Saggio sulla storia d’Italia

Alessandro Verri
SAGGIO SULLA STORIA D’ITALIA (1764-1766)

Testo critico stabilito da Barbara Scalvini (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001), revisionato da Gianni Francioni (2021)

Prefazione.

Capo I. Princìpi di Roma. Tempi della monarchia; suo cambiamento in Repubblica. Digressione su Pitagora e la sua setta.
Capo II. Inutili sforzi di Tarquinio per ritornare in Roma. Discordie fra i patrizi ed i plebei. Dispotismo de’ decemviri. Venuta de’ Galli. Guerre co’ popoli della Magna Grecia sino alla totale conquista d’Italia.
Capo III. Della credibilità dell’antica storia romana.
Capo IV. Le tre guerre puniche.
Capo V. Decadenza della libertà. Guerre esterne e civili fra Mario e Silla.
Capo VI. Della costituzione civile di Roma.
Capo VII. Di Cesare e Pompeo, e della riforma del calendario.
Capo VIII. Triumvirato di Ottavio, Antonio e Lepido. Osservazioni sul­la forense eloquenza de’ Romani. Battaglia d’Azio che riduce nel solo Ottavio il comando dell’impero. Sulla questione se il lusso fosse cagione della rovina della Repubblica. Carattere d’Augusto. Coltura del suo secolo.
Capo IX. Degl’imperatori sino alla incursione de’ barbari.
Capo X. Delle incursioni de’ popoli settentrionali e degl’imperatori sino a Costantino.
Capo XI. Di Costantino e’ seguenti imperatori sino a Teodosio il grande.
Capo XII. Nuove incursioni de’ barbari e fine dell’occidentale imperio.
Capo XIII. Del regno de’ Goti.
Capo XIV. Del regno de’ Longobardi e sua estinzione. Rinnovazione dell’impero occidentale in Carlo Magno. Alcuni usi di que’ tempi.
Capo XV. Di Lodovico il Pio e’ seguenti imperatori. Scisma di Fozio. Divorzio di Lottario. Disordini d’Italia. Incursioni de’ barbari. Degli Ottoni. Giudizi di Dio. Faide.
Capo XVI. Rivoluzioni nel governo d’Italia. Degl’imperatori Enrico II, Corrado il Salico, Enrico III. Venuta e conquista de’ Normanni. Contese fra Arrigo IV e Gregorio VII. Arrigo V e Pasquale II. Loro conseguenze e fine. Repubbliche d’Italia. Letterati di que’ tempi.
Capo XVII. Del commercio d’Italia. Crociate. Giudizi del fuoco. Guerre di Ruggero re della Puglia con i papi Onorio ed Innocenzo, con Lattanzio imperatore ed i Greci. Introduzione delle manifatture di seta. Studio delle leggi romane in Bologna. Idea di questi studi. Del decreto di Graziano. Teologia scolastica. Scienze degli Arabi.
Capo XVIII. Di Federico I imperatore. Tumulti in Roma e nel Regno di Napoli. Distruzione di Milano. Dieta di Roncaglia tenuta dall’im­peratore. Antipapi. Lega Lombarda contro Federico. Pace di Co­stanza. Nuove crociate.
Capo XIX. Incoronazione di Enrico VI. Contese d’Innocenzo III con Filippo re di Francia e suo figlio Luigi, e con Giovanni re d’Inghil­terra. Imprese di Enrico sul Regno di Napoli. Suo figlio Federigo II e l’imperatore Ottone IV se lo disputano. Aspre contese fra Gregorio IX, Innocenzo IV e gli imperatori Federigo e suo figlio Corrado. Delle fazioni guelfa e gibellina.
Capo XX. Dei flagellanti. Venuta in Italia di Carlo d’Angiò. Sue guerre con Manfredi e Corradino, e lor fine. Parte che v’ebbe il papa Innocenzo IV. Rodolfo imperatore. Riunione instabile della Chie­sa greca nel Concilio di Lione. Vespro siciliano e suoi conseguenti. Di Guglielmina. Invenzione degli occhiali.
Capo XXI. Mutazione nel governo delle repubbliche. Invenzione del­l’ago magnetico. Controversie fra Filippo il Bello e Bonifacio VIII. Spettacoli de’ tempi. Trasporto della Santa Sede in Avignone. Di­spute fra Clemente V ed i Veneziani per Ferrara. Abolizione de’ Templieri. Letteratura de’ tempi.
Capo XXII. Guerre fra l’imperator Enrico VII, Roberto re di Napoli e Federico re di Sicilia. Parte che v’ebbero i papi Clemente V e Giovanni XXII. I gibellini lombardi chiamano in Italia Lodovico il Bavaro. Disprezzi delle scomuniche. Della lingua volgare. Prin­cìpi della coltura. Costumi.
Capo XXIII. Infelice spedizione in Italia di Giovanni di Lucemburgo re di Boemia. Inutili istorie di Lodovico il Bavaro per l’assoluzione delle scomuniche. Carlo IV proclamato imperatore. Di Giovanna regina di Napoli. Di Nicola da Rienzo. Dei Visconti di Milano. Loro dispute co’ papi.
Capo XXIV. Scisma della Chiesa. Venuta di Carlo della Pace a Napoli. Morte della regina Giovanna. Di Urbano VI. Erezione del Ducato di Milano. Genova si sottomette al re di Francia. Compagnia de’ Bianchi. Della cavalleria.
Capo XXV. Seguito dello scisma e suo fine. Vicende de’ Visconti e del Regno di Napoli. Concili di Costanza, Basilea e Ferrara. Loro circostanze ed esito. Instabile riunione co’ Greci.
Capo XXVI. I Turchi prendono Costantinopoli. Timore de’ papi che non vengano in Italia. Inutili tentativi del duca d’Angiò sul Regno di Napoli. Assassinio del duca di Milano e di Giuliano de’ Medici. Zizimo fatto prigioniero da’ cavalieri di Rodi. Letterati greci fu­gono in Italia. Risorgimento della letteratura.
Capo XXVII. Venuta in Italia di Carlo VIII e di Lodovico XII. Imprese loro nel Regno di Napoli e nel Ducato di Milano. Come il Regno di Napoli si unisse a quello di Sicilia. Di Alessandro VI. Di Giro­lamo Savonarola. Di Giulio II e sue gesta. Del predicatore Gabriele da Barletta.
Capo XXVIII. Guerra di Francesco I e Carlo V per il Ducato di Milano ed il Regno di Napoli. Prigionia di Francesco e scisma della Chiesa sotto Leone X. Sacco di Roma sotto Clemente VII. Paolo III e Giulio III suoi successori; loro condotta. Rinuncia di Carlo V.
Capo XXIX. Stato delle scienze in Italia nel secolo decimosesto.
Capo XXX. Di Paolo IV; sue controversie con Ferdinando imperatore e Filippo II, ed Elisabetta regina d’Inghilterra. Inquisizione di Roma e di Spagna. Di Pio V; suo governo; sua bolla «In coena Domini». Lega da lui promossa contro de’ Turchi. Strage degli ugonotti in Francia. Riforma del calendario.
Capo XXXI. Di Sisto V. Suo governo; sue dispute coi re di Francia Arrigo III ed Arrigo IV. Di Clemente. Sue gesta. Di Paolo V. Interdetto e cospirazione di Venezia. Guerre d’Italia.
Capo XXXII. Stato d’Italia e sue guerre. Presa di Candia. Sollevazioni in Palermo ed in Napoli. Controversia fra il papa ed il re diFrancia. Dei scrittori seicentisti. Di Giovan Battista Andreini.
Capo XXXIII. Sollevazione di Messina. Questione della regale fra il papa ed il re di Francia. Bombardamento di Genova. I Veneziani pren­dono la Morea. Strage degli ugonotti in Francia. Tumulti in Roma per le franchigie degli ambasciatori. Guerre e pace di Riswich.
Capo XXXIV. Guerra della successione di Spagna. Ribellione della Cor­sica. Guerra per l’elezione del re di Polonia. Situazione del papa Clemente XII. Cambiamenti nei governi d’Italia.
Capo XXXV. Del pubblico atto di fede seguito in Palermo l’anno 1724.
Capo XXXVI. Guerra per la successione dell’imperatore Carlo VI. Solle­vazione di Genova. Spedizione degli Austriaci in Provenza. Tumul­ti in Napoli. Pace di Aquisgrana; suoi effetti quanto all’Italia.
Capo ultimo. Conclusione.

 

Prefazione

Mio scopo è stato, scrivendo questo saggio, di svellere dalle mani de’ pochi eruditi la storia nostra per diffonderla ne’ molti leggitori. Perciò ho temuto di fare un grosso libro, ed ho dirette le mie fatiche a scegliere, a restringere, come altri a compilare ed ammucchiare.

Non si aspetti il lettore descrizioni di guerre, non discussioni erudite, non genea­logie di principi. Fors’è più facile il compilare queste opere che il leggerle. Nella storia, come nella poesia, furono gli uomini più coraggiosi che in qualunque altro genere di letteratura. Ogni nazione, per poco colta ch’ella sia, ha una vasta biblioteca di cronisti, e pur pochi son coloro che li conoscano. Non condanniamo questa ignoranza. Rare sono le opere di tal genere che si meritano la pazienza de’ lettori.

Quanto a me, scrivendo non ho misurato il mio stile colla benignità, ma col piacere de’ leggenti, perciò non la imploro, ma ho cercato di meritarla.

Che mi offre alla mente quello sterminato mucchio di follie e di atrocità, di vizi e di virtudi che formano gli annali del genere umano? Una confusa ed immensa folla di vicende. Chi può tutte descriverle, e chi le deve? Conviene pur dunque ridurre questa gran materia in poco e, misurando la brevità della vita e la molteplicità delle cogni­zioni, non pretendere che gli uomini consacrino tutti se stessi per sapere che fecero i loro antenati, onde è necessario il contentarci di non ignorare quanto di più utile e degno a sapersi giace involto nelle infinite memorie che ci sono tramandate. Deplori l’erudito il saccheggio che noi faremo della istoria sfiorandone il sommo sugo, e lasciando nella oscurità il molto che ci par degno di rimanervi. Noi cerchiamo d’istrui­re, di piacere e di far pensare. Ciò che non ottiene questo fine ci è sembrato inutile.

Non è che la storia non possa scriversi con dettaglio. Non sono mai bastevolmente copiose quelle de’ scrittori contemporanei, e le vaste raccolte. Le prime assicurano a’ posteri la conoscenza de’ fatti e, se sono anco scritte con inutile abbondanza, egli è sempre questo un piccolo male in paragone della irreparabile sterilità. Quanto poi alle vaste raccolte, esse son grandi magazzini, il di cui pregio è d’esser tali che ogni sorta di letterato vi trovi merce opportuna a’ suoi lavori. La sola possibilità che a qualcosa servir possa una notizia basta per inserirvela.

Ma conviene distinguere questi due generi di storia da quello di chi intraprenda la pittura di molti secoli. Il minuto dettaglio e la vastità della erudizione sono in tal caso fuor di luogo. Sono condannati gli uomini a sempre ignorare la storia s’ella ha d’esser sempre copiosissima. Conviene distinguere l’erudito dallo storico. Quello prepara i materiali ed i colori, questo fabbrica e dipinge; egli è come il punto d’ap­poggio fra il comune degli uomini e gli eruditi. Presenta a’ leggitori il risultato di studi immensi.

Non farò gli elogi della nostra istoria. Essa è la più antica di Europa se ne eccettuate la greca. Prima ci presenta una nazione che aveva resi soggetti ed ammira­tori tutt’i popoli ch’ella conobbe, il di cui governo, milizia, leggi, scrittori, eroi sono tutt’ora la nostra meraviglia ed instruzione. Roma, ch’era stata signora delle genti colla forza, la divenne colla religione. E come il Senato romano dava e toglieva i regni, ed i trionfatori consoli e dittatori conducevano i cattivi re al Campidoglio, così i pontefici reggevano l’Europa colla non meno possente forza della veneranda opinione. Diero, tolsero scettri, e corone; vider supplici a’ lor piedi i re; viderli vassalli e tributari; unirono armate colle crociate, le sconfissero cogl’interdetti.[1]

Non sono opere leggiere i compendi. È facile il compilar la storia con tutto quello che si sa, non mai rinunciando alla propria vanità in favore de’ lettori, a’ quali vogliamo imprimere alta idea di nostra erudizione coll’opprimerli di mille discussioni. Più illuminato è l’amor proprio, più utile è l’opra di chi cerca di ridurre in sugo la vasta e diradata materia istorica, di chi cerca sempre di nascondere la fatica piuttosto che di palesarla, di chi sparge il suo stile di riflessiva, semplice, facile narrazione, e presenta in poco l’estratto di lunghi e faticosi studi. Egli otterrà di esser letto, egli renderà universali quelle notizie che stanno sepolte in volumi immensi, ispidi per molta pedan­teria. Non v’è altro mezzo di render comune la storia.

Non mancò chi si lagnasse che tal sorte di opere abbia fatte perire le grandi. S’incolpa Giustino d’aver fatto perire Trogo Pompeo. Ma fortunato quel compendiatore che faccia cader nell’oblio le opere voluminose! Bisogna che le abbia rese inutili. Non avrà perduto molto la filosofia riducendo un grosso libro in un piccolo. In questo genere di letteratura tutto dipende dalla buona scelta, e dal non sostituire la nostra persona a quella del lettore, ma bensì porre noi al suo luogo.

