Saggio sulla Pubblica Educazione - tomo I


Giuseppe Gorani
SAGGIO SULLA PUBBBLICA EDUCAZIONE (1773)

Testo critico stabilito da Gianni Francioni sulla prima edizione (Londra [ma: Genève?], 1773)
Tomo primo
ὀρθῶς γάρ ἐστι τῶν νέων πρῶτον ἐπιμεληθῆναι ὅπως ἔσονται ὅτι ἄριστοι, ὥσπερ γεωργὸν ἀγαθὸν τῶν νέων φυτῶν εἰκὸς πρῶτον ἐπιμεληθῆναι, μετὰ δὲ τοῦτο καὶ τῶν ἄλλων.

Nam in primis juvenum cura suscipienda est, ut quam optimi viri fiant; quemadmodum bonum agricultorem teneriores primum plantas curare decet, ac deinde aliis providere. Plato, Eutiphro, seu de Sanctitate.

Indice di questo primo tomo.

Prefazione.
Introduzione.
Distribuzione delle classi.

Libro Primo: Dell’Infanzia.

I. Le prime immagini sono le più forti.
II. Uso de’ sensi, vera origine delle cognizioni.
III. Fisiche e morali negligenze, funeste allo sviluppamento delle passioni utili.
IV. Seguito delle idee sovra esposte.
V. Alcune difficoltà.
VI. Scioglimento delle sovra esposte difficoltà.
VII. Zelo pell’educazione del popolo. Mezzi di animarlo.
VIII. Obbiezioni e risposte.
IX. Mezzi di formare i dati stabilimenti.

Libro Secondo: Della Puerizia.

I. Idee elementari di codesta età.
II. Come diminuire la sensazione del fisico dolore, ed evitar quella dei dispiaceri morali.
III. Nutrimenti.
IV. Esercizj e vestimenti.
V. Nobili fanciulli affidati a’ Regolari. Perniciose conseguenze.
VI. Vita sedentaria, inconvenienti che ne derivano.
VII. Amor della beneficienza. Modo d’ispirarlo.
VIII. Studj moderni delle scuole contrarj allo sviluppamento dello intelletto.
IX. Studj proprj alla nobile puerizia.
X. Metodi ne’ studj.
XI. Diritto di proprietà.
XII. Sopra il medesimo soggetto.
XIII. Alcune idee sulle ricerche del commercio; e come i di lui agenti meritano una particolar educazione.
XIV. Genere di educazione pel commercio.
XV. Diritto di proprietà e beneficienza.
XVI. Mestieri ed arti, frutti dello stato sociale. Se meritano una particolar educazione.
XVII. Ostacoli della perfezione delle arti mecaniche e dei mestieri.
XVIII. Modo di riformarli.
XIX. Diritto di proprietà.
XX. Agricoltura, ben degna di educazione.
XXI. Servitù, principal ostacolo della rustica educazione.
XXII. Elementi di rustica educazione.
XXIII. Esercizj, pene e ricompense.
XXIV. Diritto di proprietà.
XXV. Se è necessario l’insegnare la religione nella puerizia.
XXVI. Conseguenze.

Prefazione.

Mormorarono molti filosofi contro la natura, ed alcuni l’accusarono come l’origine degli affanni da’ quali viene circondata l’umana specie. Se invece di empiere la terra di clamori contro la medesima l’avessero piuttosto attentamente esaminata, in essa lei trovata avrebbero una inesausta fonte di consolazioni con cui accrescere potevano la somma delle sensazioni grate e piacevoli, e diminuirne le dolorose.

L’uomo non è nato per essere il più infelice degli abitatori della vasta superficie della terra. Non sarebbe continuamente occupato a rasciugare le sue lagrime, nè a pascolarsi di desolazioni, se volendo seguire gl’impulsi che internamente lo spingono non si assomesse qual barbaro dovero di reprimere in esso lui le voci eloquenti della natura, per correre con tanta impetuosità le traccia di chi ha l’audacia di calunniarla.

È dunque divenuto infelice per aver soffocati nel suo cuore i suggerimenti energici della propria coscienza. Se scielta l’avesse per arbitra ne’ dubbj suscitati dalle passioni, oltraggiato non avrebbe la natura nè respintala lungi da lui, per dar retta a’ più stravaganti delirj. Da quello sventurato momento in cui cominciò a negligentarne le leggi, non gli fu possibile d’invenire la verità se non col mezzo degli sforzi i più straordinarj. Rifiutato il soccorso di codesta luce, consequenti furono gli errori e più frequenti i pericoli di quanto essere potevano i brevissimi periodi di ben essere.

Depressa la natura, confuse divennero le idee di felicità. Ai fisici guaj si aggiunsero somme esorbitanti di morali sventure. La malizia, il delitto, le più nocive passioni entrarono nel calcolo delle giornaliere intraprese degli uomini. Facile riuscì l’imporne loro in ogni materia. Tutto divenne rispettabile presso le immaginazioni agitate da un sempre attivo fanatismo. Non si sospettò di fallacia nemmeno coloro che sfacciatamente sostennero essere sortiti uomini armati dai denti di un serpente gettati sopra la terra. Il rispetto per tutte le favole e ritrovati fu in ragione diretta della loro assurdità ed in­versa dell’approssimamento verso il buon senso.

L’obblio delle leggi dettate dalla comune madre di tutte le cose create partorì l’ignoranza in ogni genere di sentimenti. Le opinioni respinsero o almeno circoscrissero un centro troppo angusto alle verità. Questa crudele nemica del nostro ben essere andò tessendo un lungo incatenamento di ostacoli fortificati dalla generale credenza, necessarj a superarsi da quei talenti felici che innalzandosi sopra il folto atmosfero degli errori intrapresero illuminare i loro conviventi.

Piacesse al Cielo che l’ignoranza contentata si fosse d’ingombrare i principj delle nozioni le più utili e di trattenerci in una perpetua infanzia rispetto i progressi dello intelletto. Pur troppo andò più lontano co’ suoi disegni. Inventò una infinita varietà di supposizioni, che trasmise alla posterità in guisa di renderla più propensa per le medesime che per la stessa verità. Vertiginosi, gli uomini diedero fede a tutto ciò che l’astuzia animata dalla ambizione osò offrire loro quali oggetti degni d’interessare l’attenzione, oppure un venerabile appassionamento.

I malori coi quali viene afflitta l’umana specie non vengono dunque che dalla ignoranza, la quale s’impadronì dei cuori da che si osò oltraggiare la natura. Se si fosse conservata per questa benefica madre una inalterabile stima, servito non avremmo di trastullo alla malizia di tutti quegli spiriti infingardi che si fecero un inumano dovero di rendere sempre più mal selciata e spinosa la carriera della vita umana.

Dopo tanti secoli di patimenti, di quale via ci serviremo noi per abbattere la forza della ignoranza e per guarirci delle nostre sciagure? A chi ricorreremo per richiamare le leggi della natura e per rimetterci nel bramato cammino della felicità?

Mezzo più sicuro non evvi al certo che di servirci del prezioso deposito delle scienze e di tutte le utili cognizioni, le quali anche fra i tumultuosi contrasti delle passioni agitate dalla ignoranza s’inventarono, si ampiarono e perfezionarono da quegli ingegni sublimi che di quando in quando invocarono l’ajuto della natura. Simili ad un condottiero o catena, che a sè attirando le materie del fluido ellettrico d’onde impregnati ne sono i nuvoloni, li scarica in modo che più convertire non si possono in scintille e fulmini, le scienze e le altre cognizioni utili dissipano i tenebrosi vapori della infingardagine e del fanatismo condensati a’ danni nostri, in guisa che rese più comuni le principali delle medesime, accrescerebbero la somma dei sentimenti dilettevoli per diminuirne i dolorosi.

Se vogliamo estendere le scienze e rendere famigliari alla generalità degli uomini le cognizioni le più utili alla loro conservazione e felicità, non potiamo ricorrere se non alla educazione, che in ogni tempo ed in ogni clima seppe operare portentose maraviglie e produrre le rivoluzioni le più difficili nella vasta regione degli umani desiderj, fabbricando leggi e virtù proprie ad introdurre ed a rendere stabili i disegni inventati dalle idee di diversi legislatori.

Perchè lagnarci che certe nazioni le quali sempre servirono di esempio alle altre in saviezza divenute sieno schiave del fanatismo, se presso di loro la gioventù è abbandonata tal volta alla balìa di chi formò la più terribile congiura contro l’altrui felicità? Nella stessa guisa che gli alberi appena piantati, lasciati in abbandono nelle mani d’inesperti coloni, che non sanno nè tagliarne i rami inutili, nè potarli, nè innestarli, nè difenderli dal furore delle stagioni, periscono o non portano se non frutti agresti, i giovani affidati a precettori mal istrutti o maliziosi essere non possono elevati nella via della verità, e molto meno guidati alla felicità.

Parrà impossibile a’ nostri posteri come stata siavi una serie non interrotta di legislatori a segno imbecilli per lasciare intieramente alla direzione di certe società particolari, il cui spirito è intieramente opposto alle leggi naturali, l’educazione, senza essersi nemmeno riserbata la nominazione e l’esame de’ soggetti, vegliando neppure alla scielta di quel genere d’istruzioni e pratiche proprie a formare quelle sorte di opinioni che stimavano necessarie al loro ingrandimento.

Se l’educazione accagionò i gemiti in cui viviamo, se ci recò in funesto dono tutti gli errori da’ quali veniamo circondati, perchè dunque la riforma nella medesima non dovrà richiamare alla luce le cognizioni le più utili all’uomo e ristabilire l’impero della natura? Esaminiamo pure con libertà i mezzi per arrivarvi.

La multiplicità degli autori che trattarono della educazione, le viste di tanti filosofi che l’intrapresero, più volte si presentarono alla mia immaginazione per iscoraggirla da questa fatica. Se al fine mi sono accinto a ridurla al suo termine ne fui indotto da alcune riflessioni che mi parvero seducenti.

La maggior parte de’ trattati di educazione hanno di mira i mezzi di riforma­re gli abusi de’ collegi, università ed altri pubblici studj che veramente meritano riforma. Fra codesti autori si ritrovano massime utili in vero; ma se prender li volessi per guida, viaggerei sopra un vastissimo liquido di opinioni, su di cui non si vedono galleggiare se non poche isolate verità ed involte da tenebre.

Convengo essersi scritte di quando in quando opere su di questa materia che meritano la celebrità con cui vengono pagate dalla universale riconoscenza. Ma queste opere non contengono per lo più se non alcuni insegnamenti che convengono a certe poche condizioni della umana società, e lasciano in una perpetua dimenticanza il numero maggiore degli uomini, cioè lo stuolo di coloro che volgarmente compresi vengono nel nome di popolo; quasi che i sudori di quelli che ci procurano la sussistenza e le comodità della vita non meritassero i teneri sguardi de’ veri benefattori della umanità, dimenticanza ingiusta, sentita con appassionamento da tutte quelle anime sensibili che meritarono di essere annoverate fra’ filantropi.

Non mi propongo con quest’opera che di andare in traccia delle più utili verità e di metterle sotto il ponto di vista il più proprio a spianare agli uomini una via facile ed amena alla felicità. A sufficienza coronate stimerò queste mie debolissime fatiche se avranno la forza di aggiungere nuove ragioni alle tante che abbiamo di occuparci seriamente alla riforma del più importante degli oggetti proprj alla nostra felicità, e se con alcune riflessioni potrò porgere una mano soccorevole a qualche infelice vicino a cadere ne’ precipizj spaventevoli da ogni parte delineati dalla ignoranza.

Introduzione.

L’opinione fu sempre il tiranno il più formidabile, ed è tuttavia la vera legislatrice degli uomini. Altro non è se non un puro risultamento di abitudini, che trasmesse col volger delle generazioni alla posterità, crudelmente scolpiscono quelle idee che prese per innate dal volgo, più non si riguardano quali errori lasciatigli per tradizione da male intenzionati o ignari antecessori, ma come autentiche ed incontestabili verità.

L’opinione è naturalmente incostante; sa presentarsi nella maniera tal volta la più piacevole e con una forza che è la maggiore di tutte le forze del corpo, che messo una volta in moto, lo continua col grado di celerità con cui lo ha ricevuto finchè ne dura il movimento, se cangiato non si trova il suo stato da qualche nuova causa che in altre parti lo spinga con differenti impulsi.

Le nuove forze mottrici per disviar gli uomini dai ricevuti pregiudizj, non saranno più le leggi, che trasgredite quando si trovano in perpetuo contrasto colla opinione più forte delle medesime, o eseguite per timore delle pene che le accompagnano, capaci non sono di produrre cangiamenti stabili, ma rivoluzioni soltanto, che facendo vacillar da ogni parte la machina politica, intieramente la sconvolgono.

Non è dato che alla pura educazione l’operare tali maraviglie. Sostituendo con questa il legislatore alle diverse opinioni le verità, le trasmette ai posteri col soccorso di altre abitudini, e riformando così tutti gli abusi i più inveterati, sa creare nuove generazioni di uomini differenti. Gli antichi filosofi, altrettanto esatti ne’ principi della morale quanto erano inconseguenti in quelli delle altre scienze, ne dovevano esser ben persuasi, se ne’ cangiamenti de’ governi e nella riforma de’ pubblici costumi punto non si avvisarono di far abbracciar colla forza le loro idee a coloro che già erano affettati di altre del tutto opposte, ma d’inculcarle piuttosto alla gioventù affinchè crescendo di età in tali persuasioni sforzassero indi, col loro esempio, le future generazioni ad uniformarsi.

I sacerdoti de’ primi secoli ben s’accorsero di una tal verità. Vedendo che l’ingegno umano con piacere si porta alla scoperta delle cose utili e vere, e che i tanti nuovi misterj, con cui distrugger volevano la purità della religione per rendersi gli arbitri delle nazioni, trovati avrebbero ostacoli infiniti ed insuperabili, pensarono di non poterli altrimenti scolpire ne’ cuori se non colla educazione di cui s’impadronirono. Felice l’umanità, se i sovrani di allora accorti si fossero de’ lacci che loro si preparavano dal sacerdozio; cecamente confidate non gli avessero le prime cure de’ loro successori come quelle de’ sudditi! Le tenebre dell’idolatria coperta non avrebbero la superficie della terra. Più sicuri i troni, non inorridirebbe la posterità nel leggere tante sanguinose rivoluzioni che in ogni parte li rovesciarono. Diminuita la somma dei delitti, inalzate non si sarebbero cataste pell’innocenza. Men cerimonioso, ma più puro il culto de’ popoli verso l’Esser Supremo, veduto non avremmo scorrer fiumi di lacrime, sul cui fluido traditore non navigherebbero tuttavia molte azioni spinte da nocchieri crudeli, che ovunque volgon gli occhj audaci, non trovando che scogli formati dai loro fraudolenti errori, hanno la cura di urtarvi le navi delle società a far naufragio, nel mentre che dalle spiaggie osservano tranquilli i singhiozzi e le strida dell’infelice moltitudine.

Giacchè placato il Cielo propizio comincia a mostrarci i suoi sguardi, e co’ progressi della sana filosofia, e col riporre su i sogli principi in un benefici e rischiariti; dissipiamo una volta questo funesto incanto, inseguiamo il cammino della felicità; conduciamo gli uomini alla verità; attacchiamo l’impero della opinione nel suo proprio seno; sulle sue rovine cerchiamo di stabilire una volta non già altre opinioni, ma la sola verità; e producendo nuove abitudini che la conoscano per origine, cerchiamo di scacciare lungi da noi le massime menzognere di un tirannico fanatismo, e di formar generazioni illuminate e felici.

Preceda la tolleranza e la concordia fra le nazioni l’opra salutare di una tal riforma. Resa palese la scienza la più sublime, che fa conoscere all’uomo i primi ed essenziali doveri che lo legano all’ordine sociale, non vi è dubbio che la concordia spandendosi sopra la terra colmerà di doni l’umanità. O dolce catena de’ cuori, degno dono dei cieli che semini allegrezza e amore in ogni luogo, che produci la calma al più forte della tempesta, preziosa concordia, finisci la tua opera, afferma l’unione di codesti cuori erranti che una indegna passione ha lungo tempo separati. Già la vendetta ed il delitto hanno ripreso l’orrore negli spiriti e non sono più legitimi, ma ciascheduno conosce il proprio sangue, e nell’accecamento non trova più alcuna scusa a’ suoi ingiusti trasporti.

Nunc ades, aeterno complectens omnia nexu,
O rerum mixtique salus concordia mundi,
Et sacer orbis amor: magnum nunc saecula nostra
Venturi discrimen habent, periere latebrae
Tot scelerum: populo venia est erepta nocenti:
agnovere suos. Pro numine fata sinistro
Exigua requie tantas augentia clades?
Lucan. Phars. Lib. IV.

Distribuzione delle classi.

Allorchè concepii il disegno di scrivere sulla educazione, mi ero proposto di formare una distribuzione secondo le idee dei veri economisti. Aveva già cominciata la mia intrapresa, quando mi accorsi d’infinite nuove difficoltà che non aveva possuto prevedere, e che mi costrinsero ad intieramente cangiare l’ordine stabilito.

Amano gli economisti con troppa sincerità il bene degli uomini per aver a male una tal mutazione; ma siccome non basta il dir vagamente che la loro distribuzion delle classi era un grave impedimento alla mia intrapresa, vuo’ far saggio di persuaderli.

La classe de’ proprietarj è quella che la prima si presenta al nostro esame. Essa è composta di persone di ordini diversi. Alcuni sono nobili, molti plebei. Ve ne sono di quelli che fanno valere le loro terre, ve ne sono che fanno commercio e che coltivano arti e mestieri, e perfino de’ contadini. Qual confusione non si sarebbe allora offerta nel fissare un genere di educazione per una classe di cui molti membri sono nello stesso tempo arollati alla classe produttrice ed alla classe sterile!

Avrei ritrovate uguali difficoltà nella classe produttiva. Vi son dei fermieri, de’ quali molti dir si posson nobili pel loro genere di vita; alcuni essendolo in effetto; altri meno ricchi non si trovan nel caso di entrar nello stabilimento de’ primi, e di ricevere una educazione ugualmente elevata.

Maggiori confusioni e maggiori ostacoli ci offre la classe sterile. Di quanti ordini di persone non è mai formata? Diverse vivono degl’interessi dei segni rappresentativi delle ricchezze. Sono utili, giacchè imprestandoli a’ fermieri, divengono così cooperatori delle riproduzioni; a’ mercadanti e negozianti facilitano le vendite delle derrate, e concorrono alla formazione degli avanzi. Le loro istruzioni non sono nè debbono esser quelle dei commercianti ed artigiani, ma piuttosto conformi alle istruzioni de’ nobili, nella considerazione eziandio che buona parte di loro aspettano al ceto nobile. I commercianti speculativi e quelli che fanno un traffico di dettaglio chiamati comunemente mercadanti, essendo destinati ad occupazioni differenti di quelle de’ nobili, confunder non si potrebbero in un medesimo colleggio ed in una ugual classe. I loro insegnamenti tender non devono che al commercio. Ambi codesti stati possono ricevere una uguale educazione, mentre gli elementi che fanno un abile negoziante sono di una uguale utilità anche ai mercadanti. Veggo in seguito quei ceti di uomini che vivono dei frutti della loro industria e lavoro non produttivo nelle diramate arti mecaniche e mestieri, che come consumatori di derrate proprie alla sussistenza, e delle prime materie sulle quali travagliano, fanno spese ostinate con cui multiplicano gli avanzi della classe produttiva. Anch’essi meritano un particolar genere d’istruzioni, che esser non possono quelle de’ nobili e de’ commercianti.

Arrestato nel labirinto di tante difficoltà, ho creduto non esservi mezzo più sicuro per aprirmi una via facile che di cangiare una così inviluppata divisone col sostituirne un’altra più agevole ad essere seguita. Ho dunque divise le figliuolanze nazionali in quattro classi diverse. La prima è quella de’ nobili, nella quale comprendo tutti coloro che vivono di renditi senza esser nè agricoltori, nè commercianti, nè artigiani. La seconda è quella di tutti gli individui che vivono di commercio. Nella terza rinchiudo tutti gli agenti della industria. Non compongo la quarta che di coloni. Se sono ricchi, i fermieri troveranno nei nobili stabilimenti gl’insegnamenti della coltura delle terre; se sono poveri, frammischiati colle rustiche figliuolanze ricever ne possono le medesime istruzioni. Fatta la lettura di codesti saggi, spero che i filosofi economisti non condanneranno una tal divisione.

