trattarono da eretici con lettere. Il papa proibì che fossero pagati all’imperatore i tributi d’Italia.[405] L’imperatore ordinò all’esarca di Ravenna Paolo Patrizio che uccidesse il papa. Invano cercossi in tutta l’Italia un sicario. Liutprando re de’ Longobardi ed i Romani si armarono in di lui difesa. Il duca di Napoli, che prese le parti del suo principe, fatto prigioniero da’ Romani fu ucciso. La stessa sorte ebbe l’esarca di Ravenna, e si scacciò da Roma il governatore imperiale. Teofane disse di questi tempi che l’imperatore più non comandava in Italia. Anastasio assicura[406] che tutta l’Italia si ribellò all’imperatore in difesa del papa. Di fatti sdegnò tutti gl’Italiani la frenetica violenza con cui l’imperatore predicava i suoi dogmi. L’esarcato di Ravenna[407] venne in potere di Liutprando che s’immischiò in queste contese per guadagnarvi. Il ducato romano si tolse apertamente dalla soggezion degli augusti. I papi, se non si chiamarono sovrani in Roma dopo questa ribellione, lo erano. Sembra ch’essi fossero come il capo di una repubblica. Tal sistema durò sino alla venuta di Pipino. Anche prima di quest’epoca i papi avevano tanta autorità in Roma quanta bastava per esserne considerati sovrani. Non curiamoli. Dalle lettere di Grego­rio M. si può vedere ch’egli regolava tutti gli affari d’Italia. Vi sono de’ sovrani con gran titoli che non comandano ne’ lor Stati quanto in tai tempi i papi comandavano in Roma chiamandosi servi de’ servi del Signore. Il disprezzo degl’imperatori, il timore de’ Longobardi li facevan risguardare come i difensori di quella città. Al favore di forti mura che la circondava, di molta destrezza, di una cura indefessa ne aveano tenuti lontani i Longobardi. I greci imperatori mandavano in quella città i lor ministri: ma essi erano inutili ministri di più inutili monarchi. La pubblica opinione si rivolse a’ pontefici. Essi ressero Roma in questi tempi col più legittimo di tutti i diritti, il consenso comune.

Queste dispute delle immagini erano agitate con tutto lo spirito di partito. Si diedero in Ravenna delle battaglie. In una di queste tenzoni, essendo caduti molti Greci nel Po, gli Ravennati non mangiarono pesci di quel fiume per sei anni, come cibo contaminato da cadaveri eretici. Agnello nel Libro Pontificale vi aggiunge[408] che in quella occasione apparve fra i Greci e gl’Italiani un gran bue, il quale si pose a spargere co’ suoi piedi la polvere contro de’ Greci, e sentissi una voce che diceva: «Ravennati, combattete valorosamente, oggi avrete la vittoria». Non è la prima volta che i buoi abbiano parlato. Non mancano gravi autori per tutte le sciocchezze. Quale non era lo strepito di partito, se il fanatismo vedea questi prodigi? In tal guisa col sangue e colle stragi disputossi se fosse grato al Creatore dell’universo il culto delle immagini.

Gli Arabi, detti ancor Saraceni, aveano già tolta la Spagna a’ Visigoti: ora tenta­vano di entrare in Francia. Carlo Martello, che col titolo di Maestro del palazzo comandava in quel regno, si oppose a questo torrente. Spedì Pipino suo primogenito al re Liutprando per dichiararsi di lui figlio d’onore. Tal fonzione si fece tagliandoli Liutprando istesso di sua mano i capelli.[409] Lasciò Pipino in Italia le sue chiome per ottenere un’armata contro de’ Saraceni. Ve la condusse Liutprando istesso.

I papi assaliti da’ Longobardi e dagli imperatori più non sapevano ove rivolgersi. Era maggiore il pericolo che il potere della loro sovranità. Gregorio II avea già inutilmente chiamato a soccorrerlo Carlo Martello.[410] Ei fu il primo papa che s’appi­gliasse a questo partito. Gregorio III avea fatto altrettanto. Zaccaria avea per la stessa ragione spediti ambasciatori a Pipino. Ora le cose erano ridotte agli estremi.

Astolfo re de’ Longobardi volea aggiungere alle conquiste del suo antecessore anche Roma istessa. Stefano II vi si opponeva. Costantino Copronimo in vece di difenderla spediva lettere al papa nelle quali gli raccomandava caldamente la conser­vazione di questi Stati che chiamava ancor suoi; intanto pugnava colle immagini, univa concili. Il papa con maneggi e doni cercava di far desistere Astolfo e faceva delle processioni in Roma. Astolfo persisteva nel suo progetto. Il papa ricorse a Pipino. Erano vicendevoli i bisogni. Pipino avea tolto il regno di Francia a Chilperico III, inettissimo principe, e, secondo il sistema di que’ tempi, re di solo nome. I Mastri del palazzo aveano tutta l’autorità. Pipino avea bisogno che il papa benedicesse la sua fortuna, acciocchè non fosse risguardato come usurpatore, ma come legittimo re. La deposizione, per altro, di Chilperico, non era stata una ribellione. Ella si fece nella dieta della nazione tenuta a Soissons. Il papa sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà, ed ito a Parigi incoronò Pipino come legittimo signore.[411] Queste cerimonie conferi­vano diritti meno chiari dei voti della nazione, ma più sicuri. Divenne così sacra la impresa di Pipino, e gli si acquistò la veneranda opinione. La in ogni tempo terribile, ma in quelli dominante superstizione non poteva nuocere al nuovo re. Sciolto era il giuramento. Pipino fu l’onto del Signore. Il deposto Chilperico fu tonsurato, e messo nel monastero di S. Bertino.

Pipino promise al papa di soccorrerlo. Venne in Italia per un momento. Nulla tralasciò il papa per richiamarvelo. Mise a profitto tutta la divozione di quel principe. Scrisse una lettera a lui ed a Carlo e Carlomanno suoi figli in nome di S. Pietro, della B. Vergine, dei troni e delle dominazioni, e di tutta la celeste milizia de’ martiri e confessori: «Currite, currite (è S. Pietro che parla) per Deum vivum et verum vos adhortor et protestor, currite, et subvenite antequam fons vivus, unde satiati et renati estis exarescat, antequam ipsa modica favilla de flagrantissima flamma remanens, ex quam vestram lucem cognovistis, extinguatur. Protestor vos dilectissimi filii mei adoptivi ego apostolus Dei Petrus: liberate Romanum populum, fratres vestros, et nequaquam invadi permittatis a gente Longobardorum. Nullus enim accepit coronam qui non legitime decertaverit, et vos decertate fortiter, pro liberatione Sanctae Dei Ecclesiae, ne in aeternum pereatis, ne lanientur et crucientur corpore et animae vestrae in aeterno atque in inestinguibile tartares igne cum diabulo, et eius pestiferis angelis. Ecce filii carissimi praedicans admonui vos. Si obedieritis velociter, erit vobis ad magnam mercedem et meis suffragiis adiuvati, et in praesenti vita omnes vestros inimicos superantes, et longaevi persistentes bona terrae comedetis, et aeterna procul dubio fruemini vita. Sin autem, quod non credimus, aliquam posueritis moram, aut adinventionem minime velociter hanc nostram implendo adhortationem, ad liberandam hanc meam civitatem romanam, et S. Dei apostolicam Ecclesiam mihi a Domino comissam simul et eius praesulem, sciatis vos ex authoritate Sanctae et unicae Trinitatis, per gratiam apostulatus, quae data est mihi a Christo Domno, vos alienari pro trasgressione nostrae adhortationis a Regno Dei, et vita aeterna».[412]

La lettera non fu inutile. Ritornò tosto Pipino in Italia; assediò Astolfo in Pavia; lo costrinse a pagarli gran somma d’oro e donò al papa l’esarcato di Ravenna e la Pentapoli, poi in Francia ritornò. Costantino Copronimo imperatore d’Oriente lasciò regalare alla S. Chiesa da un principe straniero i suoi Stati, e mandò in dono a Pipino un’organo che fu accolto come una gran meraviglia.

Desiderio ultimo re de’ Longobardi tentò in vano di riacquistare un regno per­duto. Carlo Magno figlio di Pipino, chiamato in Italia dal pontefice Adriano I, lo fe’ prigioniero e mandollo a Liegi. Fu accolto il vincitore in Roma fra gli applausi del popolo e da’ Longobardi istessi fu proclamato re. Confermò la donazione di suo padre. Anastasio Bibliotecario ebbe a cuore di far così generosa questa donazione che nulla sarebbe rimasto a Carlo del conquistato regno de’ Longobardi. Si pretese che Lodovico il Pio la ampliasse di molto colla famosa carta Ego Lodovicus. Ma la buona critica ripone quel documento accanto alla donazione di Costantino. La liberalità di Carlo si estese soltanto all’Esarcato di Ravenna ed alle cinque città della Pentapoli, le quali si credono Rimini, Ancona, Pesaro, Umana e Fano. In ciò consistè la donazione, secondo le più verisimili congetture.

Non si sa bene qual fosse la natura di questo gran dono. Le memorie tramandateci possono persuadere che si dassero questi presi in feudo ed in redenzion de’ peccati: due costumi comunissimi in que’ secoli. Troviamo segni non equivoci di vassallaggio dalla parte de’ papi. Leone III, successore di Adriano, scrisse a Carlo di essere stato eletto pontefice, pregandolo di mandare chi ricevesse il giuramento di fedeltà dal popolo romano come seguì,[413] e Carlo gli rispose che rallegravasi della sua elezione, «et in promissionis ad nos fidelitate».[414] Si fece sotto lo stesso papa un concilio in Roma: «Praecipiente gloriosissimo ac piissimo Domino nostro Carolo». Stefano IV, successore di Leone, come scrive Tegano[415] storico contemporaneo, «statim postquam pontificatum suscepit iussit omnem populum Romanum fidelitatem cum iuramento promittere Lodovico»: cioè a Lodovico il Pio successore di Carlo. Egli è costante che lungo tempo durò il costume di non consacrare il papa eletto senza l’approvazione degl’imperatori. Se Eginardo segretario di Carlo M. dice il vero, l’Italia tutta comin­ciando da Aosta sino agli estremi della Calabria fu a lui soggetta. Troviamo che Carlo M. mandò i missi dominici ne’ Stati della Chiesa a’ tempi di Leone III. Questi altro non erano che sindicatori imperiali che mandavansi ne’ Stati de’ feudatari a togliere gli abusi del governo, le estorsioni de’ magistrati, ed a regolare l’amministrazione della giustizia. Non vi può esser maggior segno di dipendenza. Carlo Magno fu l’inventore di queste visite imperiali. Da ciò possi conchiudere che gl’imperatori avessero la sovranità in Roma, fosse o non fosse essa compresa in questa donazione, ed almeno l’alto dominio nell’Esarcato di Ravenna e nella Pentapoli. Ciò è conforme a tutta la storia ed alla situazione del donante e del donatario, l’uno de’ quali era protetto, e l’altro protettore. Queste relazioni fra di essi furono più o meno in vigore, secondo che più o meno erano forti i papi o gl’imperatori. Si sono fatte, e si faranno, delle erudite disertazioni per istabilire i confini di questa dipendenza, e quando e come precisamente i papi divenissero sovrani in Roma. Dalle memorie però che ci restano non sembra possibile di sciogliere questo problema con tale esattezza che non lasci luogo ad altri sistemi. Si tratta di verisimiglianze. Come fisare i giusti limiti di tante rivoluzioni? Ciascuno definisce la sovranità come la intende, altri nel dritto, altri nel fatto la ripone e son sicuri con tal metodo di esser sempre di diverso parere. Ciò che è costante, Alessandro I fu il primo pontefice che si consacrasse senza aspettare l’approvazion dell’imperatore l’anno mille e settantuno, e di poi seguitò questa indipendenza. Ed i prefetti imperiali vi furono in Roma sino a’ tempi d’Innocenzo III, cioè verso la fine del secolo duodecimo.

Carlo ebbe la corona imperiale dalle mani di Leone III il giorno di Natale alla messa, ed il di lui figlio Pipino fu unto re d’Italia. Così fu rinnovato l’imperio occi­dentale. Costantino imperatore d’Oriente mandò una flotta che fu sconfitta. L’impe­ratrice Irene sua madre tanto fu lontana dal riguardar Carlo come nemico, che trattò con lui di matrimonio.[416] Ella avea ristabilito il culto delle immagini, ed avea fatto accecare Costantino suo figlio per sola regnare.[417] Niceforo, dopo di lei, fe’ pace con Carlo lasciandogli ciò che toglier non gli poteva. Così finì il regno de’ Longobardi in Italia, che per più di due secoli vi durò.

Lo spirito di controversia era un fuoco sopito, ma non mai spento. Venne in campo la disputa della processione dello Spirito Santo, s’egli dal Padre e dal Figlio o soltanto dal Padre procedesse. Un monaco di Gerusalemme la eccitò. Si trattava di aggiungere al Simbolo il filioque. La Chiesa non vi avea ancor messa questa particola. Si tenne un concilio in Aquisgrana. Fu rimessa la disputa al papa, il quale decise che non si aggiungesse al Simbolo il filioque, come attesta l’abbate Smaragdo che fu presente alla conferenza del papa co’ legati del concilio.[418] Il papa in questa occasione fece esporre alla basilica di S. Pietro due Simboli, un greco e l’altro latino scolpiti in lamine d’argento ne’ quali non v’era il filioque. In seguito furono aggiunte quelle parole. Sospese per allora la Chiesa la dichiarazione di queste verità.

In mezzo di tante rivoluzioni onde per più secoli fu agitata l’Europa si era ricovrato un avanzo di letteratura nella Gran Bretagna. Come le isole di Grado conserva­rono la libertà, così quella le lettere. I monti e le isole sono i più antichi asili del genere umano. Beda nella Gran Bretagna era colto al principio dell’ottavo secolo nelle matematiche e nella astronomia de’ suoi tempi. Il suo discepolo Alcuino andò in Francia, ed indusse Carlo M. a fondare le scuole Palatine in Parigi ed in Pavia. L’imperatore istesso s’instruiva da lui, e quel vecchio conquistatore non isdegnava d’imparare la grammatica da Pietro da Pisa. Due altri monaci irlandesi che vennero in Francia furono posti l’uno alle scuole di Parigi, l’altro a quelle di Pavia ad insegnare pubbli­camente. Non ci facciamo una idea di università in queste scuole. Un paio di monaci v’insegnavano a leggere e scrivere ed un poco di grammatica. Dei frati erranti che approdarono ai lidi di Francia furono gli restauratori della letteratura. Ciò basta a giudicare qual essa fosse. La sola Inghilterra in tai tempi non era barbara. Anche Carlo il Calvo nel nono secolo fe’ venire da Irlanda di quelli che allora si dicevano grandi uomini. Il sommo delle cognizioni era aver veduto qualche autore latino, qualche Santo Padre, la Sacra Scrittura, e sapere il computo delle lunazioni. Poco costava l’esser dotto. Noi eravamo meno incolti dei Franchi. Carlo M. da Roma condusse in Francia dei grammatici e dei computisti. E pure ch’eravamo? I Longobardi aveano distrutto ogni avanzo di letteratura. Era dotto chi sapeva leggere e scrivere. Un certo grammatico Felice, che fu a Pavia al tempo del re Cuniberto, fu stimato a segno, dice Paolo Diacono, che fra gli altri doni esso re gli diede un bastone ornato d’oro e d’argento.[419] Bisogna che questo fosse un gran segno di onore dalla meraviglia con cui ne parla questo scrittore.

Gregorio II mandando i legati all’imperatore di Costantinopoli gli scrisse: «Non ve li mandiamo per confidenza del loro sapere, ma per ubbidire a’ vostri comandi. Poichè quale cognizione può trovarsi delle scritture in uomini posti in mezzo de’ barbari, e che guadagnano il vitto colle fatiche quotidiane?». Si dolevano i papi delle barbarie del clero. Eugenio II e Leone IV tentarono di promuoverne la coltura. Ma in vano. L’eretico Claudio Turinese, uomo dotto più de’ suoi tempi ed inimico delle immagini, chiamava il concilio che lo citava congregationem asinorum. Fu risguardata in Francia con ammirazione una clepsidra che Abdela califfo de’ Saraceni inviò in dono a Carlo M. Questa nazione regalava i nostri principi e faceva delle incursioni nella Sicilia e nella costiera del Regno di Napoli. Si stabilirono ben tosto in Bari d’onde facevano saccheggi. Nell’anno ottocentosessantasei minacciarono di venire a Roma. Il papa Giovanni VIII andò contro di essi.[420] Fu la prima volta che un papa fosse in spedizione militare.

La superstizione andava del pari colla barbarie. Fra le credenze comuni di tal secolo v’era quella che alcuni uomini avessero la facoltà di eccitare i temporali. Essi chiamavansi tempestari. Non ci meravigliamo. Le streghe oggidì sono la stessa cosa. Credevasi eziandio che da un certo paese che appellavasi la Magonia venisse su delle navi trasportate nelle nuvole questi tempestari, e che in esse imbarcassero i frutti che aveano svelti colla grandine, e li trasportassero al loro paese ove ne facevano commer­cio.[421] V’erano poi altre persone le quali promettevano di difendere le terre da costoro, che però gli agricoltori loro pagavano parte de’ frutti perchè li preservassero dalle invasioni de’ tempestari, la qual contribuzione dicevasi il canonico. La sorte de’ santi era in uso. Gregorio de Tours ne fa menzione di spesso. Si metteva una lettera sul sepolcro del santo, nella quale gli si dimandava la soluzione di un quesito interessante i beni spirituali o temporali, e vi si metteva un altro foglio in cui il Santo si degnasse di rispondere. Per lo più se ne trovava la risposta. I sepolcri de’ santi non mancavano di venerazione e d’assistenza. Era comunissimo tal costume. In questi tempi il mona­chismo era nel suo fiore. L’Europa tutta era sparsa di monasteri. S. Benedetto nel sesto secolo n’era stato l’institutore. Non è che prima di lui non vi fossero monaci in Occidente, ma ei li ridusse a regole e comunità. Celebre fra gli altri fu il monastero di Monte Cassino. Carlo M. ne alzò uno sterminato numero. Ne fece costruire ventitrè nella sola Aquitania, e ciò che v’è di curioso: secundum ordinem et numerum alfabeti, siccome ricavasi dalle note ad Ottone da Frisinga.[422]

I monaci erano già divenuti un corpo separato dal clero e già sottratti alla giurisdizione de’ vescovi. Grand’epoca pel loro innalzamento. Il papa Gregorio M. fu l’institutore di tal sistema. Proibì a’ vescovi d’immischiarsi nella economia de’ mona­steri o nella disciplina loro, facendone amministratori e giudici gli abati.[423] Questi regolamenti furono stabiliti in un concilio tenuto in Roma dallo stesso pontefice l’anno seicentouno.[424] Giannone s’ingannò affermando che il primo esempio di monaci sot­tratti alla giurisdizione de’ vescovi l’abbia dato il papa Zaccaria con quelli di Monte Cassino, lo che fu più d’un secolo dopo di Gregorio M. In uno scrittore che tanto parlò della politica ecclesiastica è imperdonabile quest’errore. Come mai ignorò quel­lo storico le lettere, cotanto note, di Gregorio, ed un concilio in una materia che costituisce la più essenzial parte della sua opera?

Prima e dopo de’ tempi di Carlo M. fu costume che i padri consacrassero i loro figli ai monasteri. Ciò si faceva essendo essi tuttor bambini, e divenuti adulti erano astretti, in vigore di questa offerta, a seguire la vita monastica. Si consideravano come fatti servi di quel monastero. Chiamavasi quest’atto oblatio pueri: nella sua formola diceva il padre all’abate del convento: «et nullo modo de ipso sancto monasterio exire se presumet omnibus diebus vitae suae, et si exinde exire praesumerit a tunc licentiam habeatis vos, et posteri vestri eum requirere et adprehendere, et in sancto vestro monasterio reunire omnibus diebus vitae suae et secundum meritum culpae suae in vestra sit potestate corripiendi et disciplinandi».Eran gli avanzi della barbara patria potestà de’ Romani, misti colla superstizione.

I beni donati in gran copia agli ecclesiastici ed ai monaci aveano delle grandi immunità e moltissimi privilegi. Perciò i secolari davano a’ monaci ed abati i loro beni, e questi glieli ritrovendevano a livello, con obbligo di pagare un piccolo censo; con tal finto contratto i laici si facevano esenti da’ tributi, e gli ecclesiastici tiravano gran ricchezze per la moltiplicità di questi censi. L’imperatore Lottario fece una legge contro tale abuso. Ma inutilmente. I ricchi abati si eressero in protettori de’ loro livellari.

I re Longobardi non vedevano che la divozione nell’arricchimento degli ecclesia­stici. Liutprando permise con legge ai fanciulli ed agli impuberi di lasciar le loro sostanze per testamento ai monaci ed ai sacri luoghi pro anima sua. Anche le leggi de’ Germani e de’ Bavaresi permettevano di donare tutti i suoi beni e la propria istessa persona alla Chiesa. Se il figlio del donatore richiamava i suoi diritti, era escluso da ogni doglianza e la donazione non si rescindeva. Era comunissima negli atti di dona­zioni pie questa formola: «quisquis in sanctis ac venerabilibus locis ex suis aliquid contulerit rebus, in hoc saeculo centuplum accipiet insuper et quod melius est vitam possidebit aeternam». Nelle antiche carte de’ Longobardi il signor Muratori l’ha veduta usarsi sino oltre il decimo secolo.

Le penitenze canoniche divennero a poco a poco pecuniarie. Secondo l’antica disciplina v’erano tanti anni di penitenza per ogni peccato. Finita la confessione si ricorreva al Codice in cui erano registrate queste penitenze. Esso era conservato sotto un alto mistero, nè i laici lo potevano vedere. Il confessore faceva la somma di quanti anni di penitenza si fosse meritevole. Dal conto risultavano alle volte sino a trecento anni di digiuni e di disciplina. V’erano, in oltre, delle discipline molto incomode, come di non portar tela di lino e di non montare a cavallo. Altro adunque non rimase, che di riscattarsi da una o difficile o impossibile penitenza collo sborso di contanti o colla donazione di fondi. Una confessione minava talvolta un patrimonio. Da qui ne ven­nero le tante donazioni pro redemptione animae meae. Sino al secolo undecimo troviamo vestigi di tal costume.

I principi lasciavano agli ecclesiastici parte de’ loro stati per far compenso delle estorsioni che facevano a’ lor sudditi. Facil’espiazione di un gran delitto. Con questi princìpi sembrò che Pipino e Carlo M. facessero la donazione alla Chiesa. Scontavano eziandio le loro crudeltà col farsi monaci in penitenza de’ peccati. Così Unaldo duca d’Aquitania, Anselmo duca del Friuli, Carlomanno figlio di Carlo Martello, Rachis re de’ Longobardi finirono i loro giorni ne’ conventi; questi due ultimi in quello di Monte Cassino. V’erano degli usi strani nella disciplina ecclesiastica. Era un peccato degno di penitenza il far da marito in tempo di quaresima. Fra i canoni di penitenza si annoverava: «Qui in Quadragesima ante Pascha cognoverit uxorem suam et noluerit abstinere ab ea uno anno poeniteat, aut praetium suum videlicet viginti sex solidos ad Ecclesiam tribuat aut pauperibus dividat».[425] Il papa Nicolò I nelle lettere ai Bulgari e molti degli antichi riposero fra i peccati il non astenersi dalla moglie nel tempo di quaresima e ne’ giorni di Pasqua.

Quando Stefano II era in Francia fu consultato da Pipino su vari articoli di disciplina; fra gli altri, se fosse valente il battesimo col vino; nella risposta del papa, il canone undecimo, si ritrova: «Si in vino quis propterea quod aquam non inveniebat omnino periclitantem infantem baptizavit, nulla exinde ascribitur culpa. Infans sic permaneat in ipso baptismo».[426]

Non era ancora stabilito l’uso di celebrare una sola messa. Il papa Leone IV ne diceva sino a nove il giorno; lo che credevasi maggior divozione. Questa disciplina durò lungo tempo. Nel Canone quinto del Concilio di Salingenstad, tenuto nell’undecimo secolo, fu ridotto l’arbitrario numero delle messe a tre per giorno; e soltanto sino al Concilio di Toledo dell’anno 1324 fu disposto che, eccettuato il giorno di Natale, non si celebrasse che una volta, com’è l’attual disciplina. Il guadagno avea introdotta questa pluralità di messe.

Come gli ecclesiasici aveano reso un fondo censibile i peccati, così i principi i delitti. Nelle leggi longobardiche e nel Capitolare di Carlo M. non si trovano pene di morte che per li delitti di lesa maestà, per l’omicidio del padrone fatto dal servo e del marito fatto dalla moglie. Quasi tutti gli altri misfatti erano puniti con pena pecuniaria. L’assassino, il ladro, l’incendiario, l’avvelenatore erano ammessi alla composizione col fisco, ossia a transigere sulla pena col danaro. Nelle leggi de’ Franchi era stabilita la pena di trecento soldi per l’omicidio di un sotto diacono, di quattrocento per un diacono, di seicento per un prete, di novecento per un vescovo. Tale era l’usanza di tutta l’Europa. Le leggi germaniche e bavaresi stabilivano a chi ammazzava un vescovo la pena di fargli una tonaca di piombo alta come la sua statura, e che ne dovesse pagare il peso in oro o in beni. Se non poteva, erano fatti schiavi della Chiesa i suoi figli e sua moglie. Troviamo canoni che stabilivano che l’uccisore di un vescovo dovesse aste­nersi dalla carne e dal vino tutta la vita, dalla milizia e dal prender moglie.

Era un gran delitto in que’ tempi il non osservare la quaresima. Si poneva nel numero de’ così gravi da punirsi colla morte. Carlo M. decretò:[427] «Si quis sacrum quadragesimale ieiunium pro despectu christianitatis contemserit et carnem comederit, morte moriatur». Qual pena impose lo stesso legislatore all’uxoricidio? «Quicumque uxore sine caussa interfecta aliam duxerit, armis depositis habeat poenitentiam».[428] Che avrebbono detto Licurgo e Solone leggendo queste leggi?

Tra le leggi grotescamente atroci di questi secoli è da riporsi quella di Lottario I. Egli tal pena impose a chi avesse eccitate delle fazioni: «Auctores facti interficiantur, adiutores vero singuli alter ab altero flagellentur, et capillos suos vicissim et nares suas invicem praecidant».

Non v’è dubio che in questi secoli non si usasse la servitù in Europa. Se i popoli settentrionali non vi avessero ritrovata questa usanza già stabilita da’ Romani, ve l’avrebbero introdotta. Ella è conforme al governo feudale ed alle idee di popoli conquistatori. Di fatti, presso quelle nazioni, v’era il costume di tenere come servi i prigionieri, ed i loro discendenti. Non era però così ingiuriosa alla umanità come appo i grandi e barbari Romani. Non si poteva uccidere a capriccio, non si usava di uccidere tutti i servi di un padrone quando uno di loro uccidevalo, non si teneva nelle città un esercito di servi, ma tale servitù era soltanto come quella dei glebae adscripti. La prigionia in guerra ed i delitti erano i modi con cui si veniva degradato a questa condizione. I monasteri più ricchi ne aveano gran quantità. Que’ di Farfa, di Volturno e di Monte Cassino ne possedevano un numero sterminato. Donandosi i fondi si davano anche i servi che vi erano addetti. Ma poichè l’Italia si divise in tanti piccoli principi divenne troppo difficile la custodia loro, che dall’uno all’altro territorio facilmente si rifugiavano. Le continue guerre obbligarono i principi ad ammetterli nella milizia e farli liberi. Le ultime insegne di questa schiavitù le troviamo in Italia sino alla fine del secolo decimoquarto, e dopo non se ne trova più vestigio.

Non avremmo data una idea di questi tempi se non facessimo particolar menzione del papa Gregorio M. Non farò l’istoria dalla sua vita. Due cose in lui fanno al mio soggetto. Il suo canto ecclesiastico e la riforma de’ studi.

Fu incolpato questo papa di avere fatta una gran guerra agli autori latini. Si disse ch’egli facesse abbruciare la Biblioteca Palatina fondata da Augusto. Ciò ch’è costante, Gregorio risguardava con orrore la lettura di Cicerone, di Orazio, di Seneca e di Plinio, e di tutti gli altri autori gentili, trovando questi pagani incompatibili colla cristiana religione. Perciò proibì agli ecclesiastici il leggerli, riprese chi li teneva ed estinse le ultime faville della letteratura sostituendovi la teologia di que’ tempi, cioè qualche informe nozione della Scrittura e de’ canoni.

Ma più ancora di ogni altro studio ei credeva necessario in un ecclesiastico il canto delle salmodie e degl’inni. Non vi fu, per avventura, uomo più zelante di lui in tale affare. Instituì un’Accademia di cantori in Roma, ed egli stesso insegnava a cantare a’ fanciulli destinati al chiericato: Giovanni Diacono[429] scrisse nel nono secolo: «usque hodie lectum eius in quo recubans modulabatur et flagellum eius quo pueris minabatur veneratione congrua cum authentico antiphonario reservatur».

Il canto ecclesiastico divenne una parte essenziale del corso di studi di un chierico, ed un gran merito il possederlo. S’instituirono delle salmodie perpetue. I monaci ed i canonici delle chiese si davano la muta in diverse ore, nè mai si cessava di cantare per dei secoli giorno e notte.

Un così grande incoraggiamento che diede questo papa alla musica fece chiamare il canto ecclesiastico gregoriano. Non è verisimile, nè la storia prova, che Gregorio inventasse una nuova musica, che punto non rassomigliasse alla comunemente ricevuta. Sembra naturale ch’egli addattasse agl’inni ed ai salmi la musica de’ suoi tempi, cioè la musica de’ Romani. Così le arie degl’inni secolari servirono a cantare que’ di Prudenzio.

L’istesso era successo della poesia ritmica. I versi ritmici presso ai Romani erano quelli che aveano a un di presso il suono de’ versi di giusta misura, ma ne’ quali non era osservata la prosodia. Di questi servivansi nelle vendemie, nelle quali usavansi i vendemmiatori di cantare in tal metro delle assai libere improvisate ed ingiuriarsi vicendevolmente. Erano le feste di Bacco, e se ne seguiva la licenza propria del suo culto. Usavasi lo stesso nelle nozze e ne’ trionfi. Era lecito in queste occasioni il dire in tal sorta di versi quanti liberi motteggi si voleano: si profferivano per fino delle ingiurie contro de’ trionfatori da chicchesia.

Questi versi dicevansi ancora fescennini. Tal genere di poesia fu poi santificato dalla Chiesa e consacrato alle lodi di Dio e de’ suoi santi.

Tutti gli usi di un ceto immortale sono immortali come lui. Il canto ecclesiastico da Gregorio M. sino a’ nostri tempi non ha forse sofferte sensibili mutazioni. Ogni novità nella disciplina avrebbe trovate molte opposizioni. Possiamo adunque considerare il canto ecclesiastico come un avanzo dell’antica musica romana. Non v’è da meravigliarci. Tutti gli usi nella liturgia sono antichissimi, molti hanno la loro origine da’ riti de’ Romani, addattati ad oggetto più santo. Perchè nella sola musica si sarebbe cangiato? Possiamo adunque avere un mezzo di giudicare del merito dell’antica mu­sica. Anche il canto ambrosiano, a un di preso della istessa natura del gregoriano, puossi considerare sotto il medesimo aspetto.

Di gran cose si son dette della musica greca; non poco ancor si disse della romana. Quintiliano asserisce: «Sappiamo che i gran generali suonarono le cetre ed i flauti, e con tal mezzo gli eserciti de’ Spartani s’infiammavano di virtù. E che altro fanno nelle nostre legioni i corni e le trombe, il di cui suono quant’è più veemente tanto è maggiore a tutte le altre nazioni la gloria de’ Romani in guerra?».[430] Vi vuol molta rassegnazione per credere sincera questa iperbole. La superiorità adunque de’ Romani nella guerra dipendeva dal suono delle trombe e de’ corni, piuttosto che dalla educazione, dal governo, dalla disciplina? I soldati romani porgevano le orecchie nel furore della battaglia o nel procinto di avventurar la vita al genere diatonico o cromatico delle trombe? Si abbandonavano alle fugaci impressioni della musica con tranquilla atten­zione in faccia della morte? Si sentivano de’ moribondi? Tanto agiva quel suono di eccitare il valore e l’amor della gloria? Macrobio avea le stesse idee: «L’anima (dic’e­gli)[431] è così commossa dalla musica, che si suona quando si va, quando si torna dalla battaglia, perchè si ecciti e si calmi il valore. La musica dà il sonno e lo toglie, inspira la tristezza e la dissipa, accende l’ira ed insinua la clemenza, e medica per fino i mali del corpo». Sono belle notizie.

Così dicevano i Greci, ed anco molto di più, della loro musica. I Romani che presero da essi le arti ereditarono forse anche questa parte delle greche menzogne. Sarò io costretto a provare che queste sono favole? Se tale fosse stata la forza della musica romana ne avremmo mille esempi, e non ne abbiamo un solo in quella storia cotanto discussa e copiosa. Quella nazione che fosse giunta a tal segno avrebbe perfezionate al sommo tutte le arti e la sublime scienza del cuore. Le cognizioni si abbracciano. La mecanica vi dovrebbe aver fatti meravigliosi progressi per fabbricare perfettissimi stromenti; la scienza dell’armonia dovrebb’esser ridotta a’ suoi elementi più semplici, la sensibilità degli uomini dovrebbe essere conosciuta più intimamente. Quant’erano lontani da tal punto i Romani! Ci sono pervenute tante memorie di loro, e non avremo una sola loro canzonetta? Lulli e Palestrina saranno scolari in paragone de’ musici di Crasso e di Lucullo? Saremo noi superiori ai Romani nella astronomia, nella nautica, nell’algebra e nelle scienze tutte, e barbari nella sola musica, quella che da molti secoli tanto coltiviamo, quella nella quale tutte le nazioni ci accordano il primato? È difficile il provare che i Romani sapessero la musica a più parti, abbiamo nessun loro autore che scriva di tal materia con qualche precisione, e l’armonia sarà giunta appo di essi al prodigio? Ciò che sappiamo de’ loro instrumenti non ci deve umiliare. Essi erano molto imperfetti. Il canto ecclesiastico sono gli avanzi di questi prodigi. Sieno a noi pervenute le sole ruine anco informi di una tal musica, qual vestigio in esse di tanta melodia?

D’onde è nata questa alta idea della forza della musica greca e romana? La più facile, e forse più sicura soluzione di questo problema sarebbe di negare il fatto. Ma vediamo se v’è qualche altra maniera di scioglierlo.

Io credo che tai prodigi sieno esagerati, ma abbiano un fondo di verità. Le tradizioni, massimamente dei Greci in tal ponto, sono molte ed universali. Quando vi concorrono queste due circostanze sono di molto peso.

Ne’ popoli ancor rozzi una musica alquanto armoniosa fa una grande impressione. Un selvaggio sarebbe rapito al suono di una nostra orchestra. Così accade anche ai giovani che abbiano inclinazione alla musica. Chi ha l’anima armonica mi sarà garante di questa verità! I primi minuetti che udì lo avranno messo in entusiasmo. Non dubito perciò che negli antichi Greci e Romani l’istesso effetto producesse l’armonia. Le passioni degli uomini incolti sono robustissime. Ma che nel tempo della coltura di queste genti e ne’ secoli di Quintiliano e di Macrobio tal forza avesse la musica non è da credersi. La storia lo smentisce col suo alto silenzio. Que’ che scrissero tai miracoli narravano ciò ch’era stato, non ciò ch’era a’ lor tempi. Le passioni de’ popoli colti non sono così veementi. La coltura accresce il raziocinio a spese della immaginazione. I barbari sentono, i colti ragionano. In essi la ferocia diventa valore, l’ira risentimento, l’amore benevolenza. Questo infievolimento dell’animo è manifesto paragonando in massa i colti co’ selvaggi uomini. Non curo i fatti particolari. Le arti, che accompa­gnano il ripulimento delle nazioni, altro non fanno che compensare la perdita delle prime robuste sensazioni. Ecco in qual guisa la musica può esser stata di meravigliosa forza ne’ popoli barbari, e per quanto si raffini non produca straordinarie impressioni ne’ più ripuliti. Se queste congetture non convincono faranno pensare.

Trovo fino da’ tempi di Carlo M. che i Francesi ci disputavano la superiorità della musica. Così descrive quella controversia il monaco d’Angolemme nella vita di quel­l’imperatore: «et reversus est piissimus Carolus et celebravit Romae Pascha cum piissimo Domino apostolico. Ecce orta est contentio per dies festos Paschae inter cantores Romanorum et Gallorum. Dicebant Galli melius se cantare et pulcrius quam Romani. Dicebant se Romani doctissime cantilenas ecclesiasticas proferre, sicut docti fuerant a S. Gregorio papa. Gallos corrupte cantare et cantilenam suam destruendo dilacerare. Quae contentio ante Domnum regem Carolum pervenit. Galli vero propter securitatem domni regis Caroli valde exprobabant cantoribus romanis. Romani propter authoritatem romanae doctrinae eos stultos, rusticos et indoctos velut bruta animalia affirmabant, et doctrinam S. Gregorii praeferebant rusticitati eorum. Et cum altercatio de neutra parte finiret, ait domnus piissimus rex Carolus ad suos cantores: dicite palam quis purior et quis melior aut fons vivus, aut rivuli eius longe decurrentes? Responderunt omnes una voce: fontem velut caput et originem puriorem esse, rivulos autem eius quanto longius a fonte recesserint tanto turbolentos et sordidos ac immunditiis corruptos. Et ait domnus rex Carolus: Revertimini vos ad fontem S. Gregorii quia manifeste corripistis cantinelam ecclesiasticam. Mox petiit domnus rex Carolus ab Adriano papa cantores qui Franciam corrigerent de cantu. At ille dedit ei Teodorum et Benedictum, ecclesiae doctissimos cantores, qui a S. Grego­rio eruditi fuerant. Et omnes Franciae cantores didicerunt notam romanam quam nunc vocant franciscam, excepto quod tremulas et tinnules, sive collisibiles, vel secabiles voces in cantu non poterant perfecte exprimere franci naturali voce barba­rica, frangentes in gutture voces potius quam exprimentes». Anche adesso v’è della differenza fra l’agilità della voce degl’Italiani e de’ Francesi. Forse ciò dipende dalla costituzione degli organi e dal clima. Da Carlo M. sino alla Serva Padrona abbiamo co’ Francesi questa controversia. Ho riferita la disputa colle parole di quel monaco, perchè è bene scrivere le cose nello stile de’ lor tempi. Credo essenziale questa cognizione. Vi si può vedere un saggio di letteratura. Lo stile de’ tempi è una parte importante e non bastevolmente curata della storia dell’ingegno umano.

Capo XV. Di Lodovico il Pio e’ seguenti imperatori. Scisma di Fozio. Divorzio di Lottario. Disordini d’Italia. Incursioni de’ barbari. Degli Ottoni. Giudizi di Dio. Faide.

Lodovico detto il Pio figlio di Carlo Magno avea l’Impero occidentale, Leone Armeno l’orientale. L’uno non d’altro era più occupato che d’imparare la Regola di S. Benedetto e di fabbricare conventi. L’altro rigettava il culto delle immagini e faceva guerra ai monaci.

Era un gran svantaggio per Lodovico il succedere ad un gran padre. Ribellaronsi contro di lui i tre suoi figli Lodovico, Lottario e Pipino. Videsi allora il figlio di un terribile conquistatore giudicato in Compiegne da un consesso di vescovi, e dichiarato da essi decaduto dal trono. Tal fu il destino di Lodovico. Lottario suo figlio aveva destinati que’ vescovi ad essere lo stromento della sua ribellione. Lodovico fu dichia­rato indegno del trono per vari gran peccati, fra’ quali s’annoverava l’aver fatte marciar le truppe in tempo di quaresima, l’aver fatte varie guerre, le quali aveano prodotti tanti omicidi, sacrilegi, adulteri, incendi e rapine, e l’aver convocato un parlamento il Giovedì Santo. Il docil principe introdotto in questo consesso depose la spada, le insegne imperiali, vestissi di cilicio, pianse i suoi peccati. Lodovico e Pipino si penti­rono del lor delitto. Rimisero il padre nel regno. Tant’era persuaso l’imperatore della giustizia della sua condanna, che non volle riprender lo scettro senza esser assolto da que’ vescovi che lo aveano giudicato.[432] Lottario, implacabile nemico del padre, non consentì a questa sua restituzione al trono. Combattè contro di lui. Lodovico suo fratello ritornò alla ribellione e si riunì a Lottario. In fine dopo vari trattati chiesero pace: andarono ai piedi del padre, che ad ambi perdonò. Fu più clemente con loro che con Bernardo suo nipote re d’Italia. Anch’egli s’era ribellato, anch’egli finì per chieder perdono; ma Lodovico lo fece acciecare, e morì di spasimo pochi giorni dopo; fece ancora ammazzare molti del suo partito.[433]

Carlo Magno prima di morire in Aquisgrana avea diviso il vasto suo imperio fra’ suoi discendenti. Fu questo un seme fatale di dissensioni. Se n’eran già veduti gli effetti. I figli di Lodovico aveano conteso col loro padre, poi guerreggiarono fra di essi. Queste inestinguibili dissensioni diedero un grand’urto alla Francia. Lottario fu sconfitto a Fontenay, sito illustre per un gran macello d’uomini. Permise l’idolatria a’ Sassoni per avere soccorso da loro. Carlo Magno li avea obbligati ad abbandonarla con mezzi violenti. Cercando di distrugger l’idolatria non avea distrutti che i suoi sudditi. I vescovi ed i monaci si mischiarono molto in queste guerre.

Non è tanto per corruttela della disciplina ch’essi prendevano le armi, quanto per obbligo: poichè molti erano feudatari di castelli e di grosse possessioni. Giorgio arcivescovo di Ravenna volle profittar di questi disordini. Andossene in Francia carico delle spoglie della chiesa dell’arcivescovato per far fortuna. Il papa Gregorio IV lo maledisse. Il maladetto arcivescovo ed i preti del suo seguito finirono le loro incombenze coll’essere messi in fuga e ritornare in Italia in camiscia cercando l’elemosina.[434] La pace conchiusa fra questi fratelli produsse il Regno d’Italia a Lottario, «Omnia regna Italiae cum ipsa Romana Urbe». [435] Nel tempo di queste turbolenze il papa Sergio II, successore di Gregorio IV, si era fatto consecrare senza il consenso di Lottario, il quale era anche succeduto a suo padre nell’imperio. Spedì egli perciò a Roma il suo figlio Lodovico II «a fare in modo che in avvenire morendo il papa nessun fosse consacrato, senza suo comando e senza l’intervento de’ suoi ambasciatori».[436]

Le Chiese greca e la latina aveano sempre avuto un seme di scisma. Abbiamo veduto quante fossero state le controversie. Regnando in Oriente l’imperator Michele si decise lo scisma. Era appena terminata la disputa degl’iconoclasti. Teodora imperatrice madre d’esso Michele, essendo di lui tutrice, aveva posto fine a tale contro­versia che per centoventi anni sparse il sangue umano. Poteva tutto in quella corte Bardasse, zio dell’imperatore. Bardasse avea abbandonato sua moglie per la propria nuora con cui vivea. Il patriarca di Costantinopoli Ignazio riprendeva altamente questo incestuoso concubinato e negò a Bardasse pubblicamente la comunione il giorno della Epifania. Ciò decise Bardasse a perderlo. Lo fe’ deporre dal suo nipote, e vi sostituì l’eunuco Fozio, uomo di grandissimo merito nella letteratura. Da laico fu fatto patriarca in sei giorni.

Il papa Nicolò I allora sedente spedì a Costantinopoli per legati due vescovi, Ridoaldo e Zaccaria, che più si curarono de’ regali che lor furono fatti, che di quistionare di teologia. Fu confermata in un concilio colla loro presenza e quella dell’impe­ratore la deposizione d’Ignazio. Il papa, saputo tal esito della sua legazione, dichiarò Fozio illegittimamente eletto, lo depose in un concilio in Roma con definitiva sentenza e dichiarò Ignazio patriarca legittimo. Fozio dichiarò eretico il papa.

Fozio era un uomo che sapeva di erudizione ecclesiastica quant’altri ne seppe mai. Sarebbe colto a’ dì nostri, quanto era superiore in quei tempi! Fin ora le dispute fra i Greci ed i Latini erano state agitate con un funesto calore, ma con poca erudizione. Fozio mutò la faccia a questo scisma appoggiando colla storia ecclesiastica le accuse che faceva a’ Latini. Ma il fondo della disputa non era tanto la teologia, quanto l’autorità. I patriarchi di Costantinopoli aveano sempre più o meno disputato della primazia co’ papi. Vicini agl’imperatori, vescovi nella capitale, capi di un clero nume­roso e colto, riguadavano con poca stima i Latini come ignoranti. Fozio per rendersi indipendente prese il partito d’incolparli di avere corrotti i dogmi e la disciplina. Pubblicò a tal fine una lettera circolare. In essa, fra le principali imputazioni, v’era che avessero proibito il matrimonio a’ preti, ed aggiunto al Simbolo il filioque. In ciò pretendeva egli che i Latini si fossero partiti dal dogma e dalla antica disciplina della Chiesa. Ciò che più importava era che i Bulgari ed i Russi eransi allora convertiti dalla idolatria alla religione cristiana. Si trattava di avere dipendenti queste nazioni di proseliti. Fozio e Nicolò ambi vi pretendevano. Prese il patriarca un tuono di grande onzione in questa disputa. Nella lettera circolare ei dice che «avendo inteso che si era insegnato a’ Bulgari che lo Spirito Santo procede anche dal figlio, le nostre viscere si sono commosse come quelle di un padre che vede i suoi figli squarciati da bestie feroci, e non saremo mai tranquilli che non gli abbiamo disingannati. Alcuni uomini esciti dalle tenebre d’Occidente sono venuti a saccheggiare queste piante novelle, ed a corrompere in loro la purità della fede». Egli era quell’istesso uomo che lasciava che l’imperator Michele, giovane sventato, passeggiasse nello stesso tempo le strade di Costantinopoli, con una truppa di giovani suoi amici, a contrafare le processioni, i sacramenti e le cerimonie sacre. L’imperatore suonava di cetra imitando ridicolmente il canto de’ monaci: avea de’ vasi d’oro che riempiva di aceto e di senape per distri­buirla in forma di comunione.[437] Fozio lasciavalo fare e questo fu uno de’ capi d’accusa che gli si facevano. Le vicende di questo famoso patriarca furono tali. Basilio Mace­done successore di Michele rimise Ignazio e scacciò Fozio. Poi dopo otto anni, morto Ignazio, rientrò in grazia di Basilio, e fu ristabilito nella sua carica. Il papa, allora Giovanni VIII, lo riconobbe per legittimo patriarca perchè avea bisogno di Basilio contro de’ Saraceni che infestavano l’Italia. Martino II poi Adriano III disappro­varono la condotta di Giovanni e deposero Fozio. Leone, successore di Basilio, lo discacciò, e poco dopo morì. Ciò non ostante tali vicende, i scritti ch’ei sparse stabi­lirono lo scisma, che sempre continuò, come susiste a’ dì nostri con qualche intervallo di riunione che fu passaggiera.

Il papa Nicolò regnava fra i torbidi. In tanto che vedeva staccarsi dalla sua Chiesa l’Oriente, lontano d’aver i principi d’Occidente per protettori, avea da combattere anche con essi. Lottario re di Lorena, figlio dell’imperatore Lottario già morto, per sposare Gualdrada ripudiò la sua legittima moglie Teosberga. Ella era accusata d’incesto con suo fratello. Si purgò di tal delitto, secondo il costume di que’ secoli, facendo fare da un campione la prova dell’acqua bollente, e ne sortì illeso. Lottario ciò non ostante unì un consesso di vescovi, in esso chiamolla, ed ivi confessò il suo delitto. Il papa spedì in Francia il vescovo Rodoaldo per giudicare di questo ripudio. È strano che gli si dasse tal commissione dopo la fattane esperienza.[438] Ma eran pochi i vescovi di qualche coltura. Rodoaldo giudicò Lottario con quella severità con cui avea giudi­cato Fozio. I principali fautori del divorzio erano stati gli arcivescovi di Colonia e di Treveri, Guntario e Teotgrando. Il papa li scomunicò. Essi gli risposero una lettera nella quale si dolevano perchè, essendo venuti a Roma come legati di Lottario su quest’affare, fossero stati circondotti e scomunicati senza nessuna forma di giudizio: «Ascoltate papa Nicolò (dicono essi), dopo averci circondotti per tre settimane ci faceste venire alla vostra presenza. Non sospettavamo che ci dovesse accader nulla di male. Quando furonoci chiuse le porte e fatta cospirazione, si unirono chierici e laici per opprimerci colla violenza, e senza previa accusa alla maniera de’ ladri, senza testimoni, senza nessuna confessione, senza convincerci, col solo vostro arbitrio, e col tirannico vostro furore ci avete condannati. Ma noi non riceviamo la maladetta vostra sentenza, anzi la disprezziamo qual contumelia in noi vanamente proferita. E voi stesso scacciamo dalla nostra comunione, contenti di quella della Catolica Chiesa, che di­sprezzate colla vostra arroganza, la quale ve ne rende indegno».[439]

L’imperatore Lodovico II, fratello di Lottario, venne a Roma a vendicarlo. Il papa si racchiuse nella Basilica di S. Pietro, ove stette due giorni e due notti senza mangiare nè bere. Andò di poi l’imperatore a Benevento per soccorrer quel paese contro de’ Saraceni. Se in Roma fu dispotico, in Benevento fu tenuto prigioniere dal duca Aldegiso[440] per le insolenze che avea fatte il di lui esercito. S’intende facilmente che lo avea già rimandato. Fu rilasciato dopo 40 giorni con giuramento di non torre vendetta alcuna. Appena ebbe la libertà si fece dispensare dal papa delle promesse e fece guerra a’ Beneventani.

Gli successori di Carlo Magno, più intenti a distruggere che a conservare i loro Stati, mal si opponevano ai greci imperatori, che non trascuravano occasione di ricuperare l’Italia. Adelgiso duca di Benevento più non riconosceva per suo sovrano l’imperatore d’Occidente, ma quello di Oriente,[441] e dopo di lui troviamo che Latidolfo, duca di Benevento e di Capoa, era patrizio di Costantinopoli. Guaimario duca di Salerno fatto parimenti duca di Costantinopoli si dichiarò vassallo del greco impe­ratore.[442]

Già i papi erano diventati principi che possedevano stati. La cerimonia di coro­nare gl’imperatori cominciata dalla restaurazion dell’impero in Carlo Magno era una cerimonia molto seria. Questa grand’elezione li rendeva arbitri della opinione, e perciò della potenza. Colla morte di Lodovico II due suoi zii concorrevano all’impero, ed al regno d’Italia. Carlo il Calvo re di Francia e Lodovico re di Germania. Giovanni VIII pontefice preferì Carlo il Calvo, e gli diè la corona. Il di lui antecessore Adriano II avea già promesso ad esso Carlo che se sopraviveva a suo nipote lo avrebbe fatto imperatore. Ciò avvenne in occasione che quel papa lo minacciò con lettera di scomu­nicarlo perchè avesse fatto deporre e condannare Incmaro vescovo di Lione reo di vari delitti. Il re di Francia gli rispose:[443] «Noi ammiriamo ove mai l’autore di quella lettera ha ritrovato che un re obbligato a punire i delitti debba mandare a Roma un reo condannato secondo le regole. Noi siamo costretti a scrivervi che noi altri re di Francia nati di real stirpe non siamo stati creduti fin ora luogotenenti de’ vescovi, e se cercherete ne’ registri de’ vostri predecessori non troverete che in tal forma scri­vessero ai re di Francia». La risposta di Adriano fu molto dolce e finiva col promet­tergli l’impero. Carlo Manno re di Baviera, figlio del trascurato Lodovico, fu di poi proclamato re d’Italia. Non si dimenticò che Giovanni VIII era stato inimico di suo padre, nè che lo era di lui. Inviò a Roma Lamberto e Adalberto duchi di Spoleto e di Toscana, i quali misero in prigione il papa e fecero giurare da’ principali di Roma fedeltà a Carlo Manno.[444] Fuggì il papa in Francia. Condusse poi in Italia Rosone duca di Provenza, che tentò inutilmente di fare imperatore. Il papa profittò del tempo in cui Carlo Manno era gravemente amalato per invitare i vescovi d’Italia ad un concilio ad eleggere l’imperatore. Tenne il papa un linguaggio affatto nuovo: «Nissun re, diss’egli, dovete voi aver per legittimo senza il nostro consentimento, poichè colui che deve da noi essere coronato imperatore deve altresì da noi essere scelto e chiamato».

Gli Saraceni facevano sempre progressi in Italia. Già da qualche tempo erano stabiliti in Bari, poi in Taranto e nel Garignano e nel Monte Gargano. Quelle estremità d’Italia erano in loro possesso. Di là escivano a depredarla. Il papa lungi dal poterneli discacciare era ridotto a scomunicare chi li favoriva, ed a pagare loro stessi annual­mente venticinque mila mancosi. I mercanti veneziani profittarono di queste invasioni. Compravano da’ pirati i prigionieri cristiani, e ne facevano commercio.[445]

Sergio II duca di Napoli avea fatta lega con essi. Erano terribili nemici, ed ottimi aleati. Il papa Giovanni VIII lo scomunicò. Attanasio vescovo di Napoli e fratello del duca seguì i dissegni del papa con far acciecare il proprio fratello e mandarlo a Roma. Giovanni accolse la sua vittima, e così scrisse al vescovo: «Rendiamo infinite azioni di grazie a vostra Almità a Dio diletta, e di meritate lodi vi ricolmiamo sopra tutti gli altri con apostoliche labbra, perchè, seguendo la voce di Dio che dice: se il tuo occhio o la tua mano ti scandalizzano, cavalo e gettalo via da te, hai percosso col dardo della divina vendetta il tuo fratello, che qual altro Oloferne combatteva con ardimento temerario le sante cose di Cristo nostro Signore. Tu non perdonasti al tuo sangue istesso per Iddio che dice: chi ama il padre o la madre, o il fratello più di me, non è di me degno. In ciò noi vi conosciamo del tutto degni del Signore perchè la tua santità con fedele divozione di buona voglia ha tagliato un membro putrido dal suo corpo».[446]

Attanasio fu poi fatto duca, e fu anch’egli appresso scomunicato dallo stesso papa, perchè unito co’ Saraceni depredava l’Italia.

In Carlo il Grosso si unirono i regni d’Italia, di Francia e di Germania, perchè non trovò altro compositore che Carlo detto il Semplice, figlio di Carlo Manno, il quale non avea che quattro anni. Quest’imperatore, secondo che scrive Reginone,[447] era «orationi et psalmorum melodiis indesinenter deditus». Ciò non bastava a reggere tre vasti regni. La sua dappocaggine, delitto sovente punito più della stessa crudeltà, fu così disprezzata da’ duchi e da’ baroni tedeschi, che lo deposero nella dieta generale del regno. Fu eletto in sua vece Arnolfo, suo nipote.

Carlo il Grosso fu l’ultimo de’ discendenti di Carlo Magno che regnasse in Francia. Dopo la sua morte si ruppe il vasto suo regno. Odone conte di Parigi e Carlo il Semplice si contrastarono la corona di Francia. Berengario duca del Friuli e Guido duca di Spoleto quella d’Italia. Guido vinse, ed ottenne anche la corona imperiale da Stefano V. Il papato altresì dopo la morte di esso Stefano divenne un soggetto di contese fra Sergio e Formoso. Così fu tutta l’Italia in tumulto per avere un papa e un re.

Berengario chiamò in suo soccorso Arnolfo re di Germania. Venne, nè altrimenti lo difese che col farsi egli incoronare dal papa Formoso imperatore in Roma, scacciandone Sergio. Poi tolse al suo difeso non solo il vano titolo di re d’Italia, ma li suoi Stati ancora.[448]

Il successore di Formoso Stefano VI non volle riconoscere Arnolfo per impera­tore, ma unse Lamberto figlio di Guido succeduto alle sue pretensioni. Non andò esente dalle vendette del papa il cadavere istesso di Formoso reo di avere incoronato Arnolfo. Lo fece disotterrare, convocò un concilio in cui fu posto in sedia pontificale, vestito cogli abiti solenni, gli fu assegnato un avvocato a dire le sue ragioni, il papa istesso instituì l’interrogatorio a cui venne dietro la formale sentenza. Fu spogliato degli abiti pontificali, furongli tagliate tre dita e fu gettato nel Tevere.[449] Questa scena parve così seria a’ Romani che si fece una congiura contro il papa. Fu posto in prigione, ed ivi strangolato.

Il regno de’ Franchi era squarciato da’ suoi principi, quello d’Italia non si sapeva di chi fosse. Berengario II, Adelberto suo figlio, Lodovico ed Ugone duchi di Provenza, Lottario figlio di questo, Rodolfo re di Borgogna regnarono tumultuariamente in questa provincia, furono suoi re ed imperatori fra le stragi, chiamativi, onti, scac­ciati, uccisi. Si dissolveva questo regno nell’anarchia. Erano ritornati i tempi di Triboniano Gallo. Barbari, non ritrovavano ostacolo a saccheggiare fra tanti disordini. I Saraceni, gli Ongari, i Nordmanni desolavano l’Europa. Entravano i Nordmanni per la Senna sino a Parigi, nè in altra guisa eran vinti, che col danaro. I Saraceni rimonta­vano pel Tevere sino a Roma, e ne saccheggiavano i contorni. Perciò Leone IV fece fortificar la città e fabbricare presso di S. Pietro, che allora era fuori di Roma, la città detta perciò Leonina.

Nissun principe in Europa avea una Marina ben corredata. Ciò apriva il campo a continue piraterie. I Saraceni erano padroni del Mediterraneo, gli Slavi (popoli della Dalmazia) dell’Adriatico, i Nordmanni del Mare Settentrionale, e tutti ne saccheggia­vano le costiere.

Gli Ongari massimamente e gli Saraceni depredavano questa provincia. Cerca­vano gl’Italiani un re che li difendesse da tante incursioni, ma il crearlo era soggetto di maggior guerra.

Gli Ungari erano una spaventevole nazione. Dal fondo della Sazia si erano stabiliti nella Pannonia. Tutti i popoli che di là vennero in Italia aveano fatto lo stesso. Erano espertissimi nel saettare: la lor guerra era un urto ed un saccheggio; non combattevano che a cavallo, mangiavano carne cruda, bevevano il sangue degli animali, aveano un’opinione terribile pe’ loro nemici. Credevano un rimedio il cuore umano, perciò lo cavavano avidamente a’ prigionieri. Erano così temuti che si sparse la voce che fossero il Pog ed il Magog predetti dal profeta Ezechiele e dalla Apocalisse. Perciò si aspettava la tante volte aspettata fine del mondo. Si era ancora fatta contro di quella gente una orazione. V’erano fra gli altri questi versi:

«Nunc te rogamus, licet servi pessimi
ab Ungarorum nos defendas iaculis».

Queste incursioni obbligarono ad alzare da pertutto de’ luoghi fortificati. I conti e gli abati facevano delle loro case una spezie di castelli, e le città si cingevano di forti mura e torri. I nobili ed i feudatari stando in aguato nelle loro fortezze facevano il ladro ed assalivano i passeggeri. Altri s’erigevano in tiranni de’ loro distretti, facevano delle prepotenze. I magistrati ed i giudici si univano ad essi. Per rimediare a questi mali si erano instituite delle messe contro de’ tiranni e contro de’ perversi giudici, onde v’era: missa contra tyrannos, missa contra iudices male agentes.

I papi in questi torbidi avevano perduto il dominio di Ravenna .[450] In Roma Teodora dama romana comandava: così ancora Ermengarda figlia del duca di Toscana regnava in Italia co’ suoi amori. Sembravano ritornati i tempi di Giulia e di Messalina.

Teodora trasmise il suo impero ed i suoi costumi alle due famose sue figlie, Marozia e Teodora. Esse cercavano ne’ papi un amante che loro abbandonasse la cura d’ogni cosa. Lo ritrovò Marozia in Sergio III.[451] Poi Teodora in Giovanni X. Ella col suo credito da arcivescovo di Ravenna l’avea portato a quella dignità. Marozia poi avea avuto da Sergio un figlio.[452] Lo volea papa anch’ella. Fece perciò morire in prigione Giovanni X e pose sul seggio pontificale il suo figlio in età d’anni venti, che prese il nome di Giovanni XI. Alberico fratello di questo papa lo fece imprigionare assieme di sua madre Marozia,[453] e si usurpò il dominio di Roma. Il pontificato era quasi divenuto una dignità di successione in questa orribile famiglia. Ottaviano figlio di Alberico vi aspirò. Non gli fu difficile l’ottenerlo all’età di diecinove anni. Prese il nome di Giovanni XII. Si crede il primo papa che cangiasse di nome. Tanti errori offuscavano lo splendor del pontificato. La crudeltà, l’ambizione, gli amori facevano e disfacevano i vicari di Cristo. Alla morte del papa si era introdotto di saccheggiare il suo palazzo, e la rapina si stendeva anco su tutta la città di Roma. In un concilio tenuto da Giovanni IX al principio di questo decimo secolo si proibiva tale abuso sotto pena della scomunica e, ciò che può osservarsi, sotto pena «della indignazione dell’imperatore. Tutti questi disordini (si dice al canone decimo di quel concilio)[454] vengono da ciò, che si consacrano i papi senza il consenso dell’imperatore, e senza aspettare, giusta i canoni e ’l costume, la presenza de’ suoi commissari. Perciò noi vogliamo che per l’avvenire il papa sia scelto nell’assemblea di tutto il clero col consenso del popolo e del senato, e poi consacrato in presenza de’ legati imperiali; tutto ciò affine che la Chiesa non venga scandolezzata, e la dignità imperiale diminuita».

Questi tempi di anarchia sembra che richiedessero lo scettro pesante di un gran principe che frenasse una pericolosa indipendenza ancor più che libertà. I re di Germania Ottoni furono scelti l’un dopo l’altro a questa impresa; ma essi altro non fecero che accrescere ai mali della licenza quelli del dispotismo.

Ottone I, detto il Grande, fu chiamato da tutt’i vescovi e feudatari d’Italia come il loro liberatore. Venne a Roma, ove ricevè dal papa Giovanni XII la corona imperiale. Prima di venirvi gli avea scritto: «in Romana Urbe nullum placitum aut ordinationum faciam sine tuo consilio».[455] Non mancò l’imperatore alla fede, ma il papa, il quale tosto si mise dalla parte de’ suoi nemici. Ottone pose in fuga Giovanni. I Romani giurarono fedeltà all’imperatore, e giurarono altresì che non avrebbero scelto papa senza l’approvazione imperiale.[456]

Ottone unì un concilio in Roma, in cui fu giudicato Giovanni. V’erano fra le altre accuse che avesse bevuto del vino per l’amor del diavolo, che giocando a dadi avesse invocato Giove, Venere ed altri falsi dei, che avesse detta messa senza comunicarsi, che avesse ordinati de’ diaconi nelle stalle de’ cavalli, che avesse convertito il suo palazzo in un postribolo, che avesse fatto acciecare il suo confessore e castrare un cardinale.[457] Giovanni fu deposto e creato in suo luogo Leone VIII. Appena Ottone si ritirò da Roma rientrovvi Giovanni: fece deporre Leone istesso, tagliare la mano destra a Giovanni cardinal diacono, la lingua, due dita ed il naso ad Arone primo archivista, e flagellare Olgerio vescovo di Spira. Con tali crudeltà vendicò la perduta tiara. Poco dopo il papa morì, mentre fuori di Roma se ne stava con una donna. Liutprando lo fa morire nelle di lei braccia per avere avuto in quell’atto un colpo del diavolo nelle tempie.[458] Così creduli autori sono sempre sospetti.

I Romani dopo tal morte elessero Benedetto V, e giurarono di difendersi dall’imperatore. Ottone ritornò e strinse Roma di assedio. Il papa non ritardò i di lui progressi coll’affacciarsi alle mura, minacciando di scomunicar lui e tutto il suo esercito. Entrò Ottone vittorioso in Roma, rimise Leone nel pontificato.

Unì un concilio. Fu citato il papa Benedetto. Fu spogliato in esso degli abiti pontificali, il suo pastorale fu fatto in pezzi da Leone, e fu in seguito esiliato in Germania. Si stabilì nello stesso concilio che Ottone ed i suoi successori avessero la facoltà di ordinare il pontefice, e che nessuno senza il suo consenso potesse eleggerlo sotto pena anche di morte.[459] Il che vuol dir lo stesso quanto che gl’imperatori avreb­bero scelto i papi in avvenire a loro arbitrio. Si trova la ragione di tal canone nella presenza dell’imperatore.

La intraprendenza di Ottone non spense il fermento degli animi. Tremavasi alla sua venuta; appena abbandonava Roma si ardiva insultarlo.

Leone tosto morì: gli successe Giovanni XIII. I Romani lo scacciarono sediziosamente. Si ritirò fino nella Campania. Appena si seppe che Ottone veniva, fu ristabilito Giovanni, e si chiamò perdono all’imperatore. Punì Ottone la inquietudine de’ Ro­mani come una gran ribellione. Fece appiccare molti de’ principali fomentatori di questi torbidi, e molte distinte persone.[460] Alla morte di Ottone Roma ritornò alla sua anarchia. Il diacono Francone fece strangolare in prigione il papa Benedetto VI. Ebbe per un momento il pontificato col nome di Bonifacio VII. Ma fu tosto discacciato.

Ottone II era già, vivente suo padre, stato incoronato imperatore da Giovanni XIII.

Ei venne in Italia, combattè molto ed inutilmente co’ Greci per loro togliere il ducato di Napoli, la Puglia e la Calabria. Le stesse imprese avea tentate anche suo padre.

Basilio e Costantino erano imperatori in Oriente. Sconfissero Ottone. Fabbrica­rono nella Puglia e nella Calabria varie fortezze.[461] In Bari, che aveano tolto a’ Saraceni, mandarono il plenipotenziario detto il Catapano, e Protospatario, e Stratego. Questa carica fu instituita in tai tempi. Ella era come l’antico esarca di Ravenna.

I papi aveano sempre delle dispute co’ patriarchi di Costantinopoli intorno a questi paesi, perchè voleano gl’imperatori d’Oriente che si osservasse in essi il rito greco; e di fatti in gran parte lo era. Fra le altre fu molto viva la controversia del pane fermentato, che i Greci voleano che si adoperasse nella consacrazione. Il patriarca Michele Celulario scomunicò per questo tutt’i Latini ed il papa Leone IX. Ciò accade verso la metà del secolo XI. Anche a’ tempi presenti durano in quelle estremità d’Italia de’ vestigi del greco rito.

Facevano sentir gl’imperatori la lor potenza, ma non ponevano stabili rimedi a’ grandi mali. Ottone fece in Roma trucidare ad un pranzo molti de’ primi signori che sospettava d’infedeltà.[462] Fu chiamato il Sanguinario. Morì in Roma.

Il diacono Francone, che si era ritirato in Costantinopoli, intesa tal morte riprese la sua pretensione al pontificato. Ritornò a Roma, fe’ morir di fame nel castello S. Angelo il papa Giovanni XIV allora sedente ed espose il di lui cadavere in pubblico. Con tai mezzi ottenne per undeci mesi il pontificato.

Ottone III trovò Roma in quello stato di disordine in cui l’aveva ritrovata suo avo Ottone il Grande. Crescenzio dicendosi console se n’era usurpata la sovranità. Ella era pronta a chi avea il coraggio di rapirla.

Troviamo che la condotta di Ottone III in Roma confermava il canone stabilito a’ tempi di suo avo quanto alla elezione de’ papi. Fece papa il suo nipote Brunone ch’ebbe nome Gregorio V; non aveva che venti anni. Fu il primo papa tedesco. Crescenzio lo scacciò, e col suo credito fece creare in di lui luogo il vescovo di Piacenza ch’ebbe nome Giovanni XVI. Ottone ristabilì Gregorio con poca fatica. Il vescovo di Piacenza fu preso, fu acciecato, gli si tagliarono le orecchie ed il naso, e poi fu condotto su di un asino al rovescio colla coda in mano.[463] Ottone dopo la morte di suo nipote fe’ papa Gerberto arcivescovo di Ravenna che si chiamò Silvestro II.

L’imperatore signore di un vasto regno, a capo di una grande armata per vincere Crescenzio padrone di una rocca, piccolo tiranno di una tumultuante città, discese alla frode. Crescenzio stava fortificato nel Castello S. Angelo. L’imperatore gli giurò la sicurezza della sua persona se si arrendeva. Quando l’ebbe prigioniero gli fece tagliare il capo.[464] La di lui moglie Stefania fu data all’esercito da prostituirsi. [465] Ottone non accrebbe a’ suoi delitti il più grande, l’imprudenza di commetterli. Fece per queste tirannie[466] pubblica penitenza. Andò a piedi ignudi al Monte Gargano celebre santuario di S. Michele in que’ tempi. Passò l’imperatore in questo pellegrinaggio da Benevento. Chiamò a’ Beneventani il corpo di S. Bartolomeo.[467] Gli fu dato invece quello di S. Paolino. La divozione di Ottone fu offesa da quest’inganno: il corpo di S. Bartolomeo divenne un soggetto di conquista. Fu assediato Benevento benchè invano. Ritornò in Germania Ottone con non più sicura conquista in Italia, che il corpo di S. Paolino. Morì per istrada. In questi tempi v’era un sacro furore di rubare i corpi de’ santi. Ogni frode e violenza vi si adoperava. Non è strana perciò questa guerra di Ottone. Arrigo I re di Germania, sopranominato l’uccellatore, verso questi istessi tempi poco mancò che non facesse guerra al re di Borgogna Rodolfo, perchè ricusava di dargli una lancia che dicevasi formata con un chiodo di Gesù Cristo. Lo minacciò Arrigo che avrebbe desolato colle stragi e cogli incendi tutto il suo regno.[468] Il re di Borgogna per non esporsi ad una guerra furiosa consegnò la lancia. Non sono rari questi fatti in tai tempi. Una reliquia era capace di sconvogliere uno Stato.

Si era tanto donato agli ecclesiastici, che i principi non aveano bastevoli tributi da’ lor sudditi. Le tante donazioni pro redemptione animae meae, le profusioni de’ beni caduchi fatte nelle mani de’ monaci, gli innumerevoli monasteri esenti e ricchis­simi avean fatto in guisa che la maggior parte de’ fondi erano in potere degli ecclesia­stici. Perciò con quanta generosità si era donato, con tanta rapina si tolse. I principi posero mano a queste possessioni. Presero i monasteri e le abbadie, e con esse paga­vano i ministri ed i generali, e ad ogni tratto s’incontrava un soldato abate di un convento le di cui rendite gli erano state assegnate. Queste assegnazioni de’ beni ecclesiastici a’ laici si chiamarono benefizi e commende.

Si potrà giudicare del secolo, sapendo che il papa Silvestro II fu creduto uno stregone perchè studiava le scienze. L’aritmetica, la musica, la geometria e l’astronomia furono i suoi studi. V’è di lui un trattato De abaco, ossia dell’aritmetica, manoscritto nella Biblioteca Ottoniana. Sono stampate una sua lettera De geometrica quaestione ed un trattato di geometria. Egli era francese. Fuggì dal convento, al quale, secondo il costume, era stato consacrato da fanciullo, ed andò in Ispagna alle scuole degli Arabi. Le scienze fiorivano in quella nazione. Si crede che questo papa di là ci portasse l’aritmetica e che fosse il primo a farci così gran dono. Costrusse alcune macchine di mecanica e d’idraulica che si risguardavano come meraviglie. Qual uomo, in un secolo in cui era rara l’arte di scrivere!

Verso la fine dell’anno milesimo vi fu in Ravenna un certo Vilgardo grammatico di professione. Egli andava predicando che tutto ciò che avevano detto Virgilio, Orazio e Giovenale era di fede. Ebbe molti proseliti. Questi lepidi ed innocui furono esterminati col ferro e col fuoco.[469]

In questo secolo decimo era estinto ogni raggio di letteratura. Egli era più barbaro ancora degli antecedenti. Gl’inutili e benemeriti sforzi di Teodorico e di Carlo Magno aveano pur mantenuta qualche sorta di coltura, ora non ve n’era alcun vestigio.

Prima di questo secolo avevamo l’arte de’ musaici, quadri composti di piccolissimi cubi di vetro colorato. Dopo di tai tempi la troviamo decaduta. Quest’era forse un’arte che superava i secoli ne’ quali ella fioriva. Alcuni musaici che ci sopravanzano non si può negare che sieno molto pregevoli, eppure erano opere di tempi ne’ quali pochi sapevano scrivere, ed era un grand’uomo un pedante. Principalmente vi era questa manifattura in Roma, in Ravenna, in Milano ed in Cassino. Roma e Venezia fecero risorgere alla fine del secolo passato quest’arte lungo tempo perduta. Si superarono gli antichi, come dovea aspettarsi paragonando le arti di un secolo coll’altro, ed i modelli di pittura d’entrambi.

Erano già in uso i giudizi di Dio. Il primo esempio che se ne ritrovi nella cristianità è rapportato da Gregorio Turonese,[470] ed è di Simplicio vescovo di Autun, che vivea nel quarto secolo. Egli era stato ordinato vescovo benchè avesse moglie. Seguitava a convivere con lei. Il popolo ne mormorò. La moglie per provare che vivea col marito da sorella, non da moglie, tenne pubblicamente del fuoco ne’ suoi panni per un’ora intiera, poi lo mise negli abiti del marito dicendoli: «Prendete questi carboni, che non vi abbrucieranno, d’onde si vegga che il fuoco della concupiscenza ha tanto potere su di noi come questo». Qualche fisico potrebbe sospettare che si ponesse tal fuoco in un grembiale, o d’altra parte delle vesti che fosse di amianto; qualche logico non troverà buono questo ragionamento; il fuoco non abbruciò i panni della moglie e del vescovo, dunque vivevano casti: qualche pirronista non crederà niente di tutto ciò. Io cito, e taccio.

È noto che v’erano più sorte di questi giudizi. Quello dell’acqua fredda consisteva nello immergervi il sospetto reo. Se andava al fondo era innocente. Se sopranotava era reo, perchè l’acqua avea orrore di riceverlo. Ognun vede che tal prova era favorevole ai rei.

V’era il giudizio del pane e del cascio, iudicium panis et casei. Si usava per iscoprire i furti e gli altri delitti. Si dava all’accusato, o sospetto, da mangiare pane e cascio benedetto. Se lo poteva inghiottire era innocente, e se istupidendoli la lingua e le fauci non lo poteva mangiare era dichiarato reo. Anche tal prova era favorevole ai rei, come si può comprendere. Ve n’erano di quelli ne’ quali era difficile di esser innocente.

V’era il giudizio dell’acqua calda: iudicium aquae ferventis. S’immergeva nell’ac­qua bollente un braccio. Se si abbruciava la pelle era segno di reità, se sortiva illeso, d’innocenza.

V’era il giudicio de’ ferri roventi. L’accusato dovea passeggiare con una verga di ferro infuocato in mano su altre verghe parimenti infuocate distese sul suolo. Chi sortiva illeso era innocente. Questi giudizi usavansi massimamente nelle accuse di adulterio.

La moglie dell’imperatore Carlo il Grosso, essendo accusata di adulterio, passò fra i ferri roventi. Perdette il giudizio. Si ritirò in monastero. Ciò fu l’anno 887.

Cunegonda moglie dell’imperatore Arrigo I per lo stesso motivo fece la stessa prova. Narrasi che sortisse illesa.

Emma regina d’Inghilterra, accusata dello stesso delitto, si espose allo stesso esperimento. Si dice anche di lei che escisse senza alcun danno. Ciò avvenne l’anno 1033.

Ne’ delitti di simonia si usava qualche cosa di più difficile. Si passava in mezzo di due cataste accese. Lo spazio bastava poco più che al passaggio.

V’era il giudizio della croce. L’accusato e l’accusatore dimoravano in piedi avanti d’una croce. Quello che prima non poteva più reggersi perdeva: ciò chiamavasi «stare ad iudicium crucis».

I duelli erano i giudizi più usitati: i Settentrionali ci portarono questa usanza. Le leggi l’ordinavano. Se ne trova frequente menzione in quelle degli Alemanni, de’ Danesi, de’ Franchi e de’ Longobardi. Il re de’ Longobardi Liutprando riconobbe tal costume per barbaro, ma non potè toglierlo. Ei dice in una sua legge: «Propter consuetudinem gentis nostrae legem impiam vetare non possumus».[471]

Quegli che non potevano duellare come gli ecclesiastici e le donne mandavano in loro vece un campione. Secondo le leggi franciche a colui che perdeva si tagliava il braccio: «et campioni qui victus fuerit propter per iurium quod ante pugnam commisit, dextera manus amputetur, caeteri vero eiusdam partis vestes qui falsi apparuerint manus suas redimant».[472] Molte volte questi duelli si facevano alla presenza dell’im­peratore.

Queste prove furono comuni a tutta l’Europa nei secoli barbari, anzi a tutte le nazioni barbare. I viaggiatori attestano d’averle ritrovate in molte parti del globo. Nulla è più vecchio che l’errore. Nell’Antigone di Sofocle le guardie di Polinice si offrono di sostenere la loro innocenza tenendo in mano delle lamine di ferro infuocato e correndo su i carboni. Sono piene le storie di persone che passeggiarono senza offendersi sul fuoco e sul ferro rovente, e che immersero impunemente le braccia nell’acqua bollente. Si pretende che vi sieno degli specifici per preservarsi dall’azione del fuoco per qualche tempo. Si usavano delle precauzioni contro ogni superchieria, per quanto si dice. Si poneva in un sacco il braccio del campione e si suggellava prima di immergerlo nell’acqua. Il giudizio si faceva in pubblico con l’autorità de’ principi e de’ magistrati. Come dunque ciò accadeva? Come tutti gl’incantesimi, le magie ed i prestigi de’ quali è piena la storia. Nulla di più autenticato dalle memorie di tutti i secoli e di tutte le nazioni. Ciò ch’è sicuro, tai costumi furono sempre propri di tempi barbari e superstiziosi. Non si trovano in nessuna alcun poco colta nazione. Ciò ch’è ancor più sicuro, il fuoco e l’acqua bollente abbruciano.

Questa superstizione fu così universale che non sembra da attribuirsi soltanto alla imitazione, ma ad un principio ancor più immediatamente inerente al cuore umano. Le nazioni barbare, che non hanno ancora sviluppate le più complicate idee di giusti­zia negli atti umani, e che non hanno princìpi e regole per le prove giudiziali de’ fatti, non sapevano instituire un giudizio, dar un grado di giusta probabilità agl’indizi, determinar la forza e le condizioni de’ testimoni. Richiedono un codice di leggi costanti e ragionate tali formole. Una nazione barbara non è capace di tanto; o non ha leggi, o le ha semplicissime. Nella incertezza adunque del giudizio, nella necessità di decidere, altro criterio non ritrovasi che di commetterlo ad un giudice infallibile. Il duello dovette essere il più usitato, perchè è il primo giudizio che si presenti a popoli che hanno sempre le armi in mano. Egli eziandio ha maggior apparenza di giustizia. La condizione d’entrambi i contendenti è eguale. Tai sono le mie congetture su di ciò.

Ritrovansi sovente nominate nelle leggi longobarde, angliche e sassone, e ne’ capitolari de’ re franchi le faide, cioè le private vendette. Un’ingiuria non era soltanto vendicata dalle leggi, ma anche dal parentado dell’offeso. Ciò faceva nascere eterne guerre fra famiglia e famiglia. Si trasmettevano gli odi ai posteri. Quest’era una parte di educazione che i padri davano a’ lor figli. Dovevano vendicare le offese de’ congiunti. Dicesi che i Corsi abbiano tutt’ora tal costume. Ne’ secoli decimo ed undecimo arsero assai queste inimicizie. I nobili ricovrati ne’ loro castelli erano in continue insidie. S’introdussero nell’undecimo secolo dai concili le così dette tregue di Dio, cioè sospensioni di queste vendette. Talvolta anche i papi soli le pubblicavano. Du­rante queste tregue non si poneva mano all’armi. Si pubblicavano ne’ tempi di peni­tenza e di pubbliche allegrezze. Si poteva ben dire che le nazioni con tai costumi fossero unite in truppa, ma non in società. Non aveano rinunciato al sovrano il diritto di punire. Non aveano che poche ed informi leggi. Non sapevano tessere un giudizio. Stavano nelle città come orsi che si divorano nel covile.

Capo XVI. Rivoluzioni nel governo d’Italia. Degl’imperatori Enrico II, Corrado il Salico, Enrico III. Venuta e conquista de’ Normanni. Contese fra Arrigo IV e Gregorio VII, Arrigo V e Pasquale II. Loro conseguenze e fine. Repubbliche d’Italia. Letterati di que’ tempi.

Già la stanchezza de’ mali parea che destasse gl’Italiani da quella servitù in cui erano giaciuti, e dalla quale si erano mostrati talvolta inquieti, piuttosto che immeri­tevoli. Dopo la decadenza della romana Repubblica, altro paese non v’era in Italia in cui fosse risorta un’immagine dell’antica libertà, che nella città di Venezia, la quale, riposta in un canto di questa penisola, difesa più dal mare che dall’armi, non era entrata nelle universali rivoluzioni. Ella dipendeva dagl’imperatori greci, se dipendenza è un chimerico alto dominio di principi lontani, men forti di lei. Nissuno avea turbata la tranquillità di quella repubblica fuorchè Pipino, ma per un momento. Egli, secondo ciò che narra Eginarto negli Annali Franchi, prese quella città. Ma alla sua morte, che ben tosto avvenne, ritornò ad esser libera. Il vasto ducato di Benevento, governato da principi discendenti da famiglie longobarde, si era difeso egualmente dai greci, dai franchi e dai germani imperatori. Chiamandosi i suoi duchi vassalli or degli uni, or degli altri, secondo che ciascuni erano più forti, aveano declinate le vicende del rimanente d’Italia. Non poteano aver altre relazioni cogl’imperatori, questi feudatari più potenti de’ loro sovrani. Landusto Capo di Ferro avea in tai tempi il principato di Capoa, i ducati di Benevento e di Salerno, i marchesati di Spoleto e Camerino. Quasi la metà d’Italia era sua. Come sarebber stati sudditi, così grandi vassalli?

Gl’imperatori venivano in Italia a far delle funeste comparizioni. Spargeano san­gue, non toglieano i disordini. Il loro avvento inaspriva gli animi. Appena eran partiti risorgevano le turbolenze con più forza.

Il papato ed il regno d’Italia erano il soggetto di continue rivoluzioni. Gli Ottoni aveano renduto odioso agl’italiani il dominio tedesco. L’esempio di Venezia, che ogni dì andava sempre più dimostrando agli occhi della desolata Italia i beni della indipen­denza, era come il vessillo della libertà, che animava gl’Italiani a seguirlo.

Sino a questi tempi le città erano governate da conti o castaldi. Essi dipendevano dai marchesi e duchi il di cui governo si stendeva ad una provincia, marca o ducato. Questi duchi e marchesi dipendevano immediatamente dagl’imperatori e re. Tal era il nostro feudal sistema. I conti delle città subinfeudavano anch’eglino castelli e borgate ai nobili, che chiamavansi valvassori maggiori o capitanei, e questi ancora finalmente davano in feudo a nobili di secondo rango corti e poderi, e chiamavansi valvassori minori. Per tai gradi discendeva la suprema autorità sino alla plebe, la quale era in una spezie di servitù di questi valvassori minori. Tal sistema era stato introdotto dai Longobardi e dai Franchi. I vescovi, gli arcivescovi e gli abati, nel tempo che possedevano il meglio di questo mondo, aveano molti governi di città e provincie. Al principio dell’undecimo secolo in cui entriamo, si scompose tal forma di regime per un fermento universale. La plebe si sollevò contro de’ valvassori minori, e poi questi contro i loro feudatari. Tale spirito di libertà serpeggiò per tutta l’Italia. Il primo esempio lo diede Milano.

Si pensò a toglier questo regno dalle mani dei re di Germania. Fu scelto nella Dieta di Pavia un re italiano in Ardovino marchese d’Ivrea. Arrigo II re di Germania venne a noi e ridusse il suo emulo a farsi monaco dopo due anni di regno.[473] Non era più lo stesso l’esser consacrato imperatore dal papa e l’esser accettato in Italia senza contese. Fu piena di torbidi la coronazione di Arrigo. Si combattè in Roma ed in Pavia fra gl’Italiani ed i Tedeschi. Ciò non era accaduto in prima. Tutto era disordine. Dopo la morte di Arrigo era così tumultuosa l’Italia, che il re di Francia ed il duca di Aquitania non vollero accettare la corona di questo regno, che loro veniva offerta. Gens vestra infida est, risposero a chi gliela esebiva. Sono ben pericolosi così gran doni quando vengono ricusati.