A forza di abituazione ne’ studi, si acquista per essi un grado di stima, si dà loro una importanza che il lettore non conosce. Da qui ne viene che, poco giudiziosamente attribuendo altrui le nostre passioni, crediamo che i lettori debbansi compiacere di alcune minute discussioni e di alcune notizie, le quali noi amiamo assaissimo, come in ogni arte avvenir suole, ch’ella sia stimata all’eccesso da’ suoi professori. Ciascuno si ferma volontieri, e siede agiatamente a discorrere del proprio mestiere; ciascuno è chiacchierone nell’arti sue. Anche lo storico ha questo difetto, se non è cauto ad evitarlo. La difficoltà è grande. Per intraprendere e condurre a fine un’opera faticosa vi vuol molta passione; e per iscriverla non ve ne vuol tanta. Vi sono de’ gravi trattati sul modo di fare il caffè e le perrucche; loro altro non vedevano che perrucche e caffè. Ciò può avvenire in ogni altra materia. Io non so se mi sia riuscito di sfuggire questi difetti; ben so che ho proccurato di farlo. Ho sempre avuta fretta di correre il mio cammino, ho rispettata la impazienza degli uomini, ho cercato d’istruire in buona fede, non mi sono proposto di rendere il mio lettore un profondo erudito, ma un uomo colto. Come chi de’ fare un lungo viaggio con un compagno, cui voglia mostrare le vedute, le campagne, i villaggi laterali al cammino, indica, dà notizia, dimostra in breve ciò ch’è degno di attenzione, e prosiegue la sua strada, senza fermarsi su due piedi ad ogni momento ed opprimere il suo compagno lettore con lunghe disquisizioni e con minute osservazioni su tutti gli alberi, e le vedute, ed i rottami, e le capanne, coll’immancabil successo di render lunga e faticosa la via, ed annoiato, non instrutto il socio suo.

Mi son guardato parimenti da un altro difetto, che egualmente nasce da una lunga dimora in un solo genere di studi. Non v’è, per avventura, nella storia uno stile più sconciamente falso che il poetico, quando dipingere vogliamo le azioni ed i fatti come se vi fossimo presenti. L’immaginazione arriva a trasportare l’erudito in Atene ed in Roma, e quasi a sognare di esservi propriamente. Quindi si descrivono le battaglie con un calore da cui sembra che lo storico istesso vi stia combattendo; quindi non mancano le esatte descrizioni delle passioni; i sospiri, il pianto, l’ira, il valore, la compassione si dipingono su volti da noi più secoli distanti, si entra con mirabil coraggio ne’ pensieri de’ principi, e si annullano gl’invalicabili anni che stanno di mezzo fra lo storico ed i fatti. Questa è una falsa vivacità di stile. Essa non disconviene a’ contemporanei; ma nei posteri deve comprendersi una esatta e cauta discussione del vero, e trasparir de’ sempre in loro, per mio avviso, uno timido spirito di dubitazione che escluda ogni sospetto di romanzesco arbitrio. Bisogna conciliarsi fede e benevolenza ne’ leggitori: bisogna perciò ch’essi vedano nello scrittore un amico che, seco loro favellando, cerca il vero per quelle poche e scabrose vie che rimangono, dopo molti secoli di menzogne. Egli è incredibile quanto indisponga gli animi, in ogni genere, lo stile magistrale. Sembra ch’ei rimproveri ad ogni momento la ignoranza del leggitore, il quale si offende, diventa nemico, ostilmente va in traccia dei difetti dell’opera, non ne cura le bellezze: l’amor proprio è un giudice inesorabile.

Bisogna ancora guardarsi nella storia dalla voglia di sistemizzare. Per poco che si abbia d’ingegno, se ne può in tal guisa abusare. Si scoprono delle relazioni fra fatti e fatti; tutto si vuol ridurre ad un fattizio sistema della mente; si alzano de’ vasti edifizi su due dita di terreno; vi sono, per così dire, i suoi Descartes anche nella storia; vi sono i suoi microscopisti che vedono colla immaginazione, e non cogli occhi. Non cadono in questo difetto gli uomini mediocri e freddi; i grandi e fervidi ingegni hanno questo felice inconveniente, padre d’illustri ed ammirabili deliri. Ma più si conosce la storia, più comprendonsi le cagioni degli avvenimenti, più la mente ne abbraccia una gran massa, più ancora ella è cauta nel formar sistemi. Chi vede pochi fatti e sceglie quelli che sieno conformi alle sue idee, può facilmente sistemizzare; chi ha viste più lontane vede come possano formarsi questi sistemi, ma anco come distruggersi.

Ben di rado la fortuna delle vicende presenta allo spirito una costanza di avveni­menti, la qual ci conduca ad una general cagione, di molti affetti produttrice. Ad ogni momento il tumultuoso ammasso dei deliri e delle crudeltà degli uomini tronca il filo allo storico che avea cominciato ad entrare in questo laberinto, ed ei la ritrova, per lo più, composta d’isolati e disgiunti pezzi, difficilmente costituenti la materia, molto meno una serie di conseguenze generali. La storia istessa di tutto il globo non porge­rebbe che di rado questa materia; che sarà in quella di un gruppo di persone abitanti un piccol canto del mondo? Perciò conviene, preferendo il timido vero agli splendidi errori, limitarsi per lo più a qualche fuggitiva riflessione, e, paragonando fra di loro le parti della storia, vederne piuttosto le varietà che le somiglianze; perchè quelle son molte, e poche queste; in quelle non ci seduce l’immaginazione, ed in queste ci lusinga il piacere di ridur molte azioni ad un sol punto.

Non v’è, per avventura, che il popolo romano che nella nostra istoria ci presenti un soggetto di concatenate generali riflessioni. È una nazione che passò a traverso d’infinite vicende; è una nazione grande, e strana in tutte le cose sue, di una costante condotta in molte parti, ove ritrovi vasta materia di ragionare, perchè è una massa di avvenimenti l’uno all’altro appartenenti, e paragonabili in molti prospetti. Dopo di questi secoli più non ritrovi sì grande nazione. Sono crudeli e pazzi, poi imbecilli imperatori che guidano una mandria di uomini. Sono barbari che saccheggiano le ruine di un vasto impero, che lo squarciano, poi se lo dividono. Quindi sorgono le atroci controversie fra i contraddittori diritti dell’imperio e del sacerdozio, cui vanno dietro le nazioni, dal seno delle quali rinacque in Italia la libertà; libertà funesta che la divise in tante piccole e gelose repubbliche perpetue nemiche, e spente alla fine dall’abuso di una licenziosa indipendenza. Successero a lei i tiranni, finchè, vinti anch’essi da maggior potenza, le sparse forze in queste si riunirono, e, cangiate le trepide opinioni con princìpi più conformi alla nascente coltura, le grandi idee dei terreni dritti del sacerdozio scemaronsi e, decaduta questa sola gran potenza che ci rivolgeva lo sguardo delle genti, divenne l’Italia una provincia obbliata in un canto d’Europa; finchè con mezzi meno funesti riscosse l’ammirazione, diventando la madre delle belle arti, nelle quali, un tempo maestra, ora gli è serbato un posto men glorioso. Tai furono le vicende sue: e s’elleno presentano un sempre instruttivo e variato quadro, non sono però, per la loro irregolarità e tumulto, il soggetto di un vasto e seguito sistema. Egli è ben vero che la stranezza e varietà delle cose essendo materia di molte particolari riflessioni, esse divengono così importanti come le generali.

V’ è chi brama ritrovare nella storia i puri e succinti fatti, lasciando a’ lettori il merito di ragionarvi. Questo metodo è ottimo quando si possono presentare i fatti così strettamente uniti che, per poco di finezza abbia il lettore, ne può dedurre le conseguenze. È lo stesso il far riflessioni come il farle necessariamente fare. Anzi la storica pedanteria consiste in ciò, di far le più triviali riflessioni, quelle che altro non esiggono che un mediocre buon senso. Ma sono ben pochi i casi ne’ quali si ritrovi questa fortunata combinazione. Troppo si stima colui il quale si crede di poter fare, su di una serie di vicende, riflessioni così esatte e vere, quante ve ne farà chi si è consacrato ad esaminarle e conoscerle. Egli è più in istato di paragonare fatti con fatti, di vedere la materia nella sua estenzione; vi ha impiegati lunghi studi, ne ha fatto il soggetto delle sue meditazioni. Devono bensì nascere spontaneamente queste rifles­sioni; nè si veda nell’autore la voglia e quasi il mestiero di riflettere. Ei sia più frequente nel farle che prolisso, più rapido che discusso, più agiato che faticoso; riunisca al momento i fatti, poi gli abbandoni, e siegua il suo viaggio: non mai esaurisca la materia. Indichi, e lasci pensare. Non è esatto quel precetto, che le riflessioni devono essere fatte per la storia, non la storia per le riflessioni. Basta dire che in esse vi regni uno spirito di filosofia. Se non formeranno una storia, formeranno un buon libro.

Non bisogna mai esser municipale nella storia: non bisogna ristringer la piccola mente in un palmo di paese. È prodigiosamente modesto chi non brama d’aver qualche voto dagli stranieri: ogni serie di vicende è capace d’interessare generalmente i leggitori, se sia dettata dal condimento d’ogni cosa, lo spirito di filosofia. Il filosofo rende importante tutto ciò che passa fra le sue mani. Non v’è cronica d’un oscuro villaggio ch’egli non sapesse render più grande, che non quella de’ più vasti regni, scritta da’ raccontatori di battaglie, di leghe e paci, di matrimoni e successioni di principi.

Devo i miei omaggi alla illustre memoria del signor Muratori. Quel gran letterato ha tanto scritto sulle cose nostre, che ad ogni momento bisogna ricorrere a lui. Egli è dapertutto. Prima di lui sapevamo poco della nostra storia, dopo le gloriose sue fatiche non abbiamo d’invidiare nessuna nazione. Non mi s’incolpi di essere il suo compendiatore. Egli comincia da Augusto, io da Romolo; e spero che svanirà tal sospetto, anche di que’ secoli de’ quali ei scrisse, confrontando questo mio opuscolo colle vaste opere sue. I suoi gran lumi m’hanno dato il filo, ma quando l’ebbi fra le mani camminai da me stesso.

Il metodo che scelse quel rispettabile uomo non mi sembra il migliore, quan­tunque il più comune. M’intendo il dividere la storia in annali. Ella così tutta si sfracella: la catena degli avvenimenti si frange ad ogni passo. La divisione non è mai arbitraria, molto meno può esser così regolare nelle vicende umane. Ella nasce dai fatti istessi; essi determinano i confini del racconto, non già i dodici segni dello zodiaco. Da qui ne viene che la storia diventa una gazzetta, e come l’Ariosto si troncano a mezzo tutt’i racconti. Si lascia Rinaldo per parlare di Angelica. Questo inconveniente si vede negli annali del signor Muratori, e vi sarà in ogni opera di tal genere. Tal metodo rende ancora difficile l’intelligenza de’ fatti, e reca alla memoria una confusa serie di avvenimenti che più si sminuzzano più s’involvono e si confon­dono.

Ho creduto necessario il citar gli autori. Non tanto perchè mi si credesse, quanto perchè gli ho risguardati come una interessante parte della storia. Importa il sapere chi di mano in mano la scrisse. Questa filologia costa nessuna fatica, ed è di molta instruzione. Perciò io non credo da seguirsi il metodo degli antichi, grandi nemici delle citazioni. Forse alcuni le temono, perchè danno in mano del lettore il filo per mettere a prova la fedeltà ed esattezza del racconto. Ma bisogna far in guisa da non aver questi timori. Non sono però stato così scrupoloso di citare ad ogni parola. L’ho fatto quando mi parve necessario. Chieggo per fine di esser giudicato con quella imparzialità con cui ho scritto. Non esigo altro sentimento nel lettore che questo; ho desiderato di scriver in modo ch’ei solo mi bastasse.

Capo I. Princìpi di Roma. Tempi della monarchia; suo cambiamento in Repubblica. Digressione su Pitagora e la sua setta.

Mio pensiero non è d’indagare l’oscura origine degli Aborigeni, Arcadi, Siculi, Umbri, Ausoni, Pelasgi, Liguri, Sanniti, Sabini e di tanti altri popoli che dicesi abitas­sero l’Italia prima de’ tempi di Romolo. Se, dopo più di due mila anni, puossi aspirare a cotanto, fia questa l’opra de’ pazienti compilatori. Noi con Livio, che fu assai più vicino a que’ tempi, non oseremo di affermare quella storia o di negarla. Forse vi furono in queste regioni, in antichissimi tempi a noi ignoti, popoli conquistatori, genti ed imperi di gran nome, che, ricoperti di poi dalla folla de’ secoli, o da altre nazioni ingoiati e dispersi, giaciono in seno di quella oscurità a cui l’immenso spazio di tempo che da noi li divide, e la perdita delle memorie in quelle strepitose rivoluzioni cui soggiaciono le nazioni e l’universo, le ha condannate. O forse, chi sa che non molto abbia preceduto i tempi favolosi quel fenomeno, quel terremoto, quella scossa che alzasse dal mare questa penisola?