Con questo modo di dividere le classi pella educazione abbraccio tutti gli stati di una nazione: nobili e plebei, grandi e piccoli, ricchi e poveri; le figliuolanze tutte hanno da esser istruite nei veri doveri dell’uomo sociale, e principalmente nelle vere scienze economiche, affinchè l’ignoranza non servi di ostacolo agli ottimi provvedimenti che una scienza sì sublime prepara alla riforma ed alla felicità de’ popoli.

L’obbligo che un principe prescrive a’ genitori di sottomettere le loro figliuolanze alle pubbliche istruzioni non è già un atto di tirannia, nè un limite che pone all’uso delle altrui proprietà, ma un dovero indispensabile al sacro ed indelebile carattere della sovranità. Un uomo di stato non può cominciar che dalla educazione affin di render perfetti i di lui cittadini, come un buono agricoltore comincia dalle piante più tenere avanti di provvedere alle più solide altre.[1] Licurgo legislatore di Sparta conferma questa massima sostenendo che le figliuolanze appartengono allo stato, che devono esser educate dallo stato e secondo le viste del medesimo stato.

Se gli spiriti volgari del popolo s’irritano contro le verità, se le novità le più utili e le più essenziali alla loro conservazione strappano dai loro cuori lamenti e singhiozzi, ciò non arriva se non perchè camminano nelle tenebre. Ma se loro si offrono luci per rischiarirli, se le istruzioni fanno conoscere l’evidenza di una dottrina sì necessaria alla loro prosperità, cesserà lo spavento, ed i sensi di riconoscenza s’impadroniranno di quei medesimi animi che per lo passato erano sconvolti ed abbattuti.

Avanti di finire questa divisione mi si presenta un’altra difficoltà, che potrebbe suscitare nuovi dubbj ed ostacoli. Tutti non possono essere agricoltori, artefici, operaj, commercianti e nobili. Che diverranno dunque le numerose figliuolanze delle capitali, delle altre città e borghi, che non sono destinate alla coltura della terra, nè al commercio, nè alle arti e mestieri! Questo numeroso stuolo di gioventù non ha men bisogno d’istruzione; anch’essi, figliuoli della autorità tutelare, richieggono soccorso. Gli dividerei dunque secondo la divisione delle parrochie, e ne affiderei la cura ai parrochi rispettivi sotto la dipendenza del gran Consiglio della educazione, che vegliar vi potrebbe con visite frequenti, se non ogni settimana, ogni mese almeno, col mezzo di qualche membro deputato ad un effetto sì salutare. Le istruzioni di tutto questo popolo di fanciulli non saranno sì complicate che quelle della gioventù mantenuta nei nominati stabilimenti. Basterebbe che loro s’insegnasse a leggere, a scrivere, l’aritmetica, un puo’ di geometria, i precetti della religione e quelli dell’ordine economico. Questa sorta di precetti sarebbero sufficienti a dirozzarli, ad istruirli nella principal somma de’ sociali doveri, ed a renderli anche proprj a qualunque genere d’impiego. Così, dopo avere istruite le rustiche figliuolanze, avrebbero gli ecclesiastici la gloria di coltivare lo spirito delle figliuolanze delle città, e collocando ne’ libri i diporti e le passioni di ognuno degli alunni, presentare al corpo legislativo le proprietà diverse de’ talenti confidati al loro patriotico zelo.

Libro Primo: Dell’Infanzia.

Adeo in teneris consuescere multum est.
Virg. Georg. Lib. II. 2. 272.

I. Le prime immagini sono le più forti.

L’opinione coll’ajuto delle abitudini prende radice nel cuore umano coll’infanzia. Essendo allora il nostro cervello ancor molle, nulla essendovi scritto, riceve le immagini e le scolpisce con tanta facilità che coll’avanzarsi che si fa in età, divengono inscancellabili; come infatti pur troppo proviamo con evidenza, che le reminiscenze di quegli oggetti che abbiamo riflessi ne’ più teneri anni ci fono assai più presenti alla memoria di quelle di una età più matura.

Le prime impressioni dunque su i nostri sensi, trasmesseci per lo più dall’altrui ignoranza o malizia, non trovando ostacoli nello intelletto troppo debole per combatterle, devono facilmente scolpirsi nella memoria ed a forza di esserci ripetute da chi potrebbe dissiparle ci devengono sì famigliari, che osano in una età più matura resistere a quei nuovi impulsi di luce con cui scacciar vorremmo i ricevuti pregiudizj; le prime impressioni in fine producono in noi i medesimi effetti delle compatte vernici su i corpi porrosi, ne’ quali impediscono l’azione de’ fluidi.

Se sono incontrastabili tali verità, dirò in conseguenza col gran Baccone che per formare un buon sistema di educazione conviene scegliere i precetti e le cose le più utili, che una lunga abitudine rende facili e famigliari.

II. Uso de’ sensi, vera origine delle cognizioni.

Rousseau dice che se l’uomo nascesse grande, di una statura intieramente formata, non sarebbe per questo meno stupido, men pesante, nè meno incapace degli altri fanciulli. Sebbene nell’entrar di questa vita portiam con noi i sensi, vere origini di tutte le cognizioni, se non imparassimo a farne uso resteremmo sempre intorpiditi quasi a guisa de’ bruti, che non ne estendono le funzioni fuori del limitato centro de’ loro bisogni.

L’uomo è nel caso della statua dell’abbate di Condillac:[2] non impara a conoscere le proprietà ed i rapporti degli oggetti che lo circondano se non a forza dello svilupparsi che fa la complicata teoria de’ sensi.[3]

Non abbiam cognizioni se non dai medesimi che con tanta esatezza ci trasmettono gli oggetti, che scuotendo le fibre, i muscoli ed i nervi ce li trasmandano alla memoria, che avendone nel suo seno altri da formarne paragoni, procurano indi tutte quelle nozioni che formano il raziocinio.

Se i sensi sono gli stromenti del dolore, lo sono parimenti del piacere. L’odorato ed il palato, colla lor conessione de’ nervi che si comunicano, ci fanno giudicar delle materie proprie al sostentamento e ci procurano mille agradevoli sensazioni. Il tatto ci fa misurar gli oggetti colla maggiore esatezza, c’insegna a conoscer la materia che ci circonda, a distinguerne le proprietà. Ci dice quali sieno le cose che dobbiamo evitare; ci mostra le altre che procurar ci posson piacere. Se dubbiosi siam nella decisione delle idee che ci trasmettono gli altri sensi, per avverarci ce ne procura prove indubitabili. La vista e l’udito[4] ci trasportan per così dire fuor di noi stessi. Ci fanno camminare avanti gli oggetti. Una infinita varietà ne presentano in un sol momento avanti la nostra immaginazione: molli questi, duri quelli, alcuni fluidi, altri compatti, moltiplicano così nel nostro cervello idee sopra idee, e trasmettendole tutte nella memoria, posano il fundamento delle più profunde cognizioni.

O portenti maravigliosi del divin Creatore! Se col soccorso dell’anatomia prendomi ad esaminar parte a parte i nervi, i muscoli, le fibre, i ginochi, le tendini, le vene, tutt’i continenti che forman la teoria dei sensi, messi in moto verso gli oggetti interni ed esterni dalla periodica circolazion del fluido sanguineo; se implorando il soccorso della fisica e metafisica vo’ esaminar con filosofica attenzione come l’uno agli altri si avvincolano, come il disordine nei nervi di questo sconcerta gli organi di quello; come le sensazioni diverse nelle mammelle si comunicano alle parte generante;[5] come tal volta lo sconvolgimento di uno accresce la forza e l’attività dell’altro; se penso alle leggi di ciascun d’essi tendenti alla nostra conservazione, ai diversi ordigni e modi coi quali si agirano intorno il loro asse, al numero ed alle qualità di cognizioni che ciascun d’essi procura, al concorso di tutte per la formazion di certe idee; chi potrà resister di esclamar meco: o Dio Immortale, che le tue opere sono profunde, che i tuoi disegni sono incomparabili! Di quali maraviglie sorprendenti ti servi per provar la tua improdotta ed eterna Esistenza! O argomenti sublimi che convincono meglio gli atei che tutt’i sofismi inventati dalla malizia e dalla cupidigia per ispargere i semi della incredulità!

La scelta degli oggetti, il modo di presentarli, quello di scolpirli nelle fibre e negli organi flessibili dei deboli pargoletti dovrà dunque fissar tutta l’attenzione di chi presiede alla loro educazione, acciocchè accostumati all’esatezza, avvezzi a formar rapporti unicamente dettati dalla sapiente natura, seguino un tal metodo sì sublime, benchè sì facile, nelle età progressive, e li ajutino allora a conseguir quelle cognizioni adattate ai differenti stati ne’ quali vengono ordinariamente divise tutte le politiche società.

Queste brevi preliminari riflessioni tendono a provare la necessità di non trasmettere nella più tenera infanzia impressioni che sieno menzognere e fallaci. Ci persuadono esser le prime immagini la base sì della fisica che della morale felicità, e continuamente ci avvertono non esser già l’infanzia una età propria ad essere abbandonata al caso, ma bensì degna della maggiore attenzione non solo de’ filosofi, ma degli stessi legislatori delle nazioni.

III. Fisiche e morali negligenze, funeste allo sviluppamento delle passioni utili.

Co’ sensi apportiam nel nascere i germi di tutte le passioni, e l’uomo non ne avrebbe alcuna particolarmente funesta che lo dominasse se non gli venisse trasmessa dalle impulsioni che riceve da chi ha la cura di educarlo. Sorte informe dalle mani della natura, qual pietra distaccata dalla massa della carriera. Un mal esperto artefice ne forma una rozza figura; un abile scultore erge un bel monumento, una statua di Venere, di Adone, di un eroe.

L’educazione comincia dalla nascita.[6] Succhiamo col latte le passioni, e nella stessa guisa che se è cattivo il sangue si corrompe, così gli atti impetuosi e tirannici delle nutrici, il ritardo che apportano nel provvedere ai bisogni de’ bambini, i pianti che promovon con più e più maniere, seminano ne’ cuori nascenti dissimulazione, la tristezza, la crudeltà, l’orgoglio e tutte le viziose inclinazioni.

Quanto più sani, robusti e felici non sarebbero i fanciulli se si vegliasse con maggior attenzione da’ legislatori affinchè non si soffrissero pagate per assister ai parti se non persone esaminate ed istrutte in tutte le marcie della natura. Non si vedrebbe allora, come più volte fui testimonio nella Italia nostra, recata la mammella agl’infanti pria di aver restituito la maggior possibile quantità del funesto meconio, che confuso col latte, acido rendendosi nello stomaco e negl’intestini, non solo loro accagiona coliche acerbe, ma umori che divengono veri principj di malinconia e d’impazienza.

Qui appresso, procurerò di provare quanto sia funesto il barbaro costume d’inviluppar con fascie i bambini. L’autor dell’Emilio ci dimostrò con energia molte fatali conseguenze che apportano al temperamento, e che non soltanto si fanno sentire nella infanzia, ma in tutte le progressiv’età. Accompagna queste istruzioni coll’esperienza di molti popoli, senza parsimonia di termini volgarmente decorati del titolo di barbari; benchè fra loro al certo non si veggono sì contrafatte figure, di cui abbonda nell’Italia più d’ogni altra la nostra nazione, figure tortuose e ridicole, tristi effetti degli accostumati inviluppi.

Non intraprenderò a ragionare contro la crudeltà delle madri, che dimentiche de’ più sacri e più cari doveri, rifiutano agl’infanti il nutrimento che loro per legge invariabile destina la provvida natura; obblio punito dai tanti mali con cui vengono continuamente tormentate e de’ quali ne vogliono ignorar la cagione.[7] Li consegnano da sconsigliate nelle mani rozze e venali di avvilite mercenarie, che il loro zelo misurano ed il loro amore in proporzion delle mercedi che ne ricevono, e che spietatamente par che attentino, se non a troncare il nodo sottile della vita de’ bambini, a renderli almeno più che possono sventurati. Contro disordini sì fatali già parlò con coraggio il sullodato filosofo, e ci mostrò ad evidenza. Quanto una tal mancanza di affetto abbia d’influenza nel contaggio degli odierni costumi, e sulla mancanza della popolazione, fra quelle stesse nazioni sopra tutto che han la mania di credersi le più colte! Ma o madri spietate! i bambini che vi abbracciano, che con baci vi accarezzano non sono forse allettamenti capaci a muovere i vostri cuori? O animi induriti nella corruzione! s’aspetta forse a voi a parlar della crudeltà delle tigri?

Nutriti così dalle madri più non si avrebbe d’uopo di pensare alle diverse sorte di latte che convengono secondo le età, inutili per conseguenza le difficoltà della scelta delle nutrici.

Quando Rousseau consiglia di bagnar con frequenza i bambini, suppone che sieno nati da genitori robusti, e non già formati della coagulazione di un sangue corrotto dallo stravizzo e dallo sregolamento de’ costumi, mentre in questo caso produrrebbe effetti del tutt’opposti e nocivi. I Romani ed altri popoli avevano questo costume.[8] Ma se è contaminato da vizj il sangue delle madri, non solo non si dovran bagnare i fanciulli se non gradatamente, ma ricorrere altresì al latte di nutrici robuste, sane e di morigenati costumi.[9] Con un buon latte si potrebbe allora formare un nuovo sangue e riparare in qualche modo i terribili effetti dell’infezione.

Se le prime affezioni che si contrattano nella infanzia sono sì decisive; se l’ubbidire o il comandare a’ pargoletti genera l’orgoglio o l’avvilimento; se i risi e pianti smoderati gli sfigurano, loro alterano il sangue e li rendono cattivi; se poi col portarli verso gli oggetti che desiderano si accostumano a conoscerli, ad ignorare ugualmente la servitù e l’impero; se col mantenerli puliti, giojosi ed allegri loro s’insinua l’amenità e la dolcezza de’ costumi; se col vegliar attentamente ai loro bisogni si prevengono le continue rivoluzioni degli umori; se coll’accostumarli alle impressioni dell’acqua e dell’aria si rendono insensibili alle forti loro impressioni; se coll’avvezzarli gradatamente a’ rumori ed oggetti i più orribili, e consultando in fine in tutto le saggie ricerche della natura, si diminuiscono i soggetti di dolore, si scolpiscono ne’ loro cuori le prime immagini delle passioni di vera utilità e si preparano alla felicità; sarà dunque di una grande importanza al legislatore il vegliar sull’infanzia, il far che se le madri non hanno un carattere eccellente, lo mostrino almeno a’ fanciulli, e rispettando la loro età, come lo insinua Giovenale, non commettino alla loro presenza azioni degne di biasimo e di vitupero.

Maxima debetur puero reverentia: si quid
Turpe paras, nec tu pueri contempseris annos,
Sed peccaturo obsistat tibi filius infans.
Sat. XIV.

IV. Seguito delle idee sovra esposte.

Uguaglia natura nella nascita gli uomini.[10] Il monarca ed il suddito, il patrizio ed il plebeo, il signore e lo schiavo, il ricco e l’indigente, ugualmente assoggettati al medesimo stato di debolezza, ci avvertono di rilegare lungi dall’animo nostro un insano orgoglio. Sortiti dal sen della madre senza armi e senza forze, necessitosi d’ogni ajuto, servir così dovremmo di tristi monumenti per obbligarci a raccogliere in noi stessi i nostri pensieri, ed a rissovvenirci ognora essere stata insana la vanità di coloro che osarono seminare il contaggio della fatale ambizione, e fabbricando catene per loro simili, porre ostacoli insormontabili alla sociale felicità.

Quante insidie non tramano mai alla umanità? Finito che abbiamo di succhiar col latte le bizzarrie delle nutrici, siam circondati da nuovi pericoli. Allorchè si comincia ad articolar la favella, a formar qualche rapporto sugli oggetti, a scioglier le tenere membra, per portarsi verso i medesimi, ed assicurarsi col tatto della loro figura e proprietà, quanti inganni non si presentano a male affettarci le nostre deboli sensazioni! Preci che non potiamo intendere, segni e pratiche sempre inutili e spesso dannose, sono i preliminari delle nostre catene, e di un fisico e seducente impulso verso la superstizione.

Più sventurato d’ogni altro il figlio dell’opulente, gli si porge la tazza avvelenata delle più turpi e più nocive passioni. Ubbedendo a’ suoi cenni, applaudendo alle di lui articolazioni, ad ogni sua azione, si ardisce avvisarlo esser egli nato pel comando. Trova chi lo approssima pronto a secondare ogni suo capriccio. Si accostuma a risguardar per ischiavi coloro che son destinati ad assisterlo; prende di buon’ora un tono imperioso ed audace, che lo rende indi abbattuto ed avvilito se l’incostante fortuna lo abbandona. Corrotto il sangue con ricercate e studiosamente inventate vivande, compresso lo stomaco e le membrane da tanti legami, troppo guarentito dalle impressioni dell’aria, forma un gracile temperamento, che incapace lo rende, al cangiar della sorte, di un genere di vita laborioso ed attivo.

Questa è pur troppo la trista ma sincera immagine della prima fanciullesca educazione che si dà in Italia nelle nobili e nelle, volgarmente dette, ben accostumate famiglie, che consunte da una sproporzionata sontuosità e dalla rilasciatezza, formano tanti stuoli di sciagurati, che incapaci di utili travagli, popolano i chiostri di malcontenti cittadini, ribelli all’ordine sociale, che l’obbligo ci prescrive di concorrere colle nostre azioni al sodisfacimento dei pubblici bisogni; oppure formano schiere di oziosi, buona parte de’ quali s’immergono nel nero ed oscuro cocito dei delitti.

O felici bambini pe’ quali travaglia la mia immaginazione! Sortiti dal liquido che vi circondava nel sen della madre, distaccati dalle due membrane che vi rinchiudevano, siate pur liberi e sciolti. Non più legati da strette fascie, i vostri petti non saran rinserrati; le vostre ossa, i ligamenti, le cartellagini non essendo compresse, non soffrirete ostruzioni, impedimenti nella digestione, nè altri acuti dolori che vi logorano il nascente temperamento. I vasi lacrimatorj non saranno sconcertati, nè gli occhj offesi da torrenti di pianti.

Sciolti così fin dalla nascita, non aspetterete ad esercitare le vostre membra finchè finito sia il tempo di succhiare il latte. Limiterete i vostri desiderj secondo le vostre forze. Liberi vi porterete, come i fanciulli di diverse contrade dell’Affrica e dell’Indie, verso gli oggetti che la vista, l’udito, l’odorato v’indica, a misurarli col tatto: non troverete ostacoli nel cammino: le fascie, i legami, i busti, le corrazze nè gli altri impedimenti non irriteranno i vostri sensi e la circolazion degli umori. Belve, rumori, obbjetti turpi e spaventevoli essendo gradatamente presentati ai vostri sensi, imparerete a sprezzar lo spavento, che ispira la laidezza. Accostumati, come ho già detto, all’impressione de’ fluidi, non conoscerete rafreddori, nè altre incomodità e dolori che ci avvelenano la vita. Articolate con chiarezza le parole, presentati esempj di vera utilità, nè comandati nè ubbediti dalle persone che vi assistono, non vi famigliarizzerete alla servitù nè all’impero.

Benchè già distaccati dalle mammelle, il latte ne sarà il miglior nutrimento. Alle farine cotte, brodi, carni ed altri cibi mal sani sostituiscansi i più semplici. Non diasi loro troppo ad un tratto, ma poco e sovente. Invece di dolci, pane.[11] Non si accostumino al vino, molto men poi ai forti liquori.

Non mi sono qui prefisso che di esporre le principal’istruzioni che convengono per ben diriger l’infanzia: chi ne vorrà studiare il dettaglio consultar potrebbe allora molti autori, de’ quali io stesso ho implorato in buona parte il soccorso. Le riflessioni fin ora esposte serviranno ugualmente per l’educazione di tutte le condizioni. La formazione di un robusto temperamento, quella de’ germi della verità, delle utili cognizioni, saranno i primi principj ugualmente utili e necessarj per tutti.