Corrado, detto il Salico, figlio di Arrigo, fu fatto re d’Italia ed imperatore. Vi furono gli stessi tumulti che nella coronazione di suo padre. Si azzuffarono in Ravenna ed in Roma i Tedeschi e gl’Italiani. Eravamo più inquieti che coraggiosi in queste imprese. Cominciavano colla insolenza, finivano colla sommessione. I Romani si getta­rono a’ piedi dell’imperatore, alcuni scalzi con appesa al collo la spada nuda, ed altri con un laccio alla gola implorando la sua clemenza. Tal cerimonia si usava in questi secoli nelle estreme desolazioni. Era lo stesso che dichiararsi rei di morte e darsi alla discrezione del vincitore. Gli uomini liberi portavano la spada al collo in queste occasioni, i servi ponevano il laccio.

Il papato non era una dignità meno tumultuosa del regno d’Italia. Benedetto IX fu scacciato da’ Romani: crearono in suo luogo Silvestro IX. Benedetto tornò a porre in fuga il suo emulo, e vide esser una così incerta carica il pontificato, che la vendè a Gregorio VI.

In tale stato erano le cose quando venne in Italia Arrigo III,[474] detto il Negro, figlio e successore di Corrado. Depose tutti tre i papi, e creò il vescovo di Bramberga Clemente II. Leone Ostiense autore contemporaneo attesta[475] che non si potè ritrovare in Italia chi meritasse di esser papa. Non so se questo sia vero. Ciò ch’è certo, le mire dell’imperatore erano di trasportare il pontificato ne’ Tedeschi. Questa riforma ta­gliava la radice delle dissensioni. Cercava ne’ papi un suddito riconoscente. Dopo la morte di Clemente, Damaso vescovo di Brixen, poi Leone IX vescovo di Toul, cugino di esso imperatore, poi Vittore II vescovo di Cickstat, tutti tedeschi, furon da Arrigo fatti papi l’un dopo l’altro.

In mezzo di questa universale dissoluzione fu conquistata la Puglia e la Calabria da alcuni pellegrini normanni che tornavano da Terra Santa e venivano di passaggio al Monte Gargano di S. Michele. Quest’era la solita strada che si faceva. Il costume di pellegrinare era già reso comunissimo. S. Bonifacio sino alla metà dell’ottavo secolo si lamentava dei disordini che ne nascevano. Ei diceva che le tante religiose e donne che andavano a venerare in Roma il sepolcro di S. Pietro vi lasciavano la maggior parte la loro integrità. Nel concilio di Chalons tenuto l’anno 813 al canone 45 si vede che era opinione che con tai pellegrinaggi si espiassero i peccati passati ed anco futuri. Ciò che vi si riprende.

I Normanni, cioè uomini del Nord, a’ tempi di Lodovico il Semplice re di Francia aveano già fondato in quel regno il ducato che dal loro nome Normandia tutt’ora si appella. Prima quella provincia si chiamava Neustria. Le continue scorrerie aveano fatto prendere il partito al debole re di donar loro una porzion de’ suoi Stati. Così aveano sempre fatto gl’imperatori greci co’ barbari. Fra’ patti co’ quali si diede a’ Normanni quella provinicia vi fu che si facessero cristiani.

Osmondo Drengot, signore di distinzione, con molti suoi parenti fu il primo Normanno che si fermò nella Calabria. Ciò fu verso il principio dell’undecimo secolo. I piccoli principi di quella parte d’Italia stavano in continue guerre fra di loro e coi Greci e coi Saraceni. Presero questi gentil uomini al loro stipendio. Gli servivano con valore e fedeltà senza pari. Ben tosto fabbricarono la città di Aversa detta perciò la Normanna. L’imperatore Corrado diede il titolo di conte di quella città a Rainulfo gentil-uomo normanno. Crebbero i pellegrini. Un mucchio di gente divenne una nazione. La Puglia e la Calabria erano nel dominio de’ Greci. Napoli si governava come una repubblica, ma aveva da loro qualche dipendenza. Queste provincie erano abban­donate ai catapani, dispotici ministri di un debole sovrano, e perciò tiranni. L’impero di Costantinopoli era saccheggiato dai Saraceni. Le stragi vi facevano e disfacevano gl’imperatori. In tale stato di cose non fu una difficile conquista quella provincia. Non è esatto il dirsi che alcuni pellegrini la conquistarono. Si rende meraviglioso ciò che non lo è. Alcuni pellegrini aveano formata in più di quarant’anni una nazione. E questa nazione occupò un paese facilissimo a conquistarsi per la debolezza de’ suoi sovrani, per le tirannie de’ catapani, che rendevano grato ogni nuovo principe: Guglielmo Braccio di Ferro, nobile normanno, diresse queste imprese. Fu creato conte della Puglia. Si aggiunse ben tosto alle conquiste il territorio beneventano. E fu loro con­cesso per investitura da Enrico II che non lo poteva difendere.

Il papa Leone IX, aiutato dall’imperatore Enrico III suo cugino, tentò di scacciarli a capo di un esercito pieno di chierici,[476] ma fu da loro fatto prigione e poi rilasciato per la venerazione al suo grado. Poco dopo morì. In questi affari papa Leone vi guadagnò la città di Benevento. L’imperatore gliela donò.[477] Enrico fu liberale di ciò che non possedeva che con un inutile alto dominio. Non lasciarono perciò i duchi di Benevento di ritenere quella città ancora per alcun tempo. L’istessa liberalità ebbe Leone co’ Normanni quand’era loro prigioniero. Essi chiesero da lui l’investitura delle conquiste: Leone donò loro in feudo: «Omnem terram quam pervaserant et quam ulterius versus Calabriam et Siciliam lucrari possent de S. Petri hereditali feudo sibi et haeredibus suis».[478]

In appresso il papa Nicolò II cominciò dallo scomunicare i Normanni e finì col dare in feudo a Roberto Guiscardo la Puglia e la Calabria, che avea conquistata, e le future conquiste ch’egli far potesse. Roberto giurò al papa fedeltà come suo ligio, obbligossi a pagare un annuo censo di dodici denari di Pavia per ogni paio di buoi.[479]

Nell’istesso tempo Riccardo conte di Anversa conquistò Capoa ed il di lei principato. Si fece anch’egli vassallo del papa avendone da lui l’investitura. Queste sono le prime investiture, nelle quali fonda la Santa Sede i diritti sul odierno regno di Napoli come suo feudo.

Ben tosto Ruggero fratello di Roberto Guiscardo conquistò la Sicilia e fu fatto conte di quell’isola da suo fratello, che lo aveva aiutato a tale impresa. Roberto istese poi le sue conquiste al principato di Salerno e d’Amalfi ed al territorio beneventano. In questa occasione, Gregorio VII ebbe la città di Benevento, che d’allora in appresso cominciò ad esser propiamente della Chiesa romana, lo che fu l’anno 1076. Urbano II in seguito creò il conte Ruggero ed i suoi successori legati a latere della Santa Sede in Sicilia. Soggetto di controversie in appresso. Il mio instituto non è di fare un trattato di giurisdizione.

Erano troppo conformi gl’interessi de’ papi e de’ Normanni perchè fra loro non si dovessero unire. I nobili romani rendevano precario il pontificio governo. Le elezioni erano sempre accompagnate dalle fazioni. Gl’imperatori tendevano a traspor­tare il papato ne’ Tedeschi. Venivano a Roma per baciare i piedi al papa e trattarlo da vassallo. Aveano adunque bisogno i pontefici di una potenza da contraporre agl’imperatori ed a’ Romani istessi.

Altronde i papi, quantunque non avessero eserciti, erano però terribili per le scomuniche che grandissimo spavento infondevano negli animi in tai secoli. I popoli difficilmente obbedivano ad uno da un papa scomunicato. Temeano i conquistatori normanni che alla loro fortuna mancasse l’opinione della giustizia. Questo nuovo regno era sospetto ai papi. Sarebbero stati loro perpetui nemici. Si era già posto mano agl’inter­detti. Un’investitura papale rimediava a tutti questi timori. La pontificia autorità avrebbe santificate le loro vittorie. Tal partito avea preso anco Pipino.

Gl’interdetti, ch’erano fatali a’ nemici della Santa Sede, erano gran difensori de’ suoi amici. Quantunque fossero frequenti, non erano meno temuti. Si adoperavano comunemente per difendere i beni temporali. Gl’incessanti tumulti avendo resi incerti i domini, s’introdusse l’usanza di far donazione de’ suoi beni alla Chiesa, a condizione di restituirgli in feudo per un leggiero tributo. Questi si dicevano feudi oblati. Si scagliavano spaventevoli anatemi contro di chi li toccasse. Non v’era miglior mezzo di conservare il suo in tai secoli. Di tal sorta fu anche questo feudo della Puglia e della Calabria. Tai furono i vicendevoli motivi d’interesse che diressero questi affari.

La politica de’ papi era stata per l’addietro di crearsi nell’imperatore un protettore che li difendesse da’ principi italiani. Ora che la forza dell’imperio andava scemando in Italia, e che i suoi conti e duchi si toglievano di mano in mano alla sua dipendenza, i papi si rivolsero da questa parte. Lungi dall’impedire i progressi della libertà, ne profittavano. Il papa Alessandro II col favore di Gotifredo duca di Toscana ascese al pontificato senza la solita approvazione dell’imperatore Arrigo IV. Questa indipendenza non mai era stata permessa dai greci, goti, longobardi, franchi e tedeschi principi ch’ebbero successivamente il regno d’Italia. L’imperatore quando intese questa consacrazione fece un antipapa in Cadaloo vescovo di Parma, che chiamossi Onorio II. Ma fatto e non sostenuto, ebbe pochi partigiani. Pietro Damiano gli scrisse: «Non ego te fallor: coapto morieris in anno». Cadaloo non si compiacque veramente di morire fra un anno. Pietro, vedendo che la sua predicazione avea mancato, disse che si era inteso di parlare non della morte naturale, ma della civile.

L’esperienza avea fatto vedere ch’era fortunato il coraggio de’ papi. Lo spirito di sollevazione contro l’imperio che era diffuso in Italia lo poteva anco accrescere. In tali circortanze fu assonto al pontificato Gregorio VII, uomo nato a tempo per ingran­dirlo, e che ne avea l’opportuno carattere.

Il suo nome è Ildebrando archidiacono. Egli avea sempre avuta grandissima parte negli affari della Chiesa. È strana l’ambasciata che mandò ad Arrigo appena scelto papa. Gli faceva sapere la sua elezione e lo supplicava a non approvarla perchè se fosse divenuto papa era risoluto di non lasciare impuniti i suoi delitti.[480] Arrigo avea fatte varie tirannie per soddisfare le sue passioni. Sarà stato cattivo principe. Ma che Ildebrando usasse con lui tal linguaggio fa qualche meraviglia; e più gran meraviglia reca come l’imperatore approvasse ciò non ostante la sua elezione. Sembra una contra­dizione che Gregorio, il quale avea per massima che il papa è il sovrano de’ sovrani, credesse necessaria l’approvazione imperiale. Molto più, dopo il fresco esempio d’Alessandro, Gregorio fu l’ultimo papa che si consagrasse coll’approvazione dell’im­peratore. D’allora in poi se ne fece di meno.

Questo pontefice fece un colpo conforme a quell’intraprendente vigore che gli era proprio, proibendo a’ principi, sotto pena della scomunica, di dare le investiture de’ vescovati e delle abazie. Tal diritto non era fin allora stato contrastato dai papi ai principi ed agl’imperatori. Ciò decise la dissensione fra il sacerdozio e impero.

Il prefetto imperiale di Roma Cencio Frangipane si offrì di dar prigioniero all’imperatore il papa. Cencio volea vendicarsi di lui perchè lo avesse scomunicato. Si unirono alla congiura altri scomunicati, il vescovo di Ravenna, Roberto Guiscardo, l’arcivescovo di Milano ed altri vescovi della Lombardia. Gregorio fu preso da’ congiurati mentre che celebrava la messa in Santa Maria Maggiore. Fu gravemente ferito nella fronte, e condotto prigioniero nella torre che Cencio avea fatta fabbricare sul ponte di S. Pietro. Ma il popolo si commosse e liberò il papa.

Arrigo difese con minor coraggio i suoi diritti di quello con cui il papa difendeva le sue pretensioni. Unì l’imperatore un concilio in Vorms nel quale dichiarò il papa illegittimo e scomunicato. Gregorio subito il giorno appresso non solo scomunicò l’imperatore, ma assolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà. Prima volta in cui si dasse una così strana[481] dispensa. Non era da stupirsi che un principe qual Gregorio VII ricorresse a mezzi così inusitati per deprimere Arrigo. Le circostanze del secolo, quelle di Arrigo, la pazienza di entrambi glielo persuadevano. Ciò che ancor più sorprende si è il vedere con qual venerazione fossero accolti gli sdegni pontificali. Arrigo venne in Italia in forma di penitente. Si abboccò col papa in Canossa, fortezza presso Regio di Lombardia. Ebbe molto a pregare per essere assolto dalla scomunica, nè l’ottenne che dopo aver digiunato tre giorni vestito di sacco, a piedi nudi, tremando di freddo. Ammesso di poi alla udienza di Gregorio, prostrato a terra chiese mercè de’ suoi falli. Nulla poteva maggiormente consolare il papa del passato dispotismo degli Ottoni, che tanta docilità d’un loro successore.

Le condizioni colle quali ottenne l’assoluzione dalla scomunica furono: che En­rico comparirebbe nel tempo e luogo che a Gregorio fosse piaciuto nella dieta de’ signori tedeschi, e che vi risponderebbe alle accuse che gli sarebbero fatte, delle quali Gregorio istesso ne sarebbe stato giudice quando lo avesse voluto; che se fosse stato dichiarato innocente avrebbe ritenuto l’imperio, se reo l’avrebbe rinunziato; che sino alla definitiva sentenza della sua causa egli avrebbe esercìto nessun atto da imperatore; che finalmente mancando a questi articoli era nulla l’assoluzione. Enrico si sottoscrisse ad ogni patto.

Sembrò questa rassegnazione di Enrico molto difforme dal suo grado. Ma non fu tutta docilità codesta. Enrico vedeva che di giorno in giorno, col pretesto della scomu­nica e della sua opposizione alle papali sentenze, veniva abbandonato. Egli era un principe che avea disgustati i Tedeschi colle sue tirannnie. La scomunica era un comodo motivo per deporlo. Un principe scacciato dalla Chiesa faceva orrore. La dieta de’ baroni tedeschi gli aveva intimato che se fra un anno ed un giorno non si faceva assolvere, avrebbe scelto un altro imperatore. Il complesso di tai circostanze rendevano necessaria la sommissione di Arrigo. Fu talmente disprezzata in Lombardia la sua docilità, che molte città gli chiusero le porte in faccia.

Non era una spensierata intraprendenza quella di Gregorio. Eseguiva i progetti più pericolosi con una previsione che gli rendeva audacissimi soltanto in apparenza. Arrigo era posto fra l’armi de’ Sassoni, de’ Svevi e dei duchi di Baviera. Giovava sorprendere coll’ardimento il debole principe di un regno tumultuante. La duchessa di Toscana Beatrice, poi la di lei figlia Matilde, appoggiavano altronde le imprese del papa, e Roberto Guiscardo, ch’era stato scomunicato quando stava dal partito di Arrigo, adesso era unito agl’interessi di Gregorio, che gli aveva confermate le investi­ture delle sue conquiste. Conquiste che sapeva conservare, il valoroso duca, contro gli sforzi de’ Greci, de’ Saraceni e de’ Beneventani, che in questi tempi soltanto poteva render più sicure una pergamena. La sommessione di Arrigo in Canossa non spense le questioni. Avea troppo promesso per non mancar di parola. I Lombardi lo deride­vano, lo colmavano d’ingiurie. I principi di Germania aveano scelto in sua vece Rodolfo duca di Svevia. In tai circostanze altro partito non gli rimaneva che disappro­vare la scena di Canossa ed unirsi a’ Lombardi.

Gregorio stava bilanciando qual dei due dovesse approvare per imperatore. Aspettò che Enrico fosse sconfitto da Rodolfo ed allora si dichiarò. Depose il vinto, coronò il vincitore. Nell’atto di deposizione, dice il papa, rivolgendosi a’ santi Pietro e Paolo: «Fate or dunque voi conoscere al mondo tutto che, se potete sciogliere e legare in cielo, voi potete in terra eziandio togliere e dare i regni, gl’imperi, i principati, i ducati, i marchesati, le contee ed i beni di tutti gli uomini giusta il merito di ciascheduno. Se voi giudicate le cose spirituali qual non dev’essere il vostro potere nelle temporali? Se giudicate gli angeli, che dominano su tutti i principi, qual non è il vostro potere su de’ loro schiavi? Che i re, che i principi ora imparino qual sia vostra grandezza, qual sia vostra possanza».[482] Aggiunse l’assoluzione di tutti i peccati a quelli che saranno fedeli a Rodolfo, e la benedizione degli apostoli in questa e nell’altra vita. Promise il paradiso e le vittorie anche al re d’Inghilterra se veniva a soccorrerlo.[483] Mandò a Rodolfo una corona d’oro in cui era scolpita questa inscrizione: «Petra dedit Petro, Petrus diademo Rodulfo».

Nella sentenza di deposizione v’era ancora questa clausola: «Enrico ed i suoi fautori in ogni battaglia non abbia nessuna forza, ed in tutta la sua vita non ottenga vittoria alcuna». Arrigo poco dopo sconfisse Rodolfo, che morì in battaglia. Nell’istesso giorno[484] Guiberto arcivescovo di Ravenna (ch’era stato fatto papa a Brixen da trenta vescovi e da molti signori d’Italia e di Germania col nome di Clemente III) combattè contro le armi della contessa Matilde, fautrice del papa, ed ebbe vittoria.

Arrigo istesso andò quindi a Roma, ricevè da Clemente III la corona imperiale. Il papa chiamava Clemente un anticristo, e l’assemblea di Brixen un concilio di Satanasso.[485]

Gregorio assediato in Castel S. Angelo[486] fu tolto all’ultima desolazione da Roberto Guiscardo, che lasciò a mezzo le sue imprese sull’imperio orientale, per opporsi a quelle dell’imperatore che li divenivano sospette. Questo soccorso fu egualmente fatale al papa che a’ Tedeschi. Roma fu quasi distrutta da’ saccheggiamenti. L’armata di Roberto era di Saraceni.

Non fa bisogno ch’io dica che Gregorio rinnovò le censure per la quarta volta contro di Arrigo e del suo antipapa. Ben egli vide che Roma non era più un soggiorno tranquillo per lui. Si ritirò in Salerno ove stette sino alla morte che ben tosto accade. Mentre che colà andava coll’armata di Roberto gli confermò le investiture. Fu sorprendente il coraggio di Gregorio. Per quanto Roberto lo esigesse da lui, non volle dargli altra investitura che quella di Nicolò II, nè punto estenderla alle posteriori conquiste. Così il papa dice in quell’atto: «De illa autem terra, quam iniuste tenes sicut est Salernus et Amalphia, et pars marchiae firmanae nunc te patienter sustineo in confidentia Dei Omnipotentis et tua bonitatis, ut tu postea exinde ad honorem Dei et Sancti Petri ita te habeas, sicut et te agere et me suscipere decet». Tali erano i sentimenti di Gregorio fuggiasco da Roma, riposto fra i maggiori pericoli, verso di chi lo avea allora tolto dalle mani de’ suoi nemici, in mezzo del suo stesso esercito vittorioso. Ruggero principe potente, conquistatore, suo difensore e protettore, vi sottoscrisse.

Intanto che Roberto fugò da Roma l’imperatore d’Occidente, il suo figlio Boemondo scacciò dalla Bulgaria Alessio Comneno imperatore d’Oriente. E mentre che i Normanni conquistavano la Puglia e la Calabria, Guglielmo duca di Normandia detto il Conquistatore giunse al trono d’Inghilterra dopo molte vittorie. Tali erano i progressi di questa nazione.

Sono note le grandi idee che avea della sua carica Gregorio VII. Da esse potrassi giudicare il suo carattere e quello del secolo. Lo stile che egli adoperava coi re era questo. In Francia si facevano pagare delle imposte ai pellegrini che venivano a Roma. Il re avea esatto un rimarchevol tributo da alcuni mercanti che vi erano andati ad una fiera. Il papa scrisse a’ vescovi francesi che: «Il loro non re ma tiranno a persuasione del diavolo ha macchiata tutta la sua vita di scempiaggini, e tenendo inutilmente ed infelicemente le redini del governo non solo ha colla sua inettitudine lasciati allignare nel suo popolo tutti i delitti, ma lo ha eccitato a quanto si può mai dire e fare di più malvagio col suo esempio istesso. Maldetto colui che non tinge di sangue la sua spada».[487] Questo era l’intercalare favorito di Gregorio. Si ritrova spessissimo nelle sue lettere: egli è il «maledictus qui proibet gladium suum a sanguine». Intorno alla tassa che impose a’ mercanti: «Questa è una cosa» disse il papa in quella lettera «così strana che non si racconta tampoco nelle favole, che sia mai stata fatta da un re», perciò incarica a’ vescovi che facciano entrare nel suo dovere quel principe, che lo scomuni­chino, se fa bisogno: «Che se queste scomuniche non varranno, aggiunge Gregorio, vogliamo che ognuno sappia che coll’aiuto di Dio noi faremo tutti gli sforzi per liberare il regno di Francia dalle sue oppressioni». Sullo stesso stile scrisse al conte di Poitiers: «Se il re persevera nella sua perversa condotta, noi scomunicheremo in un concilio in Roma lui, e qualunque gli rende onore ed ubbidienza come a re, e confer­meremo questa scomunica tutt’i giorni sull’altare di S. Pietro, perchè è lungo tempo che dissimuliamo i suoi delitti, ma ora si è reso cotanto odioso che, quand’anche avesse tutta la potenza che gl’imperatori pagani esercitavano contro de’ martiri, nissun timore sarebbe capace di farci lasciare impunite le sue iniquità».[488] Tutto questo zelo animava Gregorio perchè i mercanti erano italiani e non voleva che i pellegrini fossero impediti dalle imposte di venire a Roma. Queste lettere non ebbero alcun effetto. Dello stesso carattere sono molte altre. In esse ritrovi un nembo di scomuniche.

Che Gregorio pretendesse di essere signore di tutti i monarchi e che tutti i regni fossero ligi della Santa Sede, bastevolmente si ricava da’ suoi scritti. La Sassonia e la Francia ei diceva che Carlo Magno le avea donate alla Chiesa. L’Inghilterra, la Spagna, la Sardegna, l’Ungheria, la Dalmazia, la Russia, tutte pretendeva esser suoi feudi e dovergli pagare tributo. Il che forma il soggetto di varie sue lettere, nelle quali altamente e con minaccie di censure e di guerra riclama i suoi diritti. Queste pretensioni, in altri tempi strane, non lo sembravano in quel secolo. Tai dottrine furono credute. Non vi fu quasi regno di Europa che non divenisse vassallo e tributario della Santa Sede. La Spagna, l’Arragona, il Portugallo, l’Inghilterra, la Olanda, la Dani­marca, la Polonia, la Boemia, la Ungheria, i duchi di Croazia e Dalmazia si diedero alla Chiesa: i loro sovrani da essa ricevettero in feudo i propri Stati con l’obbligo di un annuo tributo. Non si sarebbero creduti legittimi principi senza tale infeudazione.

La intrinsichezza che passava fra la contessa Matilde e Gregorio diede campo a’ vescovi e preti del partito di Enrico, a’ quali voleva togliere le concubine, di accusarlo ch’egli ne avesse una in lei. La storia non conferma quest’accusa, altronde così sospetta. Matilde era bensì del tutto ubbidiente e pupilla del papa: ella seguiva interamente i consigli di S. Anselmo da Lucca, che il papa stesso le avea assegnato per confessore. Questa principessa minò i suoi sudditi per difender Gregorio nelle tante sue vicende, che le ordinava di far la guerra ad Arrigo per la remissione de’ suoi peccati. Essa finalmente donò tutt’i suoi stati, cioè la Toscana e considerabil parte della Lombardia, alla Santa Apostolica Sede, riserbandosene vita durante l’usufrutto.[489]

I cattolici attribuirono a Gregorio molti miracoli, ed i suoi nemici dissero ch’era un negromante che faceva de’ prestigi e delle incantazioni, e raccontavano de’ miracoli che avea fatti l’antipapa Clemente. Nella chiesa di S. Severino in Napoli sta dipinto Gregorio con una gran frusta in mano, in atto di percuotere scettri e corone, che calpesta co’ suoi piedi.

Dopo di Gregorio fu papa Desiderio abate di Monte Cassino col nome di Vittore III, il quale in quattro mesi e sette giorni che visse ebbe appena bastevol tempo di scomunicare l’antipapa e l’imperatore.

Urbano II gli succedette. Questo papa seguiva il nuovo diritto delle genti stabilito da Gregorio. Donò all’arcivescovo di Pisa l’isola di Corsica. La bolla di questa gran donazione comincia così: «Avvegnachè le isole sieno, giusta le leggi, di pubblica ragione, così egli è certo che Costantino imperatore le ha donate in proprietà a S. Pietro ed ai suoi vicari, ma le calamità sopragiunte ne hanno fatto perdere alcune». Sèguita cogli stessi princìpi ponendo per massima che tutte le isole sono di S. Pietro. La guerra con Arrigo era dichiarata. Sembra che Gregorio avesse trasfuso il proprio spirito ne’ successori suoi. Corrado figlio di Arrigo fu mosso contro di lui dai partigiani del papa. In premio della sua ribellione fu coronato re d’Italia dall’arcivescovo di Milano. Il papa Urbano lo ricevette per figlio della Chiesa, gli promise di aiutarlo a conservare la corona d’Italia, ed ad acquistare l’imperiale. Egli dimorò sempre in Italia sotto la tutela del papa e della contessa Matilde che era stata la principale instigatrice della sua ribellione. Si sospettò che fosse da lei ucciso con veleno.[490]

Dopo la sua morte Arrigo, altro figlio dell’imperatore, fu indotto a ribellarsi al padre: sub specie religionis.[491]

Non vedeva tal figlio in lui un infelice, un padre, un re, soltanto uno scomunicato.

Il papa Pasquale II, succeduto ad Urbano, scrisse al figlio una lettera nella quale lo esortava a soccorrere la Chiesa di Dio.[492]

Altro non si opponeva alla ribellione, che l’avere egli giurato a suo padre di non invadergli il regno. Il papa lo assolse da tal giuramento.[493]

Il complesso di tai cose sembra persuadere che il papa ebbe parte in questa ribellione. Il signor Muratori non se ne mostra convinto. Ammette questi fatti, ma non le conseguenze. «Che il papa, ei dice, spingesse il figlio a soccorrere la Chiesa, che lo assolvesse dal giuramento di fedeltà, questo non vuol dire che lo esortasse a ribellarsi». Spetta al giudizioso ed imparzial lettore il decider se queste sieno parole o ragiona­menti: io seguo il mio cammino. Il papa Pasquale scrisse a Roberto conte di Fiandra così: «Benedetto il Signore d’Israello. Perseguitate da per tutto, secondo le vostre forze, Enrico capo degli eretici ed i suoi fautori. Voi non potete offrire a Dio più grato sacrifizio, quanto combattendo colui che s’è ribellato contro del Signore, e che si sforza di togliere il regno alla Chiesa. Noi comandiamo a voi ed a’ vostri vassalli questa impresa in remissione de’ vostri peccati acciochè possiate arrivare alla Celeste Geru­salemme».[494]

L’imperatore fu fatto prigioniero dal figlio a Binghen. I legati pontifici lo spoglia­rono delle insegne imperiali. L’infelice Enrico gittossi a’ piedi del figlio, la natura, i doveri, quanto v’ha di più sacro implorando, ma ei non rivolse tampoco gli occhi su di lui. Morì poco appresso di dolore in Liegi. Sfortunato principe, le di cui sventure son più certe che le colpe. In tanto che tal scena rappresentavasi in Binghen agli occhi d’Europa, Pasquale II fece dissotterrare il cadavere dell’antipapa Clemente III sepolto in Ravenna, e gettare le sue ossa nel fiume. Altrettanto avea fatto Stefano VI con Formoso. L’istesso ora si fece con i cadaveri di altri vescovi del partito imperiale.

Arrigo IV e Lodovico il Pio furono simili nella docilità e nelle sventure. L’uno in Canossa, l’altro in Compiegne meritarono non so qual sorta di compassione dalla posterità. Ambi furono deposti da’ figli. Ambi ritrovarono in essi i loro più atroci persecutori.

Arrigo V, che per divenire re di Germania avea ritrovate ingiuste le pretensioni di suo padre, ora che lo era le ritrovò giustissime. Il falso zelo gli offrì un comodo pretesto d’usurpare il trono, ma su quel trono istesso dovea pensare come suo padre. Egli diceva di volere mantenersi nel diritto d’investire le abazie ed i vescovati, diritto non mai contrastato da Carlo Magno a Gregorio VII, cioè accordato da settantatrè papi ed autorizzato da tre secoli.

Arrigo andò a Roma per ricevere la corona imperiale. Prima di entrare nella Basilica Vaticana si abbracciarono e si bacciarono vicendevolmente il papa e l’impe­ratore. Riserbarono le dispute all’atto dell’incoronazione. Contesero fra di essi calda­mente all’altare. Il tempio fu riempiuto di stragi. Il papa fu messo prigione, dove accordò ad Arrigo più di quello che gli avea negato. Gli concedette le investiture, promise di non vendicarsi, di non scomunicarlo giammai, e di aiutarlo a conservare il suo regno. L’accordo fu sottoscritto da sedeci cardinali. Arrigo fu incoronato impe­ratore. Il papa, messo in libertà, confermò coll’ostia consacrata in mano le sue pro­messe. Erano tante che bisognava violarle. Il papa unì ben tosto un concilio, nel quale questi privilegi accordati all’imperatore furono chiamati i novilegi,[495] ed Enrico al par di suo padre fu dichiarato nemico della Chiesa.

In mezzo di Roma disputossi coll’armi alla mano delle investiture de’ vescovi: Arrigo istesso fu ferito, in faccia, ed ebbe uccisi due cavalli.

Il papa Gelasio II appena assunto al pontificato fu preso per la gola e con pugni e calci condotto in prigione da Cencio Frangipane ch’era del partito imperiale.

L’imperatore fe’ ciò che si era sempre fatto in simili occasioni. Creò un antipapa nell’arcivescovo di Praga che fu detto Gregorio VIII. Durante questo scisma v’erano sempre stati degli antipapi. Colla morte di Clemente III non si estinse la serie loro. Un certo Alberto appena fatto papa fu posto in prigione: dopo di lui a capo di tre mesi ebbe la stessa fine un certo Teodorico. Dopo Maginulfo altro oscuro ed efimero antipapa fu scacciato ben tosto in esilio da’ Romani, ove morì.[496] Roma era piena di rivoluzioni.

Gelasio II liberato da prigione scomunicò l’imperatore e l’antipapa. Volle cantare la Messa in S. Prasede. Fu discacciato dall’altare, e la Chiesa fu tutta insanguinata.

Calisto II suo successore più di lui fortunato vinse l’antipapa Gregorio. Trionfò in Roma conducendo su di un camelo il vinto emulo vestito di una pelle di castrone, e posto al rovescio colla coda di quel animale in mano.[497] Trionfo diverso da quello di Emilio quanto lo erano i tempi.

Queste guerre fra il sacerdozio e l’impero furono agitate con tutto lo spirito di partito. La debolezza di Pasquale d’aver ceduto all’imperatore fu talmente dileggiata che poco mancò che per vergogna non rinunciasse al pontificato. Odiavasi ormai il nome d’imperatore, come gli antichi Romani quello di re. Chiamavasi Arrigo esterminator della terra.[498] I re di Germania possedevano un regno incerto. Ogni volta che venivano in Italia ritornavano da lei meno forti di quello che vi fosser venuti. Altre imprese non facevano in Roma, che crearvi degli antipapi e lasciarli mettere in fuga. Le continue sollevazioni nel suo regno, la stanchezza di più oltre contendere, indus­sero Arrigo a rinunciare finalmente al diritto delle investiture. Tal rinuncia, autenti­cata nella dieta di Vormaria, diè fine a tal disputa fra il sacerdozio e l’impero.

Tanto fortunato fu il coraggio di Gregorio VII, il di cui progetto sarebbe stato chiamato imprudentissimo, se non avesse avuto tal fine. L’impero era disprezzato in Italia. Il papato tremendo e venerato. Ciò lo rendeva un’importantissima carica.

Le città della Lombardia lasciarono disputare i papi e gl’imperatori: profittarono delle lor controversie, non vi presero nessuna parte. Ciò che al tempo degli Ottoni era stata una sollevazione, or divenne un sistema. Milano, Cremona, Pavia, Lodi, Verona, Genova ed altre, al favor della debolezza e de’ tumulti del germanico regno si diedero una forma di repubblica. I Milanesi furono i primi. Essi ancora erano stati i primi a scuotere il governo feudale. La costituzione di queste repubbliche, quasi universalmente, fu tale. Crearonsi de’ consoli in ogni città, che ne fossero i capi; essi arrivarono talvolta sino a 60. Formossi un numeroso generale consiglio composto di nobili e di plebei, ed un altro particolar consiglio chiamato di credenza, cioè di secreto, che era uno stralcio di pochi nobili scelti dal generale. Il particolar consiglio dirigeva l’ordi­nario e giornaliero governo politico. Ma la guerra, la pace, le leghe, le ambascerie, l’elezion de’ consoli e magistrati dipendeva dal gran consiglio. In queste repubbliche aveano però moltissima autorità i vescovi, come quelli che, meno incolti, erano più capaci di governo. In seguito, trovandosi troppo lenta e complicata questa forma di regime, si usò di scegliere un podestà cui fosse confidata la somma delle cose. Ei non durava più di sei mesi. Era sempre forestiero, dovea venire esso solo senza moglie, figli o parenti. Si sceglieva nelle più nobili famiglie. Per bilanciare tal potenza si creò il capitano del popolo, il quale avea la stessa incombenza che il tribuno della plebe in Roma. Era un magistrato popolare, creato a far fronte al ceto de’ nobili. Nelle più gravi urgenze si soleva creare un duca a guisa de’ dittatori romani. Erano queste immagini in miniatura della romana Repubblica, di cui ne avevano il desiderio più che la virtù. Ciascuna città pareva che volesse imitare lo spirito di conquista di Roma. Si facevano fra di esse piccole ed ostinate tenzoni, ridicole ancor direi, se la strage di un uomo solo potesse non esser un serio soggetto. Ritrovi tal volta più lepidezza che crudeltà in tai guerre. Non si trattavano ferocemente i prigionieri: si usò per dileggio di attaccar loro un lascio di paglia per l’indietro, di appiccarvi il fuoco, e cacciarli in tal guisa colle fischiate al loro paese. Così fecero i Milanesi co’ Pavesi l’anno 1108.[499] Pareva la guerra un divertimento da fanciulli.

Anche in esse aveano degli usi romani. Non si faceva battaglia in questi secoli senza prima sfidare il nemico. Consisteva la sfida nel mandargli il guanto sanguinoso della battaglia. S’introdusse tal costume dopo il secolo undecimo. Sarebbe stata una vergognosa perfidia il sorprendere il nemico senza di sfidarlo. L’Europa tutta generalmente era in questa opinione. Ciò fu stabilito anche per legge dagl’imperatori Federico I e II. I feciali romani erano la stessa cosa. Il caroccio che usavasi in queste guerre merita qualche attenzione. Eriberto arcivescovo di Milano ne fu l’inventore. Era tal macchina un carro strascinato da due o tre paia di buoi ricoperti di ricche gualdrappe. V’era in mezzo un’antenna con in cima la croce e ’l vesillo dell’esercito. Stava sul carro qualche soldato, ed era custodito dalla scelta dell’armata. Al vederlo s’incoraggiavano i soldati, ed il perderlo era una estrema desolazione, il toglierlo un gran trionfo. In tutto simile all’arca degli ebrei, fuorchè nella santità. Sembra tolto da lei tal costume. Durò questa usanza sino nel secolo decimoquarto.

Non è già che alcuna città prima di questi tempi non aspirasse alla indipendenza. Cominiciarono i tumulti di libertà dopo la morte di Ottone II. La minor età di Ottone III e la sua lunga assenza d’Italia fomentarongli e crebbero di mano in mano che decadde la forza de’ re di Germania per le guerre intestine de’ lor Stati, finchè nel duodecimo secolo generalmente le città italiche si sottrassero all’impero. Allora s’introdusse l’usanza che venendo gl’imperatori in questo regno alloggiassero co’ loro eserciti fuori delle città, e le repubbliche principali non permettevan loro di entrarvi con uomini armati. Perciò i palazzi degl’imperatori si fabbricarono fuori delle mura. Imitarono il nostro esempio di poi varie città della Germania, le quali togliendosi al governo de’ loro feudatari si eressero in repubbliche non lasciando agl’imperatori che l’alto dominio, come susistono tutt’ora. Nelle Fiandre e nella Francia si fecero gl’istessi sforzi, ma non produssero grandi effetti.

Le prime conquiste di tali repubbliche furono quelle di recuperare i loro distretti. I feudatari se ne stavano ne’ loro castelli ed erano divisi fra di essi i territori che circondavano le città. Non rimanevano in quelle che gli artigiani e i gentiluomini. Gl’imperatori aveano a poco a poco smembrata la gerusdizione de’ conti e marchesi erigendo di questi feudi rurali. Le città, poichè divennero libere, costrinsero questi feudatari a venirvi ad abitare ed a farsene cittadini, esigendo da essi il giuramento di difenderle.

Parlerò io delle lettere di tal secolo? Tutto era disordine e tumulto. La nuova libertà ci avrebbe ripuliti, se non avesse seco strascinate le fazioni e le guerre inces­santi. Si riferisce, a presso a poco, l’introduzione della carta al secolo undecimo. Gli antichi la chiamarono carta bombycina. La mancanza di manifattura di così poco costo, la somma spesa che costava la ricopiatura di un libro, ch’era un prezioso dono, furono inciampi non piccoli al risorgimento delle lettere. I monaci facevano il mestiere di copiatori. Ad essi dobbiamo la conservazione e la mutilazione degli antichi autori. Non v’era qualche spezie di libreria che ne’ monasteri. Molte di esse ne avevano abbruciate i Longobardi, gli Ongari ed i Saraceni.

Visse in questo undecimo secolo Guido Aretino monaco pomposiano, che coltivò il canto fermo e lo ridusse a regole migliori. V’è un suo trattato de musica manoscritto intitolato Micrologus. Ma tal scienza non fece gran progresso fra le sue mani.

Campano da Novara, città della Lombardia, andò verso tai tempi negl’Arabi, e ci portò i libri d’Euclide, ciò non ostante la barbarie stendeva la sua ombra su questi lampi di scienza. Appena era conosciuto il nome di quel matematico. Scrisse ancora Campano un trattato della teorica de’ pianeti non molto superiore al suo secolo. Eccovi terminata la lista de’ grandi uomini di que’ tempi. Non è da meravigliarsi che ve ne fossero pochi, ma che ve ne fossero.

Capo XVII. Del commercio d’Italia. Crociate. Giudizi del fuoco. Guerre di Ruggero re della Puglia con i papi Onorio ed Innocenzo, con Lattanzio imperatore ed i Greci. Introduzione delle manifatture di seta. Studio delle leggi romane in Bologna. Idea di questi studi. Del decreto di Graziano. Teologia scolastica. Scienze degli Arabi.

Dalla libertà delle italiane repubbliche nacque l’industria. Questa provincia tutta cangiò d’aspetto. Si sparse per l’Italia uno spirito di mercatura che non vi era mai stato conosciuto. Ella fin’ora fu o conquistatrice o depredata, o serva o involta nell’anarchia. Ma poichè le repubbliche provarono i beni della tranquillità, a loro si rivolsero. Vene­zia, Genova, Amalfi, Pisa, Ancona nel seno della libertà coltivavano il commercio.

La nostra negoziazione, in tai tempi, era in Oriente. Là era anco sempre stata. La posizione istessa dell’Italia la determinava a quelle parti.

I Veneziani siccome furon quegli che i primi si sottrassero alle comuni infelicità, così i primi ancora fra di noi poterono impunemente esser industriosi. La loro merca­tura ne’ princìpi consisteva nelle saline. Abbiamo già osservato che trafficavano gli schiavi. Cavavano un barbaro profitto dalle invasioni, ma il solo ch’esse permettessero. Ben tosto si rivolsero all’Oriente, e principalmente nella Soria e nell’Egitto. Portavano da Alessandria gli aromi ch’essi soli rivendettero per lungo tempo a tutta l’Europa. Non v’era da temer concorrenza in tempi di desolazione. Tutto l’Occidente era senz’industria, come senza letteratura. La situazione di Venezia, i patti di negoziazione che aveano ottenuti dai greci imperatori rendevale più facile il traffico che ad ogni altra città.

Gli Amalfitani vennero non molto tempo dopo in concorrenza coi Veneziani. Essi fino dal nono secolo aveano intrapresa qualche navigazione. Furono rinomati per la loro marina, nel che superavano tutti gl’Italiani. Le loro consuetudini in questa materia sono state universalmente ricevute. Le amalfitane leggi marittime divennero ciò ch’erano state presso a’ Romani quelle de’ Rodi. Il loro commercio fu anco più esteso di quello di Venezia. Andavano nella Sicilia, nell’Egitto, nell’Asia Minore, nelle coste di Africa, agli Arabi ed alle Indie Orientali dalla parte dell’Istmo di Suez. Sono celebri queste loro navigazioni.

Dopo il Mille i Genovesi, gli Anconitani ed i Pisani si diedero al commercio d’Oriente. Per dire che uno era ricco, si diceva che lo era come un Pisano. Ma furono lenti i progressi dell’industria sino al secolo duodecimo, nel quale, stabilitasi propria­mente una forma di repubbliche nelle città, e decisa la indipendenza dall’imperio, potè crescere e fiorire la mercatura alla pacifica ombra della libertà, madre dell’indu­stria. Si introdusse quindi il consolato di mare fra queste commercianti città, una delle più umane instituzioni che il ben inteso diritto delle genti abbia introdotte.

Il commercio d’Italia consisteva massimamente in stofe di lana di varia manifat­tura, in vino ed olio. Tirava dall’Oriente tele bombaggie, ed aromi, e gran quantità di cuoi da Marocco e da Cordova nella Spagna. Queste pelli si chiamano ancora perciò marocchini e cordovani. Dalle città marittime si portò in seguito il commercio anche nelle terrestri, e nel decimoquarto secolo troviamo che Milano, Firenze, Bologna, Verona e Padova erano vasti empori di fabbriche di lana.

Una sorte di commercio che contribuì molto alle ricchezze delle città marittime fu il trasportare su vascelli a nolo i crociati che andavano in Oriente. Non si trattava meno che della vettura di immense armate per quasi tre secoli.

L’industria non andò esente dalle gelosie. Genova, Pisa, Amalfi, Venezia erano in continue dissensioni per escludersi a vicenda dalle negoziazioni d’Oriente. Ma son ben diverse le guerre della industria da quelle della ambizione.

In tale stato erano ridotte le cose d’Italia. Lo spirito de’ suoi abitatori rivolto alla industria, la forza delle repubbliche di molto accresciuta con ben corredate marittime flotte e colle dominatrici ricchezze sembrava dovessero fra poco ricondurre la romana coltura senza la ferocia de’ costumi di una nazione guerriera. Era in istato l’Italia di soffrire degli urti senza ruinare. Il gran commercio ha molti scampi. Egli ripara presto anche le perdite grandi. Ma non era tutt’or compiuta la misura di quella serie di lepide e tristi vicissitudini framezzo delle quali passano tutte le nazioni per fare il sempre disastroso e lento viaggio dalla barbarie alla coltura.

Furono un grande e lungo ostacolo al risorgimento dell’ingegno umano non che nell’Italia, nell’Europa tutta, quelle pie emigrazioni che per tre secoli spopolarono l’Europa. Non conosce forse la storia un entusiasmo di maggior durata. Le grandi passioni presto si spengono. Parlo delle crociate. Diedero motivo a queste le doglianze che fecero alcuni monaci i quali, ritornando da Gerusalemme, raccontarono come indegnamente fossero trattati da’ Saraceni que’ santi luoghi. Massimamente Pietro detto il Romita si distinse in questo zelo. Le querele divennero un progetto. Pietro girò tutta l’Europa predicando ai popoli, aringando i principi perchè si armassero contro de’ Saraceni e riconquistassero la Palestina. La sua voce fu ascoltata. Gregorio VII fu il primo de’ papi che tentò di unire una crociata, ma non vi riuscì. Il suo successore Vittore III potè eseguire il di lui desiderio. Pubblicò una crociata in Italia[500] dando la remissione di tutti i peccati a chi seguisse lo stendardo di S. Pietro contro de’ Saraceni. La indulgenza plenaria non era stata fin ora in uso. Si introdusse in questa occasione. Essa fu lo stimolo più possente a queste imprese. I crocesignati presero la città di Mahdia in Africa e diedero una rotta ai Saraceni. Fu questa la prima di tai spedizioni.

Urbano II, successor di Vittore, fece ancor più. Tenne un concilio a Piacenza in campagna aperta per la moltitudine di gente che vi accorse; poi un altro nel seguente anno in Chiaramonte. In ambi pubblicò la crociata contro de’ Saraceni colle indulgenze. Si arrolarono sino a trecentomila persone,[501] laici, monaci, cortigiane, ribaldi, fanciulli, tutti vi entrarono. Ogni sorte di persone trovava i suoi vantaggi in tali spedizioni. Molti correvano alla preda: i debitori non erano vessati in tal tempo da’ loro creditori, non erano obbligati, durante la spedizione, di pagare gl’interessi. I monaci malcontenti lasciavano i monasteri, le donne vestite da soldati ne aveano tutta la libertà. S’introdusse che i pontefici ed i vescovi ricevessero sotto alla loro protezione i beni de’ crocesignati. Morendo nella spedizione lasciavano erede la Chiesa.

L’insegna del ingaggiamento era una croce rossa cucita sulla destra spalla. Perciò si dicevano crocesignati. Il grido di guerra era ciascuno in sua lingua: «Dio lo vuole, Dio lo vuole». I Francesi dicevano: «Deus lo volt, Deus lo volt».[502]

La prima spedizione di questa crociata sotto gli auspici di Pietro Romita fu in Germania, ove con stragi e rapine orrende predicarono il Santo Vangelo a’ Giudei. Poi si rivolse questo nembo di saccheggiatori in Ungheria, dove trovò meno docili nemici da combattere. Le crudeltà che ivi fece posero l’armi in mano agli Ungaresi. Rifecero quasi tutta la crociata, le di cui reliquie giunsero in Costantinopoli cercando l’elemosina. Nello stesso tempo, che tali erano le imprese di questa gran spedizione, alcuni partigiani del tuttora vivente antipapa Clemente III stavano nella chiesa di S. Pietro in Roma, e coll’armi alla mano rubavano le elemosine che i pellegrini portavano all’altare, ed altri stando sulla trave che traversava il tempio gettavano delle sassate a quelli ch’erano prostrati in orazione. Si erano prefissi di ammazzare tutti gli aderenti ad Urbano II. Boemondo, figlio di Roberto Guiscardo, fece una più fortunata spedi­zione. Prese Antiochia e la eresse in principato. Nello stesso anno Gotifredo Buglione duca di Lorena conquistò Gerusalemme e fu proclamato re dall’armata. Questi prin­cipi indebolivano i loro Stati per acquistare in Oriente un miglio di paese. Non si conosce nella storia un regno più piccolo di questo di Gerusalemme. Egli consisteva nella città ed in qualche villaggio vicino. I sudditi erano que’ pochi crociati che vi si fermarono, cioè trecento cavalieri e duemila fanti. Tal fu un celebre regno decantato da storici e da poeti. Finì dopo ottantaquattro anni, quando l’ultimo suo re Guido di Lusignano fu discacciato da Saladino nel 1187.

  1. Bernardo fu autore di un’altra crociata verso la metà del secolo duodecimo. Lodovico VII re di Francia prese, secondo il costume, il bordone ed il vestito di pellegrino, e la bandiera detta orofiamma. Corado III re di Germania e d’Italia si ascrisse anch’egli a tale spedizione. S. Bernardo gl’indusse predicendo loro le vittorie. La crociata fu dispersa, pochi ritornarono. Le pubbliche dicerie si collegavano contro di S. Bernardo. Egli rispondeva: «Dio ha ricavato un gran frutto da questa spedizione, quantunque in una maniera che i crociati non s’aspettavano. Gli ha purgati colle afflizioni, acciochè arrivino alla vita eterna».[503]

In questi tempi s’introdusse in Italia la prova del fuoco. La passione dominante del secolo era il fanatismo.

I monaci Valombrosani in Firenze accusavano il vescovo di quella città Pietro da Pavia di esser stato scelto simoniacamente.

Giovanni Gualberto fondator dell’ordine, abate del convento, ordinò ad un suo monaco Pietro che si esponesse al giudizio del fuoco. Così fu. Pietro passò in mezzo di due ardenti roghi senza punto abbruciarsi. Fu perciò detto Pietro Igneo. I Fioren­tini scrissero una lunga lettera al papa Alessandro II in cui minutamente gli raccontano questo prodigio.[504]

Si narra un simile prodigio avvenuto in seguito anche in Milano al principio del duodecimo secolo. Il prete Liprando per provare che Grossolano arcivescovo di quella città era simoniaco passò fra due cataste e ne sortì illeso. È uno storico contemporaneo che lo attesta.[505] Pure, il papa Pasquale II non fu convinto della reità di Grossolano anche dopo tal giudizio. Tenne un concilio lateranese nel quale l’arcivescovo fu dichiarato innocente.[506] Iddio fece in Milano un miracolo per provare che Grossolano era reo, e lo Spirito Santo in Roma con un concilio lo dichiarò innocente. Iddio proteggeva colla sua onnipotenza questi giudizi, divideva colla sua creatrice mano le fiamme perchè vi passeggiasse un verme della terra; e lo Spirito Santo suggerì alla Chiesa di non mai approvare questi giudizi, a vari papi di proibirli, ed in fine di toglierli. Chi è persuaso di tai prodigi avrà la perspicacità di sciogliere questa contrad­dizione. Ella è tolta da’ loro princìpi istessi.

Si darebbe una idea troppo ingiusta della italica filosofia, se facesse bisogno di abbassarsi a confutare in un secolo illuminato queste produzioni della umana imbecillità. Sarebbe sventura di questa storia s’ella venisse fra le mani di chi non fosse di questo parere.

Tutto era strano in que’ tempi. Un gentiluomo di Bretagna, per nome Eon, si predicò alla metà del secolo duodecimo per il figlio di Dio. Le ragioni sulle quali si fondava erano perchè nella conclusione degli esorcismi si trovano le parole: «per eum qui iudicaturus est», ed in quella delle orazioni: «per eundem Christum Dominum nostrum». Egli si chiamava Eon, onde le parole per eum, per eundem significavano il suo nome. La cosa era così chiara, ch’ebbe molti proseliti nella Bretagna e nella Guascogna. Finì la sua missione nelle carceri.[507]

Ritorno in Italia. Colla morte di Guglielmo duca della Puglia si estinse la linea di Roberto Guiscardo. Rogero II, conte della Sicilia, suo zio e da lui instituito erede, s’impadronì di que’ Stati. Il papa Onorio, lungi dall’accordargli l’investitura, lo scomunicò come usurpatore e concesse l’indulgenza plenaria a chi combatteva contro di lui. Si unì un’armata e fu dispersa. Onorio stimò più conforme alla sua situazione di dare l’investitura della Puglia e della Calabria al vincitore.

Morto Onorio non cessarono questi torbidi. Erano scelti da diversi partiti due papi, Innocenzo II ed Anacleto. Ruggero seguì il partito dell’antipapa Anacleto, da cui fu incoronato re della Puglia. Ei fu il primo di que’ principi ad usar questo titolo. Poteva aspirarvi. Era già signore di Stati considerabili. Alla Sicilia, alla Puglia ed alla Calabria avea aggiunto Napoli ed il suo ducato. I suoi Stati erano come l’odierno Regno di Napoli. Si potea dire senz’altro il più gran principe d’Italia. Fece altresì una spedizione in Africa. Ella finì col rendere suo tributario il re di Tripoli. Avea perciò Rogero scolpito nella sua spada questo verso:

«Apulus et Calaber Siculus michi servit et Afer».

Il papa Onorio non avea ceduto che alla forza. Non potevano i pontefici esser amici di vassalli potenti, confinanti e conquistatori. Questo era il motivo delle guerre e delle scomuniche, ben più che la trascuranza di Roggero nel farsi investire de’ Stati dal papa.

Innocenzo II, non riconosciuto per papa dalla maggior parte d’Italia, errava per la Francia cercando inutilmente soccorso da quel re. In tanto Anacleto protetto da Roggero sedeva in Roma. L’imperatore di Costantinopoli provava gli stessi timori d’Innocenzo.

Gli era molto sospetta la vicinanza di Roggero. Entrambi ricorsero al sempre usato e fatal scampo di chiamare in loro aiuto l’imperatore.

Egli era Lottario II. Fu più volte eccitato dal papa a venire in Italia. Vi entrò e spogliò Roggero in una sola campagna di tutti i suoi Stati. Il papa accompagnò l’imperatore in queste imprese, e si valse del suo protettore come di un generale da lui stipendiato. Questionarono fra di essi chi dovesse dare l’investitura della Puglia. Si terminò la contesa tenendo il gonfalone con una mano l’imperatore, e coll’altra il papa.[508] I feudi maggiori si conferivano colla tradizione di una lancia e di un gonfalone, i minori colla tradizione di una coppa d’oro, di un ramo d’ulivo e di un bastone. Il papa ebbe anche il vantaggio di scegliere il nuovo feudatario. Ei fu Rinulfo conte di Avellino che per un momento ebbe il ducato della Puglia. Nacque un’altra questione per dare un abate al monastero di Monte Cassino. La vinse il papa. Tant’era docile Lottario a capo di una vittoriosa armata.

Fu lo stesso per Lottario partire d’Italia e perdere le sue conquiste. Ruggero, che si era intanto ricovrato in Sicilia a radunare un’armata, ricuperò tosto i suoi Stati con quelle violenze che accompagnano le veloci conquiste. Lottario ben tosto morì nella Valle di Trento ritornando in Germania. Innocenzo stesso fu fatto prigioniero da Ruggero.[509] In tale stato ridotto, trovò che la propria debolezza, la potenza del nemico, le passate vicende esigevano da lui che dasse l’investitura del regno di Sicilia al vincitore, che lo assolvesse dalle scomuniche. Eccitò egli stesso i popoli a sottomettersi al suo governo. I Romani istigavano il papa a mancare alla pace. Egli non mai vi acconsentì.[510]

Fu in questa guerra espugnata Amalfi da’ Pisani, che si unirono all’imperatore Lottario. Si ritrovarono in quella occasione in essa città le famose Pandette ch’erano perdute in Italia. Si narra che i Pisani non cercassero altra ricompensa che questo prezioso libro. L’imperatore non ebbe difficoltà alcuna di pagare una flotta cogli antichi frammenti della romana giurisprudenza. Nell’anno 1416 i Fiorentini espugnata Pisa le portarono in Firenze, dove sono attualmente. Per ciò si dicono indistintamente Pisane e Fiorentine queste Pandette.

L’imperator d’Oriente, i di cui antecessori non aveano potuto difendere la Cala­bria e la Puglia da un mucchio di pellegrini, ora pretese da Ruggero que’ regni reclamando i suoi inutili diritti. Il re in altra guisa non rispose che con accrescere le pretensioni del debole imperatore, saccheggiandoli Atene, Corinto e Tebe. In quella occasione Roggero, fra gli altri prigionieri, condusse degli artigiani di stofe di seta. Quest’arte fin allora non era nota agli Occidentali.[511] Codesti artigiani vennero messi in Palermo, dove furono erette le prime fabbriche di tal manifattura. Si fabbricarono de’ drappi di seta ed oro. In seguito i Lucchesi[512] anch’essi la conobbero e per lungo tempo furono i soli che in Italia la sapessero, finchè, diroccata la loro città da Uguccione Fageolano l’anno 1314, si sparse in Venezia, in Milano, in Bologna, nella Fran­cia, nella Germania e nella Inghilterra. Prima della introduzione delle stofe di seta, il lusso del vestire consisteva generalmente nelle pelicie, massimamente di gibellino, martora, armelino e vaio.

Il baco da seta era già da lungo tempo conosciuto in Oriente. Fu al tempo di Giustiniano l’imperatore, alla metà del sesto secolo, che alcuni monaci venuti dalle Indie portarono in Grecia questa scoperta. Prima di tal epoca tanto i Greci quanto i Romani tiravano tutti i lavori di seta dall’Indie e dalla China per mezzo de’ Persiani e degli Egizi. Quando poi venisse portato in Italia il baco da seta, non si sa. Questa è la sorte delle pacifiche arti. Un macello d’uomini è sempre celebre. I beni della tranquilla industria, i nomi de’ più grandi benefattori della umanità sono ricoperti dalle vaste ombre della obblivione. Tutto ciò che non fa strepito è dimenticato.

L’invenzione delle Pandette in Amalfi produsse una gran rivoluzione nella lette­ratura. Esse altro non sono che una porzione della celebre raccolta delle leggi romane fatta per ordine di Giustiniano. Questa raccolta forma quello che diciamo gius comu­ne, perchè comunemente in quasi tutta l’Europa fu accettata. Con tai leggi ancor viviamo.

Ora una copia di queste Pandette in Amalfi fece risorgere lo studio delle leggi romane già obbliate, dopo che vennero i Settentrionali da noi. Irnerio cominciò il primo in questo secolo XII ad insegnarle pubblicamente in Bologna. Altri seguirono le sue tracce ben tosto. Quella città divenne ben tosto piena di scolari. Considerabile quantità di danaro vi portava l’universale affluenza della gioventù. Perciò s’introdusse di esigere da’ maestri di quelle scuole il giuramento che non avrebbero insegnato altrove le romane leggi, e che se avessero traspirato che alcuno degli altri maestri tentasse di evadere dalle scuole per portare altrove tai studi, lo avrebbero denunziato al console o al podestà. Era l’ignoranza di pochi che faceva monopolio di quella del pubblico. Ritrovossi anche, verso tai tempi, il Codice Giustinianeo in Ravenna. Tutti gl’ingegni si rivolsero a questi studi. Ben tosto un nembo di comentatori sfigurò in poco tempo ciò che v’era di rispettabile in quella raccolta. Paolo, Papiniano e Scevola comentati da barbari uomini, nati in tempi barbari, sembrava che avessero perduto il senso comune. Questi interpreti non sapevano nulla della romana erudizione. Nessuno ne sapeva a’ lor tempi. Perciò spiegavano con lunghe glose quelle leggi che non intendevano. Quando incontrarono in esse le parole pontifex maximus, sacerdos, religio, e tutti gli altri vocaboli appartenenti alla romana religione, eglino l’intesero come se si trattasse in quelle leggi del papa, de’ vescovi, de’ preti e delle altre cose del cristianesimo. Abbondano gli esempi di questi equivoci. Perciò Accursio, celebre fra i primi di questi interpreti, diceva che non v’era bisogno di teologia, perchè essa tutta era nelle leggi romane.

Non sarebbe presto finito il catalogo delle strane notizie che aveano della romana storia questi comentatori. Lo stesso Accursio avvertì seriamente che Gesù Cristo nacque dopo di Giustiniano. Egli fu chiamato l’idolo degli avvocati. Il celebre Bartolo sospettava assai che il Tevere fosse così detto dall’imperator Tiberio: Odofredo, altro famosissimo interprete, ci assicura che Romolo ed Enea vennero in Italia nella stessa nave e che i Longobardi erano stati certi re venuti a noi dalla Sardegna, e questa erudizione fu seguita da molti altri egualmente gravissimi giureconsulti dopo di lui.

Accursio faceva talvolta ne’ comenti una curiosa satira de’ costumi de’ suoi tempi. Spiegando una legge[513] nella quale s’insegna «qual condotta debbano tenere i giudici e che specialmente non devono mostrarsi irati contro di que’ litiganti ch’essi credono malonesti, nè sparger lagrime alle preci de’ poveri, perchè il giudice dev’esser retto non solo, ma eziandio costante, e ricoprire i moti dell’animo col volto», Accursio vi fa questa glosa: «Nota mirabilem malitiam quam docet haec lex, quod aliud gerant in corde, aliud similant, quod optime faciunt Bononienses». Ed in un’altra legge[514] incontrando le parole doli capaces vi comenta: «quales Lombardia et Normannia (cioè la Puglia, la Calabria e gli altri paesi de’ principi normanni) parit, et avaritiae caput Roma cunctos tales governans». Egli viveva alla fine del secolo duodecimo.

Le leggi longobardiche andarono in disuso. Questi interpreti dell’ius romano le chiamavano asinine. Aveano gran torto, perchè la longobardica legislatura era ottima, massimamente in ciò che riguarda la pubblica polizia.

È incredibile qual fosse la venerazione per le Pandette. Si tenevano quasi per un libro rivelato. Dopo che furono trasportate in Firenze, vennero custodite con estrema gelosia. Erano destinati alla loro guardia de’ monaci cisterciensi e certi magistrati della città: non si esponevano a vedere che a persone di gran distinzione, e con molta difficoltà. Si accendevano in tale occasione delle torce, ed i monaci ed i magistrati che assistevano alla sollennità stavano col capo scoperto con aria di compunzione.[515] La coltura, che rende ridicole tante cose serie, fece l’istesso anche con questa. Tal costume durò lungo tempo. Ora si mostra quel codice come tutti gli altri manoscritti. I più celebri giureconsulti furono ammessi a consultarlo. Baldo, Antonio, Agostino, Balduino, Conzio ed altri attestano d’averlo veduto con tutte quelle cerimonie. Non saprei meglio far conoscere qual fosse il modo di pensare e lo spirito degl’interpreti, che col dare un’idea di un dialogo di Bartolo assai curioso. Quest’interprete ottenne una stima indicibile a’ suoi tempi. Nacque verso il principio del decimoquarto secolo.

Consiste questo dialogo in un giudizio solenne celebrato con tutte le forensi triche, avanti di Gesù Cristo. Egli è giudice. Il diavolo è attore. Il genere umano è reo convenuto. La B. Vergine sua avvocata. Il diavolo instituisce la sua azione contro il genere umano e pretende che il di lui dominio siagli devoluto, del quale si lagna di esser stato spogliato ingiustamente. Viene adunque citato ad comparendum il genere umano, il quale non essendo comparso in giudizio stava per essere condannato in contumazia, quando la B. Vergine Maria si esebì ad esser di lui avvocata. Il diavolo le fa una forte eccezione. La respinge dal giudizio come sospetta per esser madre del giudice. Si contende caldamente, si citano testi e paragrafi, glose e constituzioni imperiali, risposte degli antichi romani giuriconsulti; finalmente si fa una cavillazione al diavolo. Viene obbligato a metter fuori la carta di proccura, ed a provare con qual diritto egli compaia in giudizio come proccuratore della nequizia infernale. Elli presenta a Gesù Cristo la sua carta di procura, sottoscritta dalla mano di notaro e testimoni i quali sono Maometto e Cerbero. Quindi si accende sempre più il contraddittorio giudizio: si dicono de’ pungenti motti il diavolo e la Beata Vergine; citano, per provare le loro dottrine, i testi di Vulpiano, di Paolo, di Adriano, di Diocleziano, e Gesù Cristo istesso non dice parola in cui non citi queste leggi sanza fine. Dopo una lite asprissima, dopo mille eccezioni e rigiri, dopo una folla di cavilli innumerevoli, Gesù Cristo fa la sentenza: «Iesus autem iustus iudex praecepit angelo Gabriele ut tuba aurea citaret Beatam Virginem Mariam advocatam humani generis ex una parte, et procuratorem nequitiae infernalis ex altera ad sententiam audiendam die Paschalis Resurrectionis Iesu Christi, et ita factus est per angelum Gabriele, Iesus autem adveniente die, sententiam pro tribunali protulit hoc modo. In aeterni nomine amen. Nos Iesus mundi Salvator visa citatione contra genus humanum, visa etiam charta producta et allegata per procuratorem nequitiae infernalis, visis etiam allegationibus factis per Mariam Virginem advocatam humani generis, visis propositionibus, responsionibus, exceptionibus et replicationibus et iuribus ambarum partium, ex his manibus visis et consideratis, quae in predictis, et circa predicta videnda et consideranda fuerunt, sedentes pro tribunali ad nostrum solitum banchum iuris, positos super thronos angelorum in caelesti palatio nostro, ubi residentiam facimus personalem, humanum genus hac mera definitiva absolvimus, et ab impetitione procuratoris nequitiae infernalis reddimus absolutum, cum hoc consonet sanctissimis scripturis et iuridicae veritatis, quam in hoc sequi volumus, ipsumque procuratorem nequitiae infernalis ex hoc nunc praecipimus ad damnationem inferni perpetuam penitus ambulare, ubi est fletus et stridor dentium infinitus. Recessitque diabolus, scissis vestibus et dolore perterritus, ad inferos maledictus. Lata, data, in his scriptis pro­nunciata et promulgata fuit suprascripta sententia, in omnibus et per omnia, prout superius continetur et scriptum est, per suprascriptum Dominum nostrum Iesum Christum, pro tribunali sedentem, in suprascripto loco, praesentibus suprascriptis partibus; lecta et vulgarizata per me Ioannem Evangelistam, notarium Domini nostri Iesu Christi, et dictae curiae scribam publicum, praesentibus Ioanne Baptista, Fran­cisco et Dominico confessoribus, Petro et Paulo principibus apostolorum, et Michaele arcangelo, et multis aliis sanctis in multitudine copiosa, testibus ad haec vocatis et habitis et rogatis. Anno Domini 1311, die 6 mensis aprilis. Tunc angeli videntes haec, et chorus coelestis, coeperunt alloqui Virginem gloriosam dicentes: Salve Regina, mater misericordiae, vita, dulcedo et spes nostra».[516] L’autore di questa esimia produ­zione veniva chiamato «specchio e lucerna del diritto, virtù delle leggi, scorta univer­sale, forza della verità, esperito, cocchiere, Appollo, oracolo d’Appollo, padre, mae­stro, lume del genere umano».

Questa idea fu seguita da altri. Il giureconsulto Giacomo Palladino di Teramo, città d’Abruzzo, compose, poco dopo, una lite fra Gesù Cristo e Lucifero. Lucifero si lamenta come Gesù Cristo dopo la resurrezione, essendo andato all’inferno, gli abbia tolte le anime de’ giusti, e pretende che gli sieno restituite. Indirizza al Padre Eterno le sue querele, che delega per giudice Salomone. L’inferno manda per suo procuratore Belial; Gesù Cristo, Mosè. Si fanno tutte le solennità giudiziarie, citazioni, repliche, dupliche, eccezioni. La lite si agita con tutto il calore forense. Belial condan­nato da Salomone si appella al Padre Eterno, il quale gli dà per giudice inappellabile il patriarca Giuseppe. Dopo molte contese il demonio propone che si rimetta la causa a degli arbitri. Si accetta la proposizione. Lucifero sceglie per arbitri l’imperatore Augusto ed il profeta Geremia. Mosè sceglie Aristotile ed il profeta Isaia. Si finisce la lite per compromesso. Gesù Cristo se ne va in Paradiso dov’è accolto fra le fauste acclamazioni di tutta la corte celeste. Il demonio anch’egli è contento della sentenza. Ognuno crede di aver vinto. Niente dà più compiuta idea dello spirito de’ studi, de’ tempi e de’ costumi, quanto codesti preziosi documenti della umana lepidezza. Nello stesso secolo duodecimo, intanto che la scoperta delle leggi romane avea empiute di dottori le scuole di Bologna, Graziano monaco benedettino toscano fece la famosa sua compilazione de’ Canoni e delle Pontificie Lettere che compongono ciò che si chiama diritto canonico. Ben tosto fu accettato nelle scuole di Bologna, e poi in tutte le altre.

Non fu questa la prima raccolta del gius canonico. Altre se n’erano fatte, fra le quali più stimata era quella d’Isidoro Mercatore, o forse peccatore. Talvolta così i vescovi si sottoscrivevano per umiltà. Isidoro sembra esser vissuto nel secolo ottavo ed esser stato spagnolo. È noto quanti apocrifi documenti egli ponesse nella sua raccolta. V’inserì le supposte decrettali di più di sessanta papi. È una gran prova della lunga ignoranza de’ tempi il vedere come non si sospettasse tale impostura per ben otto secoli. Soltanto nel decimosesto secolo si cominciò a dubitare della autenticità di que’ documenti. Eppure l’imperatore era stato ignorante quanto il suo secolo. In mille maniere apriva il campo ad essere riconosciuto. Le date erano tutte palesemente false. Citava in queste decretali dei passi di S. Leone e di S. Gregorio e di altri posteriori a que’ papi a’ quali le attribuiva. Nominava nelle lettere pontificie, che egli ascriveva a’ primi secoli della Chiesa, i titoli di patriarca, di arcivescovo, di primate in que’ tempi affatto ignoti.

Fra le massime che si stabilirono con questi falsi documenti sono rimarchevoli le seguenti. Che non si possono tenere concili, nemeno provinciali, senza permissione del papa; che i vescovi non possono essere definitivamente giudicati che da lui; che a lui solo era riservata la erezione di novi vescovati; che a lui può appellarsi qualunque persona ecclesiastica. Questi princìpi passarono come fondati sull’antica disciplina della Chiesa. Ma la storia tutta dimostra che queste ispezioni appartenevano ai concili provinciali. In tal guisa l’autorità loro si trasfuse nel pontefice, ed il governo della Chiesa si ridusse alla monarchia. Roma divenne una capitale in cui tutti gli affari delle provincie si riducevano, per modo che S. Bernardo descrive quella corte come l’emporio d’infinite liti, ove concorrevano tutte le differenze che anticamente si termina­vano ne’ concilii provinciali. Molte ricchezze colavano in quella città in tal metodo. Il papa, divenuto un giudice unico ed universale, non potè più sostenere il peso degli affari. Da qui ne venne che s’introdussero i legati pontifici, i quali si spedivano nelle provincie per convocare concili e terminar gli affari a nome del papa, di cui si potevano dire i pretori.

Graziano non solo trasfuse nella sua collezione i falsi documenti d’Isidoro, ma ve ne aggiunse de’ suoi. Tai sono quelle due proposizioni, che il papa non è soggetto ai canoni. Non cita nessuna autorità in conferma di tal dottrina. E quell’altra, che gli ecclesiastici sono affatto esenti del foro laico. Provò Graziano questa proposizione con una apocrifa legge di Teodosio e con un frammento di un’altra di Giustiniano, la quale citò mutilata, perchè citandola tutta si sarebbe creduto che diceva l’opposto. Si aggiunsero ai canoni apocrifi delle nuove interpretazioni della Sacra Scrittura. Il senso allegorico servì molto in tale affare. Gesù Cristo[517] vicino alla sua passione dice a’ discepoli che bisogna che abbiano delle spade per compiere la profezia «Sarà messo nel numero de’ perversi»; i discepoli gli dicono: «Ecco due spade»; risponde Gesù Cristo «Ciò basta». Tosto i comentatori interpretarono che le due spade erano le due potenze temporale e spirituale, che queste due potenze appartengono alla Chiesa perchè ambe codeste spade erano in mano de’ discepoli. Che perciò la Chiesa esercita la spirituale podestà da se stessa, e quanto alla temporale ha delegato i principi ad esercirla in suo nome. Fu perciò, secondo i comentatori, che Gesù disse a S. Pietro: «Metti la spada nel fodero», lo che non vollea già dire che a lui non spettassero i temporali diritti, ma che quantunque quella spada fosse sua, non doveva da se stesso adoperarla, ma bensì i principi per suo comando ed ordine.

Collo stesso spirito fu interpretato il luminare maggiore ed il luminare minore della Genesi.[518] Il gran luminare maggiore, cioè il sole, divenne il sacerdozio; il lumi­nare minore, cioè la luna, fu l’impero. E per quella ragione che la luna riceve la sua luce dal sole, così l’impero riceveva dal sacerdozio ogni suo splendore e forza. Fissati tai princìpi se ne cavarono le esatte conseguenze.

Tai massime, parte fondate su strane allegorie, parte su falsi documenti, furono insegnate in tutte le scuole, ripetute in cento volumi; queste formavano l’intrepidezza de’ papi e ’l terrore delle genti. Il papa Gregorio VII le pose in tutta la loro luce. I suoi successori seguirono il suo piano. Erano terribili questi princìpi, perch’erano creduti. Nessuno dubitava che tal non fosse il senso vero della Scrittura e gli antichi diritti del trono pontificale. I papi ritrovandogli negli antichi supposti documenti n’erano persuasi come tutti gli altri. In tal modo essi, non mai padroni di vasti regni, o di grandi eserciti, comandarono all’Europa. Ciò non accadde nell’imperio d’Oriente, perchè ivi non mai perì a tal segno ogni notizia d’erudizione, che tanto lungamente e facilmente potesse reggersi un ammasso di apocrifi documenti mal fucinati. Vi fu sempre colà qualche notizia degli antichi tempi della Chiesa. I patriarchi di Costantinopoli non contesero della sovranità cogl’imperatori, non gli deposero, non assolsero i sudditi dal giuramento di fedeltà. Massimamente dopo di Fozio, che lasciò la ecclesiastica erudizione in sommo splendore, sarebbero stati di poco credito questi princìpi.

Egli è strano che nella raccolta di Graziano, insieme a tanti decretali favorevoli alla pontificia potenza ve ne fossero due, che erano in una aperta contradizione con questi princìpi. L’uno è del papa Adriano I, in cui concede all’imperatore Carlo Magno la facoltà di creare i papi a suo arbitrio.[519] L’altro di Leone VIII che conferma la stessa autorità ad Ottone I. Questi documenti erano in un codice che veniva alle mani di tutti gli ecclesiastici, che s’insegnava in tutte le scuole, ch’era comentato da cento dottori, eppure si credeva comunemente la donazione di Costantino, e si avevano così alte idee del dominio pontificale.

Visse nel medesimo secolo di Graziano anche il famoso Pietro Lombardo, detto il Maestro delle sentenze. Ei fu autore di una rivoluzione ne’ studi teologici. Fu detto Lombardo perchè Novarese di patria, città situata in Lombardia. Il suo Libro delle Sentenze gettò i fondamenti della scolastica teologia. Ebbe maestro Pietro Abailardo, celebre non meno per la teologia che per gli suoi amori con Eloisa, e le sue sventure. Questo libro fu accolto come lo fu quello di Graziano. Sembravano meravigliose tali opere. Il Libro delle Sentenze fu messo al paro della Sacra Scrittura. Venne comentato da duecentoquarantaquattro teologi successivamente. Bisogna che fosse ben oscuro, e che ora sia ben chiaro. Lo Spirito delle Leggi ha appena qualche nota. Tutte le scuole accettarono il Libro di Pietro. S. Bernardo si oppose ai progressi di questa nuova teologia. Sono note le sue contese con Abailardo, il quale ragionava in teologia più di quello che permettesse il suo secolo.

  1. Tomaso d’Aquino nel seguente secolo decimoterzo seguì le tracce di Pietro Lombardo. Tomaso era dominicano e scolaro di Alberto Magno, famoso in que’ tempi non meno perciò che seppe, che perciò che fu creduto che sapesse. Bastava non esser ignorante in qualche cosa di fisica per esser un mago. Fu creduto ch’egli ritrovasse la pietra filosofale: gli furono attribuite molte magie. Voci meritate da un uomo maggior de’ suoi tempi.

Questa nuova teologia consisteva nel darle un metodo dialettico che non avea avuto in prima. S. Agostino è il solo fra gli antichi in cui si veda qualche vestigio di tal genere di teologia.

L’arabica filosofia cominciava a spargersi fra di noi al principio del duodecimo secolo. Si aggiunsero i libri di Aristotile che, perduti nel universale deperimento della letteratura, furono, verso questi tempi, a noi trasportati dall’Oriente. Si vollero intro­durre ed associare questi studi colla teologia. L’ignoranza della storia ecclesiastica, la total mancanza di erudizione non permise di fondare la teologia sull’autorità, suo vero fondamento. Uomini ignoranti possono esser sofferti. Basta a ciò la ragione. Ma ignoranti di storia e di erudizione, come poteano tampoco abusarne? La teologia chiamò in suo soccorso la dialettica arabica ed aristotelica: tutto si volle ridurre ad un metodo logicale, e spiegare i misteri e le dottrine colla debol forza della ragione. Questo divenne un gran mostro: gli arabi aveano di molto accresciuto il buio della dialettica aristotelica, ed aveano fatto della logica un impasto di formole sillogistiche, nelle quali sublimemente si perdeva il buon senso. In questo mare naufragarono gl’ingegni e ne sorse quella latrante ed orgogliosa facoltà che si chiamò scolastica teologia, la quale ebbe per lungo tempo l’impero delle menti. Questo metodo fu ritrovato utile alla difesa della religione ed alla spiegazione de’ suoi misteri. Si obbli­gavano i professori con giuramento a difendere l’autorità de’ papi e della romana corte. Tutti si rivolsero a questi studi. Non ve n’erano altri per gli ecclesiastici. Quello de’ canoni, dopo tal riforma, cominciò a decadere.

La filosofia e la teologia si diedero in tal guisa la mano. Consorzio pericoloso, che sempre ha turbata la letteratura.

Tutto avea l’istesso spirito in tai secoli. Se i giurisperiti si chiamavano «lucerna del diritto, idolo degli avvocati, oracolo d’Apollo», l’istesso fasto s’introdusse ne’ dottori scolastici. Vi fu «il sottilissimo, l’irrefragabile, l’ordinatissimo, il fondatissimo, il regolatissimo, l’invincibile, l’aquila, il perspicuo, il martello degli eretici, la luce del mondo, l’estatico, il patriarca delle controversie». La teologia ebbe in questi dottori una truppa di Zenoni.

Mentre che tai discipline erano in vigore, e le sole che acquistassero stima, non è meraviglia se quelli che si consagravano alla fisica fossero perseguitati come negromanti. Tal sorte ebbero Alberto Magno, Ruggero Bacone e Pietro d’Abano.

I monaci soli in tai secoli aveano in mano la letteratura. I francescani ed i dome­nicani tenevano il deposito delle scienze umane. Ambi questi ordini pretendevano alla primazia ed erano in continue caldissime controversie.

Famosa è fra gli altri la questione de’ nominali e de’ reali. Sostenevano i nominali che gli universali si formano dopo la esistenza del soggetto colla mente e col pensiero. I reali dicevano che gli universali esistevano nel soggetto istesso. Sublimi questioni. Da qui ne vennero i da nessuno intesi, ma da tutti ammirati e ripetuti, vocaboli degli universali avanti il soggetto, nel soggetto e dopo il soggetto: universalia ante rem, in re, post rem. La disputa divenne seria. Cominciaronsi nel trattare gli uni gli altri da eretici. Si passò ancora a delle battaglie scolastiche in Germania ed in Francia, nelle quali si uccidevano miseramente per una controversia che non intendevano. Le follie del secolo sono sempre pericolose. Quando i pazzi sono molti divengono rispettabilissimi. In seguito il re di Francia Luigi XI, per dar fine a tai dispute di parole e di sangue, ordinò che fossero incatenati i libri dei nominali nelle biblioteche con proi­bizione di aprirli.[520]

I monaci, che facevano tutto in questi secoli, facevano anche il medico e l’avvo­cato. Il papa Innocenzo II in un concilio Laterano[521] rimproverò quest’abuso della disciplina. I vescovi ed arcivescovi professavano sovente la medicina.

Avea cominciato a fiorire alla metà del undecimo secolo la scuola di medicina in Salerno. Parmi che in quel solo luogo da noi l’ingegno umano non fosse ridicolissimo. Fece grande onore a quella scuola il libro di uno dei suoi professori, Giovanni da Milano, fatto per Roberto, figlio di Guglielmo il Conquistatore re d’Inghilterra. È un trattato di medicina preservativa. Si sparse nel pubblico nel 1100 e fu mercatissimo in tutta l’Europa. Fu altresì assai stimato il libro intitolato Scola Salernitana.

Questa medicina era tolta dagli Arabi, nazione che cominciò dal saccheggiarci e finì coll’istruirci. Avicenna, che fiorì nel principio del secolo undecimo, ed Averroes, che vivea alla fine del duodecimo, furono i nostri maestri di medicina. Gli Arabi conquistando l’impero de’ Greci appresero le loro scienze. Noi in duecento anni che fummo in Oriente colle crociate non facemmo che delle guerre e delle crudeltà. Non imparammo le lingue orientali, non conoscemmo le leggi, i costumi, la storia de’ Monsulmani, ma bensì ebbimo de’ strani errori intorno a quella nazione. Si credeva che fosse idolatra, quando che il principal scopo della religione di Maometto fu di abolire l’idolatria; ed avevano così poca cognizione di que’ paesi, che Alberto Magno, per quanto famoso, credeva che Costantinopoli fosse in Italia.

Gli Arabi, dopo di avere stese le loro conquiste nel settimo secolo nell’Asia e nell’Africa, nel ottavo secolo nelle Spagne, nel nono nella Sicilia ed in qualche città del Regno di Napoli, fecero dimenticare alle nazioni il sangue che aveano sparso dandosi a coltivare le scienze. Fu strana questa coltura in essi. Che un popolo barbaro conquistando un colto finisca per ripulirsi non è nuovo; così fecero i Romani coi Greci, così i Tartari coi Chinesi. Ben fu strano che un popolo feroce, conquistando nazioni decadute nella barbarie, le facesse da quella risorgere e le riconducesse all’antica coltura.

Nel secolo ottavo, essendo califo di Babilonia ed Egitto Almamonc, cominciò ad introdursi negli Arabi qualche amore alla letteratura, che fomentò quel gran principe. Nel secolo duodecimo massimamente si dilatò in Italia la loro coltura: si tradussero in lingua latina i loro libri. Il medico Gherardo Cremonese ne tradusse molti d’astronomia e di medicina. Il suo nome è noto perciò nella storia delle lettere.

Gli Arabi ci portarono le scienze, ma ancora una gran credulità per l’astrologia giudiziaria. Essi la fecero risorgere in tutta l’Europa. S’introdusse che gli astrologi stavano alla corte de’ principi i quali non prendevano nessuna importante risoluzione nella guerra e nella pace senza consultare l’astrologo. I teologi, i giurisperiti e gli astrologi divennero i primi ministri. Si alzarono oroscopi, si predissero le successioni e le vicende de’ papi e dei re. Per lungo tempo i grandi uomini furono maghi, profeti ed alchimisti. Abbiamo noi diritto di burlarci della bontà de’ nostri maggiori? L’astrologia è un errore che fece il giro di tutto il globo, e che ha lasciati da pertutto de’ vestigi. Come l’uomo, che tutto rapporta a se stesso, non si sarebbe persuaso che la gran volta de’ Celi e mille globi che gli stanno d’intorno hanno qualche relazione con lui? I nostri Almanacchi sono ancor pieni di astrologia, i nostri poeti chiamano inique e crude le stelle, e gli astri spietati.

Capo XVIII. Di Federico I imperatore. Tumulti in Roma e nel Regno di Napoli. Distruzione di Milano. Dieta di Roncaglia tenuta dall’imperatore. Antipapi. Lega Lombarda contro Federico. Pace di Costanza. Nuove crociate.

La Lombardia in questi tempi è quella parte d’Italia che merita la nostra principale attenzione. Le città tutte di lei erano in continuo fermento per conservarsi una tumultuosa libertà. Il successore di Lottario II, Corrado III, era un inutile re d’Italia. Milano, ch’era stata la prima a pensare all’indipendenza, ora aspirava alle conquiste. Coll’avere soggiogate le circonvicine città di Como e di Lodi aveva turbato l’equilibrio delle forze. Erano gelose le repubbliche lombarde della loro libertà. Nessuna si credeva sicura che coll’atterrare le altre. Ognuna avea la sua Cartagine. Una repubblica fede­rativa le avrebbe rese terribili.

I Lodigiani soggiogati da’ Milanesi ricorsero all’imperatore. Era Federico I succe­duto a Corrado. Non lasciarono le apparenze della estrema desolazione nel farlo venire in Italia. I legati di quella città gli si presentarono con una gran croce di legno in spalla, in forma da penitenti più che da ambasciatori. Per quanto fossero state infelici, per lo più, le spedizioni degli imperatori in questa provincia, non mai si cessò di farne. Codesto Regno era divenuto per essi un impero. Poco vi comandavano, nè vi facevano risovenire di esserne principi che col venirvi, guerreggiarvi, partire cogli avanzi delle loro sconfitte.