Non è permesso agli uomini ragionevoli l’esser eruditi dove si tratti di ricercare la verità della origine delle nazioni. Ella dev’essere sempre favolosa o perchè non aveansi in que’ tempi selvaggi i mezzi di tramandare alla posterità la memoria de’ fatti, o perchè ardivano i mortali ricoprire le oscure cose coll’augusto velo della divinità, la di cui immagine lor sembrò trasparire da quelle tenebre remote dove altro non giunge che l’ammirazione. Quindi tutte le nazioni interessarono gli dei nella origine loro, anche per ciò, che l’avere sì illustri princìpi piacque all’umano orgoglio, cui parve che sì alta stirpe imponesse venerazione ai popoli vicini.

Per la qual cosa, gli amatori delle antiche cose qui non s’aspettino alcuna disqui­sizione su gli antichi popoli d’Italia, soggetto de’ coraggiosi scritti di taluno e sul quale giammai altro non sapremo che alcuni nomi di popoli e di città, informi ruine del tempo distruggitore. Non ci fermeremo tampoco a parlare degli antichi Etrusci, gente che dicesi avere contato molto in Italia, del governo e re de’ quali qualche incerta e confusa notizia danno gli antichi. Neppure qui trascriveremo quanto dice Dionigi d’Alicarnasso intorno al regno d’Alba. Ad esso ricorra[2] chi la venuta d’Enea in Italia più di quattro secoli prima della fondazione di Roma, chi il suo regno stabilito in Lavinio, chi la città d’Alba fabbricata dal di lui figlio Ascanio, e tutta la stirpe di ben sedici re suoi discendenti da cui Romolo sortì, chiama istoria, quantunque scritta da un autore che vivea nel secolo ottavo di Roma. Antichissima anche per lui, troppo dubbiosa, e poco importante per aver luogo in questo compendio. Il sapere che fu scritta è bene, l’indagarla è inutile. Cominciaremo adunque la storia dove cessa di esser un mucchio di rottami, e diventa un vasto edifizio, del quale daremo prima la descrizione, esaminandone poi la costruzione ed i fondamenti.

Il fratricidio di Romolo die’ principio a Roma. Geloso egli del comando, sagrificò il fratello Remo, col pretesto degli àuguri e della violata santità delle mura. Capo dei banditi, conquistò i vicini Ceninesi,[3] AntemnatiCrustumini, Fidenati, Camerini, e tutt’i vinti popoli unì a’ suoi. Distruggere li nemici, conservare i prigionieri, dar la cittadinanza romana ai deditizi fu un sistema costantemente osservato in appresso. Così crebbe Roma in poco tempo, e ben presto fu in istato di rigurgitare nelle colonie il superfluo di sua popolazione. Questa da Romolo accresciuta coll’aprire l’asilo a’ fuorusciti, e donne non avendo per continuarla,[4] invitò ad una festa di Nettuno i popoli vicini. Mentre ch’era quella moltitudine attenta allo spettacolo, ciascun Ro­mano una donna si rapì. Tale selvaggia maniera di ammogliarsi accese la guerra di tutte quelle genti contro la nascente città, i di cui illustri princìpi furono il Fratricidio e ’l Ratto. Più potenti degli altri, i Sabini avrebbero spenta la gloria di Roma nella sua origine, se le spose, non malcontente de’ nuovi mariti, non fossero state mediatrici della pace, per la quale Tazio re de’ Sabini fu associato al comando con Romolo. Ma se questi non sofferse di avere in una il regno col fratello, molto meno si dolse che i Laviniesi uccidessero il collega Tazio, di lui malcontenti, perchè non vendicasse l’assassinio de’ loro ambasciatori spediti a Roma. Rimasto così egli solo, volendo deprimere anche il Senato, fu tolto di vita dai senatori profittando eglino di un turbine insorto mentre che Romolo arringava il popolo, spacciando dippoi ch’era salito al cielo, ed avere comandato che qual dio l’adorassero col nome di Quirino. Non so­spettò il popolo il recidio, e la superstizione lo collocò fra gli dei.[5]

Numa Pompilio tolto da’ boschi, bastevolmente avveduto per far credere che avea colloqui colla ninfa Egeria; Tullio Ostilio più feroce ancor di Romolo, al dir di Livio,[6] che gli Albani conquistò col famoso combattimento degli Orazi e dei Curiazi, e che Alba distrusse quattrocentoottantasette anni dopo la di lei fondazione; Anco Marzio che spinse le sue conquiste sino alla imboccatura del Tevere, ove fabbricò il porto d’Ostia: Tarquinio Prisco rinomato per gli suoi acquidotti, e per avere soggiogati gli Etrusci con nove anni di guerra; Servio Tullio politico superiore alla barbarie de’ suoi tempi; Tarquinio il Superbo da Roma cacciato per la violazione di Lucrezia, è la serie dei re successori di Romolo. Meritano d’essere tratti dalla folla Numa e Servio Tullio, che con mezzi differenti stabilirono il dispotismo.

Non è mal fondato sospetto che Numa avesse qualche coltura da’ Greci. Al dividere, com’egli fece, l’anno in dodici mesi alternativamente di ventinove e trenta giorni, quantunque lo ritrovasse mal diviso da Romolo, che avea confuso l’anno solare col lunare facendo d’entrambi un anno solo di trecentosessanta giorni,[7] ci può far pensare che non fosse del tutto barbaro. Si avvicina troppo alla verità questa scoperta astronomica per esser prodotta dal caso. La religione istessa, ch’ei fece sì bene servire alla politica, ebbe qualche cosa di più augusto, per modo che, per anni cento settanta dopo di lui, i Romani non adorarono simulacri.[8] L’instituzione del collegio de’ ponte­fici a lui devoti di cui fe’ capo il suo genero Numa Marco; gli auguri; i giorni fasti e nefasti, insensibili ed occulti ingegni della somma potenza, furon opera di quel re. Allora, al non mai ragionante popolo, colla veneranda maestà d’una falsa religione, celaronsi gli arcani di un indiretto dispotismo, e la guerra e la pace e le leggi dai prodigi, dal tuono, dal volo degli uccelli, dalle palpitanti viscere delle vittime ebber norma. Nulla in cui non s’interessino gli dei. Volle in un popolo facinoroso conservare il diritto di proprietà appena stabilito? Egli fa dei i termini de’ campi; il violarli diventa un orribile sacrilegio. Volle in una scostumata nazione introdurre la buona fede? Egli ne fa una dea, vi alza un tempio, e nessuna gente fu più inviolabile nelle promesse. Non si troverà un Romano che mancasse al giuramento per fidem meam. Volle far conquistatrice una truppa di fuorusciti? Egli fa discender dal cielo lo scudo Ancile e spaccia che la ninfa Egeria gli disse che avrebbe ottenuto l’impero del mondo quella nazione che lo custodisse. Quindi tutto in Roma è immortale. Eterno il Campidoglio; eterno il fuoco di Vesta, eterni i confini dell’impero. Scrisse Numa alcuni libri, ordinò che fosser con lui sepolti nella tomba. Furono dissotterrati a caso l’anno di Roma quattrocento. In essi spiegava le ragioni per le quali avea instituita la sua religione; erano cotanto puerili, che il Senato fece abbruciare que’ scritti[9] temendo qualche rivoluzione nelle opinioni.

Sorprese per altra via l’ignoranza degli uomini Servio Tullio, avveduto legislatore, che i pubblici comizi ridusse ad una pura apparenza di libertà. Ciò ottenne colla sua famosa divisione delle centurie, per la quale diede in mano de’ patrizi il governo, ed in tal guisa constituì nella nazione forse il più fatale d’ogni sistema, il dispotismo diviso fra molti, gelosi e deboli tiranni. Tito Livio[10] e Dionigi d’Alicarnasso[11] accuratamente ci spiegano quale arte adoperò in questa divisione. Di tutta la nazione fe’ primamente sei classi. Nella prima pose i più ricchi, poi di mano in mano i meno ricchi nelle altre, gettando nell’ultima tutta la plebe. Suddivise le classi in centurie. La prima in novantotto, la seconda in ventidue, la terza in venti, la quarta in ventidue, la quinta in trenta; l’ultima classe non fu suddivisa. Ella era una centuria sola. La comune di una centuria formava un suffragio, ond’erano tanti voti quante centurie. Tutte le centurie erano centonovantatre. La prima classe essendo divisa in novantotto, essa sola aveva tre voti più di tutte le altre insieme. Per lo che i comizi si terminavano quasi sempre nella prima classe; ben di rado si raccoglievano i suffragi sino alla quarta; le ultime due erano affatto inutili. I potenti adunque in tal sistema comandavano. Il volgo fu deluso, perchè gli uomini contentansi dell’esterno delle cose, gli usi ed i costumi venerando più in là non vibrano lo stupido sguardo, sicchè, lasciando intatte le parole, lor si tolgono le cose agevolmente.

A tal guisa due sagaci uomini furono obbediti da una barbara nazione, da un aggregato di masnadieri e di prigionieri, e parve che a tempo nascessero sì l’uno che l’altro. Poichè egli era d’uopo che Numa intimidisse l’umana ferocia collo spavento degli dei, e che quasi gli avesse per colleghi sul trono, per così preparare il luogo a Servio Tullio di esercitare una più fina politica. Nè per certo era saggio il re Tulio Ostilio, che, al dire di Plutarco, si burlava della religione instituita da Numa.

Rivolgiamo un momento gli sguardi sul cammino che abbiamo trascorso. Qual fosse il sistema di questa monarchia, che per anni duecentoquarantaquattro durò, ben ce lo prova il leggere come Romolo, Tulio Ostilio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo usurparono il regno coll’assassinio e colla frode, e che del pari furono tolti di vita per congiura, se ne eccettuate quest’ultimo che fu da Roma scacciato. Argomenti non deboli ch’era tirannico il governo, non potendo esservi tal successione di recidi in un sistema moderato.

Fa d’uopo che quella porzione d’Italia, che Romolo occupò, fosse del tutto priva d’abitatori, se ivi aperse asilo a’ malviventi, se donne non ebbe e le dovette rapire a’ vicini. Con altri mezzi adunque non susistè ne’ princìpi quel popolo, che saccheg­giando i contorni e le città confinanti, onde ritornare carichi di preda nelle mura. Da qui trassero origine i trionfi. Romolo il primo ne diede l’esempio offrendo le spoglie opime a Giove Feretrio, e Giove istesso era fatto dio tutelare del saccheggio essendovi un tempio dedicato Iovi praedatori. Quindi, se ne eccettuate il regno pacifico di Numa, tutti gli altri furono un seguito di guerre e zuffe figlie della necessità. Per questo un re non si sentiva obbligato ad osservare la pace stabilita dal suo antecessore. Dalla descrizione de’ cittadini Romani, fatta da Servio Tullio, risultò il loro numero di ottantaquattromila e settecento.[12] Da sì ristretta popolazione ben si vede perchè tante piccole e sanguinose tenzoni facessero co’ vicini senza dilatare considerabilmente i confini; onde ebbe a dir Varrone che in ducentoquarantaquattro anni di regno Roma manomise più di venti popoli, e non distese più di venti miglia il suo dominio. Perciò menavano una durissima vita per resistere continuamente a’ popoli più agguerriti che li circondavano. Quindi tutto spirava valore, ma valore feroce. Mezio Fuffezio ditta­tore degli Albani, squarciato vivo per avere tentato di sottrarsi alla dipendenza di Tulio Ostilio;[13] il vincitore Orazio che la sorella piangente la morte dello sposo trafigge impunemente; Lucio Tarquinio, che la moglie uccide e per isposare la di lei sorella la induce ad uccidere il proprio marito Oronte, contraendo dippoi le nozze più scelerate;[14] Tullia, che il padre Servio Tullio fa uccidere dai sicari e scorre sul di lei cadavere col cocchio quasi in trionfo; sono i tristi avvenimenti di questi barbari secoli della monarchia. Nissun esempio di virtù ritrovi che li ricompensi.

Niente più indegno di un re, l’uomo ch’esser dovrebbe il più giusto della nazione, quanto la maniera con cui Tarquinio il Superbo conquistò i Sabini. Fingendo egli di essere adirato col figlio Sesto, pubblicamente lo battè nel foro colle verghe e caricollo d’ingiurie; se ne fuggì Sesto a’ Sabini quasi sottraendosi alla tirannia del padre. Eglino, nulla sospettando della frode, lo fecero loro re. E così, asceso al trono, tolse di vita i principali di quella nazione loro imputando vari falsi delitti.

A questi tempi appartiene la scoperta dei libri attribuiti alla Sibilla Cumana. Una incognita donna li vendè al re Tarquinio, e furono aggiunti alla lunga schiera delle politiche imposture. Usossi consultarli ne’ più gravi affanni della Repubblica per ordine del Senato. Vi si trovava sempre ciò che faceva d’uopo: «Callide enim (dice Cicerone di que’ libri) qui illa composuit perfecit, ut quodcumque accidisset, praedictum videretur».[15]

Destossi finalmente il popolo da un lungo letargo, e s’accorse di sua schiavitù. L’attentato del figlio reale Sesto Tarquinio parve un sì gran delitto a’ Romani, che servì d’epoca alla libertà. Si scacciò la famiglia reale, e divenne esecrando il nome di re. L’unica immagine che rimase della monarchia fu il rex sacrorum o sagrificale. Tal nome avea un augure, il quale faceva i sagrifizi all’aprimento de’ comizi, nè avea alcuna sorta di magistratura.[16]

Questo fu un tempo di pericoli e di turbolenze ripieno, come lo è sempre quel­l’intervallo in cui ferve la mutazione del governo. Vidersi i tratti di quel furore popolare, che, difendendo ancor la buona causa, suole aver sempre qualche cosa di prepotente. Furono costretti i due primi consoli, Bruto e Collatino, a sacrificare al nuovo ardore di libertà l’uno i figli, l’altro i nipoti fautori degli esuli re. Bruto condannogli a morte ed assistette alla esecuzion della sentenza; Collatino, per non aver imitato un sì feroce eroismo, fu costretto a deporre il consolato ed i suoi nipoti furono dal popolo condannati a morte. Il console Valerio, di lui successore, avendo una casa più elevata del comune livello, venne obbligato ad abbassarla. Tanto temeasi ogni spirito d’ineguaglianza.