Siccome più delle altre età ama l’infanzia i solazzi, solo ne’ medesimi potransi fissar differenze di stati; si presentino pure per oggetti di divertimento quelli la cui famigliarità può preparare alle progressive nozioni adattate ai diversi stati che li distinguono. I primi sieno pure i giuochi co’ quali imparar si dovrebbero a conoscere le lettere dell’alfabetto, affin d’istruirsi senza pena a leggere ed a scrivere; nozioni elementari necessarie sì a’ figliuoli dei ricchi come a quelli degli artigiani e contadini.

Non è suscettibile l’infanzia di vere istruzioni. Le facoltà intellettuali non si possono sviluppare in codesta troppo tenera età. La formazione di un sano temperamento deve formare la principale cura di chi veglia sopra gl’infanti. Non è dunque necessario di presentar loro insegnamenti, ma soltanto d’impedir l’accesso delle menzogne e favole ridicole, colle quali con modi sì funesti ordinariamente si preparano a ciecamente ricevere le leggi del fanatismo, nemico della umana specie.

V. Alcune difficoltà.

Sono sì complicate le cure che merita l’infanzia che riescirebbe impossibile il dirigerla sotto le pubbliche osservazioni. Le sempre replicate pene necessarie alla nettezza dei bambini, che altrimenti corromperebbero la troppo morbida lor pelle, le ricerche fastidiose di tutt’i loro bisogni, gli obblighi indispensabili di prevenirli con ogni prontezza, che trasgrediti, sogliono esser sempre fatali non solo alla fisica, ma alla morale educazione, vogliono quelle sorte di caute e ben misurate attenzioni che trovar non si possono se non nel limitato centro di ben affezionate famiglie.

Oltre le qui esposte ragioni, un’altra considerazione sarebbe sola capace a decidermi in favore della famigliare e privata educazione dell’infanzia. La facilità con cui si fanno le impressioni dell’aria in questa età, in cui i porri maggiormente aperti agevolmente le ricevono, accagionerebbe molte inaspettate malattie e tal volta ancora stragi inaudite nei gracili pargoletti.

Nulla dunque sarà più pernicioso che l’unirli in luoghi ristretti, ove comunicandosi molti mali questi a quelli, risicano d’infettare gli adulti che li governano e di empiere l’atmosfero che li circonda di umori maligni e pestiferi, che spander possono il contaggio sopra dilatate regioni.

Se l’aria villareccia che infunde umori allegri ed ameni negli esseri che l’abitano è si utile a tutti gli uomini, lo sarà sempre più ai deboli infanti, che lontani dai fluidi soffocanti delle città formerebbero i principj di una costituzione sana e robusta. Quanto guadagnerebbe l’umanità nella mia patria se i direttori dello spedale, ad esempio di quelli di Ginevra e di altre nazioni, convincer si volessero di una sì utile verità, che si presenta all’immaginazione sotto un aspetto sì semplice e sì naturale!

Qui si offriranno al leggitore mille variate riflessioni. Come dirigere le abitudini degl’infanti verso i principi di virtù e di pubblica utilità, se allattati da madri inesperte saran assediati da ignari parenti? I grandi, i nobili, tutti quelli che mi potran leggere e meditare altri autori, sapranno facilmente istruirsi dei modi co’ quali va diretta l’infanzia; età in cui esser non vi deve differenza di metodo fra l’uno e l’altro sesso. Come la mia idea è di scrivere altresì pegli artigiani, agricoltori, pel popolo in fine, lo pregherò di sospender i suoi dubbj, finchè letti i seguenti capitoli possa poi decidere se ho sciolte con efficaccia le di lui giudiziose obbjezioni.

Le molte difficoltà non possono aver luogo che nelle presenti generazioni. Ben educate, non dobbiamo più essere in pena pelle future. L’evidenza delle verità scolpite nei cuori degli uomini di ogni stato è un lume benefico che non può sì facilmente essere spento dalle intraprese della impostura. Odieranno con una forza sì grande l’ignoranza che non ne permetteranno l’accesso alle loro figliuolanze. Tal è l’attrattiva delle utili verità, che una volta conosciute, prendono profundissime radici nel cuore umano, mentre quantunque spesso s’inganna, non è per questo men vero che dirigge tutte le di lui tentative alla felicità.

VI. Scioglimento delle sovra esposte difficoltà.

A chi potremo noi meglio affidare l’educazione delle rustiche figliuolanze che ai parrochi delle ville, sedentari nelle medesime? Raccolte le massime elementari utili alla direzion degl’infanti, vorrei che anche queste si dessero a meditare a’ giovani ecclesiastici, e che spediti non fossero parrochi nelle ville finchè pria col più rigoroso esame mostrato non avessero di possederle.

Uno nelle piccole e due nelle ville grandi, muniti di soldi competenti, d’irreproverabili costumi, istrutti ne’ principj i più necessarj delle scienze economiche e ne’ primi doveri del loro stato, veglierebbero con efficacia sopra i suoi rustici alunni. Facendo visite giornaliere nelle neglette capanne degl’innocenti agricoltori, impedirebbero così l’infezione de’ cuori[12] e dei temperamenti dei bambini, pur troppo con trascuratezza abbandonati al caso. Seguitando le stesse cure nelle progressive età, si obbligherebbero così a contribuire al nobile e tanto da’ veri pensatori sospirato edificio di formar sudditi fedeli ed uomini giusti. Qual culto più puro offrire potrebbero mai alla divinità!

Come pretender da noi cure si moltiplicate e cognizioni sì difficili, esclameranno? Non vi ributate, amici miei: la vostra carriera è quella della verità: dispensati da’ varj obblighi che non sono di evangelica necessità, abbandonate tutte le pratiche puerili e superstiziose che contaminano la religiosa purezza, nè intorpiditi nell’avvilimento, nell’inerzia e tal volta ne’ giuochi e nello stravizzo, voglio che diventiate oggetti di stima e di rispetto col concorrere alla pubblica felicità. Sciolti da tante inutili occupazioni, dir già non potrete che vi destino a sollecitudini troppo penose. Dopo aver letto il seguente articolo, osate ancor declamar contro la pretesa indiscrezione di un autor che vi ama.

Ne’ borghi, picciole e grandi città, confiderei il vegliare ai più penibili dettagli dell’infanzia e delle altre età agli anziani ed altri subalterni magistrati e loro spose di un conosciuto sapere, e di una virtù talmente palese, che dir si potesse di loro con Quintiliano: Carendum non solum crimine turpitudinis, sed etiam suspicione.

VII. Zelo pell’educazione del popolo. Mezzi di animarlo.

L’idolo il più mostruoso reccatoci dalla ignoranza si è senza contrasto l’interesse mal inteso. Vuol che gli si sagrificano in vittime gli oggetti i più degni di venerazione. Puri esser non possono per lui gl’incensi se bagnati non sono dai pianti della desolata moltitudine. Abbatte onore, doveri, sentimenti di umanità, giacchè si compiace di edificar il suo tempio sulla loro rovina. Arrestò in ogni tempo le provvide disposizioni della maggior parte de’ legislatori. La stessa educazione, da cui tanto dipende la nostra felicità, implorandone il soccorso, quasi sempre lo riconobbe per arbitro.

Distruggiam dunque gli altari di un nume sì orribile. Istruite, amici miei, con ardore la rustica gioventù; d’uopo non avrete d’ingannar con frodi pie i popoli per vivere; il vostro destino non sarà già come quello degl’istruttori di cui parla il poeta:

Rara tamen merces, quae cognitione tribuni non egeat
Juv. Sat. VII.

Non solo vorrei che i parrochi godessero di sufficienti e regolarmente pagate pensioni, ma che vi fosse fra di loro stabilita una progressione graduale di soldi, acciochè viver potessero negli agi e bene istruire le rustiche famiglie, per atterrare il lugubre simulacro dell’ignoranza. Distribuerei dunque i parrochi delle ville in tre classi. Alla ultima accorderei 3000 lire imperiali, alla seconda 3500 ed alla prima 4500. Non parlerò delle parrochie delle città. Con soldi maggiori servirebbero di riposo a quegli ecclesiastici che distinti essendosi nella riuscita educazione, vi finirebbero con tranquillità i pacifici lor giorni nell’insegnare le più indispensabili verità alle figliuolanze del popolo.

Ugualmente in tre classi distribuerei i laici subordonati istruttori dei borghi e delle città, esaminati collo stesso rigore, distinti con ranghi onorifici e co’ medesimi soldi. Sarebbero tali impieghi la carriera di pervenire all’eminente Consiglio di cui parlerò qui appresso.

Sì utili stabilimenti servirebbero di una viva emulazione sì agli ecclesiastici che laici istruttori per travagliar con ardore alla vera riforma de’ costumi, assai più necessaria di quella delle leggi.

Sembrerà a qualcuno che io mi contradichi collo stabilire per base della pubblica istruzione, sotto il titolo di emulazione, l’interesse, contro di cui ho qui sopra parlato; ma i leggitori imparziali vedranno non avere io avuto di mira se non quel genere d’interesse che arresta a qualunque passo i legislatori, ogni volta imprendono a gettare sguardi compassionevoli sopra i sudditi che governano. Non confonderò giammai il lucro che meritano le pene di chi s’incarica della educazione. Il desio di menare una vita agiata fra i letterarj ed altri utili travagli sempre lo separerò dal sordido interesse, vero ostacolo alla particolare e pubblica felicità.

Si rimunerano e si soldano con ragione quelli che vegliano alla difesa della patria, o che servono in altre guise al sostegno dell’autorità tutelare, e si lascieranno forse privi di emulazione que’ soggetti che coll’esempio e cogli insegnamenti formar ci debbono generazioni di sudditi istrutti e ben accostumati, proprj a perpetuare la felicità di un vero economico governo, cioè il dispotismo legale della evidenza?

VIII. Obbiezioni e risposte.

Non si creda già ch’io voglia cecamente confidare le cure della educazione delle rustiche figliuolanze al clero; e che la dia in balìa alle istruzioni arbitrarie, colle quali potrebbe talvolta sedurre i cuori, ed ispirar quella inoltrata venerazione che eccitando la superstizione accagionò torrenti sì copiosi di lagrime. Ho abbastanza meditato sulle sciagure di cui ci fu apportatore il pio fanatismo per cadere in un tale abisso di errori; mi son troppo note le idolatriche stravaganze, sì degli antichi che de’ moderni tempi, per non diffidarmi dello alcune volte dissimilato suo zelo. I pensieri che ho esposti, e che esporrò nel corso di questa opera, proveranno l’amor che porto alla umanità, e non permetteranno di formar sopra di ciò il menomo sospetto.

Han Consigli le finanze, lo ha il commercio; le leggi, la polizia civile; gli altri rami di pubblica amministrazione han tribunali; e quel solo oggetto che facile renderebbe l’esecuzion delle buone leggi, senza aver d’uopo di ricorrere a tante pene, che riformerebbe i costumi, che agevoli renderebbe le scienze, l’agricoltura, le arti, i mestieri, che dissiperebbe le tenebre della ignoranza, resta abbandonato, lo ripeterò, al caso ed all’avventura. Triste inconseguenze della umana cecità! Scosso abbiamo in parte il giogo di molti errori dell’antichità, ma nello stesso tempo negletti gli utili stabilimenti che in loro si ammirano e che seppero produrre secoli di virtù, di eroici portenti, e per maggiormente allontanarli dalle speculazioni de’ monarchi, si osan confonderli colle chimere e rilegarli nell’obblio co’ più ridicoli progetti de’ visionarj.

A risico di passar per entusiasta vo’ dire che un Consiglio di educazione sarebbe il più insigne beneficio che aspettar potessero le nazioni dalla munificenza de’ sovrani. Lo chiamerei il Consiglio Supremo della educazione.

O voi pensatori, che sagrificate le veglie alla ricerca de’ luminosi principj delle scienze, voi che esaminando sì le antiche che le moderne carte, succhiate come le api il miele prezioso delle arti e di tutte le utili nozioni; voi anime grandi che odiate gli onori, il fasto ed i ridicoli solazzi, per compiacervi a raccogliere istruzioni di utilità per il pubblico bene; voi genj elevati che pubblicate opere che respirano l’umanità; voi che trovato avete co’ veri economici principj il bel segreto di render felici le nazioni, sdegnerete impieghi ne’ quali colmar potete di beneficj i vostri concittadini? La brama di vivere lungi dalle tumultuose occupazioni del mondo v’impedirà forse di accettar cariche dal cui adempimento tanto dipende la vera riforma de’ costumi che cercate d’insinuar co’ vostri scritti? Vi rifiuterete infine al diletto di spandere ne’ cuori i provvidi fluidi della verità di cui ne seguite le traccie?

A questa voce cederebbero i veri filosofi. Pieni di riconoscenza verso le benefiche cure de’ sovrani, impiegherebbero con efficaccia le loro sublimi cognizioni e si applaudirebbero nel contemplare una sì fortunata aurora. Non indirizzo già i miei discorsi a quegl’Ipocrati della virtù, che dotati di talenti non li coltivano che per farne una vana ostentazione.

Non parlerò delle pensioni che accordar si dovrebbero a sì sublimi magistrature. Ho già detto che convien dar da che viver negli agi a tutti quelli che s’impiegano alla pubblica istruzione. In questo caso si dovrebbero regolare in ragione della maggiore o minor facoltà degl’impiegati che comporrebbero un tal Consiglio.

Presiederebbero questi magistrati non solo nelle città, ma ne’ borghi. La rustica gioventù delle ville dovrebbe ogni giorno festivo portarsi al borgo più vicino, ove il consiglier residente esaminerebbe sì i loro progressi che i diporti de’ parrochi che li diriggono. Sarebbe anche necessario che con visite periodiche di quando in quando si spedissero di questi consiglieri a veder se nelle ville si ha cura non solo della gioventù, ma dell’infanzia, notando in esatte tabelle i gradi d’industria e di capacità degli alunni. Con qual facilità non si conoscerebbero allora gl’ingegni i più felici, per impiegarli ove la sublimità de’ loro talenti li chiama? Qual regola più sicura pegli avanzamenti degli stess’istruttori?

Il piano sembra vasto; troppo in fatti lo sarebbe, se entrar volessi a dimostrare tutt’i dettagli che concorrono ad un sì nobile scopo. Se ho cercato di addittare i miei pensieri con brevità, ho procurato almeno di non ismenticare tutte quelle prime idee che sono indispensabili ad accompiere un sì giusto disegno.

IX. Mezzi di formar i dati stabilimenti.

Molte nuove difficoltà si presentano ad ora alla mia immaginazione. Come trovar fundi da che fornire tante pensioni? Dovrà forse costar gemiti al popolo la sua educazione? Stabiliransi nuove imposte che ne accrescino la già troppo inoltrata indigenza? Non aspettate, sudditi fedeli, da un zelante amico dell’umanità consigli di oppressione che vi rendano intorpiditi nell’inerzia. Amo il genere umano, e per istruirlo non suggerirò mai mezzi che lo rendano infelice.

Il fanatismo e l’ignoranza, favoriti dalla debolezza de’ governi, stabilirono nei secoli di confusione monumenti proprj a conservarli. La filosofia che va facendo progressi, e che si è compiaciuta a siedere anche sul trono, a canto di alcun’illuminati monarchi, che penetrò in varj senati e diete nazionali, formò già da moltissimi lustri gloriose intraprese per abbatterli. Se si desse a’ medesimi l’ultima spinta, se si restituisse alla umanità tutt’i perduti diritti, quanti fundi non avrebbero mai i legislatori de’ popoli disponibili a favore de’ bisognevoli stabilimenti di pubbliche istruzioni?

O felici stabilimenti! Quanti voti sinceri di riconoscenza non riscuotereste, o sovrani, coll’introdurli! Distrutti i pregiudizj, resa palese l’evidenza, in pochi anni vedreste rimodernate le nazioni e crescere in tutt’i canti de’ vostri stati germi di eroi.

Non si avrebbero più idee confuse sulle arti, mestieri e commercio. Si saprebbe da tutti qual sia l’origine della opulenza delle nazioni. Più non s’ignorerebbe essere l’agricoltura, la scienza della terra, ch’è sempre pronta ad ubbidire e rispondere alle nostre cure, che rende con maggiore o minor usura, ma sempre con usura ciò che gli confidiamo; che non solo dobbiamo in essa rimarcare i proffitti che fanno tanto piacere, ma altresì la forza irrefragabile delle sue leggi e l’ordine suo naturale.[13] Non dubbiterebbero più gli uomini esser dessa la sola fonte di tutte le ricchezze.

Non gemerebbero nella indigenza tante sventurate famiglie per le infinite e tante imposizioni maliziosamente immaginate. Tanti orfanelli non implorerebbero in vano il soccorso delle leggi che tacciono, e che non osan servire loro di egida contro il fanatismo che li priva d’ogni sostegno. Non più messi a contribuzione i popoli e resi impoveriti da tasse onerose che arditamente si riscuotono sotto pii pretesti, la venalità delle grazie celesti non diminuirebbe la giusta idea che aver devono di una religione di verità. Sarebbe più puro il lor culto e crescerebbero le pubbliche forze. Somministrati i doni che concede il Vangelo a’ fedeli senza venalità del clero, col diminuirsi allora il falso zelo pe’ dogmi di pura umana invenzione, che più non gli servono di vantaggio, s’accrescerebbe la ricchezza de’ sudditi, che penetrati della più viva riconoscenza, darebbero prove continue e sovente ripetute di amore a’ sovrani, che sanno richiamar dall’obblio colla filosofia tante fonti inesauste di felicità.

Più felice il clero stesso, goderebbe della stima delle nazioni; non gl’imporrebbero con una fastosa opulenza, ma le virtù esercitate da chi le insegna si renderebbero ognor più rispettabili. Finita la cagion di mantenerle nella ignoranza, risplenderebbe con frequenti e lucide prove di vera carità. Abbolito lo spirito di persecuzione, si stabilirebbe la divina tolleranza, e le celesti sue massime circolando ne’ cuori, sarebbe per sempre atterrato l’abbominevole simulacro del fanatismo.

I renditi copiosi de’ luoghi pii sarebbero un nuovo fundo pelle spese della pubblica istruzione.[14] L’inerzia favorita da una stupida pietà non sarebbe più la passion dominante di un gran numero di mendicanti, che in più guise sono il flagello della società. Ma se fossero istruite le nazioni, ogni uomo sarebbe allor persuaso che per esser felice gli è d’uopo indubitatamente concorrere all’altrui bene, all’altrui felicità.

Libro Secondo. Della Puerizia.

Reddere qui voces iam scit puer, et pede certo
Signat humum, gestit paribus colludere, et iram
Colligit, ac ponit temere, et mutatur in horas.
Horat. De art. poet. vers. 158 et seq.

I. Idee elementari di codesta età.

Cessati i gemiti col sortire dallo stato della inoltrata miseria, ove la sua vita era sempre vacillante e dubbiosa, entra il fanciullo in un altro meno infelice, in cui articolar potendo le parole, più non ha d’uopo di pianti per manifestare i bisogni. Se soffre, spiega il soggetto de’ proprj dolori, ne addita le circostanze e quasi ne misura i gradi di sensazione. Se non è sicuro della forma degli oggetti che vede in una data lontananza, celere si trasporta vicino, li esamina e se ne convince.

Sviluppati in parte i di lui sensi, non è più stupido. Conoscendo poco a poco come rimediare da sè a’ bisogni, impara a far uso delle sue forze. Acquistando ogni dì nuove nozioni, abbandona l’inerzia che lo manteneva intorpidito durante l’infanzia, pronto diviene ed attivo in tutti i movimenti, e riceve in fine un’altra vita.

Questa nuova maniera di esistere è la puerizia. Non fisserò l’età che la decide. I climi, gli alimenti, i diversi generi di educazione la ritardano o l’accellerano.

I naturali piaceri e solazzi accompagnandola la rendono giojale. Sempre ridente e gioconda, ha l’amenità dipinta sulle rosee guancie. Le sue epoche misura co’ divertimenti che l’alettano, ed ovunque la conducano le sue nuove sensazioni altro non cerca che movimenti agradevoli.