Federigo venne a Roma per ricevere da Adriano IV la corona imperiale. Il papa andò ad incontrarlo. Egli si aspettava che nello smontare da cavallo l’imperatore gli tenesse la staffa secondo il solito cerimoniale. Non lo volle Federigo. La disputa era importante, perchè lo era tutto ciò che nella opinione degli uomini rendesse gl’impe­ratori sudditi de’ papi. Federico cedette. Non gli conveniva far nemico chi lo doveva incoronare.

In Roma venne in questi tempi l’idea di ristabilire l’antica forma della repubblica. Non era strano che ivi si pensasse alla libertà. Ve n’erano troppi esempi. Era bensì ridicolo il volere far ritornare i tempi de’ Bruti e de’ Catoni. Formossi in Campidoglio sediziosamente un senato, e si cominciarono a contare gli anni di questa restaurazione. Si scelse anche un patrizio. Il papa Lucio II, a’ tempi di cui avea cominciato questo progetto, assediò il Campidoglio e fu respinto colle sassate.[522]

Dopo di lui fu papa Eugenio III frate dell’ordine di S. Bernardo. Egli non era atto a regnare in tempi così pericolosi. S. Bernardo quando intese la sua elezione scrisse a’ vescovi ed a’ cardinali: «Dio ve lo perdoni, che avete fatto? Come vi venne in capo di scegliere un uomo rustico, di fargli cadere di mano la scure e la zappa per strascinarlo al palazzo, elevarlo alla sede, vestirlo di porpora? Non è egli ridicolo il prendere un uomiciolo coperto di cenci per metterlo al dissopra de’ principi, per farlo comandare a’ vescovi, disporre de’ regni e degl’imperi?».[523] Scrisse un’opera per instruzione di questo papa la quale intitolò Le Considerazioni. Ella è scritta con uno stile da cui si ricava che S. Bernardo aveva presente di esser stato suo superiore. Lo rimprovera in un luogo perchè dasse troppe esenzioni: «Si sottraggono gli abati dai vescovi, gli vescovi dagli arcivescovi, gli arcivescovi da’ primati. Voi mostrate in tal guisa che avete la pienezza di podestà, ma forse a spese della giustizia. Non è egli indecente di prender la vostra volontà per legge, e di negligentar la ragione per non esercitare che la vostra potenza? E tanto da uomo vile che potente il non seguitare che i suoi caprici. Questo è vivere da bestia». Altrove dice: «Se voi volete talvolta abbassarvi dal vostro grado e rendervi più socievole, mi si dice che non sapete conservare il vostro rango, nè sostenere la sua maestà. Noi non vediamo che S. Pietro sia mai comparso in pubblico ornato di oro e di gemme, vestito di seta, montato su di un cavallo bianco, circondato da soldati e da ufficiali, marciando con tanti strepiti».

  1. Bernardo alla fine della stessa opera così dipinge i Romani: «Tutto il mondo conosce il fasto e l’insolenza de’ Romani. Nazione avvezza ai tumulti, crudele, intrattabile, che non si sottomette, che non può più resistere. Sono esperti nel far il male, e non sanno fare il bene. Odiosi al Cielo ed alla terra, empi verso di Dio, sediziosi fra di loro, gelosi de’ vicini, inumani co’ forestieri. Non amano alcuno, ed alcuno non li ama. Volendo farsi temere da tutti, temono tutti. Non possono esser governati, e non sanno governarsi. Infedeli a’ lor superiori. Insopportabili a’ loro inferiori. Impudenti nel domandare e nel ricusare. Importuni ed inquieti, sino a che hanno ottenuto, poi ingrati. Parlano magnificamente e poco eseguiscono. Promettono liberamente e non mantengono che il meno che possono: adulatori, maldicenti, dissimulatori, traditori». Troviamo che in quanto all’orgoglio de’ Romani corrispondono i fatti. In ciò solo si mostravano simili agli antichi. Mandarono un’ambasciata all’imperatore, che veniva a Roma, nella quale gli offrivano dalla parte del popolo e Senato la imperial corona, con patto che li liberasse dal giogo de’ preti, e che ristabilisse in Roma l’antico splendor del senato e del ceto de’ cavalieri. «Noi», dissero gli ambasciatori,[524] «vi abbiamo fatto nostro cittadino da straniero ch’eravate, onde dovete prometterci di conservare le nostre leggi, di dare a’ nostri ufficiali, che vi riceveranno in Campidoglio, la somma di cinquemila lire d’argento, e di difenderci da ogni insulto sino alla effu­sione del sangue vostro. Tutto ciò voi dovete giurarci». Federigo rispose a questa ambasciata come un gran principe risponde ai ridicoli legati d’un popolo superbo e buffone.

«Molte cose ho io ascoltate della sapienza e fortezza de’ Romani, ma più della loro sapienza. Per lo che io non saprei bastevolmente ammirare che le vostre parole sieno tanto piene di arroganza, e tanto vote di sapienza». Così cominciò la risposta.

Arnaldo da Brescia, che errava in Francia, in Germania ed in Italia predicando contro il lusso e la scostumatezza degli ecclesiastici, avea eccitati i Romani a questa sedizione. La sua dottrina era massimamente che gli ecclesiastici non potevano posse­dere beni, ma che doveano vivere di elemosina. Finì le sue predicazioni coll’essere appiccato.[525] Fra poco furono estinti in Roma i tumulti.

Non fu grato a Federigo il vedere una pittura nel Palazzo Lateranese, che rappresentava Lottario a’ piedi del papa con questa iscrizione: «Rex venit ante fores iurans prius urbis honores, post homo fit papa, sumitque dante coronam». In barbaro latino si faceva chiaramente l’imperatore vassallo del papa. Federigo avea ben altre idee della sua dignità. Egli pensava di essere successore di Ottaviano Augusto, e che però lo fosse ancora di tutti i suoi stati. Onde volle rivendicare all’impero tutte le sue perdite. Scrisse perciò a Saladino, che avea occupata la Siria, una lettera piena di minacce,[526] nella quale gli fa sapere che l’Etiopia, la Mauritalia, la Siria, la Parzia ove Marco Crasso suo dittatore morì, e la Giudea e la Samaria, e l’Arabia, e la Caldea, e l’Egitto e l’Armenia erano tutte provincie sue. Saladino rispose con sommo disprezzo a queste pretensioni. Federigo amirando la grandezza romana fece dei re onorari. Così dichiarò re i duchi di Danimarca, d’Austria, di Boemia.

Il regno di Sicilia era involto ne’ soliti tumulti per le investiture. Quest’era dive­nuto un disordine di sistema. Ogni nuova successione produceva una guerra. Gulielmo I, figlio di Ruggero, era succeduto nel governo a suo padre senza farsi investire dal papa. Ebbe quel principe a sostenere de’ grandi assalti. Mentre che tutto il suo regno era in tumulto, che si erano ribellati i baroni ed i feudatari, che il papa faceali guerra e fomentava le intestine sollevazioni, che l’imperator d’Oriente Emanuele Comneno pretendeva gli antichi suoi Stati, che l’imperator Federico gli movea contro i Pisani, Gulielmo lasciava la somma delle cose al suo ministro Maione, il quale rendeva dispregevole ed odioso il suo governo. Le prigioni erano piene di ribelli: le stragi gl’irritavano più che non li distruggevano. I sediziosi vollero coronare Ruggero figlio di Gulielmo. Il padre istesso con un calcio nello stomaco lo uccise. Gulielmo ebbe per sopranome il malo. Ciò spiega bastevolmente la natura del suo governo. La pace fatta col papa e co’ Greci non tolse i torbidi da quel regno. Finchè Gulielmo regnò vi durarono sempre le sedizioni.

Federico, chiamato in Italia come protettore degli oppressi, vi dimorò come distruggitore. Tortona, Spoleti, Crema furono diroccate. Si gettarono a terra le mura e le torri di varie città, acciochè fossero smantellate. L’imperatore fece la guerra a Milano coi metodi forensi. Era lo spirito del secolo. Prima di cominciare l’assedio, furono citati i Milanesi a comparire avanti di lui. Milano mandò i suoi avvocati, che fecero le loro grandi arringhe con citazioni di leggi romane. Finalmente l’imperatore unì un consiglio di dottori, i quali passarono alla definitiva sentenza, e proferirono contro de’ Milanesi il bando dell’imperio. Congiuravano contro di Milano l’imperatore, quasi tutte le altre città della Lombardia, e la peste. Ceder dovette a Federigo. I Lodigiani, i Pavesi ed i Comaschi comprarono dall’imperatore il diritto di diroccare questa terribile nemica. Così avvenne. Sortirono i Milanesi dalla lor patria, che fu tutta diroccata. Cinque anni dopo cominciò a risorgere. Si disse[527] che sulle sue rovine fosse seminato del sale per rendere sterile il suolo. Volgare credenza da riporsi assieme dell’aceto con cui Annibaie minò le Alpi.

Tenne l’imperatore, come solevasi, la dieta del Regno italico nelle pianure di Roncaglia vicino a Piacenza. Ivi gl’imperatori riconoscevano i loro vassalli e ricevevano l’omaggio. Chi mancava perdeva il feudo. L’estremo rigore delle leggi prova la debolezza del legislatore. Se gl’imperatori avessero daddovero comandato in Italia non sarebbero stati cotanto gelosi della ubbidienza de’ loro vassalli. Furono chiamati in quella dieta quattro de’ primi lettori di giurisprudenza in Bologna: Bulgaro, Mar­tino, Jacopo ed Ugone. I dottori erano gli aruspici del secolo. Non si faceva nulla d’importante senza di essi. Federigo volle che decidessero di chi fosse la proprietà delle regalie, de’ ducati, de’ marchesati, delle contee, de’ consolati, delle zecche, de’ dazi, delle gabelle, de’ porti, de’ mulini, delle pescaggioni. Decisero i dottori che tutto era dell’imperatore. Egli era venuto in Italia per farvi risorgere gli antichi diritti dell’impero. Alla testa di un esercito cercava il parere de’ giurisconsulti. Profittò Federigo della loro sentenza più che potè. Altro non mancava alla sua esecuzione che più fortuna in lui, meno amor della libertà negl’Italiani. L’imperatore cercava l’adu­lazione. Era troppo potente per non ritrovarla. Propose nella stessa dieta ai dottori la questione, s’egli giuridicamente fosse padrone del mondo. Martino e Bulgaro furono scelti a deciderla. Fu eguale il coraggio della dimanda a quello della risposta. Bulgaro sentenziò che non n’era padrone quanto alla proprietà. Gli concedeva però tacita­mente con tal sentenza l’usufrutto. Martino fu più generoso; decise gravemente esser Federigo senza dubbio signore di tutto il mondo. L’imperatore regalò, a chi gli donava il mondo, il suo palafreno.[528]

Questa divenne poi in seguito la dottrina di vari dottori, ch’erano del partito imperiale. Bartolo fu uno de’ più caldi suoi difensori. Sostenne[529] ch’era eretico chi negava esser l’imperatore signor del mondo tutto. E perchè Baldo suo scolaro soste­neva che il semplice silenzio di una congiura fatta contro il principe non è un delitto di lesa maestà, nè da punirsi colle sue pene, viene da Bartolo condannato all’inferno con tutti gli altri suoi seguaci. Que’ dottori, poichè erano contrari alla imperial potenza, e ch’erano del partito de’ papi, sostennevano che i papi erano essi i padroni di tutto il mondo. Queste sono di quelle dispute nelle quali non si può dire che una delle parti abbia torto.

Morto Adriano IV, Federigo, seguendo gli esempi degli Ottoni, volle fare un papa. Il Cardinal Rolando, che si disse Alessandro III, non da lui scelto, fuggì da Roma vestito da pellegrino. Fu sempre errante in mezzo ai torbidi. L’imperatore vi contrapose i suoi antipapi, Ottaviano cardinale di S. Cecilia, che fu detto Vittore IV; poi Guido da Crema, detto Pasquale III, poi Giovanni Ungaro vescovo d’Albona, detto Calisto III.

Fu curiosa l’elezione del cardinale di S. Cecilia. Egli si trovava presente alla ele­zione di Alessandro III. Vollea ad ogni costo esser papa. Appena si fece la comune in favore di Alessandro III, e che lo vestivano della cappa di scarlato secondo il costume, il cardinale, vedendo perdute le sue speranze, corse a strappare la cappa d’indosso al nuovo papa, e stava per ricoprirsene egli stesso, se un senatore ch’era presente non glielo avesse impedito. Allora il cardinale si rivolse furiosamente verso di un suo capellano gridando che gli dasse la cappa rossa che avea seco portata, tant’era deciso di voler esser papa. Con somma fretta se la pose sulle spalle, e per il grande affanno di vestirsene, non trovando il capuccio, se la mise al rovescio, lo che mosse le risate. Fu perciò chiamato da’ suoi avversari: papa scelto al rovescio, e papa Smantacompagno.

Si portò l’affare in un concilio, convocato a Pavia dall’imperatore. Si decise in favore del cardinale. Federigo stette a questa decisione. Alessandro non volle venire al concilio, scomunicò il papa e l’imperatore ed assolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà. Proibì inoltre a Federigo dalla parte di Dio: «di avere alcuna forza nelle battaglie, e pace o riposo in nessuna parte del mondo, finchè non facesse degni frutti di penitenza».[530] Fu appunto quando il papa assediato da Federigo dovette fuggir da Roma, che gli fece tal proibizione.

La ferocia con cui Federigo era venuto più volte in Italia avea inaspriti gli animi. Volea con mano pesante distruggere in un momento lo spirito d’indipendenza a cui erano già avvezzi gli Italiani. Nati nella libertà fondata col sangue de’ lor padri, era ad essi intollerabile l’imperial dispotismo. Federigo pieno del progetto di rinnovare in tutto il suo rigore i diritti dell’impero, non ne vedeva i pericoli. Finì male le sue imprese per troppo disprezzare i nemici. Le città della Lombardia, della marca di Verona, Romagna, Venezia, ed Emanuele imperator d’Oriente formarono contro di lui la lega chiamata Lombarda. Federico fuggì travestito in Germania due volte. L’Italia non era più luogo sicuro per lui. Sconfitto finalmente dalla Lega Lombarda dovette rinunziare nella Pace di Costanza al progetto di toglier la libertà alle italiane repubbliche. Chi avesse veduto il solo giuramento con cui si univa la Lega avrebbe preveduto tal fine. Egli era concepito colle formole del maggior odio. Chi si arrolava, finiva il giuramento col dire: «Filios meos, qui sunt in aetate quattuordecim annorum faciam iurare omnia praedicta et attendere». I consoli della città giuravano: «Et ego consul bona fide distringam homines meae civitatis a quindecim annis sursum et a sexaginta annis deorsum hoc sacramentum facere, et ei qui hoc sacramentum facere noluerit, domos suas destruam, et possessiones devastabo bona fide et sine fraude».[531]

Federico, dopo di avere tentato in vano la conquista d’Italia, diresse l’inquieta sua attività contro de’ Saraceni. La Francia, l’Inghilterra, la Germania e l’Italia ricadevano su di essi. Queste emigrazioni cominciate per entusiasmo si proseguirono per ambizione. Cessavano le guerre in Europa per portarle in Oriente. I Saraceni risguardarono queste incursioni come gli Europei quelle de’ Settentrionali. La licenza, la barbarie, le crudeltà pareggiavanle. Passò l’esercito imperiale presso di Costantinopoli. L’im­peratore Isacco Angelo licenziò più presto che gli fu possibile questi ospiti pericolosi. Morì Federigo bagnandosi nelle acque del fiume Salef in Armenia.

Venne in seguito a questa spedizione una ancor più strepitosa, della quale Venezia fu il ridotto. I Veneziani fornirono le navi per il trasporto di questa immensa moltitudine. Non essendovi bastevole denaro per pagarli, fu stabilito che si assediasse Zara città della Schiavonia. Essa era stata tolta dal re d’Ungheria a’ Veneziani. Ciò che rese strano il progetto fu ch’esso re d’Ungheria era anch’egli nel numero di questi crocesignati. Fu eseguita la proposizione ciò non ostante. Quella cristiana città di un socio fu saccheggiata per fornire il trasporto della flotta contro i Saraceni. Il papa Innocen­zo III scomunicò la crociata[532] se non consegnava tutta la preda al re d’Ungheria, e se non lasciava di più oltre diroccare Zara. Ben altro scopo ebbero i crociati, che di vendicare i diritti del Cielo. Essi presero la croce per conquistare l’impero d’Oriente. Saccheggiarono Costantinopoli, ove elessero imperatore Baldovino conte di Fiandra, poi si divisero fra di loro la conquista.[533] Nel saccheggio di Costantinopoli rivolsero la rapina alle reliquie de’ santi che ivi abbondavano. Portarono di là molte ampolle del sangue di Gesù Cristo, i suoi capelli, i panni ne’ quali fu involto da bambino, la sua veste di porpora, le teste di S. Giorgio, di S. Giovanni Battista, di S. Cristoforo, ed uno sterminato numero di gambe, braccia e teste di santi, che sparsero per tutto l’Occidente.

Il papa Innocenzo, poichè intese che la crociata si rivolgea verso Costantinopoli, «Nessuno di voi», le scrisse,[534] «si creda permesso di usurparsi e di saccheggiare la terra de’ Greci, sotto pretesto ch’ella non è ubbidiente alla Santa Sede. Noi vi comandiamo seriamente di non ingannarvi e di non lasciarvi ingannare su quest’articolo, in fare, sotto l’apparenza della religione, ciò che si rivolgerebbe nella dannazione delle anime vostre. Senza fermarvi passate in Terra Santa, altrimenti noi non possiamo promettervi il perdono». Trovò lodevoli dopo il fatto le loro imprese, e meritarono appo lui perdono i saccheggi di Zara, le stragi di Costantinopoli, perchè ivi fu scelto un patriarca ed un imperatore latino. Gli era utile l’umiliazione della Chiesa greca. Rispose a Balduino, il quale gli diede la nuova della conquista, che: ricevendo la sua lettera si era rallegrato delle meraviglie che Dio aveva operate per la sua gloria e per l’utilità della Santa Sede.[535] Dopo cinquantasette anni finì quest’impero de’ crociati in Costantinopoli. L’ultimo imperatore fu un altro Baldovino. Michele Paleogolo riprese poi la serie de’ greci imperatori.

Qual non era questo entusiasmo d’una mal diretta pietà? Circa settemila persone, uomini, donne, fanciulli e fanciulle tutt’insieme, condotti da un ragazzo chiamato Nicolò partirono dalla Germania per andare in Oriente. Arrivarono a caso in Genova, dove si stupirono di ritrovare il mare Mediterraneo, onde si disciolse quella crociata.

Altri trentamila fanciulli, venuti sino a Marsiglia per lo stesso spirito di conquista, perirono quasi tutti, chi uccisi dagli assassini, chi affogati in mare, chi venduti ai Saraceni. Si narra che Innocenzo III a questa nova dicesse: «Questi fanciulli rimproverano di star neghitori intanto ch’essi corrono alla difesa di Terra Santa». Di fatti pubblicò tosto una nuova crociata, che non ebbe effetto vivente lui. Sembra che tutt’altra conseguenza si dovesse cavare da quelle aventure.

Queste frequenti emigrazioni in Oriente ci portarono la lepra ed il fuoco sacro, mali che divennero comunissimi. V’erano perciò molti ospitali destinati a quest’infermi. V’erano altresì sparsi de per tutto degli ospitali per i pellegrini. Si trovavano pochissime osterie in questi secoli. Tale era anche l’uso degli antichi Romani. Ciascuno viaggiando alloggiava nelle case de’ suoi amici. E perchè bastava anche solo qualche conoscenza per essere ammessi, e che altronde non si sarebbero potute riconoscere le fisonomie de’ molti ospiti, davano loro certe tavolette che presentavano per essere riconosciuti. Si chiamavano tesserae ospitalitatis. Le leggi franche e longobarde obbli­gavano a dar ricovero, acqua, fuoco e letto a qualunque viaggiatore.

CAPO XIX. Incoronazione di Enrico VI. Contese d’Innocenzo III con Filippo re di Francia e suo figlio Luigi, e con Giovanni re d’Inghilterra. Imprese di Enrico sul Regno di Napoli. Suo figlio Federigo II e l’imperatore Ottone IV se lo disputano. Aspre contese fra Gregorio IX, Innocenzo IV e gli imperatori Federigo e suo figlio Corrado. Delle fazioni guelfa e gibellina.

Era imperatore Arrigo VI figlio di Federigo. Celestino III pontefice gli diede la corona. Fu nuovo il cerimoniale che si usò in tale occasione. Il papa la tenne fra’ suoi piedi, e con un calcio la gittò a qualche distanza.[536] Volle significare che egli avea la podestà di deporre l’imperatore.

Le massime di Gregorio VII erano così stabilite, che andavano per successione dall’uno all’altro papa. Innocenzo III, successore di Celestino, pose all’interdetto la Francia, perchè il re Filippo si era separato dalla regina Ingheburga per isposare Agnese di Merania. Filippo si sottopose al papa e lasciò la concubina. Lo stesso Innocenzo scomunicò Giovanni re d’Inghilterra nelle formole più terribili, assolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, lo depose, e donò il suo regno a Filippo re di Francia ed a’ suoi successori in perpetuo. Comandò allo stesso re di Francia che in remissione de’ suoi peccati s’incaricasse di tal conquista; pubblicò la crociata contro di Giovanni e dichiarò nella sentenza di deposizione che chiunque contribuisse alla distruzione di quel principe ribelle della Santa Sede avrebbe da lei la medesima protezione concessa a coloro che visitano il Santo Sepolcro.[537] Perchè tanta guerra? Perchè il re Giovanni non voleva accettare un arcivescovo di Cantorbery novamente creato dal papa. Pretendeva il re che un arcivescovo di una sua città fosse una persona a lui benvisa. Il papa trovava irragionevole questa pretensione. Qual non era il potere di un interdetto papale? Il re d’Inghilterra era già risguardato con abominazione come scomunicato. Dovette rimettere il suo regno al papa, dichiarò che non lo avrebbe in appresso amministrato che come suo vassallo, ed aggiunse al solito tributo di S. Pietro mille marchi di sterline. Innocenzo quando vide il buon esito del suo coraggio scrisse al re: «Chi vi ha indotto a tal risoluzione se non se quello spirito divino che soffia dove vuole? Voi ora possedete il regno in una maniera più sublime, poichè è divenuto un regno sacerdotale».[538] Innocenzo non sapeva che quel principe aveva nello stesso tempo spedita un’ambasciata al re di Marocco esibendogli un annuo tributo e di farsi mao­mettano se volesse prender l’armi in sua difesa. Il re di Marocco trovò molto vile questa proposizione e la rimandò con sommo disprezzo.[539]

Il re di Francia avea fatti tutt’i preparativi per la conquista d’Inghilterra. Era sulle mosse. Si lagnò dell’accomodamento, e ritornò alla sua corte. I baroni inglesi chiamarono in seguito a tale impresa il principe Luigi figlio di esso re di Francia. Vi andò, ed intanto che conquistava quel regno, faceva arringare la sua causa dagli ambasciatori in Roma presso del papa, il quale ritrovava strano ed ingiusto che il figlio di quello a cui ed a’ discendenti del quale avea donata l’Inghilterra ora se ne impadronisse. Ma colla cessione di Giovanni quel regno era devoluto alla Santa Sede. Tali erano i princìpi che regolavano l’Europa in tai secoli.

Innocenzo scomunicò sollennemente in Perugia il principe Luigi. Cominciava la fatal sentenza colle parole di Ezechiele: «Spada, spada, esci dal fodero, ed aguzzati per ammazzare».

Qual principe poteva più in Europa di chi con una bolla la metteva tutta in armi, con una crociata la faceva andar in Oriente, con un interdetto rovinava un re, di chi gli avea resa la potenza tributaria e tremante in faccia delle scomuniche? Innocenzo coronò re d’Ongheria Gioannice, re di Boemia Princislao, re d’Arragona Pietro II. Questi erano tutti segni di vassallaggio. Quasi tutta l’Europa era tributaria della Santa Sede. Tal era la grandezza d’Innocenzo. In tanto ei non poteva risiedere in Roma che di rado; quella città era piena di fazioni contro de’ papi, ch’erano costretti ad errare dall’uno all’altro luogo. Pur troviamo[540] che Pietro, prefetto imperiale in Roma, diede ad Innocenzo il giuramento di fedeltà e di vassallaggio, ed ebbe dal papa istesso investitura di quella carica. Questa fu la prima volta che ciò accadesse. Gl’imperatori fin ora l’aveano conferita; a loro si prestava il giuramento. In tal guisa finì in Roma la prefettura imperiale. Ciò accadde l’anno 1198. Sembrano contraddizioni. Osserviamo la incertezza dei ragionamenti in queste materie. Erasi introdotto che i papi si consa­grassero senza l’assenso dell’imperatore; eppure v’era tuttavia un prefetto imperiale in Roma istessa. Questa carica può provare la dipendenza de’ papi, i quali benchè fossero indipendenti quanto all’elezione, non lo fossero poi quanto al governo; ed all’opposto la libera scelta del papa senza intervento dell’imperial consenso è un tal segno d’indipendenza che può provare la inattività di questa carica, la quale si ridu­cesse ad un semplice titolo d’onore. Qual delle due conghietture è più verisimile? Credo che sia un indisolubile problema il fissare precisamente il tempo in cui i papi avessero la sovranità di Roma. I tumulti di quella città, la emulazione de’ papi e degl’imperatori rendevano incostantissimo qual ne fosse il padrone.

Lutgarda, religiosa cisterciense, diceva che il papa Innocenzo gli era dopo morte comparso fra le fiamme del purgatorio, e che le avea detto ch’egli era così tormentato per tre ragioni. Tomaso di Cantiprè asserisce che queste tre ragioni egli le avea sapute da Lutgarda istessa, ma che le tace per rispetto alla memoria del papa. Devesi aver curiosità di saperle? Non so se le visioni delle religiose illuminino di molto la storia.

Innocenzo aggiunse una nuova e considerabil provincia al regno pontificale. Questo fu il tribunale della Inquisizione. V’erano molte eresie, come degli arnaldisti, leonisti, insabbiatati, valdesi, speronisti, pubblicani, circoncisi, gazari, patarini. Gli albigesi erano in maggior numero e potenza; così chiamati da Albi loro capitale. Eglino aveano la protezione del conte di Tolosa. S. Domenico e S. Francesco d’Assisi furono destinati da Innocenzo contra di quegli eretici. S. Domenico, fatto inquisitor generale coll’aiuto del conte di Monforte, fece grande strage di loro. Essendosi ritrovato questo metodo efficace contro le eresie, fu dato a’ frati di quegli ordini il tribunale della Inquisizione.

Il Regno di Puglia era divenuto il soggetto più grande della nostra storia, se gran soggetto sono gl’illustri macelli. Colla morte di Guliemo II, successore di Gulielmo il Malo, si era estinta la legittima linea maschile dei re normanni. Concorrevano a questo Regno l’imperatore Arrigo VI e Tancredi conte di Lecce. Arrigo allegava in suo favore la sua parentela col defunto re, perchè avea in moglie Costanza di lui zia. Tancredi era discendente bastardo della stirpe di que’ principi normanni. Ei fu proclamato re in Sicilia. Arrigo venne in Italia a vendicare i suoi diritti. Pugnò inutilmente. Ritornò in Germania.

Alla morte di Tancredi, Arrigo rimise in campo le sue pretensioni. Guglielmo III gli era succeduto. Arrigo, collegatosi colle due potenti repubbliche di Genova e Pisa, le quali non isdegnavano di fare il corsaro nel mare Mediterraneo, occupò la Calabria, la Puglia ed il Ducato di Napoli. Salerno fu saccheggiata e desolata in questa spedi­zione. Si dispersero i suoi abitatori. Più non riebbe quella città il suo splendore. Altra ricompensa non ottenne Genova di essere stata aleata di Arrigo in queste imprese, che la minaccia di distruggerla. Pisa non fu meglio rimunerata. L’imperatore guerreggiò in Italia come in un paese dove volea compensare la difficoltà di conservare le conqui­ste col cavarne in poco tempo tutt’i vantaggi. Altro non si curò che di saccheggiare. Ritornò in Germania col prigioniero Gulielmo, carico delle spoglie di un regno deva­stato. Si rese insigne colle sue crudeltà. Fece appiccare, abbrucciare, suppliziare orribilmente molti di que’ conti e baroni che gli erano sospetti, non perdonandola a’ fanciulli. Fece accecare e castrare Gulielmo istesso, che gli si era renduto prigioniero sulla di lui fede. Gli avea promesso, se rinunciava al regno, di farlo principe di Taranto. Pure morì in carcere. Fece disotterrare i cadaveri di Tancredi e d’un suo figlio Rug­gero, e fece torre ad entrambi le corone colle quali erano sepolti. Il progetto di Arrigo non era meno che la distruzione di tutt’i Normanni di quel regno. Vi ritornò dippoi per rinnovare gli orrori, e morì in Palermo.[541]

Arrigo lasciò erede di questo regno suo figlio Federico II. Egli era ancor fanciullo. Il papa Innocenzo gli fece da tutore.

Il duca di Sassonia col nome di Ottone IV era imperatore. Egli avea disputato dell’imperio col fratello di Arrigo, Filippo duca di Svevia. Ora, morto tal competitore, non si vedeva in faccia altro emulo che un debole pupillo. Ottone incoronato in Roma imperatore confermò tutt’i privilegi della Chiesa, e promise con giuramento di non invadere il Regno di Sicilia. A capo di un grosso esercito, trattò col papa Innocenzo come se fosse debolissimo. Dissimulò, lusingò, promise per ingannare. Adempì le sue promesse col impadronirsi tosto della Calabria e della Puglia senza rendere alcun omaggio al papa, o cercare da lui investitura. Ottone ritrovò nel papa un uomo più scaltro di lui. Non meritava Innocenzo quest’atto d’inimicizia, dappoichè l’avea soste­nuto con tutto il calore nelle sue guerre contro dell’emulo Filippo. Scomunicò Ottone, lo dichiarò decaduto dall’imperio. Nè si fermò a’ flagelli spirituali. Si condusse così destramente con maneggi temporali, che, sospese le questioni con Filippo re di Fran­cia, fece lega con lui, e mise sul trono imperiale il suo pupillo Federigo istesso. Non mai si vide una più gran sorpresa, nè meglio congegnata. In tanto che l’imperatore tenta di farsi inutilmente re di Sicilia, il re di Sicilia è daddovero fatto imperatore. Ottone lo chiamava perciò il re de’ preti. Non è lo stesso vincere, che maneggiare. Ebbe l’ultimo crollo la fortuna di Ottone alla famosa sconfitta di Ponte Bovino presso Tournai, che gli diede il re di Francia. Così in Federigo II si unirono i Regni di Germania e di Sicilia, il qual ultimo da’ Normanni ora si trasferì nella casa di Svevia. Da que’ duchi discendeva Federigo. Egli ebbe dal papa Onorio III, successor d’Inno­cenzo, la corona di Occidente. Tre anni prima Pietro, conte di Auxeme, ebbe dallo stesso papa quella d’Oriente. Per quanto soggetta a torbidi, e più nella opinione che nella forza consistesse la potenza del seggio, era ben grande di dare la corona dell’uno e dell’altro impero, e d’esser divenuta la direttrice de’ grandi avvanimenti d’Europa.

Finchè Federigo fu pupillo non fu temuto. Ma il papa Onorio divenne geloso di quella grandezza alla quale l’avea alzato il suo antecessore Innocenzo. Era troppo grande un principe che univa l’impero ed il regno di Napoli.

Le città dalla Lombardia aveano ridotto Federico I a patteggiare con esse. Nulla di più onorevole pel loro coraggio quanto la pace di Costanza. Rinnovarono contro Federigo II la già disciolta Lega. Il papa la fomentò. Ei mosse ancora le città della Toscana ad unirsi per sostennere la loro libertà. Leghe momentanee congiunte dal timore, e tosto dal sospetto e dalla inquietudine disciolte. In tanto il papa sollecitava l’imperatore perchè andasse in Terra Santa. Spedizione che teneva Federigo lontano d’Italia, che accresceva l’avvilimento della Chiesa greca, perciò utilissima. Venne Federigo in Italia dove combattè colle scomuniche che fece fulminare contro de’ Lombardi dal vescovo d’Ildesseim, il quale pareva stipendiato per maledirli.

Nulla si tralasciava per indurre l’imperatore a prender la croce. Vi si era obbligato anche sotto pena della scomunica. Ma ei vedeva ormai esser la Terra Santa un vasto abisso in cui periva l’Europa. La crociata di Andrea re d’Ongheria, de’ Pisani, de’ Genovesi, de’ Veneziani, e di altri molti degli Italiani gliene offriva un fresco esempio. Quell’esercito condotto all’assedio di Damiata da Pelagio Cardinal legato, poco mancò che non fosse tutto affogato nel Nilo. Meledino, soldano di Egitto, più volte avea fatte proposizioni di pace. Il legato, quantunque tutta l’armata lo desiderasse, ruppe ogni trattato e volle guerra. Meledino lasciò inoltrare l’armata, poi aperse varie bocche del Nilo che la riposero in mezzo di un lago, e del fango sino alle ginocchia, dove affamata e vicina ad esser sommersa chiese finalmente pace. Saladino gliela accordò a non duri patti.

Il papa Innocenzo era morto mentre che stava dettando una terribilissima bolla contro del principe Luigi, il quale non lasciava di seguitare, in virtù della pontificia donazione, le sue conquiste sul Regno d’Inghilterra. Il papa Onorio III, dopo di lui, scrisse allo stesso principe molte lettere, perchè desistesse da tale impresa. In una fra le altre il papa gli disse:[542] «Sembra che le nostre preghiere non abbiano servito che a sollevarvi contro della Chiesa vostra Madre, come se fosse impossibile che voi stesso un giorno doveste venire avanti di lei supplichevole. Voi non dovete avervi a male che la Santa Sede, usando della pienezza di sua podestà da Dio compartitale, voglia impedirvi di mover le armi contro del re inglese. È stato detto da Geremia, che non era poi che prete, “Io ti ho stabilito sui popoli e sui regni per estirpare, distruggere, edificare, piantare”; dal che apparisce che appartiene al papa, come riposto nel primo rango del sacerdozio, di estirpare tutt’i peccati mortali, lo che non si può fare senza reprimere talvolta i ribelli. Or dunque, siccome voi manifestamente peccate contro del re d’Inghilterra, in qual modo possiamo noi, noi a’ quali spetta la correzion di tutt’i peccati, in coscienza chiudere le orecchie alle doglianze di quel re?».

Non meno strane furono le controversie con Federigo. La di lui tardanza ad andare contro de’ Saraceni parve ancor più colpevole al papa Gregorio IX, che non lo era stata ad Onorio suo antecessore. Lo scomunicò e riscomunicò. Federico giaceva amalato in Otranto. Questa era la cagione di sua tardanza. Gregorio non lo volea credere. Scomunicollo per la terza volta, e scrisse ai vescovi della Puglia: «che avea sfoderata contro dell’imperatore la spada micidiale di S. Pietro, pubblicando con ispirito di mansuetudine la sentenza di scomunica».[543]

Appena l’imperatore si pose in istrada per andare a Terra Santa, che il papa gli spedì legati per intimarli di desistere da tale impresa. La guerra era dichiarata, queste contraddizioni lo dimostravano. Il papa volea che Federigo prima di porsi in viaggio si facesse assolvere dalle scomuniche.

In tanto che l’imperatore era in Oriente, il papa mandò Giovanni da Brenna, che avea il titolo di re di Gerusalemme, e suocero dell’imperatore istesso, a saccheggiare gli Stati della Puglia e della Calabria; mosse a sedizione contro di lui la Germania, ed il di lui figlio Arrigo.[544] Spedì frati in ogni parte a portar lettere per sollevare i principi d’Italia, ed in Oriente perchè Federigo fosse risguardato come scomunicato. Questo clandestino carteggio ebbe il suo effetto. I cavalieri Ospitalieri e Templiari non vollero ubbidire all’imperatore; lo colmarono d’ingiurie e gli bisognò consentire che la cro­ciata non fosse fatta in nome suo, ma in quello di Dio e della cristiana repubblica. I francescani ed i monaci di Monte Cassino, divenuti corrieri della Santa Sede, furono banditi dall’imperatore.[545] Questi torbidi fecero conchiuder pace a Federigo col sul­tano Meledino. In essa fu stabilito che si rilasciasse ad esso Federigo la città di Gerusalemme. Lungi che fosse approvata questa convenzione, il patriarca di Gerusa­lemme pose all’interdetto quella città; ed i cavalieri Ospitalieri ed i Templiari scrissero al soldano che se voleva ammazzare l’imperatore egli era a tempo, perchè sapevano che sarebbe venuto al Giordano per sua divozione, a piedi ignudi, senza soldati. Il soldano trovò molto perfida questa proposizione. Mandò all’imperatore istesso la lettera degli Ospitalieri e Templiari.[546] Si era fatta la crociata per conquistar Gerusa­lemme. Ma tutto ciò che faceva Federigo era riprovabile. Egli era scomunicato. Il papa a tre scomuniche aggiunse la quarta: vi pose clausole più forti: «E perchè disprezzando le scomuniche non è venuto a sottomettersi agli ordini della Santa Sede, noi dichia­riamo i suoi sudditi assolti dal giuramento di fedeltà, perchè nessuno dev’esser fedele a colui che si oppone a Dio ed a’ suoi santi».[547]

Gregorio, intanto che così minacciava un gran principe, era fuggitivo da Roma, dalla quale lo aveano scacciato i sempre, non so s’io dica, inquieti o ribelli Romani, ed errava da Spoleto ad Anagni e da Anagni a Rieti. Gregorio, persuaso che Federigo fomentasse queste ribellioni, gli scrisse: «Egli è manifesto che Costantino, il di cui dominio si stendeva per tutto il mondo, col consenso del Senato e di tutt’i popoli del suo impero ha dati al papa gli ornamenti imperiali, la città ed il ducato di Roma, il quale voi volete ribellarci col danaro che vi spargete, e che lasciando l’Italia alla disposizione della Santa Sede si scelga in Grecia una nuova residenza. La Santa Sede in seguito ha trasferito l’imperio ai Germani nella persona di Carlo Magno, senza pregiudizio però della propria giurisdizione e della sua superiorità su degl’imperatori, ai quali la Chiesa porge la spada nell’atto della incoronazione. Onde voi siete convinto di derogare ai diritti della Santa Sede, alla vostra fede, al vostro onore, mal conoscendo colui che vi ha fatto ciò che siete».[548]

Venne in Italia l’imperatore per essere nuovamente scomunicato in S. Giovanni Laterano sollennemente da Gregorio; furono per la quinta volta assolti i sudditi dal giuramento di fedeltà, pubblicossi contro di lui la crociata, e fu dichiarato disprezzatore manifesto della religione. Le accuse d’empietà erano: che avesse detto esser il mondo stato ingannato da tre impostori, Gesù Cristo, Mosè e Maometto; essere da insensato il credere che il Creatore dell’universo sia nato da una vergine; e non doversi credere se non se ciò ch’è conforme alla ragione. Federico inviò al papa due vescovi: non gli volle ascoltare. Lodovico IX re di Francia gli spedì ambasciatori per calmare i suoi sdegni. Tutto invano. Intanto Federigo pugnò coi Lombardi e li sconfisse alla giornata di Cortenova. Rimase in quella prigioniero Pietro Tiepolo podestà di Milano. L’imperatore lo fece appiccare al carroccio istesso che avea preso a’ Lombardi. Con­quistò poi Benevento, città pontificia, e distrusse le sue mura. Gregorio vendicò questi danni coll’intimare un concilio generale in Roma. Ivi si preparavano nuove scomu­niche a Federigo. Perciò fece assalire dall’armata navale de’ Pisani suoi collegati la flotta genovese che portava a Roma i vescovi francesi ed inglesi, e fece prigioniero il futuro concilio.[549]

Fu un aspro soggetto di contese fra il papa e l’imperatore l’isola di Sardegna. Federico ne avea fatto re Enzio suo figlio bastardo. Il papa pretendeva esser quell’isola della Santa Sede, l’imperatore esser dell’imperio. Le scomuniche e l’accuse di empietà furono le armi colle quali Gregorio si difese. L’imperatore pubblicò un’apologia. Il papa pubblicò una risposta circolare a tutt’i principi ed al clero, che comincia: «La Bestia della Bestemia sorse dal mare piena di nomi, la quale inferocendo co’ piedi di orso e di leone, e formata ne’ suoi membri come un pardo, apre la sua bocca per bestemmiare contro il Signore ed il suo tabernacolo»,[550] facendo vedere come l’imperatore fosse la bestia dell’apocalisse mettendovi il rimanente della descrizione che ivi si ritrova. [551] Rispose Federigo collo stesso stile trattando il papa da gran dragone, che seduce l’universo, da anticristo, da Balaamo, da principe delle tenebre.[552] Non mai v’era stata una disputa così scandalosa. L’Europa tutta conosceva gli eccessi di Grego­rio. Nessuno si mosse per la crociata. Il papa esebì al re di Francia S. Lodovico IX l’imperio per il conte di Artois suo fratello. Rispose S. Lodovico: «Come ardisce il papa deporre un sì gran principe, senza che sia convinto de’ delitti che gli si accagio­nano? Quanto a questi non si deve credere a’ suoi nemici, fra’ quali il primo è il papa. Federigo è per noi innocente, egli è sempre stato nostro buon vicino. Che importa a’ Romani che noi spargiamo il nostro sangue per contentare le loro passioni? Se il papa, per mezzo nostro o d’altro principe, sottomette Federigo, ei diverrà maggiormente altero, e calpesterà tutt’i principi».[553] Si rivolse Gregorio a’ signori tedeschi perchè eleggessero un altro imperatore. Gli risposero ch’essi non aveano il diritto di deporre l’imperatore, ma soltanto di coronare quello che i principi aveano eletto.

La morte di Gregorio sospese le dissensioni. Egli era un uomo il di cui coraggio cresceva cogli ostacoli. Tale era stato il mezzo con cui i papi erano giunti a tanta grandezza. Alla ostinazione ne’ maggiori pericoli dovettero i Romani la loro potenza. Parea che i papi ne imitassero l’esempio. Il Senato romano che mette all’asta il campo di Annibale, mentre che assedia Roma pericolante, Gregorio senza eserciti, mal sicuro in ogni città, oscillante fra le ribellioni, che si avventa ad un gran monarca, sono avvenimenti che non sai de’ due qual più ammirare. Non vi fu principe di coraggio più ostinato, più inesorabil nemico, più feroce nella esecuzion de’ suoi progetti quanto Gregorio. Se queste doti non erano convenienti al vicario di Cristo, erano però di quelle a cui molti uomini dovettero il nome di grande.

Restò vacante, per le dissensioni del conclave dopo la morte di Gregorio, venti mesi il pontificato. È strano che Federigo lasciasse in libertà i cardinali fatti suoi prigionieri, acciocchè andassero a far l’elezione del papa, potendo egli profittare dei tumulti di quella città per farsene padrone. Le dispute giunte alle estremità sembrava che promettessero questa condotta in Federigo.

Il Cardinal di Lavagna col nome di Innocenzo IV fu eletto papa in Anagni. Roma era tutta in tumulti. L’imperatore perdette in Innocenzo un cardinale amico, ed acquistò un papa nemico. Eran possenti gli ostacoli, perchè un papa, in tali circo­stanze, potesse esser amico dell’imperatore. L’interesse e l’impegno rendevano neces­saria tal mutazione.

Roma non era più luogo sicuro per gli papi. Innocenzo se ne fuggì solo a cavallo, e si ricovrò a Genova sua patria. Pensò a stabilirsi in Francia ed in Arragona, ma tutti due quei re lo rifiutarono. Usò finezze col re d’Inghilterra per introdursi nel suo regno. Gli fe’ scrivere da’ cardinali una lettera in cui dicevano: «Noi vi diamo da amici un consiglio utile ed onorevole. Questo è d’inviare al papa un’ambasciata per supplicarlo di avere la degnazione di onorare colla sua presenza il Regno d’Inghilterra, e noi dal canto nostro faremo tutto il possibile per indurlo a piegarsi alle vostre preghiere. Sarebbe una gloria immortale per voi, che il Sommo Pontefice venisse ne’ vostri Stati, cosa a nostro credere non mai accaduta. Noi ci ricordiamo veramente con gran piacere d’averlo ascoltato alcuna volta dire che vedrebbe volentieri le delizie di West-minster e le ricchezze di Londra».[554] Si avide il re d’una alquanto trasparente accortezza, e non ne fece nulla. Matteo Paris dopo di aver raccontato tutti questi rifiuti soggiunge: «infamia enim curiae papalis id promeruerat, cuius fetor usque ad nubes fumum teterrimum exalat». V’è lo stile dello spirito di partito. Il papa chiamava questi re che lo aveano escluso regoli e serpentini.[555]

Innocenzo, spogliato di quasi tutti i suoi Stati, trattò di pace con Federigo, come se ne possedesse di vastissimi. Era quasi conchiusa; la ruppe per troppo pretendere. Volea che l’imperatore, prima di ricevere l’assoluzione delle scomuniche, restituisse i prigionieri ed eseguisse tutt’i patti della pace. Il ricusava Federigo. Innocenzo fu inesorabile. Questo puntiglio disciolse ogni trattato. Il papa rinnovò le scomuniche contro l’imperatore che ne era già ricolmato. La più gran parte ritrovava sorprendente il coraggio di queste procedure. Un curato di Parigi, avendo avuto ordine di pubblicare la scomunica contro di Federigo, così lo fece in Chiesa: «Ascoltate tutti quanti. Mi viene comandato che, colle candele accese, ed al suono delle campane, pronunci solenne sentenza di scomunica contro dell’imperatore Federigo. Io non ne so la ragione. Però so che fra lui ed il papa v’è gran controversia e odio inesorabile, e so altresì che un di loro reca ingiuria all’altro; qual dei due m’è ignoto. Io pertanto, in quanto si estende la mia autorità, scomunico e denunzio come scomunicato quello de’ due che reca all’altro ingiuria, ed assolvo chi la soffre».[556] Il curato fu regalato dall’im­peratore, e perciò punito dal papa.

Era già formato da Gregorio il piano di guerra che si doveva tenere coll’impe­ratore. Innocenzo seguì le sue tracce. Gli ha opposto un competitore al regno di Germania in Arrigo langravio di Turingia. L’indulgenza plenaria fu il premio destinato a chi seguisse il suo partito.[557] Dopo la di lui morte, Gulielmo conte di Olanda fu un nuovo rivale di Federigo, creato dai maneggi del papa. Lo sostenne pubblicando la crociata con indulgenza plenaria contro l’imperatore. Mosse altresì la Puglia contro di lui. Si disse che il papa eccitasse il gran cancelliere dell’imperatore Pietro della Vigna ad avvelenarlo. Federigo lo fece abbacinare. Giannone asserisce che scrittori degni di fede dissero che il papa corrompesse il cancelliere, e che di fatti tentasse di avvelenarlo. Cita Matteo Paris. Ma ei altro non dice se non se: «Ecclesiae autem innimici dixerunt quod dominus papa ad hoc facinus cor Petri enervando muneribus, et pollicitis inclinaret». Ha torto Giannone di dar per sicuro l’avvelenamento. Non ritrovo autore che lo attesti. Ha torto di chiamar degne di fede le voci degli innimici del papa. Malaspina,[558] autor contemporaneo, dice che l’imperatore accusò di questo tradimento Pietro della Vigna, e soggiunge: «Ma ciò fu fatto per invidia del suo grande potere». Alcuni baroni del regno congiurarono contro di Federigo. Anche ciò fu attribuito al papa. Federigo pubblicò una lettera circolare ai principi, nella quale diceva saper ben egli che tal congiura gli era stata ordita dal papa, e che ciò gli costava dalla confessione istessa de’ congiurati.[559] Innocenzo non rispose a questa lettera.

In tanto il papa volea fare un re di Germania, e nessuno volea accettare le sue offerte. Il langravio di Turingia ed il conte di Olanda avevano avuto un meschino partito. Il conte di Gueldria, il duca di Brabante, il conte di Cornuaglia, ricusarono questa dignità che il papa loro esebiva, ma che non li poteve dare. Fu proposto l’impero anche ad Aquino re di Danimarca. Lo ricusò dichiarando pubblicamente ch’era ben pronto a combattere gl’inimici della Chiesa, ma non quelli che il papa chiamava tali. Matteo Paris dice d’aver egli stesso udita questa risposta.

Il papa Innocenzo si rivolse al soldano d’Egitto Melic-Saleh per indurlo a rompere l’aleanza che avea con Federigo. Rispose il soldano:[560] «Noi abbiamo ricevuta la vostra lettera ed ascoltati i vostri ambasciatori. Ci si parla di Gesù Cristo, che noi conosciamo meglio di voi, e che onoriamo più di quello che voi non faciate». Finisce con dire che ha fatto sapere a Federigo queste proposizioni, e che non può far lega con nessun principe cristiano senza il consenso di Federigo istesso, giust’i trattati e la loro vicen­devole amicizia.

Furono rinnovate contro dell’imperatore le accuse d’irreligione in un concilio tenuto a Lione. Fu accusato di essere eretico, spergiuro, sacrilego, turco, reo di lesa maestà.[561] Fu proibito a’ suoi sudditi di riconoscerlo per sovrano sotto pena della scomunica. In questo concilio Innocenzo diede il capello rosso ai cardinali, significando con ciò che doveano esser pronti a sparger il loro sangue per difendere la Santa Sede dall’imperatore.

Lodovico IX re di Francia ebbe in questi avvenimenti una parte ben gloriosa. Fu sempre di mezzo per sedare tante discordie. Gli parea soverchia l’intraprendenza d’Innocenzo, come gli era sembrata quella di Gregorio. Ritrovò il papa impiegevole. Egli si dichiarava pronto a morire, piuttosto che a cedere a Federigo.

Vari scrittori, seguendo le accuse d’epietà tante volte fatte a questo imperatore, lo descrissero come un uomo senza religione. Un principe che ebbe sì grandi contese con i papi, ch’esiliò e fece appiccare de’ monaci, che impose molti tributi agli ecclesiastici per sostenere le lunghe sue guerre, e che fu tante volte scomunicato, dovea meritare quest’accusa. Non vi fu nessun principe che maggiormente perseguitasse gli eretici di lui. Egli aggiunse sotto la spezial sua protezione, come si esprime nelle sue leggi, i frati minori e predicatori, gli deputò ad inquirere contro degli eretici, ordi­nando a’ giudici che facessero abbrucciare i condannati da loro. Molti degli eretici patareni ebbero questo fine. Dispose che gli eretici pentiti non fossero uccisi, ma ciò non ostante fossero condannati a carcere perpetua. «Noi vogliamo (dic’egli in una legge) che l’eresia sia affatto sterminata ne’ nostri Stati. E poichè questo delitto il quale offende Dio stesso è più grande di quello di lesa maestà, noi vogliamo che i figli degl’eretici sino alla seconda generazione sieno privati di tutti i benefici temporali e di tutti gli uffizi pubblici, a meno che non sieno denunciatori de’ lor padri».[562] In somma, Federigo fu crudele legislatore contro della eresia, e fece eseguir la sue leggi con atrocità. Ei fu grandissimo promotore della inquisizione. Non so se le accuse d’irreligione sieno conciliabili con questa condotta.

Forse la coltura di Federigo ha contribuito a tali accuse, egli amava assaissimo le lettere. Quest’è sempre un gran delitto in tempi barbari. Fece tradurre il latino le opere di Aristotile,[563] traduzione che si sparse per tutta l’Europa. Fece ancora tradurre le opere di Tolomeo. Quest’opera cominciò a far conoscere la vera astronomia. Pro­mosse di molto l’araba letteratura col far tradurre molti libri arabi in lingua latina e li diede ai professori d’Italia e di Germania perchè l’insegnassero pubblicamente. Il papa Gregorio IX si oppose ai progressi di questa coltura. Si temea ch’ella non urtasse colla religione. Timore sempre concepito nella riforma delle lettere e delle scienze. Egli è noto come poi tanto si mutasse il parere su di tal questione, che il papa Urbano V ordinò che Aristotile dovesse esser considerato come il capo de’ filosofi. Divenne in appresso eretico chi lo confutava, come lo era stato in prima chi lo seguiva. La storia delle lettere è piena di queste contraddizioni.

Federigo scrisse anch’egli delle opere. Compose un trattato della caccia de’ fal­coni. Fece scrivere a Giordano Ruffo, suo primo cavallerizzo, un trattato della maniera di medicare i cavalli. Dice l’autore che Federigo suo padrone lo aveva instruito di quanto scrive. Un principe se diventa autore deve qualche cosa di più grande alla umanità. Marco Aurelio non scelse queste materie. Dopo il lungo regno di trentasette anni, e lunghe sventure, morì Federigo, principe che dovette a’ papi la sua grandezza e le sue sfortune. Lo spirito di partito rese incerto il suo carattere.

Nessuna più sicura eredità trasmise Federigo a Corrado, già eletto re de’ Romani, che gli sdegni del papa. Gulielmo conte di Olanda era scielto, bisognava sostenerlo. I delitti di Corrado eran grandi, egli era figlio di Federigo. Fu ben tosto scomunicato e deposto dal regno. Le indulgenze plenarie e le crociate lo riposero fra le ribellioni.[564] Da pertutto risonavano in Italia gli interdetti in questi tempi. Gibellino e scomunicato divennero sinonimi, per fino tutti gli abitatori del Regno di Sicilia e Puglia erano scomunicati.

Le crociate non si pubblicavano più contro de’ Saraceni, che dimoravano nelle Capitanate ed in Lucera, detta perciò de’ pagani, sotto la protezione dei re di Napoli, ma si pubblicavano contro i principi cristiani. Corrado scese in Italia, mandò ambasciatori al papa pregandolo della investitura del Regno di Sicilia; si esebì pronto a far ciò che Innocenzo volesse. Nulla ralentò gli sdegni di lui. Era il papa in caso di tutto pretendere, di nulla cedere ad un nemico circondato da pericoli. Gli fe’ rispondere essere il Regno di Sicilia e Calabria devoluto alla Santa Sede per gli delitti di suo padre. Non è questo il luogo di esaminare il valore di tal risposta. Egli dipende dal provare che Federico fosse colpevole, che i suoi delitti fosser di quelli pe’ quali si debba perder la corona, che al papa spettasse il giudicare, e che esso papa fosse in virtù di antiche pergamene legittimo sovrano di una nazione senza alcun atto che ne indicasse con­senso. Corrado finì le dispute conquistando coll’armi quel Regno per tosto morire, trasmettendo gl’infelici suoi diritti al figlio Corradino.

Le lunghe guerre fra il sacerdozio e l’impero, lo spirito di libertà che regnava in Italia, l’aveano già divisa nelle famose fazioni guelfa e gibellina. Da che era nata l’indipendenza, erano con essa nate ancora queste fazioni. Le città libere doveano necessariamente esser nemiche degl’imperatori; la asprezza con cui voleano toglierle la libertà, le stragi che facevano in Italia, rendevano sempre più odiosa l’idea del loro dominio. I papi, perpetui inimici degl’imperatori, venivano ad esser quasi sempre capi del partito della libertà. Questo chiamavasi il partito guelfo. I conti e marchesi, ed altri signori, che aveano ottenuti i feudi dagl’imperatori, erano del loro partito, e questo chiamavasi gibellino. Le più forti città si opponevano all’impero, le più deboli cercavano in lui un protettore contro la prepotenza di esse. Tali erano gl’interessi che determinavano le due fazioni.

Esse vi furono anche prima che non prendessero i nomi di guelfi e gibellini. Non confondiamo i vocaboli colle cose. Le fazioni cominciarono dal tempo degli Ottoni, ne’ quali si cominciò ad aspirare alla indipendenza. I nomi, poi, di guelfo e di gibellino s’introdussero a questi tempi di Federigo II. Essi vennero a noi dalla Germania, già da gran tempo divisa in due partiti: l’uno avea la sua origine dall’imperatore Corrado il Salico, la di cui famiglia era del borgo di Guibelinga, ed i suoi discendenti, gli Arrighi, a Federico I; l’altro dai duchi di Sassonia e Baviera, i quali erano della famiglia de’ conti Guelfi. Le guerre fra queste due case desolarono la Germania per lungo tempo. Le discordie poi nate fra Ottone IV e Federico II portarono questi nomi in Italia. Ottone era di casa Guelfa; Federigo di casa Guibelinga. Gl’Italiani allora si divisero in questi partiti. Ciascuno prendeva il nome della casa del principe a cui era addetto. I papi nemici di Federigo e suoi successori divenner capi della fazione guelfa, e quasi sempre lo furono. A loro si unirono i partigiani della libertà. Seguitarono a portare il nome di guelfo gli inimici dell’imperio, come di gibellini i suoi fautori, finchè in appresso, perdute le tracce di queste prime idee, che aveano fatte nascere le fazioni, non più si combatteva per la libertà o per l’imperio, ma perchè si era combattuto. Era divisa ogni città, anzi ogni famiglia in due terribili partiti, nè sapevano il soggetto del loro contendere. Eran nati ed educati in queste passioni perciò loro si eran rendute necessarie. I fanatismi hanno il lor moto concepito. Si spingono le onde del mare l’una l’altra sino al lido, anche cessato il soffio de’ venti. Una nazione agitata da mille rivoluzioni, sensibile ed inquieta, in tempi di governo feudale divisa in piccoli princi­pati, avea un gran materiale per queste follie. L’uomo sociale ha tante passioni, che gli soliti avenimenti umani non bastano ad esercitarle tutte. Vi vogliono per occuparlo delle rivoluzioni. Le desidera, se ne compiace. Lo spirito di partito è perciò facilissimo a destarsi. È la malatia più comune dello spirito umano. S’introduce in ogni ceto d’uomini. Nissun teatro ne va esente. Le passioni degli uomini condensati nei recinti delle città si urtano violentemente, sembra che non si possano contenere e che rigur­gitino. Soltanto la perfetta legislazione può così ben distribuirle, che non si oppon­gano. Queste nostre fazioni superarono forse tutte le altre che conosciamo nella storia delle nazioni. Non ritrovo esempio, che altrove durassero quasi tre secoli in tutto il loro entusiasmo, come fecero da noi. I Veneti e i Prasini di Costantinopoli, le contro­versie dell’aristotelicismo, i Wighs e Torry d’Inghilterra furono terribili fazioni, ma non paragonabili alle nostre. I guelfi aveano le vesti di un tal colore, il capuccio, il capello differenti dai gibellini. E così questi si conoscevan dalla acconciatura de’ capelli, dalla maniera di salutare, di tagliare il pane, di piegare il tovagliolo. Nelle famiglie il padre era guelfo, il figlio gibellino, così la moglie, il marito, il fratello. Le città erano tutte ispide di torri. Da quelle i vicini facevansi guerra incessante. Erano altresì queste moli un segno di nobiltà.

Non solevano però esser molto sanguinose codeste battaglie. Non avrebbero durato dei secoli se lo fossero state. Sarebbesi in poco tempo spopolata l’Italia. Si usavano comunemente gli uomini d’armi, cioè cavalieri vestiti da capo a piè di ferro. Era difficilissimo il ferirli di punta e di taglio, perciò s’introdussero delle pesanti mazze. Rimanevano in tali battaglie uccisi pochi uomini, la strage si faceva de’ cavalli.

Si usavano dei strani insulti. Si spingevano nelle mura della città degli asini con i mangani, i quali erano una specie di petriere. Tal volta ancora si appiccavano degli asini a vista della città nemica, ponendo loro al collo un cartello col nome di quelle persone che si voleano in tal modo deridere. Ne raccontano vari esempi i nostri autori.[565] Era ancora un insulto che usavasi il battere monete alle porte della città nemica, ed il far correre sotto alle sue mura de’ palii. Il famoso Castruccio signore di Lucca per far dispetto a’ Fiorentini fece correre sotto le loro mura un pallio di meretrici.[566]

V’era l’uso della rappresaglia. Essa consisteva in ciò, che se un cittadino avesse ricevuta un’ingiuria da un cittadino di un’altra città, e che i suoi magistrati non volessero punirlo, e rifare i danni, l’offeso otteneva la permissione da’ tribunali del suo paese di rappresagliare su qualunque suddito ed in qualunque luogo del territorio dell’offensore quanto bastasse alla vendetta e alla ricompensa della ingiuria. Eravamo in questa parte nello stato di pura natura. Altro non dovea essere il diritto delle genti in una nazione sfracellata dalle fazioni. Ciò produceva continue stragi e sac­cheggi. I giurisperiti tutti fecero dei trattati della rappresaglia. Essa avea i suoi princìpi, tant’era in vigore.

Si avrà una idea dello spirito di queste fazioni col vedere i loro trattati. Nessuna riflessione dipinge come i fatti. I Fiorentini così scrissero a Pandolfo Malatesta signore di Brescia. La lettera è in data del 1406.[567] «Magnifice domine amice carissime. Postquam Dei gratia inclita pars guelforum, quae iam annis plusquam nonaginta saevissima pessumdata tyrannide iacuit sub umbra mortis, velut vitae reddita resurrexit, velit vestra nobilitas ipsam sicut matrem optimam exaltare. Nos hic curabimus favore divini numinis gibellinam factionem estinguere, et pisanam urbem sub ditione nostra in honorem et gloriam guelfi nominis conservare. Cavete proditiones gibellinorum, nolite credere blanditiis eorum. Sint vobis suspecta gibellinorum colloquia, quae numquam esse possunt nisi fraudibus pena, et susidiis. Ubi tractatur de confirmatione et utilitate guelforum, facite quod extra post facto non contingat dicere: non putavi. Nos autem ofterimus posse nostrum et numquam deficiet quod fieri poterit in exaltationem huius sanctissimae societatis».

In una lega conchiusa nel 1278 fra le città di Padova, Cremona, Brescia, Parma, Modena e Ferrara contro di Verrona v’era questa clausola: «Ad damnum, destructionem et mortem perpetuam et finalem Veronensium intrinsecorum et omnium amicorum suorum».

Pontano, autore del secolo decimoquinto, racconta tal fatto seguìto verso i suoi tempi in Italia: «Io ho udito essendo fanciullo raccontare con molte lagrime dalla mia avola Leonarda quanto fossero grandi gli odi che certe famiglie esercitavano fra di esse. Fu preso un tale della contraria fazione, fu tagliato a pezzi; gli fu strappato il cuore, e fu da’ capi di quella fazione arrostito nelle bragie e carboni accesi. Poi fu tagliato in bocconi minutamente, e si distribuì per colazione ai cognati a tal pasto invitati. Si portarono eziandio dopo un sì esecrabile convito delle tazze asperse del sangue del nemico. Condirono questo cibo le vicendevoli congratulazioni, il riso, il gioco, gli scherzi. Finalmente si fece un brindisi agli dei come fautori di sì memorabil vendetta».[568]

Se Pontano non citava per testimonio di questo fatto che la sua avola, bisogna che tanta atrocità fosse stata occulta. Ella era succeduta con invito de’ parenti; quale spirito di partito non vi vole, perchè nessuno tradisse il segreto! Un tale orrore ne suppone molti altri. Tai furono i nostri deliri ne’ secoli decimoterzo e decimoquarto. In essi le fazioni guelfe e gibelline furono nel loro maggior vigore. Toccarono anche i princìpi del secolo decimoquinto, ma verso tai tempi si estinsero.

In mezzo a questi orrori i frati minori e’ predicatori aveano un grandissimo credito. Col pretesto di maneggiare la pace fra le nemiche città, si mischiavano nel governo; di alcune n’erano principi. Si distinse fra gli altri frate Giovanni da Vicenza dell’ordine de’ predicatori. Fece egli una universale perlustrazione d’Italia decla­mando contro le guerre, e riformando per fino in alcuni luoghi il sistema e la legisla­zione a suo talento. Convocò una dieta generale dei popoli d’Italia presso Verona, e fu sì obbedito che più di quattrocentomila persone vi concorsero, molti senz’armi, a piedi ignudi in forma di penitenti. Aringò Giovanni tanta moltitudine da un pergamo alto sessanta braccia, si conchiuse la pace per sua sentenza, minacciando di scomuni­care, maledire, e di dare al diavolo Satanasso chi l’avesse violata. Furono accolti con venerazione i suoi strapazzi. Per qualche tempo si sospesero le guerre.

Tal fu il suo potere, che fece in tre giorni abbrucciar vivi in Verona sessanta catari (setta di manichei) delle principali famiglie. Tentò poi di farsi signore di Verona e di altre città.

Era così lungi in que’ tempi che si sospettasse esser ingrato sacrifico al Dio di mansuetudine l’abbruciamento di sessanta vittime umane, che in Milano alzossi una statua equestre al podestà Orlando rinomatissimo abbruciatore di catari. Si pose nelle lodi della sua inscrizione: «Cataros ut debuit urit», «Bruciò i cattari com’era di dovere». Questo monumento sussiste tuttavia in Milano.

Matteo Paris, monaco benedettino, si doleva delle sterminate ricchezze che questi ordini, in origine mendicanti, aveano già raccolte: «Le loro case, dic’egli, sono già palazzi, e vi sfoggiano immensi tesori. Assistono quanto più possono alla morte de’ grandi e de’ ricchi, estorquono de’ testamenti, non raccomandano che il loro ordine, preferendolo agli altri. Entrano ne’ consigli de’ re, sono loro camerieri e tesorieri, sono i sensali de’ matrimoni, e gli esecutori delle estorsioni del papa. Adulatori e mordaci nelle loro prediche». In altri luoghi della sua Storia ha lo stesso stile su questo soggetto. Ei dice ancora dopo questa esclamazione[569] che vi fu disputa fra i predicatori ed i minori, pretendendo ciascuni la preminenza del loro ordine. Dicevano i predicatori: «Noi siamo i primi. Noi portiamo un abito più decente, voi altri minori andate coi piedi ignudi, mal vestiti, cinti di corde». Rispondevano i minori: «Noi facciamo per l’amor di Dio una vita più austera, più umile, e per conseguenza più santa». Era lepido i minori adducessero fra le ragioni del loro orgoglio la loro umiltà. Sono contro­versie instruttive.

Visse in questi tempi il famoso tiranno Ezzellino da Romano podestà di Verona. Colla protezione di Federigo II imperatore divenne un principe abominevole ed importante in Italia. L’imperatore gli diede in moglie Selvaggia sua figlia bastarda. Ezzellino conquistò a nome del suo protettore Vicenza, Brescia, la Marca Trevisana, Mantova, Padova, Verona ed altre terre in que’ contorni. Molte sono le crudeltà che si raccontano di quest’uomo. Gulielmo da Ventura dice che da per tutto si trovavano in Italia ciechi, storpiati da Ezzellino, i quali dicevano, come s’esprime quell’autore, «baec et hac nobis fecit Ezzellinus».[570] Soggiungesi Gulielmo Ventura che, saputosi ciò da Gulielmo, pubblicò un editto con cui invitava a venire in Verona tutti i storpiati e ciechi, promettendo loro vitto e vestito. Ne vennero fino a tremila. Gli unì in un albergo, a cui fece appiccare il fuoco, e tutti vi furono consonti. Lo stesso autore dice che questo tiranno fe’ morire più di trentamila persone, chi di supplizi, chi di fame nelle sue prigioni, ch’erano orribilissime. Lo chiama: «perfidissimus et crudelissimus tyrannus, monstrum humani generis, pestis mundi, horridus aspectu, occulis viperinis». Benvenuto da Immola ne’ commenti di Dante dice che Ezzellino fece morire colle sue crudeltà cinquantamila persone.

Egli fu scomunicato dal papa Alessandro IV. Fu bandita contro di lui la crociata. I crocesignati gli tolsero Padova. Vi si celebra tuttavia annualmente la memoria di questa liberazione nel giorno in cui accadde. Celebre è la crudeltà di Ezzellino in questa occasione. Alla nova che Padova era presa fece trucidare circa undecimila Padovani, quanti ne trovò nella sua armata in Verona e nel suo distretto. Chi perì in prigione di fame, di sete e di freddo; chi fu appiccato, chi abbruciato, perciò Rolan-dino da Padova[571] raccontando tai fatti lo chiama con frase guelfa vicario dell’anti­cristo, cioè dell’imperatore. Morì Ezzellino fatto prigioniero de’ Lombardi per le ferite che gli fecero i soldati che lo presero.

Capo XX. Dei flagellanti. Venuta in Italia di Carlo d’Angiò. Sue guerre con Manfredi e Corradino, e lor fine. Parte che v’ebbe il papa Innocenzo IV. Rodolfo imperatore. Riunione instabile della Chiesa greca nel Concilio di Lione. Vespro siciliano e suoi conseguenti. Di Guglielmina. Invenzione degli occhiali.

Se la nostra nazione al tempo de’ Romani ci ha offerto allo sguardo degli oggetti maestosi, in tai tempi di desolazione traspare in lei il ridicolo fra le stesse sue calamità. Fa bisogno opporre sovente tutt’i sentimenti di umanità per non deridere la miseria. L’Italia dalle incessanti rivoluzioni era posta in tale orgasmo, che il primo che la rivolgesse ad un nuovo oggetto avea tosto seguaci.

Ella ubbidì all’entusiasmo di un fanciullo, o come altri vogliono di un eremita, il quale in Perugia disse d’avere udita una voce angelica che minacciava la ruina di quella città se i peccatori non facessero penitenza. Non si può raccontar meglio questo avvenimento, che colle parole istesse dei cronisti di que’ tempi. Il monaco padovano così scrive:[572] «Quum tota Italia esset flagitiis et sceleribus inquinata, quaedam subi­tanea compunctio et a seculo inaudita, invasit primitus Perusinos, Romanos postmodum, deinde fere Italiae populos universos. In tantum itaque timor Domini irruit super eos, quod nobiles pariter ac ignobiles, senes et iuvenes, infantes etiam quinque annorum nudi per plateas civitatum, opertis tantummodo pudendis, deposita vere­condia bini et bini processionaliter incedebant, singulis flagellum in manibus de coringiis tenentes, et cum gemitu, et plorato super scapulis usque ad efusionem, sanguinis verberantes. Centeni, mileni, decem milia quoque per civitates ecclesias circumibant».

«Item ipso anno», scrive il Caffari negli annali di Genova,[573] «quasi in tota Italia quoddam miraculum fuit, atque ex divina provisione dicitur processisse. Nam in civitate Perusii coeperunt homines ire per civitatem nudi verberando se cum flagellis et clamando Domina Sancta Maria recipite peccatores, et rogando Iesum Christum ut nobis parcat. Et dicitur quod haec verberatio initium habuit a puerulo, qui adhuc iacebat in cunis, alii dicunt a quodam eremita, quem fertur angelicam vocem audivisse quod nisi homines Perusiae poenitentiam agerent civitas eorum subverteretur. Item eodem anno (scrive l’autore della cronaca di Parma)[574] fuit scovamentum magnum pro amore Dei in Parma et in Regio, et Musina, et alibi etiam per Lombardiam, et paces inter homines habentes guerrae factae sunt. Et illi de Regio et de Mutina venerunt Parmam ad se verberandum cum consigiis et scopiis cum illis de Parma amore Dei et in remissionem peccatorum. Et omnes Parmenses tam magni quam parvi cum consilibus et vexillis vicinarum ibant per civitatem se verberando existentes nudi a bragheria insursum excalcenti»: quest’era la posterità de’ grandi Romani. Tutta la gravità di Livio, tutta la maestà di Tacito non potrebbero nobilitare questa storia. Si può conoscere da’ stili di queste croniche a che fosse ridotta la lingua latina, la grammatica e l’arte di scrivere. Tal era la nazione, tali gli storici.

Le donne davano sfogo alla loro divozione in tempo di notte. I più saggi dei principi italiani ritrovarono pericolosa una così gran turba di divoti. I Torriani, che comandavano in Milano, sapendo che venivano bini et bini questi flagellanti come solevano, loro fecero preparare seicento forche,[575] le quali vedute stimarono opportuno di altrove rivolgere i passi bini et bini. Manfredi re di Sicilia, ed altri ancora, non vollero ricevere tal visita ne’ loro Stati. Ella arrivava tal volta a ventimila persone. Si lagna di questo rifiuto il monaco Boviano.[576] Manfredi, ei dice, ed i Torriani «iniquitatis filii et magistri renuerunt accipere disciplinam»; e segue a dolersi perchè alcuni altri principi, i quali pareano altronde buoni cristiani, «non iam tanta devotionis efficacia ut debebant donum coelestis gratiae perceperunt». Si estese questa devozione nella Polonia, nella Provenza e nella Germania. La flagellazione, come penitenza volontaria, non si trova usata nella chiesa occidentale fino al secolo undecimo. I primi flagellanti che si conoscano sono S. Guido abbate di Pomposa e S. Poppone abbate di Stavelsi. Essi morirono verso la metà del secolo undecimo.

La guerra fra il sacerdozio e l’impero era inestinguibile. Manfredi fratello del defunto Corrado, assuntasi la tutela del nipote Corradino, lo avea protetto per usur­pargli il regno. Alessandro IV avea pubblicata in Calabria la crociata contro di Man­fredi non come scellerato tuttore, ma come usurpatore di un regno devoluto alla Santa Sede. Il di lui successore Urbano IV lo citò a comparire trattandolo da eretico e da maomettano, aggiungendo le consuete indulgenze plenarie a chi prendeva la croce contro di lui. Accese la guerra in tutta la Germania e l’Italia, perchè Corradino non arrivasse all’imperio. I diritti del sangue perchè figlio di Corrado, ed ancor più grandi diritti, cioè il consenso dei vescovi e de’ principi elettori, lo rendevano inutile e legittimo imperatore. Corradino era di casa Svevia, cioè de’ gibellini. Questi erano i suoi demeriti.

Divenuti già i pontefici capi del guelfo partito, se ne trasmettevano dall’uno all’altro lo spirito e le idee, per modo che sembrava che il pontificato cangiasse di nome, e non di uomini.

Il Regno di Sicilia era già stato esibito da Innocenzo IV a Riccardo fratello del re d’Inghilterra, da Alessandro IV ad Edemondo figlio dello stesso re, da Urbano IV a Carlo d’Angiò conte di Provenza fratello del re di Francia Lodovico IX. Purchè di Manfredi e di Corradino non fosse, di qualunque esser poteva. Ora Clemente IV fe’ venire in Italia esso conte di Provenza. Benedisse la sua impresa: diè l’indulgenza plenaria al suo esercito. Quest’era quanto il papa vi metteva del suo regalando quel regno. Carlo d’Angiò non fu tanto mosso a questa dal papa o dall’ambi­zione, quanto da sua moglie Beatrice, la quale avendo tre sorelle, l’una regina di Francia, l’altra d’Inghilterra, l’altra di Germania, volea anch’essa ad ogni costo divenir regina. La vanità di una contessa di Provenza desolò l’Italia.

Carlo d’Angiò fu incoronato in Roma re di Sicilia e Puglia; Manfredi mandogli ambasciatori a chieder pace, rispose Carlo in sua lingua: «Alles idit moi ale sultam de Nocere, hoggi materai lui en enfern o il metrà moi em Paradis».[577] Lo chiamava sultano di Nocera, perchè avea i saraceni in quella città, e se ne serviva nelle guerre. Si credeva un punto di religione la depressione di Manfredi. Carlo avea persuaso i suoi soldati ch’essi andavano per la Santa fede contro di un eretico, scomunicato e saraceno, ch’erano guerrieri di Cristo e suoi martiri, morendo.[578]

I Pisani furono scomunicati perchè fautori di Manfredi. Per essere assolti dovet­tero deporre trentamila lire.[579]

Pugnarono i Francesi da noi con un vigore al quale non eravamo avvezzi. Le nostre guerre si celebravano con molta gravità. Erano uomini ricoperti di ferro, che lentamente si davano de’ grandi urti. Non usavansi armi da punta, soltanto da taglio. Era quasi impossibile ferire con esse un soldato tutto circondato di acciaio. I Francesi erano armati di stocchi, e quando i nostri soldati alzavano il braccio per stanziare un colpo di sciabola, gli ferivano sotto le ascelle con prestezza. Ciò diede un gran vantaggio a’ Francesi. Gl’Italiani si meravigliavano di vedersi così feriti. Andarono dopo sì funesta esperienza in disuso in Italia le armi da taglio, e vi sostituirono quelle di punta.[580] Nulla risparmiò l’esercito crocesignato di bottino e di libertinaggio. Benevento istesso, benchè città del papa, fu saccheggiata. Manfredi morì in battaglia nella più folta mischia. Principe colmato di laudi, e paragonato a Tito dal monaco Pipino,[581] non so se dalla verità o dallo spirito di partito. Divengono le storie in questi tempi guelfe e gibelline. Manfredi fu sepolto presso il ponte di Benevento. Fu disotterrato per ordine di Clemente, e fu esposto sulle rive del fiume Marino.[582]

La venuta de’ Francesi ci pose in desolazione e ripulì i nostri costumi. S’introdusse un genere di vita men barbaro. Ebbimo in ciò per maestri coloro che lo furono, dopo i Greci, di tutta l’Europa.

Risguardossi con grande ammirazione l’entrata di Carlo in Napoli. Fu uno stranissimo spettacolo il vedere la regina Beatrice in una magnifica carrozza, riccamente vestita, con seguito di damigelle.

Corradino era in Germania. Tutt’i gibellini, i Siciliani ed i popoli del Regno di Napoli lo chiamavano. Il governo francese era ad essi intollerabile. Corradino venne a tal conquista. Il papa lo scomunicò, lo citò a comparire, assolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà. E bastevolmente noto l’infelice suo fine. Fatto proditoriamente prigioniero, fu consegnato a Carlo. Nella battaglia in cui ciò avvenne furono uccisi al dir di Fazzaello dodecimila Tedeschi. Il vincitore Carlo in memoria di questa giornata eresse un convento di monaci benedettini, che dedicò a Santa Maria della Vittoria e dotò di molte ricchezze.[583]

Il Giove Statore e Predatore e l’Ara della Vittoria de’ Romani aveano lo stesso fine. Strano abuso della pietà il fare oggetto di religione il macello degli uomini! Vorremmo sempre far piccolo e tristo come noi l’Essere eterno. Qual miseria alzare un vasto edificio su di un terreno inzuppato di umano sangue, farvi cantare da ricchi monaci ringraziamenti al benefico Iddio di questa strage!

Carlo chiamò consiglio dal papa Clemente che far dovesse del suo prigioniero. Alcuni scrittori dicono che rispondesse: «Vita Corradini mors Caroli, mors Caroli vita Corradini». La risposta era succinta, ma chiara. Giannone dà questo fatto per sicuro, appoggiandosi alla autorità di Enrico Guadelfiero, di Fazzaello e di Collenuccio, scrittori del secolo decimoquinto.

Ma Ricordano Malaspina contemporaneo dice: «che della sentenzia data contro di Corradino, lo re Carlo fu molto ripreso dal papa».[584] Dovea Giannone farsi carico di questa autorità. Le stesse parole ripete l’accreditato scrittore Giovanni Villani[585] che visse al principio del secolo decimoquarto soggiungendo: «Et chi disse che ’l papa la consentì, non vi diamo fede». Reca meraviglia dopo di ciò come lo stesso Giannone conchiuda la sua disquisizione su tal fatto con queste parole:[586] «Ma in ciò deve pur darsi tutta la fede al Villani, il quale, con tutto che Guelfo, e capital nemico de’ Svevi, difendendo il papa non ardisce di negarlo».

La storia ha delle tenebre impenetrabili, intorno delle quali si volvono gli eruditi, e poi vi ricadono. Vi sono de’ scrittori che affermano, ve ne sono che negano. In tal caso ha torto chi prende un partito decisivo, eccettuatine i pochissimi casi ne’ quali dopo molti secoli si possa trovare la precisa verità al traverso di quelle contradizioni. Accresce l’autorità del Villani e del Malaspina il vedere come vari altri scrittori di questi tempi non parlano di questa risposta del papa. Lasciamo le dissertazioni. Carlo fece condannare da un consesso di dottori il giovine Corradino il quale non avea che anni dieci sette. Scena così funesta rappresentossi sul mercato di Napoli. Ivi fu deca­pitato il giovine eroe con tutto l’apparato di giudiziarie procedure. Carlo avea fatti morire prima di lui Manfredino figlio di Manfredi ed Elena sua madre. Federico duca d’Austria fu condannato ad esser decapitato sullo stesso palco insieme di Corradino. Egli era suo amico intrinseco. Venne decapitato il primo. Spettacolo degno di grande pietà fu il vedere Corradino prender in mano il teschio del suo amico grondante di sangue, bacciarlo e querelarsi fra i singhiozzi di morte d’esser stato a quel principe innocente cagione di morte sì crudele. Quindi si volse al popolo e parlò con nobil fermezza, molto superiore a’ suoi anni, del misero suo fine e delle sue sventure; si difese dalle accuse fatteli e finì col dire che sperava che sì scellerata ed atroce sentenza non sarebbe stata invendicata dalla sua nazione. Era un eroe, un innocente, un illustre principe, che al fior degli anni su di un palco di morte così parlava. Qual scena! Trasse di poi un anello, o, come altri vogliono, un guanto dalla mano, lo gettò dal palco come in segno d’investitura, dichiarando suo erede a quel regno D. Pietro d’Arragona, marito di Costanza sua sorella cugina. Questo guanto fu raccolto e presentato al re Pietro. Finalmente Corradino sottopose il capo al carnefice. Altri de’ primi feudatari del Regno furono nello tempo istesso appiccati. In Corradino si estinse la casa de’ duchi di Svevia, ed ebbe Carlo la triste gloria d’aver compiuta sì illustre rovina. A ciò eran state dirette tante rivoluzioni. Tutta l’Europa guardò con abominazione questo sacrificio.

Fu un’altra scena di codesti tempi la morte di Arrigo figlio di Riccardo re d’Inghilterra. Il conte Guido di Monforte lo uccise a colpi di pugnale nella chiesa di S. Lorenzo in Viterbo mentre che assisteva alla messa assieme con Filippo re di Francia nominato l’ardito e di Carlo re di Sicilia. Il conte Guido ritirossi poi in Toscana. La cagione d’aver egli fatto quest’assassinio fu perchè si diceva che esso Arrigo nelle guerre d’Inghilterra avesse fatto uccidere Simone conte di Lincester, padre di esso conte Guido. È rispettabile il figlio che vendica la morte del padre. È abominevole un proditorio macello.

Il Regno di Germania e l’impero annessoli erano a vicenda il soggetto della grandezza e del timore de’ papi. Alfonso X detto il Saggio, re di Castiglia, era stato eletto imperatore. Il papa Gregorio X ritrovava un gibellino troppo grande il padrone di due regni. Un debol principe, un imperatore che dovesse a lui tal dignità era quello che gli conveniva. Perciò nulla curando questa elezione promosse Rodolfo conte di Nabipurch signore di buona parte dell’Alsazia d’onde ebbe origine la casa d’Austria.

Quest’Alfonso è quel principe famoso per le celebri tavole astronomiche fatte da lui costruire, e che perciò si dissero alfonsine. Ei fu più ardito nelle scienze che nel regnare. Rinunciò all’imperio per timore delle scomuniche di Gregorio X e vedendo le irregolarità de’ moti planetari proferì quel celebre irreligioso motto: «che se Dio l’avesse chiamato al suo consiglio quando creò l’universo, le cose sarebbero state in miglior ordine e più semplici»; se non contestava l’esistenza del grande artefice era ridicolo il suo orgoglio, se avea la sventura di negarla era in contradizione.

Michele Paleologo, avendo scacciato l’imperatore Balduino da Costantinopoli, diede fine all’imperio de’ crocesignati, e riprese la serie de’ greci imperatori. Ancora incerto della sua conquista, non ardiva fomentare l’antico scisma. Il timore delle crociate e la potenza di Carlo gli persuasero essergli pericoloso di muovere tal que­stione.

Gregorio X tenne un concilio a Lione a cui intervennero gli ambasciatori di Michele. Si conchiuse la riunione della Chiesa. Ella fu instabile. Michele si trovò riposto fra le sollevazioni. I suoi sudditi non consentivano a questa riunione, ed egli loro la persuadeva con delle crudeltà. Dall’una parte vedeva sconvolti i suoi Stati se diveniva cattolico, dall’altra vedeva le crociate se rimaneva scismatico. Il papa Martino IV decise in seguito queste dubbiezze col scomunicare Michele. Il suo figlio Andro­nico disapprovò il concilio di Lione, e staccossi di nuovo dalla Chiesa latina.

La eredità della contessa Matilde non era stata fin ora che desiderata dai papi e promessa dagl’imperatori. Il papa Nicolò III la ottenne da Rodolfo.[587] Le guerre con Ottocaro re della Boemia, il timore che si ricorresse ai mezzi ch’erano stati adoperati contro di Federigo II, il sospetto che quell’istesso che lo avea innalzato avesse ancor la potenza di deprimerlo, fecero prendere tal risoluzione a Rodolfo. Carlo re di Sicilia rinunziò alla carica di vicario di Toscana, titolo che gliene dava l’utile dominio posse­dendolo come feudo imperiale; rinunciò eziandio alla carica di senatore di Roma.