Fu appunto verso quel tempo in cui tale rivoluzione succedette,[17] che Pitagora venne in Italia. Malamente si disse ch’ei vi approdasse regnando Numa, e che fosse stato suo maestro. Livio e Dionigi d’Alicarnasso osservano esser questo un insigne anacronismo.[18] Pitagora si credea nativo dell’isola di Samo. Viaggiò nell’Egitto, dove lungo tempo dimorò; fu in Babilonia, nelle Indie, e finalmente venne da noi. Peregrinò in varie città d’Italia declamando da per tutto contro il lusso ed il libertinaggio. La sua voce fu ascoltata. Alcune città riformarono i costumi. Stabilissi di poi in Cortona, città vicina a Taranto. Ivi dimorò circa quarant’anni. Ebbe molti seguaci, e si pose a stabilire la sua setta. A tal fine si predicava un uomo celeste che avea scienza rivelata. Non mancò di esser preso in fallo. Alcuni lo credettero in appresso il profeta Eze­chiele.[19] Ebbe l’arte di spacciare non pochi miracoli e prestigi per autenticare le sue dottrine. È celebre, fra le altre di lui imposture, il nascondersi ch’ei fece in una grotta dicendo di poi ch’era stato all’inferno, e che ne ritornava.[20] Per convincere gl’increduli ch’egli era un demone, e non un uomo mortale, fece vedere che avea le cosce d’oro.[21] Non sappiamo che alcuno trovasse cattiva questa ragione. Mettendo da parte molti miracoli che i suoi seguaci gli attribuirono, bastevolmente ne rimangono per riporlo nella classe degl’impostori.

Fu avidamente accolta e coltivata la sua setta nella Magna Grecia, cioè in quella parte d’Italia che corrisponde all’incirca all’odierno Regno di Napoli, così detta perchè popolata da molte colonie greche, anticamente colà venute. Questa è la cagione per cui Italica la sua setta appellossi.

Qual fosse veramente la di lui dottrina non bene si sa, essendo la principal parte di essa un misterioso segreto. Pitagora non lasciò scritti, ed i settari di lui che scrissero il fecero con simboli, arcani e forme misteriose. Tale era lo spirito di minatore della sua setta. Viveano i pitagorici con beni e abitazione in comune, con regole e parcità di vitto quasi simili a quelle de’ monaci. Alla mattina e sera, fra le altre cose, aveano per legge di fare l’esame di conscienza. Questa conformità di vivere fra essi ed i monaci die’ campo, in un capitolo generale tenuto da’ carmelitani in Beziero verso la fine del secolo passato, ad illustrare terribilmente le antichità del loro instituto. Si sostenne che Pitagora era carmelitano, e che era stato priore nei conventi di Samos e Cortona.[22]

Quali erano le dottrine di Pitagora? Farebb’egli buona figura fra di noi chi spacciasse tutti i strani simboli numerici che formavano il capo principale della sua scienza? Che il numero dispari è quello della divina e masculina virtù, il pari femminile ed imperfetto; quello significare l’identità e la cospirazione dell’universo, questo l’eguaglianza e la ragione del divisibile e mutabile; la monade essere una quantità, che scemando la moltitudine privata di ogni numero si mette in riposo, e chiamasi mente, Dio, caos, ragione seminale; che il numero sei è perfetto, il sette venerabile, il dieci avere in sè tutte le ragioni numerabili ed armoniche, e così tante altre prodigiose cose che raccolse Platone nel suo Parmenide e nel Timeo, e che chiama idee, e che avrebbe potuto chiamar parole?

Delle cose naturali, che diceva Pitagora se non se uno inintelligibile impasto di simboli? I nomi delle voci e de’ tuoni avere ricevuto il loro nome da pianeti, i quali col girare facendo dolcissimo concento insegnarono agli uomini la musica, e Pitagora si vantava d’averlo udito; dalla unità e dal numero due indeterminato nascere le cose; il mondo essere cominciato dal fuoco e dal quinto elemento; essere animato, intelli­gente; l’aria morbida, immobile; il Sole, la Luna, le stelle dei; essere l’anima un numero che si muove in se stesso. Questi furono quegli arcani che esercitarono la erudizione di molti. Quanto si è scritto per ritrovare i più sublimi precetti della morale in que’ famosi detti pitagorici: astenersi da chi ha la coda negra; non tagliare il fuoco colla spada, nè i legni per la strada al lume della lucerna; non parlare di sapienza se non al chiaro; non doversi forbire con una torcia accesa ecc., il che ognun vede essere un ottimo precetto, e simili cose alle quali manca il buon senso, e ve l’hanno voluto imprestare taluni che forse non ne doveano essere cotanto generosi?

Che si volessero dire i Pitagorici con questi simboli misteriosi non si sa: s’eglino contenevano vera e grande filosofia, fa d’uopo confessare ch’essa non fu mai sì sconciamente vestita. Forse la ignoranza di questi simboli non è poi molto da com­piangersi. È difficile che uomini veramente ragionevoli si sottomettessero a quel noviziato per lo quale doveasi passare prima di essere ammesso alla rivelazione degli arcani. Si facevano digiunare i novizi per molto tempo; loro s’imponeva penitenza, vestire dimesso e lacero, dormire pochissimo. Tollerar doveano mille insulti fatti a bella posta per avvezzarli al disprezzo, alle riprensioni e vessazioni d’ogni sorte. Era loro comandato il silenzio di due, tre, sino a cinque anni continui, nello spazio de’ quali non dovevano che ascoltare. Qual uomo di buon senso avrebbe avuta la docilità veramente inimitabile di fare cotal noviziato da capuccino e certosino col pericolo di ritrovare poi alla fine di tanti incomodi qualche impostura? È difficile ch’abbia questa ignorante pazienza un uomo di merito. Al certo si può affermare che Neuton e Montesquieu non l’avrebbero avuta. Un uomo che arrivava all’avvilimento di abbandonarsi ciecamente a persone che gli dicevano avere gran misteri da rivelargli, se resisteva al noviziato, avea provato di essere un imbecille curioso a cui, se v’erano delle verità importanti e contrarie alle opinioni ricevute, non doveansi in conto alcuno confidare.

Alcuni sospettarono che questi arcani in altro non consistessero (come ancora quegli degli Egizi ed altri) che in dare una più sublime idea dell’essere creatore, e fossero una sorte di deismo, onde venisse a rivelarsi l’impostura della volgare religione. Ma se i Pitagorici ed altri tali settari, de’ quali molti n’ebbe l’antichità, avean gran dottrine, egli è ben difficile che si sottoponessero ad una vita squallida e dura quale era quella che menavano. Oltredichè fu osservato che tal razza di uomini non si dà molta briga di far proseliti. La stampa, quel flagello d’ogni mistero, e qualche sper­giuro ha fatto conoscere a che si riducesse il preteso arcano de’ franchi muratori, cui l’oscurità dava tanta importanza. Forse altro non mancava che lo stesso mezzo per far vedere che quelle sette antiche aveano di comune con questa, non che il mistero ed i simboli, anche la futilità.

La morale però de’ pitagorici era purissima: è stato filosoficamente osservato che nessuna setta n’ebbe di cattiva. Non sussiste società se le passioni private non cedono al comune interesse. Quest’è il cardine della buona morale. Il predicarne una diversa è lo stesso che il non avere ascoltatori. Vi si aggiungeva una buona dose di ascetica, a cui erano dati per professione. Lo spogliarsi delle passioni, il distaccarsi collo spirito di contemplazione dall’ingombro del corpo erano i loro princìpi favoriti. Chi arrivava, dicevan’eglino, a questa cognizione intuitiva di Dio, che credevano l’anima del mon­do, non si stupiva più di nulla. Quest’è ciò ch’esprimevano col motto: Nil admirari.

Delle arcane dottrine di quella setta si può adunque dire ciò che degli uomini misteriosi: non meritano la fatica di essere conosciuti. Una società di uomini ragionevoli non ha fanatismo, non fa strepito, ama la tranquillità, non fa scene, non ha simboli, non arcani, non stranezze di costumi, non cerca di fare solenne società, coltiva in pace il vero, senza digiuni, noviziato, prove, musica, prestigi, falsi miracoli. La vera filosofia teme, e non cerca l’entusiasmo. Pitagora usava dei cibi artefatti per accendersi d’or­gasmo ascetico, e questo era lo spirito del suo instituto. Forse erano i pitagorici ingannati, forse volevano ingannare, imporre al popolo, acquistarsi distinzioni; forse tutte queste cose insieme. L’orgoglio è il prezzo delle umane passioni, ed il più raffinato di tutti è quello di coloro che fanno professione pubblica di non averne. I cinici ne forniscono un esempio.

Che se Pitagora ritrovò la semplice proposizione che il quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo è eguale alla somma de’ quadrati de’ due lati opposti, se disse essere la Terra rotonda, esservi gli antipodi, esser obliqua la sfera, la Luna ricevere la luce dal Sole, mischiò queste verità con molte chimere, nè esse aveano bisogno di tanto mistero e del corredo di tante buffonerie, di digiuni, di astinenza dalle carni, dal vino, e di vivere da monaco per essere sapute. Oltredichè elleno lasciano il buon senso dove lo trovano.

La novità dell’instituto, la quantità de’ seguaci che correvano in gran folla, eccitò ben presto la persecuzione. Fu quasi estinta quella setta appena nata. Si abbruciarono le case a’ nuovi settari, se ne uccisero alcuni, molti in esilio furono scacciati, e tutti dispersi. I Romani, benchè non accettassero nè le dottrine, nè i costumi pitagorici, ebbero venerazione a Pitagora come ad un uomo che avesse insegnate cose grandi della divinità. Nel tempo della guerra sannitica gli fu alzata una statua ne’ comizi.

[Vedrai in Livio lib. quinto che nell’anno di Roma 362 all’assedio della città di Vei, per la prima volta si usò da’ Romani il porre il campo d’inverno con la parucche, sendo sempre per lo addietro riposo nel verno. Di che fecero querele i tribuni quasi fosse [†††] la plebe nelle guerre perpetuamente. Lo che nell’epitome di quel libro si accenna come segue: «Ea obsidione Veiorum hibernacula militibus fuit et sunt. Ea res quum esset nova indignationem tribunorum plebis movit querentium secondari plebi nec per hiemem? nilitiae requiem». Più largamente nel testo.]

Capo II. Inutili sforzi di Tarquinio per ritornare in Roma. Discordie fra i patrizi ed i plebei. Dispotismo de’ decemviri. Venuta de’ Galli. Guerre co’ popoli della Magna Grecia sino alla totale conquista d’Italia.

L’esule Tarquinio mosse contro di Roma Porsenna re degli Etrusci, i Sabini e le città latine. I memorandi esempli di virtù, che altro non è che l’utile comune, allora sfoggiarono. Orazio Coclite, Mucio Scevola e per fino il sesso imbelle di Clelia, tutti dal nuovo vigore di libertà animati, fero attonite le genti. Son domi i nemici dallo stupore di tanta virtù. Valerio Pubblicola, benchè console, morì cotanto povero che i funerali furongli fatti a pubbliche spese. Gran prova che il governo era repubblicano. Altro non dubbio segno che Roma era patria, e patria amata da suoi cittadini, in che consiste il sentimento di libertà, fu l’aver data licenza con un senato consulto alle donne latine sposate a’ Romani ed alle romane sposate ai Latini di ritornare ciascuna alle case loro, e l’esser le latine rimaste a Roma e le romane spose de’ Latini alla patria ritornate.[23] Allora a capo di soldati che pugnavano per il proprio, non per l’altrui utile, puotè il dittatore Postumio uccidere e far prigionieri trentamila Latini al lago Regillo. Prima memorabil vittoria de’ Romani, ed ultima sconfitta del partito reale.