Giammai conoscerebbe la tristezza, se non gli fosse crudelmente insinuata da chi la dirigge. Se i suoi innocenti piaceri non venissero interrotti dall’autorevole imbecillità di chi la governa, ignorerebbe l’odio ed il rancore. Se non si osasse mantenerla in un ributante contegno, signoreggiata tal volta non sarebbe dalla dissimulazione. Se con tanta barbarie non si punissero in essa le immaginarie mancanze, non avrebbe alcuna nozione dell’ira e della vendetta. Se colle ree preferenze non se ne eccitasse la gelosia, questo mostro non insinuerebbe in lei le più nocive passioni.

Nè buono nè cattivo nasce l’uomo. Ha seco i germi delle virtù e de’ vizj. Se nell’infanzia non gli s’ispirasse, con perniciose abitudini, le idee di male, entrerebbe nella puerizia ben preparato alla felicità. Per renderlo buono, allontaniamo dunque da lui in questa nuova età gli esempj viziosi, giacchè l’esempio è quello che prescrive a’ fanciulli i doveri i più forti, imperocchè fra’ buoni imparano a ben vivere e fra’ cattivi il loro spirito si corrompe.[15]

Fortunati alunni, che diriggo colla via suggerita dalla natura, ascoltate le sue voci, aprendo per riceverle i recinti del vostro cuore. Cercate d’imprimervi buoni principi e di acquistar abitudini virtuose, giacchè un vaso nuovo longa pezza conserva l’odore del primo liquore che ha ricevuto.

… nunc adhibe puro
Pectore verba, puer, nunc te melioribus offer.
Quo semel est imbuta recens, servabit odorem
Testa diu.
Horat. Lib. I. Epist. II. vers. 67 et seq.

II. Come diminuire la sensazione del fisico dolore, ed evitar quella dei dispiaceri morali.

Siamo sulla terra come i pesci che radono al fundo del mare, ingolfati in un vasto fluido che da ogni parte ci circonda e di cui ne ignoriam l’altezza. Se accostumati dall’istante della nostra nascita alla pressione dell’aria, che è uguale ed uniforme sopra tutta l’estensione de’ nostri corpi, non la sentiamo perchè è continua, non potremmo forse diminuire le situazioni di pena ne’ fanciulli a forza di repeterle e di rendergliele famigliari? Nati per soffrire, esposti assai più al male che al bene, si diminuirebbe la nostra infelicità col renderci incalliti contro i sì reiterati attacchi del dolore, le cui sensazioni, se fosser deboli e modificate, si cangierebbero allora in sensazioni di piacere.

Il modo di accostumare i fanciulli a soffrire ce lo insegna Locke. Non vuole questo filosofo che si faccian sentire le sensazioni dolorose in castigo di qualche azion biasimevole, e consiglia che si scelgano i momenti i più felici ne’ quali in preda ai divertimenti, avendo l’animo allegro, non si presenta il dolore sotto quell’aspetto che ispira ribrezzo ed orrore. Consiglia di più a camminar gradatamente in queste sperienze e di accompagnarle con maniere e giuochi che loro esser posson grati e giocondi.

Coll’accostumare gli uomini dalla fanciullezza a famigliarizzarsi col dolore, rendendoli men sensibili al medesimo, si scemerebbe la somma delle loro sventure. La prima lezione, dice bene Rousseau, è d’insegnare all’uomo a soffrire, e quella di cui ne avrà maggiore bisogno.[16]

L’idea del dolore non si limita soltanto nelle fisiche sensazioni che affettano il nostro corpo, ma si estende assai più sulla nostra esistenza morale. I desiderj smoderati, che ci empiono l’immaginazione di oggetti magnifici e grandiosi e di funeste chimere, c’impediscono il godimento de’ piaceri reali, ci confondono le vie che conducono ai veri vantaggi, ci fanno errar senza guida in un vasto mare di errori e ci rendono fra tutti gli esseri che abitano questo emisfero forse i più miserabili. Cerchiamo ad ogni momento di aumentar le nostre brame, le nostre cupidigie, senza riflettere che da noi non dipende di accrescere in ragione le forze di soddisfarle. S’innoltri anco in sì fatta guisa nelle immense regioni dell’inganno senza vederne la sortita. O uomini stupidi! Perchè correr così da forsennati in abissi di sventure?

Le prime istruzioni con cui i miei precettori ricercheran di condur gli uomini alla felicità tenderanno a rischiarire la puerizia, età in cui comincia ad aprirsi l’intelletto umano, nella cognizione delle sue forze. Di quali beneficj non colmerebbero i loro alunni col dar idee precise, chiare ed esposte con un metodo facile e piacevole sulla debolezza delle lor forze, e sulla follia di volerle estendere fuori di un centro sì limitato ed angusto! Alcune azioni servirebbero sì evidente ragionamento.[17] Esperienze fatte alla loro presenza, eccitandone le risa, li persuaderebbero essere insussistenti le tentative di voler aspirare ad un oggetto da cui ci allontana la propria debolezza.

Più che agli subordonati precettori, s’aspetterebbe a’ consiglieri filosofi l’operar portenti sì grandi di saviezza, giacchè ad essi dovranno esser palesi le traccie le più segrete dello spirito umano.[18] Si facciano simili sperimenti con precauzioni, mentre altrimenti potrebbe arrivare che in vece di ottenere il nostro intento, i mali, gli infortunj crescessero pella sensibile umanità.

III. Nutrimenti.

Più mi faccio a riflettere sull’idea di sminuire le sensazioni di dolore ne’ fanciulli, più gemer mi conviene della infinita varietà dei modi con cui si rendono proprj ad essere affettati da continue disagradevoli impressioni. I nervi in proporzione più grossi ne’ fanciulli che negli adulti sono più facilmente irritati dagli scherzi imprudenti, dalle dispiacevoli sorprese, dal timore, dalla quantità e qualità de’ cibi. Come gli eccessi che si commettono nei nutrimenti sono i più comuni e quasi i più perniciosi, fissiam su di ciò per qualche momento la nostra attenzione.

I zuccari, pasticini, torte e dolci con cui ordinariamente si ricompensano le buone azioni de’ fanciulli, e col più rio fiele, perchè ornato da una amabile apparenza, con cui s’invitano bene spesso a mentire, a fare rapporti di cose arrivate, testimonianza sull’altrui condotta, non solo guastano loro il senso del palato, ma insinuano diversi umori che attaccano la teoria dei nervi. Il thè, il caffè, la cioccolata usate presso molte nazioni sino dal popolo, non son già liquori proprj a fortificare i fanciulli, ma a renderli gracili e spiranti. Gli aromati, le spezierie della odierna cucina, le vivande troppo succolenti e delicate sono pur troppo i fatali stromenti che s’impiegano per formar corpi illanguiditi, incapaci di fatica.

Qual uomo sensato potrà mai invidiare all’opulenza sì funesti vantaggi? Fate, o parasiti di cui abbonda la patria mia, fate pure l’elogio di mense squisite. Formate ombrose e squalide figure fra i giuochi che vi rovinano; formate il soggetto de’ vostri trattenimenti de’ tozzi i più delicati che si servirono in tante e sì sovente ripetute feste. Passate i vostri dì nel parlar della voluttà del palato. Alla novella dell’arrivo di un pesce marino, di fagiani, pernici ed altri fetenti selvatici, portatevi frettolosi alla dimora sfarzosa del ricco, chinate alla di lui presenza profundamente il capo, radoppiate gl’interessati omaggi e le mal tessute adulazioni con cui vilmente lo onorate, servendo di ludibrio agli stessi arroganti domestici di cui son pieni i fastosi palazzi de’ grandi. Riconoscente pei modi con cui lo corteggiate senza stimarlo, tale orgoglioso possessor di ricchezze pronto ripartisce con voi i ributanti cadaveri, che annunciano colle pestifere lor esalazioni i semi di malattie, mischiati co’ vini i più rari già guastati dalla venale cupidigia dell’avaro mercadante; inghiottite, che non lo invidio, con avidità ne’ vostri lividi corpi sì pestiferi umori. Spogliati, ancor gonfj di carni, pieni il ventre di pavoni, andate in traccia delle tante morti subitanee che vi troncano il filo della vita senza poter fare uso del piacer di testare,[19] o non potendo far la digestione cercate almeno, se è possibile, d’infiammarvi il petto, e perdendo la facoltà di dormire, morir di languidezza.[20]

Mi diverto nel leggere come gli antichi se la pensavano sulla intemperanza. Orazio chiama in soccorso i venti di mezzo giorno, affinchè portino celeramente la corruzione nelle pietanze di codesti sensuali; e continuando soggiunge: e che dico? già vi si ritrova lo stomaco ammalato, e fa loro trovar pessimo il cignale, il rombo il più fresco, e preferire le radici e gli altri acidi legumi.[21]

Questo poeta poteva ragionar con fundamento. Accostumato nelle case de’ primi signori di Roma ad assistere sovente a tavole squisite, non si può dire che parli per umore, ma penetrata di verità che vedeva sì sovente ripetute avanti gli occhj e che provava in lui stesso. Nella medesima satira così si esprime: Vediamo ora i vantaggi della frugalità. Primieramente con essa siam sani. Per esserne convinti sovvengavi di qualche pasto moderato a cui vi siete sì ben trovato altre fiate. Dappoichè ai sgarzetti e rosti si mischiano i selvatici ed il pesce, le carni dolci si cangiano in bile, ed una pituita oziosa fa mille stragi nello stomaco. Rimira i pallidi visi di coloro che sortono da una gran mensa: il capo affaticato dagli eccessi della vigilia rende pesante lo spirito ed attacca alla terra questa parte di soffio divino che ci anima.[22] In altro luogo esclama colla stessa energia: Chi aspetterà con maggior fiducia i colpi della fortuna? O colui che accostumato ha il suo corpo troppo delicato a mille falsi bisogni, o colui che contento di poco e temendo l’avvenire avrà, come il saggio, fatto durante la pace gli apprestamenti della guerra?[23]

Cicerone colla solita eloquenza cerca d’ispirare ne’ suoi leggitori il necessario orrore pegli eccessi della mensa. E chi sa, così dice, che quando si ha lo stomaco pieno di vino e di vivande, lo spirito non è più capace di far le sue funzioni? Non sarete mal soddisfatto che vi rapporti a questo soggetto il fragmento di una bella lettera di Platone ai parenti di Dione di Siracusa, ove parla così di quella città: “Vi confesso che questa pretesa vita felice e queste tavole ove si ritrovano riunite tutte le delicatezze dell’Italia e di Siracusa non mi piacquero in veruna guisa. Qual vergogna di empirli di vivande due volte il giorno e di non poter far letto a parte una sola notte, senza far conto di tutti gli altri accompagnamenti di una vita simile! Se menandola non è possibile di aspirare alla saviezza, lo è assai meno di diventar temperante; imperocchè qual naturale maraviglioso potrebbe mai resistere ad una tal depravazione?”[24]

Nel medesimo libro delle sue Tuscolane si esprime in tali accenti: A questi vantaggi della sobrietà non ismentichiamo quello che rende il corpo agile e disposto, mantenendolo in una salute ferma e vigorosa. Per meglio giudicarne, confrontate, vi prego, le persone sobrie colle sudanti, esalanti e piene di vivande che si potrebbono benissimo paragonare ai buoi destinati ai sagrifici. Se vi fate riflessione, vedrete che quelli che cercano con istudio le voluttà sono quegli stessi che meno le ritrovano, e che il piacere consiste più nel desiderio che nel satollamento.[25] In una altra delle sue opere fa in più maniere gli eloggi della temperanza, dicendo che essa coll’esercizio può conservare ai vecchj stessi parte del loro antico vigore.[26]

Platone, dopo di aver decorati i ghiottoni del titolo di creofili coi termini i più espressivi, soggiunge che il desiderio di ogni sorta di vivande, desiderio che si può reprimere con una buona educazione, desiderio nocevole al corpo ed allo spirito, di cui ne abbrutisce la ragione e risveglia le nocive passioni, dev’esser tenuto più degli altri illeciti desiderj per un desiderio superfluo.[27]

Plauto nella prima scena della commedia intitolata i Prigionieri così parla colla bocca di Ergasilo contro quei vili parasiti perduti nello stravizzo, adulatori, buffoni e codardi:

Prolatis rebus parasiti venatici
Sumus: quando res redierunt, molossici
Odiosicique et multum incommodistici.

Se volessi qui rapportare tutt’i passaggi degli autori i più celebri dell’antichità mi renderei troppo difuso. Dirò di più che temo di avermi abusato della indulgenza di chi mi legge nel volere appoggiare un sentimento che non sarà mai contrastato da chi è diretto dal buon senso. Conchiudiamo con un illustre moderno che l’intemperanza distrugge e fa languire maggior numero d’uomini che tutti gli altri flagelli riuniti della umana natura:[28] sentimento chiaramente esposto negli afforismi d’Ipocrate e da tutti gli altri medici, ed indi messo a portata di ogni leggitore dal celebre signor Tissot.

Mi sembra che Rousseau, nemico della intemperanza, si sia troppo lasciato trasportare dal suo zelo per fino a declamare con tanta energia contro l’uso delle carni. I nostri ragionamenti in ogni genere, se hanno da esser giusti, devono esser presi nell’ordine fisico, cioè nella natura stessa. Altri autori coll’esame anatomico del nostro stomaco ci provarono esattamente il contrario. Fra questi sceglierò uno de’ più eloquenti; il signor di Buffon, dopo aver esposte le ragioni perchè sia necessaria una sì gran quantità di erbe per alimentare tanti animali, soggiunge: Da quanto abbiamo detto risulta che l’uomo, il cui stomaco ed intestini non sono di una grandissima capacità relativamente al volume del suo corpo, non potrebbe vivere di erbe sole.[29] Rapporta per esempio la languidezza de’ contadini che non possono nella miseria cibarsi di carni. Ecco dunque la cagione per cui siamo tenuti a scegliere nel nostro sostentamento carni, grani ed altri cibi, che contenendo molte materie organiche possano colla qualità supplire alla quantità.

Se le carni sono un nutrimento conveniente agli adulti, non lo saranno però pe’ fanciulli; nè le ricercate vivande poi non porteranno al capo de’ medesimi que’ disgustosi vapori sì famigliari ai parasiti e che sono in parte cagione dei putridi morbi. Laticini, zuppe, erbami, legumi sani e non già cresciuti nel lettame umano, risi, grani e frutti sani saranno i loro cibi consueti, e presentati tiepidi o freddi.

A ragione condanna Platone l’uso del vino puro. L’acqua è la bibita la più naturale pella loro età, scegliendone la più leggiera, o rendendola tale colla filtrazione e distillazione se piena si ritrova di particole estranee e malsane.

Se attenti gli antichi a formar corpi robusti, proprj a sostener la difesa e l’onor della patria, non alimentavano i fanciulli se non con cibi ordinarj e sani, perchè non dovremmo noi imitare sì prudenti esempj? I pasti sobrj e semplici potrebbero dispiacere a’ ghiottoni, ma non già a quelli che elevati nella frugalità non si cibano già pel piacere, ma solo per soddisfare i bisogni della natura.

IV. Esercizi e vestimenti.

Sovente si discorre, si disserta sulle ragioni della forza straordinaria degli antichi. Le statue di uomini muscolosi, grandi e sì ben proporzionati ci sorprendono; le tante maestose matrone, le vaghe e sì ben fusellate donzelle dei primi secoli della Grecia frugale e di Roma virtuosa ci recano maraviglia. Il nostro stuppore ci porta tal volta a sospettare gli scoltori di quei tempi dello stesso entusiasmo che ne animava i poeti ad ingrandire ed ornare gli oggetti e le figure. I soldati che traversavano i vasti deserti sopportando la fame, la sete, le intemperie tutte delle stagioni, carichi sì delle spoglie de’ nemici che di provvisioni ed armi di un peso sorprendente, talmente colpiscono la nostra immaginazione che ci decidono a formar mille dubbj. O uomo pallido e smonto, che appena arrivato alla virilità porti l’impronto della vecchiaja, incapace delle più limitate fatiche, più non istupire nel legger sì sorprendenti imprese! Il lavoro, le penose cure, l’esercizio, oltre la scelta de’ cibi, è l’unico segreto.

Seguite, fanciulli miei, gli stimoli della natura. Non andate in traccia de’ raffreddori, tristi doni di un ostinato ritiro. Fuggite i gabinetti rinchiusi, le sale troppo riparate dalla violenza de’ venti, esponete i vostri corpi alle pressioni più forti di codesto fluido attivo. Imparate a sprezzar nevi, pioggie e gli ardori del sole! Col camminar sovente nella oscurità, imparate a non temer l’ignoranza degli oggetti, che accagiona tanti spaventi. Fate uso della vostra libertà, che naturalmente vi porta a questi innocenti piaceri! Uguaglierete un giorno gli Ettori, gli Ajaci, gli Achilli.

Amano i fanciulli d’imitare i regolari movimenti dei soldati. Lungi d’impedirli in questi solazzi, si accostumino a farli con ordine. Diretti da qualche esperto in quest’arte, non impiegate, o precettori, rimproveri e pene per riuscirvi, ma bensì le lodi. Parte de’ medesimi correranno valorosi un giorno a difender la patria. Accostumateli gradatamente a portar pesi, a non temere il pericolo dell’acqua coll’avvezzarsi al nuoto. Lasciateli correre allegri nelle campagne: il chilo, le secrezioni, le digestioni diverranno più facili. Aggrimpando sugli albori, saltando e correndo giojosi animerebbero la circolazione e favorirebbero lo sviluppo della machina. Non mai coperti il capo,[30] ignorerebbero le flussioni e tanti altri mali che rendono la nostra vita cotanto infelice. Liberi e sciolti ne’ vestimenti, non si guardi l’apparenza ma l’utilità e la salute. I stretti legami, gli abiti angusti, comprimendo il petto, le vene, i nervi, sono tanti ostacoli al continuo accrescimento di questa età, in cui la natura fa ogni giorno rapidi avanzi verso quello stato nel quale, finito avendo di formar la sua regolare figura, comincia a prendere una opposta direzione ed avvicinarsi poco a poco alla diminuzion delle forze, indi poi alla rovina ed alla morte.

Ecco, amati fanciulli miei, l’indubitabile carriera della vostra felicità. Col pensare a’ vostri piaceri ho di mira lo sminuire le tante dolorose sensazioni che ci tormentano. Giojosi e contenti ringrazierete gl’istruttori che sapranno guidarvi con tali pensieri a formar corpi sani e robusti. Quanto non ajuterebbero queste idee il morale sistema! Quanti portenti di virtù produr non saprebbero!

Accostumatevi così di buon’ora a non lasciarvi abbattere dalle vicissitudini dalle quali l’umanità suol sempre esser minacciata, ed a rendervi superiori a tutte le rivoluzioni della natura, via sicura per esser felice in qualunque stato, in qualunque condizione. Queste massime convengono all’uno ed all’altro sesso, ai figliuoli degli opulenti ed a quelli della plebe.

V. Nobili fanciulli affidati a’ Regolari. Perniciose conseguenze.

Sventurati mortali! Ingannati da quelle stesse passioni che servir vi potrebbero di guida alla felicità, viaggiate di errore in errore questo spazio che vi conduce alla vita immortale. Invece di cercare il cammino il più facile, il più agevole, vi compiacete nelle vie tortuose e difficili. Navigate sopra un mare di angoscie pien di pericoli e di sventure, e le navi che condur vi debbono al porto, dirigger le lasciate da mal esperti e perniciosi piloti. Tale è la vostra condizione, uomini infelici! Come gli uccelli che in ogni parte col cibo trovan lacci tesi dalla crudeltà de’ cacciatori, se stanchi riposar volete delle sofferte fatiche, non trovate che insidie preparate dal fanatismo. La rivelazione che guarir vi doveva dai vostri mallori, abbandonatene le cure in mani venali, vi preparò nuovi affanni, nuovi guaj, che saranno con molta pena creduti dai vostri posteri, rischiariti col volger dei lustri dai benefici lumi della sana filosofia.