I papi pretendevano sempre d’esser sovrani in quella città. Citavano dei diplomi imperiali, e non potevano dimorarvi che raramente e fra i tumulti. I Romani aveano tutt’altre idee, che di esser sudditi dei papi. Martino IV, successore di Nicolò, ebbe la sovranità di Roma in questi termini: «L’anno 1281, lunedì decimo giorno dell’anno. Il popolo romano e senatori ed elettori del popolo nominati, in considerazione delle virtù del nostro Santo Padre il papa Martino IV, e la sua afezione verso della città e del popolo di Roma, e sperando che colla sua prudenza potrà ristabilirvi il buon ordine, hanno commesso a lui, non a riguardo della sua pontificia dignità, ma della sua persona escita da nobil stirpe, il governo del senato di Roma e del suo territorio vita sua natural durante».[588]

Giovanni da Procida salernitano fu in questi tempi uno di quegli uomini non volgari, le imprese de’ quali copre d’obbrobrio o di splendore la cattiva o la buona fortuna. Il duro governo di Carlo d’Angiò in quelle regioni non fu tollerato da questo uomo privato, mentre che da tutti lo era. Si esebì a Pietro re d’Arragona di acquistargli quel regno. Questo re, come s’era osservato, era marito di Costanza, sorella cugina di Corradino, ed era stato da lui investito de’ suoi Stati avanti di morire. Tai diritti ei adduceva sul Regno di Napoli.

Giovanni ordì con trame segrete una congiura in Palermo. Ella non scoppiò che il giorno assegnato. Fu il terzo giorno di Pasqua al tempo del vespro. Chiamossi perciò questa impresa il Vespro Siciliano. Quasi nissun Francese si salvò. Donne e fanciulli furon avvolti nel macello. Altre città di Sicilia seguirono quest’esempio, ma non già tutta l’isola come si disse da taluni.

Il re Pietro intanto stette ad aspettare con una flotta verso le coste di Africa l’esito della congiura, e saputolo sbarcò in Sicilia. È curioso com’egli ponesse in mare tal flotta col pretesto di andare in Terra Santa, e che Filippo re di Francia, nipote del re di Napoli, gli dasse per tale spedizione quarantamila lire tornesi.

Carlo fuggì a Napoli. Pietro fu incoronato in Palermo. Quando Carlo intese questa incoronazione gli scrisse: «Tu non hai considerato, uomo più perverso del mondo, la forza irresistibile della Chiesa, che deve comandare a tutte le nazioni. Dessa è colei che la terra, il cielo, il mare adorano, ed alla quale tutti quei che sono sotto del sole devono esser tributari».[589] Finisce coll’intimargli di sortire dalla Sicilia. Il re d’Arragona rispose collo stesso stile.

Carlo fuggì ancora a Roma dal papa Martino IV, il quale lo difese scomunicando indefessamente i Siciliani ed il re Pietro, che chiamava un nuovo idolo di Baal, che i Siciliani si erano eretto. Pubbicò la crociata coll’indulgenza plenaria contro di lui[590] dichiarandolo non solo ingiusto usurpatore della Sicilia, ma ancora dimesso da’ regni d’Arragona, Valenza e Catalogna con donarli in feudo a Carlo di Valois, secondogenito di Filippo l’Ardito re di Francia.[591]

Fu posta all’interdetto la città di Venezia non per altro delitto, se non per aver ricusato, secondo le sue leggi, di lasciar reclutare ed armar legni ne’ suoi Stati in soccorso del re Carlo.[592]

I Palermitani mandarono de’ frati a chieder perdono al papa della loro ribellione. Gli si presentarono e dissero tre volte: «Agnus Dei qui tollis peccata mundi miserere nobis». Al che rispose il papa: «Lo nominarono re de’ Giudei, e gli diedero de’ schiaffi».[593] Così finì quella ambasceria.

Il re Pietro non si curò delle scomuniche, e per deridere la sua deposizione si chiamava «Pietro cavaliere arragonese padre di due re (come lo era) e padrone del mare». Il desiderio di guadagnar l’indulgenza pugnando con lui era per altro ben vivo. Chi non poteva aver arma gettava de’ sassi contro il suo esercito dicendo: «Getto questa pietra contro il re Pietro per guadagnare l’indulgenza».[594]

Famosa è la disfida fra questi due principi. Carlo, con quello spirito di cavalleria che era lo stoicismo del secolo, sistema pieno di follia e di vizi, sfidò a duello il re Pietro. Maniera di decidere le controversie personali fra i principi, che risparmierebbe il sangue di molti innocenti se il loro non fosse ancor più prezioso. Bourdeaux nella Guascogna fu scelta per questo duello. Si patteggiò che ciascuno avrebbe seco cento cavalieri. Quella città era sotto il dominio del re d’Inghilterra. Carlo venne il giorno convenuto, si pose nello steccato co’ suoi cavalieri citando dalla mattina alla sera il re Pietro che non mai comparve. Egli era in Bourdeaux, e stava nascosto travestito. Poichè partì Carlo, subito il re Pietro comparve, presentandosi al siniscalco e facendo registrare la sua comparizione. Il re Carlo dichiarollo un cavaliere infedele ed infame. Così finì questa sfida.

Il Vespero Siciliano divise il Regno di Napoli da quello di Sicilia. La casa d’Arragona ebbe la Sicilia, quella d’Angiò il Regno di Napoli. Quantunque la conquista della Sicilia fosse stata fatta dal re d’Arragona, ciò non ostante il dominio di quest’isola non fu annesso a quel regno. Era la stessa famiglia, ma non l’istesso principe che coman­dava nell’una e nell’altro.

Filippo l’ardito re di Francia tentò sventuratamente di occupare il regno di Arragona appoggiandovisi alla pontificia donazione. È più facile regalare i regni, che conquistarli. Il papa Martino che glieli avea compartiti era morto a forza di mangiar anguille. «Fertur a multis (dice il cronista frate Francesco Pipino)[595] quod papa iste multum avidus erat comedendi anguillas, et quod ex earum comestione morbo correptus est. Nutriri quidem eas faciebat in lacte, et submergi in vino. Unde quidam huic rei alluderet volens ait:

Gaudeant anguillae, quod mortuus est homo ille
Qui quasi morte reas exeoriabat eas.

Iste etiam romanus pontifex in libello, cuius titulus incipit initium malorum, effigiatus est in pontificali abitu, habens iuxta se anguillae figuram et aviculam avis ex pansis mithree adhaerentem, rostrumque protendentem ad hos anguillae. In dextera quoque defert vexillum».

Onorio IV dopo di lui benedisse le imprese de’ Francesi. Il re di Francia, dopo avere inutilmente tentata tal conquista, morì.

Era lo stesso per gli Arragonesi esser re di Sicilia e scomunicati. Onorio percosse con tal fulmine il nuovo re di Sicilia D. Giacomo figlio del re Pietro e la di lui madre Costanza. Pure se ’l consenso de’ sudditi è il più legittimo diritto per regnare, tal diritto competeva agli Arragonesi in Sicilia.

Carlo II, figlio di Carlo d’Angiò, era stato fatto prigioniero dagli Arragonesi e condotto in Catalogna. Rimesso in libertà e defunto suo padre, pretendeva al perduto regno di Sicilia. Per uscir di carcere, avea accordate ogni sorta di condizioni. Avea rinunciato a tutti i suoi diritti. Il papa Nicolò IV, successore di Onorio, lo assolse dalle sue promesse. Lo coronò re di Sicilia e di Gerusalemme. Non ebbe di questi regni che la corona. Al re di Sicilia D. Giacomo, morto suo fratello Alfonso re d’Arragona, si era aperta la successione di quel regno. La Sicilia non gli era che di peso. Impegnato nelle guerre col re di Francia, non poteva difendere un’isola lontana. Rinunciolla perciò al suo pretensore Carlo II, trascurando D. Federico proprio fratello, il quale si pose a difenderla per sè. Era lo stesso per que’ popoli il ricadere nel governo de’ Francesi, che il provare qualche orribile contraccambio del Vespro Siciliano. Appog­giarono le pretensioni di D. Federigo e lo proclamarono re. Allora si vide D. Giacomo istesso cattivo congiunto e fedele principe unirsi a Carlo II contro del fratello, perchè non si opponesse alla rinuncia. Ma la fortuna dell’armi decise che la Sicilia restasse a D. Federigo. Abbandoniamo le guerre.

In Italia vi erano diverse sette di eretici. Il tribunale della Inquisizione agiva contro di esse, e sempre più cresceva la sua giurisdizione. Si attribuivano a questi settari le maggiori scostumatezze; quest’accusa ch’è sempre stata fatta a ceti d’uomini i quali si radunano nella oscurità. Si chiamavano queste sette figlie del manicheismo, quantunque non avessero alcuna relazione colle dottrine di Manete. Alla fine del secolo decimoterzo si distinse fra questi deliranti una certa Guglielmina la quale venne dalla Boemia, si stabilì a Milano dove fondò una setta. Ella diceva di esser lo Spirito Santo incarnato nel sesso femineo, e nato da Costanza moglie del re di Boemia. Questa regina, secondo lei, aveva avuto aviso dall’arcangelo Rafaele di tale incarnazione, in quel modo che la Vergine Maria lo avea avuto dall’arcangelo Gabbriele di quella del Verbo. Diceva Gulielmina che in quella guisa era Dio e uomo nella virilità, così anch’ella nella femineità. Che come Gesù Cristo sarebbe anch’ella morta come uomo, non come Dio, e che risorgerebbe. Che Maifreda monaca umiliata sua conoscente sarebbe stata dopo di lei la sua vicaria in terra e la vera papessa, e che il pontificato romano sarebbe stato abolito; che la stessa sorte avrebbero avuto i quattro Evangeli e se ne sarebbero fatti quattro altri di nuovi. Maifreda dopo la di lei morte esercitò il suo papato, celebrava la messa di nascosto, le sue seguaci bacciavanle la mano ed i piedi, si comunicavano da lei. Poco durò questa setta. Ella si scoprì. Fu rovesciato il sepolcro di Gulielmina. La monaca Maifreda ed un tale Andrea damarino che fomen­tava queste follie furono abbruciati; rimedio troppo violento per le melanconie. A’ dì nostri una tal donna sarebbe caritatevolmente consegnata a’ medici, nè troverebbe facilmente proseliti. Così la temuta e benefica filosofia avrebbe risparmiato alla reli­gione una setta di errori, alla umanità un sagrifizio crudele. Anche quella setta fu detta di manichei, benchè non avesse alcuna delle dottrine di Manete. È noto che i principali suoi dogmi erano i due princìpi, l’uno buono e l’altro cattivo, attribuendo all’uno il bene, all’altro il male, e la trasmigrazione di Pittagora. Per quanto sappiamo delle sette dei cattari, dei patareni, di Guglielmina e di molte altre che di mano in mano eserci­tarono la imbecillità de’ nostri maggiori, ed il zelo della Inquisizione, nessuna avea tai princìpi.

L’invenzione degli occhiali è d’ascriversi circa la fine del secolo decimoterzo, o nei princìpi del susseguente. Per quanto alcuni eruditi o non intendendo, o abusando di qualche antica inscrizione e di alcuni versi di Plauto, abbiano creduto esser stato noto all’antichità l’uso degli occhiali, con tutto ciò prima di tal tempo non se ne trova vestigio. Alcuni per aver ritrovato in qualche inscrizione romana faber occularius l’hanno precipitosamente supposto un optico d’occhiali, quando che altro non signi­fica se non se fabbricator d’occhi, sia per le statue, sia per attaccarli alle are degli dei in voto d’averli risanati ad alcuno, o ad altri usi. Taluno ritrovando in Plauto la voce compicillus lo ha supposto significare occhiali. Ma quella voce Plauto istesso l’adopera altrove per dinotare una specula; e, senza anche di ciò, è troppo arbitraria conghiettura il così intenderla, non trovando in tante memorie che abbiamo de’ Romani, ed in tanti poeti che parlarono minutamente de’ costumi e degli usi loro, nè in Plinio che ammuc­chiò tutto quel poco ch’essi sapevano di scienze, alcuna parola che appoggi tai so­spetti. Un silenzio così universale li distrugge. Francesco Redi ascrive la invenzione degli occhiali alla fine del secolo XIII. Egli cita i sermoni manoscritti di fra Giordano da Rivalto ove si dice: «Non è ancora vent’anni che si trovò l’arte di far gli occhiali, che fanno veder bene: che è una delle migliori arti e più necessarie ch’el mondo abbia». Morì Giordano nel 1311. Allo stesso tempo ascrive quest’invenzione un’antica cro­naca di fra Domenico Peccioli. Quest’è ciò che sappiamo di più preciso in questa materia quanto al tempo. Quanto poi all’inventore, il signor Domenico Manni fioren­tino sostiene che fu Salvino Amirati suo compatriota,[596] che morì nel 1317.

In questo istesso secolo decimoterzo, Pietro da Lisbona, che fu il papa Giovanni XXI, coltivò la medecina e la filosofia. Fu antecessore di Nicolò III. Il nome di Giovanni è oscuro nella storia civile. Nulla contò fra i papi. I pacifici talenti delle lettere non eran quegli che lo potessero rendere illustre in mezzo delle rivoluzioni. Le di lui Summole logicali furono per lungo tempo ricevute nelle scuole. Scrisse anche di medecina ed altre opere di dialetica aristotelica. Fu papa non più di otto mesi. Morì sotto le ruine della sua camera. Non si lasciò d’attribuire la sua morte a castigo d’empietà della quale fu accusato. La maggiore delle calunnie è la sola impunita.

Capo XXI. Mutazione nel governo delle repubbliche. Invenzione dell’ago magnetico. Controversie fra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. Spettacoli de’ tempi. Trasporto della Santa Sede in Avignone. Dispute fra Clemente V ed i Veneziani per Ferrara. Abolizione de’ Templieri. Letteratura de’ tempi.

Dal seno delle discordie nasce la libertà. Ella s’invecchia, degenera nell’anarchia e s’incurva nel dispotismo. Tai furono, tai saranno le vicende delle repubbliche. Il popolo scuote la tirannia e si rifugia nella libertà con moti violenti e convulsivi, ma se la libertà non è fondata sulla eguaglianza di fortune, i ricchi sanno a poco a poco corroderla, perchè nello Stato civile più val l’ingegno che la forza, come all’opposto questa, e non quello, diede gl’imperi alle primitive riunioni del genere umano. Le astute ricchezze con lento ed astuto artifizio non perdono occasione, accelerano talvolta l’inclinamento ai disordini per rendersi necessarie, finchè il popolo, stanco di se stesso, chiede in benefizio quel dispotismo che odiò. Tal cominciava ad essere la sorte delle lombarde e toscane repubbliche. Le fazioni le sconvolgevano. Esse erano divise fra i nobili ed i plebei; questi pugnavano per la libertà, quelli per l’imperio. Ciascuna avea i suoi Coriolani ed i suoi Gracchi. Si vedeano ad ogni tratto andar raminghi dall’una all’altra città, quando i plebei, quando i nobili discacciati. I fuoriusciti andavano a rinforzare in altre città il loro partito, il quale, divenuto così potente, scacciava la contraria fazione, e questa ancora portando ad altra città produceva lo stesso effetto. Perpetuo rigurgito che tutta poneva in tumulto l’Italia. Col nome di capitani cominciavano a governare le repubbliche i più potenti cittadini. Così Alberto Scoto Piacenza, il marchese Obizio d’Este Regio di Lombardia, Modena e Ferrara, Matteo Visconti Milano. Già essi erano alla fine del secolo decimoterzo padroni di quelle città. Così in seguito lo furono i Scaligeri in Verona, i Gonzaghi in Mantova, i Carrara in Padova, i Pepoli e Bentivogli in Bologna, i Rossi e Coreggi in Parma, i Beccaria in Pavia. Altro non perdettero queste repubbliche cadendo nel governo di una famiglia che l’abuso della libertà. Cessavano le fazioni.

Il principio del secolo decimoquarto vide una grande scoperta. Parlo della bus­sola. Egli è attribuita a un Amalfitano chiamato Flavio Gioia o Giri. Gl’Inglesi, i Tedeschi ed i Francesi ci disputarono l’onore di tale invenzione. Dispute degne di uomini. Sembra però che non ci si possa contrastare questa scoperta. Flavio Biondo, il Panormitano, l’Ostelio ed altri autori lo attestano. Le nazioni che vi pretendono non possono citare che dei sospetti. Si pone all’anno 1302 questa scoperta.

Non è però che prima di tai tempi non si avesse nessuna idea della forza magnetica, e che di essa non si servissero nella navigazione. Invece della bussola si usava uno spillo di ferro posto al traverso di un pezzo di sughero sopranuotante in una vasca d’acqua. In tal guisa lo spillo si rivolgeva al Nord. Gl’indiani tengono l’istesso metodo anche oggi giorno. Una minima agitazione del mare rendeva inutile questa bussola appunto quand’era più necessaria. L’invenzione consiste in avere sospeso lo stile di ferro su di una punta in equilibrio, ove soffrendo un minimo attritto, quant’è quel piccolissimo vertice sul quale si aggira, è agilissimo al moto. In seguito vi si sottopose la divisione de’ 32 venti. E per rendere affatto insensibili i movimenti del vascello si sospese la bussola in modo che qualunque fosse l’agitazione del mare essa resti sempre orizzontale. Una nuova marina, un vastissimo commercio, la scoperta di un emisfero furono i grandi effetti di uno spillo equilibrato su di un altro.

Gli antichi non ignoravano l’attrazione della calamita, ma non sapevano ch’ella si dirigesse al Settentrione. Plinio non ne fa parola, neppure Claudiano ne’ suoi versi De Magnete.

La presa fatta da’ Saraceni della città di Acri o sia Acone diè fine alla perdita di tutte le conquiste d’Oriente, nè altro rimase di tutte le imprese de’ crocesignati che una funesta ed instrutiva memoria di quanto possa un mal diretto zelo. Il papa Nicolò IV eccitò i principi a riprender la croce. Ma le sfortune di due secoli aveano insegnato che era poco saggia rivoluzione l’abbandonar i propri Stati e rovinarli per ricevere delle sconfitte in Oriente.

Le fazioni guelfa e gibellina erano da pertutto. Penetrarono nel conclave e sospe­sero l’elezione di un papa per due anni. Finì la contesa con eleggere Celestino V, eremita della Terra di Lavoro, uomo troppo semplice per occupare quel grado in tempi ne’ quali le virtù di un eremita non bastavano a sostenerne la grandezza. Il cardinale Gaetano, che avea la principale influenza negli affari, profittando della bontà di Celestino lo indusse a rinunziare al papato.[597] Vincenzo Ferreto storico contemporaneo scrisse[598] che il Cardinal Gaetano, dal buco che avea fatto a tal fine mentre che di notte Celestino faceva orazione, fingendosi un nunzio del cielo gli ordinasse di lasciare gli allettamenti del mondo bugiardo, e di prepararsi a seguire soltanto il Signore.

Celestino abbandonando la tiara credette di rinunziarla al Cielo, e la rinunciò al sagace Cardinal Gaetano che seppe riporsi al suo luogo. Quest’è il celebre Bonifacio VIII. Il deposto Celestino fu da lui messo nella rocca di Tumone nella Campania, ove finì i suoi giorni.[599]

Una delle nuove imprese di Bonifacio fu d’instituire il primo Giubileo l’anno 1300. Vi concorsero tanti pellegrini, che Giovanni Villani, il quale vi andò, dice che continuamente se ne trovavano in Roma dugentomila.[600] Il papa comparve in questa fonzione vestito di manto imperiale colla divisa Ecce duo gladii hic. Gulielmo Ventura scrisse: «Papa innumerabilem pecuniam recepit, quia de die ac nocte duo clerici stabant ad altare Sancti Pauli tenentes in eorum manibus restellos, restellantes pecuniam infinitam».[601]

Il Regno di Sicilia posseduto da D. Federigo avea su di lui rivolti i pensieri di Bonifacio. Lo dichiarò deposto da quegli Stati.

Carlo II conservava tuttavia il titolo di re della Sicilia, ma non pareva a Bonifacio un principe atto a conquistarla. Carlo Senza Terra, fratello del re di Francia Filippo il Bello, fu colui che scelse a tale impresa. La speranza di esser fatto re de’ Romani dopo la deposizione di Alberto austriaco, lo che era fra i progetti del papa, e di esser fatto altresì imperator di Costantinopoli, resero ubbidiente quel principe. Venne in Italia, baciò i piedi di Bonifacio in Anagni. Fu primamente da lui spedito a Firenze col titolo di paciere, ma realmente per reprimere il partito de’ bianchi, ossia gibellini, a’ quali fu tolto il governo, e dato ai guelfi che in quella città si chiamavano i neri.[602] Il papa spedì colà il cardinale di Acqua Sparta perchè sedasse i disordini eccitativi da Carlo. Finì la sua commissione scomunicando bianchi e neri, e poi se ne ritornò. Da Firenze inviossi Carlo con D. Federigo, e sì male corrispose alle speranze del papa, che si disse comunemente in Italia: «Messer Carlo venne in Italia per paciaro, e lasciolla in guerra; ed andonne in Cicilia per guerra fare e reconne vergognosa pace».[603] Ciò tanto dispiacque a Bonifacio, che, passando esso Carlo Senza Terra da Roma per ritornarsene in Francia, lo colmò di rimproveri, e talmente lo irritò che stava quasi per uccidere il papa.[604]

Lo sdegno e l’amicizia di Bonifacio duravano non più che gli attuali bisogni. Filippo il Bello pretendeva di esigere le rendite de’ beni ecclesiastici vacanti. Il papa avea citato a venire in Roma tutto il clero di Francia perchè ivi giudicasse il suo re. Filippo proibì che nessun vescovo potesse andarvi. In tali turbolenze ritrovò Bonifacio che gli era utile non mostrarsi più nemico del re di Sicilia e dell’imperatore. Perciò non si oppose alla pace fatta da Carlo con Federigo, e riconoscendo Alberto per legittimo imperatore fece lega con lui. Il re di Francia fu scomunicato dal papa perchè avesse promulgata una legge proibente l’estrazione del danaro fuori de’ suoi Stati. Ella tendeva a privar la corte dei Roma de’ soliti proventi. Legge in vari tempi fatta da tutti i governi d’Europa, inutile senza scomunicare il legislatore. Aggiunse il papa minacce a Filippo di deporlo, e nuove scomuniche, ed il re a sua volta pubblicò di tener Bonifacio per simoniaco, eretico, incoreggibile, ed appellò al futuro concilio. La lega di Alberto col papa diede l’ultima esca all’ire del re di Francia. Pubblicò contro di lui ventinove capi di accusa dichiarando che Bonifacio non credeva esser l’anima immor­tale, esser presente Gesù Cristo nell’ostia consacrata, esser la fornicazione un peccato, trattandolo da stregone, eretico, simoniaco. Al che rispondendo Bonifacio fu liberale di censure, quanto il suo nemico lo era stato d’ingiurie. Assolse i sudditi dal giura­mento di fedeltà, sostenendo che il Regno di Francia dipendeva dalla Santa Sede. Così in faccia di tutta l’Europa rapivansi l’un l’altro lo scettro e la tiara.

Lo spirito di partito fece prendere al re di Francia mezzi non degni della sua grandezza per vincere il papa. Spedì segretamente in Italia un emissario, Guglielmo da Nogareto, con un fiorentino chiamato Messer Musciato de’ Francesi.[605] Gulielmo, tratti nella sua fazione molti de’ primi signori, e taluni ancor de’ cardinali, sorprese il papa in Anagni. Vi entrarono i congiurati colle insegne del re di Francia, gridando: «Viva il re di Francia, e muoia papa Bonifacio». Egli stava appunto sul pubblicare una bolla contro del re, nella quale diceva che come vicario di Cristo ha la podestà di governare i principi colla verga di ferro, e di romperli come vasi di terra. Aggiungendo l’assoluzione dal giuramento di fedeltà, anzi, la scomunica a chi ubbidiva Filippo.[606]

Il papa, poichè i congiurati entrarono nel suo palazzo, vestissi de’ solenni abiti pontificali colla tiara in capo, la croce in mano, su di una sedia aspettandoli. I senatori romani così aveano accolti i Galli. Gulielmo da Nogareto disse al papa di non esser venuto per torgli la vita, ma per condurlo a Lione, dove si terrebbe un concilio generale, nel quale si discolperebbe delle accuse pubblicate contro di lui. Sciarra Colonna, uno de’ congiurati, si ricordò di esser stato scomunicato da Bonifacio, lo ricolmò di derisioni e di minacce. Volle sforzarlo a dimettere il pontificato, ma lo trovò più disposto a morire che a cedere. Durò tal scena tre giorni, ne’ quali il papa non prese cibo per timore di veleno, a capo de’ quali il popolo di Anagni, mosso dal cardinale Luca di Fiesco, lo liberò dalle mani de’ congiurati. Ma il papa cadde in quelle de’ non meno suoi nemici Matteo e Giacomo cardinali Orsini, che lo chiusero nel Vaticano pubblicando ch’era divenuto pazzo.[607] Poco dopo Bonifacio morì, celebre per aver tentate grandi cose infelicemente. Principe il quale, s’ebbe delle idee di violenza non conformi al pacifico sacerdozio, ebbe però una robustezza di animo a cui laude può negarsi, non ammirazione. Tutto ciò ch’è grande ha diritto d’ottenerla.

Benedetto XI in otto mesi di pontificato estinse quanto potè gl’incendi mossi dal suo predecessore. Se scomunicò Guglielmo da Nogareto e’ suoi compagni, fece quan­to il più tranquillo de’ papi avrebbe fatto. Mitigò molte costituzioni di Bonifacio, e quelle ancora che spettavano al re di Francia dettate più dal zelo che dalla previdenza.

Firenze era una città destinata ad esser scomunicata tutte le volte che per pacifi­carla vi si spediva un legato. Il cardinale Nicolò da Prato, scelto dal papa a tale incombenza, pose all’interdetto quella città, nè l’interdetto tolse le fazioni.[608] Mentre che quel cardinale era in Firenze, fu rappresentato uno spettacolo proprio della barbarie de’ suoi tempi. Si sparse voce che chi volea nuove dell’altro mondo ne avrebbe avute il primo di Maggio. «In quel giorno ordinarono in Arno (sono parole del Villani)[609] sopra barche e navicelli palchi, e fecionvi la somiglianza e la figura dell’inferno, con fuochi ed altre pene e martori, con uomini contrafatti a demonio, orribili a vedere, ed altri i quali avean figure d’anime ignude. E mettevangli in que’ diversi tormenti con grandissime grida e strida e tempeste, la quale parea odiosa cosa, e spaventevole ad udire e vedere». Tali erano i nostri spettacoli. Ne’ teatri si rappre­sentavano de’ drammi sacri. I misteri della passione di Gesù Cristo ed i Novissimi n’erano la materia. Destinati alla venerazione, erano divenuti il soggetto di profano lusso. Egli è il primo che vede una superstiziosa e barbara nazione. Ad autori tragici che non conoscevano nè i tasti dilicati delle passioni, nè la nobilità de’ sentimenti, nè la storia, non si offriva altro soggetto di pianto che quello de’ predicatori. I spettacoli son sempre conformi ai costumi. Le giostre ed i tornei, le corti bandite (feste pubbliche piene di strepiti e di bagordi, che davano i principi) erano i nostri divertimenti.

Filippo il Bello volea un papa che distruggesse non solo quanto avea fabbricato l’intraprendenza di Bonifacio, ma che lo rendesse sicuro da simile coraggio anco in avvenire. Lo ritrovò in Bertrando del Porto, vescovo di Bordeaux, ch’ebbe il nome di Clemente V. Molti dibattimenti vi furono nel conclave tenuto a Perugia.[610] Il partito de’ guelfi volea un papa italiano. Filippo un Francese, ed in lui un pupillo. Vinse chi avea più mezzi per vincere. Il re di Francia abboccossi con Bertrando, gli esebì il pontificato purchè sottoscrivesse quelle condizioni ch’ei ritrovava necessarie nelle sue circostanze. Esse erano: il perdono della impresa di Anagni, l’assoluzione delle scomu­niche, le decime del Regno di Francia per cinque anni, l’abolimento della memoria di Bonifacio, la restituzione al cardinalato di Giacomo e Pietro Colonna, il fare alcuni altri cardinali che gli proporrebbe, la distruzione dell’ordine de’ Templiari, il tra­sporto della Santa Sede in Francia. Queste due ultime condizioni non furono dichia­rate. Il re se n’era riservate di segrete. Gli seguenti avvenimenti persuasero che fossero codeste. Bertrando nulla negò a Filippo. Giurò le promesse sull’ostia consacrata, die’ in ostaggio un suo fratello e due suoi nipoti. Appena scelto, chiamò in Francia i cardinali, e stabilì la sede pontificia in Avignone, dov’ella dimorò settant’anni, posta dal re francese ne’ suoi Stati per averla in tutela. Tal fu l’esito del zelo di Bonifacio verso del re di Francia, meno fortunato di quello di Gregorio VII e’ suoi seguaci contro degl’imperatori. Con questi divennero potenti i pontefici colle coraggiose intraprese: il re di Francia ruinò la loro grandezza la prima volta che lo trattarono come un imperatore. Un regno di successione, un regno potente, che non ricevea la corona dal pontefice avea un gran vantaggio su l’impero germanico i di cui principi ottenevano da’ papi la corona e regnavano fra i torbidi delle guerre intestine prodotte dalle lezioni di una dieta tumultuante.

Fu Clemente fedele alle sue promesse. Creò immantinente dieci cardinali francesi, annullò le pretensioni di Bonifacio sul Regno di Francia, ricevette le fattegli accuse di eresia.[611]

Queste accuse furono poco dopo ritrattate nel Concilio di Vienna nel Delfinato, in cui fu dichiarata pura la credenza di Bonifacio. Due cavalieri catalani si esebirono in quel concilio di provarla col duello, «per la qual cosa il re e’ suoi rimasero confusi», come dice Giovanni Villani.[612] Questi erano i sillogismi del secolo. Fu un gran colpo che tentò Filippo, cercando di far condannare come un eretico un papa suo gran nemico.

Clemente riscosse, in conformità de’ suoi giuramenti, tante decime su’ beni ecclesiastici, che il re Filippo istesso, per calmare i sussurri del clero francese, dovette far cessare questi violenti tributi ai quali non era avezzo. Il pretesto di tali contribuzioni era la conquista del greco impero e di Terra Santa; ma altra impresa non si fe’ che togliersi da’ cavalieri Ospitalieri Rodi ai Turchi in quattro anni d’assedio.

Una volta gl’imperatori venivano in Italia per sedarvi le fazioni. Finivano, per lo più, con l’irritarle. L’istesso ora avveniva dei legati pontifici, a’ quali si rimetteva questa difficile e sempre sfortunata impresa. Le città della Toscana e della Lombardia erano involte ne’ tumulti del loro incerto sistema. Clemente inviò come paciere il cardinale Napoleone degli Orsini, che, al par degli altri, scomunicò guelfi e gibellini, lasciando gli affari come gli aveva ritrovati. Finì la sua spedizione coll’essere scacciato da Bologna a furor di popolo,[613] ammazzati alcuni del suo seguito e saccheggiato il suo bagaglio. Fuggito ad Imola, di là ebbe miglior agio di scomunicare i Bolognesi e di scomunicare altresì chi v’andasse a studiare. Quest’interdetto rovinò l’Università. Quasi tutti i scolari, che tal volta ascendevano al numero di diecimila, passarono a Padova. Esebì di poi il legato a’ Fiorentini di assolvergli dalla scomunica, al che risposero di non aver bisogno di sue benedizioni.

L’abolizione de’ cavalieri Templiari rende funesta la memoria di questi tempi. Filippo decretò il macello di quest’infelici, non d’altro rei che d’esser ricchi.[614] Lo stesso delitto avea trovato negli Ebrei, che spogliò de’ beni e scacciò. Il Gran Mastro e moltissimi di que’ cavalieri che ascendevano al numero di quindeci mila[615] furono abbruciati vivi ed in varie guise suppliziati, nè altre voci proferivano i moribondi che d’esser innocenti. Non mancò taluno che dicesse giustissima questa carnificina, onde abbiano tutt’i gran delitti o l’adulazione che approvi, o l’ignoranza che difenda. D’idolatria, di grandi scostumatezze erano resi rei. Strani pretesti della tirannia.

Giannone[616] rapporta un passo del giurisconsulto napolitano Alberico da Rosate nel quale attesta d’aver inteso egli stesso da un notaro, ch’ebbe parte in que’ processi, come Clemente gli dicesse che se l’ordine de’ Templiari: «per viam iustitiae non potest destrui, destruatur tamen per viam expedientiae ne scandelizetur charus filius noster rex Franciae».

La città di Ferrara, dopo la morte del marchese Azone d’Este, era disputata fra suo fratello Francesco e suo figlio bastardo Fresco. Clemente V, profittando di queste dissensioni, se ne impadronì. I Veneziani corsero alla preda. Discacciarono le truppe del papa. Clemente vendicò i suoi diritti con una bolla[617] nella quale dichiarò infami tutti i Veneziani, incapaci i lor figliuoli di succedere sino alla quarta generazione, inabilitati ad alcuna dignità laica od ecclesiastica, confiscati i loro beni in ogni parte del mondo, dando la facoltà ad ognuno di far schiavo qualunque di loro, proibendo a tutti di far commercio con essi. Scrisse in conseguenza ai re di Sicilia, di Spagna, di Francia, di Inghilterra di confiscare i beni de’ Veneziani che si trovassero ne’ loro Stati. In alcune parti fu ubbidita la bolla. Si depredarono le sostanze di questi scomu­nicati, si riposero in servitù le loro persone. Il papa inviò quindi in Italia il cardinale Arnaldo di Pelagrua, che pubblicò la crociata contro de’ Veneziani. Numeroso fu il concorso de’ divoti. Ferrara fu tolta ad un popolo cristiano cogli stessi mezzi co’ quali i santi luoghi furono tolti ai Saraceni. Il Cardinal legato non trascurò di far appiccare quanti Ferraresi trovò complici de’ Veneziani. Collo sborso poi di centomila fiorini d’oro a Clemente si fecero discomunicare. La città di Ferrara fu data a livello a Roberto re di Napoli.

Quale era lo spirito di letteratura in questi tempi? Il famoso Ruggiero Bacone francescano inglese, il primo che interrogasse la natura, fu acusato di magia, gli si proibì di scrivere contro di Aristotele, fu messo in prigione dal generale dell’ordine e perseguitato, come il suo merito esigeva, così crudelmente.

Pietro d’Abano, terra del Padovano, il filosofo, medico e letterato maggiore che in Italia vivesse, era accusato di eresia e di sortilegi; si diceva che avea acquistate le sue cognizioni da sette spiriti che teneva chiusi in un cristallo. Fu messo nella Inquisizione vecchio, quasi settuagenario, ove morì. Nello stesso tempo che questi due grandi uomini placavano l’irata ignoranza colle loro sfortune, Egidio Colonna romano, famoso teologo agostiniano, era precettore del re di Francia Filippo il Bello, era arcivescovo di Bourges, avea premi e pensioni, era onorato come il primo uomo del suo secolo, si chiamava il dottore fondatissimo per avere impastati alcuni volumi di scolastica ed arabica dialettica, che si posson certo lodare, se così piaccia, ma non leggere.

Capo XXII. Guerre fra l’imperator Enrico VII, Roberto re di Napoli e Federico re di Sicilia. Parte che v’ebbero i papi Clemente V e Giovanni XXII. I gibellini lombardi chiamano in Italia Lodovico il Bavaro. Disprezzi delle scomuniche. Della lingua volgare. Princìpi della coltura. Costumi.

Alberico austriaco re de’ Romani era già perito per mano di Giovanni suo nipote che lo assassinò. Arrigo VII, conte di Lussemburgo, era imperatore. Roberto figlio di Carlo II era re di Napoli, Federigo della Sicilia. Il papa Clemente V tutti temeva. Risguardava Arrigo come un capo de’ gibellini, che stava per venire in Italia. Il re di Napoli potea tutto con lui, perchè lo avea ne’ suoi Stati di Provenza. Lo tenea in Avignone con utilissima ospitalità. Era arbitro di quella corte. In tale situazione Roberto non ebbe difficoltà d’avere dal papa il vicariato della Romagna, ove mandò i propri ministri.[618]

Federigo essendo nemico del re di Napoli lo era anche del papa, oltre di che occupava la Sicilia senza investitura della Santa Sede.

Arrigo venne in Italia per sedarvi le fazioni, ma il suo arrivo le accrebbe. Il re di Napoli per opporsi a lui partì dalla Provenza. Due tanti rivali rinforzarono i partiti guelfo e ghibellino. Ciascuno appoggiato alla potenza del suo capo si sentiva atto a resistere. Il re Roberto volea conservare i suoi Stati d’Italia conquistati dal valore de’ suoi maggiori. Arrigo rivendicava i diritti dell’impero, i quali non si faceano rimontar meno che ad Augusto. Si guardavano gl’imperatori come di lui successori.

Arrigo veniva a portar pace e fu coronato in Roma fra lo strepito dell’armi. Volle sedare i tumulti delle città, fece rientrare in esse i fuoriusciti sia guelfi sia gibellini, ed in alcune pose un vicario imperiale. Nulla v’era di costante in questi regolamenti. Il continuo e violento moto della Lombardia, della Toscana e del Piemonte non lasciava tempo alla pacifica politica di fare un sistema. I gran disordini non han bisogno del dispotismo.

Arrigo credette di combattere più utilmente il re di Napoli colle penne de’ suoi giurisconsulti che coll’armi. Lo fece processare dichiarandolo pubblico nemico, traditore, usurpatore delle terre del romano impero, proferendo contro di lui la definitiva sentenza di morte. La sentenza in succinto era in tal guisa:[619] «L’alunno della malvagità, della perdizione Roberto, che si dice re di Napoli, impinguato colla grascia del romano imperio dovrebbe umilmente ubbidire, ma egli vomitando la marcia della iniquità, invece di fede, ci presta odi, fraudi, inganni con detestabil vizio d’ingratitudine, ed indurendo la sua perversità contro i stimoli non lascia di ricalcitrare, e gonfio di nefanda superbia proccura di alzar la sua sede nell’Aquilone. Ora vedendo noi com’esso re Roberto sordo quant’un’aspide ai nostri comandi non teme nè le leggi, nè l’imperial maestà, ma sempre più divenga di cervice durissima, lo spogliamo del suo grado come reo di lesa maestà, così ancora di tutte le dignità che gli sono annesse; lo bandiamo da tutto l’impero, lo condanniamo al taglio della testa se verrà ne’ Stati nostri. Perciò sarà lecito a chi che sia d’impunemente offendere tanto i beni che le persone de’ suoi partigiani ed ubbidienti. Proibiamo ancora ai debitori di esso Rober­to di pagarlo sotto pena di pagare un’altra volta alla camera nostra imperiale. Assol­viamo i suoi feudatari e vassalli dalla fedeltà ed ubbidienza che gli hanno promessa». Che l’imperatore guardasse al suo nemico come reo non è strano; lo è bensì che alla testa di un’armata lo condannasse a morte colle formole giudiziarie. Il papa Clemente stava dubbioso in mezzo di così grandi contendenti. L’imperatore lo indusse a fare delle bolle in suo favore. Filippo il Bello lo seppe, e mandò al papa quegli stessi emissari che lo aveano servito per Bonifacio VIII. Andarono nella Cancelleria dove trovarono le bolle. Le presero, le portarono al papa gettandogliele con disprezzo ai piedi, uno di loro disse: «Sono queste le rimunerazioni che voi date a colui i di cui antenati con molta effusione di sangue difesero la Chiesa da’ pericoli e dalle ingiurie? E voi in ricompensa proteggete i nemici di chi vi ha tanto beneficiato? Perchè non imparaste dalle vicende nelle quali fu tratto Bonifacio dalla sua ostinazione? Certo se gli esempli altrui non v’instruiscono, instruirete voi gli altri col proprio?».[620] Dopo di che obbligarono il papa a fare una bolla in cui proibiva all’imperatore di muover l’armi contro del re Roberto.

La morte di re Arrigo finì di rendere inutili le bolle pontificie. Vi fu una comu­nissima diceria in tutta l’Europa, che fosse stato avvelenato da un dominicano nell’o­stia consacrata. Alberto Mussato, Guglielmo Ventura, Ferreto Vicentino, Giovanni da Cermenate, Tolomeo da Lucca, autori tutti contemporanei, scrissero ch’egli morì di morte naturale. Ferreto aggiunge che un Tedesco fu autore di tal voce, e che Giovanni re di Boemia figlio dello stesso Arrigo fece un autentico attestato, che tal fama era falsa. Lo storico imparziale accorcia con piacere il lungo catalogo degli umani delitti, nè v’ha per lui scoperta più grata che ritrovar insusistenti queste voci ingiuriose alla religione e alla umanità. Arrigo fu sepolto nel duomo di Pisa.

La morte inaspettata dell’imperatore tolse ogni ostacolo alle imprese di Filippo il Bello e di Roberto re di Napoli, divenuti potenti sostenitori del guelfo partito. Non è già ch’esser guelfo volesse dire che fossero partigiani della rovinosa nostra libertà. Ciò poco loro importava; cercavano di comandare in Italia e di deprimervi l’imperio.

Il papa Clemente V era destinato ad esser l’esecutore de’ progetti di questi due principi. Era un gran triumvirato a cui non mancava potenza e venerazione. Gli fecero pubblicare[621] due bolle che annullavano la sentenza dell’imperatore contro di Roberto. Dichiarò il papa in una di queste che i giuramenti che solevano prestare gl’imperatori quando s’incoronavano erano giuramenti di vassallaggio, ed usava queste espressioni: «Noi tanto in virtù della superiorità che abbiamo senza dubbio sull’imperio, quanto in virtù di quel potere nel quale vacante l’imperio succediamo all’imperatore, e secondo quella pienezza di podestà che Cristo Re dei re e Signor de’ signori concesse a noi, benchè immeritevoli, nella persona del B. Pietro, dichiariamo del tutto nulla ed illegittima la sentenza e tutti i processi». Sembrano queste pretensioni fuor di tempo, mentre che il papa era sotto la protezione altrui: ma non lo erano per il re Roberto, che con tai princìpi si fece creare dal papa vicario dell’impero in tutta l’Italia,[622] e senatore di Roma. In tanto si disputavano il Regno di Germania Lodovico il Bavaro e Federigo d’Austria, scelti tutti due dalle fazioni della Dieta.

Alla morte del papa Clemente accade quella disputa, che ognuno si dovea aspettare. Gl’Italiani voleano uno della loro nazione, e così ancora i Francesi. Ventitrè erano i cardinali nel conclave tenuto a Carpentrasso, fra’ quali sei soli italiani. I Francesi con uomini armati appiccarono il fuoco in più luoghi di quella città ed alle case de’ cardinali italiani, e li fecero fuggir dal conclave. Finalmente in Lione fu scelto Jacopo d’Ossa da Cahors, cardinale vescovo di Porto, che prese il nome di Giovanni XXII. I nostri storici dissero molto male di Clemente V. Forse i suoi delitti non erano altri che di avere impoverito il clero italiano col trasportare in Francia la Santa Sede.

Giovanni dovea a Roberto la sua fortuna ed il pontificato.[623] Quel re avea fatto in guisa che fosse papa un uomo il quale immitasse la docilità di Clemente. Il primo uso che fece di lui fu d’interporlo nelle sue contese con Federigo re di Sicilia sotto apparenza di metter pace. Federigo ascoltò le insinuazioni del papa il quale lo indusse a consegnarli in deposito le città di Reggio ed altri luoghi della Calabria che possedeva. Dopo che il papa tanto ottenne dalla buona fede di Federigo, ruppe ogni trattato e diede a Roberto questi luoghi.[624] Il re di Sicilia tentò di rivendicarli coll’armi. Fu scomunicato.

Le fazioni guelfe e gibelline erano state zuffe, ora divennivano guerre. Finchè i papi furono capi del guelfo partito la maggior sua forza consisteva negl’interdetti. In tai tempi il primo guelfo era un re di Napoli e duca di Provenza, che avea ne’ suoi Stati il papa. Altronde i gibellini non erano più i deboli che implorassero la protezione dell’impero, ma bensì coloro che dalla fortuna o dagl’imperatori erano stati fatti potenti in Italia. A questi era molesta la grandezza di Roberto, ed ogni rivoluzione. Matteo Visconte detto il Magno avea ottenuto da Arrigo VII di essere signor di Milano col titolo di vicario imperiale. Pavia, Piacenza, Novara, Alessandria, Tortona, Como, Lodi, Bergamo ed altre terre ch’egli possedeva lo ponevano in istato di contendere con Roberto. Le città che voleano sostennersi nel loro partito altro mezzo non aveano che di scegliersi un valido protettore. Così Genova si diede a Roberto e Firenze al suo figlio Carlo, ciascuna per dieci anni. La dedizione di Genova importò l’assedio de’ fuorusciti condotti da Marco Visconte figlio di Matteo. Ei sfidò a duello il re Roberto, che trovò comodo di dichiararsi offeso da tale invito. Famoso è nella nostra istoria questo assedio, che da alcuni fu paragonato a quello di Troia, ed ambi forse ebber ciò di comune, di dovere tanta celebrità alla voglia di ingrandire le proprie cose.

Il seggio del gibellino era la Lombardia. Contro di lei si rivolse Roberto. Già la storia avea insegnato che si poteva meritar la scomunica con esser gibellino, ora fu nuovo il vedere che si chiamava tal partito eretico. Matteo Visconte ed i suoi figli[625] furono processati come eretici, e fu pubblicata la crociata contro di essi: «A religiosis viris praedicabatur (dice Bonincontro Morigia) [626] quod dantibus consilium et favorem Mediolanensibus erat maledictio animae et corporis, et praestantibus auxilium illis qui missi erant a pontefice erat absolutio poenae et culpae». Cane della Scala signor di Verona, Paserino signor di Mantova, il marchese d’Este signor di Ferrara[627] ed altri rei di gibellinismo ebbero lo stesso trattamento.

Il legato pontificio cardinale Beltrando del Poggetto maledì sollennemente dalla parte di Dio questi pretesi eretici, dichiarò confiscati i loro beni, cadute in ischiavitù le loro persone, concesse ampie indulgenze di tutti i peccati a chi avesse la pietà di ucciderli. I Visconti, più forti onde più colpevoli, furono condannati ad essere abbru­ciati vivi come eretici, scismatici e saraceni, se si fossero potuti avere.[628]

I Visconti, ridotti agli estremi da così grandi tumulti, implorarono il soccorso di Lodovico il Bavaro.[629] Ciò bastò perchè l’imperatore meritasse dal papa Giovanni una bolla in cui veniva scomunicato,[630] proibito ad ogni fedele di prestargli ubbidienza, e data l’indulgenza plenaria a chi prendeva l’armi contro di lui, per essersi chiamato re de’ Romani senza l’approvazione della Santa Sede, per essersi intromesso nel governo dell’imperio vacante, per avere dato soccorso ai Visconti eretici e nemici della Chiesa. Crederebbesi, vedendo le imprese di Giovanni, essere ritornati i tempi di Gregorio VII e IX, ma ciò provava l’opposto. Sì grandi imprese erano prodotte da una grande ubbidienza. L’Italia intanto mezzo scomunicata ardeva di guerra. Le carceri erano piene di prigionieri, e si era introdotto il barbaro costume di fargli morire di fame. Così perì il conte Ugolino fatto degno delle lagrime de’ posteri da’ versi di Dante, il di cui passo molto noto è uno di quelli che abbia resa immortale la sublime e strana sua commedia.

Le bolle non ritennero Lodovico di venire al soccorso de’ Lombardi. Arrivato a Trento dichiarò in un congresso de’ principali gibellini il papa Giovanni eretico ed indegno del pontificato. In disprezzo delle scomuniche faceva continuamente celebrare in sua presenza gli sacri offizi, e controscomunicava indefessamente il papa a cui dava il nome di Prete Giovanni.[631] Fu sorprendente vedere come Lodovico venne in soccorso de’ Lombardi, e giunto a Milano facesse imprigionare[632] nel castello di Monza, distante dieci miglia da quella città, il maggiore de’ suoi partigiani Galeazzo Visconte ed i suoi figli, ove per un anno furono trattenuti. Comprarono poi il vicariato de’ loro Stati dall’imperatore. Ciò forse spiega queste contraddizioni. Gl’istessi mezzi d’accumular danaro tenne Lodovico con Silvestro de’ Gatti, signor di Viterbo.[633] L’imperatore si trovava senza errario. Col pretesto che Silvestro fosse partigiano del re di Napoli, gli confiscò i suoi Stati e lo fece torturare, perchè palesasse dove teneva i danari. Trentamila fiorini riscosse in tal guisa da quel infelice suo protetto. Andò di poi a Roma dove si fece incoronare imperatore. Creò suo vicario di quella città Castruccio signor di Lucca, non meno celebre per la penna di Machiavello che per le sue gesta. Portava Castruccio in quella fonzione una vesta di seta cremesi con ricamate in oro avanti il petto le parole: «È quello che Dio vuole», ed alle spalle: «Sarà quello che Dio vorrà». Vi è un non so che di follia e di prodezza in tai costumi. L’imperatore nella piazza di S. Pietro tenne una solenne dieta[634] nella quale confermò le accuse di eresia del papa, dichiarandolo eziandio reo di lesa maestà, deceduto dal pontificato come Anticristo mistico e precursore dell’Anticristo. Fu scelto in sua vece fra Pietro da Corvara, che prese il nome di Nicolò V.

Giacomo Colonna venne a Roma quattro giorni dopo la pubblicazione di tal sentenza, e nella piazza di S. Marcello alla presenza di molto popolo ebbe il coraggio di affiggere una bolla contro dell’imperatore, e di protestare ch’egli si opponeva a quanto avea fatto il Bavaro, tenendo Giovanni per legittimo papa e l’imperatore per decaduto e scomunicato, esibendosi a provare tutto ciò in duello.[635] Fece con suo comodo una lunga declamazione contro dell’imperatore, poi attaccò di sua mano la bolla alle porte di S. Marcello e se ne partì. Poichè giunse tal notizia all’imperatore, gli fece correr dietro de’ soldati, ma inutilmente.

Quando l’imperatore venne in Roma, ciascuno gridava: «Gloria in excelsis Deo, e dello grande imperatore: sumus liberi a peste, fame et bello, et a tirannidde ponti­ficia liberati siamo popolo mio».[636] Partì accompagnato dal suo antipapa e dalle fischiate. Il popolo gli trattava da eretici e da scomunicati, ed esclamava contro di loro: «Muoiano, muoiano, e viva la Santa Sede»: le sassate accompagnavano i gridi. Alcuni del seguito dell’imperatore furono uccisi. Arrivò a segno il fanatismo, che per fino i fanciulli correvano a’ cimeteri a disotterrare i cadaveri de’ Tedeschi e de’ partigiani di Lodovico, strascinavanli per la città, gittavanli nel Tevere.[637]

L’aver creato un antipapa ed ingiuriato il papa non recava gran vantaggio a’ gibellini. La prigionia, poi, de’ Visconti, vicari imperiali di Milano, avea sdegnati gli animi. Nulla avea fatto Lodovico contro de’ guelfi, molto a danno de’ gibellini da’ quali estorse gravissime contribuzioni, rovinandoli per difenderli. Onde, al par delle altre, anche questa venuta dell’imperatore altro effetto non produsse che di ritornar­sene in Germania coll’esercito rovinato, lasciando egualmente malcontenti gli amici che gl’inimici. L’antipapa Nicolò, rifugiatosi a Pisa, fu inviato da’ suoi ospiti ad Avignone in regalo a Giovanni, ove pubblicamente abiurò avanti di lui il suo scisma, ed in carcere morì.

V’erano molti frati minori, i quali predicavano che papa Giovanni era eretico, scomunicato, deposto, omicida. Essi erano suoi nemici perchè non avea ascoltate delle lepide questioni che allora bollivano intorno la riforma del loro instituto. Fra Michele da Cesena era il capo di questa fazione. Egli co’ suoi seguaci pretendeva che fosse stata corotta la Regola di S. Francesco. Volevano che l’abito fosse più corto, che non si potesse tenere ne’ conventi vino, grano ed altri comestibili, perchè dicevano che non esser loro permesso di possedere alcuna cosa. Che però aveano bensì l’uso di ciò che mangiavano, ma non la proprietà. Distinzione importante. Si posero questi partigiani di Michele, che si chiamavano gli spirituali, a portare un abito più stretto e corto, ed un più piccolo capuccio. Fu agitata disputa così sublime con gran calore. Seguirono delle guerre civili ne’ conventi. Il papa condannò questi riformatori, quattro de’ quali piuttosto che allargare il capuccio e allungare il vestito si lasciarono bruciar vivi dalla Inquisizione in Marsiglia.

La frequenza delle scomuniche le avea diminuite di forza. I laici introdussero il costume di controscomunicare gli ecclesiastici con accendere in tal fonzione per disprezzo in vece di candele de’ fasci di paglia e dei tizzoni. Questo abuso è ripreso nel canone VII del Concilio di Avignone tenuto dal papa Giovanni XXII. Sembra strano che si punisse il disprezzo delle scomuniche nato dalla loro profusione colla scomunica istessa. Tal pena fu imposta in quel canone. D’altra parte gli ecclesiastici, vedendo che gli scomunicati non si curavano gran fatto di farsi assolvere, gettavano delle sassate contro le case degl’impenitenti, chiamandoli maledetti satanassi, Satan, Abiron e con altri esorcismi. Si faceva tal volta venire un sacerdote vestito cogli abiti funerei, e con una bara come per seppellire l’ostinato. Anche tal costume si riprese in quel concilio.[638] Si stabilì[639] che i laici dovessero pagare cinque soldi viennesi, i chierici dieci, i preti quindeci al mese, finchè non si facessero assolvere dalla scomunica.

Il principio del secolo decimo quarto fu l’aurora della nostra coltura. Molti illustri ingegni cominciavano a farla risorgere dall’ultima abbiezione nella quale era stata fin allora sepolta. Reca meraviglia come sorgessero fra gente barbara un Dante, un Petrar­ca ed un Boccaccio, e che pareggiassero gli scrittori del secolo d’Augusto senza essere stati preceduti da uomini mediocri. Sembrerebbe trasgredita la legge di continuità colla quale pare che progredisca l’ingegno umano, se non si rifletta che i maestri di questi uomini non erano i loro padri ma gli antichi, alla lettura ed alla imitazion de’ quali si rivolsero.

È stato detto che la coltura comincia sempre dalla poesia. Niente di più vero. L’uomo vede prima gli oggetti, poi gli conosce: sente, e poi ragiona. Quest’è la traccia dell’umano spirito. La lingua latina passata al traverso della longobarda, della franca e della germanica, e di cento nazioni che ci desolarono, si era vestita delle loro spoglie. N’era nata una altra lingua, la quale, perchè dal volgo adoperata, chiamossi volgare. Finchè questa volgare favella fu un informe misto di molte altre, e finchè fu nelle sue rivoluzioni, la sdegnarono gli scrittori, contentandosi di scrivere in barbaro latino. Ma poichè si vide come il tempo e l’uso, tiranni delle lingue, avevano data una consistenza alla volgare, e ch’era atta ad esprimere le idee ancor più dell’antico corrotto linguaggio di un popolo d’altro governo, d’altri costumi, e perciò d’altre idee, cominciarono gli scrittori ad adoperarla.

I Provenzali avevano dopo il secolo milesimo cominciato a scrivere nel loro dialetto. I primi loro componimenti furono canzonette amorose, delle quali copia infinita ne composero, sino alla metà del secolo decimoterzo. È noto quanti di questi poeti innamorati avesse quel Paese in tale intervallo di tempo. In Italia furono letti e stimatissimi. Prima di tutto i Siciliani, poi i Toscani seguirono le loro tracce, onde ne sorsero nei princìpi del secolo decimoquarto tanti dogliosi poeti in Italia, il patetico piangistero de’ quali per la sola loro multitudine non ignora la posterità. Non è bisogno di dire che, essendo infiniti, erano mediocri.

Sarebbe poco ragionevole impresa il ricercare quando la lingua volgare si for­masse. Chi può fissar epoche dove non vi sono? Si cangiano le lingue con insensibili mutazioni.

Dante Alinghieri fiorentino fu uno de’ primi che conosciamo, che scrivesse in lingua volgare. Fioriva al principio del secolo decimoquarto. Petrarca e Boccaccio, contemporanei, erano giovanetti quand’egli era agli ultimi anni di sua vita.

Benchè la volgar lingua fosse quella ch’era in bocca di tutti, pure troviamo che le prediche si facevano in latino. Tai sono quelle de’ santi Francesco ed Antonio, poi del S. Bernardino e del frate Gabriele Barletta, che vissero nel secolo decimoquinto. Così pure Petrarca scriveva comunemente le lettere a’ suoi congiunti in latino, e S. Pietro Damiano alle sue sorelle ed alle monache. Il signor Muratori non sa trovar la spiega­zione di ciò. Pure non è strano che vi sieno due lingue, una de’ colti e l’altra del volgo. Ciò accade in ogni nazione. Ogni venti miglia si muta lingua in Italia, eppure il toscano è inteso comunemente. Il dialetto genovese, siciliano, milanese sono tanto differenti dalla lingua italiana quanto lo era in que’ tempi il volgare dal latino. Eppure le lettere e le prediche si scrivono e si dicono in toscano. Non è ancora strano che in una nazione che passa dall’una all’altra lingua le conosca tutte due, e conservi lungo tempo il loro vicendevole uso. In Alsazia si parla comunemente il francese ed il tedesco. In Ongheria il latino e l’ongherese, in molte parti della Germania il tedesco e lo slavo. Non sono nuovi tai prodigi.

Trovo che i cronisti di questo e de’ seguenti secoli scrivevano in una lingua che si rassomiglia all’odierno veneziano, e molto di più ancora partecipa del napolitano. Forse queste due regioni non provarono tanti cangiamenti nella vernacola lor favella, perchè meno delle altre d’Italia furono miste con straniere genti.

Abbiamo nelle montagne del Veronese, del Vicentino e del Trentino alcuni borghi ne’ quali si parla tuttavia l’antica lingua de’ Sassoni. Il re di Danimarca, nel nostro secolo venuto in Italia, parlando con que’ montagnari trovò che aveano molte parole danesi e che gl’intendeva. Sono forse i discendenti de’ saccheggiatori settentrionali.

I nostri poeti non solo furono imitatori de’ Provenzali, ma plagiari. Petrarca istesso non va esente da questa taccia. Ne darò un esempio. Tre versi del primo quadernario del sonetto suo stimatissimo

«Pace non trovo, e non ho da far guerra,

…………

e volo sopra il cielo e giaccio in terra,

e nulla stringo, e tutto il mondo abbraccio».

e l’ultimo verso del primo ternario del medesimo sonetto:

«Ed ho in odio me stesso, ed amo altrui»

sono tradotti dal poeta provenzale M. Tordi.

«E non ho pazz, e no tinc quim’ guerreig;
Voi sobre ’l ciel, e nom’ movi de terra
e no estrench res, e tot lo mon abràs
ois he de mi, e vull a altrui gran be».

Lo studio della lingua latina risorse. Gli autori romani furono i modelli di perfe­zione. Petrarca massimamente scrisse in latino con somma eleganza; e nello stile del Boccaccio e de’ suoi successori si può conoscere ch’erano tutti formati su i latini avendo la stessa loro sintassi.

Anche la lingua greca fu riconosciuta in Italia per opera di Manuello Crisolora letterato greco. Ei venne da noi circa l’anno 1337. Fu mandato dall’imperatore Giovanni Paleologo per cercare soccorso a’ principi contro de’ Turchi. Fermossi l’amba­sciatore in Italia e finì ad insegnare pubblicamente il greco in Venezia, poi in Firenze e finalmente in Pavia.

Vi fu anche in tal secolo qualche uomo che coltivasse le scienze. Marco da Borrento scrisse su i movimenti delle fisse, e Cecco d’Ascoli, città nella marca d’Ancona, sapeva qualche cosa di astronomia. Erano piccole faville tosto ricoperte dalla oscurità.

Cecco d’Ascoli è più noto come eretico astrologo che come astronomo. Ei fu abbruciato vivo fuori di Firenze per sentenza della Inquisizione, perchè sosteneva che Gesù Cristo era nato sotto tale aspetto de’ pianeti che lo avea reso necessariamente povero, e che l’Anticristo nascerebbe sotto tali costellazioni, che lo farebbero necessariamente ricco. Tali erano i delitti in que’ tempi meritevoli di una pena che con orrore si darebbe ad un parricida.

Giacomo Dondi padovano vivea ne’ princìpi di questo istesso secolo. Fu medico, astronomo eguale a’ suoi tempi, e mecanico superiore. Fabbricò un orologio che segnava le ore, il corso del sole e degli altri pianeti, le fasi della luna, i mesi ed i giorni dell’anno. Opera meravigliosa pel suo secolo. Fu chiamato perciò Dondi Orologio.

Troviamo che Dante fa menzione degli orologi a ruote nel canto 24 del Paradiso. E verso la metà di questo secolo se ne pose un pubblico a campana nella torre di Bologna, il quale fu il primo «che cominciasse a sonare per lo comune di Bologna», come dicono gli annali di questa città.[640] Visse anche il famoso Giotto pittore fiorentino in questo secolo. Così le belle arti cominciavano a risorgere. Anche le distruttive s’introdussero. Le armi da fuoco erano già in uso in Italia. Se ne querela il Petrarca.[641] «Questa peste, ei dice, era non ha gran tempo rara, e si risguardava un’arma da fuoco come un gran prodigio, ora è comune come ogni altra».

V’erano de’ strani usi nel vestire. Si portavano delle scarpe con una gran punta come un rostro. Vari autori ne fanno menzione, e si dolevano gravemente di questo lusso.[642] Anche Dante si lagnava di quella de’ suoi tempi:

«Non aurea catenella, non corona

Non donne contingiate, non cintura

Che fosse a veder più che la persona.

Bellincion Berti vid’io andar cinto
di cuoio ed osso, e venir dallo specchio
la donna sua senza il viso dipinto».[643]

Questi ultimi versi fanno vedere il rossetto usato in que’ tempi. Gli antichi Romani se ne tingevano le guance ne’ trionfi. Lo davano alle statue degli dei nelle loro feste.

Malgrado tante querele contro il lusso, un nostro cronista, Gulielmo Ventura, si meravigliò grandemente di vedere un pranzo che diede in Asti il re di Napoli Roberto, servito in argento: «Rex convivium magnum feret Astensibus ubi inter fui et mensam eius optime praeparatam schiifis et vasis ad vina fundenda ex aureo purissimo et argento vidi, ita quo nullus fuit qui, ubi uteretur cibo vel potu nisi in argenteo vaso purissimo».[644]

Cominciava appena la letteratura a sortire dai conventi. Fin ora era così strano che un secolare sapesse leggere e scrivere, che per dire un ignorante si diceva un laico. In tal senso l’usa Dante ed altri. I nostri dizionari tradiscono ancora giudiziosamente tal voce in latino iliteratus, indoctus. Ora cominciavano i monaci a meritar questo titolo. Fa a tal proposito quanto dice Benevento da Immola ne’ suoi curiosi comenti di Dante:[645] «Volo ad clariorem intelligentiam huius litterae referre illud quod narrabat mihi iocose venerabilis praeceptor meus Boccacius de Certaldo. Dicebat enim quod dum esset in Apulia captus fama loci accessit ad nobilem monasterium Montis Cassini, et avidus videndi librariam, quam audierta ibi esse nobilissimam, petivit ad uno monacho humiliter velut ille, qui suavissimus erat, quod deberet ex gratia sibi aperire bibiothecam. At ille rigide respondit ostendens sibi altam scalam: Ascende quia aperta est. Ille laetus ascendens invenit locum tanti thesauri sine osno vel clavi ingressusque vidit herbam nascentem per fenestras et libros omnes cum bancis coopertis pulvere alto. Et mirabundus coepit aperire et volvere nunc istum librum, nunc illum, invenitque ibi multa et varia volumina antiquorum et peregrinorum librorum. Ex quorum aliquibus erant detracti aliqui quinterni, ex aliis recisi margines chartarum, et sic multipliciter deformati. Tandem miseratus labores et studia tot inclytorum ingeniorum devenisse ad manus perditissimorum hominum dolens et illacrymans recessit, et occurrens in claustro petivit ab monacho obvio qua re libri illi pretiosissimi essent ita turpiter detruncati. Qui respondit quod aliqui monachi volentes lucrari duos vel quinque solidos radebant unum quaternum et faciebant Psalteriolos quos vendebant pueris. Et ita de marginibus faciebant brevia, quae vendebant mulieribus. Nunc ergo, o vir studiose, frange tibi caput pro faciendo libros».

Lo stesso comentatore fa delle note ben gibelline dove Dante parla de’ costumi di alcuni fra gli ecclesiastici:[646]

«Li moderni pastori…………………

or vogliono quinci e quindi chi rincalzi

………………………. e che li meni

Tanto son gravi……………………»

«Idest pingues et corpulentos (dice il comentatore) quales multos vidi in curia ro­mana. Et hoc contra est Petri et Pauli macredinem».

«…………………… e chi diretto gli altri»

«quia habent cappas longas, terram verrentem cum cauda. Et hoc est contra nuditatem praedictorum apostolorum. Et ideo dolore stimulante suddit».

«Cuopron de’ manti i loro palafreni»

«pingues et politos sicut ipsi sunt, quia eorum clamydes sunt ita longae et amplae et capaces quod cooperunt hominem et equum. Unde dicit:»

«Sicchè dite bestie van sotto una pelle»

«scilicet, riflette il glosatore, bestia portans et ipse portatus qui verius est bestia et bestialior ipsa bestia. Et certe si author viveret hodie posset mutare literam istam et dicere»,

«Sicchè tre bestie van sotto una pelle»

«scilicet cardinalis, meretrix et equus; sicut audivi ab uno, quem bene novi, qui portabat suam concubinam ad venationem post se in clune equi vel muli. Et ipse vere erat. Sicut equus et mulus in quibus non est intellectus, hoc est sine ratione».

È questo ben più un saggio dello spirito di partito che de’ costumi della corte di Avignone. Un autore che fa un gran delitto ai cardinali d’esser grassi, e di portar la coda longa con declamazioni così lontane dalla tranquilla imparzialità, non è di gran fede.

[Nel 1333 vi fu in Toscana un diluvio ruinoso di acque del cielo, le quali innon­davano molti luoghi di essa e produssero danni spaventevoli, siccome narra nel suo stile semplice e schietto Gio. Villani al principio del lib. undecimo della sua Cronica in tutti i capitoli 1 e 2, e in questo espone le opinioni degli astrologi e de’ teologi in quella sventura straordinaria, dove potrai notare che la notte in cui incominciò il diluvio un romito di Vallombrosa disse avear sentito romor grande di demoni per l’aere e, interrogatone alcuno, rispose che andavano a sommergere Firenze. L’autore Villani afferma di avere confermato questa fama col testimonio dell’abate di Vallom­brosa medesimo, il quale avea per bene esaminato il detto romito].

Capo XXIII. Infelice spedizione in Italia di Giovanni di Lucemburgo re di Boemia. Inutili istorie di Lodovico il Bavaro per l’assoluzione delle scomuniche. Carlo IV proclamato imperatore. Di Giovanna regina di Napoli. Di Nicola da Rienzo. Dei Visconti di Milano. Loro dispute co’ papi.

Le città d’Italia fluttuanti nell’anarchia pretendeveno il partito de’ sventurati di chieder difesa al primo da cui la sperassero. Avean bisogno di un gran principe, che frenasse gli estremi disordini con quel solo e pericoloso rimedio che lor rimane, il dispotismo. Ma il peso della somma potenza troppo era grave per uomini nati nella indipendenza. Onde ridotti a non potere più soffrire nè i mali, nè i rimedi,[647] erano instabili le loro rivoluzioni ed i loro pentimenti. Tale era lo stato delle città della Lombardia, della Toscana, della Romagna e del Piemonte, di quelle provincie, in somma, costantemente non soggette ad un principe.

La Repubblica di Venezia restava fra tanti disordini fortunatamente dimenticata. Di lei poco scrivono le storie, per le quali sono abbondante materia gli umani delitti, e scarsa la tranquillità delle nazioni. Nell’anno 1300 soltanto entrarono in quella Repubblica le fazioni guelfa e gibellina. Fu questo un male così nuovo per lei, che quell’anno è tuttora funesto nella memoria de’ Veneziani.

La inutilità delle antecedenti spedizioni degli imperatori non ci disingannarono dal chiedere il loro soccorso. La inquietudine e ’l sospetto gli chiamavano e gli schiacciavano. Ora fu destinato a questa spedizione Giovanni del Lucemburgo re di Boemia, figlio di Arrigo VII. Brescia, Bergamo, Crema, Milano, Cremona, Pavia, Vercelli, Novara, Parma, Regio, Modena, Mantova, Verona gli si diedero spontanea­mente, poi temendolo si unirono contro di lui, e guelfi e gibellini obbliando gli odi antichi si collegarono. Ciò che rese sospetta la potenza di Giovanni fu il vederlo aleato col cardinale Bertrando legato pontificio nella Romagna, e l’essere andato ad Avi­gnone ad abboccamenti segreti col papa, il quale ricoperse questi trattati colla simu­lazione, fingendo di esser in collera con lui, rimproverandolo per le sue imprese in Italia. Tutto ciò era strano, perchè si sapeva che ogni giorno erano questi pretesi nemici in conferenze segrete. Finirono gli aspettativi di grandi rivoluzioni coll’uscir d’Italia il re di Boemia, e dalla Romagna e dalla Toscana i legati pontifici con pari fama delle loro imprese.

La lontananza de’ papi eccitava di tempo in tempo in Italia le declamazioni di quelli che ne sentivano i danni. Frate Venturino da Bergamo domenicano fece una perlustrazione nelle città della Lombardia e della Toscana predicando la pace. Più di diecimila persone vennero con lui a Roma vestite di cotta e cappa bianca. Fatto coraggioso per quest’armata di pellegrini, ei cominciò a declamare pubblicamente contro la lontananza de’ papi. Il missionario divenne sedizioso; gli fu proibito di predicare.[648]

Lodovico il Bavaro avea più volte chiesta inutilmente la riconciliazione a Giovanni XXII, e continuava le sue istanze presso il di lui successore Benedetto XII. Il papa era inesorabile, ossia Filippo di Valois re di Francia lo rendeva tale, ritrovando utile di lasciar tutte le scomuniche ad un nemico. Benedetto disse segretamente agli ambasciatori di Lodovico: «Sono affezionato al vostro principe, ma il re di Francia mi ha scritto che se l’assolvo senza il suo consenso mi tratterrà peggio che non hanno fatto i suoi predecessori con Bonifacio».[649]

Le involontarie durezze del papa esaurirono la pazienza degli elettori. Tennero una dieta in Constaim presso Magonza nella quale fecero il seguente decreto:[650] «Hoc est de iure et antica consuetudine imperii approbata, quod postquam aliquis a principibus electoribus imperii vel a maiori parte, e numero eorundem principum etiam in discordia, pro rege romanorum electus est, non indiget nominatione, approbatione, confirmatione, assensu vel authoritate sedis apostolicae super administratione bonorum et purium imperii, sive titulo regis assumendis».

Il papa Benedetto diede nessun segno di disapprovazione contro della dieta o di Lodovico. Si ristringeva a far nulla nè contro nè a favore di lui. Non ascoltò le sue instanze, non lo scomunicò quando ogni altro pontefice lo avrebbe scomunicato. Tal moderazione ne prometteva in lui d’ancor più grande, se fosse stato meno dipendente dal re di Francia.

Il papa Clemente VI, dopo di lui, fu maggiormente pieghevole ai comandi dello stesso re. Gli fece confermare contro di Lodovico tutte le anteriori censure, poscia, simulando di prendere il suo partito, lo persuase di spedire ambasciatori in Avignone a placar lo sdegno di Clemente. Nessun principe maggiormente meritava di placarlo, se la docilità, e docilità grandissima, han questo diritto. Furono date instruzioni agli ambasciatori di accettare tutte le condizioni che piacessero al papa. Il re di Francia così indusse il suo nemico a chieder perdono per gettare l’odiosità di tai dispute sul papa e preparare a Lodovico un umiliante rifiuto. S’imposero pesantissime condizioni alla riconciliazione perchè non si facesse. Si pretendeva che Lodovico confessasse di essere un eretico; che deponesse l’imperio; che non lo dovesse ricevere se non dal papa; che consegnasse sè ed i propri figli nelle di lui mani; che cedesse a lui molte terre e diritti dell’imperio. Gli elettori trovarono ignominiosi questi patti, li dichiara­rono inaccettabili. Pure non ritrovarono tali i danari del re di Francia co’ quali comprò il voto d’alcuni fra di loro in favore del marchese di Moravia figlio di Giovanni di Lucemburgo re di Boemia. Ei fu scelto con sì vergognoso mercato. Ebbe il nome di Carlo IV. La maggior parte della nazione rigettò la compra di quest’imperatore. I più la tenevano per invalida chiamando Carlo l’imperator de’ preti. Morì poco dopo l’imperatore Lodovico il Bavaro, le di cui sventure sono anco più certe che le colpe.

Clemente VI indusse il nuovo imperatore a rinunziare ai diritti imperiali sulla città di Roma. Confermò la rinuncia quando vi si fece incoronare. Fu così disprezzata la docilità di Carlo, che fu discacciato da Pisa, e poco mancò che non vi fosse ucciso. Petrarca a questo proposito scrissegli: «Qual vergogna per un imperatore, che Roma abbia il potere o piuttosto l’audacia di costringerlo a contentarsi del puro titolo di Cesare! Quale affronto per colui al quale l’universo dovrebbe ubbidire di non esser padrone di se stesso, e di ubbidir al suo vassallo!».

Ci si presenta in questi tempi la famosa Giovanna regina di Napoli, figlia del re Roberto morto senza successione maschile. Fatta signora di un considerabil regno all’età di anni dieciotto, parea che se dovesse commetter de’ delitti non sarebbero stati dei crudeli. Pur vide l’Italia quest’orrore, che una vezzosa fanciulla al fior degli anni e degli amori congiurasse all’infame macello d’un giovine ed innocente marito. Se non v’è pericolo di errare il chiamar questo un enorme delitto, è pericolo di errare in cercarne le cagioni. Taluni ci dipinser il re Andrea marito di Giovanna come un principe feroce, e il regno desolato da’ suoi ongari ministri. Egli era fratello del re d’Ongheria. Altri lo dissero non atto ad esser marito. Neanche perciò era degno di morte. Altri ce lo rappresentano come un Tito, e la regina come una Messalina. Tutti questi dubbi storici non tolgono l’infamia a quella sventurata d’esser stata adiutrice di questo assassinio. Tristano Caracciolo, che un secolo dopo difese il nome di Giovanna, non lo può negare. La confessione di un apologista toglie per fino la dolce lusinga di dubitare. Era la corte in Aversa. La notte del giorno 18 di settembre fu destinata al sacrificio. I camerieri svegliarono Andrea col pretesto che in Napoli si fosse mossa una sedizione. Lo indussero ad escir di camera della regina. Appena escito, i congiurati lo soffocarono con un laccio al collo, e lo gettarono dalla fenestra.[651] Qual soggetto d’orribili riflessioni! Una giovane sposa osa di giacere accanto d’un marito che ha destinato al sacrificio, ei sorte dalle sue braccia per essere assassinato pochi passi lungi dall’infame suo letto, ascolta i gemiti e le strida del moribondo, fors’anco il suo nome invocato con singhiozzi di morte… animus meminisse horret luctuque refugit.

Lodovico re d’Ongheria venne in Italia a vendicare la morte del fratello. Conqui­stò il Regno di Napoli colla sola opinion della sua potenza. Giovanna fuggì in Provenza dove vendette al papa la città di Avignone col suo territorio per difender col di lei prezzo il suo delitto.

Lodovico condannò a morte tutt’i convinti o sospetti della strage d’Andrea. Il duca Durazzo come capo della congiura fu ucciso e gettato dalla stessa finestra dalla quale fu rovesciato Andrea.

È strano che Giovanna trovasse un nuovo marito. Pur n’ebbe tre de’ quali restò vedova l’un dopo l’altro. Furono Luigi principe di Taranto, Giacomo d’Aragona, Ottone di Brunswick.

Il nuovo marito Luigi si oppose agli Ongaresi. Il papa Clemente si intromise per sopire la guerra, e fu a lui appoggiata la decisione di così grande affare. Le condizioni dell’arbitramento erano che se Giovanna fosse rea perdesse il regno, nel quale succe­desse il re d’Ungheria; se innocente, dovesse esser restituita al pacifico possesso de suoi Stati. Giovanna non ritrovò severo un giudice ch’era alloggiato nel mezzo de’ suoi Stati. Decise il papa in di lei favore. Lodovico s’aquetò a tal sentenza. Era ben difficile ch’ei fosse persuaso della innocenza di Giovanna. La pubblica opinione la condan­nava. Lodovico, che avea fatti suppliziare i di lei complici, non poteva ignorare la sua reità. Le spese d’una guerra, quella che pensava di fare a’ Veneziani, che gli avean tolte alcune terre della Dalmazia, lo fecero dissimulare.

Nicola da Rienzo ci offre allo sguardo in tai tempi un men tristo soggetto di storia. Uomo grande, ridicolo, il più lepido fra i legislatori, il più serio fra i pazzi. Roma, per la assenza de’ papi, era, come buona parte delle altre città d’Italia, in preda di chi avesse audacia o ricchezze. Nicola fece il virtuoso progetto di raffrenare i disordini di Roma. Egli era un notaro di povera famiglia. Cominciò la sua riforma con declamare pubblicamente, e minacciare di pene e di supplizi i signori prepotenti. Il popolo secondò così utile ardimento. Fu procla­mato tribuno. Allora Nicola si credette in diritto di scacciare dal Campidoglio i senatori e di chiamarsi:[652] «Nicola, severo e clemente liberatore di Roma, zelante del bene dell’Italia, amatore del mondo e tribuno augusto». Creò de’ nuovi magistrati, punì i delitti, tolse la indisciplina, in modo che restituì la libertà pubblica. Il che non è altrimenti ridicolo. Pensò quindi a richiamare l’antica libertà d’Italia, ed a formare una repubblica di cui Roma fosse il capo. Scrisse lettere con istile d’imperiosa e strana eloquenza a tutti i principi e città d’Italia, nè mancò chi seriamente le accogliesse. Perugia ed Areti ed altre città si sottoposero. Petrarca istesso impiegò i suoi versi in lode di questo buffone degli eroi. Gli scrisse quella canzone notissima:

«Spirto gentil che quelle membra reggi».

Egli sperava che quell’uomo dovesse far risorgere l’antica gloria d’Italia.

Citò ancora esso Nicola il papa Clemente VI e i cardinali intimando loro di venire tosto a Roma. Citò Lodovico il Bavaro (non era ancora mancato di vita) e Carlo re di Boemia, che aspirava all’impero, a render conto delle sue pretensioni, le quali cose diceva di fare per ispirazione dello Spirito Santo di cui si chiamava il candidato. Fu curiosa la formalità di queste citazioni. Primamente si creò cavaliere nella cappella di Bonifacio VIII: «E po’ l’officio (sono parole dell’autore della sua vita) entrao ne lo vagno, e vagnoese ne la conca de lo ’mperatore Costantino, la quale ene de pretiosissimo paraone. Stupore ene questo a dicere. Molto fe’ la iente favellare. Uno citattino di Roma missose vicescuotto cavaliere licenze la spata. Puoi se ne addormie in uno lietto venerabile, e iacque in quello luoco; che se dice li fonti del Santo Ioanni. La compio tutta quella notte. Hora senti meraviglia granne, lo lietto e la lettiera nuovi erano. Como venne lo tribuno salire lo lietto, subbitamente una parte de lo lietto cadde in terra». Nel mentre che si celebrava in seguito la fonzione per crearlo cavaliero, uscì in piazza e disse ad alta voce al popolo: «Noi citemo missore papa a chimento, che a Roma ne venga a la soa sede». Citò poi i cardinali e l’imperatore; citò gli elettori dicendo: «Vogli bedere che rascione haco nella elezione». Dopo di che sfoderò la spada, divise con quella in tre parti il mondo, col dire: «Questo ene mio, questo ene mio, questo ene mio». Il vicario del papa, ch’era presente a questa solennità, se ne stava, per servirmi delle parole del nostro autore: «como idiota stupefatto da questa novitate».

In breve svanì questo regno. Nicola fu abbandonato dal popolo e fuggì vestito da frate. Si presentò all’imperatore Carlo IV, il quale troncò a mezzo tutti i racconti ch’ei faceva di varie rivelazioni, le quali si vantava d’aver avute, e rispose alle sue promesse grandissime con ispedirlo ad Avignone, dove fu posto in prigione.

Avean bisogno molte delle città d’Italia di un Nicola che avesse il suo ardimento senza le sue rivelazioni. Gemevano sotto il giogo di principi sospettosi, perciò tiranni. Si distingueva in questo numero Lucchino Visconte signor di Milano, il quale uscendo per la città teneva a’ suoi fianchi due cani mastini. Un minimo sospetto d’irriverenza era vendicato immantinenti coll’avventare que’ cani contro di chicchesia. Plauziano, primo ministro dell’imperator Severo, quando usciva per Roma faceva precedere de’ littori con de’ bastoni a far largo, ordinando che tutti tenessero gli occhi bassi. Bisogna rimontare sino a que’ secoli funesti per ritrovar qualche cosa di eguale. Non v’è crudeltà inverisimile nel tiranno d’una nazione caduta dalla libertà nel dispotismo. Dev’essere un mostro quel principe che teme in ogni cittadino un congiurato. Isabella da Fiesco, moglie di Lucchino, lo avvelenò. Ella preferiva Ugolino da Gonzaga[653] a suo marito. Per vivere qualche giorno con lui, prese il pretesto di aver fatto un voto di andare in pellegrinaggio a S. Marco di Venezia. Non vi fu molta divozione in quel viaggio. Isabella prevenne i colpi della gelosia italiana del marito a cui seppe ch’eran noti tutti gli anecdoti del suo pellegrinaggio! Tali erano i nostri barbari costumi. Buonamente Aliprando contemporaneo così descrive questo fatto in una sua cronica in versi:[654]

«Nel detto milesimo veramente
fu in Mantova la moglie di Lucchino
de’ Visconti signor grande possente.

Isabella innamorossi d’Ugolino
di Gonzaga, ch’era bel cavaliere
stetter insieme con gran piacere fino.

Quella donna volendo dire il vero
ad altro fine a Mantova non venne
se non per saziar con lui tal mestiere.

E da Lucchino la grazia si ottenne
per suo voto a Venezia di andare

all’ascension. Per Mantova si venne.

Ugolino a Venezia seco andare
ben accompagnato seco se ne gìa
di notte insieme stanno a solazzare.

Le donne pel simil che seco avìa

ciascuna aveva seco lo suo amante
col qual la notte piacer si desia.

Questo faceva lei per vizio, tante
che l’altre don di lei dir non potesse

perchè in errore fosser tutte quante.

La perdonanza avuta si partesse
da Venezia. A Milano ritornava

ed Ugolino in Mantoa si rimesse».

La corte di Avignone regnante il papa Clemente VI si dimenticava degli Stati della Romagna. Sembrava obbliasse la passata grandezza fra costumi più soavi. I nostri scrittori dipinsero que’ papi come mostri, non senza spirito di partito. I Francesi li difendono. Rincresceva agl’Italiani l’assenza d’una corte nella quale molti facevano la loro fortuna. Questi vantaggi erano trasportati ai Francesi. Si credevano i papi in Avignone così dati alla ubbriachezza, che per stimolarsi a bere allegramente ne’ pranzi s’introdusse il detto: bibamus papaliter.[655] Andarono a segno le declamazioni, che il frate minore Giovanni Oliva comentò l’Apocalisse facendo vedere che la corte di Avignone era la Babilonia, e la sinagoga di Satanasso, e ’l papa l’Anticristo. Ebbe dei seguaci di queste sue erudizioni.

Matteo Villani così scrisse del papa Clemente VI:[656] «Delle femine essendo arcivescovo non si guardò, ma trapassò il modo de’ seculari giovani baroni, e nel papato non se ne seppe tenere nè occultare; ma alle sue camere andavano le grandi dame, come i prelati, e fra le altre una contessa di Turenna fu tanto in suo piacere, che per lei faceva gran parte delle grazie sue. Quando era infermo, le dame il servivano, e governavano come congiunte parenti gli altri secolari».