Ma questo breve intervallo più d’indipendenza che di libertà non molto durò, giacchè cominciarono le funeste discordie fra i patrizi ed i plebei. Queste nacquero dalla tirannia de’ creditori, tirannia stabilita dalle leggi. Il creditore, dopo varie inti­mazioni di pagare al suo debitore, lo riduceva in ischiavitù, e lo poteva uccidere se lo voleva. Qualora più creditori agivano contro un solo debitore insolubile era loro permesso di tagliarlo in pezzi, e di proporzionatamente dividerselo. Il che, quan­tunque non si ritrovi mai usato, ciò non ostante basta che far si potesse perchè fosse tirannico il sistema. Il dispotismo non tanto consiste in ciò che si fa, quanto in ciò che si può fare. Quando i patrizi in questi tempi sollicitavano la plebe a prendere le armi avea ragione di rispondere: «Provino i patrizi i danni della guerra, giacchè essi soli godono il frutto di nostre vittorie. Esporre noi le nostre vite perchè l’inimico non venga a distruggere le nostre prigioni, ed a rompere le nostre catene?». Quest’era la libertà di quella nazione che avea combattuto al lago Regillo. Crebbero a segno le discordie che i plebei non solo ricusarono di far guerra, ma ritiraronsi nel Monte Sacro tre miglia distante da Roma, dopo la metà del secolo terzo.[24] Se le lunghe declamazioni, riferite da Dionigi d’Alicarnasso come se vi fosse stato presente, sono credibili, così rispondevano i plebei ai patrizi che gl’invitavano a ritornare in Roma: «Con qual animo richiamate voi quegl’istessi che avete scacciati dalla patria, e che da liberi faceste servi? Con qual fede terrete voi le promesse, voi che tante volte le avete mancate? E poichè volete voi soli esser cittadini, andatevene, che’ non più la misera e bassa plebe vi recherà molestia. Quanto a noi, saremo contenti di quel paese nel quale potremo conservare la nostra libertà, e quello, ovunque egli sia, chiameremo patria nostra».[25] Se queste non erano le parole precise della plebe in quella occasione, erano del certo i sentimenti. Menenio Agrippa col famoso apologo dello stomaco e de’ membri, ma per certo ancor più con accordare l’abolizione de’ debiti, ed i tribuni, ricondusse la plebe in Roma. Coriolano, volendo abolire il nuovo tribunale del popolo, dignità che sacrosanta appellossi e fu, venne condannato all’esilio. Prima volta in cui il popolo avesse facoltà di giudicare i patrizi.[26] L’esule Coriolano collegossi co’ Volsci, e ridusse la patria a chiedergli perdono benchè ribelle. Roma era tutta in fermento per gl’incerti limiti dell’autorità del popolo. Questo era già fatto un vizio di costituzione. I patrizi, perchè il volgo dimenticasse i suoi diritti, lo impegnavano in guerre più che potevano. Le dissensioni civili aprivano il campo a sempre veglianti nemici, ond’era circondata Roma, di sorprenderla nel seno delle discordie, la necessità di difendersi le sedava; e così a vicenda le gare civili erano cagione di guerra, e la guerra sospendeva le gare civili: ma queste due cose non potevano mai cessare. Se Roma non fosse stata sempre vessata da nazioni che le stavano d’intorno, non essendovi nissuna diversione all’intestino contendere, sarebbesi tosto deciso il suo destino. O vera repubblica, o dispotismo. Il moto era troppo violento per non andare agli estremi, e tutte le genti forse vi andrebbero in breve se fossero isolate.

Pure ciò non arrestava la gloria di Roma. I trecentosei Fabi s’incaricarono essi soli della guerra contro de’ Vei, e tutti s’immolarono alla patria rendendo celebre il castello di Cremera; e Cincinnato, tolto dall’aratro, fatto dittatore contro degli Equi, gli fe’ passare sotto il giogo, trionfò, e ritornò a suoi campi, tutto ciò in sedici giorni.[27]

Al principio del quarto secolo ai Romani abbisognarono leggi. Eglino furono nostri legislatori, non lo seppero essere di loro stessi. Mandarono a mendicare la greca sapienza. Funesta fu tal spedizione, poichè i decemviri, a capo de’ quali era Appio Claudio, destinati a raccogliere e promulgare la nuova legislazione, s’eressero in tiranni della Repubblica. Queste sono quelle leggi dette delle dodici Tavole. Ritirossi la plebe di nuovo nel Monte Sacro lasciando la quasi vota città in preda della tirannia. Rovinò ella anche questa volta per avere tentato Appio Claudio uno di que’ delitti che non furono mai tollerati da’ Romani. Si fu questo la violazione della figlia di Virginio. Esso e lo sposo della figlia furono creati tribuni, e vendicarono la privata e la pubblica libertà. Sembra che vada sempre del pari in questa Repubblica qualche gran lampo di virtù col risorgimento della libertà. Il tempo delle rivoluzioni è quello de’ grandi vizi e delle grandi azioni. Il dittatore Camillo ricusò i figli del re di Falisco che il pedante colla frode gli esibì prigionieri; anzi fu consegnato il traditore ai giovanetti perchè lo punissero. Dieronsi per tanta probità i Falisci ai Romani.

Ma la probità di Camillo non era quella della Repubblica. Gli Aricini e gli Ardeati, popoli confinanti, avendo fra di loro una controversia per un campo limitrofo, ne fecero giudici i Romani. Eglino finirono la questione col usurparselo. Qualche anno dopo, trecentocinquantotto prigionieri tarquiniesi de’ più riguardevoli frustrati nel foro furono uccisi. E prima nella guerra[28] co’ Volsci il console Appio fece tagliare il capo a trecento ostaggi di quella nazione ch’erano in Roma.[29] La guerra de’ Romani era una distrazione. Aveano quell’istesso diritto delle genti che ultimamente fece tanto orrore nel Messico.

L’anno 421 centosettanta matrone romane congiurarono di avvelenare i loro mariti. Scoperto l’attentato, furono costrette a bevere il preparato veleno.[30] Mesco­lanza ammirabile di grandezza e di crudeltà, che fu sempre il carattere di quella nazione.

S’acchetarono le non mai spente dissensioni civili, per resistere al torrente de’ Galli Senoni, popoli che abitavano quel paese che sta fra Parigi e Meaux. Questa nazione, regnando Tarquinio Prisco, scese giù in Italia condotta da Beloveso, figlio del re de’ Celti Ambigato. Scacciati gli Etrusci dall’Insubria, vi fondò la città di Milano occupando quel tratto di Paese che è tra l’Alpi e ’l Po, e Gallia Cisalpina chiamossi. Di mano in mano poi altre colonie di Galli Celti vennero in Italia, occupando a presso a poco que’ contorni; e ben quattro spedizioni se ne ritrovano prima della presente, nella quale, condotti da Brenno lor generale, Roma assediarono, distrussero. Scarsamente parlano le storie di questa emigrazione, nella quale, dopo l’urto che diedero a Romani, si diffusero nella Panonia, Grecia, ed Asia sino al monte Tauro ed ai confini della Siria. Finirono col fondare il regno di Gallogrecia, ossia Gallia.

La scelta del popolo romano si racchiuse nel Campidoglio. Sarebbe perita la gloria di Roma, se alcune oche non avessero una notte avvertito col loro canto Manlio, il difensore di quella rocca, che i Galli lo sorprendevano. Con quanto gracili anelli sono talvolta legati i più grandi avvenimenti! Non fu così grande la gratitudine che s’ebbe per chi salvò la patria, come per questi animali. Furono in seguito alimentati a pubbliche spese, e solevasi per fino condurre un’oca su di una specie di carro trionfale. I cani per non avere abbaiato in quella occasione vennero cotanto odiati che se ne impalava uno periodicamente ogni anno.[31] Manlio, a cui tanto dovea Roma, illustre per tre consolati e due trionfi, fu gettato dal Campidoglio istesso, miseramente sfran­tumato alle falde di quel colle, monumento di sua gloria e suo supplicio. Fu egli accusato di cattivarsi l’aura del volgo per farsi re. Il suo delitto era di esser popolare in un governo aristocratico. Il gran Camillo, il più necessario de’ Romani, era in esilio involontario perchè ingiustamente accusato dal popolo. Fu richiamato per difenderlo. Tacque la vendetta in faccia della gloria. I Galli sconfisse con una vittoria che fu chiamata un macello più che una battaglia; di poi l’armi rivolse contro de’ Volsci; guerra inestinguibile in raccontar la quale Livio istesso teme di annoiare il lettore[32] e lo teme poco.

Giacchè seguiamo le tracce dell’armi romane, giovi osservare che l’anno 410 ebbe principio una guerra, di cui la più importante non ebbero i Romani coi popoli d’Italia. Per settantadue anni durò, di trentuno trionfi fu il soggetto. Si fu questa coi Sanniti, popolo potente e colto, come quasi tutta la Magna Grecia lo era, mentre che i Romani si poteano dir barbari. E pure di que’ popoli altro non ne sappiamo, che quanto scrissero di loro i romani storici, cioè poco più che il nome de’ Campani e Tarentini, popoli incolpati di essere dati al lusso, il che prova ch’erano colti; de’ Lucani ed Apuli, nulla parlano i romani scrittori, prima del quinto secolo di Roma, e là dove la storia di quella Repubblica fu compilata riascendendo sino a tempi favolosi, ed a noi giunse; quella di tali nazioni, che sarebbe, per avventura, più degna di sapersi, giace nascosta nelle tenebre dell’antichità. L’armi di Roma giunte in quelle regioni vi portarono la loro ferocia: parve che le conquistassero per desolarle. I popoli della Magna Grecia erano molto più colti prima di esser conquistati dai Romani; gli Etrusci sono ripresi da Dionigi di esser stati delicati, sontuosi e molli. Dopo che fu conquistata l’Italia da’ Romani vi troviamo tutt’altri costumi. Lungo sarebbe il tessere la noiosa cronaca di leghe, paci e guerre coi popoli della Magna Grecia, coi Galli e per fine in ogni canto d’Italia. Ciò che forse fia più utile da osservare è che al principio di questo secolo troviamo esempi atroci di durissima, militar disciplina che giammai non vi furono nella romana nazione di poi. Allora il console Manlio Torquato rinnovò il tristo esempio di Bruto, e fece uccidere il figlio perchè avesse combattuto coi Latini senza averne avuto ordine, nè il ritornare da loro vittorioso, e di spoglie carico, il tolse a sì rigida sentenza. Allora il di lui collega Decio, perchè i soldati cedevano all’urto degli stessi Latini, s’immolò a’ dei d’Averno, e il suo figlio, Decio pure detto, fece altrettanto combat­tendo coi Sanniti. Come gareggiare altrimenti coi Privenati in vista, il di cui ambascia­tore interrogato in Senato qual pena credesse che meritassero i suoi, «Quella», rispose, «che meritano coloro i quali si credono degni di libertà»;[33] come resistere ai valorosi Sanniti, che emulando la generosità de’ Romani non vollero accettare la spontanea schiavitù del console Postumio, e degli altri ufficiali che al famoso passo delle Forche Caudine aveano vergognosamente subito il giogo, se non avesse avuto Roma un console qual Curio Dentato che si burlò dell’oro offertogli da quella nazione, dicendo che grande impresa non gli sembrava possedere dell’oro, ma bensì comandare a chi lo possedeva?[34]

Con tale spirito di ostinato eroismo furono pure vendicate le ingiurie fatte da’ Tarentini all’ambasciatore romano. Quel popolo imbecille e ridicolo ritrovò cotanto ridicoli i Romani che accolse fra le fischiate e le risa un loro ambasciatore, e per fino un buffone gli pisciò sulla vesta, mentre ch’esponeva la sua ambasciata. Il console Emilio spedito a dar migliore opinione del popolo romano ricusò il soccorso che i Cartaginesi gli offrivano, lor dando in risposta che: «Roma faceva guerra co’ suoi, non cogli altrui soldati»; e, se pur furono i Romani sconfitti in quella guerra nelle prime azioni dagli elefanti e dalla cavalleria tessalica di Pirro re dell’Epiro venuto a difendere i Tarentini, dovette quel re ammirare i vinti, e vedendo i cadaveri de’ Romani carichi di ferite caduti colla faccia rivolta all’inimico, «Oh quanto facile sarebbe stato, diss’egli, il conquistare l’universo se io comandassi a’ Romani!». Quindi spedì a chieder loro pace l’ambasciatore Cinca. Egli, entrando in Senato, disse che gli sembrava un con­sesso di re. I doni e le preghiere di lui non ottennero pace da benchè vinti, ed il medico del re esibendosi d’avvelenarlo se ben fosse pagata la sua perfidia, fu sdegnata tale offerta da’ Romani, ed il re stesso avvisarono che «Si guardasse dalle insidie, distin­guesse gli amici dagli inimici». Quella guerra durò anni sei. Finì col condurre per la prima volta Tessali, Epiroti e Macedoni avvinti al carro di Curio Dentato.

Nulla di più grande per fine di queste guerre lunghe ed ostinate che terminarono colla conquista d’Italia, opera di cinque secoli. Sembra veramente che una militare disciplina come quella de’ Romani, una serie di uomini formati ad una robusta virtù, dovesse produrre un più grande effetto in tempo sì lungo. Ma, se non sono coraggiose le congetture sui fatti lontani, forse un motivo che ritardò i progressi delle armi romane fu il terreno istesso di questa penisola dagli erti monti dell’Appennino diviso, ed allora, più nella Grecia e nell’Asia stesero rapidamente le conquiste i Romanei, di poi non poteano aver per sudditi i vicini abitatori della Liguria, e di altri montuosi e difficili paesi. I Liguri fra gli altri furon messi ad abitare la pianura non vi essendo altro mezzo di contenerli stabilmente. Le montagne furono sempre e dovunque i migliori garanti del diritto delle genti.

Intanto le gare fra i patrizi ed i plebei, quantunque fossero più sedizioni che dispute, non impedivano il progresso delle conquiste. Diede motivo ad un nuovo fermento degli animi la non mai tolta crudeltà de’ creditori. Il popolo ricorse al solito mezzo. Ritirossi per la terza volta nel monte Giannicolo. Ottenne la liberazione dei debiti, e tutto ciò che seppe dimandare. Il dittatore Q. Ortensio non puotè negar nulla alla plebe. Può stabilirsi a quest’epoca la di lei libertà. Ella fu tranquilla sotto la tutela delle leggi sino a tempi de’ Gracchi, cioè per più di un secolo e mezzo. Poi abusò delle leggi, si corruppe, e fu serva.