Se appena sortiti dal sen della madre col latte succhiamo la corruzione; se ingannate dalla ignoranza, figlia della superstizione, le persone che hanno la cura della nostra infanzia ci affettano colle più cattive inclinazioni, arrivati nella puerizia, solleciti i Regolari seguitano la medesima direzione, e nel cader che ne fanno sugli animi nostri gli errori, non trovano le materie mezzane che ritardano il corso dei corpi leggieri. Con mille idee rivoltanti si colpiscono le fibre del nostro intelletto. I demonj intenti a pervertirci, fantasmi orribili o false idee di pietà sono i primi oggetti che urtando con violenza sconcertano i deboli organi del cervello de’ fanciulli. Le convulsioni, i tremori, i panici spaventi, le funeste larve, gli spiriti immondi, le immagini tetre e lugubri sono le prime elementari istruzioni che in alcuni producono la stupidità, in altri i delitti. O tristo spettacolo del fanatismo! Sognarono i fanatici, ed i lor sogni caliginosi trasmessi alla posterità ed annunciati agli uomini con un seducente apparato, dovranno servir poi di fundamento alla nostra educazione!

Rallegratevi, fanciulli miei, porre non vi voglio in balìa di pedanti, che accostumati alla vita monastica viver vi farebbero fra le vigilie, il silenzio, le astinenze e le continue e tal volta indecenti preci, e che ignorando la marcia della natura vi assoggetterebbero a pratiche superstiziose che corrompono i semi della verità. Non conoscerete congregazioni, camerate, ritiri spirituali, tridici, novene, confraternità ed altre simil’istituzioni che tanto riscaldan le menti e le passioni violenti e che indicate non son dal Vangelo. Un precettore ignorante dei modi con cui vanno dirette non avvilirà gli animi vostri con minaccie insane, con battiture ed altri atti tirannici, che ispirano la codardia, la dissimulazione, i falsi rapporti, le ingiustizie, la persecuzione ed altri vizj che s’imparano alcune fiate. O nazioni sventurate che confidate l’educazione a’ Regolari, che già da lunga mano prepararono il metodo di sottometter le coscienze e di render gli uomini intorpiditi nella inerzia, sentite i clamori della filosofia! Non son questi i soli infortunj di un sì fatale sistema; altri ne voglio annunciare ancor più forti che mi suggerisce una trista esperienza. Tremate, se avete un’anima sensibile per i mallori di cui son tuttavia minacciate le infelici vostre figliuolanze! Me fortunato, se posso strapparle dal baratro della turpitudine!

O innocenza, innocenza, dono il più grato dell’incomparabil Fattore, a quanti pericoli non ti vedo esposta negli odierni colleggi? Governati da uomini di celibe apparenza, pieni di quelle passioni che non possono soddisfare per l’ingiusto rigor di leggi crudeli, dirò come trionfan della tua debolezza? Dovrò forse descrivere come la seduzione fa una aspra guerra alla incauta modestia? Lo palesino i corpi consunti ed illanguiditi, le stesse facoltà dell’anima rese per così dir squalide ed abbattute. Parlate, o figure pallide e spiritanti, che in una sì verde età annunciate una precozia vecchiaja; pubblicate pure co’ segreti del vostro cuore le infami produzioni di opere tenebrose involte nel velo della notte o della oscurità, spesso accompagnate da preparazioni superstiziose, da uno stile ricercato e morbido, che aprendo il varco de’ vizj vi rendon poi insensibili alle impressioni de’ sociali doveri.

Ecco la cagione di tante consunzioni e malattie che vi annuncia un uomo illustre con sì gran fundamento.[31] Ecco come si vedono fra i nostri nobili alunni tante ombre spiranti, molte incapaci di procrear la specie ed altre che non producono se non generazioni ugualmente gracili e sventurate. Deh! fanciulli miei, non lasciatevi sedurre da adulazioni, sfuggite lungi da tai lidi, fra i fiori e le fragole; il serpente è nascosto sotto l’erba tenera.[32]

Potrei qui parlar di un altro vizio più turpe, non men commune. Troppo inorridisce la mia immaginazione. I termini più oscuri con cui potrei invilupparne la mostruosa descrizione non son già sufficienti a farmi rompere il silenzio ed a svelare un sì terribile mistero.

Quantunque la persecuzione sarà forse il guiderdone del coraggio con cui espongo sì utili verità, se arrivo a scuotere l’animo di qualche genitore, a renderlo accessibile alla pietà e ad allontanare i prodotti del suo legitimo amore da questi sicuri inciampi dell’innocenza, sempre mi stimerò largamente ricompensato de’ deboli frutti di coteste letterarie fatiche.

Se lo scopo che si propongono i Regolari nell’istruire la gioventù è di sottometter di buon’ora l’opinione, lo spirito e la coscienza al loro illegale dispotismo; se il lor desiderio e le loro cure tutte tendono a distrugger la divina tolleranza, ad ispirar ribrezzo per tutti quelli che si discostano dai lor sentimenti e che nulla vogliono ammettere se non dopo esser passato sotto il criterio scrupoloso della ragione o della rivelazione, sarà provato ad evidenza esser sommamente pericoloso il confidar loro l’educazione de’ nobili alunni.[33] Al solo tribunal della educazione, a’ precettori laici che da esso lui dipendono s’aspetta una tal cura. Lo facciano pure con modi che ajutino lo sviluppo della ragione e la ricerca della verità.

Avviso non aver già io avuto di mira di sostenere esser tutt’i Regolari contaminati di quelle turpitudini con cui si corrompe la fanciullezza e l’adolescenza. Conobbi fra i medesimi io stesso alcuni amanti della verità, di un animo pien di candore, che procurano di metter argini ad un sì funesto torrente. Ma sventuratamente il maggior numero in essi non consiste.

Non posso finir questo capitolo senza aggiungere ancora altre riflessioni, che danno nuova forza per sostenere le prove già indicate contro l’educazione affidata a’ Regolari, principalmente nella nostra nazione. Qui parlo sopra il tutto della puerizia.

Questa tenera età è in ogni guisa ben degna di rispetto. Guaj alle menzogne, guaj agli errori che gli s’insegnano, mentre gli formano solchi profundi nel cuore. Datane la cura a Regolari che non sono rischiariti nei veri principj della religione, mille puerilità si danno a credere a’ fanciulli furiosamente perniciose allo sviluppamento delle facoltà dello intelletto.

Mi ricordo che quando era per anco fanciullo sentiva sì da’ preti sobbordonati chiamati prefetti come da’ padri stessi nostri supremi direttori far sovente racconti di contratti col demonio. Mi sovvengo che uno de’ miei condiscepoli n’era sospettato in un modo assai rimarchevole. Levatosi per tanto una notte non so per qual ragione, non solo lo viddi, ma mi parve udire qualche rumor misterioso. Mi si adrizzarono i capelli e versai sudori spaventosi, perchè mi persuadeva essere il picciolo mio amico in confabulazione col mostro infernale. Tremai tutta la notte e mi credeva quasi io stesso alle prese, perchè aveva l’immaginazione piena di demonj e di patti conchiusi con essi loro. Il dimani ne feci la relazione a’ più religiosi nostri direttori. Fu chiamato il fanciullo sospettato colpevole di un sì atroce delitto ed esaminato. Il timor del castigo, lo riscaldamento de’ suoi pensieri lo fece titubar nell’esame. Fu creduto per certo il di lui contratto col demonio, fu battuto il meschinello, mantenuto varie settimane sotto la più inumana disciplina, nelle astinenze, mortificazioni, divozioni straordinarie, esorcismi ad altre simili pratiche. Confidate, o genitori, dopo un racconto sì sincero, le vostre tenere figliuolanze a’ Regolari!

Tal idee tenebrose mi si scolpirono talmente nello intelletto che nella adolescenza e perfino nell’entrare della gioventù credeva simili favole. Se col tempo arrivai a scuoterne il giogo, ho avuto bisogno degli sforzi i più straordinarj per riuscirvi. Non me ne persuasi del tutto della assurdità se non cogli studj da me stesso intrapresi. A forza di ragionare, di leggere, di sentir ragionare uomini dotti, mi convinsi che per credere cose sì orribili si dovrebbe supporre una convenzione fra l’Essere Supremo ed il demonio, una stipolazione formale; che ogni qual volta un fanatico fa certi giri o pronuncia certe parole misteriose, Iddio permetta al demonio di produrre a buon grado dell’indicato fanatico ciò che gli chiede una scienza certa delle parole o smorfie necessarie al fanatico per produrre prodigi di tal natura. Un trattato fra Dio ed il demonio mi parve una cosa troppo ingiuriosa alla dignità divina e il colmo della umana stravaganza.

Quando penso che nella mia nazione vi son moltissime persone che per dovere del loro stato dovrebbero essere illuminate, e che prestano fede a fatti sì abbominevoli, mi si accresce l’orrore che aver devo come un affezionato cittadino per ogni genere di educazione abbandonato alla balìa dei Regolari.

VI. Vita sedentaria. Inconvenienti che ne derivano.

Il signor Tissot dice che gli effetti di una vita troppo sedentaria sono di distruggere la forza dei muscoli, e di metterli col mezzo della dissuetudine fuori di stato di sopportare il movimento. La circolazione, privata di un soccorso considerevole ed abbandonata alle sole forze del cuore e dei vasi, s’indebolisce tosto nei più piccioli, ed infine in tutto il corpo.[34] Se questo grand’uomo osserva conseguenze sì dure nella vita sedentaria degli adulti, che non si dovrà poi pensare degli effetti dello studio, dei ritiri regolati e giornalieri a cui si obbligano i fanciulli, ne’ quali, più deboli essendo i nervi, i muscoli, le tendini, le fibre, più facilmente altresì ne debbano esser sconcertati. Il costume inveterato di tenerli seduti e piegati in linea curva sui tavoli delle scuole, tal volta applicati allo studio poco dopo la mensa, rallentisce la digestione, la rende ineguale e rovina lo stomaco.

La difficoltà della digestione, coll’indebolire i nervi, appoverisce il fluido benefico del sangue. Le traspirazioni soffrono mille ostacoli, e non potendosi far con libertà, si trova in ogni parte smossa e sconcertata tutta la machina, che troppo difficilmente si rimette dell’abbattimento che provò nella fanciullezza.

O uomini ingiusti! o genitori crudeli! Perchè pretender mai di trasformare i figliuoli vostri in tanti dottori in una età che incapace di serie riflessioni, non solo perdono il tempo che impiegano agli studj indefessi, ma formano una salute sì gracile che li rende incapaci dei letterarj travagli, allorchè sarebbe il tempo il più conveniente per applicarli, ed in quegl’istanti ne’ quali li porta la loro natural propensione?

L’applicazione lunga ed assidua ne’ fanciulli è un vero veleno per la fisica non solo, ma per la moral costituzione. I loro organi son deboli, non posson resistere ad un’attenzione sostenuta; qual arco troppo teso, risica l’intelletto loro di perder la sua necessaria elasticità.

Il tuono imperioso de’ maestri, gli sguardi loro tetri e ributanti, le continue inquietudini che ispirano la severità ed il contegno in tutt’i diporti, la fatale sostrazione del tempo che impiegar dovrebbero ai loro piaceri, alle lor corse ed esercizj, la qual sforzata quiete, la noja, il timore di meritarsi rimproveri e pene rendono i fanciulli malenconici. Perdendo la gioja, compagna inseparabile della salute, col logorarsi il temperamento, s’avanzano a gran passi alla morale languidezza, dissipano la vivacità, divengono taciturni, il lor sonno è sovente interrotto da sogni lugubri, i lor sensi tutti ne soffrono; ed invece di divenir precozj dottori, con una morte immatura ed inaspettata ingannano così le chimeriche e sublimi speranze degl’ignari parenti, che indarno bagnan di lagrime le dolorose lor ceneri.

Lungi dalla educazione massime sì menzognere. Non affrettiamoci nel pretendere dalla gioventù progressi sì precozj. Il primo oggetto che animar ci deve si è la formazione di un vigoroso temperamento. Le nostre precauzioni per riuscirvi prepareranno anche lo sviluppamento delle facoltà dello intelletto. Seguiamo, il ripeterò sovente, in tutti gli oggetti gl’irrefragabili precetti dell’ordine fisico. Sia pur la natura, che non inganna giammai chi attentamente la consulta, il nostro scopo.

VII. Amor della beneficenza. Modo d’ispirarlo.

Sebbene la generosità dovrà essere insegnata ai fanciulli di tutti gli stati della società, è però incontrastabile essere assai più necessaria al figliuolo dell’opulente che a quello dell’abitante della rustica capanna.

Se siamo accertati che l’altrui esempio è la più insinuante istruzione che dar si possa nella puerizia, frequentemente ripetute dovranno essere le azioni di beneficenza da’ precettori a’ nobili alunni, come di quella sublime qualità la più necessaria a questo stato. Non solo si dovrà alla loro presenza fare atti di umanità, ma invece di favole e di puerili fandonie, raccontar tutte quelle gesta le più addattate ad ispirarla, in modo che ben si persuadino che nobile esser non si può senza esser benefico, e che crescono i gradi di nobiltà a misura che più ripetuti sono gli atti di beneficenza. Inculcherei loro che sedici infelici sollevati dalla indigenza o dall’oppressione sono doti ben più lucide dei sedici quarti ridicoli di cui scioccamente si gloriano molte altiere e stupide famiglie germane.

Non v’ha dubbio che in tal guisa imparerebbero ad amar la beneficenza. Questi piangerebbero alla vista di uno sventurato a segno che le deboli lor forze non posson soccorrere, quelli sprezzerebbero ogni pericolo per correre impetuosi ad ajutare un infelice. Tutti anderebbero in traccia di simili occasioni, per innafiar il lor cuore del delizioso interno sentimento che si pruova ogni qual volta si fa saggio di un atto benefico.

… et mens sibi conscia recti,
Praemia digna ferant.
Virg. Æneid. Lib. I. v. 604, 605.

Sortendo ogni dì pei consueti esercizj, parmi che i più attenti loro sguardi si volgeranno curiosi per iscuoprire se possono servir di ajuto ad un indigente. Sparsi nel crudo verno pelle campagne coperte di nevi e ghiacci, talun di loro, dagli altri troppo allontanandosi, incontra un vecchiarello semimorto di freddo, non avendo sopra di sè cenci sufficienti a cuoprir la di lui nudità. S’arresta il nobile fanciullino, gli fa molte dimande, alle quali risponde tremando l’indigente canuto che gli chiede qualche soccorso. Il cuor palpita al mio alunno alla vista di tante sventure, scorre sopra di sè le sue mani, ma non trovando monete, talmente si commove che prorrompe in lagrime di compassione e si dispera. Pensa, riflette come ajutarlo, nelle tasche non ritrova alcun ornamento di qualche valore, ma avendo un abito nuovo, largo e comodo, lo mira, lo tocca, e malgrado la compiacenza

con cui lo porta, tanto può nel suo cor nascente l’umanità che tosto se ne spoglia, lo mette sul dorso dell’indigente e gli dice: corri quanto puoi, allontana i tuoi passi dal nostro domicilio, se non vuoi che ti si comandi di renderlo.

Vedendosi allora spogliato, affrettandosi ritorna alla casa, ed arrivato si nasconde in qualche angolo oscuro pella tema di rimproveri. All’arrivo della nobile brigata, veduto non avendolo i precettori al passeggio, novelle ne chiedono. Niun sa rispondere ove sia; inquieti indarno lo cercano in ogni parte. Un domestico arriva e dice, che avendo incontrato un poverello coperto con un de’ vestiti che appartener debbe a qualche alunno, interrogato avendolo gli rispose essergli dato in dono da un vago fanciullo. Si radoppia in questo punto la curiosità degl’istruttori, si fanno nuove ricerche, e dopo molte pene al fin lo trovano. Richiesto della cagion del suo ritiro, modestamente confirma il ricevuto rapporto. Assistendo il direttor consigliero filosofo ad una tal ricerca, tosto si precipita su di lui, teneramente abbracciandolo: lo stringe al seno, lo colma di lodi e lo bacia. Lo stesso fanno con lui gli altr’istruttori. Gli omaggi riceve da’ suoi compagni e la mestizia sua si cangia in gloria. Gode del piacer dell’atto suo generoso più che degli encomj e dell’altrui approvazione.

Passati però i primi momenti di gioja e tripudio, con buone maniere lo avverte il direttor filosofo che l’abito suo, a’ genitori appartenendo, regalar non lo poteva senza consenso. Seguita nulladimeno ad applaudire all’azion sua, ma lo consiglia che se vede un’altra fiata un infelice senz’aver da che soccorrerlo, gl’insinui di seguirlo per far che ricevi ajuto nel domicilio, e se lontano è dal medesimo lo conduchi alla vicina brigata, affinchè da’ compagni o da qualche istruttore ottener possa il bramato soccorso.

L’umanità, la compassione, la beneficenza esser devono le prime lezioni colle quali va cominciata la vera educazioni dei nobili e ricchi alunni. A forza di belle azioni e di precetti annunciati colle più piacevoli espressioni, s’insinui loro il bel sentimento di Cicerone: che più un indigente ha bisogno dei nostri soccorsi, assai più tenuti siamo di accordarglieli.[35]

Questo è il cammino di condurre gli uomini alla vera filosofia morale, la quale in altro consister non dovrebbe che nell’esercizio della virtù. Mille volte felici que’ mortali che la hanno per guida. Essi sol si meritano l’ammirazione de’ veri filosofi!

Nello scolpire ne’ teneri cuori de’ nobili fanciulli l’amor della beneficenza, si dovranno allontanare da quelle pubbliche profusioni che ben lungi di esser virtù non sono che un apparato di vane ostentazioni, poste in opera per meritarsi gli applausi della stupida moltitudine.

Venga però la beneficenza illuminata dalla ragione. Non serva di alimento alla troppo radicata inerzia del maggior numero de’ pretesi poveri che si abbandonano sulle pubbliche e private assistenze, dispensandosi di concorrere col loro lavoro agli altrui bisogni. È una bellissima virtù la beneficenza che eleva l’uomo e lo intenerisce di compassione pelle altrui sventure; ma se non è diretta dalla ragione, se non è guidata dalla verità, produce allora effetti contrarj a quelli che si propongono, e diviene senza verun dubbio un vero germe di povertà, di meschinità, di afflizioni in una nazione. Lo dicono i tanti luoghi pii, le tante pubbliche e private elemosine che empiono le città, i borghi e le ville di una infinità di vagabondi, che non solo sono a carico a tutte le classi di una nazione pel mantenimento che esiggono senza meritarlo col lavoro, ma pegli attentati che sovente reiterano contro il sacro diritto di proprietà, con aperte o celate violenze.

Le vere scienze economiche rese note ad ognuno colla pubblica istruzione rischiarirebbero nella giusta marcia della beneficenza. L’amore della umanità in un economista è rischiarito dalla evidenza, che non gli permette di errare in un tal cammino. Non soffre con piacere nello alveare della società se non gli uomini che col lavoro, co’ loro lumi ed altre occupazioni direttamente o indirettamente cooperano alla ostinazione degli avanzi della classe produttiva. Se i precetti delle sullodate vere scienze economiche fossero meditati da’ sovrani, scomparirebbero i numerosi stuoli degl’indigenti mendicanti. Queste scienze adottate, messe in uso, pubblicate, formerebbero il più bel tratto di beneficenza che aspettar possano le nazioni; e codesta beneficenza poi è di una natura sì elevata, che col rendere opulenti i sudditi e soda l’autorità tutelare, empie con ogni possa gli errari de’ monarchi.

VIII. Studj moderni delle scuole contrarj allo sviluppamento dello intelletto.

O sventurata nobile puerizia! Quanto compiango mai il vostro destino! Meno infelici i contadini seguitano gli stimoli del loro piacere, corrono pelle amene campagne della state e per le nevi del verno; con ischerzi, divertimenti e continui esercizj fortificano il temperamento, spiegan le lor membra ed atti si rendono a sopportar senza pena i più indefessi lavori. Ma voi, nobili alunni, rinchiusi in oscuri antri chiostrali, accostumati alla severità della monastica disciplina, i più verdi vostri dì consumate allo studio di più inutili pleonasmi che vi rendono intorpiditi ed inerti.