Questo pontefice ristrinse ai cinquanta anni il termine di un secolo fissato da Bonifacio VIII al Giubileo. Alla metà del secolo decimoquarto lo pubblicò. Fu estesa l’indulgenza in questa occasione. V’era nella bolla che se qualcheduno venendo per tal fine a Roma morisse per istrada: «Nihilominus prorsus mandamus angelis paradisi, quatenus animarti illius a purgatorio penitus absolutam in paradisi gloriam introducant».[657]

Questo Giubileo pose in istato il suo successore Innocenzo VI di sostenere la guerra contro gli usurpatori della Romagna, la quale era divisa come preda fra vari piccoli principi. Fu spedito a tale impresa il cardinale Egidio Albornoz, che seco condusse Nicola da Rienzo. Volle servirsi di questo utilissimo stolto in tal guerra, e lo fece governatore di Roma. Clemente avea scomunicato Nicola con ispaventevoli espressioni.[658] Innocenzo scrisse al suo internunzio in Roma Ugone di Arpajon: «Noi manderemo subitamente a Roma il nostro amato figlio Lorenzo cavaliere romano, sperando che ciò che ha sofferto l’avrà renduto più saggio, e che abbandonando le sue stravaganze si opporrà agli sforzi de’ perversi, e favorirà le buone intenzioni degli amatori della pubblica tranquillità».[659] Nicola, fatto odioso al popolo colle sue crudeltà, venne pugnalato.

Giunto in Italia, il Cardinal legato pubblicò le scomuniche pontificali e la crociata con indulgenza contro gli usurpatori degli Stati della Chiesa. Fu stabilito che si guadagnasse la remission de’ peccati anche senza prender l’armi, solo col dar elemosina per questa impresa. Il legato raccoglieva con tal mezzo al giorno mille e duecento, sino a tremila fiorini d’oro dalle sole donne e gente minuta.[660] Con tai soccorsi furono conquistati il Patrimonio di S. Pietro, il ducato di Spoleti, la marca d’Ancona e tutta la Romagna.

La famiglia de’ Visconti, signori di buona parte della Lombardia, era una potenza che di giorno in giorno diveniva meritevole del comun sospetto. Ella era fatta rispet­tabile. Il re di Francia diede in moglie Isabella sua figliola a Gian Galeazzo figlio di Galeazzo, che insieme del fratello Bernabò or reggeva quegli Stati. Prese in tale occasione Gian Galeazzo il titolo di conte di Virtù perchè Isabella le portò in dote una contea della Sciampagna a cui era aderente questo titolo. Galeazzo in seguito sposò Violanta sua figlia a Lionello figlio del re d’Inghilterra. Così illustri maritaggi provano la considerazione in cui era tenuta quella famiglia. I signori lombardi trova­vano troppo grandi questi vicini. Il papa era lor nemico, perchè la città di Bologna, toltasi al dominio della Santa Sede, si era data ai Visconti. Fecero lega i Lombardi con Urbano V successore d’Innocenzo. Bernabò Visconte fu scomunicato e dichiarato eretico,[661] fu predicata contro di lui la crociata: le bolle lo trattavano da rapitore de’ beni della Chiesa e delle vergini, da adultero e stupratore e sacrilego, da animo fiero ed inumano, figlio della perdizione, alunno della dannazione, che faceva trucidare infiniti ecclesiastici sotto il di cui governo erano come gli Ebrei oppressi dalla schiavitù di Faraone. Fa meraviglia come Urbano non risparmiasse questi fulmini spirituali a Bernabò che aveva l’amicizia del re di Francia. Il Visconte trovava così poco terribile la congiura de’ suoi nemici, che si dichiarava «che li tratterebbe da putti».[662] Il modo con cui Bernabò accolse i legati pontifici speditoli da Urbano per scomunicarlo fu conforme a questo detto. Essi erano il cardinale Belforte e l’abate di Farga. Aveano seco le bolle di scomunica con istituzione che se non potevano indurre il Visconte a desistere di far guerra agli Stati pontifici lo scomunicassero. Andarono a Milano, furono presentati a Bernabò. Vedendo che non ottenevano nulla, trassero le bolle e gliele porsero. Bernabò senza profferir parola le prese, le lesse, le tenne. I legati non avendo più nulla a dire, e vedendo Bernabò che taceva, chiamarono permissione di partire. Il Visconte come per far loro la corte montò a cavallo ed accompagnolli taciturno sino ad un ponte sovraimposto ad un ramo del Ticino che viene a quella città. Allora fermossi Bernabò, e rompendo il silenzio disse ai legati: «Signori, prima che di qua sia vostra partita, determinate di due cose farne una. O mangiare, o bere». I legati, vedendosi sopra dell’acqua, ben intesero che significasse il bere; e perciò, sorpresi com’erano da una tale alternativa profferita dopo un così lungo silenzio, risposero che delle due avrebbero piuttosto mangiato. Bernabò trasse allora le bolle e lor disse: «Togliete, mangiate le bolle della mia escomunicazione, nè mai di qua sopra questo ponte siete per partire, se prima non le avete mangiate». Dovettero gli amba­sciatori rodere co’ denti le piombate bolle, e la coperta di capretto col legame di seta, prima che di quel luogo partissero.[663]

Galeazzo pubblicò un terribile editto contro di chi se gli ribellasse. È uno de’ più atroci che abbia inventati la fremente potenza: «Intentio Domini est, quod de magistris proditoribus incipiatur paullatim. Prima die quinque bottas de curlo;[664] secunda die reposetur. Tertia die similiter quinque bottas de curlo; quarta die reposetur; quinta die similiter quinque bottas de curlo. Sexta die reposetur. Septima die similiter quinque bottas de curlo. Octava die reposetur. Nona die detur ei bibere aqua, acetum et calcina. Decima die reposetur; undecima die similiter aqua, acetum et calcina. Duodecima die reposetur. Decima tertia die serpiantur eis duae corrigiae per spallas. Decima tertia die serpiantur eis duae corrigiae per spallas, et percottentur.[665] Decima quarta die reposetur. Decima quinta die dessolentur[666] de duobus pedibus, postea vadant super cicera. Decima sexta die reposetur. Decima septima die vadant super cicera. Decima octava die reposetur. Decima nona die ponantur super cavalletto. Vigesima die reposetur. Vigesima prima ponantur super caval­letto. Vigesima secunda die reposetur. Vigesima tertia die extrehatur eis unus occulus de capite. Vigesima quarta die reposetur. Vigesima quinta die troncetur eis nasus. Vigesima sexta die reposetur. Vigesima septima incidatur eis una manus. Vigesima octava die reposetur. Vigesima nona die incidatur alia manus. Trigesima die reposetur. Trigesima prima die incidatur pes unus. Trigesima secunda die reposetur. Trigesima tertia die incidatur alius pes. Trigesima quarta die reposetur. Trigesima quinta die incidatur sibi unum castronum. Trigesima sexta die reposetur. Trigesima septima die incidatur alium castronum. Trigesima octava die reposetur. Trigesima nona die incidatur membrum. Quadragesima die reposetur. Quadragesima prima die intenaglietur super plau­stro, et postea in rota ponatur.[667] Harum poenarum executio (soggiunge Pietro Azario dopo d’aver riferito quest’editto) facta fuit in personas multorum». È la storia degli uomini ch’io scrivo.

Il papa Urbano, forse per esser presente a queste guerre, trasportò il seggio pontificio a Roma, dove da settantatrè anni non avevano risieduto i papi. Fu questa una semplice apparizione, tre anni dopo ritornò in Francia.

Carlo IV sosteneva l’imperatoria dignità con non molto splendore. Chiamato in Italia da’ Lombardi avea dovuto impegnare il diadema imperiale a’ Fiorentini per mille e seicento fiorini d’oro, ed i Senesi glielo disimpegnarono. Non era un grande aleato così povero imperatore. Ben tosto se ne tornò in Italia dopo non aver fatta altra impresa da noi che di creare, a danari contanti, molti conti, marchesi, dottori e poeti. Questo è ciò che facevano gli imperatori quando venivano in Italia. Carlo portò seco molti danari guadagnati all’inesauribil commercio della umana vanità.

L’imperator d’Oriente Giovanni Paleologo venne a Roma per chiedere soccorso a chi non glielo poteva dare. Baciò i piedi ad Urbano per essere aiutato contro de’ Turchi, che minacciavano Costantinopoli, in cui tutto consisteva l’Impero d’Oriente. Abiurò gli errori dello scisma e riconobbe la primazia del papa. Questi atti di umilia­zione suggeriti dalla sola politica ottennero nulla. I principi più non si curavano di abbandonare i loro Stati per difendere gli altrui, mille leghe lontani. Le crociate non si pubblicavano contro dell’Asia, ma bensì contro gli Stati d’Europa, e con maggiore fortuna.

Lungo e più annoiante che instruttivo sarebbe il racconto delle piccole ed inces­santi guerre che sempre funestavano l’Italia. Ogni storia n’è piena. Genova e Venezia sino da’ princìpi della loro grandezza si erano disputato il dominio del mare. Firenze e Pisa erano due emule antiche che facevano pace di tempo in tempo per disporsi a nuove battaglie. Fra i re di Napoli, Angioini, ed i re di Sicilia, Arragonesi, ardeva perpetua e lenta guerra. Era tale lo spirito d’inimicizia fra’ Provenzali e gli Spagnuoli, che fu destinato in Napoli separato alloggio per gli uomini di queste due nazioni, che vi capitassero. V’era perciò la ruga catalana e la ruga provenzale. Temeasi che non venissero alle mani.

La Lombardia era in tumulto. I Visconti voleano dilatare i confini de’ loro Stati; i vicini conti e marchesi di Ferrara, di Mantova e di Verona volevan restringerglieli. Onde motivi di guerra in ogni canto d’Italia.

Allo spirito di partito, alla voglia, al bisogno di combatere si aggiunsero i mezzi più facili. Erano introdotte in Italia le compagnie. Il primo ad unirle fu Lodrisio Visconte nipote di Matteo il Magno. Erano piccoli eserciti composti di masnadieri, ladri, ribaldi, della feccia, in somma, della società, che uniti sotto un sol capo, detto il condottiere, al numero tal volta di diecimila, andavano allo stipendio de’ nostri principi e se non aveano di guadagnar nelle guerre desolavano l’Italia. Questa provincia era in continua guerra per lo sistema suo, avvegnachè divisa fra molti principi. In lei calavano tutte le nazioni. Tai furono le cagioni dell’uso di queste compagnie. Erano famose in questi tempi quella del duca Guarnieri e del conte Landò, entrambi tede­schi, e la compagnia bianca d’Inglesi. Gli dispersi avanzi degli eserciti degl’imperatori, gli Ungaresi rimasti nel Regno di Napoli, nella venuta del re Lodovico, cento vaga­bondi inglesi, spagnuoli e francesi erano quegli eroi che a danaro contante ci aiutavano vicendevolmente a far macello di noi. Con tai soccorsi divenne facile unire un’armata. Nè le guerre costavano gran perdita di soldati. Non si ritenevano prigionieri che gli uomini di taglia. Così chiamavansi le persone di qualche grado. I comuni si spoglia­vano dell’armi e del cavallo, e si rilasciavano.

La lega del papa, dell’imperatore e de’ principi lombardi contro de’ Visconti si univa e discioglieva, sempre degna del disprezzo di Bernabò. Vi si aggiunse anche la regina Giovanna. Gregorio XI sedeva papa. Non è difficile l’immaginare ch’egli fosse nemico de’ Visconti. Essi disprezzavano i suoi fulmini e miravano alla conquista d’Italia tutta. Non è difficile tampoco l’immaginarvi che li riscomunicasse. V’era in questa nuova bolla un positivo comando a’ vescovi di sollevarsi contro de’ Visconti, come tiranni. Furono di nuovo condannati quali eretici.[668] Galeazzo Visconte troppo avezzo agl’interdetti rispose alle bolle collo spogliare de’ lor beni gli ecclesiastici de’ suoi Stati.

Erano questi principi poco degni di comandare a’ lor sudditi non che all’Italia. Violenti e crudeli, parea che fremessero, che la fortuna non eguagliasse la loro ambi­zione. Il signor Muratori chiama Bernabò bestione non mai quieto. Di fatti la guerra e la caccia erano le sole sue occupazioni. Ei fece molte crudeltà per conservare il selvaggiume. Non è nuovo nella storia che i principi abbiano fatta la umiliante equazione di un suddito con una lepre. Gli sforzi di tutta l’Italia contro i Visconti furono inutili. La sproporzione della potenza fra di essi e la Lega era ricompensata dalla superiorità de’ talenti militari di questi principi. Non si può loro negare questa lode.

Col ritorno della Santa Sede in Avignone si erano perdute tutte le conquiste del cardinale Egidio d’Albornoz. I Fiorentini furono la cagione di queste nuove perdite. Eglino tante volte scomunicati erano divenuti violenti gibellini. Eccitarono al sollevarsi le città della Chiesa. Il papa Gregorio XI concesse con una bolla la licenza a chiunque di ridurli in ischiavitù, di prendere i loro beni in ogni parte della terra; proibì di portar loro danaro, biade, vino, vivande, lane, drappi, legna e qualunque mercanzia, e di riceverne alcuna da loro, il tutto sotto pena di scomunica.[669] Scacciò i Fiorentini ch’erano in Avignone e nelle terre della Chiesa.[670] Gli fece perseguitare nella Francia, nella Inghilterra, ed ovunque potè. Gli venivano tolte le sostanze, erano discacciati in varie parti.[671] Tanto era grave delitto l’esser Fiorentino.

Finalmente, dopo settantadue anni che la corte romana era stata in Avignone, Gregorio la trasportò a Roma dove si pose stabilmente. L’esser lontano dal corpo de’ suoi Stati era lo stesso che il perderli. In Roma era sovrano, in Avignone suddito.

Capo XXIV. Scisma della Chiesa. Venuta di Carlo della Pace a Napoli. Morte della regina Giovanna. Di Urbano VI. Erezione del Ducato di Milano. Genova si sottomette al re di Francia. Compagnia de’ Bianchi. Della cavalleria.

Alla morte di Gregorio XI si aprì uno scisma che per lungo tempo funestò la Chiesa. Le guerre pontificie in Lombardia ed in Romagna cessarono in faccia di lui.

Il popolo romano volea un papa italiano. Ammutinato intorno del conclave gri­dava: «Romano lo volemo, romano». I magistrati inviarono ambasciatori a’ cardinali perchè scegliessero un romano. Erano dodici Francesi, quattro Italiani. Pur fu scelto fra questi tumulti Bartolomeo Prignano arcivescovo di Bari, col nome di Urbano VI. Egli era napolitano.

Appena asceso al pontificato volea ricondurre i cardinali alla austerità de’ co­stumi. Non la conoscevano da qualche tempo. Avea portato sul seggio la stretta disciplina d’un priore di monaci. Rampognava con aspre maniere i cardinali di esser dissoluti, avari, simoniaci. Intempestivo zelo. Tutti i cardinali italiani e francesi si ritirarono a Fondi, dove elessero l’antipapa Cardinal Roberto di Genova, conosciuto col nome di Clemente VII. Dicevano i cardinali essere illegittima la elezione di Urba­no, perchè fatta per timore della sollevazione. Il papa, trovandosi isolato, creò ventisei cardinali. Scomunicò gli elettori e l’emulo, e questo e quelli fecero altrettanto con lui. La Francia, la regina Giovanna, la Savoia tennero il partito dell’antipapa; il rimanente dell’Italia, l’Inghilterra, la Germania, la Boemia, la Ungheria, la Polonia e ’l Portogallo quello del papa. Così divisa l’Europa in due fazioni, Clemente in Avignone, Urbano in Roma si scomunicavano, creavano de’ cardinali, ambi conferivano gl’istessi benefizi e vescovadi. Alla pugna degl’interdetti si aggiunse quella delle armi. Ciascun de’ papi avea al suo stipendio una compagnia di condottieri.

La regina Giovanna provò più d’ogni altro i mali di questo scisma. Il suo nemico era fuori de’ suoi Stati. Urbano fe’ predicar la crociata contro di lei, la dichiarò con una bolla scismatica, eretica, bestemiatrice, rea di lesa maestà, privata di tutti i suoi Stati, confiscati tutti i suoi beni, assolti i sudditi dal giuramento e scomunicati se le prestavano ubbidienza.[672] Poi seguendo l’antica ed a vicenda felice o sfortunata politica di spinger le cose agli estremi, investì del Regno di Napoli Carlo duca di Durazzo, sopranominato della Pace, nipote di Lodovico re d’Ungheria. La regina Giovanna credette di salvare il suo regno coll’adottare per figlio Luigi duca d’Angiò, fratello del re di Francia Carlo V detto il Saggio. Ma Carlo della Pace prese Napoli, fe’ la regina prigioniera, fu coronato re colla moglie Margherita dal cardinale legato. Intanto il figlio adottivo di Giovanna altro non fece che mettersi al possesso della Provenza, in tal guisa togliendole ciò che le avea lasciato il suo nemico. L’antipapa non la difese meglio. Da che vide perduto il Regno di Napoli, ne investì re il duca Luigi, il quale, movendosi per soccorrere la regina, altro non fece che accelerare la di lei morte; poichè Carlo della Pace, dopo averla inutilmente lusingata a rinunciare la corona, sentendo vicina l’armata del duca la fece strangolare, o, come altri scrissero, soffocare in un piumaccio, esponendo di poi al pubblico il suo cadavere. Tal fu la fine di quella sventurata donna, la di cui virtù tacque una sola volta in faccia di un atroce delitto. Tutte l’altre sue azioni furon degne di una saggia ed umana principessa. Il duca Luigi morì ben tosto, lasciando al suo figlio dello stesso nome il ducato di Provenza e le infelici sue pretensioni sul Regno di Napoli.

Il papa Urbano, poichè vide il fortunato esito delle sue bolle, volea dividere la preda con Carlo. Cercava di far re di Napoli il suo nipote Francesco Prignano, cognominato il Batillo, uomo scostumato e brutale. Essendo a Napoli, rapì violente­mente una nobile figlia religiosa di Santa Chiara. Quando si raccontavano a suo zio queste imprese rispondeva: «Egli è giovine». E pure avea quarant’anni.[673]

Il papa intanto dimorava in Nocera, nè di là volea partirsi, per quanto Carlo lo esigesse da lui. Egli chiamava il papa a Napoli, il quale gli rispondeva: «I re vanno dai papi, non i papi dai re». Replicava Carlo: «che i papi non eran fatti per comandare ai regni, ma ai preti».

Tosto si venne ad una aperta guerra. Urbano scomunicò pubblicamente il re e la regina Margherita, privolli del regno, pose Napoli all’interdetto, citò Carlo a comparire. Ei mise la vita del papa alla taglia di diecimila fiorini d’oro, ed inviò il suo gran contestabile conte Alberico di Barbiano con un’armata ad assediare il papa in Nocera. Urbano durante l’assedio si affacciava ad ogni tratto alla finestra della sua camera, ed al suono di una campanella e con una torcia accesa andava scomunicando e riscomu­nicando l’esercito.

Queste metodiche maledizioni de’ suoi nemici non danno un soggetto molto grave d’istoria. Ma il carattere d’Urbano ne presenta un molto funesto. Il vescovo d’Aquila, l’arcivescovo di Corfù, Adamo Eston vescovo di Londra e cardinale di Santa Cecilia, Luigi Donato nobile veneziano, Bartolomeo da Coturno cardinale di S. Lorenzo, Martino del Giudice arcivescovo di Trento, Gentile di Sangri di Abruzzo furono tutte vittime de’ suoi sospetti. Il papa credette che avessero tramata una congiura contro di lui. Li fece più volte porre alla tortura, fu loro estorta la confessione. Teodorico da Niem,[674] uno de’ commissari presenti allo strazio di questi infelici, ne scrive con alto dolore. I notari istessi piangevano nel vedere così trattati uomini rispettabili ed inno­centi. Diceva loro il papa: «Perchè piangete come donniciuole?» ed intanto passeg­giava recitando tranquillamente il suo breviario; Francesco da Perpignano, presente a tale spettacolo, rideva moltissimo.

Furono riposti in carcere colle ossa slogate a patir fame e sete. Il papa si sottrasse all’assedio. Fuggì da Nocera lasciando il suo nipote prigioniero di Alberico. Seco menò le infelici sue vittime. Il vescovo d’Aquila dalle torture dilacerato lentamente seguiva a cavallo la brigata. Urbano lo fece tosto uccidere lasciandolo insepolto sulla via. Arrivato a Genova, fece morire in prigione tutti gli altri, fuorchè il vescovo di Londra, che fu rilasciato ad instanza del re d’Inghilterra,

In tanto che Carlo della Pace avea conquistato il Regno di Napoli, morì il suo zio Lodovico re d’Ongheria. Andò a succedere a quegli Stati, ma per poco, perchè fu presto assassinato. Il Regno di Napoli rimase a Ladislao figlio di esso Carlo, non però senza una continua guerra, che gli fece inutilmente il duca d’Angiò Luigi II.

Coloro che aveano tolto ed ottenuto il governo di una o di varie città, le reggevano con tanto più di gelosia, quanto che i tempi della libertà erano ancora nella memoria degli uomini, e ne duravano per dir così le ultime oscilazioni. Un conte, un marchese, governando un popolo inquieto, circondato da emuli, malsicuro di una precaria sovranità, avea tutto ciò che fa d’uopo per esser cattivo principe, debolezza e timore. Gli avvelenamenti, le stragi clandestine anco fra congiunti funestavano queste famiglie di principi a vicenda vittime e tiranni.

Ci porge una idea di questi disordini la città di Ravenna, che verso tai tempi governata da Bernardino da Polenta era ridotta a segno che non vi abitavano più che dei contadini e dei poveri artigiani. Gli altri tutti erano fuggiti.[675]

La famiglia de’ Visconti dava degli atroci esempli all’Italia. Governavano Milano e varie città adiacenti Bernabò e suo nipote Gian Galeazzo. Questi imprigionò a tradimento il zio e lo fece morir di veleno. Bernabò era un tiranno. Gian Galeazzo fu un assassino. Veggo dall’una parte il governo di un pessimo principe, dall’altra un funesto esempio di domestica tradizione. È una triste alternativa. Il parricida non fu guardato con orrore da’ suoi sudditi. Qualunque delitto che ponesse fine a quelli di Bernabò dovea applaudirsi. Egli era abominato. Questo assassinio che ricoprirebbe d’ignominia un privato, non infamò quel principe. Egli diede in appresso Valentina sua figlia in moglie a Lodovico duca di Turenna, conte di Valois, fratello del re di Francia.

Così in questi secoli gettaronsi i fondamenti di quella tristissima fama d’esser la nostra nazione perfidamente astuta, sublimata in seguito al grado di ragionata politica dal Segretario fiorentino, l’uomo che facesse il maggior abuso d’un sommo ingegno. L’infame celebrità d’avere con freddi teoremi insegnate le utilità del veneficio e delle stragi occulte, in un compito trattato di perfidia, non si troverà, per avventura, comune con nessun’altra nazione; questo fu un nostro particolar e vergognoso genere di letteratura.

Lo scisma della Chiesa non si spegneva colla morte degli antipapi. Morto Clemen­te VII, gli succedette il cardinale Pietro della Luna, col nome di Benedetto XIII. Urbano V era morto. Bonifacio IX teneva il seggio pontificale. Così s’eran formate due sedi: l’una in Avignone, l’altra in Roma. Lo scisma non era accidentale, ma di sistema.

Ladislao re di Napoli somigliava in ciò alla regina Giovanna, di facilmente disgu­starsi del primo matrimonio. E chiese al papa Bonifacio che gli concedesse il divorzio della regina Costanza. Diceva di avere acconsentito a tal maritaggio in minore età e sforzatovi. Il papa trovò legittime le sue ragioni e disciolse il matrimonio. Vi fu chi attestava che Costanza non era stata moglie che di nome. Sono pericolose queste cauzioni. Costanza fu per forza rimaritata da Ladislao con Andrea da Capoa. Ella andando a giuste nozze disse piangendo sulla pubblica piazza di Gaeta al nuovo marito ch’egli prendeva per concubina la moglie di re Ladislao.

Merita la nostra attenzione l’erezione che ora si fece del ducato di Milano.[676] I Visconti fino a questi tempi avevano ottenuto il governo di quella considerevol porzio­ne d’Italia come vicari imperiali. Gian Galeazzo ora ebbe dall’imperatore Venceslao il titolo di duca di Milano, credesi col merito dello sborso di centomila fiorini d’oro. Nell’anno seguente fu confermata la concessione. Non v’intervenne l’assenso dagli elettori. Onde fu questo un soggetto di disputa fra essi e Venceslao.

Genova, in tai tempi sconvolta dalle fazioni, dava se stessa ora all’uno ora all’altro principe sempre chiamandosi repubblica. Il doge Antoniotto Adorno ritrovò così pericoloso il suo grado che diede il governo della città a Carlo VI re di Francia, che lo accettò.[677] Vi susistè il dominio de’ Francesi tredeci anni, a capo de’ quali furono discacciati per l’abuso che ne facevano. Una città ridotta ad implorare la protezione altrui ritrova per lo più in chi la difende un insultante patrocinatore. Sono pochi gli uomini che accolgano i deboli senza far loro sentire il peso de’ benefizi.

Vi fu in questi tempi una seconda Compagnia de’ Bianchi. Nacque in Granata.[678] Venne anco in Italia. Consisteva in molte migliaia di penitenti che, vestiti di bianco con un cappuccio in capo, andavano per le città esclamando: «Misericordia, Dio, misericordia!». I Veneziani ed il duca di Milano non la ricevettero ne’ loro Stati. Il papa Bonifacio l’abolì. Ne rimasero per varie città le reliquie, che tutt’ora sussistono. Si disse che il papa temeva che questa non fosse una particolar divozione inventata dal suo emulo. Credeva forse in un esercito trasvestito? È un segreto inutile quello che è confidato a più centinaia di persone.

I turchi già da lungo tempo assediavano Costantinopoli. I successori di Costantino erravano per l’Europa chiedendo invano d’esser soccorsi. Ora faceva tal pellegrinaggio Manuello Paleologo ridotto all’ultime strettezze da Baiazette. Venceslao re de’ Romani, ghiotto quanto Vitellio, strano quanto Caligola, fu deposto dagli elettori e messo in prigione. Tal era la maestà dell’uno e dell’altro imperio.

Vi fu un costume comunissimo del quale fin ora non ho parlato. È noto quanto resse in uso il creare i cavalieri, e quanto rispetto godesse questo ceto.

Tal costume è molto antico. Tacito osservò[679] che i Germani davano le armi ai giovani con certe solennità nelle adunanze della nazione. I re longobardi[680] non permet­tevano a’ lor figli di pranzare con essi se non erano stati armati cavalieri. I Romani davano il cavallo e l’anello pubblico per creare gli equiti. Nelle nazioni guerriere vi deveano esser questi solenni segni di stima per una così importante professione. Le distinzioni sono sempre in origine conformi alla utilità pubblica, od alle idee che di essa ha la nazione. Gli onori sono distribuiti dal bisogno. Così quando si credettero uomini utili alla società quelli che in tempi d’anarchia sapevan le leggi ed avevan più chiare idee di giustizia, si usò di dar loro la toga con certi esterni atti d’onore. È per lo stesso principio che solennemente si faceva un giurisconsulto ed un cavaliero. Credo che con questi princìpi si possa ritrovare l’origine della nobiltà in tutte le nazioni, e qual sia quella conforme ai veri vantaggi di ciascuna.

Le formalità di creare un cavaliere erano queste. Il candidato andava il primo giorno a giurar fedeltà a chi lo doveva creare; poi alla Chiesa, quindi a pranzo, nel quale non mangiava che pane ed acqua. Dopo pranzo si confessava, poi andava al bagno. Alcuni cavalieri lo spogliavano e ve lo ponevano. Mentre vi era, gli davano i precetti della cavalleria e gli parlavano seriamente della gran dignità alla quale dovea essere innalzato. Veniva dopo riposto in letto. Verso sera si levava; vestivasi di una tonaca bianca con un capuccio; cenava in pane ed acqua. Andava alla chiesa a far la veglia delle armi, orando tutta la notte a porte chiuse. Vi assistevano preti, chierici, fanciulle e nobili matrone vestite di gala. All’aurora un prete benediva le armi. Poi si celebrava la messa. Il cavaliere riceveva la Santa Comunione ed offriva qualche somma di danaro. Apertasi la chiesa, il candidato andava a far colazione. Ritornava con gran seguito vestito della tonaca bianca. Si cantava la messa. Dopo l’Evangelio giurava di difendere le dame, le fanciulle, gli orfani, i pupilli ed i beni della Chiesa, di non dimorare in un luogo in cui si dasse un falso testimonio, di non congiurare in qualche ribellione, di non rimanere dove si tentasse di sedurre una dama, o di cercare d’impedirlo co’ buoni consigli. Tutto ciò dimostra i vizi de’ tempi. Giurava ancora il cavaliero di digiunare il venerdì. Poi gli si mettevano da due cavalieri gli speroni d’oro, ed una nobile fanciulla gli cingeva la spada. Allora chi lo creava cavaliero gli dava una guanciata dicendogli: «Tu sei cavaliero della nobile cavalleria, questa sarà l’ultima ingiuria che tu devi sopportare». Da qui sembra tolto il costume dello schiaffo nella cresima. Non lo troviamo prima de’ tempi della cavalleria. S. Carlo Borromeo era di questa opinione. Finita la messa, andava col suo seguito alla casa di quello che faceva cavaliere. Incontrava alla porta varie fanciulle cinte di fiori e con ghirlande fra di loro unite, mostrando di non volerlo lasciar entrare. Allora ei dava a ciascuna un anello e lor diceva di aver giurato di proteggere le dame e le fanciulle. Lo che fatto, davan luogo. Sedeva il cavaliero ad un convitto. Intanto si gettavano al popolo de’ comestibili. Mi servirò delle parole di un’antica relazione di tal solennità fatta in Arezzo, pubblicata da Francesco Redi:[681] «Proiecta fuit a finestra ad populum qui erat in strata magna quantitas trageae, multi panes mostacei, multae gallinae et pippiones, et magna aucarum quantitas, unde magna et incredibilis laetitia in tota illa contrata erat, et populus exclamabat vivat, vivat, et orabat ut frequentius haec festivitas fieret». Dura il costume di gettare de’ comestibili al popolo in alcune città d’Italia nella installazione di un dottore. Dopo pranzo si vestiva il cavaliere dell’armi benedette, ed andava alla giostra. Vi presiedevano i giudici. Seguirò colle parole della stessa relazione: «Stastiludium prius factum fuit de corpore ad corpus cum lanceis absque ferro acuto. Postea fuit factum torneamentun cum evaginatis ensitis et res fuit pulchra et terribilis, et tamquam vera guerra esset. Et per gratia Dei nihil mali vel damni accidit… Appro­pinquante iam vespere cum magno strepitu tubarum in diebus fuit finis torneamenti». Allora i giudici davano il premio al più valoroso, e chi era stato gettato da cavallo veniva portato d’intorno: «in barella derisoria facta de fustis». Finiva la solennità con una cena, ove il cavaliere regalava chi lo avea servito.

Tal costume divenne frequente dopo il secolo millesimo. Da qui derivarono gli ordini de’ templiari, ospitalieri, teutonici, gaudenti. Le armi delle famiglie nobili sembrano tolte dalle insegne che portavano i cavalieri ne’ scudi. In questa straniezza di usanze v’era un gran fondo di virtù. Ella è sempre rispettabile, qualunque sia l’apparenza di cui la rivesta il capriccio degli uomini.

Si creavano de’ cavalieri per lo più nelle pubbliche feste per nozze di principi, nelle corti bandite e nelle spedizioni militari. Era più onorevole l’esser creato in queste ultime.

Capo XXV. Seguito dello scisma e suo fine. Vicende de’ Visconti e del Regno di Napoli. Concili di Costanza, Basilea e Ferrara. Loro circostanze ed esito. Instabile riunione co’ Greci.

Lo scisma della Chiesa era divenuto stabile. Innocenzo VII era succeduto a Bonifacio IX. L’imperatore ed il re di Francia cercavano invano di ridurre ambe le parti a rinunziare al pontificato: Pietro della Luna fu bloccato dalle truppe francesi nel suo palazzo di Avignone. In tale situazione promise che avrebbe dimessa la sua dignità se Innocenzo faceva lo stesso. Si proccurò un abboccamento fra di essi, ma il papa ricusava ogni partito.[682] L’impieghevolezza sua eccitò de’ torbidi in Roma. Fu assediato in Castel S. Angiolo da Giovanni Colonna e da Ladislao re di Napoli. Dopo varie fazioni si trattò di pace. Furono inviati al papa per tal fine undici de’ più distinti nobili romani. Al loro ritorno vennero invitati a sua casa da Lodovico Migliorati nipote di esso papa. Vi andarono gli ambasciatori sulla buona fede. Lodovico fece macello di tutti. I cadaveri furono gettati dalle finestre. La storia non insegna che il papa avesse parte in questa infame strage. Ciò non ostante i Romani vendicarono su di lui il delitto di suo nipote. Fu scacciato Innocenzo da Roma con i cardinali. Poco dopo morì. Gli successe Gregorio XVI.

Pietro della Luna dichiarato eretico dalla Sorbona sembrava un antipapa immor­tale. Roma era in potere del re Ladislao che, profittando dello scisma, l’avea occupata e se ne chiamava re.

Seguitavano le istanze dei principi per la vicendevol rinunzia de’ papi. Ambi si dicevano pronti a ciò fare per il bene della Chiesa, ma sempre aggiungevano: purchè il mio emulo rinunci. Così dall’uno all’altro si rimandavano le negoziazioni. Teodorico da Niems scrive a tal proposito: «Molti dicono che i due competitori se la intendono fra di loro per dilungare la riunione, come due campioni che venissero in arena per combattere dopo di essersi intesi di non nuocer punto; ritirandosi avrebbero compia­cenza d’essersi burlati de’ spettatori, e gli spettatori si burlerebbero di loro».

Per dar fine allo scisma si convocò un concilio in Pisa nel quale furono deposti ambi i papi come eretici, spergiuri, scomunicati, incorreggibili. Alessandro V fu creato. Non produsse altro effetto questa risoluzione del concilio, che di due papi farne tre. I papi deposti tennero ciascuno i loro concili: Gregorio in Austria nella provincia di Aquilea, Pietro della Luna in Perpignano decidavano sinodalmente d’es­ser veri e legittimi pontefici.

Gregorio si rivolse a profittare della sua incerta dignità. Vendè al re di Napoli Ladislao quanto era in pericolo di perdere, Roma, la Marca, Bologna, Faenza, Forlì, Perugia e tutte le terre della Chiesa per venticinquemila[683] fiorini d’oro, più facili a conservare che li suoi Stati.

Non erano strani simili contratti in que’ tempi. In tal modo la Repubblica di Pisa perdette la sua libertà. Fu venduta a’ Fiorentini dal capitano Gambacorta per cinquan­tamila fiorini d’oro. Giovanni Loardi vendette Bergamo a Pandolfo Malatesta. Ladi­slao vendette Cortona a’ Fiorentini e Zara ai Veneziani. I Genovesi vendettero a’ stessi Fiorentini Livorno. Ve ne sono molti altri esempi in questi secoli. Era un nuovo diritto delle genti. Gian Galeazzo Visconte duca di Milano e Ladislao re di Napoli aspiravano ad esser grandi. Il Visconte seguiva il progetto da molto tempo concepito dalla sua famiglia di conquistare l’Italia, ed il re di Napoli era cotanto voglioso di farsi impera­tore, che portava nelle sue insegne il motto «Aut Caesar, aut nihil». Poco dopo morì con tal desiderio.

Roberto re de’ Romani collegato col papa e co’ Veneziani trovava troppo grande la potenza ed i disegni del suo feudatario il Visconte. Venne per deprimerla, fu sconfitto. In tale occasione rimase prigioniero del Visconte il duca d’Austria, che fu tosto messo in libertà. Il duca di Milano poteva aver delle alte mire. Oltre a ventiquattro tra borghi e città che avea ereditato dal suo zio Barnabò, vi avea aggiunto Bologna, Pisa, Siena, Perugia e la Lunigiana.

La di lui morte risommerse que’ Stati nel disordine delle fazioni estinte dalla potenza de’ suoi maggiori. Si sospettò che i Fiorentini lo avvelenassero. Furono perdute le conquiste di Gian Galeazzo. Gian Maria, suo successore, visse fra i tumulti che fomentavano il papa ed i Fiorentini. Questo duca avea ereditato l’inaudito costume di Bernabò di far sbranare da’ mastini coloro che gli erano sospetti. Avea in questo spettacolo una barbara compiacenza.[684] Fu ucciso tal mostro da alcuni congiu­rati nella Chiesa di S. Gottardo in Milano, intanto che ascoltava la messa. Filippo Maria suo successore condannò a morte la moglie Beatrice rea di sola vecchiezza. Si ebbe l’impudenza di ricoprire questa atrocità col calunniarla di esser infedele. Messa alle torture, confessava questa infelice fra gli spasimi il delitto, poi si diceva innocente col suo confessore. Finì la tragedia col farle troncare la testa.[685]

Il marchese Nicolò di Ferrara ed Ottobono signore di Parma e di Reggio erano in continue zuffe. Fu stabilito fra di essi un abboccamento in Rubiero. Ivi, mentre che Ottobono abbracciava il suo nemico per complimento, Sforza Cotignola generale del marchese di Ferrara trafisselo con una stoccata furtiva in quell’atto istesso.[686]

Tali erano i costumi de’ principi. Così illustri esempli di barbarie diffondevano un funesto contagio nel popolo. Egli era sepolto nella ferocia e nel avvilimento.

Giovanna II era succeduta nel Regno di Napoli al fratello Ladislao. Si esigeva da lei che prendesse un marito. Lo scelse nel conte Giacomo della Marcia, real principe della Francia, col patto che non participasse al governo. Giunto a Napoli, prese il titolo di re, fece mettere in prigione Pandolfello Camerlengo favorito dalla regina, e lei stessa. Seppe la regina trarsi di prigione, costrinse Giacomo a deporre il titolo di re, e finirono i suoi tentativi col ritornare in Francia, dove altro compenso non seppe ritrovare alle sue sfortune, che di farsi frate.

Il pontefice Alessandro V lasciava le cure del suo grado al cardinale Baldassare Costa che gli faceva da tutore. Si disse ch’egli avvelenasse il papa per succedergli. Gli successe, di fatti, alla di lui morte: prese il nome di Giovanni XXIII. Il Platina scrive che più coi danari a Filippo da Bergamo che colle minacce ai cardinali Giovanni ottenne quella dignità.

I tre papi Giovanni XXIII, Gregorio XII e Benedetto XIII ossia Pietro della Luna, si scomunicavano vicendevolmente. In tale stato di cose si unì un nuovo concilio in Costanza. Gregorio e Benedetto vi furono citati. Non vollero comparirvi. Non piaceva a Giovanni che si fosse scelta per tenere il concilio una città dell’imperatore. «Non voglio dimorare in un sito dove l’imperatore sia il più forte», egli diceva al suo segretario Leonardo Aretino.[687] Ciò non ostante Giovanni andò al concilio nel quale si trovava presente l’imperatore Sigismondo. Appena si trattò di deporre, che segretamente se ne fuggì vestito da villano, o, come altri, da postiglione. Ricovrossi a Sciaffusa, poi a Luftenberg, poi a Friburgo. Federigo duca d’Austria favorì questa fuga. L’imperatore Sigismondo obbligollo a restituire il papa, che fu messo in prigione ad Heidelberg, dalla quale dopo quattro anni fu rilasciato per interposizione de’ Fioren­tini collo sborso di trentamila scudi.

Tutti e tre i papi furono deposti dal concilio. Fu creato Martino V del quale si disse comunemente il proverbio: «Papa Martino non vale un quattrino».[688] Egli ritrovò Roma posseduta dalla regina di Napoli, e tutti i Stati della Chiesa divisi fra conti e marchesi. Non ritrovando sicurezza in mezzo di tanti nemici, andò a Firenze, d’onde fuggì per le molte satire che gli si facevano. Fu in quella città che Giovanni, escito dalle carceri, lo riconobbe per legittimo pontefice, e sei mesi dopo morì.

La regina di Napoli, chiamandosi regina di Roma, e possedendola, poteva far troppo bene e male al papa, perchè in tempi così tumultuosi si mostrasse suo nemico. Le diede la corona del Regno di Napoli, e, dandole ciò ch’ella avea, ottenne da lei un’armata comandata dal contestabile Sforza, che fu creato gonfaloniere della Santa Sede. Appena il papa riaquistò con tal soccorso i suoi stati che non lasciò dubitare d’aver dissimulato quando era debole, per mostrarsi nemico quando il potesse. Trasse dal suo partito il contestabile istesso e mosse a’ danni della sua difenditrice Luigi III duca d’Angiò, a cui qualunque invito bastava perchè sempre riclamavano que’ principi i loro inutili diritti sul regno di Napoli. Li fondavano nella adozione di Luigi I d’Angiò, avo di questo, fatta dalla regina Giovanna I, madre della regnante. La regina scelse lo stesso partito di sua madre in simili circostanze. Adottò per suo figlio Alfonso re d’Aragona e di Sicilia, e lo coronò duca di Calabria. Ei tentò d’usurparle il regno. Fu annullata la sua adozione, ritornossene in Ispagna, saccheggiò per istrada Marsiglia, città del duca d’Angiò, rubbandogli per dispetto il corpo di S. Luigi vescovo di Tolosa. Giovanna adottò in seguito il suo stesso nemico Luigi. Lo vinse con tal confidenza. Le fu sempre buon figlio.

Alfonso re d’Aragona, per rendersi rispettabile al papa Martino, teneva sempre di riserva un antipapa. Pietro della Luna finchè visse fece questa parte. Egidio Mungos dopo di lui sosteneva lo stesso personaggio e, quantunque pensionario di quel re, non lasciava di creare cardinali e di far tutte le fonzioni di papa col nome di Clemente VIII. L’Italia era destinata dal suo sistema a continua guerra. I Veneziani conquistarono buona parte della Dalmazia e della Albania. S’impadronirono per la prima volta del Friuli.

Filippo Maria Visconte stava ricuperando li suoi Stati. Incostante e debole prin­cipe, si rendeva terribile col valore di Francesco Sforza, suo generale. Gabrino Fondoli signor di Cremona gli avea tolta la città di Verona. Fu preso con inganno dal Visconte, e fu condannato a morte. Così descrive il suo supplicio Paolo Giovio:[689] «Gabrino, condotto sulla pubblica piazza di Milano per esser suppliziato, alla vista del palco, esortandolo i monaci perchè si disponesse a morir da cristiano e si pentisse de’ suoi delitti, rivolti a loro biecamente gli occhi, “Lasciate, disse, di esser molesti ad un uomo con indegna perfidia tradito, poichè tanto io son lontano di pentirmi di quanto ho fatto col gius della guerra, che anzi molto mi duole di non aver precipitati dalla mia torre Cesare ed il papa ad immortal fama di una illustre impresa”». Così ei diceva, perchè qualche anno prima, avendo alloggiato il papa Giovanni XXIII e Sigismondo imperatore, gli condusse alla cima della torre di Cremona. L’Italia tutta era in moto: Tartaglia, Nicolò Picinino, Angelo della Pergola, Braccio Montone erano gl’illustri condottieri che andavano allo stipendio de’ principi italiani. Il loro valore era sommo, la loro fede pochissima. Mettevano all’incanto il mestiere di far strage degli uomini. Braccio Montone era così nemico del papa che si vantava che lo avrebbe ridotto a dir messa per un baiocco. L’arte della guerra, se non avea oggetti grandi, era però esercitata da grandi uomini. Molti secoli impiegati in una triste esperienza l’avevano insegnata. Si mettevano fino sui fiumi e sui laghi delle armate navali, perchè non vi fosse un palmo di terreno ove non si pugnasse.

La morte di Francesco Carmagnola generale de’ Veneziani fu un funesto avvenimento di questi tempi. Venne accusato di non fare di buona fede la guerra al duca di Milano, e di avere con lui segnate corrispondenze. Quel rispettabile guerriero fu messo a’ tormenti. Con essi gli fu estorta la confessione. Gli fu troncata la testa sulla piazza di S. Marco. Il Sanuto, storico veneziano, dice ch’egli era reo. Nella Cronica di Milano così è scritto:[690] «Dissesi che questo hanno fatto perchè egli lealmente non faceva la guerra contra il duca di Milano, com’egli doveva, e che s’intendeva col duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo stato loro posto nelle mani del conte capitano di tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contro di lui. Iddio voglia che abbiano fatto saviamente».

Eugenio IV era succeduto a Martino V. Egli era stato portato al seggio dagli Ursini, famiglia molto potente in Roma ed emula dei Colonna. Il defunto papa era di questa casa. Eugenio appena giunto al pontificato fece ammazzare con vari supplici più di duecento partigiani colonnesi.[691]

Si aperse un concilio in Pavia, poi trasportato a Siena e per fine in Basilea, che fu come un’appendice di quello di Costanza. Doveasi trattare in Costanza della riunione colla Chiesa greca e della riforma del clero, ma si differì il tutto ad un altro concilio. Questi adunque erano gli oggetti del concilio di Basilea. Eugenio non approvava nè il luogo, nè le massime del concilio. Egli tenevasi in una città imperiale, e per trattarvi della riforma e della primazia della Chiesa. Sostenevano i padri di Basilea che il concilio è superiore al papa, adducevano il fresco esempio della deposizione di Giovanni. Eugenio scriveva al suo legato il cardinale Giuliano che sciogliesse il concilio, e gli spediva bolle a tal fine. I padri citavano il papa a comparire, e trovavano strane le sue pretensioni: lo dichiaravano uomo incorregibile, che scandalizzava la Chiesa, e sospeso dal pontificato. Eugenio dichiarava nulle tutte queste procedure e riscioglieva il concilio. Trattavasi di togliere le annate, di limitare le indulgenze e il numero de’ cardinali. Erano articoli importanti per la potenza pontificale. Intanto, due condot­tieri, Francesco Sforza e Nicola Fortebraccio, a nome del duca di Milano, entrarono a desolare le terre della Chiesa. Il Visconte fece correre una apocrifa lettera del concilio in cui lo creava in Italia suo luogotenente: diceva perciò far tali imprese al nome del Sinodo istesso. Gli ambasciatori dell’imperator Sigismondo e del re di Francia svela­rono la falsità di quel documento. Il papa a furor di popolo fu tenuto prigione nel suo palazzo, da dove fuggì con due frati in una barca sul Tevere. Fu accompagnato a colpi di balestra. Si ricovrò a Firenze.

Il papa pubblicò un concilio in Ferrara al quale chiamò anche i vescovi greci. V’intervennero l’imperatore Giovanni Paleologo ed il patriarca di Costantinopoli,[692] e molti vescovi d’Oriente. Erano indotti a questi passi dalla sempre inutile speranza di ottenere una crociata. I due concili si chiamavano l’un l’altro conciliaboli e scisma­tici, si annulavano vicendevolmente i decreti. Il duca di Milano seguiva le sue imprese profittando di queste dispute. Prese Bologna, Ravenna ed Imola, e temendo il papa che non venisse anche a Ferrara, trasportò il concilio a Firenze. Ivi si trattò dello scisma co’ Greci. Quattro erano i punti di controversia. La processione dello Spirito Santo, l’uso del pane azimo nella consecrazione, il purgatorio, la primazia del papa. Consi­steva la disputa intorno al purgatorio in ciò, che i Greci dicevano non vi esser fuoco, ma soltanto tenebre e tristezza, e ricordavano però la reduzione colle elemosine, preci e sacrifizi. Con qualche modificazione dopo molti discorsi si unirono i padri greci e latini su tutti i quattro punti. La profession di fede col consenso d’ambe le parti era già stesa. Non vi mancava che la sottoscrizione del greco imperatore. Egli la vendette a caro prezzo. Aspettò a questo tempo per mettere in campo i veri motivi del suo zelo. Dovette il papa accordargli le spese del ritorno per lui ed i vescovi; obbligarsi a mantener tutti gli anni trecento soldati e due galere per la difesa di Costantinopoli, ed a dare all’imperatore, quando ne avesse bisogno, venti galere per sei mesi e dieci per un anno. Poi si sottoscrisse. Ritornato l’imperatore co’ vescovi a Costantinopoli furono da tutto il clero risguardati come scomunicati, il popolo si sollevò contro di loro chiamandoli per derisione azimiti. L’imperatore non potè sostenere gli universali tumulti. Si era fatto cattolico per conservar le ruine di un vasto impero dal continuo assedio de’ Turchi, e si vedea in pericolo di esservi sepolto da’ suoi sudditi istessi. Non si parlò più della riunione, e ritornarono le cose nello stato primiero insensibilmente.

Il concilio di Basilea, lo stesso giorno nel quale si ultimò in Firenze la riunione, decretò la deposizione di Eugenio ed elesse in suo luogo Amadeo duca di Savoia, che si era ritirato in Ripaglia nella diocesi di Ginevra a far l’eremita, non abandonando però il governo de’ suoi Stati. Egli fu il primo duca di Savoia, e unico papa duca. Prese il nome di Felice V.

Eugenio nel decreto di deposizione era chiamato perturbator della Chiesa, simoniaco, spergiuro, scismatico, incorregibile, eretico, ostinato ne’ suoi errori, inutile, pericoloso amministrator del pontificato. Il papa rispose chiamando il concilio di Basilea: consesso dove tutti i demoni dell’universo si erano uniti per mettere il colmo alla iniquità e far serpeggiare l’abominazione e la desolazione nella Chiesa di Dio, dichiarando tutti que’ Padri riserbati all’eterno giudizio del Signore in compagnia di Coran, Daton, Abiron. Scomunicò subitamente l’antipapa Felice, e per rinforzare il suo partito creò dieci cardinali di tutte le nazioni cattoliche.

Non era soggetto di minori tumulti il Regno di Napoli. La regina Giovanna, morendo, aveva instituito erede Renato duca d’Angiò, fratello di Luigi già da lei adottato e premortole. Renato ed Alfonso re d’Aragona e Sicilia concorrevano a quel regno; l’uno citava il testamento, l’altro l’adozione. Il papa Eugenio sosteneva esser quegli Stati della Santa Sede, a lui spettare il conferirne l’investitura a chi gli piacesse. I Genovesi entrarono in queste dispute. Fecero prigioniero il re Alfonso, lo consegna­rono al duca di Milano che restituillo in libertà. Lo che trovarono così biasimevole i Genovesi che, essendo sudditi di quel duca, gli si ribellarono. Il papa intanto, involto nelle controversie dello scisma, non avea campo di sostener le sue pretensioni a quel regno. Alfonso conquistollo. Renato venne a Firenze a raccontare al papa le sue sfortune, il quale non altro aiuto potè dargli, che l’investitura del regno perduto. Renato intese ciò non esser sufficiente per conquistarlo, onde ritornò in Provenza. In tal guisa, il Regno di Napoli dai duchi d’Angiò passò agli Aragonesi, già stabiliti in Sicilia dopo il Vespro di Palermo. Quest’Alfonso fu detto il primo fra i re di Napoli. Ebbe due figli: Giovanni e Ferdinando; questo era bastardo; a lui lasciò il Regno di Napoli. Giovanni ebbe que’ di Castiglia e d’Aragona con quello di Sicilia. Così queste due linee continuarono a regnare, l’una in Ispagna e Sicilia, l’altra in Napoli.

Nel duca di Milano Filippo Maria si estinse la famiglia de’ Visconti, celebre per fortuna e crudeltà. S. Antonino chiamava questo duca vecchio serpente. Enea Silvio così lo dipinge: difficile sulle prime, di spirito mordace, poi si addolciva e facilmente perdonava; prodigo e rozzo, amantissimo de’ cavalli e della caccia, non poteva viver tranquillo nè in pace, nè in guerra, disimulatore, credulo, sospettosissimo. Successe de’ suoi Stati quello che del Regno di Napoli alla morte di Giovanna. Chiunque sperò di conquistarli prese le armi. I Veneziani, gli Arragonesi, l’imperatore Federico III, i Francesi, il papa Nicolò V succeduto ad Eugenio, il duca di Savoia posero in campo quelli che in tali occasioni si chiamano diritti. Il conte Francesco Sforza, genero del morto duca, vinse la congiura. Le battaglie di Piacenza e di Caravaggio contro de’ Veneziani sono famose in questi tempi, e decisero la fortuna dello Sforza. Fu procla­mato da’ suoi sudditi signore di quegli Stati che avea difesi col suo valore. È la più legittima di tutte le investiture.

I concili di Firenze e di Basilea ebber fine per stanchezza di combattere. Quello di Firenze si trasferì a Roma, quello di Costanza a Lione, quindi a Lusanna, poi si disciolsero entrambi.

Finalmente fu del tutto estinto lo scisma col avere il pontefice Nicolò ceduto alquanto per vincere. Rara politica in tali dissensioni. Il re di Francia Carlo VII ebbe la più gran parte in questo accomodamento. Felice s’indusse a rinunziare al seggio riservandosi il cardinalato e la primazia fra tutti i cardinali. Fu fatto vicario e legato perpetuo in tutto il ducato di Savoia; fu stabilito che quando si presentasse a Sua Santità ella si alzerebbe e lo baccierebbe, che conserverebbe gli abiti pontificali, e che uscendo da’ suoi Stati sarebbe dapertutto legato apostolico. Ritornò a Ripaglia quel principe singolare in ciò, di esser stato duca, antipapa ed eremita, e poi cardinale. I Padri di Basilea si unirono per l’ultima volta a Lusanna, approvarono la cessione di Felice. Annullarono gli atti contro di Eugenio e di Nicolò, il quale fece altrettanto con loro. Così finì lo scisma di settanta anni. Non n’ebbe mai la Chiesa eguale.

L’imperatore Federico III venne in Italia e fu coronato da Nicolò. Fece dei conti e de’ cavalieri. Dubravio Skala vescovo d’Olmuz nella Storia di Boemia racconta che, essendo l’imperatore a Venezia, gli fu preparata su di una tavola una magnifica credenza in dono della Repubblica. Federico, vedutala, fece segno al suo buffone di rovesciarla. Il comando fu eseguito. Tutto andò in pezzi. Federigo si pose a ridere e disse con alta voce, per esser inteso, che se la credenza fosse stata d’oro o d’argento non si sarebbe rotta così facilmente.

Capo XXVI. I Turchi prendono Costantinopoli. Timore de’ papi che non vengano in Italia. Inutili tentativi del duca d’Angiò sul Regno di Napoli. Assassinio del duca di Milano e di Giuliano de’ Medici. Zizimo fatto prigioniero da’ cavalieri di Rodi. Letterati greci fugono in Italia. Risorgimento della letteratura.

Fu destinata la metà del secolo decimoquinto ad esser l’epoca della presa di Costantinopoli fatta da Maometto II. Costantino Paleologo avea la sfortuna d’esserne imperatore. Non è strano che fosse presa quella città, ma bensì che impiegassero nel di lei assedio continuo dei secoli. Non v’è esempio simile. A ciò contribuì il fuoco greco. Non sappiamo cosa egli veramente fosse, sappiamo bensì che con esso abbru­ciavano facilmente le flotte de’ Turchi, e che si soffiava da un tubo. Callinico di Soria lo portò a’ Greci molto tempo prima.

Il pontefice Nicolò V intimò subitamente una pace universale sotto pena della scomunica.

Il duca di Milano ed i Fiorentini aveano fatto venire in Italia Carlo VII re di Francia, e per la seconda volta Carlo d’Angiò. Nessuno si prese cura delle scomuniche; le guerre non s’estinsero.

Ottenne un frate ciò che il papa desiderò in vano. Simone da Camerino agosti­niano ebbe tanto credito che mise la tregua in tutta l’Italia, per modo che il re di Francia ed il duca Renato, abbandonando la conquista di un regno, se ne partirono.

Un altro frate dominicano aveva scelto il mestiere di predicare nel Regno di Napoli con lunga barba e piedi scalzi la penitenza. Ei profetizzava la venuta dell’An­ticristo e la fine del mondo tutt’al più all’anno 1460.[693] V’erano stati in que’ tempi de’ terremoti nel Regno. Ho spesso ritrovato insieme nelle storie pubblici spaventi e falsi profeti.

Genova era una città che ora ai Francesi, ora ai duchi di Milano si sottometteva e si ribellava.

In Roma non erano estinte le idee dell’antico splendore. Stefano Porcaro, nobile romano, seguì le tracce di Nicola da Rienzo. Pensò a stabilire l’antica Repubblica. Imitatore di Cassio, congiurò contro del papa. Finì il suo progetto coll’essere appiccato.[694]

Le conquiste di Maometto avanzavano verso l’Italia. I papi pubblicavano delle inutili crociate. Cessavano di tempo in tempo le guerre in faccia del pericolo comune, quindi si riaccendevano.

Nicolò V, poi Callisto III, poi Pio II non aveano lasciato di eccitare i principi a prendere la croce. Pio tenne anco una dieta in Mantova, la quale altro non produsse che qualche elegante arringa.

Maometto, irritato perchè i Veneziani aveano saccheggiato il borgo d’Alena, fece[695] voto di non godere d’alcun piacere, di non dormire, mangiare, rivolgere la sua faccia a l’Oriente, sino a che non avesse calpestati coi piedi del suo cavallo gli adoratori di Cristo, e che non avesse esterminata la loro empietà sulla terra dall’Occidente sino all’Oriente, a gloria del Dio di Sabbaoth e del Gran Profeta Maometto. I Veneziani mandarono questo voto al papa. Lo aveano ricevuto da’ Ragusi. Presero tosto Negroponte a’ Veneziani, Otranto al re di Napoli, ed arrivarono fino a Udine. L’Italia avrebbe corso un gran pericolo, se la morte non troncava le vittorie del Conquistatore.

Intanto si disputava caldamente fra i dominicani ed i francescani, se il sangue di Gesù Cristo che rimase nel sepolcro potesse o non potesse adorarsi. I francescani sostennevano che no, come separato dalla Divinità. Si portò la controversia alla presenza di Pio II. I più valorosi teologi d’ambi gli ordini l’agitarono. Era di bel mezzo inverno, ed i combattenti grondavano di valorosi sudori.[696]

Il papa finì la contesa con una bolla in cui scomunicava chi dice una delle due proposizioni essere eretica. Decisione degna di un illustre letterato qual’egli era. Il suo nome è Enea Silvio Piccolomini senese.

Gli imperatori venivano in Italia a crearvi de’ cavalieri, dei conti palatini, dei dottori, dei notari; vi legittimavano gli spuri, davano delle patenti di poeta, toglievano l’infamia ai rei di falsità e di altri delitti. Quest’erano le imprese loro.

I duchi d’Angiò facevano delle sfortunate comparizioni in questa provincia. Giovanni, figlio di Renato, era duca d’Angiò. Ferdinando figlio naturale di Alfonso era re di Napoli. Giovanni venne alla conquista del Regno. Ridusse il suo nemico signore di vasti e fertili Stati a cercar l’elemosina a’ propri sudditi. La regina Isabella andava per Napoli colla bussola in mano a raccoglier danaro per suo marito.[697] Ella vestissi da zoccolante e portossi segretamente al campo del principe di Taranto suo zio, che militava col duca d’Angiò; gittossi a’ suoi piedi, pregandolo che, avendola fatta regina, anco la conservasse.[698] Si vide ben tosto il principe di Taranto temporeggiare ed esser irresoluto nelle imprese. La guerra si sopì. Il duca Giovanni, dopo di esser stato sul punto di prender Napoli, ritornò in Provenza. Di queste celebri guerre scritte dagli storici con minuta più che instruttiva esattezza sarà bastevole il dire che i duchi d’Angiò, scacciati dal Regno di Napoli dagli Aragonesi, tentarono di ritornarvi inces­santemente, inutilmente.

Quelli che impiegano la storia nella descrizione delle battaglie, se non hanno i rari talenti di Polibio e la sua gran materia, sono meschini pittori che, per non sapere dipingere una figura ben fatta, empiono il quadro di molte sconcie macchiette. È più facile l’esser gazzettiere che uomo di guerra. Non v’è parte degli annali umani più difficile a rendersi instruttiva quanto le battaglie: squallida ed infruttuosa materia di ragionamenti. La storia di tutte le nazioni è la stessa in questo argomento. La miseria degli uomini l’ha reso così comune che non è più importante. Il signor Muratori ha riempito i suoi, altronde pregievoli, annali di tutte le piccole guerre di guelfi e gibellini, tralasciando la storia ecclesiastica e facendo un’opra separata di ciò che riguarda i costumi, le arti, le lettere, il governo degl’Italiani. Chi può dipingere senza questi colori? Come sarà storia degli uomini quella che non li farà conoscere? Chi la divide in civile, in letteraria, in ecclesiastica, in filosofica fa uno scheletro di ciascuna.

Tra le notizie di questo secolo vi porrò le nozze di Beatrice, figlia di Ferdinando re di Napoli, con Matteo Corvino re d’Ongheria, non perchè sia un grandissimo fatto il coniugio d’un principe, ma perchè in quella occasione andarono colla sposa in Ongheria alcuni avvocati napolitani, i quali, al dir di Duareno, empierono di tante liti quel regno che si dovettero far ritornare alla loro patria.

Il timore della incursione de’ Turchi non estingueva il furor della guerra ne’ principi. Si ricchiedeva l’estremo pericolo per unire gl’interessi opposti con violenza. Il papa Paolo II[699] intimò la pace in un modo che pareva più atto a romperla. Pubblicò una bolla nella quale pose a suo talento i capitoli, aggiungendo la scomunica a chi li ricusasse.[700] Si scorgeva essere il pontefice veneziano leggendosi nella bolla che Barto­lomeo Coleone, generale di quella Repubblica, veniva costituito capo della lega che s’intimava contro de’ Turchi, con l’annuo assegnamento di centomila ducati d’oro, da pagarseli da’ collegati, giusta la partizione determinata dal papa a suo beneplacito. La Repubblica trovò giustissima la bolla. Gli altri principi prima appellarono al futuro concilio, poi accettaronla fuorchè l’articolo di Bartolomeo Coleone. Si unì in seguito una flotta[701] tra i Veneziani ed i re di Napoli e d’Arragona. L’esito di questa spedizione fu di dare alle fiamme la città di Smirne. Il cardinale legato Olivieri Caraffa, che giudava la flotta pontificia, entrò in Roma come in trionfo, seco menando venticinque schiavi turchi e dodici cameli. Ussuni Cassari, re della Persia, con seicentomila uomini nello stesso tempo faceva tremare i Turchi.

Come poteva l’Italia, divisa fra’ principi che pugnavano colle insidie e co’ tradi­menti, odiosi a’ loro sudditi per le tirannie, esser terribile ad una grande nazione?

Gian Galeazzo Maria Sforza duca di Milano fu ucciso da alcuni congiurati nella Chiesa di S. Stefano in Milano. Giuliano de’ Medici, signore di Firenze, ebbe la stessa fine nella cattedrale di quella città. Ecco dov’era il nostro valore. Il papa Sisto IV favorì l’assassinio di Giuliano.[702] Tutta l’Europa si dichiarò contro di lui. Lorenzo fratello di Giuliano era anch’egli destinato al sacrifizio, ma si salvò. La casa de’ Pazzi era emula in Firenze di quella de’ Medici. Vi erano ambe potenti. Questa congiura fu eccitata da’ Pazzi, del partito de’ quali si pose Sisto. Il Cardinal legato Rafaello Riario e Francesco Salviati arcivescovo di Pisa ne furono incaricati dal papa. L’arcivescovo di Pisa fu appiccato con molti altri congiurati. Lorenzo de’ Medici ed i magistrati vennero scomunicati, perchè avesser fatto morire un arcivescovo. Pretese in oltre il papa da’ Fiorentini che gli dassero Lorenzo istesso, i quali, trovando strano che dovessero consegnare il lor principe che amavano a chi avea tentato di farlo assassinare, ebbero a sostenere guerre e scomuniche. Il clero fiorentino, unitosi in concilio,[703] controscomunicò nelle forme il papa.

Sisto IV tenne un giubileo in Roma. Ferdinando re di Napoli vi andò, e fu in questa occasione che il papa mutò il tributo che pagava quel regno alla Santa Sede in una chinea bianca da presentarsi annualmente in segno di vassallaggio. Susiste tal costume. Un ambasciatore presenta al papa la chinea tutti gli anni il giorno della festa di S. Pietro.

Fu riservata la gloria ad Innocenzo VIII, successore di Sisto, di aver prigioniero in Roma il figlio di un gran conquistatore. Questo fu Zizimo, fratello di Baiazette, ambi figli di Maometto II. I cavalieri di Rodi lo fecero prigioniero e glielo consegna­rono. Il papa lo accolse con onori. Prima di essergli presentato fu instruito dal cerimoniale. Introdotto nel sacro concistoro, non si potè indurre[704] a far genuflessione al papa, od a bacciarli i piedi; andò ritto al trono pontificale, nè altro fece che bacciare il papa su di una spalla.

Innocenzo divenne un gran principe, possedendo un così importante prigioniero. Contendevano de’ vasti imperi del loro padre i due fratelli Zizimo e Baiazette, ed il soldano d’Egitto era in attual guerra con quest’ultimo.

Baiazette trovava conforme a’ suoi interessi questa prigionia. Esebì al papa centoventimila scudi d’oro annui se prometteva di tenere Zizimo ben custodito in Roma. Innocenzo stava appunto eccitando i principi a far guerra ad esso Baiazette. Accettò la pensione, promise la custodia, e seguitò a convocare la crociata ed a levar le decime per andare contro de’ Turchi. Nello stesso tempo il soldano d’Egitto mandò al papa il guardiano de’ francescani di Gerusalemme Antonio da Milano, a cercare che gli fosse consegnato Zizimo. Le offerte erano grandi, ma si concluse nulla.

Le scienze fecero de’ rapidi progressi. La presa di Costantinopoli spingeva a noi i letterati di Grecia. Essi ci portarono i loro libri, preziosi monumenti della antichità. Toccò ad un principe, fortunatamente sottratto all’assassinio, d’esser l’ospite ed il protettore de’ letterati. Così glorioso posto occupa nella storia Lorenzo de’ Medici.

La greca letteratura passata per mano degli Arabi si era come trasformata. Essi ce l’avevano comunicata come buone leggi comentate da rozzi interpreti. Si tornò alla sorgente. Fu questa la seconda volta che l’Italia ebbe da’ Greci la coltura. Finora le traduzioni si erano per lo più fatte sulle traduzioni arabe. Ora si tradussero gli originali. Non è che i Greci, da molti secoli desolati da cento nazioni, governati da imbecilli principi, fossero una colta nazione. Ma facendoci conoscere gli antichi lor libri porta­rono un nuovo e casto sussidio ai nostri ingegni già mossi verso la luce. Qualche uomo di lettere era venuto da noi anche prima di questi tempi. Ma l’eccidio dell’unico assilo in cui erano ridotti dalle conquiste de’ Turchi li fece rigurgitare in Italia. La munifi­cenza e gli onori gl’invitarono, gli trattennero. L’Italia divenne la depositaria delle scienze. Scorriamo gl’illustri uomini che le propagarono in questo secolo decimoquinto.

Angelo Poliziano, detto ancora Bassi, ed Ermolao Barbaro furono de’ principali traduttori de’ libri greci. Gli scolastici cominciarono ad essere derisi. Il cardinale da Cusa, fisico e matematico grande pe’ suoi tempi, si burlò di loro nel suo libro De docta ignorantia. Scrisse che la terra si volve intorno al sole. Propose questa verità temendo il suo secolo. La pubblicò come un ingegnoso paradosso, e tale fu creduto.

Lorenzo Valla inveì piuttosto che ragionò contro de’ scolastici. Era un veemente satirico. Scacciato da Roma, si ricovrò in Ispagna, dove poco mancò che non fosse abbruciato. Scrisse anche contro la Donazione di Costantino. Cominciavasi appena a dubitarne.

Luca dal Borgo a S. Sepolcro, francescano, tradusse in italiano Euclide. Fu un’o­pera pregievole la sua Summa de aritmetica. Scrisse anche di algebra. Quest’arte ch’era nata fra gli Arabi ci fu portata da Leonardo da Pisa al principio del secolo decimoterzo. Dono prezioso, non per ciò ch’ella era, ma per ciò che divenne. Luca del Borgo scrisse di algebra, trascivendo Leonardo senza nominarlo, e diede il titolo al suo libro Dell’arte maggiore. Ella era risguardata come una scienza magica. Chiamossi in seguito Arte magna ed Arte della cosa, perchè l’incognita non si segnava con una lettera, ma così chiamavasi. Da principio non si servivano gli algebristi di ciffre, ma di parole. Erano i loro termini il cubo, il censo, il censo del censo, il primo supersolido. Essendosi sostituite le cifre alle parole, l’algebra è divenuta un rapidis­simo raziocinio.

Non si pretenda che l’umano ingegno ne’ princìpi della sua riforma cerchi la verità. Nella puerizia ha i suoi capricci. Tal fu la nuova setta di Platone che s’intro­dusse. Si cominciò, per ispirito di novità e di contraddizione, ad opporlo ad Aristotile.

Marsilio Ficino fiorentino può esser chiamato il fondatore de’ platonici. Tradusse e comentò Platone aggiungendo alla oscurità ed alla stranezza del testo quella delle sue note e della sua astrologia.

Pico conte della Mirandola era suo contemporaneo e seguace. Uomo di gran memoria e di mediocre giudizio. Ei veniva chiamato «monstrum sine vitio». Comen­tava le leggi a dieci anni. Sapeva ventidue lingue a dieciotto. Sostenne, a ventiquattro, novecento proposizioni di dialettica, teologia, matematica, magia, cabala e fisica. Fu insomma una disputa universale di tutte le scienze. Sfidò alla tenzone tutt’i letterati d’Europa, offrendosi di pagare loro le spese del viaggio. Queste tesi spaventarono tutto il mondo. Il papa Innocenzo VIII proibì di leggerle sotto pena di scomunica. Pico si difese delle accuse di eresia con un’Apologia che compilò in diciassette notti. Racconta in essa questo fatto. Un teologo censurava caldamente le sue tesi; essendo interrogato che significasse la voce cabala, rispose che costui era un pessimo uomo, un eretico che avea scritto contro di Gesù Cristo, onde i suoi settari chiamavansi caballisti.

Tante obbiezioni disgustarono Pico delle scienze; lasciò la contea, si ricovrò nella solitudine, diede a’ poveri le sue sostanze e stava per gire intorno predicando il Vangelo, se no’l coglieva la morte all’età di trentadue anni. La nascita, il ritiro, la gioventù non meno contribuirono alla sua fama, che il merito. Fu sapientissimo degli errori de’ suoi tempi.

Si era formata in Roma un’Accademia di platonici. Furono accusati di esser scettici che dubitavano di tutto, e di tramare alla vita del papa. Fuggirono gli accade­mici, e chi fu tolto venne messo in prigione. Nel numero di loro vi fu Platina,[705] noto autore delle vite de’ papi. Poco durò il regno di Platone. Aristotile riprese ben tosto la tirannia degl’ingegni.

L’arte della stampa si ascrive verso la metà del secolo decimoquinto. Furono due grandi rivoluzioni a un tempo per le lettere la presa di Costantinopoli e questa invenzione. È controversa la di lei origine. Se la disputarono i Tedeschi e gli Olandesi. Alcuno pretese ch’ella ci venisse dalla China. Ciò che fa molto a favore de’ Tedeschi è che Tritemio, autore contemporaneo, scrive che Giovanni Gottemberg, gentiluomo di Magonza, immaginò per primo quest’arte; e che avendovi spese tutte le sue sostanze senza riuscirvi, si associò Giovanni Fust suo concittadino, a cui unissi Pietro Schoeffer di Gersheim. Essi colla loro industria posero ad effetto le idee del Gottemberg e portarono la stampa a qualche perfezione. Egli è certo, altronde, che il primo libro di stampa conosciuto è il Psalmorum codex in data del 1457. Il Rationale divinorum officiorum Gullielmi Durandi 1459, il vocabolario latino intitolato Catholicon Ioannis Bladi de Ianua 1460, la Biblia latina 1462, gli Uffici di Cicerone 1465 ed una seconda edizione del 1466, le quali tutte sono delle più antiche edizioni, furono stampate in Magonza e portano le armi di Giovanni Fust e di Pietro Schoeffer. Avertivano il lettore in queste opere che non eran scritte a penna, ma con un nuovo segreto.

I Romani aveano l’arte di scrivere colle cifre così velocemente che, come dice Seneca,[706] «la mano potea seguitare la velocità della lingua». Una cifra significava talvolta una parola. Giovanni Gruttero nel suo tesoro delle inscrizioni raccolse queste cifre. Se ne attribuisce la invenzione a Tirone liberto di Cicerone. Seneca, non si sa se il Vecchio o il Giovine, ve ne aggiunge molte altre. Il loro numero arrivò a cinquemila. Gli atti del Senato, le arringhe ed in appresso i concili così registravansi. Era un meschino supplemento di un’arte meravigliosa. La stampa, facendo i libri di facile acquisto, rivolse la maggior parte degl’ingegni alla erudizione. I primi loro sfoghi furono nella filologia, nella storia, nella bibliografia. Troviamo quindi per molto tempo che in ciò versarono gli studi de’ letterati. Non è molto che si ardisce pensare senza citazioni ed esser grand’uomo da se stesso. La servile imitazione degli antichi modelli, la timida loro venerazione frenò l’impeto degli ingeni. La data della restaurazione della filosofia fu quando le menti conobbero le loro vere forze.

Verso la metà dello stesso secolo decimoquinto l’Infante don Enrico, figlio di Giovanni re di Portugallo, principe benemerito nelle scienze, fece epoca nella nautica colla invenzione delle carte idrografiche. La marina cangiò d’aspetto. Le navi portughesi colla scorta delle temute scienze passarono all’Indie orientali, condotte da Vasco de Gama, alla fine di questo secolo.

Tale scoperta fu una rivoluzione per il commercio d’Italia. Ella per l’istmo di Suez tirava le merci dalle Indie e le rivendeva all’Europa. Colla nuova strada d’Oriente, meno dispendiosa perchè tutta marittima, cominciò a decadere la nostra mercatura, e fu trasportata alle altre nazioni, che intrapresero i viaggi dell’Oceano orientale.

Il lusso de’ principi consisteva in questi tempi nel condurre ne’ lor viaggi e nelle rappresentanze pubbliche uno sterminato seguito.

Il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, andando a Firenze per sciorre un voto, menò seco due mille persone magnificamente vestite tutte a cavallo, fra staffieri, cortigiani e guardie. In oltre, cinquecento coppie di cani, molti falconi e sparavieri. Gli costò ducentomila ducati questo pellegrinaggio.[707] Sarebbe ridicolo quel principe che in oggi viaggiasse con mille cani ed altrettanti sparavieri. I sovrani erano allora i primi cacciatori dello Stato; devastavano la maggior sorgente de’ gravosi tributi che imponevano, l’agricoltura; ritrovavano così annoiante ed oziosa carica il reggere la felicità d’una nazione che loro era d’uopo empiere la corte di buffoni. Chi si duole de’ nostri tempi non conosce i passati.

Capo XXVII. Venuta in Italia di Carlo VIII e di Lodovico XII. Imprese loro nel Regno di Napoli e nel Ducato di Milano. Come il Regno di Napoli si unisse a quello di Sicilia. Di Alessandro VI. Di Girolamo Savonarola. Di Giulio II e sue gesta. Del predicatore Gabriele da Barletta.

Gian Galeazzo Sforza era stato nella sua minore età sotto la tutela dello zio Lodovico detto il Moro, il quale, dappoichè vide finita la sua reggenza, avvelenò il nipote[708] e chiuse nel castello di Pavia la di lui moglie duchessa Isabella.

Alessandro VI era papa. Il suo antecessore Innocenzo VIII avea avute le solite dispute col re di Napoli, il quale ricusava di pagargli l’annuo tributo di vassallaggio. Lo aveva dichiarato decaduto da que’ stati, e li aveva donati al re di Francia Carlo VIII.

Il papa ed il duca di Milano concorsero a chiamare in Italia Carlo, l’uno per difendere le sue pretensioni, l’altro la sua usurpazione.

Venne Carlo in questa provincia col pretesto di passare a far la guerra ai Turchi. Le prime sue imprese furono in Toscana. Pietro de’ Medici si rese insigne fra i traditori, donando Firenze al re di Francia senza che nulla sapessero i suoi cittadini. Carlo accettò così gran dono. Si sollevarono i Fiorentini: scacciarono la famiglia di Pietro, diroccarono il suo palazzo, nè poterono indurre il re di Francia a rinunciare a’ suoi diritti che con centoventimila scudi. Tal prezzo ebbe così legittima donazione.

Pareva che avanti di Carlo si spianassero tutti gli ostacoli che i duchi d’Angiò aveano incontrati nelle infelicissime loro spedizioni. Conquistò il Regno di Napoli, se così de’ chiamarsi un quasi pacifico possesso che ne prese. Dice a tal proposito Guicciardino che Carlo, sopra l’esempio di Cesare, aveva prima vinto che veduto. Le ragioni che adduceva il re di Francia su quel regno erano che, estinta la linea maschile dei duchi d’Angiò, egli era succeduto alle loro pretensioni per testamento e per cognazione di sangue. Il re di Napoli Alfonso II abbandonò gli stati perduti e si vendicò della sfortuna col farsi monaco olivetano in Messina. Suo figlio Ferdinando II assunse un momento il governo per tosto fuggire e raggiunger suo padre nella solitudine del convento. Partendo da Napoli esclamava sovente rivolgendosi verso quella città: «Nisi Dominus custodierit civitatem frustra vigilat qui custodit eam».

Il papa Alessandro si pentì di avere chiamato in sua difesa un tal principe. La fortuna di Carlo cominciò a divenir sospetta. Alessandro lo avea destinato suo protet­tore, e lo vide entrare in Roma da nemico. L’armata francese vi venne con la lancia in resta. Il papa si rifugiò in Castel S. Angiolo. Di là non sortì che accordando a Carlo ciò che seppe chiamargli. Vi furono, fra gli articoli di questa convenzione, che il papa non potesse mettere alcun governatore il quale non fosse benviso al re di Francia; che il Cardinal Borgia, figlio naturale del papa, stasse in ostaggio alla corte del re, e che gli fosse consegnato Zizimo. Seguì questa consegna. Morì pochi giorni dopo quel principe. Fu voce comune che il papa glielo dasse avvelenato.

Quando Carlo giunse ad Asti il papa avea spedito un ambasciatore a Baiazette. Furono esposti a quel principe con patetiche espressioni i pericoli ne’ quali era Alessandro e che sovrastavano a Baiazette istesso, cui si persuase come Carlo avea risolto di assediare Costantinopoli, che però il papa lo avvisava delle mire del re di Francia standogli a cuore la tranquillità de’ Turchi, in considerazione della buona e vicendevole amicizia che passava con essi. Rispose Baiazette raccomandando ad Ales­sandro, fra le altre cose, Nicolò Cibo arcivescovo di Arles.[709] Cercò eziandio di persua­derlo a far morire il fratello, promettendogli trecentomila ducati d’oro in ricompensa.[710] Ciò fece attribuire al papa la veloce morte di Zizimo.

Lodovico il Moro provava gli stessi timori di Alessandro. Anch’egli avea sperato un protettore nel re di Francia, ora lo trovava troppo grande. La comune difidenza unì gl’interessi. Si fece lega fra Lodovico, il papa, Ferdinando il Cattolico re d’Arragona e Sicilia, e Milano e l’imperatore, il di cui esito fu di far ritornare Carlo in Francia dopo la battaglia di Asti. Altro non ci rimase di questa spedizione che il desolante contaggio trasportato nuovamente dall’America. Quest’è quanto lasciò in Italia l’eser­cito di Carlo.

L’imperatore non ebbe altra parte nella Lega che di sottoscriversi. Venne un momento, ritornò senza combattere. Gl’Italiani, dice Guicciardino, era gran tempo che non avevano veduto un imperatore coll’armi.

Narrasi un’azione di Carlo degna di far dimenticare tutte queste battaglie. Carlo si abbandonava agl’impulsi della sua gioventù senza ritegno. Era in Asti. Una sera, ritornando a casa, ritrovò nel suo appartamento il solito tributo. Gli si presentò una figlia povera ed onesta, ridotta a questo avvilimento da’ suoi genitori, che l’avevano venduta ad un famigliare di corte. Carlo la vide piangente. Ella gli raccontò come fosse sedotta. Rispettò il giovin principe la sua virtù. Domandolle se alcuno la cercava in moglie, e rispostogli che un cittadino di Asti ne avea fatta istanza a’ suoi genitori, mandò subitamente a chiamarlo, pagò la dote, conchiuse il matrimonio, tacque questa avventura che fu in seguito pubblicata dalla fanciulla.

Il re Ferdinando II era stato fin ora ritirato con suo padre Alfonso nel convento di Messina. Ritornò in Napoli, dove fu accolto con applausi degni di un eroe. Le donne versavangli fiori ed aque d’ordore dalle finestre, correvangli incontro a fargli festa e tripudio. Alfonso, che in vece di difendere il Regno si era fatto monaco, poichè lo vide riacquistato volea rivocare la sua rinuncia. Risposegli il figlio che aspettasse insino a che fosse talmente assicurato de’ suoi Stati, che non avesse di nuovo a fuggirsene.[711]

Lodovico XII re di Francia succedette a Carlo ed alle sue imprese in Italia. Esse cominciarono nel Ducato di Milano. Lo pretendeva perchè Valentina sua avola sorella dell’ultimo duca Visconte n’era la erede. Trattava da usurpazione il governo de’ Sforza. Un’armata appoggiava questi diritti, de’ quali scrivono i giurisconsulti, non parlano i filosofi, si servono i potenti.

Lodovico conquistò il Ducato di Milano con quella velocità con cui Carlo avea occupato il Regno di Napoli. Il duca Sforza fuggì nel Tirolo e ritornò con truppa svizzera per riacquistare i suoi Stati. Una squadra di questi difensori lo consegnò al re di Francia, il quale poselo nel Castello di Loches dove, dopo dieci anni di stretta prigionia, morì. La biblioteca ducale, ricca d’importanti manoscritti, fu trasferita a Bles.

Si rivolsero quindi le armi francesi sul Regno di Napoli.[712] Si unì al re Lodovico Ferdinando il Cattolico re di Sicilia e d’Arragona. Patteggiarono che si sarebbero divisa la conquista.

Erano due rami della stessa casa che regnavano in Napoli ed in Sicilia, cioè quella dei re d’Arragona e di Castiglia. Un ramo avea il Regno di Napoli e colà dimorava. L’altro teneva la sua sede in Ispagna, ed avea aderente a que’ regni la Sicilia, dove spediva dei vicerè. I dritti che Ferdinando poneva in campo contro il re di Napoli suo parente erano perchè ei fosse discendente dalla linea bastarda, perciò diceva a sè devoluti que’ Stati, come legittimo. In tali circostanze si ritrovava re di Napoli Fede­rico.[713]

Il re di Sicilia ricoperse di profonda simulazione il suo progetto. Lusingava Federico, e gli persuadeva che lo avrebbe difeso contro del re di Francia. Non potè resistere a così potente lega il re di Napoli. Confidò la sua sorte alla generosità di Lodovico XII, il quale gli diede il Ducato di Angiò, ove tranquillamente finì i suoi giorni.[714] La di lui moglie Isabella visse in Ferrara con trecento ducati che annualmente le davano per elemosina i padri olivetani di Napoli. Dappoichè vide Ferdinando il buon esito della lega col re di Francia, pretese per sè tutta la conquista. Si disputarono fra di essi la preda. I pochi Francesi avanzati al macello escirono d’Italia. Così i regni di Napoli e di Sicilia si riunirono in Ferdinando. Questo è quel principe chiamato il cattolico per aver scacciati dalla Spagna i Sarceni dopo ottocento anni che vi dimora­vano. Spopolava il proprio regno, ne acquistava di lontani e nuovi nelle Americhe ed in Italia, misurando la potenza più dal volume che dalla massa degli Stati.

In queste imprese i Francesi verificavano ciò che Cesare disse de’ loro maggiori, esser le prime battaglie de’ Galli più che da uomini, e le seconde meno che da donne.

Il pontificato di Alessandro VI[715] die’ soggetto di alte querelle allo zelo de’ scrittori della storia ecclesiastica. Sedeva un papa circondato da cinque suoi figli, Cesare, Giovanni, Luigi, Gottifredo e Lucrezia, a lui nati dalla cortigiana Vannozia quand’era cardinale. Cesare, detto ancora il duca Valentino, stava alla testa della paterna armata; Lucrezia avea il governo civile di Roma.

Il duca Valentino era stato al servizio del re di Francia nelle guerre di Napoli. Alla presa di Capoa tenne prigioniere in sua prigione quaranta donne delle più avvenenti.[716] Le principali sue imprese furono dirette a dilatare il paterno regno. Un giubileo lo mise in istato di guerreggiare. Ricuperò tutta la Romagna, fece tributaria Bologna e riebbe il Ducato di Urbino. È noto il triste modo che tenne in ciò. I condottieri Vitellozzo ed Oliverotto uniti cogli Orsini (famiglia potente in Roma e nemica del papa) glielo aveano tolto. Il duca finse di far pace con loro, la segnò, la conchiuse. Poi li pregò di venire a Sinigalia, ove, appena giunti, gli fece strangolare. Intanto il papa mandò a chiamare il cardinale Orsini col pretesto di parlare di affari con lui. Egli si riposava sulla fede del pubblico trattato. Pur fu trattenuto ed avvelenato.[717] Gli altri di quella famiglia furono messi in stretta carcere.