Capo IIIDella credibilità dell’antica storia romana.

Chi compila e non dubita scrivendo la storia, la comporrà ben più di ciò che si disse che di ciò che si fece. Quella che ho scritta, sia ella degna o no del nome d’istoria, è sempre una parte di erudizione che non puossi ignorare da chi si pregi di sapere le cose romane. Ora giovi gettarci nel seno dell’antichità con quel libero spirito di fredda discussione a cui, se in ogni cosa umana ha diritto la ragione, molto più dove si tratti degli antichi annali, soggetto di venerazione per li molti e di dubbio per li pochi in tutte le nazioni, a quegli il dirsi e il ridirsi delle cose e la sacra nebbia della venerata antichità accrescendo la credenza, come a questi scemandola.

Qualche secolo di mitologia, che però ha un fondo di verità, è un tributo che pagarono tutte le nazioni. I non ancor conosciuti fenomeni della natura estorsero i primi gemiti e fecero risonare di strida inascoltate le vaste solitudini; quindi l’errore, il falso spavento accompagnarono l’imbecille infanzia delle genti, come quella degli uomini. Per questo le nazioni si fabbricarono falsi dei, l’ira de’ quali placasse il sangue delle vittime anche umane, e la benevolenza v’acquistassero i doni, loro attribuendo le proprie passioni. Potenze celesti eziandio non malevole, non irate ma protettrici, e che particolar cura avessero della nazione, la scaltrezza d’alcuno o l’orgoglio umano, che tiene di sè occupata tutta la natura, inventò; lusinga dolcissima, facilmente ascol­tata. Profittarono i primi re degli errori della moltitudine; amici, ministri, collocutori delle divinità si predicarono, che se uomini soltanto come gli altri si fosser detti non sarebbero stati creduti. Ma allorchè i lenti tentami della industria, dopo un lungo intervallo di barbari secoli, colsero l’arte di eternare la memoria delle passate cose, quale ammasso di errori non si offrì al primo scrittore credulo e barbaro, di una credula e barbara nazione? Vediamo se l’antica istoria romana sia esente da questi mali.

I più antichi scrittori delle romane cose furono i due greci Geronimo Cardiano e Timeo, ed i due latini Q. Fabio e Cencio.[35] Ma tutti questi storici egli è certo che furono posteriori alle guerre di Pirro in Italia, e perciò viventi cinque secoli dopo la fonda­zione di Roma. Avvegnachè Gironimo scrisse la storia dell’assedio di Sparta fatto dallo stesso Pirro,[36] il che viene a cadere verso l’anno di Roma 480; quanto a Timeo, fu a Geronimo posteriore,[37] e Fabio e Cencio a tutti due que’ greci posteriori si fanno da Livio.[38] Da questi fatti è d’uopo conchiudere non esservi scrittori contemporanei de’ primi cinque secoli di Roma. E come ritrovarne in una nazione barbara ancora a segno di non avere altro mezzo di segnare la cronologia degli anni che il ficcare nel tempio di Minerva de’ chiodi, poco o nulla conoscendo in que’ tempi l’arte della scrittura?[39]

Que’ scrittori, lungi dal meritar fede ne’ fatti accaduti più secoli prima di loro, poca ne ottennero in quegli attribuiti al loro tempo. Polibio[40] considera Timeo per istorico poco degno di fede anche nelle cose de’ suoi tempi, accusandolo d’averle alterate per malignità, ed accusa Fabio d’avere di troppo esaltate e riempiute di fole le romane istorie per spiritò di patriotismo.[41] Dionigi d’Alicarnasso, il più sagace e paziente erudito delle antichità romane, è di quel parere di cui esser dovrebbero tutti gli uomini ragionevoli, cioè avere quegli istorici raccolte tutte le voci del volgo, e le sue false tradizioni. «Ciascuno di loro», ei dice, «scrisse degli opuscoli senza accura­tezza, seguendo le varie dicerie»,[42] e particolarmente de’ Romani: «Appo loro non v’è alcuno scrittore antico, ma quegli ch’essi ebbero, raccolsero le antiche tradizioni e le memorie registrate nelle sacre tavole»;[43] e queste sono chiamate da Livio e da Plutarco documenti apocrifi.

Tito Livio, quantunque per lo meno tanto superstizioso e credulo quanto detta­gliato e grave, paragona la storia de’ primi secoli di Roma ad un oggetto lontanissimo a cui l’occhio non giunge.[44] Plutarco dice,[45] non merita quella storia di essere discussa, perchè troppo incerta. La mancanza di memorie fedeli la rende totalmente oscura e dubbiosa. Il partito adunque più ragionevole che possiamo prendere è d’esser del parere de’ più accreditati scrittori delle cose romane.

Quale storia si presentava a’ cronisti del secolo quinto di Roma? Era tradizione comune, autenticata dagli annali de’ pontefici, che Remo, figlio di Enea[46] e fratello di Ascanio e di Romolo, avesse fabbricate quattro città, Roma, Eneade, Anchise e Capua. Zenagora scrisse che Remo era figlio di Ulisse e di Circe, ch’ebbe due fratelli, Anzio e Ardea, che fondò Roma, e gli altri le città del lor nome. Aristotile il filosofo, Cefalone antichissimo scrittore, Demagora, Agatillo, e molti altri asserirono Roma essere stata fabbricata da’ Greci che ritornarono dopo la guerra di Troia, e che furono gettati da una tempesta sulle coste d’Italia. Altri, per lo contrario, dicevano che Roma fosse stata edificata prima della guerra troiana. Lo storico delle sacerdotesse di Argo, e Dimaste da Sigea con altri non pochi, attribuirono la fondazione di questa città ad Enea, e che le avesse dato il nome di Roma vergine troiana. Altri per fine, più comunemente creduti, pongono Romolo quattro secoli dopo di Enea capo della stirpe dei re d’Alba, lo dicono figlio di Marte e semidio, come non si poteva far di meno. E tante sono le differenti origini che si assegnarono a quella città, che Dionigi d’Alicarnasso dopo di averne riferite molte, dice di passare le altre dicerie sotto silenzio temendo di non sembrare troppo verboso. Tosto si affaccia la prodigiosa lunghezza de’ regni, ossia la aperta confusione della cronologia dei re di Roma. Sono senza esempio i regni succes­sivi di trentasette anni come quello di Romolo, di quarantatre di Numa, trentadue di Ostilio, ventiquattro di Anco Marzio, trentotto di Tarquinio Prisco, quarantaquattro di Servio Tullio; Tarquinio il Superbo si fa vivere novant’anni. La stessa incredibile lunghezza de’ regni si trova nella serie de’ re d’Alba. Ascanio dopo Enea regnò anni trentotto, poi Silvio ventinove, poi suo figlio Enea secondo trentuno, poi Latino cinquantuno, poi Alba trentanove.[47] Neuton ha calcolato che un regno per adeguato dura venti anni. A questa affatto incredibile cronologia tengono dietro i prodigi. L’augure Azio Nevio a’ tempi di Tarquinio Prisco avea tagliata una pietra con un rasoio in faccia a tutto il popolo, e presso il Senato v’era la di lui statua a’ piedi di cui si conservava per memoria del portento la pietra ed il rasoio.[48] A’ tempi ancora di Cicerone era una di quelle verità che si dicono all’orecchio fra di loro i ragionevoli che fosse impostura fatto prodigio. «Riguardate con disprezzo il rasoio, ed il sasso del famoso Azio», diceva Cicerone al suo fratello Quinto,[49] «quando si ragiona da filosofo non bisogna avere alcun rispetto per le favole». Castore e Polluce aveano combattuto per la gloria di Roma al lago Regillo; ciò era cotanto creduto che si mostrava il vestigio del piede del cavallo di Castore.[50] Che Romolo e Remo fossero stati allattati da una lupa non se ne dubitava, e per fino a’ tempi di Tacito e di Plinio susisteva la pianta di fichi sotto della quale ciò era avvenuto.[51] Le vergini vestali pretendevano di avere elleno il vero Palladio nel tempio di Vesta, eppure Luceria e molte altre città si vantavano anch’esse di possederlo. Il Campidoglio aveva una prodigiosa origine. Si era trovato nello scavarne i fondamenti un teschio appena reciso, ed ancor grondante di sangue, presagio sicuro che Roma sarebbe stata capo dell’I­talia.[52] Il più sicuro presagio era il crederlo. Gli dei di Lavinio, trasportati ad Alba, ritornarono da loro stessi a Lavinio. Questi erano chiamati da’ Romani i dei penati.[53] Prodigiosa è la maniera in cui o l’errore o la vanità corruppeva il racconto della guerra co’ Galli. Livio, Plutarco, Floro, Aurelio Vittore, tutti si uniscono in dire che, dopo esser stati i Romani assediati per lungo tempo nel Campidoglio, si risolsero a far pace coi Galli mediante grossa somma di danaro. Tutto era conchiuso e si stavavi pesando le monete. Successe qualche alterco, perchè i Galli voleano che si pesasse il pattuito danaro su di una falsa bilancia ch’essi esebivano, ed i Romani vi si opponevano. Sopragiunse Camillo, disciolse questo vil trattato, e sconfisse talmente i Galli, che non rimase al dir di Livio[54] «chi potesse narrare questa strage». Pure da Polibio, scrittore più esatto e più antico, che non avrebbe nè ignorata, nè taciuta questa gloriosissima vittoria de’ Romani, da Trogo Pompeo, e dalle memorie della famiglia Livia si ricava[55] come dopo avere i Galli presa tutta Roma fuorchè il Campidoglio, sapendo che i Veneti aveano fatta una irruzione ne’ loro paesi, accettarono il danaro che in prezzo della pace loro offersero i Romani, e se n’andarono carichi di ricchezze senza più spargere una goccia di sangue.

Pullulano da tutte le parti le contraddizioni fra gli scrittori, intorno i fatti più importanti. I trecento Fabi uccisi alla giornata di Cremera sono attestati da Livio, da Ovidio, da Aurelio Vittore, da Festo e da Valerio Massimo. Dionigi d’Alicarnasso mette questo avvenimento fra le favole. Sono piene le storie della volontaria schiavitù di Regolo e della crudel sua morte. Polibio, autore contemporaneo, non ne dice una parola. Dopo un impasto di tante contraddizioni circa i più grandi fatti, dopo una congerie di tanti prodigi, quale critica ci è rimasta per segregare il vero dal falso, a noi che siamo distanti più di venti secoli?

Sembra che vi sia un’antichissima tradizione, che forma la storia di molte nazioni. Forse le une delle altre furono colonie ed emigrazioni. Il moltiplicarsi del genere umano, i terremoti, le inondazioni, soggetti delle querele dell’antichità, saranno state cagioni di questi rigurgiti. Gli Ebrei, gli Egizi, i Persiani, i Greci hanno molte cose comuni ne’ loro annali più antichi. I Romani inserirono buona parte della greca mitologia ne’ loro annali; qualche fatto hanno pure che in altre storie si ritrova. Romolo, tradito dal suo zio Numitore per usurpargli il trono, somiglia molto a quanto dice Giustino di Ciro. Il di lui avo Astiage re de’ Medi avea dato ordine che si uccidesse appena nato. Non fu eseguito il comando: fu esposto in un bosco, dove fu ritrovato ch’era allattato da una cagna, come Romolo lo era stato da una lupa; fu educato da’ pastori. Vendicossi finalmente dell’avo Astiage, ed ebbe il regno.[56] Romolo ebbe appresso a poco le stesse avventure. Molti altri eroi si dissero allattati dalle bestie. Il re Albis lo fu da una cerva, Esculapio da una capra.[57] Romolo fondò la sua città aprendo asilo. Così Cadmo avea fatto fondando Tebe, così Ercole in Atene.

Ma le vicende di Romolo e di Remo si ritrovano anche più chiaramente nella greca storia. Filomene figlia di Nitti ch’ebbe da Marte due gemelli, che furono gittati nel fiume Erimanto, da una lupa allattati, accolti da un arcade pastore, educati da lui[58] sono perfettamente avventure eguali a quelle che di Romolo e Remo scrivono i Ro­mani. Quest’istesso Romolo ucciso da’ senatori e fatto dio, veduto salire al cielo per aquietare il popolo, non è egli Pisistrato re d’Ocomeno che fu assassinato da’ Primati, e per nascondere il reccidio si spacciò che, asceso il monte Pisco, s’era colà trasformato in un dio?[59] La vergine Tarpea, che aveva introdotti in Roma i Sanniti col patto che le dessero gli ornamenti che avevano nella mano sinistra, intendendosi i braccialetti, e che poi col gettarle addosso i loro scudi che in tal mano tenevano la soffocarono sotto di essi, non è ella Demonica che promise a Brenno re dei Galli di aprirgli una porta di Efeso, e che, conquistata la città da quel re, venne sepolta nell’oro e nell’ar­gento? Il celebre combattimento degli Orazi e Curiazi, se ne cangiate i nomi, non è egli l’istesso, colle più minute circostanze, di quello de’ Fageati e Feneati, due popoli che facendo guerra ne rimisero la decisione a tre fratelli gemelli ch’erano in ciascuna delle armate? In questo combattimento due fratelli Fageati caddero morti, e i tre Feneati erano feriti; il superstite Fageate, Critolao, finse di fuggire, ed in tal guisa, dissipando i tre feriti che ad ineguali distanze lo inseguivano, tutti l’un dopo l’altro uccise. Critolao ritornato a’ suoi, fra gli applausi incontrò una sorella che piangeva la morte di Demonico, uno de’ Feneati a lei promesso in isposo. Critolao trovando importune queste doglianze uccise la sorella. Fu accusato di omicidio da sua madre, e portata la causa al popolo fu assoluto.[60] Nissuna differenza si ritrova col fatto degli Orazi e Curiazi.