Pretendete forse, o ignoranti precettori, o agozzini feroci, di preparar di buon’ora l’intelletto de’ fanciulli affidati alla vostra cura alle più sublimi cognizioni, scolpendo colla sferza nella memoria tanti ridicoli sofismi che non possono intendere, e con metodi ancor più puerili?

Appena ha finito il fanciullo d’imparare ad articolare le parole nella lingua natìa, appena sa egli conoscer le lettere o con grandi stenti pronunciar quel che legge, che gli si presentano gli elementi di una lingua sapiente. Non ha ancora raunate nella sua memoria se non poche idee, perchè pochi furono gli oggetti riflessi dai suoi sensi, e si pretende che le spieghi in più lingue e con qualche eleganza. Congiugazioni, sustantivi, addiettivi, congiuntivi, ottativi, soggiuntivi, infinitivi, ed altre simili parolone pentagonali accompagnate da idee metafisiche ed astratte raramente intese dagli stessi precettori, sono le sue occupazioni, occupazioni su di cui si lividisce il viso, si logora la salute.

Ecco, o nobili alunni, l’oscuro labirinto in cui siete introdotti da guide mal esperte e menzognere. Errando ne’ recinti confusi che vi si presentano d’intorno, qual maraviglia se rari sono fra di voi quegl’ingegni felici, che circondati da vie ottuse ed inviluppate, sanno, rompendo la funesta barriera di tanti inciampi, sciegliere in una altra età il cammino che condur li possa alla scoperta delle utili cognizioni.

Invano si affaticano alcuni professori di provarmi il contrario. Accostumati a comandare con impero alla gioventù, a vedersi venerati più degli oracoli delle Sibille e dei trepiedi degl’idoli, il loro amor proprio, che troppo soffrirebbe di una riforma, loro suggerisce un nembo di obbiezioni e di difficoltà che propongono ai deboli legislatori, difficoltà talmente chimeriche che svaniscono avanti le prove della sana filosofia con maggiore agevolezza che non fanno gli elevati vapori se un vento caldo o impetuoso s’innalza per dissiparli.

Credo di avere fin ora annunciate diverse idee proprie ad una tale riforma. Nel corso di tutta quest’opera procurerò d’indicarne altre. Non lasciamoci sopra il tutto intimidire da immaginarie difficoltà. Se bramiamo di dissipare intieramente le tenebre della ignoranza, di sostituire ai tanti errori che ci hanno circondati durante tanti secoli l’evidenza, dobbiamo fare sopra di noi tutti gli sforzi possibili per arrivare ad una sì bramata felicità.

IX. Studj proprj alla nobile puerizia.

Scuotiamo una volta il magico edificio dei pregiudizj, scompariscan gl’incantamenti, disdradisi questa nube oscura, rompansi queste fatali catene; rendiam l’uomo alla sua natìa libertà, iniziam la puerizia ne’ veri principj su cui formar si posson raziocinj.

Non si presentino alla puerizia se non le idee le più chiare, precise, amene e vere. Guaj agli errori, guaj ai sofismi che s’insegnano in questa tenera età. Decidono pur troppo sovente del nostro bene o mal essere. Fallace il fundamento, falso ne sarebbe l’edificio. Idee oscure non posson guidar alla luce.

Un gran magistrato dice che i lumi conducono ordinariamente alla virtù, l’ignoranza e le tenebre al vizio.[36] Se non si saprebbe contrastare un tal principio, chi non sentirà ad evidenza la necessità di non insegnare a’ fanciulli se non verità, e verità sì luminose che non abbian bisogno di vani ed inintelligibili sillogismi per esser provate? Le soluzioni delle medesime divenute corolarj serviranno di problemi per le progressive dimostrazioni delle future età.

Oltre il leggere e scrivere colla maggiore esatezza, vorrei che fra le prime istruzioni della puerizia non si dimenticasse l’aritmetica. Non fisserò fin dove debbano arrivare i fanciulli di questa età. S’avanzerà ognuno di essi fin ove li può portare il loro talento. Per rendere i principj di cotesta scienza elementare più facili e più sensibili, li accompagnerei di oggetti. Se il calcolo astratto riesce difficile sino agl’ingegni i più felicemente organizzati, dirò che le prime regole dell’aritmetica apprese senza applicazione a cose materiali e visibili ritrograderebbero forse in alcuni che avanzare le facoltà intellettuali.

Il diritto, che non s’insegna se non finiti gli altri studj, potrebbe principiarsi nella puerizia. Giacch’è fatto per dirigerci nel cammino il più corto alla felicità sociale, perchè non cominciarne da buon’ora gli elementi?[37] Le prime idee di bene e di male sono semplici ed addattate alle forze de’ fanciulli. Non avran forse da intendere che quello conserva e perfeziona l’uomo, e che questo lo distrugge e rende peggiore?[38] Facciansi loro gli eloggi della libertà, ripetinsi sovente, si accostumino a pronunciarla con voluttà. Piacesse al cielo che i nostri giurisconsulti, resi più umani dalla filosofia, invece di commentar tante leggi barbare ed ingiuste del diritto romano, meditasser sovente i passi energici con cui si esprime parlando della medesima.[39]

La geometria parimente accompagnata da oggetti non sarebbe tanto difficile. Le linee, gli angoli offrono idee assai meno astratte dei nojosi principj della lingua latina e greca.

La geografia, la sfera, il disegno, studj piacevoli ed ameni, non sono già opposti al carattere, alla vivacità ed al genio dei fanciulli. Sono i veri elementi alle più elevate verità.

Se le favole possono essere utili, assai più lo sarà la storia ed alcune massime più facili della morale, non già della scolastica, che pretende di definir la beatitudine, piena di quistioni dannose che riscaldan le menti, ma di quella che insegna a conoscere i veri principj della felicità, i cardini della verità, le origini dei vizj, e che ci conduce poi alle leggi naturali.

Non vorrei per questo che si credesse volere io sbandire dalla puerizia la lingua latina. Se può esser necessaria per facilitare quegli studj ne’ quali si deve progressivamente iniziare la nobile gioventù, non sarà mal fatto d’impararla. Lungi da noi i consigli de’ pedanti. Le concordanze, periodi di composizioni, la grammatica, il limen sono stromenti che pur troppo a ragione ispirano a’ fanciulli ribrezzo ed orrore per lo studio che tanto l’infastidisce. Se colla lingua natìa si parlasse loro la favella latina, assai meglio la imparerebbero che nelle scuole, ove si accostumano piuttosto ad odiarla. Ho veduto in Ongheria, in Allemagna, in Polonia ed in altri paesi molti nobili fanciulli parlare con ischietezza non solo questa lingua sapiente, ma due o tre altre con una facilità sorprendente, senza avere avute altre regole e metodi che domestici o altre persone di confidenza che comunemente con essi ne’ discorsi più famigliari la parlavano.

Lo studio principale sieno gli elementi delle scienze economiche. Il diritto naturale di cui ho parlato qui sopra, cioè i primi principj dello stesso, non sieno già presi in Grozio, in Pufendorff, in Selden, in Cumberland, nemmeno nelle astratte distinzioni di milord Shaftsbury intieramente immitate da Platone. Sebbene Burlamachi sia uno degli autori i più chiari e più metodici, nulladimeno vorrei che i principj del diritto naturale proprio a’ miei alunni si succhiassero nelle vere scienze economiche. Comincino ad imparare dunque in questa età come l’uomo abbia un diritto incontestabile alla sussistenza, come la giustizia sia una norma sovrana e naturale a cui ci porta la ragione, che determina ad evidenza quel che aspetta a sè medesimo o ad un altro. Se il diritto ha da esser naturale, deve annunciarsi da sè coi puri e semplici lumi della ragione; ha da presentarsi con caratteri infallibili, la cui evidenza sa costringere indipendentemente delle pene a cui sono sottoposti i trasgressori. Sussistenza, lavoro per procurarsela, proprietà, sicurezza, libero impiego di sè e delle sue forze mobiliari: ecco i veri cardini del diritto il più naturale, principj chiari, veri, luminosi, sviluppati con una graziosa evidenza negli autori della vera scienza economica, che nelle leggi irresistibili e divine della natura hanno saputo formare il solo sistema che indubitatamente guidar ci deve alla felicità sociale.

X. Metodi ne’ studj.

Il signor de Crouzas dice con molta sagacità: le lezioni che si danno senza sembrare aver disegno di darle, son sempre le più efficaci.[40] I più gravi filosofi dell’antichità davano alla greca gioventù le istruzioni di metafisica, di politica, di morale e di altre scienze sotto i tanto celebrati portici di Atene, esposti quasi alla vista di tutto il popolo che approffittar ne poteva.

Più non si parli dunque delle ore fissate per le classi, nè dei ritiri di cui ho già dimostrate le perniciose conseguenze, nè delle altre pedantesche forme d’istruir la puerizia. Siate pur allegri, fanciulli miei; più non tremerete di spavento gli errori de’ vostri temi v’infliggan tante flagellazioni. Ridete, datevi in preda alla gioja: la via de’ giuochi e divertimenti sarà per voi quella delle scienze. Ergo non tanquam coactos pueros in disciplinis, o vir optime, sed quasi ludentes enutrias, ut et magis ad quos quisque natura sit aptus possis agnoscere.[41]

Gli oggetti graditi de’ vostri continui piaceri saran la materia su di cui imparerete l’aritmetica. Al disegno ed alla geometria non verrete già sforzati da minaccie, ma dalle lodi e dagli esempj. La morale, la storia e le favole vi saran raccontate coi modi i più dilettevoli al passeggio e negli altri vostri esercizj. Nelle sale troverete carte e sfere che invitando la vostra natural curiosità v’insegneranno i principj sì della geografia come della cosmografia e di altri fisici rami. Ne’ principj economici iniziati sarete con ugual diletto.

Come la musica eccita le passioni e produce le più dilettevoli sensazioni, destando ne’ cuori la compassione e molti bei sentimenti, troverete maestri di quest’arte. All’udir tal volta i suoni loro armoniosi, se il desiderio vi chiama ad imparar qualche stromento, consultate nella scelta la vostra inclinazione; prendete or l’uno or l’altro all’avventura, e fissate l’attenzione su di quello che v’ispirerà un maggiore piacere.

Vedrete alcuni applicarsi al ballo, presentarsi a voi con legiadria, dirigger i suoi passi con misure e concenti, ora in menuetti ed ora in contradanze, in un dato istante con maestoso diporto ed in un altro con un cellere brio; se vi alletta quest’arte, se con attrattive s’insinua nel vostro cuore, maestri capaci vi aspettano per soddisfar la vostra brama. Sarebbe questo il miglior modo di allettare e d’istruire la puerizia.

I cardini i più puri delle verità esposti con chiarezza ed accompagnati da metodi piacevoli renderebbero capaci i fanciulli d’inoltrarsi al crescere dell’età nelle cognizioni più sublimi delle nostre facoltà. Dissipati gl’inganni che da ogni parte circondano la fanciullezza, vedrebbe l’uomo più lucidamente l’immortalità dell’anima, la debolezza dello spirito umano, ciò che si può creder con fondamento o rigettar con disprezzo. Ajutato indi dai lumi di altre scienze, scuoprendo la falsità di diversi sistemi, più non si vedrebbero ne’ lustri futuri tanti pirroniani porre in dubbio per fino l’esistenza dell’Increato Benefattore.

I principj confusi che s’ispirano nella puerizia, le idee vaghe e perniciose, principalmente sugli oggetti della religione, seminano pur troppo il contaggio della non credenza. Ingannato l’uomo da insegnamenti erronei, quando comincia a scuoprir la falsità di un dei medesimi sospende i suoi sentimenti, esita per poco, ed alfin si decide; ma come decide? Ditelo voi, o filosofi, a me non s’aspetta a pronunciarlo.

Fin da codesta età comincierebbero ad amar l’ordine sociale. Negli elementi economici vedrebbero senza pena, in modo di discorsi naturali, come il bisogno di procurarsi una tranquilla sussistenza abbia sforzati gli uomini ad unir le lor forze, come senza proprietà languide sieno e smembrate le associazioni, e come senza libertà e sicurezza la sacra proprietà essendo alterata, sieno i popoli minacciati di disastri e rivoluzioni.

XI. Diritto di proprietà.

Fra i mali che ci furono recati dalla opinione, industriosa a multiplicar le sventure degli uomini, il minore non è al certo una idea confusa oppure ingiusta e falsa del diritto di proprietà. Sì terribile è la marcia dell’errore in chi ignora i veri principj della società, che scuotendo senza fremiti il dolce giogo della verità, pubblica menzogne proprie ad accrescere in varie maniere il numero già troppo copioso degl’infelici.

Quei scrittori che conoscono la vera indole del diritto di proprietà, e che nonostante una sì salutar cognizione si lasciano sedurre dal piacere di dir cose singolari ed opposte al buon senso con una falsa eloquenza che fissa l’attenzione degli entusiasti amatori delle declamazioni, chiamare a ragione si possono nemici della umanità che corrompono. In vano implorano ne’ loro paradossali ragionamenti il sacro nome di natura, in vano li adornano co’ fiori di ben fusellati periodi, posciacchè questa madre di tutte le cose create, avendo in orrore gli oltraggi che da loro riceve, da sè stessa sa operar poi la sua vendetta.

L’amor proprio che li guida nella funesta via di sì perniciosi sentimenti non è già un amor proprio bene inteso, ma un cieco appassionamento che li fa agire contro la loro propria felicità morale, che non consiste se non nell’amore della verità; appassionamento con cui producono un terribile contrasto d’idee vaghe e diverse, le quali assieme accozzandosi fanno per necessità generare molte e viziose definizioni di bene e di male, di giusto e d’ingiusto, che rendono la morale sempre più disastrosa e confusa.

Chiunque sentendo la verità non si studia dal canto suo a renderla vieppiù palese vive in una indolenza sociale sempre disaprovevole; quelli poi che sentendola cercano d’intorbidarne le fonti, di creare nuove opinioni che ne rendano ognor più difficile l’accesso, fanno un abuso crudele de’ loro talenti, si erigono in pubblici precettori del vizio, e mostrano di compiacersi nell’aumentazione delle miserie dell’umano genere.

Per impadronirsi con maggior facilità de’ cuori de’ leggitori, per renderli sempre più docili alle loro istruzioni, questi melanconici amatori della opinione cuoprono con destrezza i rivoltanti soffismi col bello e sovente ripetuto nome di virtù senza farne alcuna definizione che sodisfaccia, senza darne una idea precisa; si perdono in declamazioni in favor della stessa, ma ne fanno così un essere immaginario e chimerico, senza sodi attributi, che alletta l’ignoranza e l’entusiasmo della moltitudine ma che rivolta l’animo de’ veri ragionatori. Egli è in questa guisa che frammischiando i più mostruosi errori coll’incantamento degli eloggi di una virtù che non conoscono, si guadagnano i suffragi e l’ammirazione di un numero considerevole di leggitori, che quantunque sieno i meno rischiariti, hanno però la forza d’impedire i progressi della verità e di spegnere l’ardore delle vere cognizioni.

Il nome di umanità non è da essi loro meno profanato di quello di virtù. Sotto pretesto di giovare al maggior numero degli uomini, ispirano massime, che se sventuratamente abbracciate fossero da’ governi, ai quali per lo più ne indirizzano i discorsi, sarebbero apportatrici d’infortunj assai più inoltrati di quelli che possono essere stati recati alle nazioni da’ più orribili abusi che l’autorità sovrana abbia mai fatto del poter legislativo, unito alla trista ignoranza. Rovesciano la base delle costituzioni sociali, distruggono le idee le più salutari stabilite e perpetuate dalla ragione, animano gli uomini alla confusione, fanno ogni lor possa per ispegnere negli animi l’amore dell’ordine, la venerazione per que’ doveri senza di cui esister non possono le società se non in uno stato sempre vacillante e tumultuoso, che renderebbe l’umana condizione se non del tutto peggiore, uguale almeno a quella de’ bruti feroci che spandono il terrore e la desolazione nelle funeste contrade ove regnano sulla debolezza; travagliano in fine con ogni forza ad armare la mano determinata della violenza e della usurpazione.

Si aspetta forse a voi, o nemici della società, a parlar contro la tirannia, a difender la causa della oppressa umanità, a riformar le sociali costituzioni, a corregger gli abusi de’ governi? No; cessate di parlar di umanità, d’indrizzar i vostri avvisi a quelle anime generose che la provvidenza ha collocate sui troni, guardatevi d’indebolire ne’ popoli il rispetto e l’amore, finite i vostri clamori, e convinti dalla evidenza che conoscete, rinunciate una volta alla opinione, ajutate ad illuminare l’umanità che avete delusa, rendete omaggio alle leggi irrefrangibili della natura, non contrastate già ma venerate i principj di una scienza che esposti con una soda eloquenza vi possono meritar nella posterità veri monumenti di riconoscenza, che avete creduto meritare coll’ingolfarvi nelle tenebre della opinione.

Quando ignora le leggi della natura, o che sapendole, per singolarità non le vuole ascoltare, l’uomo non può formarsi idee giuste sui principj sociali. Ha le immagini oscure, ed esporre non può se non ragionamenti mal fundati, de’ quali, malgrado il piacere di soddisfare un mal inteso amor proprio, ne vede ad ogni momento la decisa assurdità. Una politica che non forma se non un corso di sentimenti che sono in perpetuo contrasto con quelli delle leggi fisiche ed irresistibili della natura non può sicuramente meritare il fastoso titolo di scienza, almeno che non si voglia chiamar scienza il metodo di distrugger la scienza. Così nulla di più varia, nulla di più confusa, di più contradicente che l’esposizione dei sentimenti de’ filadossi intorno all’origine delle società, e della idea che pretendono di dare del diritto di proprietà.

Credono così questi amatori della opinione che la freddezza con cui l’opulente tal volta sente i gemiti della indigenza che lo implora, con cui appena si degna onorarla di uno sguardo di compassione, da altro non viene che dalla ingiustizia del diritto di proprietà, nel tempo che una giusta idea del medesimo, e de’ buoni principj che ne scaturiscono, potrebbe meglio provare l’inviolabile dovere in cui ci troviamo di soccorrere i bisogni della umanità, e le ragioni che portar ci dovrebbero a distruggere il nostro orgoglio e ad animarci di una ragionevole e più sensibile umiliazione in noi stessi.[42]

Pretendono alcuni fra’ medesimi che la proprietà è una usurpazione, e generalmente così si annunciano: La terra è comune; il primo che osò dire questo è mio, fu il primo assassino, fu un usurpatore. Si sostenne nelle sue rapine coll’associarsi molti altri, quali, dopo di aver colla forza spogliati i deboli, tumultuosamente accordandosi così gli parlarono: Se siamo arrivati col nostro coraggio a procurarci una miglior condizione, se vogliam sostenerla, è necessario unir le nostre forze. Giacchè tu fosti il più ardito, ti elegiam per condottiero. Dirigile, quelle forze, in modo che possa tremare ognuno nel sol pensare di rapirci i frutti del nostro valore, della nostra intrepidezza. Fa leggi, alza cataste e supplicj, inventa nuove opinioni, abitudini, costumi; inculca alla gioventù un sacro orrore pei nostri diritti; dà al giusto ed all’ingiusto un’altra direzione; sia non solo una azione degna di una morte tal volta anche studiata, ma che ecciti ribrezzo quella di sforzarci a restituire sì alla moltitudine, ma a qualunque individuo la sua giusta porzione che gli abbiamo usurpata; prescrivi atroci tormenti, ogni sorta di torture che dislocano le ossa o che produchino altri acutissimi dolori; tal volta confessando un mal che non commisero, molti verranno strascinati a torto al patibolo; che importa: molti malcontenti periti fra i spasimi, quantunque recato non ci abbiano alcun male, sempre diminueranno la somma de’ nostri naturali nemici; ci servino i deboli quali stromenti della nostra felicità; e se di goder brami sicuro i frutti delle tue prime violenze, guarentisci a noi quelli dell’audacia con cui sostenuto abbiamo il tuo ardore.