Questo tradimento del duca meritò gli encomi di Macchiavello, come tutte le altre sue azioni. Valentino è il suo eroe. Fu un pessimo uomo che con un gran numero di tradimenti e di malvagità conquistò un palmo di terreno. Si diceva di lui e di suo padre «che il papa non faceva mai quello che diceva, ed il Valentino non diceva mai quello che faceva».[718]

Le maggiori cure di Alessandro erano di abbattere le case prepotenti di Roma e di acquistare i beni de’ ricchi cardinali. Il veleno n’era sovente un mezzo.[719] Il cardinale Ferrario ed il Cardinal Michele ebbero tal fine.

Le stesse insidie furono preparate al cardinale Adriano di Corneto. Il duca Valen­tino si trovava con pochi denari. Ricorse al solito espediente. Invitò quel cardinale a cena in una vigna, presso del Vaticano. Era preparato il vino col veleno. Il papa ed il duca chiamarono da bere prima di cena. Fu loro dato per isbaglio il vino avvelenato. Il papa morì poco dopo. Il duca ne avea bevuto meno; si salvò dopo una lunga malatia.[720] Olderico Rainaldo, continuatore di Baronio, non si mostra del tutto impar­ziale col pretendere di smentire questo fatto attestato da’ più accreditati scrittori contemporanei, adducendo contro di essi un manoscritto giornale della casa Borgia. Non vi vuole gran coraggio per dubitare che una famiglia registri le cose che le fanno torto con parzialità.

Se ne’ giornali della casa di Nerone fossero dipinti quegl’imperatori in tutt’altro aspetto che non lo facciano Dione e Svetonio, dovrebbesi negar credenza a questi autori? Nuoce anco alla buona causa il mal difenderla. È un importante e trascurato precetto. Sia lo storico senza timori e senza speranze.

Sono note in questi tempi le avventure del dominicano Girolamo Savonarola. Egli avea molto credito in Firenze. Faceva queste tre cose. Il profeta, il tribun della plebe, il missionario. Quanto al predire il futuro, non incontrò difficoltà. Ma sostenendo il partito del popolo s’inimicò Pietro de’ Medici, e, predicando contro la rilasciatezza de’ costumi della romana corte, il papa. Ambi si unirono a deprimerlo. Alessandro lo scomunicò. I tribunali di Firenze gli proibirono di predicare. Savonarola indusse un altro domenicano, fra Domenico da Pescia, a predicare in sua vece ed a esporsi alla prova del fuoco per convincere chicchesia che Savonarola era profeta, e santa la sua dottrina. Un frate minore si offrì a passare nel fuoco per provare il contrario. Il dominicano instava che il minore tentasse la prova. Egli rispondeva d’esser disposto, purchè il Savonarola istesso vi si esponesse. La disputa si portò avanti de’ giudici. Il minore ripeteva d’esser pronto a passare nel fuoco, ma che voleva il Savonarola in sua compagnia, «non già, diss’egli, perchè io creda di sortirne illeso, ma perchè voglio che colui si abbruci meco». Il dominicano replicava che, essendo egli sfidato, spettava a loro due esporsi al giudizio, e che era anche pronto a passeggiar nel fuoco con tutti i frati del suo convento. Savonarola vedeva disputar la sua causa, ma non inclinava gran fatto all’abbruciamento. Lasciava muover la lite, approvava lo zelo de’ suoi confratelli. Il giudice conchiuse che se il minore ricusava per campione quel dominicano, ne scegliesse un altro. Ei citò Nicola Pilli, ma non ne volle saper nulla. Un laico domini­cano s’esebì per lui alla prova. Si dispose ogni cosa: Savonarola era presente, lasciava fare. Il dominicano si accinse al giudizio. Il minore cominciò a fargli l’eccezione che avesse gli abiti incantati. Il dominicano per soddisfarlo gli mutò. Il minore trovò un altro pretesto. Non volle che il dominicano entrasse nel fuoco con la S. Eucaristia, come solevasi. Su quest’articolo non cedette. Si disputò, si contese lungo tempo, si abbandonò l’abbruciamento, le parti andarono al loro convento.

La nascente coltura cominciava a persuadere gli effetti del fuoco. Savonarola fu in seguito preso ed appiccato[721] e brucciato.

Il duca Valentino dovette rinunciare le sue conquiste al novo papa Giulio II.[722] Ei lo trattenne prigioniero in Ostia. Non avrebbe altrimenti osservata la cessione. Valentino interessò Gonsalvo capitano generale della armata spagnola in Italia a liberarlo. Lo tolse dalla prigionia. Mantenendo la sua inquietudine lo ripose in Ispagna nella fortezza di Cataba.

Giulio non avea bisogno di nipoti che pugnassero per lui. Egli stesso andava alla testa della sua armata. Fu detto che si appellasse Giulio per imitare Giulio Cesare ed il suo genio conquistatore. Perugia e Bologna furono le sue prime conquiste; poi la Mirandola. Si rivolse in seguito contro de’ Veneziani, i quali, profittando dell’anarchia in cui era rivolta la Santa Sede, le aveano tolte Solarolo, Faenza, Rimini, Ravenna, Cesena e tutte le più importanti città della Romagna.

Non erano i Veneziani nemici da vincere colle frodi come i piccoli tiranni. Sentì Giulio la difficoltà dell’impresa, e commosse tutta l’Europa ad eseguirla. Unì contro quella Repubblica la nota lega di Cambrai. Massimiliano imperatore, Ferdinando re d’Arragona, Lodovico re di Francia, Carlo duca di Savoia, i duchi di Mantova e Ferrara furono i collegati.

Tutti questi principi si erano già distribuita la loro porzione di quella Repubblica; ciascuno poneva in campo i suoi diritti contro di lei. Ella era degna di una così possente congiura. L’Istria, la Dalmazia, Candia, Cipri, la Terra Ferma componevano il suo dominio, il suo vasto commercio poteva meritare l’avidità de’ suoi nemici.

I Veneziani furono del tutto sconfitti dalla lega alla Gera d’Adda. Perderono rapidamente tutti gli stati del continente e tremarono nella loro patria istessa. L’indo­lenza dell’imperator Massimiliano fe’ risorgere la ruinante Repubblica. Lasciò che ricuperasse Padova. Si celebra annualmente in quella città la festa di tale impresa, la quale decise della fortuna di Venezia. Il papa diceva che gli elettori ed i cardinali aveano errato, poichè il conclave dovea scieglier Massimiliano per papa, e la dieta Giulio per imperatore.

La sua lentezza nel soccorrere Pisa, perpetua nemica di Firenze, die’ luogo al proverbio del soccorso di Pisa per significare un aiuto posteriore a bisogno. Massimiliano, sempre promettendo di venire a difender Pisa, non mai comparve. Ella dovette rendersi a’ Fiorentini. In tutte le sue imprese verificò l’imperatore questo proverbio. Intanto che Sua Santità era a capo di un’armata, i cardinali unirono un concilio in Pisa per riformare la disciplina della Chiesa. Il papa, citato a comparire, scomunicò i cardinali, dichiarò eretico e scismatico il concilio. Si trasportò il sinodo in Milano, ove dichiarò deposto Giulio dal pontificato. Egli era in istato di conquistarlo, quando non ne fosse già al possesso. Chiamava i cardinali «figli della perdizione», ed il concilio «sinagoga di Satanasso, di Datan, di Abiron».[723] Poco dopo si disciolse.

Il papa avea unita la lega di Cambrai per ricuperare le possessioni della Santa Sede. Dapoichè gli riescì il suo progetto, abbandonò gli aleati e si dichiarò per i Veneziani, unì una lega con Ferdinando il Cattolico ed Arrigo VIII re d’Inghilterra contro il re di Francia e l’imperatore. I Veneziani presero al loro stipendio truppe turchesche, il papa svizzere. Ei le spedì nel Ducato di Milano, dove, più pagati da’ Francesi per far nulla, che dal papa per combattere, ritornarono al loro paese.

Il Ducato di Milano era difeso da Gastone di Foix e da Gian Giacomo Trivulzi, nomi di gran fama nella storia militare. La battaglia campale e la presa di Ravenna de’ Francesi contro la lega fu l’ultima delle lor glorie in queste imprese. Gastone morì di anni 24 all’assedio di Ravenna. Prode guerriero alla di cui gioventù il re suo zio confidava sì grandi cose, e far lo poteva. Quando Lodovico XII ebbe tal notizia, esclamò: «Vorrei non possedere un palmo di terreno in Italia, e potere a questo prezzo far risorgere il mio nipote e tutti i valorosi uomini che caddero con lui. Il Cielo ci guardi di simili vittorie».

La fortuna de’ Francesi altro non fece che maggiormente impegnare la inquieta attività del papa contro di essi. Rimosse a lor danni tutta l’Europa. Rivolse la lega di Cambrai contro il solo re di Francia. Attaccò il suo nemico in ogni lato. Indusse il re d’Inghilterra Enrico VIII e Ferdinando re d’Arragona a portare la guerra in Francia; nello stesso tempo esso papa unito all’imperatore fa irruzione contro de’ Francesi nella Lombardia, scaccianli e fan duca di Milano Massimiliano Sforza. Poi depone il re di Francia, assolve i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, dona il regno suo al primo occupante. Lodovico scomunicò a sua volta il papa, come dice il presidente de Thou:[724] «Rispose alle vane imprecazioni di un vecchio moribondo con una controscomunica». Portò a segno quel re i suoi sdegni, che fe’ coniare delle monete nelle quali v’era da una parte la sua effigie, e dall’altra il motto: «Perdam Babylonis nomen».

Il papa inoltre rimise in Firenze i Medici, ed in tante rivoluzioni conservò le sue conquiste. Tai furono le vaste imprese d’un piccolo principe ottuagenario. Fu d’animo inquieto, implacabile, audacissimo. Non così formato alle sante virtù del vicario di Cristo come alle ardue imprese di terrena potenza.

Lasciamo i mali che l’ambizione versa in ogni tempo su gli uomini. Quai progressi faceva l’ingegno degl’italiani? L’aurora delle scienze era sorta, ma la sua luce lentamente si diffondeva. Qualche cognizione di fisica e di matematica non avea bandito il cattivo gusto della letteratura. V’erano dei queruli poeti, v’erano dei grotteschi oratori. La decenza e l’urbanità dello scrivere ancora non si conoscevano. Ne aveano dato de’ saggi Petrarca e Boccaccio, ma i loro sforzi erano sepolti con essi. Il tinger lo stile di filosofia è l’ultima sua conquista.

Si avrà un saggio della eloquenza di questo secolo decimoquinto nelle prediche del famoso frate dominicano Gabbriele nativo di Barletta, città del Regno di Napoli. Scorriamone qualche passaggio.

Nella predica della preparazione alla confessione (de preparatione confessionis) egli esclama contro l’ignoranza ed i cattivi costumi de’ sacerdoti: «Sed heu, quia hodie vacant odo et non litterio. Quidam negotiationibus, quidam occupantur scilicet ad occupandum, tenendo canes et accipitres, cum litteris debent insudare. Facetia de diaconus qui erat ordinandus in sacerdotem. Ab episcopo interrogatus de sufficientia: quot sunt, inquit, sacramenta Ecclesiae? Respondit: tribus. Et episcopus: quibus? Crismus, Baptismus et missa pro defunctis. Tales autem maiorem gratiam in populo habent quam homines probi. Quia de omnibus absolvunt et semper secum deferunt authoritatem papalem. Unde unam absolutionem faciunt super caput, et aliam super bursam».

Nella predica de gloria Paradisi parlando della grande melodia degli angeli e degli instrumenti celesti ne cita per esempio il seguente: «Cum Franciscus graviter infirmaretur, prae dolorem fratrem advocavit, cui praecepit ut modicum pulsaret cytharam, ne mens eius taedio afficeretur. Videns autem piissimus Deus servum suum fessum dolore, misit angelum qui cantilenis ei sonaret. Sonavit primo, sonavit secundo. Tanta enim fuit dulcedine repletus quod si tertio iterum sonuisset, anima extra corpus exalasset».

Nella predica de excellentia liberi arbitrii parlando della superbia così dice: «De septem vitiis capitalibus primum est superbia. Demon tentat omnes homines de hoc. De hac tentavit primos parentes, eritis sicut Dii scientes bonum et malum. Super quo non est credendum, quod Adam qui erat peritissimus crederet hoc, quia impossibile hoc erat, sed Eva, quae erat in modici cerebri habebat cerebellum suffultum de stuppa, fidem praebuit. O quot tentat de hoc vitio! In praesentiarum tres generationes infestat. Prima est religiosorum, qui de plurimis se iactantes deprimunt alios. Monaci gloriantur habere pro patre Benedictum in Occidente, Basilium in Oriente. Praedicatores et minores plura dicunt ad extollendos suos ordines. Eremitarii summe venerantur Augustinum inducentes cum habitu suo. Servite nominant se praecipuos servitores virginis. Carmelitae a monte Carmelo sub Helia propheta praedicant habuisse initium, et ita unusquisque passionate, superbie, ordinem suum aliis praefert seculares scandalizantes. Secunda generatio a presbyterorum secularium, qui extollunt de celebratione missarum. De cantu. Quod unus cantat dulcius altero. Exemplum mulieris, quae cum cantaretur a presbytero in Sabbato Sancto: exultet, iam angelica turba Caelorum est, flebat asinum suum. Quam cum videret sic flentem, cogitaret quod fleret prae dulcedine cantus et vocis. Finito sermone interrogavit quare sic fleret? Respondit quod recordata sum asini mei mortui, qui sic et ipse dulciter canebat. Tertia generatio est laicorum, qui de sanguinis nobilitate gloriantur. O Pater, ego sum de tali domo, a qua exiere milites: adhuc extat cassonus scripturarum. Domus nostra antiqua, pater meus fuit dominus Pandulfus proximus affinis comitis Borellae, germanus Facinis Canis, benivolis Ioannis de Tela, frater iuratus Bracci Perusini, nostra amicitia ubique diffunditur. Quis est talis? Est unus poltronus mortus fame. Praeterea superbiunt mulieres in vestibus novis foziset ricamaturis. Ex una parte, gerunt cultellum, ex alia pectorale: deficit eis forfex cum malleo, apparerant magistrae officine ferrarie. Portant cornua etiam et cerudellos: dic mihi mulier, ad quod signum cognoscetur Macarius, et diabolus vestitu eremito? Certe dic ad griffas et ungues: ita mulier ad cornua».

Nella predica de iudicio universali, così lo descrive: «Sicut rex temporalis in regno suo solet observare quando vadit dare sententiam definitivam, ita res spiritualis Christus Iesus haec observabit. Primo praemittuntur tubicinae cum tubis, qui habent citarae partes, secundo praemittuntur servi et domicelli, tertio associatur ipse cum suis servis et commensatoribus. Ita Christus faciet. Primo praemittit tubicines qui erunt quattuor angeli dicentes alta voce ad quattuor partes mundi: surgite mortui, venite ad iudicium. Secundum quod facit est quia permittit domicellos cum insignis regis, sic Christus permittet omnia instrumenta passionis, et hoc ad confusionem peccatorum. Quale hoc signum o pater marzochus? Anguis, Setta, Lopa, Aquila alba aut nigra? Non, sed arma Christi contra dominos temporales, qui nunc non crucem, sed insignia sua in capellis et ecclesiis ponunt. Sed quaeris anima chara dubium. Quis reret hoc vexillum crucis? Quidam praedicant quod Ioannes Baptista, alii Petrus, alii quod Paulus, alii autem magnis vocibus Franciscum extollunt, quem sic etiam depingunt. Stoliditas, stoliditas, stoliditas; quia theologi volunt quod erit tninisterio angelorum».

Nella predica quod Virgo Maria est speciosissima super omnes mulieres, fa la questione utrum fuit nigram aut alba. «Respondit, dice il nostro oratore, quod non nigra specialiter, neque alba quia isti colores dant quandam imperfectionem in per­sona. Unde dici solet, Deus me protegat a Lombardo russo, Alemanno nigro, Hispano albo, Flamineo cuiusvis pili. Fuit Maria mixta coloribus participans de omnibus. O sole pulchrior, o piena luna, o maris stella, o formosa quamvis tu sis fusca!».

Nella predica della Pentecoste così descrive la missione dello Spirito Santo: «In Coelesti palatio facta est descensio magna inter Patrem et Spiritum Sanctum. O pater, inquit filius, promisi Apostolis meis Paraclytum et consolatore, tempus advenit ut promissionem attendam. Cui Pater: sum contentus, indico Spiritui Sancto. Cui Spiritus Sanctus: Die mihi: quomodo te tractaverint! Cui Filius: vide me per charitatem; ostendit ei latus et manus et pedes perforatos. Heu mihi! Sed vadam in aliam effigiem, quod non audebunt me tangere. Qui descendit cum maximo strepitu. Factus est repente de Caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis, descenditque super eos».

Nella predica del Martedì della Pentecoste descrive un cattivo prete che dice il Pater Noster. «Malus presbyter non dicit Pater Noster cum corde. Incipit: Pater noster, qui es in Coelis. Prepara equum o serve ut eamus ad villam. Santificetur nomen tuum. O Catharina pone ad focum illam carnem. Panem nostrum quotidianum da nobis hodie. Prohibe Catum a farcimine. Et dimitte nobis debita nostra. Da equo bladum».

È curioso il congedo che prende dalla udienza nell’ultima predica, che chiama testamentum in fine predicationis faciendum. «Essendo ora patres mei cum adiutorio nostri Dei, parva barchetta ingenii mei pervenuta ad portum nostrarum predicationum; video esse necessarium ad praemittendum excusationem vestris humanitatibus, imperochè deficit memoria, linguaque haeret palato, omnem humanum ingenium venit minus, quando considero obbligationem quam contraxi vobiscum, tum ob beneficia mihi collata, tum ob gratam audientiam quam mihi exibuistis, ubi ad statis faciendum requiruntur ingentes copiae. Sed quia ego sum substantia terrena mea professione prius: et essendo obbligo mio erga vos grande».

Ritrovasi non di rado avvertito in queste prediche l’oratore di alzar la voce: «clama», di far gesti, per esempio: «et tu frater N. inclina caputium tantisper in occulis ad terrorem», oppure: «et tu frater N. pone corrigiam ad collum, vertendo ad crucifixum fac orationes», ed ancora: «Hoc peracto accipias corrigiam quam pones ad collum et ex parte populi genibus inflexis misericordiam pete». Talvolta eziandio insegna di can­tare a certi passi: «Canta in primo tono de Sanctis». Questi avvertimenti fanno vedere che il quaresimale era fatto per essere recitato anche dagli altri. Tale eloquenza, unita a tale pantomina, sarà stata qualche cosa di strano. Il mescuglio poi ch’egli fa delle citazioni è curioso. Il Vangelo vi è citato con Virgilio, Dante, Petrarca, Platone, Seneca, Cicerone. Quanto gradatamente non si corrompe il gusto e si perde ogni senso di ridicolo! Non si possono ora leggere tali produzioni senza provarlo. Allora una pubblica e numerosa udienza le accoglieva con divozione, non sopportava che sareb­bero state ridicolissime per la posterità. Un secolo è destinato a far ridere i seguenti. In quali articoli faremo noi tal figura co’ nostri nipoti? È un problema pericoloso. Non era Gabbriele Barletta un predicatore poco stimato, egli fu lo stupore de’ suoi tempi. Ne venne il proverbio: «Nescit praedicare, qui nescit Barlettare».

Trovo ne’ teologi moralisti di questi tempi molto timore che non si abbracciassero degli usi pagani e giudaici. Nella Sumeta de pacifica conscientia composta nell’Anno del Signore 1473 di frate Pacifico da Novara minor osservante, stampata in Milano da Filippo Lavagna 1479, Vedo che quel teologo vi dice: «In Kalende di Zenaro dicto capo d’anno, o anno novo, alcuna cosa per bon augurio donare, et tante fatuitate paganesche pertinaciter observare è proibito». È noto che i Romani nella Calende di Genaro solevano fare dei regali detti strene agli amici e parenti. I Francesi li chiamano tuttora estrennes. Questo era peccato secondo quell’autore. Lo afferma così resoluti­vamente che sembra fosse una opinione comune. Altrove[725] egli inveisce «contra la ignorantia et avaritia da quanti che pur vogliono iudaizando illaqueare le anime dicendo che le donne sono obbligate a farse levare di parto appo li 40 zorni se l’hanno partorito maschio, appo li ottanta se l’hanno partorito femina secundo la predicta leze. E tanto loro non sono obbligate a quella, quanta li homini non sono obbligati a farse circoncidere. El primo zorno de zenaro questa leze terminò; così la dulcissima Vergine Maria comesso Chiristo terminò l’antecente al secundo di febbraro». V’erano dunque alquanti che ponevano la purificazione fra i Sacramenti.

L’autore insegna a’ confessori d’interrogare il penitente: «se ha usato al tempo di carnevale di vestire la cappa de’ fratri o de monache, o de cotte o simili».[726] Bisogna che fosse frequente tal costume. L’abuso delle cose sacre va sempre unito colla superstizione. Non è strano in qualche Paese d’Europa attualmente il fare la processione del Corpus Domini sul teatro, ed il mettere in iscena i santi ed i buffoni.

Lo stesso autore pone fra le più scandalose opere servili il radere la barba ne’ giorni festivi: «Li maledicti barbieri che la mattina della festa radeno le barbe, o lavano el capo alli fetenti homini del diavolo. Oh indiavolate persone et sathaniche, che nulla generazione si trova tanto iniqua et perversa, quant’è la maledetta christianità la quale nè Dio teme, nè huomini riverisce, aspectate che per iusto iudicio de Dio tutte simile persone saranno acerbamente punite». Tanto strepito contro la barba rasa in giorno di festa. Da qui potrassi comprendere quanto numeroso fosse il ruolo de’ peccati mortali secondo i moralisti di que’ tempi.

[Nel 1505 il cardinale Ippolito d’Este fece in sua presenza cavare gli occhi a D. Giulio suo fratello naturale, perch’esso aveva innamorata colla bellezza de’ medesimi una sua congiunta, agli amori della quale evidentemente aspirava il cardinale sudetto. Riferisce tal fatto atroce Guicciardini alla fine del lib. VI. Il medesimo autore poi nel seguente lib. VII narra che questo D. Giulio unito ad altro suo fratello Ferdinando congiurò contro Alfonso primogenito loro, e duca di Ferrara, osservando che D. Giulio non era cieco, benchè il cardinale come sopra gli avesse tratti gli occhi, perchè riposti senza perdita di lume nel luogo loro per presta e diligente cura de’ medici, al quale luogo nota l’editore di Friburgo 1785. Molti affermano che D. Giulio d’Este non ricuperò la luce degli occhi per presta cura de’ medici come qui scrive l’autore, ma che egli da se medesimo subito se gli rimise.

Vedi pure in Guicciardini lib. IX anno 1511 come il duca d’Urbino nipote di Giulio II uccise in Ravenna pubblicamente il cardinale con un pugnale, mentre andava con pompa alla udienza del papa. E poi ne fu assoluto da lui. Guicciardini lib. X verso il principio.

L’anno 1512 alla battaglia di Ravenna Pietro Navarra capitano spagnuolo si servì di carrette che somigliavano alli carri falcati degli antichi. Guicciardino, Storia, lib. X verso la fine.

Nel fine del lib. 3 della vita di Leone X Navarra Carlo Baglioni di Perugia fece a pezzi con crudele congiura alcuni suoi parenti.

Guicciardini, Storia, all’anno 1527 lib. 13 narra come il cardinale Alfonso Petrucci da Siena congiurasse per avvelenare Leone X e, scoperta la trama, fu degradato e suppliziato, nel qual caso occorsero segni notabili di altruisti tradimenti dall’una e dall’altra parte.

Narra Gian Battista Adriani, Storia, all’anno 1553, pag. 491 edizione Giunti, Firenze 1583 in folio, che nelle guerre in Toscana Andrea Doria vi fece prigioniero Ottobono del Fiesco, il quale aveva avuto parte nella congiura contro esso, in cui fu morto Giannetto suo nipote, e che il Doria: «per vendetta di Giannettino, legato in un sacco il fece mazzerare».

Guido Vaina da Imola era stato posto dal papa Clemente VII a guardare Siena. Avvenne ch’egli per tumulti nei quali era minacciato della vita si partisse da quella città, narrando la quale partenza riflette Bernardo Segni, Storia, all’anno 1530: Temen­do Guido di qualche congiura contro di sè, si partì di Siena vilmente, avvegnacchè per altri moti avesse mostrato animo grande e crudele, per aver fatti ammazzare molti suoi amici, ed infino mentre che con essi un dì solenne di Pasqua si comunicava in segno di essersi conciliato con loro.

  1. Ferrante Gonzaga capitano dell’imperatore Carlo V in Italia fece strangolare e gettar in mare in Messina ed in più luoghi di Sicilia trecento soldati spagnuoli e più, perchè avevano saccheggiate alcune terre a motivo che non erano pagati. Egli fece questo esterminio: ancorchè innanzi con solenne giuramento fatto in Ostia Sagrata, mentre il sacerdote celebrava la messa avesse loro perdonato. Dicesi che l’imperatore approvò grandemente quel fatto: Segni, Storia, anno 1537.

Carlo V imperatore per mezzo del suddetto D. Ferrante Gonzaga avvelenò Marga­rita d’Austria, sua figliola naturale, e il duca Ottavio Farnese di Parma, di lei marito, per togliergli quel Ducato. Segni, Storia, anno 1560.]

Capo XXVIII. Guerra di Francesco I e Carlo V per il Ducato di Milano ed il Regno di Napoli. Prigionia di Francesco e scisma della Chiesa sotto Leone X. Sacco di Roma sotto Clemente VII. Paolo III e Giulio III suoi successori; loro condotta. Rinuncia di Carlo V.

Lo Stato di Milano era divenuto il soggetto della guerra di tutta l’Europa. Il re di Francia Francesco I, succeduto ai diritti di Lodovico XII, fatta lega colla Inghilterra e colla Repubblica di Venezia, lo pretendeva. L’imperatore Massimiliano, Ferdinando re d’Arragona, il papa Leone X gli si opponevano. Forse non furon motivi di gran politica quelli che mossero il re di Francia a questa impresa. L’ammiraglio Bonnivet glielo indusse perchè desiderava di vedere una bella dama di Milano.[727]

La vittoria di Francesco sull’armata svizzera presa al soldo da’ collegati non meno gli produsse che la conquista del Ducato di Milano. Si rese quel re degno di vincere con prodigi di valore. Il maresciallo Trivulzio, che si era ritrovato presente a dieciotto canaglie, disse di questa ch’era una pugna da giganti, le altre tutte giuochi da fanciullo.

Il duca Sforza avea fin’ora comandato quanto glielo permettevano gli Svizzeri che difendevano la Lombardia per esserne padroni. Divenne pensionario del vincitore; in Francia mandato, vi finì tranquillamente di vivere.

Il papa Leone X non soleva esser nemico de’ fortunati. Dappoichè vide fatto possente in Italia Francesco, divenne immantinente suo amico. Si abboccò seco in Bologna, dove conchiuse la pace.

Massimiliano imperatore aveva aspettato che il re di Francia fosse già in possesso del Milanese per muoversi a’ suoi danni. Era venuto in Italia con numeroso esercito, vi era dimorato quasi senza combattere e partito quasi senza soldati.

Carlo V succeduto ai regni di Ferdinando il Cattolico, e fatto imperatore dopo la morte di suo zio Massimiliano, era il più gran principe di Europa. Gli era facile il rimediare le perdite cagionate dalla indolenza del suo antecessore.

Il papa si rivolse a questa gran potenza, e colla pieghevolezza di sua fede si dichiarò nemico del re di Francia. L’armata imperiale colla vittoria della Bicocca, sito prefisso di Milano, mise in quel ducato Francesco Maria Sforza, che si era ricovrato a Trento. Egli era un figlio di Lodovico il Moro. Vi comandò quanto il suo antecessore. Chi lo avea fatto duca non gliene lasciava che il nome. L’assedio e la battaglia di Pavia sì funesta a’ Francesi, e nella quale Francesco istesso rimase prigioniero, decisero totalmente del Ducato di Milano in favore di Carlo V. Il prigioniero re fu condotto a Madrid. «Ogni cosa è perduta, fuorchè l’onore», scrisse dopo quella rotta alla duchessa di Angouleme.

Così narrasi il modo della cattura di Francesco. Si difese con quella prodezza che gli era propria. I primi signori erano già caduti d’intorno a lui. Si ritrovò circondato da ogni parte da’ suoi nemici. Non poteva più resistere. Si arrese. Lanoy, vicerè di Napoli, discese di cavallo in poca distanza del re per ricevere la sua spada: quando il vide venir verso di lui gli disse Francesco in italiano: «Signore, eccovi la spada di un re che merita di esser lodato, perchè prima di perderla ha sparso con lei il sangue di molti de’ vostri, e che non è prigioniero per viltà, ma per isfortuna». Lanoy la ricevette rispettosamente in ginocchio, bacciandogli la mano, poi trasse la sua, e presentando­gliela: «Io prego, disse, Vostra Maestà di ricever la mia, che ha risparmiato il sangue di molti de’ suoi. Non è conveniente ad un ufficiale dell’imperatore di lasciare un re disarmato, quantunque prigioniero».

L’origine della perdita del Ducato di Milano fu questa. Lutrec era generale dell’armata francese in Lombardia. Si ritrovava senza denaro per pagare i soldati. Fu ridotto a tener l’esercito senza stipendi per dieciotto mesi. Il re aveva ordinato che gli si spedissero quattrocentomila scudi. Madama di Savoia e madre del re, la quale non poteva soffrire Lutrec, ritirò questo denaro dal sopraintendente alle finanze Semblançay incaricato di spedirlo. Gli Svizzeri stipendiati dalla Francia in Lombardia, non volendo più stare senza paghe, cercavano di dare battaglia. Il Lutrec fu costretto ad accordargliela. Ella fu quella della Bicocca. Lutrec andò per giustificarsi a Parigi. Ebbe a desiderar molto udienza. Fu introdotto in pieno consiglio. Sua maestà gli disse che non poteva vedere di buon occhio un uomo che gli avea perduto il più considerabil ducato di Europa. «È vero, rispose Lutrec, ma Vostra Maestà n’è la cagione. Ho trattenuto l’armata senza stipendi per dieciotto mesi. Gli Svizzeri che non erano pagati mi sforzarono a dar la battaglia della Bicocca. Previdi ch’ella non mi sarebbe stata vantaggiosa, ma vi fui forzato, altrimenti gli Svizzeri si ritiravano». Il re meravigliossi di tal franchezza, e dissegli come poteva negare di avere ricevuti quattromila scudi. Lutrec rispose che non ne avea ricevuto che la lettera di avviso. Il re con molta agitazione fece chiamare il sopraintendente Semblançay a cui erano stati consegnati. Egli raccontò perchè ciò avvenisse. Portossi subitamente il re nell’appartamento di sua madre, la quale negò francamente il fatto e chiamò soddisfazione di una così atroce calunnia. Semblançay fu messo in carcere, fu processato di peculato e fu condannato a morte. La sentenza si eseguì.

Le sventure del maresciallo Gian Giacomo Trivulzi non furono parimenti degne del gran cuore di Francesco I. Trivulzi, ottuagenario illustre per i lunghi servigi nell’armata del re di Francia, menava privata e tranquilla vecchiezza in Milano. Lutrec, geloso del suo gran nome, si determinò a perderlo. Rese sospetta la di lui fedeltà col rappresentare alla corte che si fosse fatto cittadino degli Svizzeri, e che aveva impiegati nell’armata de’ Veneziani due suoi nipoti. Trivulzi si strascinò in Francia per discol­parsi. Fu accolto aspramente del re, e poco dopo morì.[728]

Il papa Leone, figlio di Lorenzo de’ Medici, educato fra le belle lettere da Angelo Poliziano, da Demetrio Calcondyla amico di Pico della Mirandola, di Marsiglio Ficino, di Giovanni Lascari, e di tutti gl’ingegni colti de’ suoi tempi, rinnovava gli orrori del duca Valentino. Gian Baglione signore di Perugia, invitato a Roma sulla buona fede di un salvacondotto, fu decapitato. Francesco Della Rovere duca di Urbino fu spogliato con frode del suo ducato per donarlo ad un nipote del papa. E si tentò alla vita di Alfonso duca di Ferrara a cui Leone usurpava le imperiali città di Modena e Reggio. Così quel uomo istesso ch’era interessato in tutt’i grandi affari d’Europa ne’ quali tanto poteva col sciogliere ed annodare paci e leghe, vinceva questi piccoli principi coll’armi ignominiose della debolezza.

Leone, riposto in una corte brillante di opulenza e di piaceri, era malsicuro in Roma istessa dalle incursioni de’ Turchi che montavano per lo Tevere. Fu in pericolo di esser fatto lor prigioniero. Le conquiste di quella terribil nazione divenivano ognora più sospette alla Italia. In Roma facevansi delle processioni. Solimano conquistava Belgrado e Buda al re d’Ogheria, Rodi ai Cavalieri gerosolimitani, e poco dopo minacciò Vienna istessa.

Il pontificato cadendo in mano di Alessandro e di Giulio era cresciuto nella potenza, e sminuito nella venerazione. Le spese delle incessanti guerre, il lusso della corte, gli abbellimenti di Roma, aveano fatto ricorrere a nuovi mezzi per ammassare danaro. Era già gran tempo che vari successivamente aveano declamato contro gli abusi della disciplina. In un concilio Laterano il papa Leone per impedire i molti predicatori che in questi tempi rimproveravano pubblicamente la vita de’ prelati e la condotta della sua corte, ordinò che non si potesse far tale professione senza essere approvato.

Le indulgenze erano divenute il fondo delle rendite maggiori. La fabbrica di S. Pietro, cominciata da Giulio II, n’era il pretesto. In Germania, dice il Guicciardino:[729] «giocavasi sulle taverne la facultà di liberar le anime de’ morti dal purgatorio». In tale stato di cose Martino Lutero mosse quello scisma che si diffuse con rapidi ed impre­veduti progressi nella Germania, negli Svizzeri e nella Inghilterra. Non avrebbe mai sospettato di esser autore di così gran rivoluzione.

Il primo motivo nacque da ciò. Il papa Leone donò alla sua sorella Madalena[730] le rendite delle indulgenze della Sassonia. Essa diede la commissione di riscuoterle ai dominicani, lo che in quel paese solevano fare gli agostiniani. Martino Lutero agosti­niano insorse contro di quest’abuso difendendo le utilità del suo ordine. La disputa dei proventi divenne teologica. Si esaminò che fossero queste indulgenze, si passò a discutere su che appoggiassero la pontificia autorità, il Purgatorio, i Sacramenti. La storia ecclesiastica era dimenticata. Ne risorse lo studio con tutto il fervore dello spirito di controversia. Le parti furon costrette ad instruirsi, e fu il solo bene che produssero queste grandi rivoluzioni, le quali non spettano al mio instituto.

Le nuove opinioni serpeggiarono, piuttosto che allignarono in Italia. I loro parti­giani si tenevano nascosti. Occhino da Siena capuccino mischiava furtivamente nelle sue prediche i nuovi dogmi. Di lui disse Gregorio Rosso che «predicava con ispirito e divozione grande che facevano piagnere le pietre». Fuggì in seguito a Genevra, dove apertamente si dichiarò luterano. Altri frati seguirono le nuove dottrine. Così Giovanni Montaldo che fu condannato in Roma come luterano, Pietro martire fiorentino, che rifugiossi in Argentina e scrisse contro del Purgatorio, Lorenzo romano agosti­niano che fu seguace di Suinglio.

Adriano VI, successore di Leone, in un anno ed otto mesi che visse pontefice fece ristampare un suo comentario sul quarto libro delle sentenze, nel quale sostenne questa massima, che il papa non è infallibile anche nelle questioni di fede. È strano ch’ei non la scancellasse in questa nuova edizione.

Il re di Francia era stato fin ora prigioniero. Ei fu rilasciato con tanto gravi condizioni che dovea violarle quando l’avesse potuto. Rinunciò a tutti i suoi diritti sul Regno di Napoli, sul Ducato di Milano, sulla Borgogna, sulle Fiandre, Genova ed altri Stati. Era più utile a Carlo l’esiggere dal suo prigioniero una somma di danaro, che tante rinuncie.

Francesco, rimesso in libertà, negò di osservare le promesse. Il papa Clemente VII[731] lo assolse da’ suoi giuramenti e fe’ la lega detta Santissima col re di Francia, colla Inghilterra e co’ Fiorentini contro dell’imperatore. Carlo si lamentava della fede del re. Ei mandolli un cartello di sfida ove diceva: «Vous faisons entendre que si vous nous avez voulu ou voulez charger, que jammais nous aions petit chose, qu’un gentil homme aimant son honneur ne doive faire, nous disons que vous avez menti per la gorge, e qu’autant de foix que le direz, vous mentirez». Carlo mandò anch’egli il suo cartello. Ma tutto finì, come dice Mezerai, in una scena di teatro.

L’imperatore, dissimulando i maneggi del papa, fece moltissimo intanto che sembrava non vederli. Carlo, duca di Borbone, che comandava l’armata spagnola in Lombardia, andò all’assedio di Roma. Morì alla scalata. Giorgio di Franspergh che conduceva parte dell’esercito portava al collo un laccio d’oro con cui si vantava di volere appiccare Sua Santità.[732] Roma si difese con un esercito composto di mozzi di stalla de’ cardinali, e d’artigiani.[733] Fu saccheggiata per due mesi. «Molti prelati, dice Guicciardino, presi da’ soldati erano in sulle bestie vili con gli abiti e colle insegne della loro dignità menati attorno con grandissimo vilipendio per tutta Roma e molti tormentati crudelissimamente morirono ne’ tormenti. Sentivansi i gridi e l’urla miserabili delle donne romane e delle monache condotte a torme de’ soldati per saziare la loro libidine». I soldati vestiti da cardinali e da preti scorrevano Roma sugli asini. Si unirono in conclave e scelsero papa Martino Lutero.[734] Non furono già i luterani coloro che in questo saccheggio si distinsero colle crudeltà; furono gl’Italiani e gli Spagnoli.

Carlo V alla nuova del sacco di Roma vestì il bruno, lo ordinò a tutta la corte, fece sospendere le feste incominciate per la nascita di suo figlio Filippo II, ordinò proces­sioni e pubbliche preci affine d’implorare il divino aiuto ai mali della Santa Chiesa. Questi comici affanni di Carlo accrescevano il suo trionfo.

I Veneziani collegati, poichè videro la sfortuna del papa, profittando dei tumulti gli tolsero Ravenna. Altri duchi e marchesi si unirono a saccheggiare i Stati della Chiesa. Il papa affamato in Castel S. Angiolo si rese prigioniero agl’imperiali colla condizione di pagare subitamente centomila ducati, altri cinquantamila nel termine di venti giorni, duecentocinquantamila fra due mesi, e di cedere Parma, Piacenza, Modena, i luoghi forti di Roma e quant’altro mai si seppe pretendere. Il papa dovea rimaner prigioniero finchè non avesse pagati i primi centomila duccati, ma coll’aiuto dei Colonna se ne fuggì vestito da ortolano, e si rifugiò in Orvieto.

Intanto l’Italia desolata dalle armi di tanti pretensori sentiva tutto il peso dell’ambizione. Centomila armati la saccheggiavano.

La lega avea tentato inutilmente di togliere il Regno di Napoli e il Ducato di Milano all’imperatore. L’esercito era minato.

Il papa dopo tante sventure vedea che Carlo non era un principe d’aversi per nemico. Divenne il promotore della pace. La concluse in Cambray e fu ratificata l’anno seguente nell’abboccamento tenuto a Bologna fra il papa e l’imperatore. Ivi Carlo ricevette la corona imperiale, e fu l’ultima volta che i papi facessero tal fonzione, e forse quella in cui più malgrado.

Questa sforzata lega del papa coll’imperatore era quella di un protetto col suo protettore. Ella non impedì che il papa venisse obbligato a restituire al marchese Alfonso d’Este le città di Modena e Reggio toltegli in tempi più fortunati.[735]

Clemente VII era figlio naturale di Giuliano de’ Medici. La sua famiglia era stata scacciata da Firenze. Nulla tralasciava per rimettervela. Trasse nel suo progetto l’imperatore. Senza di lui non avrebbe potuto eseguirlo. Alessandro de’ Medici nipote del papa fu dichiarato duca di Firenze, la quale ancor chiamossi Repubblica, e da qualche tempo non ne avea che il nome. La casa Medici e la casa de’ Pazzi se ne dividevano e contrastavano il dominio. Altro non perdè Firenze col ricevere dall’imperatore un sovrano, che i mali delle fazioni.

Questo duca Alessandro fu assassinato da Lorenzino de’ Medici suo parente, conducendolo di notte da una sua zia.

Clemente seppe anche indurre il re di Francia ne’ suoi disegni. Si abboccò seco in Marsiglia, ed ivi conchiuse le nozze fra Cattarina figlia di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino suo nipote, ed Enrico d’Orleans, secondogenito del re. Così Clemente, bilanciandosi accortamente fra le contese di due grandi emuli che sconvolgevano l’Europa, senza dichiararsi amico o nemico di alcun di loro gli faceva servire all’ingrandimento della sua famiglia, coglieva le occasioni, non si esponeva alle vicende, non dimenticava il sacco di Roma.

Genova era de’ Francesi. Carlo V mandò Andrea Doria a discacciarli. Riuscitali l’impresa e potendo esser sovrano nella sua patria fu contento di liberarla da’ stranieri, e di vivere privato e benemerito cittadino in lei che avea fatta libera.

Tai sono i grandi avvenimenti di questi tempi. Qualche lepidezza non manca mai in tutti i secoli che sforzi la storia a perder la sua gravità. Un certo Brandano[736] detto il pazzo di Cristo vestito di sacco girava per Roma predicando su di lei l’ira del Cielo. Il soggetto delle sue declamazioni sono il papa ed i cardinali. Finirono coll’essere messo in prigione. Non mancò chi lo credesse profeta.

Francesco da Castelcaro frate minore delirò in tai tempi con più giudizio. Predicando in Modena pubblicò un editto nel quale Iddio confermava ed approvava il suo ordine. La data era: «Datum in Paradiso terrestri, a creatione mundi die sexto pontificatus nostri, anno eterno, confirmatum et sigillatum die Parasceve in monte Calvario».

La morte del duca di Milano Francesco Sforza fe’ revivere le pretensioni del re di Francia su quegli Stati. Il duca non aveva lasciato successione. La sua moglie era Cristiana, figlia del re di Danimarca.

Carlo V, principe potente e fortunato, usava in tutte le cose sue quella indiretta politica con cui la debolezza inclina la forza. Fu insignemente violato in questa occasione il diritto delle genti. Antonio Ricone e Cesare Fregoso, ambasciatori del re di Francia a Costantinopoli, ritornando per lo Stato di Milano furono assassinati per ordine del governatore imperiale marchese del Vasto. Questo tradimento, in ogni tempo ignominioso, lo fu molto più allora che vi era tregua fra la Francia e l’imperatore.

Non può dissimularsi che Francesco I superasse di tanto Carlo V nella virtù, quanto era superato nella fortuna. Carlo covava una immensa ambizione sotto il dimesso abito di una cappa e di un saio di panno nero, un piccolo cappello di feltro in capo, i stivali in gamba;[737] dissimulato per carattere, in ogni cosa misterioso ed obliquo anche senza necessità, pur d’animo costante, negli affari di guerra grandis­simo.

Francesco I, per lo contrario, avea tutta la generosità della cavalleria, personal­mente prode, ambizioso più d’essere illustre guerriero che monarca conquistatore. Difficile a dissimulare, di benefico cuore.

È noto, e merita di esserlo, il modo con cui ricevè due volte in Francia il suo nemico. La prima volta fu quando andarono tutti due per abboccarsi a Nizza di Provenza. Non si videro però l’un l’altro, quantunque dimorassero nella stessa città. Conchiusero la tregua per mezzo de’ loro ministri. Nel ritornarsene, Carlo fu spinto da una borrasca ad Acqua Morta. Colà ritrovavasi Francesco. Egli andò a bordo della nave in cui era l’imperatore dicendogli: «Mio fratello, eccomi per la seconda volta vostro prigioniero». Ivi si trattennero per alcun tempo con quella cordialità che fra sì grandi emuli poteva allignare. Così Scipione abboccossi con Annibale.

L’altra volta fu quando l’imperatore andò a sedare la ribellione di Gant sua patria. Gli fu lasciato libero il passaggio per la Francia, fu accolto in Parigi da Francesco fra le feste, le giostre ed i tornei. Questi trattamenti non meritavano l’assassinio de’ suoi ambasciatori. In tale occasione promise Carlo al suo ospite l’investitura del Ducato di Milano per un di lui figlio, qual più gli piacesse. Poichè giunse a Gant, sollecitato a mantenere la parola, negò di averla data.

Carlo V volle imitare Pompeo nel liberare il Mediterraneo dai corsari, ma non ebbe la sua fortuna. È nota la sua spedizione in Algeri, nella quale naufragarono centotrenta legni. Ritornarono gli avvanzi della tempesta. Il re di Francia volle profittare della sfortuna del suo nemico: ma lo trovò imperturbabile anche nelle sconfitte, e nulla guadagnò su di lui.

Parve scandalosa agli storici di que’ tempi l’alleanza che il re di Francia conchiuse con Solimano imperator de’ Turchi. Forse dovea ancor più risguardarsi come pericolosa alla Europa. Era più facile ai pacifici e solitari scrittori il non ritrovare conveniente ad un principe cristiano una lega cogl’infedeli, che non al re di Francia, il quale vedea tal nazione vicina ad invadere l’Europa, e sè circondato dall’armi di Carlo, in mezzo ai pericoli di perdere un vasto regno.

Tre principi di gran fama, chi per vizi, chi per virtù, reggevano gl’interessi d’Eu­ropa: Arrigo re d’Inghilterra, Carlo e Francesco. Il sistema era congegnato in guisa che ciascuno di questi tre grand’emuli stava in aguato che in alcuno di loro non s’accumulasse una preponderante fortuna. Carlo, poichè vide il re di Francia collegato con Solimano, che gli avea mandato in soccorso il celebre corsaro Barbarossa il quale depredava il Mediterraneo, si unì al re d’Inghilterra. Barbarossa pose fra gli oggetti delle sue prede Giulia Gonzaga bellissima principessa. La sorprese a Fondi. Ella si salvò in camiscia.[738]

Fra i principi italiani Carlo duca di Savoia s’intromise in così grandi vicende. Si collegò all’imperatore. I suoi Stati divennero il campo di battaglia dell’amico e del nemico. Non poteva quel principe essere un grande alleato, bensì conveniva a ciascuno de’ contendenti l’avere un sito fuori de’ loro Stati, dove portare le desolazioni della guerra. Quest’è quanto guadagnò quel duca.

Le dissensioni della Chiesa, per le opinioni de’ novatori, andavano crescendo. Essi volevano un concilio libero e cattolico, dove si potessero terminare. Il papa Paolo III[739] promovea la pace fra’ principi cristiani a tal fine, e poichè tacque alquanto il tumulto dell’armi, cominciossi il Concilio di Trento. Carlo faceva diventare affari di politica le controversie di teologia. Intanto che disputavasi in Trento de’ nuovi dogmi, egli con utilissimo zelo movea le armi contro i principi protestanti.[740] Federico duca di Sassonia, uno de’ principali fra di loro, divenne prigioniero di Carlo, che lo con­dannò a morte. L’elettore di Brandeburgo gli ottenne la grazia. Il protestante Filippo Langravio di Assia, venuto a Carlo sulla fede delle promesse di pace, fu proditoria­mente detenuto: con tai mezzi l’imperatore difendeva le sublimi verità della mansueta religione nello stesso tempo ch’era collegato col re d’Inghilterra, già dichiarato eretico.

Carlo sembrava che imitasse i conquistatori della antichità facendo le sue imprese coll’augusta tutela della religione. I suoi aruspici erano gl’inquisitori, ch’egli avea destinati più che a conservare la purità della fede, quella del dispotismo. Tentò d’introdurre nel Regno di Napoli l’Inquisizione, secondo il sistema di Spagna.[741] I Napolitani si sollevarono. Ferdinando il Cattolico avea tentata l’istessa impresa, coll’istesso esito. Ora finirono col riscattarsi mediante centomila scudi da questa novità.

Paolo III pensava alle utilità del pontificato ed a quelle di sua famiglia. Egli era stato ammogliato prima di farsi chierico, avea un figlio, Pier Luigi Farnese, nome di gran fama per sue crudeltà. Ebbe per la destrezza di suo padre il Ducato di Parma e di Piacenza. Fu poco dopo assassinato.

Il Concilio da Trento si trasportò in Bologna. Il papa adduceva varie ragioni di questa traslazione. Non disse la maggior di tutte, e questa era che gli conveniva tenere un così importante concilio ne’ suoi Stati. L’imperatore lasciò che il sinodo escisse da una sua città, e pubblicò nella dieta di Augusta il celebre interim nel quale determi­nava ciò che dovessero credere i protestanti sino a che il Concilio non determinasse la vera credenza. Dispiacque l’interim ad ambe le parti. Si dolsero i protestanti che si stabilissero i dogmi prima che la Chiesa universale gli decidesse. Si dolse il papa che l’imperatore si pronunciasse nelle cose di religione.

Arrigo II re di Francia, succeduto a Francesco, pareva sorgere in tempo che la fortuna di Carlo declinasse dopo di essere stata al colmo. La prigionia del langravio d’Assia offriva al nuovo e giovine principe un lodevole pretesto di vendicare il diritto delle genti. I principi protestanti di Germania uniti con lui sorpresero Carlo in Inspruch; lo sconfissero e fu costretto ad escire dalla Germania dopo d’avere inutil­mente tentato l’assedio di Metz. Maurizio elettore di Sassonia era capo della lega. La rotta dell’imperatore produsse la libertà del langravio. Carlo V ebbe due gran prigio­nieri in sua vita: il re di Francia e questo. La sua temporeggiante ed indecisa politica nel rilasciarli fu la cagione delle più funeste sue vicende. La custodia di così illustri cattivi è troppo pericolosa. Bisogna esser sempre preparato a grandi guerre. Il re francese chiamandosi il difensore della Germania rapidamente la conquistava. Già fatto padrone della Lorena e del ducato di Lucemburgo, vollea passare il Reno. L’imperatore si oppose ai progressi del suo nemico coll’unirsi ai principi protestanti, co’ quali conchiuse la pace in Passavia.

Giulio III, succeduto a Paolo III, unito all’imperatore si proponeva di togliere il ducato di Parma e Piacenza ad Ottavio Farnese. Il re di Francia protesse il duca e proibì che sortisse da’ suoi Stati danaro per benefizi ecclesiastici, ed a’ vescovi francesi di andare al Concilio, che di nuovo si era trasportato in Trento. Il papa lo scomunicò.

Intanto le maggiori occupazioni di Giulio erano la coltura di un vasto giardino da lui formato ad imitazione degli Orti di Nerone, che si chiamò la Vigna di papa Giulio. Ivi respirava dalle cure del pontificato più godendolo, che regendolo. Tutti gli storici contemporanei così dipingono la sua condotta.

Narrasi che appena assunto al pontificato creò cardinale un certo suo giovane avventuriero, di famiglia così oscura che non era conosciuta. Lo chiamava Innocenzo. L’incombenza che diede a questo cardinale fu di custodire una scimia. Era nominato perciò il cardinale Simia. Il Sacro collegio fe’ al papa gravi querele perchè avesse iscritto al loro ceto un tal collega. Rispose Giulio: «E quale maggior merito hanno in me ritrovato i cardinali per farmi capo della Chiesa? Promoviamo adunque questo giovine, ei lo merita».

Dopo la morte di Francesco Sforza, ultimo duca di Milano, era sempre l’Italia inondata da’ Francesi e da’ Spagnuoli, ma quelli vi combattevano, e questi vi coman­davano. Cosimo Medici duca di Firenze vedeva tutte due le nazioni guerreggiare nel seno de’ suoi Stati, e non avea altro partito che di soffrirli e di esser timido ed indeciso spettatore di grandi contese. La città di Siena era il soggetto di guerra fra di Arrigo e Carlo, che alla fine la vinse. Cosimo l’ebbe poi in feudo da Filippo II. Il re di Francia colleggato co’ Turchi era padrone del Mediterraneo. Devastò la Sicilia e prese la Corsica.

Carlo vedea stanchi i suoi stati e smunti da grandi ed infelici imprese: avea in faccia una sfortunata vecchiezza. Ei prevenne la sua decadenza rinunciando in Brusselles al figlio Filippo II i suoi regni, ed al fratello Ferdinando re d’Ongheria l’impero. Fu solennemente fatta la dimissione. Finì i suoi giorni nella solitudine del monastero di S. Giusto posto ne’ confini della Castiglia e del Portogallo.

[Nel 1560 essendo la guarnigione spagnola del forte dell’isola di Gerbe assediata strettamente da’ Turchi, e mancando essa di acque, ci fu taluno che era nella medesima al campo, e mostrò «che dell’acqua salsa di mare lambicandosi si poteva trarre acqua dolce, il che si riusciva assai bene, ed era acqua da bere, e buona; ma non se ne poteva far tanta che bastasse, e si consumava assai legna, di che avevano mancamento, e per ciò disfecero alcune delle galee che sotto il forte si guardavano». Giambattista Adriani, Storia, lib. XVI, anno 1560, pag. 1650 ediz. in fol. del Giunti.

Nel 1551 il duca Valentino prese Faenza col patto che il di lei signore potesse salvo e libero andarsene dove ei volesse. Ma il povero signore fu ritenuto appresso di sè dal duca Valentino, il quale giovinetto tenuto qualche tempo da lui in delizie, alla fine fece strangolare, ma non senza ignominiosa violenza, testimonio parimente di libidine e crudeltà. Jacopo Nandi, Ist. Fiorentina, lib. 4, edizione 1582, pag. mihi 70.]

Capo XXIX. Stato delle scienze in Italia nel secolo decimosesto.

Le guerre, gli orrori, le fraudi formarono la vasta ed ignominiosa porzione delle memorie umane: la necessaria connessione degli avvenimenti mi trattiene mio malgrado in tale argomento; io lo abbandono, quando il posso, e mi rifugio alla storia delle pacifiche arti dell’ingegno, perchè mi consoli. In lei sola veggo gli uomini.

L’Italia presentava lo spettacolo di essere la preda e la maestra d’Europa, a un tempo. Il secolo decimoquinto era stato quello della imitazione, nel decimosesto furono più coraggiose le menti. Ardirono di ragionare. Non più qualche elegante prosa, qualche armoniosa canzone formava un letterato. Si chiamò con tal nome anche un uomo di scienze.

Le traduzioni de’ Greci con de’ comentari erano il soggetto delle fatiche di vari letterati. Si distinsero in ciò Bartolomeo Lamberti e Memio, ambi veneziani, Platone da Tivoli e Federico Commandino urbinese medico e matematico, che tradusse le principali opere de’ Greci, Euclide, Aristarco, Pappo, Teone.

Si tentava in altre parti d’Europa la stessa impresa. Ma la lingua greca, in nessun luogo allora conosciuta come in Italia, rendeva le nostre traduzioni superiori a tutte in eleganza ed in numero.

Mi si presentano in questo secolo molti uomini degni della posterità, chi per i loro talenti, chi per i loro difetti.

Tartalea, o Tartaglia, veneziano, così detto perchè balbettava, tradusse un Euclide, fece un trattato de’ numeri e delle misure che può essere ascritto fra le grandi opere in tal genere. Fu professore di matematiche in Venezia.

Maurolico da Messina tradusse Archimede, e fu il primo geometra de’ suoi giorni; vivea alla metà di questo secolo.

Il marchese Guido Ubaldo del Monte coltivò con molto profitto la statica. Il suo trattato di meccanica è molto pregievole. Sono nomi poco noti, e che meritano di esserlo.

Giambattista Della Porta, milanese, fu celebre non meno per le sue molte fisiche cognizioni, quanto per la magia naturale in cui le ha involte. La fisica era piena di simpatie e di forze occulte. Questi vocaboli rappresentavano la nostra ignoranza e la contentavano.

La Germania era la sola parte d’Europa che ci potesse disputare il primato delle scienze. L’astronomia vi risorse in questi tempi. Quella nazione ne fu quasi la depositaria per tre secoli. Purbach e Regiomontano furono i precursori di questa scienza. Copernico, Ticone, Keplero seguirono le loro traccie e li fecero dimenticare. Sono in tal materia i maestri del genere umano. Gullielmo langravio d’Assia-Cassel si rendeva illustre col proteggere le scienze e coltivarle.

Il nostro Galileo Galilei alla metà di questo secolo non abbracciò impunemente il sistema di Copernico, ch’era soggetto di controversia per tutta l’Europa. Non si poteva in nessun conto persuadere agli uomini che abitassero un pianeta. Galileo dovette solennemente abiurar la natura. Fu condannato dalla Inquisizione alla perpe­tua prigione, ma gli fu in appresso assegnato per esilio il territorio di Firenze. Morì in una sua casa di campagna.

L’invenzione del cannocchiale gli fu contrastata dagli Olandesi. In tal occasioni vi sono sempre delle dispute. Galileo, avendo inteso che in Olanda si era fabbricato questo istromento, si pose subito a cercarne la costruzione; vi riescì; sei giorni dopo portò un cannocchiale a Venezia che ingrandiva gli oggetti 32 diametri.

Lo stesso era accaduto nella invenzione degli occhiali. Alessandro Spina pisano, sulla fama che un artefice gli aveva inventati, e che ne teneva nascosto il segreto, ne costruì di sua mano poco dopo.[742] Basta un avviso in tali materie perchè gl’ingegni si rivolgano verso di una scoperta alla quale, benchè vicinissimi, non pensavano. Così possono esservi più inventori a un tempo.

Galileo con tal soccorso scoprì le macchie della luna, gli parve di vedere delle stelle nubilose nella Via Lattea, vide le fasi di Venere e di Marte, l’anello di Saturno, i satelliti di Giove, le macchie del Sole. Tali scoperte aprirono vie spaziose alla fisica astronomica. Mi sembra molto diversa la gloria di Galileo inventore del cannocchiale, e di Galileo osservatore. L’uno può esser grande, l’altro può anche non esserlo. Ebbe il gran merito d’esser uno de’ primi restauratori delle scienze rivolgendo l’ingegno alla inquisizion della natura. Era un fisico, un geometra, un meccanico molto maggiore del suo secolo. I suoi Dialoghi lo provano. Sono prolissi e rarefatti. Egli era costretto a dimostrare i primi elementi delle cose. Avea contro di sè la corrente delle opinioni, e solo la sostenneva.

Bernardino Talesio nato al principio di questo secolo gettò fondamenti più universali di quella sola e lungamente trascurata via di andare alla natura, la espe­rienza. Le vaste menti hanno perturbata la fisica con sistemi. I pazienti osservatori con poco strepito hanno alzato un canto dell’immenso velo che la nasconde.

Bernardino unì in Cosenza sua patria una accademia di letterati che di professione si applicarono alla fisica esperimentale. Fu detta Accademia Cosentina, e ne fu celebre il nome. L’Italia ebbe la gloria del primo esempio di simile instituzione. Venne dopo di lei l’Accademia Fiorentina, detta del Cimento, che sotto la protezione del duca di Toscana coltivò la fisica. I di lei progressi fecero dimenticare la sua maestra.

Ebbimo degli uomini che ci onorarono, n’ebbimo ancora di stranissimi. Pareva che vari ingegni fosser nati a un tempo a promuovere e profanare le scienze.

Tal era Pietro Pomponazio mantovano, audace contro la religione, servile pedisequo d’Aristotile. Egli fu empio perchè lo era il suo autore. Sostenne nel suo libro De Fato che l’anima è mortale, non libera, che non v’è providenza. Ei diceva di trovare così certe queste dottrine, che pareagli impossibile di provare il contrario, pure finiva col sottomettersi al Vangelo, e particolarmente a S. Tomaso, protestando che tutto ciò che avea detto quel santo Dottore era vero. Quest’uomo istesso nel suo trattato de incantationibus dimostrò con tutta la serietà della filosofia che le operazioni della divinità, i miracoli de’ profeti e di Gesù Cristo furono effetti degl’influssi delle sfere, come ancora tutta la cristiana religione. I libri di Pomponazio furono abbrucciati; poco mancò non lo fosse anche l’autore.

Cremonino ferrarese, di lui contemporaneo, ebbe lo stesso delirio d’esser empio non tanto per irreligione, quanto per credulità alle opinioni di Aristotile. Seguì anch’e­gli il metodo di Pomponazio di scrivere per ipotesi sottomettendo poi il suo intelletto alla santa fede.

La filosofia di Aristotile era stata l’umano sostegno della teologia, ora si ribellava contro di lei. S’incontrava egual pericolo a distruggerla, come a conservarla. La logica peripatetica era strettamente congiunta colla scolastica teologia. Non si poteva por mano a questo edifizio senza che tutto crollasse. Finchè non si conobbe che la dialettica di quel autore come ce l’avevano consegnata gli Arabi, essa fu una barriera della quale si cingevano i teologi. Ma quando le molte traduzioni e le stampe resero comune la lettura di Aristotile, e che si ritrovò nelle sue opere che Iddio non cura le umane vicende, e che l’anima è mortale, si stese la venerazione che la teologia avea procurato a quell’autore anche su queste empietà. Aristotile era infallibile. Era punito chi ne dubitasse.

Dall’una parte i teologi citavano il greco filosofo per difendere i misteri della Rivelazione; dall’altra gli empi per impugnarla. Il papa Leone fe’ conoscere in quale esitazione lo riponessero tai contraddizioni, nella bolla che pubblicò contro l’empietà degli atei aristotelici. Vi condanna i dogmi irreligiosi di quel filosofo, ma si astiene dal pronunciare contro la sua filosofia in generale.

Giordano Bruno e Girolimo Cardano si eressero in riformatori de’ studi per rendere dispreggievoli così utili sforzi.

Giordano nativo di Nola nel Regno di Napoli fu un uomo del tutto singolare; era dominicano, apostatò e girò inquietamente l’Europa. Egli seguitò il delirio di Raimondo Lullo spagnolo autore dell’arte detta del suo nome lullistica, la quale consisteva in ridurre in brevissimo compendio col mezzo di tavole e di figure tutte le cognizioni umane. Tanto coraggiosa pretensione era perdonabile in tempi ch’esse erano poche, e lo è in ogni tempo, se per cognizioni umane s’intendano le sole verità.

Giordano, animato da uno spirito sedizioso di turbare le scienze piuttosto che di riformarle, si pose a declamare furiosamente contro la filosofia aristotelica. Sono molte e rare le sue opere. Rarissima più di tutte quella che ha per titolo La bestia trionfante, insulsa e frenetica invettiva contro il papa, la sua corte, la sua religione. Ritornato dopo le sue peregrinazioni in Padova, ed ivi non cessando le invettive contro la romana corte e l’Inquisizione, fu carcerato in Roma ed abbruciato vivo. Infelice uomo ancor più che colpevole, degno di una cura metodica anzichè del rogo. Le sue opere sono la sua difesa. È un frenetico che scrive. Di rado si possono intendere.

Girolimo Cardano milanese ebbe di eguale a Bruno una spezie di pazzia che non gli toglieva per un sommo ingegno che quello non avea. Quando Cardano cessa d’esser pazzo è un grand’uomo. Nelle sue opere o si vede un ridicolo mago, o un rispettabile matematico. Ma la sua sapienza è poca, la sua follia è molta. Fu medico, matematico, fisico, astrologo, prestigiatore, avaro, giuocatore, vano, maligno, inquieto, tutto senza mediocrità. Disprezzava o se stesso o gli altri a segno di vantarsi d’avere un demone familiare con cui faceva lunghi e frequenti colloqui. Socrate e Numa Pompilio presero tempi più opportuni a questo progetto. Sosteneva Cardano che cogl’influssi delle stelle potevasi fare tutt’i miracoli di Gesù Cristo.

Ebbe una caldissima sfida di problemi con Tartaglia. Giulio Cesare Scaligero fu suo implacabile nemico, il quale per essere un buon rettorico credeva d’avere il diritto di scrivere delle invettive contro un uomo di scienze.

Cardano visse infelicemente, agitato da mille passioni. Era punito dal suo cattivo carattere. Morì in Roma. Si disse che per l’onore dell’astrologia morisse di fame per non mancar di parola il giorno che avea predetto per ultimo di sua vita.

Tomaso Campanella, dominicano calabrese, è da riporsi nel numero di questi uomini singolari. Si predicava il Profeta ed il Messia. Fu accusato di aver tramata una congiura per dare a’ Turchi il Regno di Napoli. Posto a’ tormenti negò sempre d’esser colpevole. Passò la maggior parte della sua vita in prigione. Ei fece guerra alla filosofia aristotelica. Nelle sue opere si ritrova qualche buona vista di fisica sperimentale sepolta in una folla d’inezie. Il principale suo sistema fu che tutte le cose erano dotate di sentimento. Lo espose nel trattato De sensu rerum. Era tolto dall’anima del mondo degli antichi. Sembravano ritornati in Italia i tempi de’ greci filosofi. Con sedizioni, tumulti, entusiasmi, stranezze, deliri lo spirito umano faceva de’ sforzi più che de’ progressi. Egli era in rivoluzione.

Pietro Ramus in Parigi, reo di combattere l’autorità di Aristotile, citato a compa­rire avanti i commissari del re, era condannato con sentenza formale. Fu affissa a tutti i canti della Università, Ramus ebbe le fischiate de’ studenti, fu il loro ludibrio. Galileo era rilegato.

In Inghilterra il Cancelliere Bacone da Verulanio gettava i fondamenti della filosofia; legislatore delle menti umane, apriva intentate vie alla natura colle sue opere immortali. Era il più grand’uomo del suo secolo ed il solo che impunemente lo fosse.

Dopo di lui Cartesio in Francia sedusse le menti colla grandezza e semplicità di un illustre errore. Una congregazione di cardinali in Roma proscrisse le sue opere.

Quali erano i nostri costumi in mezzo alla coltura che rivolgeva verso di noi l’ammirazione d’Europa? Le opere di Nicolò Macchiavello segretario della Repub­blica fiorentina lo dimostrano. Egli con atroce tranquillità di raziocinio pubblicava le leggi della perfidia, faceva la storia del suo cuore e del suo secolo.

È noto il suo libro del Principe, scritto col sangue. L’umano ingegno non ha mai fatto più funesto abuso delle sue forze. Macchiavello ha cercato le utilità del vizio con somma penetrazione, non ha vedute quelle della virtù! Ha scritto per far un principe potente, si è dimenticato che lo faceva infelice. Ha cercato l’interesse indipendentemente da’ sentimenti. Non ritrovandoli nel suo cuore, ha supposto che non esistes­sero in quello degli altri uomini. Recano generalmente orrore le sue dottrine; destano nell’anima un dolore insoffribile. Un principe se lo seguisse produrrebbe nella nazione lo stesso effetto, colla maggior energia ch’hanno i fatti su de’ scritti. Dimando s’egli con tal politica sarà felice e sicuro?

Taluno ha creduto che Macchiavello scrivendo il Principe non avesse di mira d’insegnare l’iniquità, ma di renderla abominevole col dipingerla d’orribili colori.

Tal sospetto ha poco fondamento. Nelle sue Decadi di Tito Livio, nella Man­dragora ed in tutte le di lui opere ritrovansi le tinte dell’autore del Principe. Un uomo cui fosse cotanto odiosa l’iniquità de’ suoi tempi non avrebbe resistito a dipingerla con freddissima imperturbabilità. Si sarebbe smentito senza avvedersene. Vi trasparirebbe l’uomo sensibile ed il suo fine. Veggo in Macchiavello un profondo calcolatore che scioglie i problemi di una orribil morale, non veggo mai le tracce di beneficenza e di cuore, di entusiasmo della virtù. Se Montesquieu avesse fatto il progetto di stendere un trattato d’iniquità per renderla detestabile, quante volte non sarebbe caduta la penna della sua benefica e legislatrice mano?

Non sappiamo che Macchiavello dicesse ad alcuno di avere scritto il Principe a tal fine. Si sarebbe almeno giustificato co’ suoi amici.

È una ben triste gloria per l’Italia l’aver prodotto il primo autore conosciuto nella storia, di un metodico trattato della scienza de’ tradimenti, delle stilettate, degli assassini, e di avergliene fornita la materia.

Orazio Vecchi modenese visse in tal secolo. Si legge nel suo epitafio: «Armoniam primus comicae facultati coniunxit, totumque terrarum orbem in sui admirationem traxit».

La coltura si diffondeva da per tutto. Il cardinale Pietro Bembo segretario di Leone X e Giovanni Della Casa erano due bei spiriti che scrivevano elegantemente in prosa ed in verso. Vi vuole molta parzialità per chiamarli grandi uomini. Sono conosciute le loro opere, ch’ebbero tanti imitatori. L’armonioso stile col quale sono scritte ci sedusse. Vi sono cento scrittori italiani che tutti hanno la loro dicitura. Sarebbero meravigliati risorgendo di trovarsi come moltiplicati in vari autori.

Il soggetto sul quale gli uomini di spirito si esercitarono per lungo tempo da noi fu il libertinaggio. Ne fanno testimonio il Boccaccio, il Bembo, il Casa; è noto il capitolo del forno, di quest’ultimo. Non ismentivano i scritti co’ lor costumi.

Non si può negare che non ci sia in questi autori uno stile contorto, e dal quale trasparisce lo sforzo che facevano per collocare con solenne studio i vocaboli in faticosa sintassi. Più occupati d’armoniose parole che delle idee; timidi nelle espressioni piut­tosto che liberi e generosi, fuggivano i difetti, più che non cercassero le bellezze.

Il Tasso illustrava questo secolo, ed impazzì per le critiche fatte da’ grammatici al suo poema immortale. Tutti i barcaruoli di Venezia cantano i suoi versi a memoria. I nomi de’ pedanti suoi nemici sono dimenticati.

L’Ariosto suo contemporaneo dedicava l’Orlando al cardinale d’Este ed avea la nota accoglienza: «Dove diavolo messere Ariosto avete pigliate tante».

Il Trissino, il cardinale Bibiena, Macchiavello, Ariosto facevano de’ sforzi per far risorgere il nostro teatro. Composero delle rappresentazioni non indegne del loro secolo.

La imitazione ha anche in ciò trattenuti i nostri progressi. Si posero per modelli i Greci ed i Latini, bisognava imitar la natura.

Il Bramante, Michel Angiolo, il Palladio, Leonardo da Vinci, Rafaello d’Urbino aveano fatto ritornare la semplice maestà della architettura degli antichi, e gli supera­vano nella pittura.

Sembra che i Greci ed i Romani abbiano esaurite quasi tutte le combinazioni del bello nella architettura. Molti secoli d’esperienza, vasti ed infiniti edifizi d’ogni genere da essi fabbricati possono aver prodotto tale effetto. Bisogna ricorrere sempre a questi gran modelli. Fin ora chi ha voluto allontanarsene non vi ha sostituito niente di migliore. M’intendo quanto all’architettura presa in generale, non quanto a piccole e parziali riforme.

Non così è avvenuto in queste nazioni risguardo alle opere d’ingegno. Furono pregievoli, ma non insuperabili.

Parmi adunque che la libertà d’invenzione che si va introducendo nella architet­tura dovrebbe trasportarsi nell’arti d’ingegno, e la servile imitazione da queste trasfe­rirsi all’architettura.

Contenti d’imitare le moli del secolo d’Augusto, abbiamo il coraggio di superarne gli scrittori.

Capo XXX. Di Paolo IV; sue controversie con Ferdinando imperatore e Filippo II, ed Elisabetta regina d’Inghilterra. Inquisizione di Roma e di Spagna. Di Pio V; suo governo; sua bolla «In coena Domini». Lega da lui promossa contro de’ Turchi. Strage degli ugonotti in Francia. Riforma del calendario.

Il papa Paolo IV succeduto a Giulio III[743] erasi dichiarato nemico della famiglia di Carlo V. Egli avea rinunziato l’impero a suo fratello Ferdinando re di Ongheria. Quando fu eletto ne die’ notizia al papa, il quale dichiarò nulla la sua incoronazione perchè mancante del pontificio consenso, e pretendeva che Ferdinando venisse a Roma a farne penitenza. Queste idee del papa gli tolsero dall’animo il progetto di farsi consacrare da lui, e fu sempre in appresso risguardato come inutile questo rito, per tanti secoli sconvolgitore d’Europa.

Il papa si rivolse contro di Filippo II. Fece lega col re di Francia Enrico II e co’ Turchi per togliergli gli Stati di Napoli, dichiarollo deposto, mise in prigione i di lui ambasciatori Garcilasso da Vega e Pirro Loffredo, e voleva far morire quest’ultimo, se non si opponeva il Collegio de’ Cardinali. Filippo seguì la politica di suo padre impressa in quella corte, di poco dire e molto fare coll’apparenza di qualche moderazione. Ordinò al duca d’Alba vicerè di Napoli di far invasione negli Stati della Chiesa. Vi entrò, impadronissi di vari luoghi, non già a nome del suo signore, ma a nome del sacro Collegio e del papa futuro, facendo dipingere da per tutto le armi dello stesso sacro Collegio. Il re di Francia mandò in Italia il duca di Guisa.[744] Intanto i Monsulmani saccheggiavano il lido del Regno di Napoli. Non trovo scrittori che si scandalizzassero di questa lega de’ Turchi col papa, come aveano fatto di quella di Francesco I. La rotta famosa di S. Quintino ch’ebbero nelle Fiandre i Francesi dagli Spagnoli fe’ cessare le loro imprese sul Regno di Napoli. Il duca di Guisa fu richiamato in Francia. Il papa si vedea abbandonato. I Veneziani s’interposero per la pace. Filippo vi aderì. Fra i di lei articoli vi fu che il duca d’Alba andasse a piedi da Sua Santità a farsi assolvere dalle scomuniche. Parea strano ad un uomo di guerra, vicerè del più terribile monarca d’Europa, che avea appena riportata una gran vittoria, tale pretensione in un vinto e debole nemico. Ma per non rompere la pace vi si dovette soscrivere.

La religione cattolica romana era stata proscritta dall’Inghilterra da Enrico VIII. L’avea richiamata dopo di lui Maria Stuarda. Ora Elisabetta vi regnava. Appena assunta al trono ne mandò la notizia per ambasciatori al papa e lo costituì arbitro delle differenze che v’erano fra di lei ed i re di Francia e di Spagna. Il papa rispose agli ambasciatori ch’Elisabetta non avea alcun diritto al Regno d’Inghilterra, perchè bastarda; ch’era un grande ardimento in lei di farsi incoronare senza il suo assenso; che però s’ella lo faceva arbitro delle sue dispute proccurerebbe di darle qualche segno di quella affezione che le portava, ma che non poteva tollerare alcun pregiudizio che si recasse all’autorità del vicario di Cristo a cui spetta di decidere sulle pretensioni dei principi. Questa condotta di Paolo mosse la regina a sottrarsi al pontificato; introdusse di nuovo la religione protestante ne’ suoi Stati.

Il delito d’irreligione sembrava in questi tempi divenuto in Madrid ed in Roma ciò che sotto gl’imperatori romani era stato il delitto di lesa maestà.

Paolo IV, essendo cardinale, avea fatto introdurre in Roma a Paolo III il tribunale della Inquisizione. Non erano soltanto oggetto della sua giurisdizione le eresie, ma anco i delitti civili.[745] Le accuse segrete, le clandestine procedure spargevano la diffidenza in tutta Roma.

Mentr’era moribondo il papa, sollevossi il popolo, assediò l’Inquisizione, d’onde furono cavati ben quattrocento infelici, gli fu appiccato il fuoco, furono diroccate le carceri, e corse pericolo anche il convento della Minerva de’ dominicani.[746] La statua del papa ch’era in Campidoglio fu rotta a furor di popolo, si strascinò la di lei testa tre giorni per la città, poi gettossi nel Tevere.

Filippo II per esser scampato da una borrasca ritornando dalle Fiandre in Ispagna[747] avea fatti abbruciare con pompa teatrale in Vagliadolid alla sua presenza cent’otto de’ primi signori, in ringraziamento a Dio. Fece voto in quella occasione di sterminare in Ispagna tutti gli eretici, e si applicò a compirlo con somma religione. Avea fatto un altro voto, e questo era di portare egli stesso la legna al fuoco per abbruciare D. Carlos suo figlio, in caso che fosse infetto d’eresia.

Filippo volle introdurre in Milano l’Inquisizione all’uso di Spagna. A tal nome fremevano gl’Italiani. In Napoli si era inutilmente tentato lo stesso due volte. Il duca di Sessa governatore di Milano dovette desistere da tale impresa temendo di una ribellione.

Ne’ Paesi Bassi il duca d’Alba era atroce ministro del zelo del suo signore per introdurvi questo tribunale. Dieciottomila Fiamenghi passarono per le mani de’ carnefici in quella funesta spedizione.

Il progetto tanto di Carlo V che di suo figlio era di render sicuro il dominio de i vasti lor Stati col terrore di questo tribunale. Carlo V nel suo testamento lo racco­mandò caldamente a Filippo: «Inter alia, ivi disse, hoc praecipue et obnixe illi co­lendo ut S. Inquisitionis officium contra haereticam pravitatem, divinitus institutum, illiusque ministros et officiales omnibus favoribus atque honoribus prosequatur, eo quod hoc uno remedio gravissimis in Deo offensionibus obviam itur».[748]

Filippo II seguì i precetti di suo padre. Pose gl’inquisitori per fino nelle armate navali, ed in tutti i regi vascelli.[749]

I suoi successori ebbero lo stesso zelo per questa istituzione. Maria Anna d’Au­stria, governatrice durante la minore età di suo figlio Carlo II, mandò in data del 1670 10 settembre una lettera al principe di Lingè, vicerè di Sicilia, nella quale raccoman­dagli assaissimo di proteggere questo tribunale il quale ha purgati gli Stati della monarchia dagli eretici. «Con el castigo que ses lea ha dado en tantos y tan grandes y insignes autos de Inquisicion como se han celebrado, que les ha causado gran tremor y confusion, y a los cattolicos singular gozo, quitud y consuelo». Per autos de Inqui­sicion s’intendono i così detti atti di fede usati ne’ Stati della Spagna, cioè solenni abbruciamenti di uomini ad onor di Dio e della fede. Solevano i re medesimi portare per divozione un fascetto di legna al rogo. Carlo II così fece in un atto di fede celebrato in Madrid i 30 giugno 1680,[750] ed il re Ferdinando III aveva fatto lo stesso[751] molto prima di lui.

Il cardinale Carafa ed il duca Palliano, nipoti del papa Paolo, abusando della potenza del zio, si erano renduti abominevoli colle loro crudeltà. Palliano, fra le altre sue tirannie, fece ammazzare sua moglie col pretesto d’infedeltà. Ella era innocente.

Pio IV successore di Paolo li condannò entrambi a morte. Non tanto furono i lor delitti che li condussero al supplicio, quanto le istanze di Filippo II. Non si era dimenticato ch’essi, padroni dell’animo dello zio, l’aveano mosso a tentare di toglierli il Regno di Napoli.

Benedetto Accolti in questi tempi vantandosi di parlare cogli angeli eccitò una congiura contro del papa. Diceva che il cielo voleva il sacrificio di Pio, e che a lui sarebbe succeduto un pontefice divino, santo, angelico e monarca del mondo. Scoper­tasi questa congiura i rei furono messi a’ tormenti. Nessuno di essi confessò il delitto. Accolti morì fra le torture ridendo.[752]

Seguì in Madrid la misteriosa morte di D. Carlos figlio unico di Filippo II. S’ignorano tuttavia le ragioni di sì funesto avvenimento. Filippo ricoperse quest’affare con tiberiana taciturnità.

Pio V, succeduto a Pio IV, seguiva il sistema del suo antecessore di atterrire Roma colla Inquisizione.[753] Egli era stato inquisitore di professione. Pio IV l’avea creato inquisitore generale di tutta la cristianità. Giunto al pontificato, faceva cercar dapertutto i sospetti di eresia. Ardevano i roghi in mezzo di Roma.

Chiese al senato di Venezia Giulio Zanetti, abitante in Padova, gli fu consegnato, lo fece abbruciare in Roma.

Chiese al duca di Firenze Pietro Carsenecchi che stava famigliarmente alla sua corte. Fu presentata al duca la lettera del papa in tempo che pranzava con lo stesso Carsenecchi. Il duca lo fece consegnare subitamente. Fu abbruciato vivo in Roma perchè avesse avute strette corrispondenze cogli eretici di Germania.

Antonio Palcari, letterato di gran nome in quel secolo, fu parimenti abbruciato per avere parlato contro la Inquisizione che chiamava un pugnale sfodrato contro de’ saggi.

L’istesso papa pubblicava leggi contro il lusso delle dame, proibiva di andare alle osterie, dandone per ragione ch’esse erano fatte per i forastieri, bandiva le meretrici. I magistrati rappresentarono al papa gl’inconvenienti di questa ultima legge. Furono richiamate.

L’istesso papa proibì ai principi nella sua celebre bolla In coena Domini di imporre nuovi tributi sotto pena della scomunica. Una così benefica bolla non bastava ad impedire che i nuovi metalli dell’America, i quali accrescevano annualmente la quantità delle monete, non scemassero il valore de’ tributi, e che i bisogni degli Stati suoi non potessero aumentarsi per l’avvenire. Non erano tolte dalla pia intenzione queste cagioni di un necessario e legittimo effetto che si proibiva. Stabiliva il papa in quella bolla questi altri princìpi; che un principe il quale per ragioni di Stato faccia lega con principi eretici sia decaduto dal trono, e che possa ciascuno scacciarnelo; che sieno scomunicati coloro i quali si appellano dal papa al concilio, e coloro che asseri­scono che il papa vi è sottoposto; che gli ecclesiastici non devono in nessun conto pagare alcuna sorta di tributo sotto pena di scomunica a quel principe il quale ricusi l’estrazione del grano o di altre derrate da’ suoi Stati per introdurle in Roma.

Questa bolla non fu accettata da nessun principe, ma non produsse che dei tumulti. Se accrescevasi un tributo, i popoli citavano la bolla In coena Domini, e ricusavano di pagarlo. Alcuni teologi e confessori fomentavano queste opinioni. Altri dicevano essere sospetto di eresia per fino chi mettesse in questione se in alcuna provincia non fosse accettata la bolla. Non permetteano soltanto di dubitare del merito suo, ma tampoco della comune sua accettazione, benchè fosse palese il contrario.

Non fu meno inutile di questa la bolla che pubblicò lo stesso papa contro di Elisabetta regina d’Inghilterra nella quale privolla del Regno, e comandò ai suditi di non prestarle ubbidienza, chiamandola schiava de’ suoi delitti, ostinata nella empietà, membro putrido del corpo di Gesù Cristo. Si disse che in quella occasione i cattolici tramassero una congiura contro di Elisabetta.

Nacque controversia fra Alfonso, duca di Ferrara, e Cosimo duca di Firenze, ognuno pretendendo la precedenza. Il papa si pose del partito di Cosimo, gli conferì con una bolla il titolo di gran duca e le insegne reali. Venne Cosimo a Roma: giurò fedeltà al papa. Il re di Spagna e l’imperatore riclamarono i loro diritti; dicevano avere essi un alto dominio di quegli Stati. Si dolsero, poi tacquero.

La potenza de’ Turchi atterriva l’Europa. Il loro generale Mustafà diede un atroce esempio di malafede. Assediava l’isola di Capri. Bragadino proveditore della Repubblica di Venezia fu ridotto a cedergliela. Vi fu tra i patti che fosse salvata la vita a Bragadino ed ai suoi. Quando Mustafà lo ebbe in suo potere, lo fece scorticar vivo e vi stese il macello su tutti gli altri Veneziani.

Questa orribile violazione del diritto delle genti rese giusta la famosa lega che unì il papa Pio V contro de’ Turchi. Vi entrarono Filippo II, la Repubblica di Venezia, i Cavalieri di Malta, il duca di Savoia. Fu creato generalissimo della flotta Giovanni duca d’Austria, figlio naturale di Carlo V.

La celebrata vittoria di Lepanto fu la sola impresa di questa lega. Essa non produsse una stabile superiorità su de’ Turchi. Gregorio XIII, dopo di Pio, tentò di riunire questa flotta. Ma i Veneziani conobbero così passeggiero il vantaggio di questa spedizione, che fecero la pace. Il papa si dolse molto con loro. Aveano più bisogno di armate, che di rimproveri.