Muzio Scevola, che tenta di uccidere il re Porsenna, che sbaglia il colpo e mette la mano nel fuoco, non è egli Agesilao ateniese, che tenta di uccidere Serse, e che avendo fallato il colpo, preso, e condotto avanti quel re, mise la mano nel fuoco di un’ara ivi preparata al sacrificio, e, come disse Mudo al re toscano, dice anch’egli a Serse: «Altrettanto farebbe ogni Ateniese. Se non mi credi porrò anche la sinistra nel fuoco»?[61]

Curzio, che si getta nella voragine, è egli un altro che Ancuro principe frigiano? Apertasi in Celene una voragine, e l’oracolo avendo detto che bisognava gittarvi ciò che v’era di più prezioso, egli, vestito ed armato come se avesse a combattere, vi si rovesciò a cavallo; dopo di che la caverna si chiuse.[62] Di Curzio si dice lo stesso; ed era circondato in Roma di mura quel sito dove ci s’era rovesciato nella caverna per memoria del fatto. Tarquinio che taglia la testa ai papaveri, non è egli Trasibato tiranno di Mileto che abbatteva col bastone le spiche più alte in presenza degli ambasciatori di Periandro consigliandoli con tale emblema di togliere di mezzo i più potenti cittadini di Corinto?[63]

V’era in Roma un tempio dal quale era tradizione che Ercole avesse discacciati gl’insetti, mediante la protezione del dio Miagro a cui avea fatto un sacrificio per ottenere tal grazia: quest’Ercole romano inimico degli aerei insetti non somiglia egli all’Ercole greco il quale, secondo l’antica credenza degli Eleani,[64] essendo importunato in Olimpia da simili insetti, avea fatto per liberarsene un sacrificio al dio Apomuios che gli Eleani annualmente solennizzavano? Il fuoco eterno custodito dalle vergini ch’era in Roma lo ritroviamo anticamente in Grecia: in Atene ed in Delfi v’era questo religioso costume, colla sola differenza che custodivasi dalle vedove.[65]

Macrobio e Plutarco raccontano che dopo l’assedio del Campidoglio fatto da’ Galli le latine città si collegarono contro di Roma, e minacciavano d’invaderla se loro non venivano consegnate tutte le dame romane. Intanto che il Senato deliberava su tal proposizione, le donne de’ schiavi si offersero di deludere i Latini; si vestirono cogli abiti delle loro padrone, andarono nel campo de’ nemici, i quali, dopo avere passata tutta la notte fra il libertinaggio, furono sorpresi e battuti dai Romani. Dasillo nella storia della Lidia racconta lo stesso fatto fra i Sarmiani e Sirmiesi, che quegli facessero a questi la stessa domanda, che fosse delusa collo stesso stratagemma, e che il successo fosse eguale.

Cotal somiglianza di fatti prova troppo chiaramente come i Romani ritenessero le antiche tradizioni de’ Greci d’onde traevano la origine, e che le intrudessero ne’ loro annali. Era antica ed universale tradizione che i popoli i quali in varie truppe vennero ad abitare l’Italia fossero colonie greche. Molte città egualmente che Roma dicevansi fabbricate da gente venuta dall’assedio di Troia. Molto prima della fonda­zione di Roma v’erano varie colonie di Greci nella Puglia e nella Calabria; onde Magna Grecia furon dette quelle regioni. Evandro, Oenotrio si dicevano anticamente dall’Ar­cadia in Italia venuti con numerose colonie; poi Enea; insomma non v’era tradizione più comune di questa, che vari popoli di Grecia si fossero stabiliti in Italia, e vi avessero fondate città. Questi avranno avute le loro storie, e non si può a meno che non venissero confuse e corrotte dagli Italiani, ed immischiate colle loro. Dionigi d’Alicarnasso prova che i giochi, i sacrifizi, i trionfi, in somma la religione ed i costumi degli antichi Romani erano tutti greci[66] nè altro si propone di provare nel primo libro se non se che da essi traevano i Romani l’origin loro. I Latini usavano per fino i caratteri greci. Il trattato d’aleanza fatto da Servio Tullio colle città latine era scritto su di una colonna di bronzo con lettere greche.[67] Essa dunque sino a’ tempi di Dionigi era nel tempio di Diana.

Capo IVLe tre guerre puniche.

Avendo impiegato quasi cinque secoli il romano valore nella conquista d’Italia, ne’ due secoli susseguenti dilatò rapidamente fuori di essa il suo impero. Che se dice Dionigi «Per tutta la terra abitata dagli uomini, e che non altro confine aveva, che l’Oriente e l’Occidente»[68] ciò prova più la mancanza di geografia che la vastità del dominio. Tamerlano conquistò più paese in otto giorni che non ne conquistarono i Romani in ottocento.

La prima spedizione fu in Sicilia, in cui più che le guerre (noiosa e funesta monotonia negli annali di tutte le nazioni) importa l’osservare come il console Valerio portasse da Catania un orologio solare che fu esposto in Roma pubblicamente.[69] Plinio dice essere stato questo orologio molto imperfetto: «Ne congruebant ad horas ejus lineae». Ma ciò forse dimostra, più che la sua imperfezione, la ignoranza de’ Romani che non seppero mettere un gnomone nella sua giusta posizione. È molto naturale questo sbaglio in una nazione che per quattro secoli non avea conosciute altra divi­sione del giorno che l’orto, l’occaso e ’l mezzodì, e questo non si congetturava che quando scagliavasi un raggio solare fra la tribuna delle arringhe ed un sito chiamato greco-statin. Dicesi che Lucio Papirio facesse conoscere a’ Romani il primo orologio solare circa trent’anni avanti di questo; ma fa d’uopo che fosse assai rozzamente o costruito o adoperato, se Valerio ne portò uno da Sicilia. E se non circa un secolo dopo, Scipione Nasica fece fare un clepsidro onde conoscere le ore anche di notte e ne’ tempi nuvolosi. Altra non poteva essere la coltura di quella nazione che aspettò sino a questi tempi a conoscere la moneta argentea. La prima di esse fu veduta in Roma cinque anni avanti il principio della prima guerra punica[70] in occasione che Tolomeo Filadelfo re d’Egitto spedì alla Repubblica ambasciatori con doni d’argento. In vano cerchi fra quel popolo di eroi le arti, le scienze, i comodi della vita; che anzi Fabricio, udendo ad una cena di Pirro ragionare della filosofia d’Epicuro, «Deh», disse, «sieno queste sempre le dottrine di Pirro e de’ Sanniti!».

Si pone il principio delle guerre puniche all’anno 488. I Cartaginesi furono il primo popolo fuori d’Italia col quale facessero aleanza i Romani. Sino dopo l’espul­sione dei re, sotto il consolato di Bruto e d’Orazio, s’era con loro fatto trattato. Questo monumento esisteva al tempo di Polibio, scolpito in tavola di rame nel Campidoglio. Era scritto nell’antica lingua romana, ed essa era per modo cangiata, che lo stesso Polibio[71] assicurava che difficilmente lo poteano intendere anche i più eruditi.

Non senza ammirazione si legge nelle storie come in poco tempo i Romani, che quasi nessuna conoscenza aveano dell’arte di navigare, diventassero sì potenti in mare da atterrire la commerciante Cartagine. Non è però da credersi Polibio[72] quando asserisce che i Romani prima di tal guerra non sapevano formare una nave. Ei si contraddice ove attesta[73] come nell’antico trattato fatto da loro coi Cartaginesi fino al tempo dei primi consoli, Giunio Bruto e Marco Orazio, v’era fra le altre condizioni quella che i Romani avessero per confine del loro navigare un promontorio detto il bello. Tal patto suppone navigazione. Egli è in oltre costante che già prima i Romani assediarono Tarento con dieci galere, e che ancor prima il console Menio avea tolte venti navi agli Anziati. I duumviri navales, la dignità de’ quali consisteva in sopraintendere alla marina, eran già introdotti prima delle guerre puniche.[74]

Fu l’occasione a questa guerra l’avere Messina, dal re di Siracusa Jerone ridotta agli estremi, implorato nel medesimo tempo l’aiuto de’ Romani e de’ Cartaginesi. Si teme’ la vicinanza di un popolo sì potente, e si volle prevenire. Ma la più universale cagione di tal guerra si era quel moto concepito che non poteva fermarsi. Era guerriera per instituzione la romana Repubblica; la Politica e la Religione conspiravano per farla conquistatrice. Come avrebb’ella limitate le sue conquiste a sì piccolo paese? Il guer­reggiare in mare, al che non erano avvezzi i Romani, mise a prova tutta la loro costanza. Non è difficile l’intendere che i Cartaginesi li superassero di molto nelle forze marit­time. Eglino nel commercio fondavano loro grandezza come Roma nell’armi. Sulle coste d’Africa, nelle Spagne aveano stabilimenti. La Corsica, la Sardegna, buona parte della Sicilia, le isole costiere d’Italia, il Mediterraneo era loro. Onde le prime imprese de’ Romani furono il perdere ne’ scogli e nelle borasche le intiere flotte; per modo che più volte pensò il Senato di non più fabbricarne. Quali fossero le navi di quella Repubblica in tale occasione, ben si conosce da ciò che fece una di lei flotta, la quale, andata all’assedio d’Ippona in Africa, e saccheggiatala, mentre stava per ritornarsene carica di preda, fu chiusa nel porto. Si spinsero le navi verso della catena, e quando che i rostri le furono vicini i soldati subito trascorsero alle poppe, e così alzatesi le prore ed appoggiate sulla catena in quella positura trascorsero velocemente alle prore istesse onde discesero le navi.[75] La qual cosa non si può fare, che con piccoli battelli tutt’al più. Il numero sterminato di navi fabbricate in pochissimo tempo, può egual­mente provare un meraviglioso travaglio, e la loro piccolezza. Essendo naufragata la prima flotta di cento navi galere se ne fece una di duecentoventi navi nello spazio di tre mesi[76] cioè più di due navi al giorno. Quale si può fare in meno di dodici ore se non se una che ne sia appena il modello? Crederem noi a Polibio quando ci dice che ciascuna nave conteneva trecento remiganti, e centoventi soldati?[77]

Attilio Regolo e Clodio Pulcro si resero famosi in questa guerra. Quello coll’amor della patria, questo col disprezzo degli dei. Attilio fatto prigioniero de’ Cartaginesi, spedito da essi a Roma per farne il cambio, promise non potendolo ottenere di ritornarsene. Venuto alla patria, sostenne in Senato che pernicioso era il cambio de’ prigionieri, nè le lagrime degli amici, de’ figli, della moglie il tennero dal ritornare in ischiavitù, dove d’inedia morì. Giunio Pulcro, spedito con armata navale contro di Cartagine, preso auspicio da’ polli, non volendo essi mangiare gettolli in mare dicen­do: «Se non vogliono mangiare, vadano costoro a bere».[78] Non era quello il tempo di aver dello spirito, poichè avvilito il coraggio de’ soldati la flotta naufragò: nè vincer poteva credendo d’avere inimici gli dei.

Dopo ventiquattro anni finì la prima guerra punica, in cui la Sicilia, la Corsica, la Sardegna furono conquiste de’ Romani, ed erette in loro provincie.

In quello spazio di tempo d’anni diecinove, che la prima dalla seconda guerra punica divise, il console Marcello trionfò de’ Galli Insubri, e quel paese fu ridotto in provincia romana. Ma sia questa che le guerre coi ribellanti Sardi e Corsi, coi Liguri, Istri ed Illirici piuttosto molestarono che esercitarono l’armi romane.[79] Fu verso questi tempi che un certo Arcagato venne dal Peloponneso in Roma, e vi esercitò il primo la chirurgia. Fino a quest’epoca in altro non consisteva quell’arte presso de’ Romani che in alcuni rimedi che si conservavano per tradizione nelle famiglie.[80] Fu molto onorato Arcagato in quella città, ebbe la cittadinanza romana, e gli fu assegnato un alloggio a pubbliche spese. Le operazioni ch’egli faceva parvero sì crudeli che fu sopranno­minato il Carnefice. La medicina tardò ancor più ad introdursi fra i Romani. Di essa ne fecero senza per sei secoli ne’ quali tutti i loro medicamenti consistevano nel purgarsi con de’ cavoli. Fino a’ tempi di Plinio i Romani non l’aveano esercitata, tutti i medici di Roma erano greci. Catone il Censore era cotanto di mal umore verso di loro, che diceva esser venuti a bella posta per esterminare i Romani, e per non altro farsi eglino pagare che per ricoprire un cotal disegno. Se Catone non ischerzava può dubitarsi della finezza di sua politica. Egli per altro era un uomo che al dir di Plutarco[81] si lodava eternamente. Quando sentiva biasimare alcuno soleva ripetere sempre: «Egli è scusabile, non sono poi tutti Catoni».