In cotesta guisa vorrebbero i seguaci della opinione far parlare i primi uomini che istituirono le società. Sminuendo l’alta idea che aver dobbiamo pel diritto di proprietà ed il ribrezzo pel furto, invece d’impedire l’accesso dei delitti ne rendono più facile la spinta. Nello sviluppare che fanno le consequenze di un sì disastroso sistema, vorrebbero persuadere poter sussistere le società senza un diritto sì inviolabile. Fanno molte fiate sentire, con uno stile patetico, proprio a toccare i cuori di chi non ha per anco studiata la vera scienza economica, che la moltitudine indigente non può aver rinunciato secondo la natura a tante porzioni di ricchezza. Partendo da una idea sì assurda, presentano questa proprietà come un idolo mostruoso produttore di tutte le umane sventure; vorrebbero farlo risguardare con tutti gli attributi i più orribili, affinchè se ne imprimi nei leggitori ogni avversione. Questa è pur troppo la marcia violente della opinione, che offuscando le idee di molti uomini dotati di talenti rari, in vece d’impiegarli al bene della umanità che invano pretendono di diffendere, creano una infinità di nuovi pregiudizj, che aggiungendosi agli altri da’ quali siamo circondati, rendono la sociale perfezione ognor più difficile.

Trista è al certo la condizione di quelli che conoscendo la verità la offuscano co’ loro scritti, negli altri cercando di stabilire una gloria efemera sulla opinione che dovrebbero combattere. Se i segreti rimproveri della loro coscienza non li conducono all’amore della verità, non temiamo per questo le armi della menzogna. La natura tosto o tardi sa riprendere sul cuore umano l’impero usurpato dalla opinione. Compiango con sincerità quelli che sono nell’errore di buona fede, nella viva speranza che penetrati un giorno dalla luce della evidenza gli presteranno i dovuti omaggi, accrescendo colla loro eloquenza, colla capacità de’ loro talenti, il numero de’ seguaci delle leggi della natura.

I progressi belligeri di alcuni popoli fra’ quali il diritto di proprietà o non era stabilito dalle leggi oppure non era se non passagiero, facendo illusione in diversi autori, servirono ad appoggiarne le chimere con prove tirate dagli annali di quelle storie; il cangiamento delle circostanze, la vera debolezza di tali governi, che non avevano per base il solo fundo fisico di opulenza, le frequenti rivoluzioni, la ferocia di massime che ne approssimava gli uomini agli odierni selvaggi, la schiavitù in cui era costretta a vivere quella classe di abitanti che non essendo riputati cittadini erano destinati a lavorarne le terre, mi sembrano presentar riflessioni capaci a costringerli a rinunciare alla insana ammirazione di cui mi sembrano penetrati in favore di quelle nazioni che non ammettevano diritto di proprietà, o presso delle quali era reso sempre tumultuoso dalle tanto sovente ripetute leggi agrarie ed altre simili distribuzioni di ricchezze o di segni delle medesime.

La legge della proprietà, che costringe ogni uomo di aspirare al suo ben essere senz’attentare al ben essere degli altri associati, è una legge talmente dettata dall’ordine fisico e naturale che forma una parte essenziale della giustizia per essenza. L’evidenza ce la imprime inviolabilmente nel cuore; l’interesse generale e particolare concorrono con ogni forza a sostenerla; è il pegno sacrosanto che mantiene ogni suddito strettamente avvincolato all’autorità tutelare; è il nodo indispensabile che costringe questa a vegliare alla sussistenza ed alla felicità di qualunque corpo governato, e nulla vi è più di stabile e di sicuro in ogni governo che non l’ammette qual origine e fundamento di tutte le politiche decisioni.

Dappoichè gli uomini cominciarono a multiplicarsi sulla terra, e che convinti di non poter sussistere co’ di lei soli frutti spontanei procurarono di coltivarla, diedero maggior forza al già stabilito diritto di proprietà qual base della medesima coltura. Egli è in codesta guisa che potiamo quasi accertarci essere il diritto di proprietà anteriore alle associazioni. Il primo ripartimento di terre dovette essere uguale fra gli uomini, e queste porzioni ugualmente assicurate con un diritto inviolabile a tutti di farle valere senza tumulto nè timore colla libertà de’ reciprochi cambj. Così poi ciò ch’era naturalmente comune a tutti, trovandosi dunque diviso e ripartito, ciascheduno ha in natura diritto di conservare quel che ha avuto di sua parte, di sorte che non si potrebbe toglierlo nè desiderarlo senza violar le leggi della umana società.[43]

Le società dovettero formarsi o nella stessa occasione o poco tempo dopo, mossi gli uomini dalla necessità di difendersi contro le belve e di vicendevolmente assistersi in tutti gl’intrapresi lavori. Non è qui la mia idea di fissarne l’epoca, altra non avendone se non di mostrare che senza convenire dell’inviolabile possesso delle porzioni di terre e dei frutti de’ lavori, non avrebbero giammai potuto lavorarle, e così molto meno si avrebbero potute formare le società a cui dobbiamo la nostra sicurezza, ed in vece di una precaria, una inviolabile sussistenza.

Chi parla contro la proprietà parla contro la coltura, contro la sussistenza, contro la popolazione, contro le leggi fisiche ed irrefragabili, si mostra nemico della stessa natura, palesa il desiderio di rompere i legami della società, e distruggendo tutte le scienze, arti e mestieri, rilega gli uomini di bel nuovo nei deserti a vivere in pericolo di essere ad ogni momento divorati dalle fiere; funesti vantaggi che i declamatori contro la proprietà vorrebbero recare alla umana specie.

Avanzino i seguaci della opinione paradossi sopra paradossi piuttosto nelle altre scienze ed umane cognizioni, ma rinuncino al meno a quelli che confundono i principj sociali; mentre se quelli sono contrarj allo avanzamento delle facoltà intellettuali, questi rovesciano a fundo le idee di società, i primi doveri dell’uomo, sminuiscono il rispetto che aver dobbiamo pelle autorità tutelari e la venerazione dovuta alla natura, distruggono l’orrore che si meritano i disordini sociali, empiono in fine i cuori de’ male intenzionati cittadini di ardimento, mentre superando tutti gli stimoli della coscienza più non credono di commetter delitto allorchè formano intraprese contro l’altrui proprietà e sicurezza.

XII. Sopra il medesimo soggetto.

So che una gran parte di quelli che declamano contro il diritto di proprietà hanno tal volta per iscopo d’intenerire i cuori impietriti di certi opulenti che si mostrano in più guise insensibili pei gemiti della innocente indigenza. Applaudiscono in qualche modo ad uno scopo sì ragionevole, che fa l’eloggio dell’animo loro; ma quando esiste una scienza che insegna ad esser benefico non già col soccorrere l’indigenza della inerzia, ma col distruggerla e prevenirla, dobbiamo allora rinunciare alla beneficenza di opinione per seguire quella della natura.

La beneficenza insegnata da’ filadossi non è già una virtù ma bensì una vera imperfezione. Se colmo di doni un indigente perchè non credo legitimo il possesso delle mie ricchezze, perchè penso avere chi mi chiede soccorso un diritto uguale a ciò che possiedo, i motivi che mi stimolano a quest’azione, e le conseguenze che ne vengono, non sono prodotti allora che dal timore di vedere il mio rifiuto punito dall’ardire di chi m’implora, e che ricorre ad una violenza che non posso disapprovare. In questo modo annichilo ogni principio di compassione e sostituisco ad un atto generoso un’azione suggerita dallo spavento. In questa guisa non vi è più virtù nella generosità, nella beneficenza.

Se tutt’i scrittori che prendono per guida l’opinione volessero darsi la pena di riflettere su di codesta verità, si accerterebbero non essere che illusioni tutt’i sentimenti che si cercano per combatterla.

Perchè dunque animarci alla generosità con istimoli che la distruggono? Bisogna essere o troppo nemico o almeno troppo ignorante della marcia della natura per istabilire la beneficenza sopra principj sì odiosi e sì opposti alla umanità. È forse questo un metodo di fare amare la virtù, di formare anime elevate e di respingere lungi dal cuor dell’uomo il vizio?

Se invece di seguir l’opinione questi scrittori degnar si volessero di esaminar con attenzione la medesima natura pella cui difesa pretendono di scrivere, se ne interrogassero tutte le sue leggi, se studiassero in fine con ponderatezza i principj della vera scienza economica, imparerebbero a conoscere l’indole di quella beneficenza che rende l’uomo sì superiore a tutti gli altri esseri che popolano la terra, e vedrebbero come si annuncia questa virtù quando ha per base l’inviolabile sicurezza del diritto di proprietà.

La vera scienza economica è pertanto la scienza che insegna la più illuminata beneficenza coll’avvalorare il diritto di proprietà. Rasciuga i pianti della misera moltitudine ed annichila perfino il nome d’indigenza. Coll’accrescere la popolazione non forma coorti di esseri desolati e scoraggiti, ma facendo sempre precedere la sussistenza, pensa ai mezzi di far felicemente vivere avanti di multiplicare in un impero i prosperosi cittadini. Abborisce i corpi lividi e smonti dalla miseria che empiono molte contrade di delitti; soccorre possentemente tutt’i membri della società, non ne lascia alcuno privo di ajuto, ma abbolisce poi tutt’i monumenti ove l’indigenza serve di pretesto all’inerzia.

Queste sono le prime idee che dar si devono a’ nobili alunni del diritto di proprietà, invece di massime fallaci che non producono se non una generosità negativa e sempre precaria. Queste riflessioni che aspettar dovrebbero piuttosto alla adolescenza, vorrei che si presentassero prima di sortire da codesta età, affine di prepararli a quelle più ampie definizioni che si faranno loro del diritto di proprietà negli studj della scienza economica. Prenderebbero così una idea sublime dell’uomo che li porterebbe a dare in ogni occasione vere prove di umanità.

I veri principj sul diritto di proprietà non escludono ma animano bensì ad azioni che sono di una natura veramente generosa, perchè libera ed indipendente dalle idee di timore. I nobili elevati nello studio delle scienze economiche, sapendo le leggi fisiche che producono l’opulenza, non intraprenderebbero se non azioni capaci ad accrescerla; colle bene intese consumazioni avendo in mira gli avanzi produttivi, animerebbero in ogni guisa l’industria della classe sterile affin di multiplicarli. Più ricchi, sarebbero maggiormente nel caso di ripetere le azioni benefiche.

Non v’ha dubbio dunque che scolpite queste idee nei cuori de’ miei nobili alunni, cercheranno un dì con ardore tutte le occasioni che loro possono procacciare il delizioso contento che provano le anime sensibili nelle azioni di beneficenza. Vediamo che farebbe in una delicata circostanza il figliuolo dell’opulente elevato con principj sì puri di umanità.

Si unisce una coppia felice co’ legami legitimi dell’imeneo. Una prole numerosa di figliuoli affezzionati ed ubbedienti sono i reciprochi pegni di un amor puro ed innocente che sempre più stabile si rende a forza che si multiplicano gli oggetti proprj ad aumentarlo. Attenta la madre a’ suoi doveri, prodiga le cure affettuose ora a’ deboli suoi pargoletti ed ora allo sposo. Eseguendo i doveri di natura, quelli mantiene durante tutto il necessario tempo colla propria sua sostanza, col proprio latte che la preserva da mille mallori, fedeli compagni di quelle che sfuggono i grati stimoli della madre comune. Nutrisce lo sposo, co’ frutti della sua industria e delle indefesse sue fatiche, e questa che previene in tutti i di lei bisogni e quelli quando distaccati son dal seno materno, che con baci, carezze ed altre prove di amore talmente lo pagano delle sue pene che più non si accorge e quasi smentica le gocciole copiose di sudore che gli bagnano il nero pane di cui frugalmente si ciba. Ha l’inesplicabile diletto di veder crescere fra i piaceri i più puri e perpetuarsi la propria esistenza. Si rallegra allora, ritorna con più ardore al lavoro, lo accellera, lo perfeziona, le sue cure radoppia ed i suoi sforzi; reso infaticabile dall’amor che lo guida, aumenta i suoi guadagni colle sue pene. Cerca di procurare sì all’amata sua sposa che ai cari figli una sorte ognor più fortunata e dolce. Seconda questa le giuste sue brame con ogni possa, con ogni fervore; sminuisce quanto può i fatizj piaceri, perchè non ne trova di reali che ne’ vantaggi dei prodotti del suo amore. Abborisce le superfluità, detesta quelle spese che non sono utili all’amata figliuolanza, fa per fin tacere gli stessi suoi bisogni, ed in questo trionfo trova un altro genere di reale voluttà. Quando dopo tanti sforzi vede colmata quasi oltre misura ogni sua brama, un male inaspettato assale il marito, quantunque sempre mostrasse una robusta e prosperosa apparenza. Essa allora tutto pone in opra il di lei sapere. Le pene indefesse, alle quali la obbligano una numerosa figliuolanza, punto non ralentiscono il di lei ardore. Senza smenticare i fanciulli, con assiduità assiste lo sposo. I sacri doveri di madre e di moglie a vicenda avvertendola, facendosi sempre più sentire nel di lei cuore, gli accordano la forza di trionfar del sonno. Presente a tutto, non sa indovinar d’onde venga l’aumento di tante nuove forze che la rendono superiore alla fisica debolezza dell’imbelle suo sesso.

Tutto diviene infruttuoso; indarno impiega la tenera sposa i suoi sudori mischiati colle lagrime che gli parton dal cuore; cede il marito al male; l’arte menzognera in vece di ajutarlo lo peggiora, sentendosi vieppiù oppresso e sconvolto vuol parlare, vuol mostrare i sensi suoi di tenerezza, ma più non sa come articolar le parole che mostrar deggion le vive espressioni che sente nell’animo. Cede in fine e paga in una ancor verde età, fra le più belle speranze, il tributo fatale alla inesorabile natura.

Bagna allora la sposa di calde lagrime lo squalido cadavere, il livido viso dell’estinto diviene una immagine tanto più lugubre che gli fa ricordare i goduti piaceri ed i contenti più puri che sa procurar la virtù in sen dell’amore. Tentano gli amati suoi figliuoli di rasciugargli il pianto. Con mille giuochi e vezzi graziosi procurano di rasserenar lo smonto suo volto, ma un nuovo dolor forse più cocente agita il di lei cuore sconvolto. Getta un languido sguardo su di tante innocenti creature che conoscer non possono gl’infortunj da cui si trovan minacciate. Geme sulla lor sorte. Cento larve funeste gli si presentano ad ingombrargli il ciglio, scorge la propria incapacità di guadagnar con che nutrirli. L’immaginazione sempre veloce nel suo corso glieli presenta consunti dall’orrida fame, che gl’invola l’un dopo l’altro e li squarcia dal suo già lacero seno. O virtù, dimmi che fai in questi cimenti!

Apprende il benefico opulente una sì trista novella. Egli che pagò da generoso i frutti

dell’industria o i serviggi dell’estinto,[44] mosso soltanto a ciò fare dalla compassione della sua numerosa figliuolanza, sente ad ora nel suo cuore il più bel combattimento. Da una parte la desolazione di una famiglia indigente ed abbandonata; dall’altra il potere in cui felicemente si ritrova di potergli recar qualche soccorso. I ricchi adobbi di un vasto palaggio, le sfarzose supellettili della magnificenza del suo rango, i superbi ornamenti di un delizioso giardino, le più squisite vivande di una lauta mensa sono per lui tanti rimproveri che commovendogli il cuore gli dicono: soccorri l’altrui indigenza, volgi i provvidi tuoi sguardi verso i pericoli da cui trovasi circondato l’innocente abbandonato dalla speranza; trema per lui, e pensa che imparar non potendo queste tenere creature il mestier del genitore, se non ha mezzi la madre per alimentarli, dovranno perire, o esser questa costretta ad azioni che il proprio dovere gl’interdice.

Intimamente penetrato l’opulente degli economici principj, riflette sulle triste conseguenze dello stato di una innocente famiglia che non ha mezzi di sussistere. È persuaso che se la generosità sua o quella del pubblico non la solleva da tante angoscie, dovrà cedere alla legge inviolabile di una pronta distruzione; sa che col suo lavoro ed industria la madre non può acquistar con che fornire a tutte le consumazioni di figliuolanze troppo tenere per potervi concorrere col loro lavoro. Vede così molti soggetti estinti nella classe sterile, che avrebbero col tempo potuto accrescere la quantità delle consumazioni e degli avanzi nella classe produttiva col prodotto netto; ravvisa fanciulli perduti, che col crescere della età divenir potevano industri artefici e forse coltivatori e proprietarj.

Codeste sì serie riflessioni, accresciute dalle idee che gli furono sì sovente presentate durante il tempo della sua educazione sopra tutto ciò che interessa la felicità, l’opulenza ed il vero interesse delle nazioni, gli destano sentimenti di dolore e di pietà. Gli oggetti gli s’ingrandiscono avanti l’immaginazione; il tempo che impiega nel pesare, nell’esitare comincia a crederlo un attentato contro il primo dovere che portar lo deve al sollievo delle altrui angoscie.[45] Si porta ad interrompere ogni esame; scaccia da’ suoi pensieri gli ostacoli che ritardar possono i di lui giusti disegni; si decide, e tosto s’incammina all’oscuro tugurio della desolata famiglia. I gemiti confusi, i singhiozzi ed i sospiri lo avvertono del luogo della di lei dimora e gli servono di guide sicure per ritrovar quel derelitto asilo di virtù. Non già scortato da numerose livree e con pomposo apparato che accompagna la vanità e l’ostentazione, ma solo con una nobile semplicità si annuncia all’umile dimora. Le grida della madre gli assordano l’udito, il pianto degl’innocenti pargoletti che gli stendono le deboli lor mani lo commuovono. Racconta l’inconsolabile il tristo soggetto delle di lei angoscie. Egli dopo di aver baciate quelle tenere creature, rasciugate le lagrime della generatrice, lodatane la saggia condotta, la consola e gli presenta soccorsi. I modi e le espressioni con cui li accompagna si cangiano in nuovi tratti generosi. Sostituita l’allegrezza ed il contento ove prima regnava l’abbattimento, la desolazione, l’orrore, sorte impetuoso per evitare i trasporti inauditi della più viva riconoscenza.

O virtù! o beneficenza! Finisci di presentar all’immagine di chi mi legge l’incomparabile contrasto di sì nobili sentimenti; descrivi la gioja interna che circola nelle vene del benefattore, i pianti di contento con cui prorrompe il commosso suo cuore pel giubilo e le feste in cui sa ritrovarsi la sollevata famiglia. O anime grandi e generose, fossevi almen permesso di vincer per un momento la delicatezza che vi sforza al silenzio, e di pubblicar la vera voluttà che provate allorchè correndo al soccorso dell’innocenza vicina a far naufraggio, con una mano benefica la rimettete nel cammino della virtù! che impiegate più mezzi per guarentire un debole orfanino dalla rapace avidità del suo perfido tutore! o che gemendo sulla dura sorte di molti indigenti che sospirano nella oscurità senz’avere il coraggio di esporre i loro bisogni, con un provvido studio rasciugate i lor pianti, rispettando la talvolta magnanima fierezza che li obbliga al silenzio, aggiungendo così coll’amenità nel presentar doni un nuovo fregio alla vostra nobile beneficenza!

Nell’ispirare a’ nobili alunni le massime di beneficenza, non perderei di mira quelle della riproduzione di varie occasioni che si presentassero nello stesso tempo di esercitare atti generosi; se non potessero tutti adempierli, vorrei che preferissero quelli che sono i più utili alla classe produttiva, affinchè si accostumino a quella sorte di beneficenza la più utile alla prosperità nazionale ed al prodotto netto. Illuminati con tai precetti nel metodo della vera beneficenza, coopererebbero con un zelo sempre più fervente alla formazione e gli avanzi che procurano l’ostinazione delle riproduzioni. Farei loro sentir essere un crudele attentato contro la proprietà, sì pubblica che privata, ogni genere di generosità che non ha altro scopo se non di favorire l’indolenza, essendo di una somma importanza che la risguardino qual mostro distruttore della umanità, che non può prosperare se non col mezzo dell’industria e dell’attività onorate ed incoraggite.