Avvenne l’anno seguente il funesto macello delle nozze parigine. Carlo IX era re di Francia sotto la reggenza di Catterina de’ Medici. Durava la pace cogli ugonotti. Pur fu creduta pia impresa il rompere con essi la pubblica fede, e ’l dare ordine segreto per ogni parte del Regno che tutti si uccidessero la notte di S. Bartolomeo.

Le nozze conchiuse fra Arrigo re di Navarra e Margherita di Valois aveano popolato Parigi di signori ugonotti. Nella notte indicata si fece strage universale di loro. Tremila ne furono sacrificati in Parigi, circa venticinquemila nelle altre provincie.

A tal nova Gregorio XIII fece in Roma una solenne processione di ringraziamento a Dio: fece battere delle monete colla propria effigie dall’una parte, ed al rovescio un angiolo con in una mano la croce, nell’altra la spada, nell’atto di esterminare gli eretici. In Ispagna si fece il panegirico di questa vittoria avanti di Filippo II, e chiamossi il trionfo della Chiesa militare.

Leone X avea avuta una corte brillante, aveva vissuto in mezzo de’ letterati, e lasciò nessun monumento alle scienze. Era il tempo della poesia, più che della filosofia. Gregorio XIII senza sfoggio di letteratura e quasi senza strepito rese immortale il suo nome colla riforma del calendario. I migliori astronomi fecero vari progetti. Quello che meritò la prevalenza fu di un Italiano, Luigi Gilio astronomo veronese. Mandò il papa il nuovo progetto a tutti i principi cattolici e tutti l’approvarono. Fu pubblicato nel mese di marzo 1582 il breve col quale si abrogò l’antico calendario, e vi fu sostituita la riforma. Ebbe quest’anno ciò di rimarchevole: che il mese di ottobre fu di venti giorni. Si passò immediatamente dal giorno 4 al giorno 15 acciochè si potesse contare nell’anno seguente l’equinozio ai 21 di marzo. Ciò basti a far conoscere qual fosse il disordine.

Gli astronomi di Germania protestarono contro del calendario come avean fatto nelle materie di controversia. Ricusarono le verità della natura perchè promulgate da una potenza ecclesiastica che essi non conoscevano per legittima. Si unì una dieta in Ausburg. L’elettore di Sassonia vi disse che non comportava l’onore dell’imperio germanico che si ricevesse tal riforma. Tutti furono del suo savio parere.

Non reca meraviglia che il volgo avesse tai passioni, ma bensì che gli astronomi combattessero colle dimostrazioni, e loro fosse detestabile il vero corso del Sole insegnato da un papa. Tacquero poi le passioni, e si cedette.

Gullielmo Cave autore di una Istoria delle vite de’ martiri narra come una ampolla del sangue di S. Stefano ch’era solita liquefarsi nella chiesa di S. Gaudioso in Napoli il terzo giorno di agosto, seguendo anch’ella la gregoriana emendazione non si squagliava di poi che ai tredici dello stesso mese; d’onde conchiude esser manifesto che la riforma del calendario era stata approvata in Paradiso, benchè in terra alcuni le facessero opposizione.

La pacifica politica di Gregorio gli acquistò molta venerazione. Basilowitz, gran duca di Moscovia, mandò ambasciatori pregandolo di essergli mediator della pace con Stefano Batori re di Polonia. Di fatti ella fu conchiusa.

Gregorio poco prima di morire ricevette ambasciatori di tre principi giapponesi, il re di Lungo, il re d’Arima, il principe d’Omura. Scrissero tutti tre al papa. Le lettere cominciavano: «All’adorabile luogotenente in terra del re del Cielo, il grande, il santissimo papa; che questa lettera sia consegnata al gran santo signore che adoro luogotenente di Dio in terra; colle mani alzate al Cielo offro questa lettera con adorazione al nostro santissimo papa, luogotenente di Dio in terra». Finivano: «Bacio i piedi a Vostra Beatitudine; mi getto ai piedi del santissimo padre; mi getto colla faccia per terra incurvato sotto i santi piedi».

Si credette che l’uso delle bombe sia invenzione del nostro secolo. Tonniano Strada dice che furono adoperate all’assedio di Vactedon, piccola fortezza nella Pheldria. Ciò avvenne l’anno 1588.

Capo XXXI. Di Sisto V. Suo governo; sue dispute coi re di Francia Arrigo III ed Arrigo IV. Di Clemente. Sue gesta. Di Paolo V. Interdetto e cospirazione di Venezia. Guerre d’Italia.

La città di Roma era piena di sicari e di banditi. I primi signori ed i cardinali, profittando della debolezza del governo, erano divenuti piccoli tiranni. In tal sistema si desiderava dai potenti un papa la di cui imbecillità assicurasse la licenza. Credettero i cardinali di ritrovarlo nel cardinale di Montalto dell’ordine de’ frati minori. Egli era figlio d’un villano. Questo è il famoso Sisto V. Cercavano uno stolido, trovarono un dispotico. Fu sorprendente la lunga e meditata simulazione di Sisto sino al giorno di sua elezione. Si fe’ credere uno sciocco, uno scemo, soffriva le più villane ingurie, non poteva reggersi sulle gambe, portava la testa inclinata su una spalla. Appena fu proclamato, lasciò cadere il velo, divenne disinvolto e sanissimo. Il cardinale de’ Medici lo complimentò sulla differenza della sua salute cangiatasi in pochi istanti. Risposegli Sisto: «Fin ora cercavo le chiavi del Paradiso, e m’incurvavo per ritrovarle; adesso che sono nelle mie mani risguardo il Cielo».

Questo papa corresse i disordini della pubblica disciplina con mano pesante. In poco tempo cangiò d’aspetto tutta la romana Chiesa. Nel primo giorno del suo pontificato fece giustiziare quattro rei. È nota la sua severità: è ancor da taluni biasimata. Fors’era necessaria, certo fu utile. Roma aveva bisogno di un dracone.

Pio IV e Gregorio XIII aveano incominciato a far risorgere in Roma l’antica magnificenza. Sisto V fe’ rimettere in piedi gli obelischi, la colonna di Traiano, e la Gulia di Sesostri alzata da Caligola a Tiberio.

La Francia era in preda alle guerre di religione. Erano i tempi della funesta lega dei duchi di Guisa e del cardinale Borbone contro dei Condè e del re di Navarra. I duchi di Guisa colla apparenza di zelo per la cattolica religione altro non cercavano che di comandare alla Francia. Il re Arrigo III temeali come uomini potenti per gli applausi del volgo. Risguardati come difensori della fede, era sacra la lor persona. Il duca di Guisa non dissimulava il sentimento che avea delle proprie forze in tal situazione. Trattava il re con estremo orgoglio. Sembrava che aspirasse a far con lui ciò che Pipino avea fatto con Chilperico.

Il re proibì al duca di venire a Parigi. Ei ciò nonostante vi andò. Arrigo si rinforzò nella capitale, v’introdusse delle truppe. Questo apparato di guerra contro dei Guisa commosse il popolo alla sollevazione delle barricate, famosa nella storia di quel Regno. Arrigo fuggì da Parigi. Cessata la ribellione, dovette perdonare a’ Guisa ed a’ loro fautori. È facile credere che fosse clemenza dissimulata. Pochi mesi dopo fece chiamare il duca di Guisa, e nella camera sua istessa fu dalle sue guardie trucidato. Il Cardinal di Guisa di lui fratello fu fatto morire il giorno seguente. Vennero imprigio­nati il Cardinal Borbone, l’arcivescovo di Lione, i duchi di Nemours ed Elbeuf, il principe di Tonville, Anna d’Este madre dei Guisa, ed altri de’ primi aderenti alla lega. Dopo di che Arrigo di gioia esclamò: Ora sì che son re.

La Sorbona decise giuridicamente essere Arrigo decaduto dal trono per l’assas­sinio del Cardinal di Guisa, i popoli sciolti dal giuramento di fedeltà, e potere essi in coscienza armarsi contro di lui. Sisto V citò il re di Francia a comparire nel termine di sessanta giorni personalmente o per mezzo di proccuratore a render ragione della morte di quel cardinale, della detenzione del Cardinal Borbone e dell’arcivescovo di Lione. Ridotto in tali angustie, Arrigo credette di vincere la congiura di tanti nemici coll’unirsi al re di Navarra. Ciò fu cagione della sua morte. Era eretico quel re. Parve abominevole questa lega. Ne mormorò tutto Parigi. I predicatori disapprovavanla dai pulpiti, predicando più la ribellione che il Vangelo. L’entusiasmo avea dapertutto degli occulti e palesi istigatori. Il giovine fra Clemente dominicano credette di far la causa di Dio dando una furtiva coltellata al suo re presentandoli una lettera. Morì Arrigo di quella ferita lasciando il torbido suo regno al re di Navarra Arrigo IV.

Questo principe credette di potere estinguere gli entusiasmi dello zelo abiurando in S. Dionigi la religione protestante. La Sorbona decise ch’egli nè cattolico, nè eretico poteva essere re di Francia. Il papa Sisto V lo scomunicò in una bolla come capo degli ugonotti, lo depose da’ suoi regni, trattò da ipocrisia la sua conversione, lo chiamò apostata e figlio dell’ira.

Arrigo fece esporre in Roma la risposta alla bolla. Diceva in essa che il papa trattandolo da ipocrita «Ha falsamente e maliziosamente mentito». E che il papa istesso era un eretico, ciò che il re si offriva a provare in un concilio libero e legittimo, al quale se il papa si opporrà, lo dichiara un Anticristo ed eretico, e come tale vuol avere una perpetua ed irreconciliabil guerra con lui. Quanto alla sua deposizione ei diceva: che se per lo passato i suoi predecessori hanno saputo castigare la temerità di simili scio­perati com’è il preteso papa Sisto, allorchè hanno dimenticati i loro doveri; il re di Navarra sperava coll’aiuto di Dio di fare lo stesso, e di opporsi alle tirannie del papa nemico di Dio, dello Stato e del riposo di tutta la cristianità. Finiva quest’atto: altret­tanto protesta Arrigo Borbone principe di Condè.

Il papa Clemente VIII dopo di lui[754] non volea approvare la conversione di Arrigo. Era sciolta la lega: avea conquistato il suo regno. La impieghevolezza del papa ridusse quasi la Francia a fare uno scisma ed a scegliere un patriarca francese. Finalmente il papa piegò. Riconobbe per cattolico il re di Francia. Innocenzo avea in ciò seguito le mire di Filippo II, al quale era utile il far guerra col pretesto di zelo al padrone di un vicino e torbido regno. Dopo che il papa avea riconosciuto per cattolico il re di Francia, non lasciò Filippo II di fargli guerra come ad un ugonotto.

I Veneziani in segno della loro stima verso il re di Francia lo dichiararono nobile veneziano. Egli mandò in dono alla Repubblica la sua armatura di ferro, che fu esposta sul pubblico arsenale.

Clemente VIII avea guadagnato nulla ed arrischiato molto ne’ grandi avvenimenti di Francia: più utilmente si rivolse al duca di Ferrara Cesare d’Este, a cui tolse Ferrara e Comacchio.

Il parricidio di Francesco Cenci nobile romano fu un errore di questi tempi. Dicesi ch’egli violasse per forza sua figlia Beatrice. Ella si unì in congiura con suo fratello e sua matrigna, ed ammazzarono Cencio. Beatrice fu condannata da’ magistrati, e commosse le pubbliche lagrime morendo con intrepidezza nel fior degli anni e della bellezza.

Vennero a Roma due ambasciatori di Scia Albas Sofi di Persia per trattare una lega col papa contro de’ Turchi. Altro non vi fecero che disputare fra di essi sul cerimoniale; ognun di loro pretendeva la preminenza: vennero anche alle mani. Così ebbe fine quella illustre spedizione.

Due anni dopo i teologi dominicani e gesuiti disputarono alla presenza dello stesso papa sulla nota controversia del libero arbitrio, e della necessità della grazia. Si era già assai caldamente guerreggiato su di tal questione. Le opere del padre Molina la aveano eccitata. Il papa vecchio, e quasi scemo per la sua età, ben tosto morì, lasciando al suo successore Paolo V l’eredità di questa decisione. Paolo decise la­sciando la libertà alle parti di sostenere la loro sentenza senza condannare quella degli avversari. Il che non è da sperarsi.

Sono conosciute le dispute di questo papa colla Repubblica di Venezia. Diede loro il principio l’avere il senato fatti carcerare un canonico di Vicenza e l’abate di Neversa; l’avere rinnovata un’antica legge della Repubblica proibente agli ecclesiastici di acquistare beni immobili, con l’obbligo di vendere quelli che loro fosser lasciati per testamento, e finalmente l’avere proibito di fabbricar nuove chiese senza permissione del senato. Allegava la Repubblica in sua difesa le sue leggi e le antiche sue consuetu­dini, il papa i canoni, a’ quali aggiunse la scomunica contro del senato e del doge, ponendo all’interdetto la città. Non fu punto disturbata perciò la disciplina di Vene­zia. Si pubblicò la pena di morte contro di chi affiggesse in alcun sito il monitorio del papa, od avendolo non lo portasse subitamente ai pubblici magistrati; sotto l’istessa pena fu ordinata la continuazione de’ sacri offici. I cappuccini, i teatini ed i gesuiti partirono dalla Repubblica.

La disputa degli ovunque incerti confini delle due podestà stava per cambiarsi in una guerra. Il re di Francia s’interpose. Mandò in Italia il cardinale Gioioso che fece la pace, nella quale fu permesso a Venezia di governarsi secondo le sue leggi.

Fra Paolo Sarpi, servita teologo della Repubblica, che scrisse in questa occasione in di lei difesa, sentì più degli altri i danni della controversia. Fu pugnalato con ventitrè colpi da alcuni sicari, i quali dopo l’assassinio se ne fuggirono su una ben armata peota che il nunzio pontificio teneva apparecchiata da vari giorni. Il Sarpi si risanò non ostante le molte ferite. Diceva nel tempo della sua malattia di essere stato trafitto style Romanae curiae. Il coltello feritore si conserva tuttavia in Venezia. Gli assassini glielo lasciarono in una ferita.

Vittorio Siri nelle Memorie recondite dice che il Sarpi fu avvertito dal cardinale Belarmino di guardarsi perchè si tramava alla sua vita. Per ciò d’ordine della Repubblica teneva un giacco sotto la tonaca. Lo stesso Siri afferma che il papa non ebbe partecipazione in questo fatto, e che fu comunemente attribuito al di lui nipote Cardinal Borghese.

La casa d’Austria faceva un’incessante ed indiretta guerra ai Veneziani, lasciando che il mare Adriatico fosse infestato dagli Uscocchi, popoli abitanti in Segna città austriaca. I Veneziani si armarono perciò contro l’arciduca Ferdinando.[755] Gli Olandesi mandarono in soccorso della Repubblica il conte di Nassau. Il duca di Ossona, vicerè di Napoli, si pose a secondar le mire di Ferdinando. Fu nel tempo che v’erano tai tumulti che si narra la congiura di Venezia che il Nani ed il signor di Sant Reale, più di tutti, descrisse come se di occultissime cose fosse stato testimonio di vista. L’avve­nimento è pieno di oscurità, ed alcuni credettero finta questa cospirazione.[756] Il duca di Ossona ne fu creduto il capo; si disse che furono mandati in Venezia segretamente degli emissari francesi e spagnoli per dare il fuoco all’arsenale ed uccidere i principali senatori. Ciò che è sicuro, molti Spagnoli e Francesi che o in Venezia o nelle sue truppe si ritrovavano, furono uccisi.

La Valtellina ed il Ducato di Mantova misero in armi tutta l’Europa. La Valtellina suddita de’ Grigioni protestanti si ribellò. Assunse la di lei protezione il duca di Feria governator di Milano. I Veneziani si posero dal partito de’ Grigioni. Venne rimessa la decisione di così grave causa al papa Gregorio XV che tosto morì. Il papa Urbano VIII dopo di lui si mostrava indeciso, non mai proferiva la sentenza. I Francesi ultimarono quest’affare scacciando dalla Valtellina le truppe spagnole e pontificie. Ebbero fine questi torbidi nel trattato di Moncon in Arragona, favorevole a’ Grigioni.

Il Ducato di Mantova fu soggetto di guerra maggiore.[757] Il duca Gonzaga era morto senza successione maschile. Carlo Emanuele duca di Savoia, principe d’inquieta intraprendenza di cui molto bene e molto male dissero gli sempre imparziali storici, pretese a quegli Stati. Filippo III re di Spagna vi si opponeva. Lodovico XIII re di Francia venne in Italia due volte. Il cardinale di Richelieu fuggì con lui. Comandò le truppe, negoziò senza fine. L’imperatore Ferdinando II entrò anch’egli in questi affari per l’investitura di quel ducato. Finì la guerra coll’esser data Mantova a Carlo duca di Nevers per opera del re di Francia.

Capo XXXII. Stato d’Italia e sue guerre. Presa di Candia. Sollevazioni in Palermo ed in Napoli. Controversia fra il papa ed il re di Francia. Dei scrittori seicentisti. Di Giovan Battista Andreini.

L’Europa era in potere di tre monarchi: Giacomo I re d’Inghilterra, Filippo III re di Spagna, Luigi XIII re di Francia; in ogni cosa contrari, in ciò simili: di lasciare interamente la direzione degli affari a’ lor ministri. Richelieu era il vero monarca della Francia, Olivares della Spagna, e Buckingam della Inghilterra.

Quella vasta porzione d’Italia ch’era sotto il governo degli Spagnuoli veniva più d’ogni altra abbandonata a’ regi ministri. Mandavasi nel Ducato di Milano un governatore, nel Regno di Napoli un vicerè, i quali aveano tutta la rapacità de’ romani pretori senza avere il sindacato nella capitale al loro ritorno.

Correva de’ ministri spagnuoli in Italia il proverbio:[758] che in Sicilia rodevano, nel Regno di Napoli mangiavano, nel Ducato di Milano divoravano del tutto. I principi lontani, ed involti nelle guerre d’Europa, non si curavano di queste provincie riposte in un canto della monarchia.

I tributi erano cresciuti all’eccesso per fornire danaro alle imprese de’ sovrani. I vicerè di Napoli ricevevano ad ogni tratto un donativo, non volendo irritare gli animi coll’odioso vocabolo di gabella. Dopo molti dibattimenti si finiva col pagarli, ottenendo per compenso qualche inutile e vano privilegio. Antonio Foscarini nobile veneziano fu in tai tempi vittima de’ sospetti della patria. Fu appiccato. Si scoperse la sua innocenza. Si rimediò come si potè onorando le sue ceneri e la sua famiglia.

Il papa Urbano VIII seppe unire a’ suoi Stati il tante volte preso e perduto Ducato di Urbino. Francesco Maria Della Rovere n’era duca vecchio e senza successione. Cedette alle istanze: rinunciò i suoi Stati alla Chiesa. Si pentì ben presto della sua liberalità per gli aspri trattamenti che gli venivano fatti. Cercò di rivocare la rinuncia già spedita a Roma, e prontamente si ultimò quest’affare.

Accusati alcuni d’aver tentato la vita del papa Urbano per mezzo di stregonerie, furono abbrucciati vivi. Questo papa diede a’ cardinali il titolo di Eminenza.

La casa d’Austria era sospetta a tutta l’Europa per la sua potenza. La Spagna, la Germania, gran parte d’Italia e l’America formavano i suoi Stati. Vi si aggiungeva il non dissimular essa cogli altri princìpi il sentimento della propria grandezza. Ciò irritava tutte le corti.

Ferdinando II imperatore era stato a rischio di perdere i suoi Stati per le rapide conquiste del giovine Gustavo Adolfo re di Svezia, il quale, se non moriva alla giornata di Lutzen, forse cangiava le vicende d’Europa.

Il re di Francia, che lo aveva mosso contro l’imperatore, s’impadronì del Ducato di Lorena. Il suo duca Nicolò Francesco si ricovrò a Firenze.

Ei decise del tutto l’Europa contro la casa d’Austria. Il cardinale di Richelieu le si rese formidabile unendo in lega contro di lei la Francia, l’Olanda e la Svezia, i principi protestanti della Germania, i duchi di Savoia e di Parma. Cominciarono le imprese de’ Francesi nel Ducato di Milano.

Il duca di Parma Ottavio Farnese ben tosto s’avvide d’esser troppo debole per entrare in così grandi affari. Dopo di esser stato vicino a perder il suo ducato fe’ pace co’ Spagnoli.

Onorio Grimaldi duca di Monaco si pose del partito della Francia con una detestabile azione. Fece imprigionare per vari pretesi delitti alcuni suoi sudditi, ed obbligolli ad uccidere que’ pochi Spagnoli ch’erano nel suo Stato.

Madama Cristina sorella del re di Francia Luigi XIII era reggente del Ducato di Savoia nella minor età di Carlo Emanuele II. I di lui zii cardinale Maurizio e principe Tomaso pretendevano alla tutela ad esclusione della reggente. Si abboccarono perciò il re di Francia e sua sorella in Grenoble. Non lasciò in quella occasione il cardinale di Rechelieu d’insinuare alla reggente di lasciare in Francia il suo pupillo e di cedere il governo de’ suoi Stati. Usò anco di rimproveri e di aspre maniere. Ma la reggente non si piegò. Dopo varie dispute finì quest’affare coll’essere i due zii fatti coreggenti assieme di Cristina. Non sono di grande utilità ai pupilli, tutori che tanto desiderano di esserlo.

I Cavalieri di Malta presero il galleone della sultana carico di ricchezze che andava in Egitto. Vi era Tembis Agà governatore del Serraglio. L’Europa aspettava che una flotta di Turchi assediasse Malta. Una ricca preda non accresceva le sue forze, quanto bastasse a sostenere la guerra di un dispotico e gran principe, che vendicava la sua favorita. Inaspettatamente si rivolsero le armi turchesche all’Isola di Candia, antica possessione della Repubblica di Venezia. Fu ben tosto presa Cinea capitale dell’isola. La perdita della capitale non trasse seco il rima­nente dell’isola. La di lei conquista costò a’ Turchi ventiquattro anni di guerra.[759] I Veneziani senza confederati, combattendo mille e dugento miglia lungi dalla patria contro di una terribile nazione, la difesero così lungo tempo con prodigi di valore. I generali Morosini si resero celebri in queste imprese. Fu perduta tutta l’isola nel 1669.

Già da molti anni era in guerra tutta l’Europa. L’Italia occidentale soffriva un lento macello fra gli Spagnoli ed i Francesi. Non si perdeva un’importante notizia coll’ignorarne il racconto. I popoli del Regno di Napoli e della Sicilia erano malcontenti del governo di Spagna, altro non mancava alla sollevazione che un urto. L’ebbero in questi tempi.

La Sicilia, malgrado la sua fertilità, era desolata dalla carestia. Il popolo di Pa­lermo ridotto agli estremi della fame circondò la casa del pretore D. Pietro Faiardo marchese de Los Velez, gridando «Fuora gabelle». Si preparava di dare il fuoco al suo palazzo, quando fuggì, il popolo si portò alle pubbliche carceri, le diroccò e ne trasse settecento detenuti. Non sono così popolate ne’ governi moderati. Il popolo ammu­tinato scorreva la città. Tutto era in disordine. La nobiltà e gli ecclesiastici presero l’armi per estinguer la ribellione. Un tiratore di oro Giuseppe Lesi si fe’ capo della plebe, condussela esclamando muoia il mal governo alla armeria reale, d’onde tolte le armi si guereggiò furiosamente coi nobili. In queste zuffe morì Giuseppe Lesi; il marchese di los Velez morì di affanno. Il generale Teodoro Trivulzi fu dopo di lui destinato pretore in Palermo. Era una carica ben pericolosa: ognuno aspettava un ministro vendicatore. Quel cardinale sorprese i Palermitani entrando nella città senza seguito e senz’armi. La coraggiosa probità è rare volte disprezzata. Nissuno ardì insultarlo. Tal generosa confidenza acquietò i tumulti. La sedizione fu estinta. Altro non produsse che il supplizio di qualche infelice.

Seguì nell’anno istesso in Napoli la famosa sollevazione di Tomaso Aniello. Ella ebbe il suo principio da una nuova e pesante gabella che si pose sui frutti, intolerabile per un popolo che non vive gran parte dell’anno quasi d’altro alimento. Un pesciven­dolo, Tomaso Aniello, detto ancora per abbreviazione Masaniello, ricevette qualche torto da’ gabellieri nel portare del pesce in Napoli. Giuntovi, salì nella pubblica piazza su di un banco, declamò contro la durezza del governo, dipinse la miseria del popolo. In poco tempo fu seguito da cinquantamila persone. Masaniello con tale comitiva non era più un uomo disprezzabile. Il duca d’Aveos vicerè di Napoli spedì al pescivendolo degli ambasciatori per trattare di pace. Non se ne fece nulla. Masaniello ordinò che si scrivesse la nota de’ pubblici ministri. Spedì le sue truppe a diroccare ed abbruciare le loro case: diede ordine che nessuno togliesse mobili o danaro. Il comando fu eseguito con sorprendente disciplina. Si manomisero le abitazioni, si gittarono dalle finestre le spoglie, l’oro, l’argento, quanto v’era di prezioso, nessuno ne profittò. Più di sessanta case ebbero tal destino. Dopo varie zuffe il vicerè fu costretto a chieder di nuovo pace, a quelle condizioni che piacessero al popolo. Il cardinale Filomarini arcivescovo di Napoli ne fu mediatore. L’arcivescovo cercò d’indurre Masaniello a vestirsi di tela d’argento e porsi in testa un capello di pennacchio per così presentarsi al vicerè. L’efimero monarca non volle lasciare i suoi cenci. Andò al palazzo del vicerè accompagnato da circa centomila persone sull’armi. Prima di entrarvi fece un patetico discorso alla moltitudine, esaltandola a gridare viva il re di Spagna, e ricordandole ch’egli era nato povero, che tale volea anco morire; ei disse che non per ambizione o per ribellarsi al re o per voglia di ricchezze avea commosso il popolo, ma soltanto per correggere gli abusi di un pesante governo tolerato fino allora. Non fidandosi del vicerè aggiunse che se fra un’ora non lo vedevano pensassero a vendicare la sua morte. Entrò poscia nel palazzo, e vi fu accolto con timore. Il vicerè gli fece molte dimostra­zioni di rispetto. Si lessero le capitolazioni, furono approvate. Masaniello tardava a comparire. L’ora quasi era passata; il popolo cominciava a rumoreggiare. Masaniello affacciossi ad una finestra, de’ cenno di tacere: ognuno tacque al momento. Tale ubbidienza recò grande stupore al vicerè. Sortì finalmente Masaniello scortato a casa dalla moltitudine e corteggiato dall’arcivescovo Filomarini. Il vicerè giurò in seguito pubblicamente nella Metropolitana di osservare la pattuita capitolazione. Il lacero e seminudo pescivendolo continuava dopo la pace ad esser governatore del popolo; pubblicava editti, ed era massimamente intento a scacciare i banditi e gli oziosi. Sosteneva con gravità la sua carica; comandava severamente ed era temuto. Un suo cenno bastava ad uccidere ed incendiare. Mandò in seguito ordine al cardinale Trivulzio ch’era in Palermo perchè comparisse a fargli ossequio. Non tardò il cardinale ad ubbidire il padrone di centocinquantamila furiosi. Gli si presentò umilmente dandogli il titolo d’illustrissimo. Masaniello accolselo seriamente: La visita, gli disse, di vostra Eminenza, benchè tarda, m’è cara.

Poco durò questo regno. Dopo sei giorni di governo Masaniello divenne frenetico. Taluno attribuì questa malatia a qualche veleno datogli nell’abboccamento col vicerè. Non mi pare verisimile che Masaniello, il quale entrò nel palazzo con diffidenza d’essere ammazzato, come dimostrò la sua arringa al popolo, si esponesse a bevere o mangiare alcuna cosa; molto meno che il vicerè in quella occasione presentasse il veleno ad un sospettoso nemico, avendo la casa circondata da una tumultuante moltitudine pronta a vendicarlo. Andò crescendo la frenesia di Masaniello, cosichè, dopo alcune scene di pazzia e di crudeltà, fu abbandonato dal popolo. Il vicerè lo fece insidiare da alcuni sicari, i quali lo uccisero colle archibuggiate dopo quattro giorni ch’era divenuto pazzo.

In tal guisa durò dieci giorni questo governo, de’ più curiosi che ci narri la storia. Ebbe qualche cosa di eguale a quello di Cola da Rienzo.

Il popolo si pentì di avere abbandonato il suo tribuno. Raccolse il suo cadavere, ch’era stato strascinato per la città, gli unirono la testa, ch’era troncata, e chiamandolo con grandi esclamazioni e smanie il liberatore della patria, il padre dei poveri, lo portarono alla chiesa del Carmine. Fu acclamato santo e martire; gli si attribuirono de’ miracoli, molti attestavano che la testa gli si era riunita al busto, che avea parlato e data la benedizione, e si correva in truppe a baciarlo e a toccarlo colle corone. Gli fu celebrato un grandissimo funerale, accompagnato da una sterminata processione. Tutti a gara si procuravano di averne l’effigie.

Le capitolazioni fatte con Masaniello erano state confermate dal vicerè nella Metropolitana con grande sollennità e nessuna fede. Invece di osservarle si facevano appiccare i sollevati. Il popolo ritornò alla sedizione. Dopo le stragi di tre giorni vennero nuovamente confermate le capitolazioni. In breve, D. Giovanni d’Austria, figlio naturale del re di Spagna Filippo IV, giunse con una flotta a quelle spiaggie; sbarcò alla vista di Napoli. Promise di non trasgredir la fatta pace, e poi cominciò a bombardare quella città. Offrivano un orribile spettacolo il tuono dell’artiglieria, il martellare di tutte le campane, gli urli e le grida delle donne e de’ fanciulli. I Napolitani chiamarono in loro soccorso i Francesi. Il duca di Guisa che ritrovavasi in Roma vi accorse, e fu proclamato doge della Repubblica di Napoli.

Vi andò come liberatore ed aspirò a farsene padrone. Non dimenticò in mezzo di così grandi imprese di fare molti mariti malcontenti. Finì la sua spedizione coll’essere condotto prigioniero in Ispagna. Fu rimesso in libertà dopo quattro anni. Tentò di nuovo inutilmente d’impadronirsi di Napoli.

Il conte d’Onnate, succeduto nella carica di vicerè al duca d’Arcos, rinnovò in quel paese la severità del duca d’Alba nelle Fiandre. Le forche e le manaie mieterono gran numero d’infelici. Così finì la sedizione. Il papa Innocenzo X di pacifico carattere godeva in Roma quella tranquillità che il dispotismo di Sisto V gli aveva preparata. Donna Olimpia, sua cognata, poteva tutto nell’animo suo.

Vide questo secolo la regina Cristina di Svezia rinunziare al trono per coltivare nella tranquillità i suoi talenti in Roma; vide Cromwel fortunato ribelle far tagliare in Inghilterra la testa al suo re Carlo I.

Le tante guerre mosse contro la casa d’Austria dai ministri di Francia cardinali Richelieu e Mazzarino ebbero fine nella pace di Monster conchiusa fra l’imperatore Ferdinando III, il re di Francia Luigi XIV, gli Svizzeri ed i principi dell’impero. Le guerre non cessarono in Lombardia che alla pace dei Pirenei fra la Spagna e la Francia. È nota la disputa del papa Alessandro VII col re di Francia Luigi XIV. Ella finì come quelle di Bonifacio VIII con Filippo il Bello. Il duca di Crequi, ambasciatore della Francia in Roma, si dolse alla sua corte che i soldati corsi avessero insultato alcuni del suo seguito. Seguirono di fatti varie zuffe. Il signor Muratori dà torto a’ Francesi, l’autore conosciuto del compendio cronologico dell’Istoria di Francia lo dà ai soldati corsi. Questo è il solito destino della storia. Ciascuno si chiama imparziale. Non potendovi convenire la massima di un accomodamento, il re di Francia fece sortire da’ suoi Stati il nunzio pontificio, prese Avignone e mandò un’armata in Italia. Il papa dovette cedere. Spedì il Cardinal Chigi suo nipote a chiedere scusa al re. Furono banditi i Corsi dagli Stati pontifici e fu alzata in Roma una piramide colla inscrizione in cui si narrava tutto ciò. Questo molestissimo monumento sussistè sotto gli occhi del papa Alessandro tutta la sua vita. Il successore Clemente IX ottenne di atterrarlo.

Colbert regolava da gran ministro le finanze della Francia, faceva conoscere nuove sorgenti della forza degli Stati nella industria de’ sudditi.

Il Parlamento di Parigi proibì le parrucche come un rimarchevole capo di com­mercio passivo. Si disse che per comprare capelli fuori del Regno sortissero due milioni di scudi.

L’Italia non ci presenta più un grande soggetto d’istoria. Qualche guerra da cui, come di rigurgito, era inondata di tempo in tempo, la toglieva dalla oscurità, poi vi ricadeva. La potenza del seggio era ricaduta, la maggior parte di questa penisola soggetta al dominio spagnuolo era una dimenticata porzione di vasti regni. Gli altri piccoli principi che la dividevano temeano le rivoluzioni, non le cercavano. Così era steso sull’Italia non so se dica il letargo o la tranquillità.

La sola storia facea risovenire ch’ella avea dominata l’Europa coll’arme de’ Ro­mani, poi colla religione.

La gloria pacifica delle belle arti era passata in Francia, la quale, sotto il governo del gran Luigi, facea tremar l’Europa e la instruiva. I nostri scrittori nello stesso tempo erano ridicoli; è noto lo stile che chiamiamo del Seicento. Le sconcie metafore, i coraggiosi traslati erano succeduti alla timida esattezza de’ cinquecentisti. I quaresimali e le poesie di questo secolo sono la più umiliante porzione della nostra letteratura. Pure non è che nei nostri seicentisti non si ritrovi talvolta in mezzo di gigantesche metafore qualche gran lampo. L’ardimento col quale scrivevano li rendeva ridicoli, o sublimi, giammai mediocri. Se gli scrittori del Cinquecento furono colti, limati e regolari, quelli del Seicento ebbero difetti e bellezze grandi.

Non ne sceglierò che un solo esempio fra i moltissimi: questo sia l’Adamo, sacra rappresentazione di Giovanni Battista Andreini fiorentino. Si dice che Milton abbia preso il soggetto del suo poema da questa tragicomedia. Qualche squarcio basta a darne una idea. Gl’interlocutori sono il Padre Eterno, il coro de’ serafini e de’ cheru­bini, l’arcangelo Michele, Adamo ed Eva, Lucifero, Sathan, Belzebù, gli sette peccati mortali, il mondo, la carne, i folletti, i spiriti ignei, aerei, acquatici ed infernali. Tale era lo stato del nostro teatro. Questa rappresentazione fu stimatissima, ed è delle più belle di que’ tempi.

In una scena Adamo dice ad Eva:

con santi amplessi amica

annodiamoci intanto

in guisa che sembriamo

di folta siepe un intricato accanto.

Il che non è un soggetto molto sacro. Il Padre Eterno nella prima scena chiama Sathan:

Alzi dal tetro orror l’orrida fronte

Lucifero dolente a tanta luce.

Abbagli al lampo di lucenti stelle

e di non caldo sole anelli ai raggi.

Ne’ volumi del del legga le tante

gran meraviglie di celeste mano.

Al che risponde Sathan:

Chi dal mio centro oscuro

mi chiama a rimirare cotanta luce?

Dimmi architetto vile

che di fango opre festi,

che averrà di questo uomo povero ed ignudo

de’ boschi abitator solo, e di selve?

Nella scena terza così Belzebù parla al consesso de’ demoni:

Doloroso Sathan, spirti infelici!

Già stanza vi fu il Ciel, seggio le stelle!

Ed or miseri voi l’eterna aurora

perduta avendo, ed ogni empireo lume,

vulgo oscuro e crudele il Ciel vi appella,

e ’n vece di stampar le vie del sole

premete i campi della eterna notte

e ’nvece d’aureo crine

e d’angelico aspetto

viperino e ’l capel, lo sguardo bieco,

apre il volgo cruccioso un’aria fosca

gravida di bestemmie è ognor la bocca

e bestemmiante sbocca

Sulfureo nembo, schifa bava e fuoco.

Ne’ cinquecentisti difficilmente si trovavano de’ tratti che si accostino alla robu­stezza di questi. Ma sono sepolti in una folla di sconcezze e di giuochi di parole che li discreditano. Chi crederebbe che lo stesso autore cominci un coro di angeli così:

A la lira del Ciel l’Iri sia l’arco

corde le sfere sien, note le stelle.

Sien le pause e i sospir l’aure novelle

e ’l tempio i tempi a misurar non parco.

Tal era il mescuglio d’inezie e d’immagini in questi autori. Si sforzavano sempre di sollevarsi al sublime, per lo più lo oltrepassavano; pur talvolta vi giungevano.

I moltissimi cattivi poeti non impedivano che ve ne fossero alcuni pregevoli. Se v’era il cavalier Manno, Claudio Achillini, il Mascardi, monsignor Ciampoli, vi era ancora Gabbriello Chiabrera, il conte Bonavelli ed il Tassoni. Toricelli, Viviani, Borelli, Bellini, Malpighi, Redi, Magalotti, Casselli, Gullielmini, Montanari facciano vedere che se l’Italia abbondava di sconci scrittori, non mancava perciò di fisici e di matematici. Cosicchè le scienze fiorivano in mezzo della barbarie delle lettere.

Capo XXXIII. Sollevazione di Messina. Questione della regale fra il papa ed il re di Francia. Bombardamento di Genova. I Veneziani prendono la Morea. Strage degli ugonotti in Francia. Tumulti in Roma per le franchigie degli ambasciatori. Guerre e pace di Riswich.

I regni di Napoli e di Sicilia non conoscevano altro motivo di ubbidire alla Spagna che il timore. Già Palermo e Napoli aveano dimostrata esser violenta la loro fedeltà. Or anche Messina ribellossi e chiamò i Francesi a difenderla. L’Europa era divenuta una sola gran nazione, divisa tra principi sospettosi. L’equilibrio delle cose, stabilito per massima fondamentale della comune tranquillità, la disturbava ad ogni momento. Non si guerreggiava in un canto d’Europa ch’ella tutta non fosse in armi. I Francesi ben tosto andarono al possesso di Messina. Gli Olandesi spedirono contro di loro il viceammiraglio Ruyter. Morì in questa spedizione; la flotta ritornò sconfitta.

Il re di Francia, impegnato nelle strepitose e fortunate guerre della Fiandra e della Germania trovò ben presto che l’incerto dominio d’una lontana città non tanto accresceva la sua potenza, quanto gliene pesava la conservazione. Venne dato ordine al maresciallo della Feuillade ch’era in Messina di ritornare colle truppe in Francia immediatamente. A tal nuova furono desolati i Messinesi: si vedevano abbandonati alla vendetta di una nazione che ne avea già dati degli esempi funesti. Pregarono invano che si ritardasse la partenza, nè altro ottennero dal maresciallo se non se di essere ammessi nelle sue navi. Ognuno pensò a fuggirsene. Ben settemila persone andarono ad imbarcarsi con somma fretta. Il maresciallo non avea concesse che quattro ore di tempo. Tutta Messina sarebbe venuta sulla flotta se vi fosse stato luogo. Furono sciolte le vele lasciando sul lido più di due mila persone che con grida compassionevoli cercavano soccorso. Palermo da settantamila abitatori si era ridotta ad undecimila. Ognuno fuggiva, e quelli che non n’ebbero tempo sentirono i mali della ribellione. Fu privata la città d’ogni privilegio, fu in gran parte distrutta, si alzarono memorie infami della ribellione, fu bandito chiunque era stato posto in carica da’ Francesi, furono confiscati i beni degli assenti.

I Messinesi che si ricovrarono in Francia ebbero una fine ancora più infelice. Erano stati distribuiti per varie città, e mantenuti a spese del re un anno e mezzo. Quando vennero tutti obbligati, sotto pena di morte, ad escir da quel regno. Così abbandonati alla loro miseria, gran parte fu ridotta a cercare l’elemosina, altri diven­nero assassini di strada, e circa mille e cinquecento passarono in Turchia a farsi rinegati. Cinquecento e più altri ritornarono alla patria, sulla fede de’ passaporti degli ambasciatori spagnoli. Il vicerè marchese de Las Navas gli fece tutti o appiccare, o mandare in galera, eccettuatine quattro soli. Vi sono alcuni luoghi della storia ne’ quali perchè si avrebbe a dir molto si tace.

La questione della regale fra il re di Francia ed il papa Innocenzo XI finì come tutti gli affari del padrone d’Europa. La regale è il diritto che hanno i re di Fancia di percepire le rendite de’ vescovati ed arcivescovati vacanti sino a che il nuovo eletto non giuri fedeltà.

Fu spedito a Roma il cardinale d’Elrè più a comandare che a far controversie canoniche. Il re di Francia unì ben tosto un concilio di vescovi francesi, ove si decise la questione in favore di chi lo aveva congregato. Le quattro proposizioni, che già da qualche tempo la Sorbona insegnava, furono stabilite come leggi fondamentali. Esse sono: che il papa non ha autorità su i principi; che non può assolvere i lor sudditi dal giuramento di fedeltà o deporli; che i concili generali sono superiori al papa; che i loro decreti in materia di disciplina ricevono l’autorità dall’approvazione della Chiesa. Queste proposizioni sono quelle che formano la così detta libertà della Chiesa gallicana. Furono in seguito condannate dal papa Alessandro VIII e finalmente, dopo varie dispute, il clero francese per ordine di Luigi XIV scrisse al papa Innocenzo XII una lettera piena di sommessione, nella quale disapprovava queste dottrine. Ciò non ostante esse sono in vigore tuttavia in Francia, e si seguono le massime dichiarate nel concilio del clero.

Il re di Francia faceva conoscere in tutti gli affari la sua potenza. V’erano delle controversie fra la Repubblica di Genova ed il duca di Savoia. Luigi ordinò senz’altro ad ambe le parti che gli spedissero i loro ministri perchè volea egli terminare queste dispute. Genova era sotto la protezione della Francia. Luigi la desiderava suddita. Gli era opportuno un motivo di guerra. I Genovesi avevano fabbricate quattro nuove galere. Ciò era conforme all’antica lor libertà. Il re di Francia fece intimare che le disarmassero col pretesto ch’esse fossero destinate a servire gli Spagnuoli. Spedì delle navi a predare il commercio e le riviere di Genova. Il signor di Saint Olon venne in quella città, la pose tutta in iscompiglio, proteggendo i delinquenti, defraudando le gabelle, facendo portar l’armi a’ suoi domestici e dipendenti, a’ quali era lecita ogni prepotenza. Ben tosto vi si aggiunse una flotta comandata dal signor Seneglay figlio del gran Colbert. Presentossi a Genova e intimò la disgrazia del re di Francia se immediatamente non consegnava i fusti delle quattro galere, e non spediva al re quattro consiglieri a chiamar perdono. I Genovesi trovarono un insulto queste propo­sizioni. Genova fu bombardata per tre giorni. Dovette cedere; e nella pace di Versailles furono sottoscritti i capitoli, per quella Repubblica umilianti, se l’inesorabil necessità non gli avesse suggeriti. In conseguenza di essi il doge Francesco Maria Imperiali, con quattro senatori, andò ai piedi del re di Francia per testimoniargli il dispiacere d’avere incontrata la sua alta indignazione. Furono ricevuti in Versailles nella pubblica udien­za. Dovettero in seguito i Genovesi disarmare le quattro galere, dar congedo alle milizie spagnole, e furono obbligati a rifare i danni che il bombardamento avea recato alle chiese ed ai sacri luocghi della lor patria.

La Repubblica di Venezia compensò la perdita della Candia colla conquista della Morea su de’ Turchi. Acmet loro la ritolse nel 1716. Francesco Morosini, che diresse questa impresa, eguagliò la gloria del maresciallo di Turena, del principe di Condè, del principe di Orange, del conte Montecuccoli e del generale Caprara, ch’erano il terrore d’Europa e ’l sostegno delle potenze.

La Repubblica diede un pericoloso esempio di confidenza nel suo generale Moro­sini facendolo doge mentr’era ancora comandante dell’esercito.

Nella Francia gloriosa per l’armi, illustre per gl’ingegni, maestra dell’Europa per la dolcezza de’ costumi, si rinnovò la giornata di S. Bartolomeo. Gli ugonotti, assicu­rati di tolleranza sulla fede di replicati, regi editti, ed ultimamente in Nantes l’anno 1598, furono, com’è noto e tristo avvenimento, sacrificati colla dragonata. Il signor Muratori loda apertamente questa carnificina. La sua sincerità non ci lascia dubitare che tai non fossero i sentimenti del suo cuore. Egli trovò giusta la violazion della pubblica fede, e necessaria al ben dello Stato ed agli interessi della santa religione di pace una strage.

La franchiggia dei palazzi degli ambasciatori in Roma riempivanla di disordini. Essi erano divenuti l’asilo de’ delitti. La debolezza de’ papi non avea potuto impedire quest’abuso del diritto delle genti. Gli ambasciatori non si contentavano di avere quelle franchiggie necessarie al loro ufficio, ma ponevano fra i loro diritti quello di esser protettori degli inimici di una società nella quale dimoravano come ministri di pace.

Il papa Innocenzo XI si rivolse a togliere questi scandali. Gli ambasciatori si ritirarono per ciò da Roma. Il re di Francia vi mandò il marchese Lavardino con tal seguito ch’era una gran comitiva ed un piccolo esercito. Portossi al palazzo Farnese, dove alloggiò circondato da guardie, non curandosi del papa e delle sue scomuniche. Si ritenne in Parigi nello stesso tempo il Cardinal legato Ranucci, che invano veniva richiamato. Avignone fu preso. Non finirono questi torbidi che alla morte d’Innocenzo, al di cui successore Alessandro VIII fu restituito Avignone.

In Roma era sorta una nova setta, chiamata de’ quietisti. Un prete spagnolo per nome Molinos n’era l’institutore. Fu messo in prigione. L’Inquisizione sacrificò alcuni de’ suoi seguaci. Non rimane in oggi di tal setta che il nome.

I principi d’Italia lontani dalle guerre, non bastevolmente potenti per volersene mischiare, godevano la tranquillità, erano dimenticati. Gli spettacoli teatrali, e massimamente le opere in musica, erano i principali loro divertimenti. Le corti di Modena e di Mantova gareggiavano in questo lusso divenuto di moda. In Roma, cessato l’austero governo di Innocenzo XI, era risorta un’immagine del secolo di Leone. In Venezia, più che in ogni altro luogo, v’era continuo teatro.

Il duca di Savoia Vittorio Amadeo ruppe questa tranquillità. Dispiacevano a quel principe gli stabilimenti fatti dai Francesi in Pinerolo ed in Casale di Monferrato, che loro aveva venduto Ferdinando duca di Mantova. Unì il duca di Savoia una lega colla Spagna, coll’imperatore, coll’Inghilterra e colla Olanda. Egli stesso fu dichiarato generalissimo dell’armata de’ collegati. Vennero i Francesi nel Piemonte, condotti dal maresciallo di Catinat. I Tedeschi vennero da noi, si resero memorabili cogli aggravi e colle estorsioni de’ loro alloggiamenti. Ne sentivano tutto il peso i principi italiani. Serviva di pretesto l’esser eglino la maggior parte vassalli dell’imperio. La lega tolse Casale ai Francesi. Non altro fu l’esito dell’armamento d’Europa. Il duca di Savoia, dopo di ciò, abbandonando improvvisamente i legati, si unì contro d’essi col re di Francia. Seguì qualche piccola guerra non degna nè di grandi apparati, nè della memoria de’ posteri. La pace universale di Riswich pose fine a questi tumulti.

Capo XXXIV. Guerra della successione di Spagna. Ribellione della Corsica. Guerra per l’elezione del re di Polonia. Situazione del papa Clemente XII. Cambiamenti nei governi d’Italia.

La pace di Riswich fu ben tosto rotta dalla guerra di successione che col secolo cominciò. Carlo II re di Spagna era moribondo e non aveva successione. Era indeciso ed assediato da mille intrichi per disporre di una così grande eredità. Il cardinale di Portocarero arcivescovo di Toledo lo persuadeva ad instituir erede Filippo d’Angiò, secondogenito del delfino di Francia. Carlo consultò il papa Innocenzo XII, il quale seguì il parere dell’arcivescovo di Toledo. Questo consiglio decise Carlo. Destinò suo successore Filippo d’Angiò. Poco dopo morì.

Filippo, che fu detto il V fra i re di Spagna, si mise tosto al possesso di quegli Stati. Occupò la Spagna, le Fiandre, i Regni di Napoli e di Sicilia, e ’l Ducato di Milano.

L’imperatore Leopoldo avea sperata la successione. In Carlo II era terminato il regno della casa d’Austria; parea naturale che Leopoldo ne ricevesse l’eredità. Pose in campo le sue pretensioni. L’Europa fu tutta in armi.

La guerra cominciò in Italia. I Francesi presero Mantova al debole suo duca Ferdinando Gonzaga. Questa fu la prima impresa. La Repubblica di Venezia si appi­gliò al saggio partito, e non difficile, attesa la sua situazione, di star neutrale e pronta alla difesa.

Il duca di Villeroy fu spedito in Italia dal re di Francia. Arrivato al campo galloispano, domandò dov’era quella canaglia de’ Tedeschi, che vollea scacciarli. Ei si dimenticava che avea da combattere col principe Eugenio. Villeroy fu sconfitto nella prima battaglia. Il che fe’ dire ch’egli era venuto in Italia per le poste, per avere la gloria di farsi battere. Il principe Eugenio era stato deriso in Francia, quando vi cercò un impiego militare. In vari fatti d’arme ch’ebbe coi Francesi li convinse di non meritare quest’accoglienza.

La regina Anna d’Inghilterra si unì cogli Olandesi contro del re di Francia. Mandò nelle Fiandre il conte di Marlborough, le di cui imprese sono celebri. La flotta anglo-olandese conquistò forse più di una provincia, prendendo quattro galeoni carichi di danaro che venivano d’America alla Spagna. La preda fu inestimabile, e non soggetta alle vicende delle conquiste. Gl’Inglesi presero in seguito Gibilterra.

Il duca di Savoia Vittorio Amedeo ruppe la lega che aveva col re di Francia perchè l’imperatore Leopoldo gli offrì migliori condizioni. Il conte della Feuillade alla testa dell’esercito galloispano assediò Turino. Il duca fuggì a Cuneo. Il principe Eugenio liberò Turino con somma velocità ed impadronissi di tutta la Lombardia.

Intanto morì l’imperatore Leopoldo. Gli successe il suo figlio Giuseppe, e l’altro suo figlio Carlo assunse il titolo di re di Spagna, ove portatosi fu riconosciuto in Catalogna e proclamato in Madrid.

In tali circostanze fu impreveduto un trattato che si fece tra l’imperatore Giuseppe e Carlo suo fratello e il re di Francia, in cui fu stabilito che i Francesi escirebbero d’Italia. Il principe Eugenio si era renduto terribile alla Francia, quanto lo è un grand’uomo disprezzato. Luigi XIV avea impiegati in questa infruttuosa guerra più di sessanta milioni di luigi d’oro.

I Francesi partirono d’Italia, lasciandovi una sensibile mutazione di costumi. Prima di tai tempi v’era da noi poca società. I nobili se ne stavano ritirati ne’ loro feudi; susistevano tuttavia gli ultimi avanzi delle antiche fazioni e del governo feudale. V’erano delle inimicizie da famiglia con famiglia. Si tenevano gli uomini armati; si tramavano delle insidie; si facevano delle prepotenze col popolo. Erano così comuni le confische per tai delitti, che in tutt’i testamenti s’introdusse la nota clausola di eseredare il delinquente un’ora prima del misfatto per far passare ai sostituti le sostanze ed esclu­dere il fisco. Niente prova maggiormente la barbarie de’ nostri maggiori.

I Francesi, come già aveano fatto a’ tempi di Carlo VIII, dirozzarono i nostri costumi, c’introdussero il commercio civile, ci tolsero alla nostra selvatichezza. Porta­rono le donne nella società che prima venivano severamente custodite da’ gelosi e solitari mariti. Si dolevano della corruzion de’ costumi le gravi persone. Ma gli orrori delle insidie, le atroci vendette del così detto punto di onore riposto nella fedeltà del coniugio, i tradimenti, i trabucchelli, i siccari, tutti questi orribili effetti d’incolti ed insociali costumi non più ci funestarono.

I principi italiani in queste guerre ebbero la solita sfortuna di dover prendere un partito e di esserne vittima. Il duca di Modena Rainaldo d’Este fu spogliato de’ suoi Stati da’ Francesi, perchè il suo ministro in Vienna, trovandosi nell’anticamera della regina de’ Romani, avesse fatto un inchino all’arciduca Carlo dichiarato re di Spagna. Fu in seguito rimesso. Ferdinando duca di Mantova fu dichiarato dall’imperatore reo di fellonia, e però devoluti al fisco i suoi Stati. La sentenza si eseguì dopo la sua morte. Francesco Pico duca della Mirandola fu anch’egli dichiarato ribelle dal consiglio aulico dell’impero. Si pose in vendita il suo Ducato. Il duca di Modena lo comprò. Il papa Clemente XI perdette Comacchio. L’imperatore glielo tolse perchè avesse scomunicati i suoi ministri ch’esiggevano delle contribuzioni in Parma ed in Piacenza. L’arciduca Carlo, diventato in seguito imperatore col nome di Carlo VI, restituì Comacchio a Benedetto XIII.

Il celebre macello di Malphaquet, così funesto ai Francesi, fu il maggiore e l’ultimo di questa sanguinosa guerra, alla quale diè fine la pace universale di Utrecht.

Luigi XIV, indebolito da’ sforzi di grandi imprese, nella decadenza della sua fortuna resistè alla congiura di tutta l’Europa, e conservò al suo nipote Filippo V il Regno di Spagna.

L’arciduca Carlo conquistò il Regno di Napoli e perdette quanto avea occupato Carlo in Ispagna.

Il duca di Savoia fu dichiarato re di Sicilia. Tai furono le mutazioni che produsse nel governo d’Italia questa guerra. I nostri scrittori la descrissero colla solita minu­tezza. Ho creduto che non fosse conforme al mio instituto l’imitarla.

Se questi grandi avvenimenti ancora non mi romoreggiassero d’intorno colla recente loro fama, avrei scritto: si sparse inutilmente in tutta l’Europa il sangue umano per tredeci anni, acciochè Filippo V non fosse re di Spagna. Ciò basterà ai posteri, come a noi basta un cenno delle guerre de’ nostri maggiori e ne leggiamo con noia e compassione i prolissi racconti.

Filippo V rinnovò la guerra tre anni dopo la pace di Utrecht. Occupò improvisamente la Sardegna e sbarcò in Sicilia. Tutta l’Europa si mosse contro di lui e lo costrinse a servare la pace che venne di nuovo conchiusa nel trattato di Londra.

I duchi Farnese di Parma e Medici di Toscana videro disporre in quel trattato, nel quale non entravano, della succession de’ loro Stati. Si conchiuse in Londra che morendo que’ duchi senza figli maschi loro succedessero i figli di Filippo V.

In vigore di questo istesso trattato, l’imperatore Carlo VI ebbe la Sicilia, della quale, giusta la pace di Utrecht, n’era in possesso il duca di Savoia, ch’ebbe in compenso la Sardegna.

Il cardinale Alberoni avea mosso il re di Spagna a rompere la pace di Utrecht. Erano vasti i progetti di quel ministro. Non meditava meno che di sconvolgere tutta l’Europa. L’infelice effetto di così vaste idee decise la sua decadenza. Alberoni fu esiliato. Filippo non vide in lui che un imprudente progettista, non vide un ministro che ristabilì le finanze della Spagna, la marina, le poste dell’Indie Orientali.

Filippo V e Vittorio Amadeo duca di Savoia rinunciarono al governo de’ loro Stati. Filippo abbandonò la corona a D. Luigi principe d’Asturias, suo primogenito, il quale essendo morto pochi mesi dopo, riassunse il comando.

Vittorio Amadeo fè lo stesso con suo figlio Carlo Emanuele. Si pentì della rinun­cia. Voleva rimontare al trono. Fu racchiuso nel castello di Moncallieri. Concorse a questa risoluzione il consenso de’ magistrati. Si disse che la mente del re Vittorio negli ultimi anni fosse svanita.

Morendo, il duca Farnese di Parma lasciò erede il ventre pregnante della princi­pessa Enrichetta sua moglie. Si tentò di eludere con una fecondità politica il trattato di Londra in vigor del quale doveano succedere a quel ducato i figli del re di Spagna. Fra poco svanì la gravidanza. L’infante D. Carlos andò al possesso di Parma e di Piacenza. Il papa Clemente XII protestò di nullità, pretendendo di dare l’investitura di quel Ducato. La Santa Sede era in questo possesso da due secoli. L’infante non curò le proteste, andò a Firenze dove fu riconosciuto principe ereditario. Il papa Clemente promosse il governo attivo di Roma erigendovi un lotto e scomunicando chi lo giuocasse fuori de’ suoi Stati. Prima di lui Benedetto XIII avea scomunicato chi giuocasse al lotto di Genova.

I Corsi cominciarono a rivolgere su di loro gli sguardi d’Europa. Questa nazione era giaciuta lungo tempo nella oscurità. Conquistata nel secolo undecimo dai Saraceni, poscia scacciati da’ Pisani e Genovesi, fu disputata da queste due repubbliche rese potenti dal commercio. Dopo lunghe guerre rimase a’ Genovesi.

La durezza del loro governo fe’ scuotere il giogo. I Genovesi cercarono soccorso dall’imperatore Carlo VI. Egli spedì nell’isola il principe Luigi di Vitemberg, a cui diede instruzioni degne del suo cuore e della miseria de’ Corsi. Volle che non si usasse la forza, ma la dolcezza. Si conchiuse la pace. Carlo istesso se ne fece garante. Si stabilì che i capi della sollevazione venissero a Genova a fare un atto di umiliazione alla Repubblica. Furono destinati Luigi Giafferdi e Andrea Caccialdi: andarono a Genova sulla pubblica fede, vennero trattenuti, e si pensava alla vendetta. Carlo VI obbligò i Genovesi a rilasciarli. Ma i Corsi ribellaronsi di nuovo; nè più ricaddero nel governo de’ Genovesi.

La morte di Federico Augusto re di Polonia riacese la guerra in Europa. Il re di Francia Luigi XV sosteneva il partito del suo suocero Stanislao Leszozinscki. I Pallatini della Lituania alzarono al trono Federico Augusto figlio del defunto.

Il re di Francia portò la guerra in Italia contro di Carlo VI, perchè avesse protetta questa elezione. Unitosi segretamente in lega col re di Sardegna e col re di Spagna Filippo V, mandò in Italia il maresciallo di Villars, che dopo un anno morì in Turino.

Fu sorprendente l’incredulità della corte di Vienna, in questa occasione. Non poteva persuadersi che i Francesi venissero in Italia quantunque con molta premura gli avisassero gli ambasciatori di Genova e di Turino. Destava il riso questa novella. Intanto l’armata gallosarda s’impadronì velocemente di Vigevano, di Pavia, di Milano, di Pizzighettone, di Lodi, di Cremona ed altre città della Lombardia. Cominciarono i Tedeschi a difenderla quand’era quasi tutta perduta. Diedero la sanguinosa battaglia di Parma sotto il comando del generale Mercis, la quale altro non produsse che un gran macello d’ambe le parti. Gli Stati del duca di Modena Rainaldo d’Este, benchè neutrale, divennero il teatro della guerra, e dovette ritirarsi a Bologna.

Gli Spagnoli giunsero dopo i Francesi per fare più di loro. In pochi mesi conquistarono il Regno di Napoli, dove D. Carlos, già fatto duca di Parma e Piacenza, e riconosciuto erede della Toscana, fu proclamato re.

L’anno seguente fu conquistata la Sicilia e fu coronato lo stesso D. Carlos in Palermo colle formalità dell’antico rituale. Così Carlo VI perdette quasi tutta l’Italia.

Dopo vari non rimarchevoli fatti d’arme, si fece inaspettatamente la pace fra l’imperatore e ’l re di Francia.

Rimanevano in Italia gli Spagnoli ed i Tedeschi. Il maresciallo Kevenhuller s’inol­trò con trentamille Tedeschi nel Ferrarese, nel Bolognese, nella Marca, nell’Umbria, e circondò in tal guisa gran parte della Toscana per farvi sloggiare gli Spagnoli. Il papa Clemente XII pagò le spese di questa spedizione. Fu obbligato a somministrare foraggi, viveri e danaro all’esercito tedesco.

Clemente XII si ritrovava in mezzo de’ pericoli. V’era la carestia in Roma, avea un’armata di trentamille uomini nel suo Stato, ora in discordie col re di Portogallo e colla corte di Torino. Il re di Francia gli minacciava di prendere Avignone. L’infante D. Carlo pretendeva il ducato di Castro e Ronviglione, che Innocenzo X avea tolto a’ Farnesi.

Si aggiunse a tutto ciò una grave discordia colla corte di Madrid. Si scoprì che in Roma v’erano degli ingaggiatori spagnoli che plagiavano le persone. Il popolo trastiberino, povera, feroce e valorosa gente che molto si rassomiglia agli antichi Romani, portossi furiosamente alle case di questi ingaggiatori e ne seguirono varie zuffe.

Il papa sopì questo tumulto. Ciò non parve bastevole alla corte di Spagna. Fu comandato a tutt’i Napolitani e Spagnoli che si ritrovassero in Roma d’uscirne fra dieci giorni. Fu bandito il nunzio di Madrid. Nello stesso tempo le truppe spagnole sacheggiarono Veletri, Ostia e Palestrina. La guerra della elezione del re di Polonia ebbe fine. In vigore del trattato di pace, Augusto detto il III rimase re di Polonia. Napoli e Sicilia restarono a D. Carlos, che n’ebbe la investitura da Clemente XII. La Toscana, destinata nel trattato di Londra a’ figli di Filippo V, fu data a Francesco duca di Lorena, genero di Carlo VI e sposo dell’arciduchessa sua figlia Maria Teresa. Il vecchio duca Gian Gastone Medici così vedea farsi e rifarsi il suo testamento. Stanislao rinunciò alle sue pretensioni sul Regno di Polonia e n’ebbe in ricompensa la succes­sione al Ducato di Lorena quando che il duca Francesco fosse stato al possesso della Toscana.

La morte del suo ultimo duca Gian Gastone che tosto sopravenne fece eseguire questi patti. Il Ducato di Parma e Piacenza fu per l’imperatore. Il re di Sardegna, a cui era stata promessa la metà dello Stato di Milano, ebbe in sua porzione Tortona, Novara e le Langhe. Fu il solo de’ principi italiani che s’ingrandisse in queste guerre.

I Corsi erano divenuti per i Genovesi ciò che i Sagontini per i Cartaginesi, disposti piuttosto a perire tutti, che a ritornare sotto il dominio della Repubblica. Un incognito avventuriero approdò in quell’isola su di una nave inglese con cannoni, provisioni da guerra e danaro. Fu accolto da’ ribellati e proclamato re della Corsica. Si seppe in appresso ch’egli era Teodoro Antonio barone di Newof, nato suddito del re di Prussia. Egli, dopo aver girato da avventuriere varie corti d’Europa, alla fine, con l’aiuto di alcuni mercanti, avea intrapresa questa singolare spedizione. I Genovesi pubblicarono un manifesto nel quale lo trattavano da uomo senza religione, il più infame de’viventi, da truffatore e da alchimista. Il nuovo re creò de’ conti e de’ marchesi, instituì un ordine militare che chiamò della liberazione. Dopo sei mesi di governo comparve a Livorno travestito da frate; appena sbarcato, prese le poste. Due anni dopo, si seppe ch’egli era in prigione per debiti in Ollanda. Non fu per altro scacciato dalla Corsica, perchè avanti di partire destinò un tribunale di governo durante la sua assenza. Sette anni dopo tentò di ritornarvi. Vi andò su di una nave inglese, promise ai Corsi grandi soccorsi, ed aiuto di principi, ma non gli credettero.

Il cardinale Alberoni tentò anch’egli un’aventura. Finse degli apocrifi ricorsi della piccola Repubblica di S. Marino al papa Clemente XII, coi quali essa gli rinunciava la sua libertà. Si venne in chiaro ben presto della industria di Alberoni e svanì il suo progetto. Tali erano le imprese di un uomo che aveva un tempo commossa tutta l’Europa.

I Genovesi interessarono nella guerra co’ Corsi il re di Francia. La imparziale condotta dell’imperatore Carlo VI non era conforme alle loro idee. Si rivolsero alla Francia. Fu spedito con flotta il marchese di Maillebois. Giunto nell’isola, pubblicò un editto nel quale ordinava ai Corsi di deporre le armi e di rimettersi alla clemenza del suo signore, sotto pena di essere trattati come ribelli. I Corsi risposero con un manifesto assai moderato che finiva con dire: Melius est mori in bello quam videre mala gentis nostrae. Questo stile, degno degli antichi Romani, non piacque. I Francesi si preparavano ad usare le armi. I Corsi furono costretti a rendersi. I capi ribelli, ad insinuazione del marchese, uscirono dall’isola e si ricovrarono chi in Toscana, ch’in Napoli, chi ne’ Stati della Chiesa. Qualcuno de’ sollevati fu suppliziato. Dopo due anni i Francesi ed il Maillebois escirono dalla Corsica.

Capo XXXV. Del pubblico atto di fede seguito in Palermo l’anno 1724.

La Inquisizione nelle forme di Spagna che inutilmente tentossi d’introdurre nel Ducato di Milano e nel Regno di Napoli era stabilita da lungo tempo in Sicilia. L’imperatore Federico II accusato di essere deista ve l’avea eretta il primo, nel 1224, dotandola di grande autorità. I monarchi spagnuoli in seguito la protessero e la ridussero al sistema del regno loro.

È noto il nome di atto di fede, auto de fee, teatrali, solenni e festivi abbruciamenti di uomini in olocausto al Dio di mansuetudine. Di tempo in tempo si celebravano anche nella Sicilia. Farò l’estratto della relazione del presente fatta dal dottore D. Antonio Mongitore consultore del S. Officio di Palermo. È stampata in quella città l’anno istesso 1724. La relazione è dedicata all’imperatore Carlo VI. L’inquisitore generale di Spagna D. Francesco Navarro Obispo de Albarazin vi premette una dedicatoria in cui chiama tal fonzione: foncion tan venerable, catholica, y sagrada.

Segue una lettera indirizzata dagl’inquisitori di Palermo, dottor Juan Ferrer, dottor Joseph de Luzan y Guasso, e dottor Blas Antonio de Oloriz, al inquisitore di Spagna. Dicono in essa: en satisfaccion de los justos deseos de V. S. Illustrissima, y cumplimiento de nuestra obligacion, se concluiò con extraordenaria applicacion un buen numero de causas, para que fuera cumplido el auto, y con tiempo dio V. S. Illustrissima noticia a S. M. C. C. de la necesidad de celebrarse, pidiendo para ello su Real permisso, y suplicando que S. M. C. C. a imitacion de sus gloriosos catholicos predecessores protegiesse tan santa obra.

Manifestò S. M. C. C. su nunca bien ponderada piedad y catholico zelo, no solo dando su aprovacion y ordenando al excellentissimo senor Conde de Palma, marques de Almenara su Virrey, que con toda su autoridad protegiera al tribunal; sino tambien mandando que de su real patrimonio se aplicasse y pagase toda la cantidad que fuera necessaria, para que el auto se hiziera con el major decoro y magnificencia, como felizemente se executò con no menor aplauso que edificacion.

La prefazione dell’autore comincia: Un de’ maggiori e più pregievoli benefici comunicati dalla Divina Provvidenza al Regno di Sicilia, fuor d’ogni dubbio deve stimarsi il sacro tribunale della Santa Inquisizione. Ei dice che quante volte ha portato l’occasione di celebrarsi atto pubblico di fede, si è mostrato il tribunale benigno co’ pentiti e rigoroso cogli ostinati, e di avere esattamente fatta la relazione della presente: per restar come regola ad altri simili atti, che in appresso dovrebbero celebrarsi. Quest’atto di fede, ei soggiunge, celebrato con somma magnificenza m’accingo a scrivere in quest’opera, con tutte quelle circostanze che concorsero a renderlo memo­rabile, per gloria della S. Fede, consolazione de’ buoni, confusione de’ miscredenti e decoro immortale del santo tribunale.[760] La relazione continua: Il sacro tribunale della Santa Inquisizione del Regno di Sicilia ha il lodevol costume di mostrare di tempo in tempo, secondo le occasioni, le opere profittevoli del suo santo instituto, col celebrare alcun atto di fede.

Previamente fu mandato un avviso al pubblico in questi termini: Di ordine e comandamento del S. Officio di questo Regno. Si fa intendere a tutti i fedeli cristiani di questa felice e fedelissima città di Palermo che giovedì, che saranno li 6 di aprile di quest’anno, si celebrerà spettacolo generale di fede, nel piano della metropolitana chiesa, ove tutti coloro che si troveranno presenti guadagneranno le indulgenze con­cesse loro da’ Sommi Pontefici.[761]

Fu spedito un avviso a tutti i commissari del tribunale nelle città del Regno. Finiva coll’avertire i foristi della Inquisizione sì ecclesiastici che secolari che venissero: con i migliori vestiti che potranno portare, per comparire decorati e con lustro in maggior gloria di Dio e servigio di questo Santo Officio.[762]

Furono in seguito mandati opportuni ordini ai parrocchiani, ai superiori degli ordini regolari, perchè intervenissero alla processione, e fu destinato il principe di Rocca Fiorita al sommo onore di portare lo stendardo della Croce, e da tutte queste ben pesate e prudenti prevenzioni (riflette il nostro relatore) ne nacque il buon ordine, con che poi fu celebrato questo solenne atto non senza la dovuta lode e plauso.[763]

Fu destinato, dice l’autore, per teatro a rappresentarsi questo memorabil atto, anzi trionfo della santa fede, il gran piano che si stende avanti al fianco meridionale della chiesa cattedrale. Alzossi un ampio teatro di legno, a spese del Regio errario, e per la magnificenza e struttura riuscì superbissimo. Fu eletto a ben disporlo il padre Tomaso Maria Napoli palermitano, dell’ordine de’ predicatori, peritissimo nell’ar­chitettura.[764] Avanti al portico meridionale della chiesa s’innalzò il sontuoso palco per collocarvi il solio de’ signori inquisitori alto palmi 20, lungo 18 e largo 10, sublime però dal pavimento del teatro sino alla cima della covertura palmi 32. Il solio era con sei scalini. Ei fu riccamente ornato di coltri e baldacchino di velluto cremesino trinato d’oro,[765] dalla cima al fondo fu vestito di broccati di colore azzuro arrabescato di argento, frammezzati di trine d’argento. V’erano gran piumaccioni, ricchissime seg­giole, tavolino ornato di tartaruca ed oro; la scala, per cui si saliva al trono degl’inqui­sitori, fu ornata di velluti arrabescati e con lamine d’oro in ricamo.[766] Furono nell’istesso modo preparati i palchi per il giudizio ordinario, per il capitano di giustizia, per il promotor fiscale, per il recettore, per il contatore del tribunale e per i segretari. Dietro a questi palchi (dice il relatore)[767] si fabbricarono cinque stanze, due per li signori inquisitori, due per lo senato, altra per la corte del signor capitano, ove potessero gl’istessi ritirarsi nella lunghezza del tempo a pigliare qualche necessario ristoro. La stanza ove pranzarono gl’inquisitori si allargava a palmi 16, si dilatava a palmi 9. Quella ove si ritirò il senato a pranzare riuscì lunga palmi 40, larga palmi 9, e una stanza ove si rizzò ricca credenza fu lunga palmi 16, della stessa larghezza di palmi 9.

Tutt’i ceti delle persone avevano il loro luogo di rinfresco. V’era un corridore basso dietro l’altare, destinato a’ fratelli della Compagnia dell’Assunta, per ivi risto­rare e riposarsi. V’erano a lato del palco de’ rei stanze terrene per riposo e ristoro de’ fratelli della Pescaggione. Non vi mancò il suo steccato per li musici formato a foggia di un gran disco ove potessero collocarsi le carte musicali. Tutto in somma era così ben congegnato che conchiude il relatore:[768] se apparve sontuoso per la magnificenza e nobile per la ben intesa architettura, questo teatro, senza comparazione maggiore fu l’apparenza che fece, quando con rara splendidezza si vestì con pomposo apparato che tirò folto concorso di spettatori per ammirarlo insieme e celebrarlo. Ed altrove:[769] gli addobi e apparato pienamente appagarono con soddisfazione universale tutta la città che ammirò la magnificenza e splendore del tribunale, e la prudente condotta e buon gusto de’ ministri che lo compongono.

Il funesto palco dei rei, siegue l’autore,[770] era tutto ammantato di panni neri e di rami di verde, ma mesto mirto, a manifestare il luttuoso delle enormità commesse. Si prepararono[771] due fornaci, sopra di esse si alzò un patibolo di tavole. Si aprì sotto al patibolo una concavità a proporzione capace, con entro legna bastevoli al bruggiamento. Intorno allo steccato si eressero diversi palchi da alcuni falegnami per como­damente potersi vedere il bruciamento sì da persone di qualche condizione, come dal popolo.[772]

Furono condotti i rei processionalmente al patibolo. La processione era composta delle persone più riguardevoli del paese. Seguiva, dice il relatore, un gran numero di titolati e cavalieri, oltre a duecento, che conservando innestato alla nobiltà il zelo della cattolica religione, mostrarono nella prontezza e pompa delle vesti estremo godimento nell’assistere a questa solennità.[773]

Tutto il clero secolare e regolare, i corpi pubblici in cavalcata, tutta la città per fino con gran pompa andò a questa processione. Il relatore narra con grandissimo giubilo così grandi onori fatti all’inquisitore, brilla la compiacenza nel suo stile, dà il dissegno in rame del teatro della processione, dell’abbruciamene per maggiore soddi­sfazione del pubblico.

I rei destinati al sacrifizio erano due: frate Romualdo di S. Agostino laico degli agostiniani scalzi, e suor Gertruda Maria cordovana, terziaria benedettina. Altre persone processate in numero di ventotto con abito giallo, candela di cera gialla, estinta in mano, andarono in processione ed assisterono allo spettacolo su di un palco fatto apposta, con mitre dipinte a vari scarabocchi significanti i loro delitti. Quest’erano rei pentiti. Arrivata la gran processione, e collocati tutti gli ordini nel teatro, vi fu la predica contro di tutti i rei. Poi si venne alla lettura dei processi di fra Romualdo e suor Gertruda. In questo tempo gl’inquisitori, il senato ed i nobili si ritirarono nelle stanze, dove furono trattati a lautissimo pranzo per ristoro della gran fatica di assistere all’abbruciamento. Finita la lettura de’ processi si pubblicò la sentenza. Poi furono i due rei consegnati al braccio secolare. La sentenza era: N. N. comburatur vivus donec in cinerem convertatur, cinis vero dispergatur.[774]

Gli altri rei, perchè pentiti, furono condannati a varie pene non capitali. I loro delitti erano di poligamia, di stregoneria e di bestemmia. Romualdo e Gertruda come ostinati furono condannati al fuoco. Di questi due ultimi, dice il nostro relatore,[775] ci conviene dare più distinto ragguaglio per conoscere al vivo la pietà del S. tribunale e la rettitudine della sua severa giustizia, e insieme in qual baratro può precipitare l’umana malizia. Ecco però i delitti di suor Geltruda che l’autore chiama superba, scandalosa, ippocrita, temeraria, vanagloriosa, molinista e quietista. Si vantava l’in­degna,[776] che il suo spirito si fosse avanzato ad un altissimo grado di perfezione e a cinque unioni con Dio, da lei chiamate la prima unione di matrimonio, la seconda di cognizione della SS. Trinità, la terza di matrimonio col corpo di Cristo, la quarta di matrimonio colla croce di Cristo, e la quinta col crocifisso glorioso in Cielo. Indi diceva esser stata sublimata ad altra unione di trasformazione, immaginando innalzata l’anima sua con più perfetta cognizione e grazia ad un grado, senza comparazione, maggiore a tal segno che se prima in tutto e per tutto operava in modo passivo, con questa nuova trasformazione non l’era restata cosa alcuna di tal operazione; onde se parlava, camminava, guardava, faceva qualsivoglia altro esercizio, vedeva non esser più ella, ma che Iddio in lei operava, quindi mentre camminava le pareva andar agilis­simaDiceva l’indegna che la Santissima Vergine le aveva rivelato che gli atti impuri praticati col confessore non solo non erano illeciti nè peccaminosi, ma che accresce­vano la puritàDiceva sè essere più pura della Santissima Vergine, unita perfetta­mente a Gesù Cristo, che sentivasi nel cuore l’assistenza della Santissima Trinità, che era impeccabile, che gli inquisitori erano ministri del demonio, e che la perseguitavano innocentemostrando[777] furie da pazza. Volle accertarsi il tribunale se fosse sana di mente, onde applicò vari medici per osservar lo stato di sua salute, e da essi messa a diligente disamina per molto tempo, attestarono più volte con giuramento esser in istato di piena salute.

Non furono, segue il relatore, meno enormi gli errori di fra Romualdo da S. Ago­stino, siccome non fu inferiore la sua pertinacia e la pietà seco esercitata dal S. Tribu­nale. Diceva egli avergli Dio rivelato che gli erano stati perdonati i suoi peccati, e che non doveva più confessarsi: che sentiva serena la conscienza ed essere impeccabile per grazia anche venialmente. Che il demonio talvolta lo tentava di confessarsi, ma ch’egli non acconsentiva perchè Dio non voleva che si confessasse. Negava il mistero dell’Incarnazione, onde nell’Ave Maria non voleva in alcun conto dire le parole Dominus tecum,S. Maria Mater Dei. Nel Simbolo della fede non voleva dire Jesum Christum filium eius, nè crucifixus, mortus et sepultus. Non potè mai essere persuaso a dire la Salve Regina, anzi aveva in odio il nome santissimo della Beata Vergine. Diceva esser dieci i comandamenti di Dio, e stimolato a dire quali fossero aggiungeva: primo, amare Dio. Secondo, io son profeta, e non passava avanti. Si vanagloriava scioccamente di esser profeta di Dio, angelo ed arcangelo Michele, ch’era favorito da Dio con ratti ed estasi, e che il Signore gli aveva comunicato due belle dottrine: la prima di difendere la menzogna, l’altra di verificar tutto rispondendo ad ogni interrogazione è della maniera ch’è. Con molte imprecazioni dileggiava lo stato di alcuni ordini regolari e molti religiosi. Diceva non essere obbligato ad ubbidire a’ suoi superiori, perchè l’anima e il corpo erano di Dio. Avendo bastonato un religioso suo fratello, e dettogli ch’era incorso nella scomunica, risposegli averglielo comandato Iddio. Affermava che la Chiesa poteva errare in materia di fede. Diceva avergli Dio rivelato che sola fides sufficit per salvarsi, esclamando quante volte voleva alcuno disingannarlo: Fede, fede vi vuole, e non altro. Negava il demonio potersi trasfigurare in angelo di luce, e di Dio, e in apparenza di Maria Vergine. Aveva in odio il S. Tribunale, dicendo che il S. Uffizio era un inganno del diavolo, ed in particolare quello di Sicilia, e che non doveva chiamarsi Santo, secondo quello che gli aveva detto Iddio. Si vantava esser più puro della Santissima Vergine, quando che stavasi immerso con estrema dissolutezza in abominevoli enormità e laidezze, essendo stato sporchissimo in materia di disonestà e senza vestigio di rossore. Ma la modestia ci obbliga a tacere il particolare delle sue sozzure. Le tante sciocche proposizioni che proferiva parevan vomitate dalla bocca di un forsennato, onde si dubitò ragionevolmente ch’ei fosse scemo di cervello; volendo camminare il S. Tribunale con vigilante prudenza e sicurezza, applicò i medici più periti della città per esaminar lo stato della sua salute. Fu da essi più volte con tutta esattezza osservato per dare un maturo giudizio della sua sanità, e più volte fecero relazione, confirmata con giuramento, che fosse in ottima salute, e che fingesse pazzia per occultare la sua ostinazione e la sciocchezza de’ suoi ereticali errori. Molti teologi lungo tempo lo assediarono per convertirlo, ma egli or ammutoliva alle ragioni e preghiere, e dava in rabbiosi contorcimenti, or l’infelice sedotto si spacciava per angiolo, or per un Dio, e che vi eran più di cento angeli e che egli procedebat ex ore Altissimi, che si davano più Madri di Dio, che avevano avuti più figli. Diede in tale eccesso di enormità[778] che parvero opere piuttosto e sentimenti da pazzo, che di persona ragionevole, ma eran frutti di una ostinata malizia, che lo rese incapace di ogni sentimento di cristiana pietà.

Lo stesso dee argumentarsi dell’altra rea suor Geltrude. L’iniqua (dice di lei il relatore)[779] senza impallidire alla vista del patibolo altro non diceva che era innocente, e ingiusto il tribunale che l’aveva condannata. Dopo avere i teologi proccurata la conversione, finalmente stanca la loro energia, vedendo inutilmente sparse tante loro esortazioni, sudori e lagrime, furono costretti a ritirarsi per dar luogo alla giustizia. Quindi prima se le bruciarono i capelli, per farle provare un piccol saggio degli ardori del fuoco; ma essa mostrò più dispiacimento delle chiome che dell’anima. Indi si diede fuoco alla sopravesta di pece, se forse l’ardor delle fiamme le facessero aprir gli occhi, ma conoscendosi tuttavia ostinatissima si diede fuoco alla legna della fornace di sotto, che consumando le tavole sopra delle quali sedeva, l’indegna piombò dentro di essa e vi restò consumata, spirando l’anima per passare dal fuoco temporale all’eterno. Segue la relazione del supplizio di frate Romualdo:[780] «Prima di farlo ascendere al patibolo gli fu fatto veder l’esito dell’infelice Geltruda, per commoverlo a terrore e pentimento riscaldando a maggior segno l’esortazioni più veementi de’ sacerdoti, e durarono in questa battaglia un grosso quarto. Ma si sfiattarono in vano, perchè nè le fiamme vedute lo sbigottirono, nè le ammoni­zioni lo commossero punto: onde si fece ascendere al patibolo. Quindi dal carnefice fu strettamente legato al palo e si diede fuoco alla sua sopraveste di pece. Fece egli allora violenti moti per alzarsi, e soffiava nel fuoco, quasi volesse estinguerlo, mentre le fiamme gli bruciavano la faccia, ma non per tanto l’ostinato diede segno di penti­mento. Indi si appiccò il fuoco alla catastra di legna nella fornace di sotto, e mentre s’avanzavan le fiamme, faceva sforzi violentissimi: consumata però ben tosto la tavola che lo sosteneva, piombò a faccia sotto del lato destro nella stessa fornace, e da quelle fiamme passò l’anima a provare l’atrocità delle eterne pene ch’egli ebbe l’ardimento di negare. Fu la sua morte infelice circa mezz’ora di notte con alto spavento di quanti si trovaron presenti. Seguì il fuoco per tutta la notte, finchè si ridussero in ceneri gl’indegni cadaveri, che furon poi seminate per quel piano per esser disperse al vento». Il popolo tutto fu edificato dalla pia fonzione e sentivasi a gridare: viva la santa fede.

Aggiungerò un fatto. Nel 1709, volendo introdurre occultamente dalla corte di Roma nel Regno di Napoli le procedure della Inquisizione, lo stesso Carlo VI, a cui è dedicato quest’atto di fede, e che ne fornì le spese, ordinò al cardinale Grimani suo vicerè di Napoli che non permettesse: de ninguna maniera que en las causas pertenes cientes a nuestra santa fede, procedan si no los arzobispos, y de nias ordinarios de este Regno, como ordinarios, con la via ordinaria, que se pratica en los otros delitos y causas criminales ecclesiasticas.[781]

Capo XXXVI. Guerra per la successione dell’imperatore Carlo VI. Sollevazione di Genova. Spedizione degli Austriaci in Provenza. Tumulti in Napoli. Pace di Aquisgrana; suoi effetti quanto all’Italia.