Fu più tregua che pace, quella fatta coi Cartaginesi. Annibale avea giurato sull’are degli dei di essere inesorabile nemico de’ Romani. Nessun giuramento fu mai più religiosamente osservato. Cominciò egli ad aprire la seconda guerra punica nella Spagna, dove ridusse talmente agli estremi i Sagontini collegati de’ Romani, che stimarono minor male, al dire di Valerio Massimo,[82] di alzare nel foro una catasta, e di tutti abbruciarsi. Bisogna che fosse o smisurato il luogo, o pochissima la popola­zione di Sagonto.

È degna di nostra attenzione la famosa discesa in Italia d’Annibale. Tratti in prima dal suo partito i Galli Circumpadani e Subalpini, traversò la metà delle Spagne e la Francia, soggiogando nel passaggio i popoli abitanti fra l’Ibero ed i Pirenei. Quindi scese in Italia per le Alpi Taurine, che furono sempre la porta di chi viene a noi dalla Francia, passaggio vantato come portentoso, e che tante volte succedette di poi senza che alcuno se ne meravigliasse. Con qual arte per mezzo di fuoco ed aceto[83] s’aprisse una via fra il duro macigno di quell’erte montagne se ne lascia di buon grado la investigazione a chi abbia il coraggio di combatter colla fisica per difendere la storia. Si pretende che il sito ove Annibale passò le Alpi era stato fin’allora impraticabile. Egli è far torto ad un grande uomo il fargli scegliere così male le strade. Le Alpi senza aceto e senza fuoco erano state già passate, per lo meno, quattro volte dai Galli, nazione molto inferiore ai Cartaginesi, e diretta da generali non paragonabili ad Annibale. Con un esercito di ventimila fanti e seimila cavalli, al dir di Polibio,[84] prese in prima Torino, sconfisse al Ticino il console Scipione, poi il console Sempronio alla Trebia, poi al lago Trasimeno il console Flaminio, sconfitta che fe’ dire al console Pomponio: «Con grande battaglia siamo vinti»,[85] quindi a Canne die’ la famosa rotta a cui simile non sofferse in prima quella Repubblica, nè ad altro servì l’utilissimo e biasimato temporeggiare di Fabio che a ritardarla. Così arrivò Annibale sino agli estremi d’Italia con ammirabile velocità di vittorie per svernare in Capoa fra i piaceri, il che fe’ dire a Marcello che era a Capoa la Canne di Annibale.[86] Di là ritornò egli a Roma, nella quale avea già scagliata, al dir di Plinio, un’asta.[87] Estremo fu lo scompi­glio di quella città in tale occasione. Si consultarono, come si soleva ne’ grandi pericoli, i Libri Sibillini: questi erano i soccorsi che la superstizione somministrava contro di un possente nemico. Ma il Senato, capo imperturbabile in mezzo della più grande costernazione, d’una gravità, d’una fredda e pensata constanza senza pari, fe’ mettere alla pubblica asta il campo di Annibale stesso e, ciò che è ancor più meraviglioso, ritrovò compratori senza che si diminuisse di prezzo. Narrasi che ad Annibale bastasse tal nuova per ritirarsi da Roma. Asdrubale suo fratello venne dalle Spagne, e passò le Alpi. Fu sconfitto al fiume Metauro, ove dicesi che i Romani si saziassero di uccidere. Asdrubale vi morì, ed il di lui teschio gettato negli accampamenti del fratello gli fe’ proferire quel doloroso detto: «Or veggio quale esser deve la sorte di Cartagine».[88]

Si sarebbe deciso in questa seconda guerra se Cartagine o Roma dovessero avere gli encomi della posterità (quanto giusta nel giudicare del merito degli autori, altret­tanto irragionevole nel giudicare quello delle nazioni), se i due gran generali Fabio ed Annibale avessero ottenuta quella stima ch’erano in diritto di esigere dalla lor patria. A Fabio soltanto poteva opporsi un Annibale, come un Fabio a lui. Eppure l’uno era temuto da’ suoi, l’altro disprezzato. Il temporeggiare di Fabio fu il soggetto di mille dicerie in Roma. Appena fu egli fatto dittatore e spedito contro di Annibale, che venne richiamato. Gli fu sostituito Minucio, uomo degno di tutto quel disprezzo che aveva per lui, dovettesi rimandare Fabio all’esercito, e lo salvò da una sconfitta a cui l’aveva esposto Minucio. La battaglia fatale di Canne non venne confidata a Fabio, ma alla audacia ignorante del console Varrone suo nemico. Così era trascurato il più gran­d’uomo che avesse la Repubblica. Dall’altra parte Annibale fu lasciato in Italia senza soccorsi; venne richiamato col pretesto di difendere Cartagine, il che ben più nocque agli interessi della sua patria che l’ozio di Capua. Fugli tagliata a mezzo l’impresa la di cui sicurezza cresceva colla rapidità d’eseguirla. Aveva questo grand’uomo ridotti i Romani a dar l’armi agli schiavi. Questa fu la prima volta che ciò accadesse. Se Cartagine avesse conosciuto Annibale non so se Roma avrebbe resistito; ebb’egli gran ragione di dire, sortendo d’Italia, di non essere stato vinto dal popolo romano, «ma dalle calunnie e dalla invidia del Senato cartaginese».[89]

Giunto Annibale in Affrica, pugnò a Zama, città distante da Cartagine settantacinque miglia, col famoso Scipione detto l’Affricano, che, dopo avere conquistate tutte le Spagne al popolo romano, minacciava Cartagine. Questa battaglia è celebre per i gran generali che la diressero, e per il gran soggetto di cui si trattava. Avanti dell’ara si abboccarono i due generali; dicesi che al primo vedersi rimasero attoniti senza proferir parola. Annibale fu vinto[90] e quella sconfitta fe’ cheder pace a’ Cartaginesi a’ quali fu accordata con tali condizioni che venivano ad essere sudditi di Roma. Fra gli altri articoli vi fu che consegnassero tutte le loro navi eccettuatine dieci galere. Con che fu affatto privata Cartagine di forze marittime. Così finì questa seconda guerra punica, che durò diciotto anni. I Romani vi acquistarono le Spagne, delle quali i due Scipioni Cneo e Publio ne aveano cominciata la conquista: l’Affricano Scipione figlio di Publio la finì.

Terminata questa guerra, l’armi romane portaronsi in Macedonia contro del re Filippo. Agguerriti e vittoriosi, chi loro poteva resistere? Chiese pace quel re, e gli fu concessa a quelle condizioni che impongono i forti ai deboli. Furono per tal pace dichiarate libere tutte le città della Grecia che Filippo avea ridotte al suo governo; la qual nuova pubblicata da un araldo romano per parte del Senato, ne’ comizi della nazione greca, infinito ne fu il giubilo, e fecesi molte volte ripetere quel desideratissimo avviso, quasi agli occhi propri, alle orecchie non credendo. Antioco re della Siria tentò di togliere a’ Greci quella libertà che loro diedero i Romani. Fu sconfitto alla battaglia di Magnesia, che lo costrinse a chieder pace. I Romani non profittarono delle conquiste fatte su di lui, ma le divisero fra gli Rodi ed Eumene re di Pergamo aleati. Non mai nazione si mostrò più degna di vincere quanto la romana in questa occasione.

Dopo ventisei anni di pace colla Grecia, rinnovossi la guerra con Perseo re di Macedonia, figlio di Filippo. Questa è quella guerra che gli storici chiamano Macedonica seconda. Finirono gli sforzi di quel re col essere condotto a Roma in trionfo insieme co’ suoi figli da Paolo Emilio, trionfo alla di cui magnificenza non meno contribuì che un totale saccheggiamento dell’Epiro. Così ebbe fine il regno di Mace­donia. Forse Paolo Emilio dovette questa insigne vittoria alle cognizioni di Sulpizio Gallo il quale gli predisse che la notte antecedente al giorno della battaglia vi doveva essere un ecclisse lunare.[91] Fin’ora nessuno fra i Romani ne aveva saputo tanto di astronomia. Sulpizio fu il primo di quella gran nazione che conoscesse la cagion di quegli ecclissi. Emilio avvisò i soldati di quanto doveva accadere, ne spiegò loro la cagione, e con ciò prevenne quell’avvilimento che tai fenomeni recano ai popoli ignoranti.

Se nessuna guerra fu più generosa di questa, se in essa i Romani apparvero dei protettori della greca libertà, nessuna guerra fu più feroce, ed al nome romano più ignominiosa di quella ch’eglino nello stesso tempo facevano nelle Spagne. I pretori colà erano detestabili ed implacabili tiranni. La città di Aza rinnovò l’esempio di Sagonto. Fu distrutta da’ suoi cittadini piuttosto che rendersi a Scipione Africano, il quale aveva loro insegnato quanto grande sventura fosse l’esser vinto da lui. Alla presa della città Miturgo il suo esercito uccise quanti abitatori puotè. Non si perdonò alle donne, non ai fanciulli. Fu incendiata, distrutta tutta la città.[92]

Con quanto differenti mezzi vinceva questa nazione in Grecia che nelle Spagne? Servilio Cepione non altrimenti debellò l’illustre ribelle lusitano Viriato, chiamato da Floro il Romolo delle Spagne,[93] che col farlo trucidare da alcuni suoi domestici corrotti dal danaro.[94]

Già perito Annibale per la perfidia di Prusia re di Bitinia, Catone il Censore non finiva di muovere il Senato a distrugger Cartagine. Egli conchiudeva tutti i suoi voti con queste parole: «Inoltre io sono di parere che si debba atterrare Cartagine». È noto che Nasica vi si oppose, ma inutilmente. Merita attenzione come i Romani obbligas­sero Prusia ad abbandonar loro Annibale che presso a lui s’era ricoverato. Quella stessa nazione che aveva trattato così generosamente con Pirro, impedendo che fosse avvelenato, ora per opprimere un vecchio, rispettabile e disarmato nemico sforzò un principe ad essere un ospite traditore.

Finalmente si pronunziò la condanna contro di Cartagine. Vi volle tutta quella ostinazione propria del Senato romano in non disdirsi giammai, ed in eseguire imperturbabilmente qualunque progresso, per contrapporre l’estrema durezza alla estrema umiliazione. Appena arrivarono i consoli in Sicilia, i Cartaginesi spedirono ambasciatori i quali si esebirono interamente all’arbitrio del Senato romano. Furon chiesti trecento giovani in ostaggio, vennero dati senza replica. Andarono di poi i consoli coll’armata presso di Utica. Accorsero colà di nuovo gli ambasciatori cartaginesi dicendo a che d’armi vi fosse d’uopo, essendo eglino disposti a tutto fare. Fu risposto che l’armi consegnassero, che la patria distruggessero. Questa estrema tirannia non fu tollerata. Cartagine si difese con quel valore che hanno gli uomini disperati. Sci­pione Emiliano[95] fu destinato a distruggerla, ed in Roma trionfò. Impresa più da guastatore che da generale.

La ricca, la commerciante Cartagine fu vinta da Roma povera e barbara, perch’essa ritornava dalla grandezza, e la sua nemica vi andava. Cartagine era una corrotta repubblica nella quale il popolo abusava della libertà. In Roma per lo contrario la maggior potenza in tai tempi era del Senato, cioè di un ceto di uomini grandi. Qual differenza fra la condotta di queste due repubbliche? In una comandavano i capricci di un volgo licenzioso, nell’altra le opinioni di cittadini educati e formati con grandi princìpi. In Roma v’era un Senato che ragionava profondamente sugl’interessi dello stato, in Cartagine la politica era abbandonata al tumulto del popolo. La diversa disciplina militare di queste due Repubbliche ne fa prova. I Romani avevano per principio di non mai avvilire un generale perchè fosse stato sfortunato. Gli si negava il trionfo tutt’al più. I consoli Fulvio ed Emilio sotto il comando de’ quali perì quasi tutta l’armata navale, ben lungi dall’essere perciò rimproverati dal Senato, ne ricevet­tero la proroga della imperatoria dignità, benchè l’anno consolare fosse spirato. Il console Varrone dopo di essere stato sconfitto alla battaglia di Canne non ritrovò in Roma che compassionevoli cittadini, i quali lo consolavano di sua disgrazia.[96] I Carta­ginesi, all’opposto, già si vide come trattarono Annibale. Il crocifiggere un generale perchè era stato sconfitto fu una loro barbarie di sistema. Così fecero con un loro comandante quando perderono Messina e con un altro per nome Annibale (non già il famoso) perchè era stato battuto da’ Romani in un porto della Sardegna.[97] Di Xantippo spartano, altro loro generale di gran merito, furono così gelosi, che lo fecero proditoriamente naufragare[98] quantunque avesse insignamente migliorati gl’interessi di Cartagine con molte rotte date a’ Romani. Tanta diffidenza da una parte, tanta confidenza dall’altra non poco influivano a render Roma superiore a Cartagine. Il sistema de’ Romani era fatto per produrre eccellenti generali, quello de’ Cartaginesi per avvilirli. Il gran merito è sempre delicato: il punire la sfortuna di un generale come la perfidia è spegnere il coraggio nella sua sorgente.

Troviamo in oltre che gli eserciti cartaginesi non di rado crucifiggevano i loro generali per dedizione. Non vi può essere maggior disordine nella disciplina. Egli ne prova infiniti altri. Presso i Romani non v’era tampoco l’idea di tal delitto. I