La morte dell’imperatore Carlo VI diè principio alla terza guerra del secolo decimo ottavo. Non lasciò successione maschile. La sua primogenita Maria Teresa gran duchessa di Toscana si vide disputata la paterna eredità da tutta l’Europa. Carlo Alberto elettore di Baviera pretendeva a questa successione per testamento di Ferdi­nando I imperatore. Entrarono in così gran causa ciascuno riclamando i loro diritti i re di Francia, di Spagna e delle due Sicilie. Federico III re di Prussia invase improvisamente la Slesia. Augusto re di Polonia si unì co’ Bavaresi e co’ Franzesi; tutti protestavano ne’ manifesti che la loro intenzione non era di far violenza alcuna, ma di garantire l’elezione di un imperatore. Così la figlia di Carlo VI dovea sola sostenere l’urto di tutta l’Europa. Ella si rivolse ad una nazione ch’era stata perpetua ribelle de’ suoi antenati. Scelse, e ritrovò in lei la sua difenditrice. Ricovrossi dagli Ungaresi de’ quali era già stata coronata regina. Giuntale a Presburgo la nuova che i Francesi avevano passato il Reno, e che i Bavaresi avevano invasa l’Austria, questa principessa al fiore della bellezza e dell’età offrì agli occhi degli Ungaresi un bel tenero spettacolo comparendo nella Dieta di Presburgo col figlio accanto, accompagnando scena così compassionevole con quella eloquenza che solo danno le grandi virtù nelle grandi sventure. Abbandonata dagli amici, oppressa dagl’inimici, ella conchiuse di non avere altra speranza che nell’antico valor degli Ongaresi. Tutta la nazione si commosse: scoppiò un pianto universale, risuonarono queste voci: Daremo il sangue e la vita per la nostra regina! Questo gran giorno decise ch’ella avrebbe succeduto a suo padre malgrado gli sforzi di tutta l’Europa unita contro di lei.

Parea che Maria Teresa avesse scoperto un nuovo paese sconosciuto a’ suoi maggiori. Genti nuove di strani nomi, vestiti, costumi, armi, fisionomie, figlie degli antichi Sciti, ed eredi del loro valore, escirono dal fondo della Grecia e della Ongheria, Panduri, Tolpaschi, Anacchi, Ulani, Valacchi, Licani, Croati, Varadini. Sembrava una nuova incursione di Settentrionali. La lor guerra era un saccheggio.

L’armata gallobavara s’inoltrò nella Boemia. Occupò Praga, ove l’elettore di Baviera fu proclamato re e di poi incoronato imperatore in Francfort. Chiamossi Carlo VII.

Quanto alla Italia il duca di Modena fece lega co’ Spagnuoli. Il re di Sardegna unitosi alla regina d’Ongheria occupò i Stati di quel duca che si ritirò a Venezia. Essendo poi fatto generalissimo delle armi spagnole in Italia venne alla sua carica.

Lo Stato di Milano era minacciato dalle armi di Filippo V, unito al figlio D. Carlos re di Napoli. Ben tosto dovette D. Carlos desistere da tale impresa. Sei grosse navi da guerra con altri legni inglesi entrarono nel porto di Napoli. Fu chiesto al comandante della flotta a qual fine ei venisse; rispose che se il re di Napoli non cessava di far guerra alla regina di Ungaria, egli avrebbe bombardato Napoli, e che non lasciava più di due ore per deliberare. Trasse poi l’orologio, e cominciò a contare i minuti. In vista di tale insinuazione furono con celerità ritirate dallo Stato di Milano le truppe napolitane.

Poco dopo la battaglia di Campo Santo fra l’esercito spagnuolo e l’austriaco-sardo si concluse il trattato di Worms, del quale i re di Sardegna e d’Inghilterra conferma­rono la lega colla regina di Ungaria. Al che venne tosto dietro la sanguinosa battaglia di Dettinghen fra l’esercito francese sotto il comando del maresciallo de Noailles, e l’esercito inglese annoveriano. Fu presente a questo fatto lo stesso re d’Inghilterra Giorgio II.

L’assedio di Velletri fatto dal generale principe Lobcowitz comandante dell’armi austriache dovea produrre la conquista di Napoli, e finì in un saccheggio. Cuneo fu inutilmente assediato da’ Galloispani.

Colla morte dell’imperatore Carlo VII cessò la guerra di Baviera. Suo figlio Massimiliano fe’ pace colla regina d’Ungaria, il di cui sposo Francesco duca di Lorena fu coronato imperatore. Nel seguente anno Filippo V re di Spagna morì. Ferdinando VI suo successore e figlio ritirò le truppe d’Italia. Così ancora il re di Francia che avea portato il teatro della guerra in Fiandra.

Genova, ch’era stata del partito della Francia e della Spagna, rimase abbandonata a se stessa. Contro di lei si rivolsero gli Austriaci. Si accamparono nell’alveo asciutto del torrente Polcevera che, sceso improvvisamente, strascinò al mare circa seicento uomini, con molti cavalli e bagagli.

I Genovesi spedirono legati al generale dell’esercito austriaco, marchese Botta Adorno, rimettendosi alla clemenza della regina d’Ungaria. Il generale Botta rimise quest’affare al conte Cotech, il quale mandò un manifesto al doge Brignole in cui dicevasi che, avendo la Repubblica di Genova riconosciuta la mano onnipossente di Dio che l’avea fatta soccombere sotto le armi giuste e trionfanti di Sua Maestà, le faceva intendere perentoriamente di dover pagare tre milioni di genovine. Entrò quindi in Genova una guarnigione di Tedeschi. Si aggiunsero nuove imposte. Erano già pagati due milioni di genovine, che fanno sei milioni di fiorini. Quella città avea messo alla prova la sua opulenza. Si faceva istanza per il pagamento del terzo milione, si minacciava altrimenti il saccheggio. I soldati riempivano Genova di disordini colla licenza. Un ufficiale italiano rispose a chi si doleva di queste durezze che i Genovesi meritavano di peggio, aggiungendo: «Vi spoglieremo di tutto lasciandovi solamente gli occhi da piangere». Le cose erano ridotte agli estremi. Una sollevazione era in pronto, non vi mancava che un’occasione. Ella nacque da un accidente. Un mortaro da bomba condotto da alcuni soldati tedeschi affondò nella strada. In quella città molte strade son vuote per gli acquidotti. I soldati sforzarono a colpi di bastone le persone che si trovavano casualmente presenti ad aiutarli. Un fanciullo genovese cominciò a scagliare delle sassate. Il tumulto crebbe al momento. Un nembo di sassi pose in fuga que’ soldati. Baricaronsi in poco tempo le strade, si andò all’arsenale, si presero le armi, polvere e cannoni. Il generale Botta cominciò a trattar di pace. Ma dilungandosi l’accordo si diede campanna e martello in tutta la città, e furono scacciati i Tedeschi a furor di popolo.

Il grosso dell’armata tedesca era partita d’Italia prima della sollevazione di Ge­nova per fare un’invasione nella Provenza, sotto il comando del generale Braun. Si rivolse primamente contro di Antibo. Alla nuova della sua venuta tutti gli abitanti fuggirono. L’esercito era andato alla conquista di Provenza senza cannoni e senza munizioni. Le aspettava da Genova. La ribellione sopragiunta troncò a mezzo questa impresa. L’armata fermossi in Provenza più di due mesi soffrendo fame e freddo, accampando nelle nevi, lacera, rovinata.

L’armi austriache ritornarono all’assedio di Genova sotto il comando del generale di Schulemburg. Si combattè con valore e ferocia. La Francia soccorse Genova. Questa protezione ha potuto farle dimenticare il bombardamento di Luigi XIV. La Repubblica difficilmente avrebbe resistito. Vi sarebbe stato un gran macello da raccontare.

Vi furono delle turbolenze in Napoli perchè i vescovi si erano usurpata insensibilmente una sorta d’inquisizione, tribunale insoffribile a quel paese. Fu dato ricorso al re, il quale abolì questa novità. Fu così contenta la città, che donò spontaneamente a Sua Maestà trecentomila ducati di quella moneta. Il papa mandò per quest’affare a Napoli il cardinale Landi. Il popolo gli circondò la carrozza e lo minacciò d’ammazzarlo, se non partiva immantinente.

Vi furono altri tumulti, per essere stati richiamati in quel Regno gli Ebrei banditi sino a’ tempi di Carlo V. Si temeva da alcuno che con tale pretesto s’introducesse l’Inquisizione; ad altri faceva orrore un popolo infedele. Seguì una sollevazione: gli Ebrei furono costretti a partire. Il padre Pepe, gesuita, predicò dai pulpiti contro di loro, ed un capuccino disse in persona al re istesso che il cielo lo condannava a non avere successione maschile, nel che Sua Maestà non lo compiacque.

Si aprì finalmente il congresso di Aquisgrana, e nel 30 aprile fu conchiusa la pace universale. Ciò che diede l’ultima spinta alla tranquillità d’Europa fu l’esercito russiano spedito dalla imperatrice della Russia, Elisabetta, in soccorso della regina d’Ongheria. Così una nazione escita appena dalla barbarie e dalla oscurità decise gli affari d’Europa. Gli effetti della pace furono: che l’infante D. Filippo ebbe il Ducato di Parma, Piacenza, Guastalla. Al di lui fratello D. Carlos restarono i Regni di Napoli e di Sicilia. Il re di Sardegna ebbe, come in tutte le altre guerre, i suoi Stati, ebbe Vigevano, parte del Pavese e del contado di Anghiera. Il duca di Modena tornò in possesso de’ suoi Stati dopo sette anni che furono occupati dagli Austriaco-sardi. Niente sofferse in tal guerra la Toscana. La Repubblica di Venezia fu tranquilla e neutrale spettatrice di controversie così grandi. Lo stesso fe’ l’Olanda. Si pugnò nell’uno e nell’altro emisfero. Gl’Inglesi tolsero in America Capo Bretone alla Francia. Lo Stato Pontificio divenne ciò ch’era stato nelle ultime guerre, la preda di tutte le armate.

Capo ultimo. Conclusione.

Gli storici più che s’accostano alla età loro sogliono allargare la narrazione, e dar più minuto e lungo dettaglio degli avvenimenti. Io mi sono posto in mezzo del tempo per vedere tutt’i secoli alla medesima distanza, i fatti di ciascuno nè più grandi, nè più piccoli di quello ch’essi sono. La storia di questi ultimi anni come quella che confina colla eterna dimenticanza, le guerre di successione della Spagna e dell’imperio come quelle de’ Romani.

Piace a’ nostri contemporanei l’ascoltare prolisso racconto e nelle estreme circostanze compiuto di quanto accade in questi ultimi tempi, e molto più ne desiderano la notizia che non delle antiche cose, considerando queste come storia altrui, e quelle come propria. Non così faranno i posteri, agli occhi de’ quali noi saremo confusi coi nostri maggiori, e i nostri tempi si mescoleranno coi trasandati. Essi non avranno le nostre passioni, nè per conseguenza la nostra minuta curiosità. Essi ci giudicheranno come noi giudichiamo que’ scrittori che, non vedendo altro che i loro contemporanei, e pregiando soverchiamente il proprio secolo, si sono involti nella narrazione degli accampamenti, delle brighe politiche, de’ matrimoni de’ principi, delle aleanze e de’ trattati. Su le quali opere stendesi il tempo e le ricopre, o tutt’al più rimangono in vaste raccolte informe materia per gli seguenti scrittori, e storia di citazione.

V’è un altro motivo per cui non mi sono disteso nella storia de’ tempi nostri. Quanto mi avvicinavo alla fine della carriera, tanto sentiva infondermisi nell’animo la cautela, e da storico divenni cronista. È pericoloso il giudicare la potenza contempo­ranea, è ignominioso il mentire. L’esporre adunque i nudi fatti senza colori, senza riflessioni, mi parve lo stile che mi convenisse.

Tutto il seguito di questa istoria avrà potuto insegnare che l’Italia non ebbe mai tempi più tranquilli. Non è la conquistatrice de’ Romani, non è l’oggetto delle prede di cento nazioni, non ha tributaria tutta l’Europa colla venerazion del pontificato, non è squarciata dalle fazioni, non divisa fra molti tiranni feudatari, ella è quasi oscura, non romoreggia di grandi sfortune. Le rimane qualche guerra passeggiera, quando tutta l’Europa è in armi, ella si estingue e poi ritorna la tranquillità! Chi conosce la storia si contenta anche solo dell’assenza de’ mali. Chi paragonerà il governo degli attuali principi con quello de’ trapassati avrà di che consolarsi.

L’Italia nel secolo passato è stata piena di accademie di poeti, le quali si chia­mavano degli Abbandonati, Oziosi, Confusi, Difettosi, Dubbiosi, Inabili, Indifferenti, Indomiti, Inquieti, Instabili, della Notte, del Piacere, Sizienti, Sonnolenti, Torbidi, Vespertini, Addormentati, della Chiave, Umidi, Infuocati, Infernali, Intronati, Lunatici, Volanti, Caliginosi, Insensati, Insipidi, Audaci, Catenari, Imperfetti, Chimerici, Fantastici, Malinconici, Ombrosi, Sterili, Difficili, Fumosi, Muti etc. Tutta questa Penisola essendo popolata di pochi, fu bisogno che si raunassero in vari mucchi. Ora queste adunanze sono più rare, e meno stimate. L’accademia degli Arcadi instituita per liberare le lettere dalla barbarie è caduta con essa. Con uno scudo chicchesia diventa accademico. Invece di Società di Sonnetisti vissero le accademie Etrusca e Bottanica di Cortona, le società Colombaria, Bottanica e de’ Georgiofili di Firenze, l’accademia Ercolanese di Napoli, ed il compendio di tutte, l’Instituto di Bologna, le quali unioni hanno per iscopo l’erudizione e le scienze. La poesia è divenuta un merito secondario e non ha i colori della filosofia. Il francese e l’inglese diventano le lingue de’ letterati come il greco ed il latino. I libri di quelle nazioni stanno in mano di ogni colta persona. V’è chi risguarda con timido scandalo queste mutazioni, v’è chi mugge ed inveisce, v’è chi per spirito di patriotismo tuttor difende il primato d’Italia nella letteratura, v’è chi lo combatte. L’uomo ragionevole non conosce differenza di nazione nella filosofia, crede misera ed ignominiosa la gloria degli ingegni, e piuttosto che disputare se noi od altra nazione abbia maggior massa di sapienza, impiega questo tempo ad accrescerla.

Ogni secolo ebbe il suo gregge di pedanti, i quali non sapendo bastevolmente per fare onore alla letteratura, ne sanno assai per vessare gl’ingegni. Ma inquietano più di quello che offendano. Non manca pure in ogni tempo la pericolosa ignoranza d’avventarsi a’ nomi grandi co’ quali ha perpetua guerra. Nel che non è da sperarsi tranquillità, essendo questi effetti necessari de’ sentimenti del cuore umano. Ma altronde i vagiti della imbecillità e gli ululati della ignoranza, colla contraddizione e gl’irritamenti loro, danno energia e molle agl’ingegni, che le pacifiche laudi e la stima universale metterebbero in riposo. Parlerò di alcuni uomini illustri del nostro secolo.

Il conte Algarotti ha scritto delle scienze e della letteratura senza le spine della pedanteria. Egli è il Fontenelle d’Italia, sempre instruttivo ed urbano, sempre filosofo ed uomo di mondo, è de’ pochissimi ch’abbiano scritto della arti e delle scienze con vera leggiadria. Gli si può rimproverare talvolta qualche timidità, e troppo studio di lindura, ond’è che in lui altamente non risuoni la voce del vero. L’ho pur ritrovato troppo severo difensore di Dante e di Omero, a segno di non permettere di giudicare que’ poeti con libertà, chiamando perfino eretici omeristi coloro che non adorano il greco poeta; ma non gli si contenda una grande estensione di cognizioni esposta con somma grazia e venustà. Si può riprenderlo, ma non si può lasciare di leggerlo.

Il dottor Cocchi ha scritto della malinconica ed incerta medicina colla maggior coltura. Tutti due questi benemeriti ed illustri letterati hanno fatto vedere che si può scrivere senza imitare. Mi sembrano entrambi originali.

Abbiamo avuto in questo secolo un grand’uomo, il di cui nome non è forse così celebre quanto meriterebbe. Quest’è Giambattista Vico, napolitano, autore della Scienza Nuova. La oscurità e la stranezza di vocaboli con cui è scritta quest’opera ha respinti i lettori. Egli imprende non meno che di far la vita del genere umano, di spiegare come l’uomo si unisse in società, e come in lui nascessero le idee religiose e morali, quai sieno i princìpi della legislazione, per quai gradi progrediscano le nazioni alla coltura, per quali ritornino nella barbarie. Libro pieno di vaste e sublimi idee, di ben collocata e profonda erudizione. Non so se l’Italia abbia avuto un più gran pensatore. Non si può dare esatta idea del suo libro. Bisogna leggerlo. Quel gran filosofo sentiva più che non vedeva gli oggetti, avea delle vaste idee e balbettava nell’esprimerle. La sua opera può farne nascere molte altre migliori di lei.

La erudizione a’ nostri tempi non so s’io dica esser stata promossa o esaurita dall’illustre signor Muratori. Sono conosciute le vaste sue opere massimamente sulla nostra istoria. Egli ha annichilato con travaglio immenso una folla di subalterni eruditi. Non rimangono che spicilegi dopo un così gran mietitore.

Qualche tempo fa, gli eruditi delle cose romane e greche facevan meravigliare. Ora si risguardano come letterati della seconda classe. Vi sono non tanto delle opere, quanto delle biblioteche in ogni genere di antica erudizione. Le collezioni, i dizionari hanno renduta manuale e comune questa materia.

Son note le opere e le vicende di Pietro Giannone. Non mi è mai riuscito di ritrovare nella sua istoria il motivo de’ grandi tumulti ch’ha eccitati. Egli ha scritto da gibellino e da giurisconsulto che sostiene i diritti del suo principe. Niente di più. Il signor Muratori negli Annali e nelle Dissertazioni Italiane dove tratta di storia eccle­siastica ha avuto maggior coraggio di lui, e non le sue sfortune. Questa m’è ognor paruta una contraddizione.

Il marchese Scipione Maffei ha pugnato con due terribili mostri, e gli ha quasi debellati, senza esserne vittima. Fu sostenuto dal suo gran nome in guerra così pericolosa. Egli ha scritto apertamente contro la magia, ha sostenuto senza mistero che non vi sono sortilegi ed incantazioni. Quale coraggio contro le opinioni, contro le leggi che puniscono le streghe, contro de’ magistrati che le facevano abbruciare?

Ha scritto ancora contro gli avanzi dell’antica cavalleria, che rimanevano in Italia. Le differenze de’ nobili erano un soggetto di scienza. Vi sono dei trattati in tale materia e dei volumi di consigli. Un torto, una ingiuria ricevuta faceva ricorrere a delle gravi persone, le quali decidevano che far si dovesse in tal caso dall’offeso o dall’offensore, per ripararla, per vendicarla. Ciò formava una specie di giurisprudenza. V’erano i termini dell’arte, si facevano i duelli colla gravità de’ divini giudizi. I giusdicenti in queste materie si chiamavano biraghisti, perchè un certo cavaliere Birago è famoso autore in quest’argomento. Il marchese Maffei ha motteggiati questi costumi e gli ha distrutti. Non ne rimangono che in qualche piccola città le reliquie.

Il nostro teatro sembrava esser vicino ad una gran riforma e le speranze erano rivolte al signor dottore Goldoni. Egli non imitando alcuno ha seguito il suo genio. «Il mio libro è la natura», ei dice in una sua prefazione. Ma non basta l’autore a far risorgere il teatro, vi vogliono anche gli attori. Le nostre compagnie sono così lontane da quest’arte, che disprezzano con tutta l’ingenuità i Francesi. Nessun uomo di talento superiore, e perciò delicato, vuole esporre nell’attuale indecenza delle nostre scene le sue produzioni. Se il gran maestro del teatro francese fosse presente alla rappresentazione delle sue tragedie tradotte in italiano, che tal volta fanno le nostre compagnie di Venezia, avrebbe di che stupire. Gli sembrerebbe più la parodia, che la rappresen­tazione delle opere sue.

Lo spettacolo al quale si può assistere con piacere sono le commedie del dottor Goldoni scritte in dialetto veneziano. I commedianti di Venezia, rappresentando i costumi ne’ quali sono nati, lo fanno con tutta naturalezza. Ma tai costumi escludono dal teatro la delicatezza e la nobiltà! Sono barcarioli e donnicciuole che fanno delle risse, che fanno all’amore, dipinti al naturale, ma oggetti troppo volgari. Il signor Goldoni ha dovuto mettersi al livello de’ commedianti.

Quanto alla tragedia, nè le nostre compagnie sono in istato di rappresentarla, nè l’Italia la conosce. Non ne abbiamo che una, la quale possa resistere al teatro. Questa è la celebre Merope del marchese Maffei. Sempre mi son meravigliato che quest’autore dopo tanti applausi non ne abbia fatte delle altre. Chi poi chiama capi d’opera la Sofonisba del Trissino, l’Ulisse del Lazzarini, la Giocasta del Baruffaldi non ha che ad esporle sul teatro per farne prova.

Abbiamo un genere di tragedia totalmente destinato alla musica. I drammi di Apostolo Zeno e del signor Metastasio faranno sempre onore all’Italia. Possono essere un modello del tragico teatro. Ma essendo fatti per la declamazione musicale, riescirebbero troppo condensati e veloci nella declamazione vocale. Le opere in musica esiggono una somma concisione ne’ sentimenti, in compenso de’ voti che pone il canto fra gli uni e gli altri. Le stesse opere declamate, senza il riempimento dell’armonia, riescirebbero come scheletri spolpati e nudi.

Mi era proposto di non parlare degli autori viventi. Non ho eccettuati da questa regola che il signor Goldoni ed il signor Metastasio. Volendo parlare del teatro non si potevano tacere questi nomi. Quanto agli alti che illustrano la nostra nazione, io non ne parlerò per non offendere la libertà delle mie opinioni.

[Dirò adunque dello stato de’ nostri ingegni. Quanto allo stato de’ nostri ingegni d’Italia appena risorta dalla barbarie del secolo passato, sembra progredire con velocità verso la filosofia. Ella, maestra d’Europa nel secolo mediceo, ora riceve con usura ciò che ha insegnato. I Francesi massimamente sono i nostri maestri, e sdegniamo di averli. I loro libri stanno in mano d’ogni colta persona, sono la più comune lettura. In vece del greco e del latino s’impara il francese e l’inglese. La scuola de’ pedanti si lagna ed inveisce. Incolpa gli scrittori di francesismi. Non son nuove queste accuse. Cicerone era ripreso di grecizare nel suo stile. I Francesi istessi erano accusati da’ lor pedanti di due secoli fa d’italianizare. Ma i Romani ed i Francesi disprezzarono il grido de’ grammatici, profittarono gli uni de’ Greci, gli altri degl’Italiani, e così spuntarono i due gran secoli di Ottaviano e di Luigi. Bisogna non ricusar la luce da qualunque parte ella venga, è vergognosa la guerra di partito nella filosofia. Non è possibile formarsi su i libri di una nazione, e non prendere il loro stile. Se abbiamo da acquistar nuove idee, abbiamo anco da acquistar un nuovo mezzo di esprimerle. Non scriveremo come il Boccaccio, come il Bembo, come il Casa. Non importa. Scriviamo come Monte­squieu; abbiamo de’ francesismi, ma leggiamo l’Enciclopedia.

L’uomo di scienze, l’uomo ragionatore comincia ad esser preferito al sonettista. La poesia è divenuta un merito secondario se non ha i colori della filosofia. L’acca­demia della Crusca che si era fatta legislatrice della lingua, e che, avendo compilato un dizionario su autori mediocri ed oscuri, pretendeva di condannare l’ingegno ad imitarli, ora ha perduto il suo impero. Si comincia risguardare la lingua come mezzo, e non fine. Con uno scudo chicchesia diventa accademico d’Arcadia. Pur rimane una turba di pedanti puristi i quali sollevano la lor voce contra chi voglia sciorre questi ceppi indegni di ignominiosa servitù. Un’opera assai pregievole escita in questi ultimi anni, alcune lettere di Virgilio agli Arcadi, lettere condite di filosofia, nelle quali si motteggiava con delicatezza la servile imitazione de’ cinquecentisti e la pedanteria, hanno recato grave scandalo all’Italia e sono quasi cadute dopo gravi dicerie nella oscurità. Niente prova maggiormente che tutt’ora non siamo liberati dal tirannico impero della mediocrità. La veneriamo, e non ne siam degni. Il conte Algarotti ha il merito più di tutti d’avere spogliate le scienze e la letteratura dalle spine della pedanteria. Egli è il Fontenelle d’Italia.

Avremmo bisogno di un Goldoni che fosse anche attore. Si può anche sperare la riforma da una compagnia francese, introdotta da qualche anno in Italia. Ella fermandovisi vincerà alla fine il cattivo gusto. Quando vi saranno degli eccellenti attori l’Italia produrrà degli altri Goldoni.

Dirò per ultimo che l’Italia, troppo ricordandosi de’ secoli d’Augusto e de’ Me­dici, sembra giudicare di se stessa con parzialità, ed esser gelosa più ch’emula di quelle nazioni che, avvezza ad avere un tempo come alunne, ora gli è grave di risguardare come maestre. V’è un numeroso partito che si querela, e mugge, e muove scandali contro la oltremontana letteratura; ve n’è un altro forse più numeroso ma non romoreggiante, che nel silenzio e nella solitudine prepara ai posteri più tranquilla filosofia. Il flagello del pedantismo e della satira che ha finora atterriti gl’ingegni sembra che fra poco sarà lacero ed infranto. Alcune nuove opere annunziano già l’avvento della vicina filosofia, ne hanno fatto risuonare le prime sue voci maestose. Se gli ululati si alzarono contro di essa, cadero anche ben tosto nel discredito. È un fatto degno di molta considerazione.]

[1] Roma, come oggi è coda, così già fu capo del mondo: Boccaccio, Decamerone, giornata quinta, novella 3a.

[2] lib. 1.

[3] Dionigi d’Alicarnasso, lib. 2.

[4] Tito Livio, decade 1, lib. 1, c. 4.

[5] Livio, decad. 1, lib. 1, c. 6.

[6] Livio, lib. 1, c. 22.

[7] Plutarco in Numa e Macrobio ne’ Saturnali, lib. 1, c. 13.

[8] Plutarco nella Vita di Numa.

[9] Varrone appresso S. Agost. De civit. Dei, lib. 7, c. 34. Aurelio Vittore, De viris illustribus. Vedi anche Livio, decad. IV, lib. X; Plinio, lib. XIII, c. 13, molto discordi in questa narrativa.

[10] Livio, lib. 1, c. 43.

[11] Dionigi d’ Alicarnasso, lib. IV, c. 15 e seguenti.

[12] Dionigi d’Alicarnasso, lib. 4, cap. 22.

[13] Livio, lib. 1, c. 27.

[14] Livio, lib. 1, cap. 46.

[15] De divinatione, lib. 2, c. 54.

[16] Dionigi d’Alicarnasso, lib. 5, c. 11 delle Antichità romane. Livio, lib. 2, c. 2.

[17] Cicerone, Tuscul. lib. 4, c. 1 in principio.

[18] Liv. lib. 1, c. 18. Dioni. Alicar. lib. 1, c. 59.

[19] S. Clemente Alessandrino nelle Stromate, libro 1.

[20] Diogene Laerzio nella vita di Pitagora.

[21] Plutarco nella Vita di Numa. Eliano, Storia, lib. 2, c. XXVI. Laerzio, ubi supra.

[22] L’Abate Faydito nella Sofonomia.

[23] Dionigi d’Alicarnasso, lib. VI, c. 1.

[24] Dionigi d’Alicarnasso, lib. VI, c. 45.

[25] Dionig. Alicar. lib.VI, c. 45.

[26] Dionigi d’Alicarnasso, lib. VII, c. 65.

[27] Livio, lib. 3, c. XXVIIII. Dionigi d’Alicarnasso, lib X, c. 25.

[28] L’anno 259, secondo la cronologia di Catone, e secondo quella di Varrone l’anno 261.

[29] Dion. Alicarnasso, lib. VI, c. 30. Livio, lib.VII, c. 19.

[30] Livio, lib. 8, c. 18.

[31] Vide Plutarco de Inst. Roman. et Plin. lib. 29.4 et lib. 10 c. 1.

[32] Livio, lib. VI, c. XII.

[33] Livio, lib. 8, c. 21.

[34] Cicer. de Senect., c. 16.

[35] Dionigi d’Alicarnasso, lib. I, cap. 16.

[36] Plutarch. tom. 2, p. 401 ediz. Paris.

[37] Dionigi, 1. 6.

[38] Livio, 22. 7 et 21. 38.

[39] Idem, 7. 3; et Festus in verbo Clavus.

[40] pag. 569 ediz. Parig. et excerpta Valesii, p. 49.

[41] 1. 14 et 3. 9.

[42] Loco citato.

[43] 1. 73.

[44] 6. 1.

[45] De fortuna Romanorum, circa in finem.

[46] Dionigi d’Alicar. 1. 72 et 73.

[47] Dionigi d’Alicarnasso, Antichità Romane, lib. I, c. 70 e 71.

[48] Livio, lib. I, c. 36.

[49] De Divinatione, lib. II, c. 38.

[50] Cic. De Natura Deorum, lib. IlI e V.

[51] Plinio, lib. XV, c. 18. Tacito, Ann. c. 13 in fine.

[52] Dionigi, lib. 4, c. 60.

[53] Idem, lib. 1, c. 67.

[54] «ne nuntius quidem cladis relictus».

[55] Polibio dice, lib. 2, c. 18: «I Galli occuparono tutta Roma fuorchè il Campidoglio. Avenne intanto che i Veneti fecero incursione ne’ loro paesi, onde fatta tosto la pace coi Romani se ne ritornarono alla patria». Il compendiatore di Trogo, Giustino, 38, così dice: «Non solo Roma fu vinta da’ Galli, ma ancor presa, cosichè altro non rimaneva che la cima di quel monte, nè furono vinti i nemici colle armi, ma col danaro». Svetonio in Tiberio, c. 3, parlando della famiglia Livia dice che un certo Druso, «essendo propretore nelle Gallie, riportò ad esse quel dono che fu dato a’ Galli nell’assedio del Campidoglio, il quale era stato a loro tolto, come preteso da Camillo».

[56] Iustinus, lib. 1.

[57] Pausanias, Storia di Corinto, lib. 2.

[58] Zofiro apud Plutarc., Parall. romanae et grecae historiae.

[59] Teofilo, Istoria del Peloponneso, apud eundem.

[60] Plutarch. ibidem dove cita Demarato, nel lib. 2 della Storia d’Arcadia. Stobeus Sermon. 39 de Patria.

[61] Stobeo Sermon. VII de fortitudine. Plutarch. ibidem.

[62] Iidem.

[63] Plutarch. in Conviv. Sept. Sapientium, et Dyonisius Halicarnas, lib. 4, c. 56.

[64] Pausania, Storia degli Eleani lib. 1.

[65] Plutarch. in Numa.

[66] lib. 7, c. 70 e seguenti.

[67] Idem, lib. 14, c. 16.

[68] Libro 1, c. 3.

[69] Plinio, I.N., lib. 7, c. 60.

[70] Plinio, lib. 33, c. 3.

[71] Libro 3, c. 22.

[72] Libro 1, c. 20.

[73] Libro 3, c. 22 riferisce le parole di quel trattato: «Ne naviganto Romani, Romanorumve socii ultra Pulcrum promontorium». Cosi in altri posteriori troviamo lo stesso: Mh plein RwmaiouV mhte touV RomaiwV summacouV epekeina tou Kalou akrwtxriou». Polib. dicto loco.

[74] Livio, lib. 9, c. 30.

[75] II priore Strozzi trovandosi nel 1552 nel porto di Marsiglia al servizio del re di Francia, e volendosi ritirare improvvisamente con Piero suo fratello, fece pure cavalcare a questo modo la catena che richiu­deva il dotto, con gran maestria, come narra Giambattista Adriani nel libro VIII delle sue Storie.

[76] Polibio, lib. 1, c. 38.

[77] Libro 1, c. 26.

[78] Floro, lib. 2, c. 2. Valerio Massimo, 4.3.

[79] Livio, 21, c. 16.

[80] Plinio, lib. 19, c. 1 e lib. 20, c. 9.

[81] In Vita Catonis Censoris.

[82] Libro 6, c. 6, exemplo 1.

[83] Livio, lib. 21, c. 37.

[84] Libro 3, c. 56.

[85] Pugna magna victi sumus, Livius, lib. 22, c. 7.

[86] Idem, lib. 23, c. 45.

[87] I. N., lib. 34, c. 6.

[88] Livio, lib. 26, c. 81.

[89] Livio, lib. 30, c. 20.

[90] Polybius, XV, 9.

[91] Livio, lib. 44, c. 37; Plinio, lib. 2, c. 12.

[92] Livio, lib. 28, c. 20.

[93] Lib. 2, c. 17.

[94] Idem eodem, et Velleius Paterculus, lib. 2, c. 1.

[95] Egli era figlio di Paolo Emilio, e figlio addottivo di Scipione Affricano ch’era già morto. Fu detto il Secondo Affricano. Avea seco in quella spedizione lo storico Polibio.

[96] Plutarco nella Vita di Fabio.

[97] Polibio, lib. 1, c. 2 et 24.

[98] Appianus liber Libycus in principio et Polibio, lib. I.

[99] Floro, lib. 2, c. 10 et Livio, Epitome, lib. 17.

[100] Livio, lib. 27, c. 13 et lib. 24, c. 16. Svetonio in Augusto, 24.

[101] Livio, Epitome, 51.

[102] De bello judaico, lib. 3, c. 6.

[103] Vegezio, lib. 1, c. 9.

[104] Istoria naturale , lib. 7 c. 20.

[105] Plinio, Stor. Natural., lib. 34, c. 2.

[106] Plutarchus in libello: Cur (Pythia) carmine oracula non reddat.

[107] Fasti Capitolini e Valerio Massimo, 3.6.5.

[108] Livio, lib. 38, c. 45.

[109] Livio, epitome, 59. Valerio Mas., V. 6. Svetonio, in Tiber. 3.

[110] Plutarco in Gracci. Appiano, De Bello Civili.

[111] Velleio Patercolo, lib 2, c. 13 e Ovidio, 1 de Ponto.

[112] Livio, epit., 64; Sallustio etc.

[113] Plutarc. in Sylla.

[114] Appian. 1, Velleio Patercolo, 16 et lib. 17, c. 20.

[115] Dionigi d’Alicarnasso, lib. 5, c. 77. Seneca, de Clem. lib. 1, c. 12. Plut. in Sylla.

[116] Appiano, lib. 1, 415.

[117] Floro, lib. 3, c. 3; Velleio Patercolo, lib. 2, c. 12. Non si sa positivamente il sito di quest’orribile macello. Floro e Velleio dicono che Mario sconfisse i Cimbri di là dalle Alpi ad Aix di Provenza, e poi di qua dall’Alpi nelle pianure Raudie. Non siamo curiosi di investigare l’erudizione di questi errori.

[118] Flor. c. 3, c. 3.

[119] Plutarco, Vita di Silla.

[120] Velleio Patercolo, lib. 2, c. 18. Cic. pro Flacco.

[121] Plinio, lib. 33, c. 3 et Appian. in Mithrid.

[122] Avea una cerva addomesticata la quale diceva avergli regalata Diana. Dava ad intendere a suoi soldati ch’ella gli rivelava le cose più segrete. Questa impostura gli giovò molto.

[123] Plutarco nella Vita di Sertorio.

[124] Plutarco nella Vita di Pompeo.

[125] Cicerone nell’orazione pro Flacco.

[126] La storia romana autentica tutti questi fatti.

[127] lib. 6, c. 9.

[128] Dionigi d’Alicarnasso, lib. 2, c. 14.

[129] Dionigi lib. 5, c. 19. Livio, lib 3, c. 55.

[130] Lib. 10, c. 9.

[131] Dionigi d’Alicarnasso.

[132] Dionigi d’Alicarnasso, lib. 2, c. 10.

[133] Livio, lib. 1, c. 44, et lib. 4, c. 48, et lib. 6, c. 35.

[134] «ut plebi sui magistratus essent Sacro Sancti quibus auxilii Latio adversus consules esset». Livius, lib. 2, c. 33. Non altro troviamo che si stabilisse.

[135] Tutto il popolo romano era diviso in 35 tribù senza distinzione di rango, o di censo. Ogni tribù avea un suffragio, a differenza de’ comizi centuriati ne’ quali ogni classe avea tanti voti quante centurie e ne’ quali i voti si vagliavano a censo, non a numero, come in questi.

[136] Dionigi, lib. 7, c. 9.

[137] Idem, lib. 7, c. 38.

[138] Lib. 7, c. 65.

[139] Livio, libro 6 c. 20.

[140] lib. 8, c. 90.

[141] Intercedo era il veto de’ tribuni.

[142] Dionigi, lib. 7, c. 66.

[143] Idem, lib. 9, c. 17.

[144] Idem, lib. 9, c. 60.

[145] Idem, lib. 9, c. 59.

[146] Livio, lib. 31, c. 7.

[147] Livio, lib. 45, c. 21.

[148] Vide Dionigi, lib. 10, c. 33.

[149] Idem, lib. 11, c. 54.

[150] Livio, lib. 3, c. 34.

[151] Dionigi, lib. 9, c. 45.

[152] Livio, lib. 8, c. 12.

[153] Dionigi, lib. 4, c. 9.

[154] Livio, lib. 1, c. 17 e lib. 8, c. 12, su i quali passi Gronovio observat lib. 1, c. 25.

[155] Livio, lib. 1, c. 60.

[156] Lo stesso, 5, 52.

[157] Dionigi, 6, 30.

[158] Idem, lib. 11, c. 50. E Livio lib. 3, c. 63.

[159] Livio, lib. 7, c. 17.

[160] Livio, lib. 10, c. 37.

[161] Dionigi, lib. 9, c. 27.

[162] Dionigi, lib. 9, c. 28.

[163] Idem, lib. 10, c. 31.

[164] Idem, lib. 10, c. 50.

[165] Centum millium aeris, Livius, lib. 1, c. 43.

[166] Livio, lib. 10, c. 9.

[167] Livio, lib. 6, c. 41.

[168] Lib. 1, c. 36.

[169] Cic. de Divinat. lib. 2, c. 24.

[170] Livius, lib. 8, c. 23.

[171] Lib. 23, c. 31, Livio.

[172] Livio, lib. 4, c. 24.

[173] Così ricavasi da’ Fasti Capitolini.

[174] Fu con Scipione presente alla distruzione di Cartagine.

[175] Libro 6.

[176] Livio, lib. 7, c. 16.

[177] De bello Iugurtino.

[178] Livio, epitome, lib. 58.

[179] Floro, lib. 3, c. 17. Valer. Max. 9. 5.

[180] Cic. ad Atticum, lib. 1, c. 1 et Dione, lib. 37, c. 1.

[181] Plutarco nella Vita di Pompeo.

[182] Libro 9, lettera 7.

[183] Lib. eodem, lettera 10.

[184] Plinio. I. N.. lib. 7, c. 26.

[185] Cic. ep. ad famil., lib. 5, ep. 12.

[186] Non è già che prima d’ora i Romani non vi fossero stati: Marsiglia era da lungo tempo molto alleata, Tolosa era loro conquista: Mario ed altri prima di lui erano stati proconsoli nella Gallia Transalpina. Cesare ridusse tutte le Gallie in provincia.

[187] Plutarco nella Vita di Cesare.

[188] Livio, epitome, 115 et lib. 98.

[189] Svetonio nella Vita di Cesare, c. 7.

[190] Lib. 18, c. 25, 26, 27, 28.

[191] Sveton. in Caesar. c. 43.

[192] Instit. lib. 9, c. 4.

[193] Lib. 1, c. 10.

[194] De oratore, lib. 3, c. 60.

[195] Dio lib. 49.

[196] Lib. 4, c. 12 et Sueton. in August. c. 21.

[197] in princip.

[198] Svetonio nella Vita di Ottavio, c. 52.

[199] De Tristibus, lib. 2, Elegia 1.

[200] Svetonio nella Vita d’Augusto, c. 99. Dion. lib. 6.

[201] Flor. lib. 2, c. 17: «Cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem non sine quodam sacrilegi metu, et horrore deprehendit».

[202] Istor. Natural. lib. 36, c. 26.

[203] Idem, lib. 36, cap. 10.

[204] Sveton. in August. c. 28.

[205] Macrob. Saturn. lib. 1, c. 2, c. 7.

[206] Dio in August.

[207] Tacit. negli Annali, lib. 1.

[208] Livio, lib. 7, c. 2.

[209] Liv. ibidem. Diomed. De arte grammatica, lib. 3. Lucianus De Orchestra, lib. 20, c. 2.

[210] Dione in August.

[211] Supplementi a Livio di Freisemio, e Cresier, lib. 115, c. 26.

[212] Orosius, lib. 4 ne’ supplementi.

[213] Livio, l. 22 c. 57. Plutarc. Vita di Marcello.

[214] Plutarchus, Quaestiones Romanae, c. 83.

[215] Antichità Romane, lib. 2, c. 10.

[216] Sveton. in August., c. 43.

[217] Valer. Max. lib. 2, c. 4.

[218] Cicero pro Sextio, c. 64.

[219] Petronio Arbitro, c. 77.

[220] Tuscul. lib. 2, c. 17.

[221] Giovenale nella Satira V.

[222] Tacito, Annali, lib. 3.

[223] Tacito Annali, lib. 5.

[224] Dione, lib. 47.

[225] Tacit. lib. 41 Ann.

[226] Idem eodem 31.

[227] Sveton. in Calig. c. 14.

[228] Sveton. in Calig. cap. 27. Dio in Calig.

[229] Seneca de Consolatione ad Polyb. c. 36.

[230] Sveton. in Calig. c. 41.

[231] Eodem.

[232] Sveton. in Calig. c. 22.

[233] Tacit. An. lib. 1.

[234] Sveton. in Claud. c. 3 et 4.

[235] Tacit. Annal. lib. 11.

[236] Idem, lib. 12.

[237] Sveton. in Claud. c. 41.

[238] Lucian. in Neron.

[239] Tacit. Ann. lib. 15.

[240] Sveton. in Neronem, c. 16.

[241] Ibidem.

[242] Tertull. Apologet. c. 5 citato da Eusebio, Hist. Eccles. lib. 2, c. 2.

[243] Lamprid. in Alex. Sever.

[244] Ioseph, Antichità Giudaiche, lib. 18, c. 5.

[245] Tacit. An. lib. 2 circa finem.

[246] Idem eodem.

[247] Dione in Adrian.

[248] Histor. lib. 4. Traduzione del Davanzati.

[249] Dione nella Vita di Adriano.

[250] Sveton. in Vespasian. c. 19.

[251] Tacit. Annali, lib. 15. Sveton. in Domitianum, c. 4.

[252] Dione nella Vita di Adriano.

[253] Aelius Spartianus in Adrianum.

[254] Per legatos suos plurima bella gessit.

[255] Orbem terrae, nullo bello, per annos vigintitres authoritate sola rexit. Epitome.

[256] L. 17 Digest. de statu hominum, lib. I, tit. V.

[257] Eusebio Panfilo, Historia Eccles. lib 5, c. 5.

[258] Dione di M. Aurelio. Epitome di Capitolino in eodem.

[259] Apud Iustin. edit. 1615, p. 126.

[260] C. 37.

[261] Acta Sincera, p. 309, 312 e 457.

[262] in Comodum, n. 5.

[263] Dione.

[264] Lampridio in Comodo, n. 9.

[265] Capitolino nella Vita di Pertinace; et Dione in Pertinac. Appena scelto imperator da’ soldati pregò Claudio Pompeiano a voler farsi imperatore, ed in oltre rinunciò l’impero al Senato. Ma non si accettò la demissione.

[266] Elio Sparziano nella Vita di Severo.

[267] Dione, Vita di Severo.

[268] Dione, lib. 76 et 78.

[269] Vita di Caracalla.

[270] Lampridio in Eliogab. n. 8.

[271] Lamprid. in Alexandrum.

[272] Lamprid. in Alexandrum, n. 55.

[273] Trebellio Pollione scrisse le lor vite.

[274] Zozimo, lib. 1, c. 37.

[275] Aurelio Vittore, epitome.

[276] Considerations sur les causes de la grandeur des Romains, chap. 16.

[277] Flor. lib. 3, c. 3.

[278] Victor, Orosius, Eutropius etc.

[279] Petrus Patricius de legacionibus.

[280] Trebellio Pollione dei Trenta tiranni, c. 10.

[281] Aurelio Vittore, Epitome.

[282] Lo stesso nella Vita di Claudio.

[283] Vopisco, Vita di Aureliano.

[284] Romanorum orbe triennio ab invasionibus receptavit. Vittore, epitome.

[285] A. Vittore de Cesaribus, et in epitome.

[286] Vita di Constantino lib. 1 c. 13.

[287] Lattanzio, de moribus persecutorum, c. 9 et 11.

[288] Historia Ecclesiastica, lib. 8, c. 12.

[289] Vopisco, Vita di Aureliano.

[290] in epitome.

[291] Lattanzio ne’ Costumi de’ persecutori, c. 50.

[292] Eusebio, Vita di Costantino, l. 3, c. 16.

[293] Zozimo, Istoria, l. 2, c. 28. Aurelio Vittore, Epitome.

[294] Rapporta quest’editto Lattanzio, loco citato, c. 34.

[295] Idem, c. 48.

[296] Nella Vita di Costantino, lib. 1, c. 28.

[297] L. 1 Codice Teodosiano, titulo de emendatione servorum.

[298] Eodem, L. unica, titulo de manumissione in Ecclesia.

[299] Cod. Th. L. unica, de infirmandis poenis coelibatus.

[300] eis (nutricibus) meatus oris et faucium, qui nefaria hortamenta protulerit, liquentis plumbi inge­stione claudatur. Cod. Th. lib. 9, tit. 24, L. 1.

[301] Eodem, Leg. 4 de episcopis.

[302] Cod. Th. Leg. 1 de gladiatoribus.

[303] Eutropio, Istoria miscella.

[304] Apud S. Sidonium Apolinarem, L. 5, Epistol. 8.

[305] Zozimo, lib. 2, c. 30.

[306] Si quid in palatio nostro, aut ceteris operibus publicis degustatum fulgure esse constiterit, retento more veteris observantiae, quid pertendat ab aruspicibus requiratur, et diligentissime scriptum collecta ad nostram scientiam referant. Ceteris etiam usurpandae huius consuetudinis licentia tribuenda. Cod. Th. lib. 16, tit. X, L. VI.

[307] Lib. 2, c. 39.

[308] ut possit summa Divinitas cuius religioni liberis mentibus obsequimur, in omnibus solitum favorem suum benevolentiamque prestare: apud Lactan. de moribus persecutor. 1.

[309] Cod Th. lib. 16, tit. 8, L. 1.

[310] Eusebio, Vita di Costantino, lib. 2, c. 69 et 70.

[311] Zozimo, Storie, lib. 2, capo 32.

[312] Cod. Theodos. de paganis lege 4.

[313] Zozimo, ad Amiano, l. 20, c. 5.

[314] Lege VI Cod. Theod. lib. 9, tit. 16.

[315] Teodoreto, Stor. Eccles. lib. 4, c. 34.

[316] Idem, c. 17.

[317] Ammiano Marcellino, 37 3.

[318] S. Gerolamo, Epist. 38, n. 81.

[319] Idem eodem.

[320] Cod Th. lib. 16, tit. 2, leg. 20.

[321] Ad Eustochium Epistol. 22.

[322] Socrate, Istoria Eccles. 4. 31. Il signor Muratori ha per incredibile questo fatto tuttochè rapportato da uno scrittore ecclesiastico qual è Socrate, poichè Ammiano e Zozimo non ne fanno menzione, riflet­tendo che non l’avrebbero taciuto, lor porgendo camo di screditare questa nuovità. Trovo che Giordano e Paolo Diacono lo ricopiarono senza confutarlo. Anche questa ripetizione di scrittori cristiani accresce la fede a Socrate. Il signor Muratori si serve in questa occasione dell’argomento negativo, argomento che i scrittori ecclesiastici hanno per falso e pericoloso. Bisognerebbe adunque non adoperarlo nemmeno a nostro favore, se lo vogliamo con ragione disprezzare quando ci fa torto. Per negare tal fatto bisogna ridursi a dire che un accreditato storico cristiano l’ha inventato, o che vi è stato inserito. Tal metodo di ragionare ci ridurrebbe al pironismo della storia ecclesiastica de’ primi secoli. Ognun ne vede le pericolose conseguenze. Baronio, Tillamonte e Fleury hanno passato sotto silenzio questo ponto.

[323] Zozimo, lib. 4.

[324] Lege cunctos populos 2, lib. 16, tit. 1, Cod. Theodos.

[325] L. 4 eodem.

[326] Cod. Theod. lib. 9, tit. 4, L. unica.

[327] Sarà stato giusto il suo supplizio, ma le circostanze che l’accompagnarono mi sembrano orribili.

[328] Istorie, lib. V, c. 10.

[329] Istoria miscella, lib 13. Rerum Italicarum vol. 1.

[330] Historia, lib. V, c. 38.

[331] eodem.

[332] Istorie, lib. V, c. 41.

[333] Zozimo, V, 41.

[334] Orosius, 7.39. Istoria miscella, lib. 13.

[335] 2.19.

[336] Zozomeno, 9. 9. Orosius, lib. 7, c. 35.

[337] Zozomeno, IX. 10.

[338] c. 19.

[339] Olympiodorus apud Photium, pag. 188.

[340] Panvisius de civitate romana, c. 12, nella raccolta di Grevio. Egli attesta d’aver cavato questo fatto da un antico registro comunicatoli dal cardinale di S. Croce che fu poi il papa Marcello II; abbiamo ancora un opuscolo di questo papa contro di Andronico senatore, il quale con molti altri Romani voleva celebrare queste feste Lupercali.

[341] Symachus in Epist. 26 et segg.

[342] Olympiodor. apud Photium, p. 194.

[343] Giordano, delle Istorie de’ Goti, c. 42, nella raccolta delle cose d’Italia, tom. I.

[344] Storia miscella, lib. 15. Rerum Italicarum, vol. I.

[345] Simmaco, Epistol. 54, lib. 10.

[346] Cod. Theod. in Appendice, vol. 6, part. 2, tit. V.

[347] Leg. 24 Cod. Theod. lib. 16, tit. X.

[348] Vedi le sue Lettere.

[349] Lib 2 contra Iovianum.

[350] Disputare de principali iudicio non oportet; sacrilega enim est instar dubitare an is sit dignus quem elegerit imperator. Codice Giustinianeo, lib. IX, tit. 29, L. 3.

[351] Quisquis cum militibus vel privatis vel barbaris scelestam inierit factionem, utpote maiestatis reus gladio feriatur… Filii vero eius, quibus vitam imperatoria specialiter lenitate concedimus (paterno enim deberent perire supplicio, in quibus paterni hoc est hereditarii criminis exempla metuuntur) a materna vel avita etc. successione habeantur alieni, sint perpetuo egentes et pauperes, infamia eos paterna semper comitetur, sint postremo tales ut his perpetua egestate sordentibus sit et mors solatium, et vita supplicium. Eodem Codice, lib. IX, tit. 8, L. 5.

[352] Anonimus Valesianus Rerum Itali. vol. 24.

[353] Giordano, delle cose de’ Goti.

[354] Anonimo Valesiano, et Istoria miscella.

[355] Anastasio Bibliotecario, capo 52.

[356] Anastasio nella vita del papa Osmida.

[357] Anonimo Valesiano.

[358] «Tantae disciplitiae fuit, ut si quis voluit in agro suo argentum vel aurum dimittere, ac si intra muros civitatis esset ita existimaretur. Et hoc per totam Italiam augurium habebat ut nulli civitati prorsus portas faceret, nec in civitate portae claudebantur: quis quod opus habebat, faciebat, qua ora pellet ac si de die».

[359] Historia miscella, lib. 15. Anastasius Bibliotecarius in Vita Symmachi.

[360] Cassiodoro, lib. 1, epist. 45.

[361] Idem, lib. 2, epist. 41.

[362] Procopio, Delle guerre de’ Goti, lib. 1, cap. 3.

[363] Procopio, Istoria Arcana.

[364] L. 5 Cod. Iustin., tit. de haereticis et manicheis.

[365] Anonimo Valesiano.

[366] Lib. 15 Rer. Ital., vol. 1, pag. 103.

[367] Anastasio Bibliotecario nella Vita di Giovanni I. Istoria Miscella, lib. 15.

[368] Procopio, delle guerre de’ Goti, cap. 1.

[369] Gregorio de Tours, 3. 18.

[370] Teofane nella Cronografia. Procopio, Storia arcana, cap. 2.

[371] Cod. Theod. lib. 16, tit. 10, lege 21.

[372] Gregorio di Tours, 2. 38.

[373] Delle guerre de’ Goti, 3. 33.

[374] Giordano nelle cose de’ Goti, c. 59.

[375] Procopio, Guerre de’ Goti, 2. 25.

[376] Procopio, ibidem, 2. 29.

[377] Giordano, ibidem, c. 60.

[378] Teofane.

[379] Istoria Miscella, lib. 16.

[380] Delle guerre Gotiche, IV. 35.

[381] Anastasio Bib. Vita di Agatone.

[382] Teofane nella Cronografia, ed Evagidio, IV. 39.

[383] Procopio, Della Guerra Persiana, lib. I.

[384] Dandolo, Storia di Venezia. Rer. Ital. vol. 12.

[385] Paolo Diacono, II. 26.

[386] Paolo Diacono, 2. 5.

[387] Idem, 2. 18 et 19.

[388] Paulus Diaconus, 2. 31.

[389] IV. 23.

[390] Leggi longobardiche, 384.

[391] eodem, Lege 42.

[392] Paolo Diacono, III. 17.

[393] «Dum Gundoaldus a Longobardis nimium diligeretur, factione Agonis regis (Agisolfo avea anche questo nome) et Theodolindae, cum ipso iam zelo tenerent, ubi ad ventrem purgandum in faldaone sedebat saggitta saucius moritur». Così Fredegario. Nega tal fatto Muratori perchè Paolo Diacono altro non dice se non se che Gundoaldo fu ucciso. Solito abuso dell’argomento negativo. Qual delle due è più verisimile? Che Fredegario inventasse senza che se ne sappa il motivo, o che Paolo tacesse? Vi vuol molta impudenza nell’inventare, vi vuole un poco di timore per tacere. Fredegario vivea come Paolo nell’ottavo secolo, e non era come lui di nazione longobardo.

[394] Paolo Diacono, IV, 44.

[395] «quas sola memoria et usu retinebant», dice lo stesso Diacono eodem loco.

[396] Epistola 62.

[397] «Hoc erat mirabile in Regno Longobardorum: nulla erat violentia, nullae struebantur insidiae. Nemo aliquem iniuste angariabat, nemo spoliabat. Non erant furta, non latrocinia, unusquisque quo libebat securus sine timore peregebat». 3. 16.

[398] Nato l’anno di Cristo 568.

[399] Gregorio di Tours, X, 25.

[400] Anastasio Bibliotecario nella Vita del papa Vitaliano, c. 77 et Paolo Diacono, V. 6 et 11.

[401] Paolo Diacono, V. 3.

[402] II diploma di questa decisione è nella Biblioteca Estense, come attesta il signor Muratori all’anno 666.

[403] Anastasio nella Vita di Benedetto II, c. 7.

[404] Paolo Diacono, VI, 53.

[405] Teofane nella Cronografia. Anastasio nella Vita di Gregorio II.

[406] eodem.

[407] Anastasio ibidem. Paolo Diacono, VI, 49. Agnello nella Vita di S. Giovanni.

[408] c. 39 Rerum Italic. tom. 2.

[409] Paolo Diacono, VI, 53.

[410] Anastasio Bib. nella Vita di Stefano II; ed il continuatore della Storia di Fredegario.

[411] idem eodem.

[412] Nel Codice Carolino Epistol. 3 pag. mihi 17. Ingolstadii 613. Ho tralasciato in questa lettera alcuni periodi, che non facevano altro che troppo dilungarla.

[413] Eginarto negli Annali, an. 796.

[414] Apud Du-Chesne Rerum Francicarum vol. 2, pag. 685.

[415] De gestis Lodovici, n. 16.

[416] Zonoras in Annalibus.

[417] Teofane, c. 7.

[418] appresso il Labbe, il Baronio, il Sirmondo ecc. v’è il passo originale.

[419] VI. 7.

[420] Erchemperto, n. 39.

[421] Agobardo vescovo di Lione nel Libro de Grandine.

[422] Sono al manoscritto che v’è alla Imperiale Biblioteca di Vienna.

[423] Ciò ricavasi dalle sue lettere. Lib. V, Epistol. 27 et 28. Lib. 3, Epist. 11; Lib. 4, Ep. 1; Lib. 6, Epist. 40 ecc.

[424] Vi sono gli atti presso il Labbe, vol. VI.

[425] Brucardo, lib. 19, c. 76.

[426] Appresso il Labbe Concil. tom. 8, p. 40 edit. venet.

[427] Capitulario, vol. I edit. paris. 1677, fol. 251.

[428] eodem, vol. I, fol. 670.

[429] Lib. 2, c. 6.

[430] «Duces maximos et fidibus et tibiis cecinisse traditum, et exercitus Lacedemoniorum musicis accensos modis. Quid autem aiud in nostris legionibus cornua ac tubae faciunt, quorum concentus quanto est vehementior tanto romana in bellis gloria caeteris prestat?» Instit. Orat. I. 10.

[431] «Ita omnis habitus animae gubernatur cantibus ut et ad bellum progressui et item receptui canatur, cantu excitante et rursus sedante virtutem. Dat somnos adimitque, nec non curas immittit et retrhait, iram sugerit, clementiam suadet, corporum quoque morbis medetur». In Somnum Scipionis lib. 2.

[432] Astronomus in Vita Lodovici Pii.

[433] Eginhartus ann. 817 Annales Francorum, et Astronomus ubi supra.

[434] Agnello nel Libro Pontificale in Vita Gregor.

[435] Annales Francorum.

[436] Annales Francorum Bertiniani 894. R. I. vol. 2.

[437] Post. Teoph. IV, 92, 21, 36, 31.

[438] È uno de’ due spediti poco prima a Costantinopoli per lo scisma di Fozio, coll’esito suddetto.

[439] Annales Bertiniani 864, R. I. vol. 2.

[440] Erkempertus n. 34.

[441] Costantino Porphyrogenita in Vita Basilii.

[442] Erchempertus, Histor. c. 67 e diploma inserito nella dissertaz. 14 delle Antichità d’Italia del signor Muratori.

[443] La lettera è nelle opere d’Hincmar da Reims, tom. 2, pag. 801.

[444] Annales Francorum Fuldenses.

[445] Dandulus in Cronica, par. 23, cap. 4, lib. 8. Anastasius Bibliotecarius in Vita Papae Zaccariae.

[446] Epistol. 66 Ioannis 8. Erchempertus n. 39.

[447] in Cronico.

[448] Hermannis Contrastus in Chronic. edition. Canisii.

[449] Chronicon Cassinense cap. 45 R. I. tom. 4, p. 320. Lutiprandus Histor. L. 1, c. 18. Frodoardo Vite de’ papi.

[450] Lo prova il signor Muratori, Antichità Italiane, Dissertazione I.

[451] Liutprando nelle Storie, lib. 2, c. 13, et lib. 3, cap. 12.

[452] Il signor Muratori chiama una mala lingua Liutprando che asserisce questo e gli altri fatti spettanti a’ papi di tai tempi. Questo è lo stile del signor Muratori. Adirasi ma dice tutto.

[453] Frodoardus Chronic. Rom. lib. 4, c. 24.

[454] Apud Labbe Conciliorum, vol. XI, p. 703 edit. Venet.

[455] Gratian. Distinct. 63, c. 33.

[456] Liutprand. lib. VI, c. VI.

[457] Idem ibidem.

[458] Liutprandus, 6, c. 11.

[459] Questo canone è nella raccolta di Graziano, distinc. 63, c. 33. Dice in sostanza Leone: «Concedimus Domno Ottoni primus, rex Teutonicorum, eiusque successoribus facultatem summae sedis apostolicae pontificem ordinandi, ut nemo deinceps cuiusque dignitatis vel religiositatis eligendi pontificem habeat facultatem absque consensu ipsius imperatoris. Si quis contra hanc regulam aliquid molietur hunc ex communicationem subiacere decernimus et nisi resipuerit irrevocabili exilio, vel ultimis suppliciis affici». Ciò dice il papa di fare: «ad exemplum B. Adriani apostolicae sedis antistitis, qui domino Carolo virtuosissimo regi Francorum ordinatione apostolicae sedis concessit». Tale atto di Adriano lo riferisce Graziano prima del presente. Gli scrittori ecclesiastici lo tengono per apocrifo.

[460] Continuator Reginonis in Chronico. Hermannus Contrastus in Chronico.

[461] Leo Ostiensis, lib. 2 c. 20.

[462] GodefridusViterbiensis de Ottone II.

[463] Petrus Damiani Epistol. 2 ad Codolaum. Chronografus saxo anno 996.

[464] Leo Ostiensis, 2. 18. Arnulfus Histor. L. 1, cap. 12. Landolfus senior, lib. 2, c. 19.

[465] Arnolfo, lib. 1 cap. 12.

[466] Petrus Damiani in vita S. Romualdi, c. 25.

[467] Leo Ostiensis, lib. 2, c. 24.

[468] omne regnum caede atque incendiis se populaturum esse promisit. Liutpr. IV. 12.

[469] Riferisce di tal fatto il monaco di S. Germano Ridolfo Glaber, Istor. Lib. 2, c. 12.

[470] De gloria confessorum, c. 76.

[471] L. 6, c. 45 R. I. vol. 1, part. 2.

[472] Capitolare di Carlo Magno, L. 4, c. 23.

[473] Arnulfus Histor. Mediol. Lib. 1, c. 16.

[474] Fra gli scrittori italiani ed i tedeschi v’è confusione nel numerizzare gl’imperatori Enrici, ossia gli Arrighi come altri dicono. Questo Enrico Negro, dai tedeschi è chiamato III, dagli italiani II. Da qui ne viene che il suo successore, parimenti Arrigo, dagli italiani vien detto III, dai tedeschi IV, e così i seguenti. Così avvenne perchè i tedeschi contano per imperatori anche quelli che non furono incoronati da’ papi, e gli italiani gli escludono. È indifferente per noi la disputa ed il contare in un modo o nell’altro.

[475] Lib. 2, c. 79.

[476] Lambert, apud Baronius, anno 1053, n. 3.

[477] Leo Ostiensis, lib. 2, c. 46.

[478] Malaterra, lib. 2, c. 14.

[479] Leo Ostiensis, lib. 3, c. 16.

[480] Lambert, an. 1073.

[481] Otto Frisigensis de Gestis Frederici, lib. 1, c. 1.

[482] apud Labbe Conciliorum vol. XII, pag. 634 edit. veneta 1730.

[483] Epist. 23 Gregorii VII, lib. 8.

[484] 15 Ottobre 1080.

[485] Epistol. 5 Gregorii VII, lib. 8.

[486] Pandulfus Pisanus, Rer. Ital. vol. 3, fol. 313.

[487] Epistol. 5, lib. 2.

[488] Epistol. 18, lib. 2.

[489] Petrus Diaconus in continuatione Ostiensis, lib. 3, c. 49.

[490] Landulfus senior Histor. Mediol. c. 1.

[491] Otto Frisigensis Histor. l. VII, c. 8.

[492] Herman mant. Tonnay, apud Dacherii in Spicileg. tom. 12.

[493] Annalista Saxo.

[494] Epistol. 7 Pasqualis II.

[495] Labbe Conciliorum vol. 12 edit. venet. pag. 1163.

[496] Landulfus Pisanus in Vita Paschalis II.

[497] Fabio Beneventanus in Chronico.

[498] Landulfus Pisanus in vita Paschalis II.

[499] Galvaneus Flamma manipulus florum, c. 159, tom. XI R. I.

[500] Chronicon Cassinensis, lib. 3, c. 71.

[501] «tanta hominum moltitudo crucesignata est ut trecentum hominum milia censa fuerint». Così scrisse Urbano ad Alessio imperatore d’Oriente, epistol. 16.

[502] Chronic. Cassinense, lib. 4, c. XI.

[503] Bernardus epistol. 386.

[504] apud Baronium annal. eccles. anno 1063.

[505] Landulfus a S. Paolo Histor. Mediol. c. 9 et segg. tom. V R. I.

[506] Idem eodem.

[507] Otto Frisigensis de gestis Frederici lib. I, c. 54.

[508] Falco Beneventanus in Chronico, R. I. vol. 5, fol. 122 E.

[509] Falco Beneventanus an 1139. Anonimus Cassinensis. Otto Frisigensis.

[510] Falco Beneventanus ubi supra.

[511] Otto Frisigensis de gestis Federici, c. 1, lib. 33.

[512] Nicolaus Tegrimus in Vita Castruci, pag. 1320 R. I. vol. XI.

[513] L. 19 § de officio presidis.

[514] L. ut sequitur § de usurpat. et usucap.

[515] Angelo Poliziano così descrive queste sollennità. Lib. 10, epistol. 18.

[516] Consilis, quaestiones, et tractatus Bartoli a Saxo Ferrato, Augusta Taurinorum 1589, pag. 155.

[517] S. Luca 22 38.

[518] L. 16.

[519] Distinct. 63, c. 32 et 33.

[520] Le père Daniel, Voyage du monde de Descart, I, 2.

[521] apud Labbe Conciliorum, vol. 12 edit. veneta, canone IX.

[522] Godefridus Viterbiensis in Pantheo.

[523] Epistol. S. Bernardi 237.

[524] Ottone da Frisinga, Delle imprese di Federico, lib. 2, c. 22.

[525] Otto Frisingensis eodem, 2, 21.

[526] Annali d’Inghilterra di Rugero e di Matteo Paris.

[527] Annali di Tolomeo da Lucca, R. I. vol. XI.

[528] Ottone Murana, Storia di Lucca, R. I. tom. VI, pag. 1018.

[529] in L. Hostes § de captivis.

[530] Così ricavasi da una lettera di Giovanni di Sarisberi, scrittore contemporaneo, inserita dal Labbe nella raccolta de’ concili, vol. XII, fol. 345 edit. venet.

[531] Lo riferisce il signor Muratori, Antiquitates ltalicae, Dissert. 48, vol. 4.

[532] Epistolae Innocentii III, lib. 5. Epist. 161.

[533] Niceta autore di vista fa la descrizione e le doglianze di queste imprese.

[534] Gesta Innocentii III, n. 89.

[535] Epistol. 154 apud Raynald. anno 1204.

[536] Rogero Paris, Historia.

[537] Matheus Paris Histor. Angl. anno 1212.

[538] Epistol. 79, lib. 16.

[539] Matheus Paris, an. 1213.

[540] Gesta Innocentii 3, n. 8.

[541] Anonymus Cassinens. in Chronic.

[542] Epistol. 164.

[543] Epistol. 180, lib. I apud Raynal. anno 1228, n. 1.

[544] Annales Mediolanenses, c. V R. I. tom. 16. Galvaneus Flamma Manipulus Florum, c. 264.

[545] Riccardus a Sancto Germano.

[546] Mattheus Paris anno 1228 autor contemporaneo.

[547] Apud Raynandum anno 1229.

[548] Epistol. Gregorii IX, lib. X. Epistol. 258.

[549] Riccardus a S. Germano, et Mattheus Paris.

[550] «Ascendit de mare Bestia Blasfemiae plena nominibus, quae pedibus ursi et leonis desaeviens, ac membris formata caeteris sicut pardus, os suum in blasfemias Divinis numinis aperit tabernaculum eius». La riferisce per esteso Mattheo Paris, anno 1239.

[551] 13. 1.

[552] Petrus de Vinay, lib. 1, epistol. 31.

[553] Mattheus Paris, anno 1239.

[554] Mattheus Paris, anno 1245.

[555] Idem, eodem.

[556] «Audite universi. Accepi in mandatis ut candelis accensis et pulsis campanis in imperatorem Federicum excomunicationis feram sententiam solennem causam autem ignorans, non ignoro gravem controversionem et odium inexorabile motum inter eos. Scio etiam quod unus illorum alteri iniuriatur, quis cui nescio. Sed illum, in quantum mea estendit potentia, excomunico, et excomunicatum denuncio alterutrum istorum, videlicet ipsum qui alteri iniuriatur, et absolvo iniuriam patientem». Mattheus Paris ubi supra.

[557] apud Raynaldum.

[558] Storia Fiorentina, c.131: «ma ciò gli fu fatto per invidia del suo grande Stato». Giovanni Villani vi dice, al suo solito, le medesime parole del Malaspini. Lib. VI, cap. 23.

[559] apud Matth. Paris, anno 1246.

[560] apud Raynaldum, n. 52, anno 1246.

[561] Chronicon Caesenate, vol. 14 R. I. et Mattheus Paris.

[562] Si ritrovano questi editti nella raccolta delle Leggi di Napoli, e nelle opere di Pietro della Vigna.

[563] Petrus de Vineis, Lib. 3, Epistol. 67.

[564] Mattheus Paris histor. Anglic.

[565] Annali di Bologna, R. I. vol. 18, anno 1249. Ricordano Malaspina, Storia di Firenze, R. I. vol. I, cap. 120. Filippo Villani, lib. XI c. 63.

[566] Giovanni Villani, 9. 316.

[567] L’ha pubblicata il signor Muratori nelle sue Dissertazioni delle antichità italiane, Dissertaz. 49.

[568] «Aviam meam Leonardam, rarissimi exempli matronam, non sine multis lacrimis puer audiebam referrentem, quam inter digladiantes quasdam inter se familias innimicitiae summis exercerentur odiis; captum quempiam factione ex altera eumque e vestigis concilium in minutissima etiam frusta: mox exemptum illi iecur, in prunis cadentissimisque carbonibus ab factionis eius principibus tostum, perque buccellis minutim dissectum, inter cognatos ad id invitatos in ientaculum distributum. Allata etiam post tam execrabilem, pocula non sine collecti cruoris aspergine: congratulationes habitae inter se, risus, ioci, leporesque cibum ipsum condientes. Denique et Diis ipsis propinatum tantae vindictae fautoribus».

[569] Mattheus Paris, anno 1246.

[570] Gulielmus Ventura Chronico. Astense, c. 21.

[571] Lib. 9, c. 8.

[572] Monacus patavinus, Chronico, tom. 8 R. I.

[573] Lib. 6 R. I. vol. 6.

[574] Tom. 9 R. I.

[575] Galvaneus Flamma manipulos florum, cap. 246 R. I. vol. XI, pag 691 A.

[576] ubi supra.

[577] Giovanni Villani, Storia, lib. VII, cap. 5.

[578] Anonyimi supplement. lampsillae de rebus Frederici, Corradi et Manfredi.

[579] Annali pisani, anno 1266, tom. 6 R. I.

[580] Ricobaldus Historia imperatorum, tom. 9 R. I. anno l266. Franciscus Pippinus Cronicon, L. 3, c. 43, tom. eodem R. I.

[581] Chronicon, 3, c. 6.

[582] Boccaccio e Dante parlano di questo disotterramento.

[583] Anonymus Vaticanus Istoria sicula, R. I. vol. 8.

[584] Istoria fiorentina, c. 193.

[585] Lib. 7, c. 29.

[586] Lib. 19, c. 4, § 2.

[587] Ptolomeus Lucensis Ecclesiastica Histor. lib. 23, cap. 33, tomo XI R. I.

[588] Apud Raynaldum, anno 1281.

[589] Petrus de Vineis, lib. 1, Epistol. 38.

[590] Raynald. anno 1283, n. 2.

[591] Ptolomeus Lucensis, l. 24, c. 10.

[592] Raynaldus annal. eccles. anno 1285, n. 63.

[593] S. Giovanni 19. 3.

[594] Gesta comit. Barc. p. 369.

[595] Lib. 4, c. 21 R. I. vol. IX, p. 726 E.

[596] Questa dissertazione è nella raccolta Calogerà, tom. 4, Venezia 1739.

[597] Giovanni Villani, lib. 8, c. 5 et 6.

[598] «Ferunt etiam hunc virum golosum, quatenus sd hoc illum flagrantium incitaret, dum somno excitatur noctu Deum contemplaretur, per foramen quod ante fabricaverat voce tenui dixisse se coeli nuntium advenisse illi ut ille falsi mundi relictis, soli Deo servire disponeret»: Ferret. Vicentin. Hist. lib. 2.

[599] Villani eodem.

[600] Lib. 8, c. 36.

[601] Chronicon Astense Gullielmi Venturae, cap. 26, tom. XI R. I.

[602] Giovanni Villani, 8. 48.

[603] Giovanni Villani, 8. 49.

[604] Ferretus Vicentinus Histor. lib. I, in fine tom. IX. R. I.

[605] Ferretus Vicentinus Histor. lib. 3, tom. IX R. I. Giovanni Villani, 8. 63.

[606] In Fleury lib. 90. c. 33, ed altri si può vedere il tenore di questa bolla.

[607] Ferretus Vicentinus Histor. lib. 3. Chronicon Parmense, tom. IX R. I.

[608] Giovanni Villani, lib. 8, c. 69.

[609] Lib. 8, c. 70.

[610] Giovanni Villani, 8. 80.

[611] Apud Raynaldum Annal. Eccles.

[612] 9. 22.

[613] Chronicon Bononiense, tom. 18 R. I. Annales Caesenatis, anno 1306, R. I. tom. 14.

[614] Giovanni Villani, 8. 92. Gulielmo Ventura, Chronicon Astense, cap. 27. Istorie Pistoiesi, R. I. tom. XI, pag. 518.

[615] Ferretus Vicentinus, lib. 3, tom. 9 R. I.

[616] Lib. 22 c. ultimo 51, tom. 3.

[617] Apud Raynaldus et alios.

[618] Chronicon Caesenate, tom. IX R. I.

[619] La estraggo perchè assai prolissa da Albertino Mussato, Storia Augusta, lib. 13, rubrica 5, R. I. tom. 8.

[620] Iohannes de Cermenate Historia, c. 61, R. I. tom. 9.

[621] Apud Raynaldum, ann. 1313.

[622] Idem, anno 1314.

[623] Ferretus Vicentinus, lib. VII, tom. 9 R. I.

[624] Nicolaus Specialis Histor. Sicula, lib. 7, c. 10 e segg. tom. X R. I. Giovanni Villani, l. 9, c. 82.

[625] Bonincontro Morigia, Chronica di Monza, lib. 3, c. 2 et 19, tom. 12 R. I. Annales Mediolanenses, c. 95, tom. 16. Giorgius Stella Annal. Genuens. 1321, R. I. vol. 17.

[626] Dicto loco c. 29.

[627] Ioannes de Bolzano Chronicon Mutinense, tom. 15 R. I.

[628] Chronicon Astense, c. 1022, in R. I. tom. XI.

[629] Giovanni Villani, lib. 9, c. 194.

[630] Apud Raynaldum, anno 1328, n. 4 et 1324, n. 13.

[631] Giovanni Villani, lib. 9 c. 15.

[632] Vedi Leonardo Aretino, che accusa Lodovico di perfidia.

[633] Giovanni Villani, lib. 10, c. 64.

[634] Giovanni Villani, 10, 68 et 69.

[635] Vedi Leonardo Aretino, lib. V Storia, ove Sciarra Colonna al contrario favorì la coronazione del Bavaro.

[636] Annali di Lodovico Mondalesuo, R. I. vol. 12, pag. 529.

[637] Giovanni Villani, lib. 10, c. 96.

[638] Canone 8.

[639] Canone 41.

[640] anno 1356, R. I. tom. 18.

[641] Dialogo 99 de rimedio utriusque fortunae.

[642] Continuator Nangi Petrus Damiani opuscul. 42. Landulfus, c. 7. Galvaneus Flamma.

[643] Canto 25 del Paradiso.

[644] Chronicon Astense Gulielmi Venturae, c. 3, tom. XI R. I.

[645] Paradiso, canto 22, verso 74.

[646] Canto 21 Paradis. vers. 130.

[647] È ciò che diceva Livio de’ Romani. Ma era propriamente lo stato degl’Italiani in questi tempi.

[648] Giovanni Villani, lib. XI c. 23. Anonimus Romanus, c. 6, stampato dal Muratori, Antiq. Italiae tom. 3.

[649] Alberto de Strasburgo, pag. 127.

[650] È il cronista Nicola frate minore che lo riferisce. Lo rapporta anche Rainaldo, ann. 1338, n. 10.

[651] Chronicon Astense, tom. 15 R. I. Giovanni Villani, lib. 12, c. 50.

[652] Chronicon Astense, tom. 15 R. I. Vita di Nicola stampata dal signor Muratori nel tom. 3 Antiquitat. Ital.

[653] Platina, Istoria Mantovana, lib. 3 circa princìpi, tom. 20 R. I.

[654] Tom. 5 delle Antichità Italiane.

[655] Vita Benedicti 12 apud Baluz. tom. 1, pag. 120.

[656] Lib. 3, c. 43.

[657] Apud Baluz. in Vita Clementis 6, tom. I, pag. 312 et apud Cornelium Aggrippa.

[658] La bolla è apud Raynaldum, anno 1348, n. 13.

[659] Apud eundem, 1353, n. 5.

[660] Matteo Villani, lib. 7, c. 84.

[661] Apud Raynaldum dicto anno, n. 2.

[662] Additamenta ad Cortusiorum Historiam, tom. 12 R. I.

[663] Gatari, Storia Padovana, R. I. vol. 17.

[664] Credo che fosse una spezie di Knut che usano i Moscoviti.

[665] Il Duchange nel glossario suo spiega tal voce per verberare, percuotere.

[666] Sembra che significhi levar le scarpe, o fors’anco qualche cosa di più orribile, cioè levar la pelle della parte inferiore de’ piedi. Dessolare vuol dire toglier la sola, la qual voce si usa in lombardo tanto per esprimere il cuoio inferiore delle scarpe, quanto la pianta del piede. Non si può commentare senza ribrezzo quest’orribile documento.

[667] Petrus Chronicon, tom. 16, pag. 410, R. I.

[668] Apud Raynaldum, ann. 1372, n. 1 et 73, n. 10.

[669] Raynal. ann. 1376.

[670] Zozomeno Pistoiese specimen historiae, R. I. vol. 16.

[671] Annales Mediolanenses, cap. 139, R. I. vol. 16.

[672] Apud Raynald. anno 1380.

[673] Teodorico da Niem, c. 33.

[674] C. 56.

[675] Matteo Villani, 9, 13.

[676] Annales Mediolanenses, c. 157, tom. 16 R. I. Corio, Istoria di Milano.

[677] Gregorius Stella Annales Genuenses, anno 1396, tom. 17 R. I.

[678] Delayto, Annales, tom. 18 R. I.

[679] De moribus Germanorum.

[680] Paulus Diaconus, I, 23.

[681] Nelle annotazioni al Ditirambo di Bacco in Toscana.

[682] Teodoricus da Niem Histor.

[683] Zozomenus Pistoriensis an. 1409 Histor. tom. 16 R. I.

[684] Corio, Istoria di Milano.

[685] Corio, ibidem.

[686] Delayto, Chronicon, tom. 18 R. I.

[687] Leonardus Aretinus, R. I. vol 19.

[688] Leonard. Aretin. rerum suo tempore in Italia gestarum comentarius, R. I. vol. 19.

[689] Nella vita di quel duca.

[690] anno 1432, tom. 18 R. I.

[691] Billius Histor. lib. 9, vol. 19 R. I.

[692] Cronica di Ferrara, tom. 24 R. I.

[693] Annales Placent. anno 1457, tom. 20 R. I.

[694] Cronica di Bologna, anno 1453, tom 18 R. I. Manett. Vita Nicolai V pont. 2, tom. 3 R. I.

[695] Papiens. comentar. lib. VII.

[696] Gobelino, Comentarii di Pio II, lib. 2.

[697] Tristano Caracciolo, opuscol. De varietate fortunae, tom. 21 R. I.

[698] Giornali Napolitani, anno 1460, tom. 21 R. I. e Pontano, Istoria di Napoli.

[699] Successore di Pio II.

[700] Apud Raynaldum, anno 1468, n. 14.

[701] A’ tempi di Sisto IV, successore di Paolo II.

[702] Antonio Gallo, Storia di Genova, R. I. vol. 23. Stefano Infessura, Diario Romano, p. 2, vol. 3 R. I. Rafaele Volterrano, lib. 5 Diario Parmigiano, vol. 21 R. I. Giustini, Istoria di Genova, lib. V.

[703] Vi sono varie copie manoscritte degli atti di questo concilio, i quali furono anche stampati; ma di stampati non si conosce che una sola copia, la quale esiste in una libreria a Firenze.

[704] Matteo Rosso da Verona, Istor.

[705] Platina, Vita Pauli II. Ammirati, Storia di Firenze.

[706] Epistola 90.

[707] Corio, Istoria di Milano.

[708] Guicciardino, Storia d’Italia, lib. I.

[709] La copia di questa lettera è ms. nella biblioteca Ambrosiana di Milano.

[710] Pre. Desniele, Storia di Francia in 4, tom. 5, pag. 291. Memorie di Comines, tom. 5, ediz. 1723 pag. 474.

[711] Guicciardino, lib. 9.

[712] In questa impresa avvenne un duello in Campochiuso fra 13 Francesi ed altrettanti Italiani, che si sfidarono per l’onore di lor nazioni. Vedi Guicciardino, Stor. lib. V all’anno 1503 e Collenuccio, Storia di Napoli, all’anno 1502. Rimasero vittoriosi i nostri. Il fatto fu vicino a Barletta.

[713] Zio paterno del poco prima defunto Ferdinando II.

[714] Giucciard. lib. 5.

[715] Il suo nome è Roderico Borgia.

[716] Guicciard. lib. 5.

[717] Rafaello Volterrano. Guicciardino, lib. 4.

[718] Giucciard. lib. 6.

[719] Idem.

[720] Rafaele Volterrano, lib. 22. Guicciardino, lib. 6.

[721] Francesco Pico conte della Mirandola, ed Iacobo Nardi, Storia Fiorentina, libro 2.

[722] Non conterò un altro Giulio che fu di mezzo fra questo ed Alessandro. Regnò ventisei giorni.

[723] Raynald. anno 1511, n. 9 riferisce la bolla.

[724] Tom. I, 18.

[725] Capo 6.

[726] Cap. 3.

[727] Brantome, Homines illustres, chap. del Amirail Bonnivet.

[728] Guicciardino, lib. 13.

[729] Lib. 13.

[730] Guicciard. eodem.

[731] Succesor di Adriano 6.

[732] Giovio nell’elogio di Franspergh.

[733] Guicciard. lib. 18.

[734] Codero, Histor.

[735] Guicciard. lib. 20.

[736] Sansovino, Guicciardino.

[737] Così descrive il Segni il suo vestimento.

[738] Giornali di Gregorio Rosso, pag. 103.

[739] Successore di Clemente VII.

[740] Così chiamavansi quelli che protestavano contro la dieta tenuta a Spira da’ principi cattolici nel 1529 nella quale era stato proibito il luteranismo. I protestanti appellavano al concilio.

[741] Summonte, Istoria di Napoli.

[742] Cronaca pisana di fra Domenico Peccioli.

[743] Non parlerò di Marcello II che visse fra l’uno e l’altro ventun giorni.

[744] Alessandro Andrea contemporaneo scrisse tal guerra.

[745] Histor. lib. 22 De Thou.

[746] Idem, lib. 23.

[747] Idem, eodem.

[748] Apud Paramum de origine Inquisitionis, lib. 2, lib. 3, c. 9, n. 16 et Carenarti de Officio S. Inquisitionis, § 5, n. 63.

[749] Paramus, lib. 2, c. 14.

[750] Giuseppe dell’Olmo nella relazione di quell’atto di fede, fogl. 47.

[751] Bernini, Storia delle eresie, tom. III, secol. XIII, cap. 2.

[752] De Thou, lib. 36. Ciaconio, Vite de’ papi, tom. 3, fol. 881.

[753] De Thou, lib. 39.

[754] A Sisto successe Urbano VII che regnò 13 giorni; a lui Gregorio XIV che regnò un anno; poi venne Innocenzo IX che regnò due mesi. Dopo fu Clemente VIII.

[755] Poi l’imperatore Ferdinando II.

[756] Siri, Memorie recondite.

[757] Nani, Istoria veneta, lib. 1.

[758] Tantaque est regiorum ministrorum crudelitas et avaritia, ut proverbio in Italia locum dederit: In Sicilia quidem ministros regis rodere; in Napolitano autem Regno comedere; in Mediolanensi vero Ducatu penitus divorare. Klok, de Errario, lib. I, c. 6, n. 17, pag. 159 edit. Norimberg.

[759] Fu descritta dal conte Gualdo Priorato, dal senatore Andrea Valiero, da Girolamo Brusoni, da Vittorio Siri, da Alessandro Maria Vianoli e da Giovanni Graziani, professore di Padova.

[760] Prefaz. fol. IX.

[761] Relaz. fol. 4.

[762] Fol. 5.

[763] Fol. 14.

[764] Cap. 2, fol. 14.

[765] Fol. 18.

[766] Fol. 20.

[767] Fol. 16.

[768] Fol. 18.

[769] Fol. 28.

[770] Fol. 21.

[771] Fol. 25.

[772] Fol. 34.

[773] Fol. 34.

[774] Fol. 73.

[775] Fol. 83.

[776] Fol. 84.

[777] Fol. 87.

[778] Fol. 93.

[779] Fol. 99.

[780] Fol. 100.

[781] Capitoli e grazie di Carlo VI, tom. 2, 232.