XIII. Alcune idee sulle ricerche del commercio; e come i di lui agenti meritano una particolar educazione.

Non parlerò ora più del commercio con quell’ammirazione con cui l’ho riguardato nel tempo in cui mi preggiava di seguir con entusiasmo i funesti stendardi della opinione. Se lo risguardo anche tuttavia come una fonte di ricchezze nazionali, riconosco non aver per leggi e vero fomite se non l’incoraggimento dell’agricoltura.

Il commercio è una delle scienze su di cui gli antichi pensatori non ci lasciarono istruzioni. Se alcuni fra di loro di quando in quando ne parlarono, dissero cose sì triviali che degne non sono di servirci di stabile fundamento. Assai più occupati della legislazione, della morale, dell’arte della guerra, in tal modo istruir ne sapevano la gioventù che sorprender non ci deve la quantità degl’insigni capitani, degl’incorrotti magistrati, dei cittadini in un giusti e valorosi che con tanto zelo e tanta gloria si distinsero in più guise, sì nella difesa che nella disinteressata pacifica amministrazione delle facende di popoli resi sovente sì tumultuosi dal tristo abuso della illimitata libertà. Il commercio era allora nella sua infanzia; non consisteva che in un cambio assai semplice di necessità.[46] Quelli davano il di più del loro bisognevole in grano, e ricevevan in vece vini, lane, metalli o altre merci. Questi fabbricavano manifatture e riscuotevano in pagamento molti generi e merci di cui mancavano. La semplicità di cotesto modo di negoziare la vediamo anche oggidì fra alcune nazioni chiamate barbare. Alcuni portano al luogo fissato una certa quantità di mercanzie; chi le desidera e che tal volta non intende il loro linguaggio, pone in contrapposto una quantità di altre materie o monete, finchè le parti convengono col silenzio o altri segni di reciproca approvazione della validità del contratto.

Il traffico era di vicini con altri vicini; raramente s’inoltrava in climi troppo lontani, ove amavan piuttosto trasportarvi le loro armi, le loro colonie, le loro leggi e la lor gloria. Pieni di entusiasmo sulle idee del valore, condannavano quasi all’ignominia quelli che s’ingerivano di trasmutar le derrate superflue con altre derrate o merci bisognevoli. Le arti, ed i mestieri si risentivano di un sì generalmente abbracciato sistema.

I soli popoli di Tiro pensarono a divenire i fattori sì delle vicine che delle rimote contrade. Più arditi solcarono le unde infide del mare; sprezzando i pericoli, andarono in traccia delle merci e dei metalli. Nel fondar colonie stabilirono immensi magazzini di generi, e coprendo le acque di bastimenti a loro si attirarono le ricchezze d’ogni clima. Diressero i principj della educazione a questo scopo. Erano trafficanti avanti di quella età in cui cominciar si può una tal professione.

Appena alzate le alte torri della superba Cartagine, che seguendo le passioni e lo spirito de’ suoi fondatori sul commercio parimente ripose la base della sua orgogliosa potenza. Dei Tiri al pari industriosi ed attivi, i Cartaginesi nella navigazione ne ricercarono l’origine. La gioventù elevarono con frugalità ne’ principj della medesima ed in tutte quelle arti che la favoriscono. In breve furono più ricchi de’ loro padri, e non contenti di sorpassar molte nazioni nella opulenza, cercarono di divenirne i padroni. Colle merci, armate inviarono nella Sicilia, nella Grecia, nelle Spagne ed in diverse altre parti, ove molte provincie conquistarono; gloria efemera, perchè non aveva quel principio, la coltura delle terre, solo veicolo della opulenza. Felici se colla sobrietà almeno conosciute avessero altre virtù; la loro malafede resi non li avrebbero odiosi; più esatta la disciplina, più solido il lor valore, caduti non sarebbero sotto di Roma, che divenne più possente perchè meglio si applicò alla coltura delle terre.

Conobbe questo popolo trionfante anch’esso il commercio, ma attente avendo ad altre idee le maggiori sue cure, non l’ebbe in cuore e lo trascurò. Si contentava di debolmente proteggerlo colle sue flotte e col timor che ispirava il suo nome. Se vi si applicarono alcuni particolari cittadini, non formava già un de’ principali oggetti della legislazione. Il più gran numero de’ negozianti di Roma e di quelli che s’incaricavano di trasportarvi co’ grani dell’Egitto, dell’Affrica e della Sicilia molte altre merci di lusso, eran quasi tutti stranieri, che indi arricchiti in queste occupazioni, sapevan col tempo comprarsi dalla avidità di alcuni magistrati la cittadinanza romana ed aspirare alle primarie dignità nella nuova patria.

Se vogliamo ragionare in conseguenza della enorme differenza che vi era fra Roma limitata a poche terre, Roma padrona dell’Italia, ed indi Roma signora di tante provincie e vastissimi imperj desolati e sommessi dalla sua cupidigia, credo che il commercio ne’ suoi primi secoli era assai più esteso di quello che lo leggiamo ne’ secoli della sua prodigiosa grandezza. Se vogliamo rendercene più sicuri, non abbiamo che seguire la marcia economica del medesimo. Non avendo altra origine l’accrescimento del commercio che l’accrescimento della copia delle produzioni territoriali, è naturale che data la proporzione nella vastità de’ dominj, il commercio de’ primi secoli di Roma doveva esser più florido e più opulente di quello dei tempi della sua più apparente prosperità. Numa, dopo avere in qualche modo sminuito l’entusiasmo guerriero, dopo di aver data alla società di banditi stabilita colla violenza di Romolo un ordine più stabile, istituì leggi e costumi che favorivano l’agricoltura; radolcì la ferocia di un popolo rapitore con una non mai sotto il di lui regno interrotta pace; e col dargli del piacere pel lavoro e pelle rustiche cure, seppe ispirargli un’agradevole inclinazione pella urbanità ed un vero amor della patria. Questo savio legislatore, degno della stima di ogni esser pensante, della riconoscenza di tutt’i posteri, conobbe il vero fomite della ricchezza di una nazione col collocare i coltivatori delle terre nella classe la più considerevole de’ più utili ed accreditati cittadini. Ad essi affidando la maggior somma dei pubblici affari, gli onori i più lusinghieri e perfino la difesa della repubblica, creò la base ed il fundamento della grandezza romana. Applicandosi quei cittadini alla coltura delle terre, è naturale che le produzioni si dovettero vieppiù multiplicare, ed accagionare colla libertà un’abbondante e celere circolazione e cambj; commercio che formato avrebbe un fundo più sicuro di opulenza se le leggi agrarie ed altri pregiudizj venuti dall’abuso della libertà non ne avessero ralentito il corso.

Presso de’ Romani dunque il commercio attivo e vero era più sensibile nei primi secoli che ne’ tempi delle maggiori loro conquiste e ricchezza apparente, almeno che chiamar non si voglia commercio i trasporti continui che venivano dall’Egitto e da altre provincie di grani ed altre derrate date in dono ad un popolo insolente da’ suoi corruttori e pagate da’ gemiti della libertà spirante o dalla violenza de’ pretori ed altri magistrati. Queste derrate non erano pagate colle vendite di altre derrate del territorio romano, ma erano bensì o tributi volontarj delle nazioni sommesse, oppure derrate pagate dal pubblico tesoro consistente nelle spoglie de’ popoli soggiogati.[47]

Se i Romani avessero sostenuto ed aumentato il vero commercio col rendere all’agricoltura i rapiti onori ed il meritato incoraggimento, la loro grandezza avrebbe avuto un fundamento più solido. Così la mancanza dell’incoraggimento dell’agricoltura prodotta dalla privata cupidigia di alcuni ambiziosi cittadini, col render languido il commercio di questi vincitori, fu la sola cagione della loro decadenza.[48]

Dopo quest’epoca passò il commercio sempre vacillante da una all’altra nazione. I molti secoli d’ignoranza e della più inoltrata superstizione che successero, troppo occuparono gli uomini con teleologiche tesi, per lasciar loro il campo di formar speculazioni su di una scienza sì utile. Esisteva un commercio, ma nella essenza assoluta e nella maggiore semplicità; non v’erano speculazioni tanto industriose, poichè non consisteva che nella pura vendita de’ generi e rozze manifatture trasportate con istento ove la necessità le implorava.

I viaggi periodici, le caravane, le manifatture de’ Genovesi ed indi dei Veneziani, le ricche manifatture e prodotti dell’Asia e dell’Affrica, che portarono nella Italia e che da questa regione spedivano in altre provincie della Europa, cominciarono a fissar l’attenzione di tutte le nazioni maritime. Il famoso Infante Don Enrico, figlio di Don Giovanni primo, re di Portogallo, che coltivò con felici successi tutte le scienze e sopra il tutto le matematiche; principe ugualmente ornato di tutte le morali virtù, ritirato in Sagres, picciola città del regno di Algarvia, desideroso di arricchir la sua patria sulla rovina del traffico immenso de’ Veneziani che primavano allora nella Italia e quasi nell’Europa intiera, facendo studiar la nautica a molti alunni, col suo genio e la sua generosità animando diverse scoperte, invano insinuò la tentativa di trovare una via più breve alle Indie. I frutti delle sue belle ricerche germogliarono molti lustri dopo la sua morte. Vasco di Gama, eroe cantato con tanta energia dall’Omero lusitano, trovato avendo il passaggio del Capo di Buona Speranza, rese Giovanni III, suo sovrano, signore di spaziossime contrade, e la sua nazione depositaria non della stabile ma della passaggiera opulenza. La Spagna, la Francia, gl’Inglesi, gli Olandesi ed altri popoli intraprendenti, seguendone le traccie, resero comuni i prodotti del nuovo continente. Ecco come si formò la vasta mole dell’odierno commercio.

Quantunque il commercio abbraccia oggidì tutte le terre abitate da un polo all’altro, i lavori assidui degl’incalliti agricoltori, le arti, consequenti prodotti del genio e dell’opulenza, stromenti con cui gli uomini sociali imbelliscono gl’imperj e multiplicano i mezzi di godere tutte le produzioni, ossia forme diverse che alle prime materie sa dare l’industria di quegli attivi cittadini, che co’ mestieri ci procurano anch’essi infinite soddisfazioni; quantunque infine il commercio scorra mare e fiumi per portare in ogni parte della terra l’abbondanza e le commodità della vita, che le di lui operazioni vivifichino la classe coltivatrice, arricchischino quelle de’ proprietarj, ed animino l’industria delle arti e dei mestieri, non è però il veicolo della opulenza quel solo ramo di pubblica amministrazione che meriti la particolare attenzione de’ governi.

Il commercio da sè dunque non produce ricchezze, ma coll’attività degli uomini che lo coltivano sa dare alle produzioni un rapido corso ed un alto valore, che col multiplicare celeramente gli avanzi, desta maggior numero di prodotti della classe coltivatrice e mantiene fervida l’emulazione nelle consumazioni della classe sterile e di quella de’ proprietarj.

Gli uomini, sempre amatori degli eccessi, negligentarono lunga pezza il commercio, ed indi preso avendone lo spirito, furono penetrati da un forte entusiasmo per il medesimo. Strascinati anche molti governi col torrente generale de’ pregiudizj ricevuti ed accarezzati dalla moltitudine, si lasciarono sedurre dalle stesse prevenzioni che la guidano, e per soddisfare il desiderio di proteggere il commercio rovesciarono e distrussero il vero fomite della opulenza, cioè l’agricoltura. I loro disegni andarono a vuoto, poichè invece di render florido il commercio, buona parte delle operazioni limitarono che necessarie sono a sostenerlo e ad estenderlo. Si risguardò come il maggiore dei vantaggi la maggiore quantità di danari, senza osservare il maggiore o minor profitto che risulta dalle merci stesse che si comprano o si vendono. Si osò chiudere gli occhj su di una evidentissima verità, che il danaro in una nazione non è utile se non quando rappresenta una opulenza perpetuamente rinascente dai doni che largamente ci offre la terra eccitata da copiosi avanzi e da una indefessa coltura. Si portò la mania fino a pretendere di voler sempre vendere senza comprare, di obbligar tutte le nazioni a spandere i segni di tutte le ricchezze senza fare il menomo sforzo per procurarsi le vere ricchezze. Da questi errori ne vennero molti altri errori. Si fecero leggi, si animarono i monopoli e si misero mille ostacoli, ed invece di facilitare si rese più complicato e più difficile il commercio.

Un saggio uomo di stato, un vero calcolatore della pubblica opulenza, lungi di lasciarsi offuscare da principj sì assurdi, lungi di ragionare con simili paradossi, non prende per guida se non l’evidenza. Non si lascia ingannare dalle false apparenze, ma approfundendo gli oggetti, li rimira ed esamina senza entusiasmo; non crede già di aver d’uopo di leggi e di commandi per far fiorire il commercio; non istituisce consigli e dicasterj per regolarlo; non cerca di distruggere la concorrenza delle altre nazioni; scorrere non fa fiumi di sangue per impedire l’esportazione o l’importazione di qualche merce; non crea società esclusive per costringere i coltivatori delle terre a vender loro ad un fissato prezzo esclusivamente certe derrate; non limita l’uso della proprietà personale e mobiliare de’ sudditi; non isparge la diffidenza, la dissimulazione e l’odio per favorire qualche genere particolare di traffico o per introdurre piuttosto questa che quella sorte di mercatanzia; lascia infine al commercio la più estesa libertà; supprime ma non fa leggi che lo governano, e liberandolo da ogni imposta, da ogni contegno, da ogni ostacolo, intieramente lo lascia in balìa alla medesima libertà.

Se alla sempre preziosa libertà vuole un governo aggiungere un altro mezzo per far fiorire il commercio, ricorre alla educazione de’ suoi agenti. Li fa istruire di buon’ora negli elementi di quelle scienze ed arti che le più proprie sono ad alimentarlo. Per meglio riuscire in codesta idea, consegna la gioventù mercantile alla cura de’ direttori filosofi. Si comincino pure gl’insegnamenti nella puerizia, affinchè al sortire indi dall’adolescenza si rendino questi alunni capaci di concorrere coi loro lumi al sostegno della pubblica opulenza nell’accrescere le consumazioni della loro classe, le spese della classe de’ proprietarj, procurando così aumento di avanzi, e di avanzi sovente ripetuti ed ostinati alla classe produttiva, affinchè aumentando le produzioni delle terre in quantità ed in qualità, si formi poi un fundo di vere ricchezze, di feconde riproduzioni, giacchè esse sole sono il fundo, il veicolo, la vera origine delle ricchezze, dei godimenti di tutte le classi della società, e delle giuste sole imposte dirette che fanno la forza dell’autorità tutelare e la prosperità di una nazione.

XIV. Genere di educazione pel commercio.

Inviano ordinariamente i negozianti i loro figliuoli dalla puerizia ne’ collegj o nelle altre pubbliche scuole. Le prime idee metafisiche della grammatica, che formano tanti ostacoli alle progressive istruzioni dei nobili alunni, ispirano loro una ugual noja, un ugual fastidio. Dato anche che facessero rapidi progressi, qual relazione può mai aver la lingua latina, gli autori che loro si spiegano colle occupazioni di un trafficante? Rami troppo estesi comprende il commercio per non occupare intieramente l’uomo; e se si lasciano affezionar tali fanciulli con estranee nozioni, come pretender poi che si disviino dalla ricevuta direzione?

La buona fede è la base del commercio, tutt’i dì si ripete una tal verità; ma invano se ne sente l’importanza se non si cerca di gettarne la radice ne’ cuori dai più teneri anni, se non si procura d’inculcare un orror salutare per tutte le azioni che la possono alterare. Non son già i precetti recitati con enfasi come le ordinarie lezioni dei precettori che capaci saranno di allontanare le idee del vizio, ma bensì gli esempj. Se avanti di loro non si commettessero giammai azioni ingiuste, come mai imparar ne potrebbero le funeste nozioni, e mostrare in una altra età tanta inclinazion per la frode?

Le cognizioni necessarie al commercio sono sì estese che se ne debbon dar gli elementi nella puerizia. L’aritmetica accompagnata dagli oggetti materiali, come già dissi poc’anzi, ne sarà la principale. Gli elementi della geografia devono camminar di pari, insegnati cogli esposti principj. Tutt’i rami di storia naturale che conducono a conoscere le prime materie del traffico dovranno esser mostrati in seguito. Sbanditi in questa età i libri, gli oggetti sensibili e reali ne saranno le più utili lezioni. Adoperate da’ fanciulli pe’ loro divertimenti cose che indicano idee di negozio, saprebbero nella puerizia ciò che ignorano ad ora nella gioventù.

Il metodo piacevole di mostrare a leggere ed a scrivere dev’essere messo in uso anche pe’ figliuoli de’ negozianti. In vece di temi e di latine composizioni faranno lettere di commercio. Non sii indefesso e troppo regolarmente distribuito questo lavoro, nè con ordini che obblighino ad una vita sedentaria, ma come per divertimento. Arrivati verso il fine della puerizia, con modi ugualmente dilettevoli comincierei a dar loro gli elementi della storia del commercio. Vi frammischierei eloggj per quelli che sanno arricchire la patria colle loro speculazioni, dando esempj di virtù. Parlerei con orrore di coloro che si disviarono da un sì grazioso sentiero. Darei l’idea la più nobile di questa scienza, e nel tempo stesso che travaglierei a formar profundi investigatori, non mancherei di formar sudditi fedeli e virtuosi cittadini.

Si dovrebbe sopra il tutto guardare di dare ai fanciulli commercianti una idea falsa della professione alla quale sono destinati. Si ripeti loro sovente essere l’agricoltura l’unico fundo di tutte le ricchezze ed il solo fomite del commercio. Imparino di buon’ora a risguardarsi non già come produttori dell’opulenza nazionale, ma bensì come gli agenti. Si accostumino in questa età a riconoscere esser la classe coltivatrice sola la produttiva, ed affinchè possino amare solidamente i veri legami della società, si dia l’idea la più esatta ma facile dell’autorità tutelare, senza cui non essendovi sicurezza e proprietà, fiorire non può l’agricoltura nè avere alcun solido principio il commercio.

XV. Diritto di proprietà e beneficienza.

Sospenderò molte cose che dir qui potrei del diritto di proprietà, mentre in altri capitoli si sono date e si daranno più ampie definizioni.

Se fatta la ripartizione delle terre gli uomini dovettero fra di loro convenire che ciascun goderebbe la ricevuta porzione col diritto indelebile di lavorarla a lor piacimento ed indi di raccoglierne i frutti colla più inviolabile sicurezza, è naturale che per farle meglio valere ciascheduno ha ricevuto il diritto di cedere il superfluo delle sue derrate all’altro, per riceverne altre derrate che la sua terra non gli dava.

Il cambio di derrate con altre derrate, indi il trasporto delle stesse dall’uno all’altro paese, dovette stabilirsi con una piena libertà a’ contrattanti di farne ogni uso. Questa libertà non potendo aver luogo senza proprietà, il diritto nella medesima ne’ cambj fu istituito colle condizioni ugualmente inviolabili quanto esser lo potevano quelle della proprietà originaria delle terre.

La proprietà mobiliare è dunque essenziale alla proprietà delle terre. Mille argomenti inespugnabili concorrono a provarlo. Il più grande de’ medesimi si è la riproduzione, che perpetuar non si potrebbe senza gli avanzi. Questi avanzi non potendo esser fatti alla terra se non dal valor venale delle derrate e loro consumazioni, è natural cosa che gli uomini sieno convenuti di assicurare la proprietà mobiliare non solo delle derrate, ma de’ solidi e benefici risultati dai cambj delle stesse, affinchè, eccitando così l’ostinazione nelle consumazioni, si avesse con che spendere in tutti gli oggetti necessarj a bonificare e perpetuare gli avanzi originarj, primitivi ed annui. Ecco le idee elementari che dar si possono a’ fanciulli commercianti sul diritto di proprietà; idee che devono esser presentate al debole loro intelletto con ogni precisione e chiarezza.

Nello stesso tempo che s’insegnano le più chiare definizioni del diritto di proprietà, si possono altresì ispirare massime di umanità e di beneficenza. Non intendo, lo ripeto di bel nuovo, per beneficenza le elemosine date a’ robusti mendicanti che infestano le città e le campagne, e che finiscono quasi sempre col divenire masnadieri. Questo genere di carità, quantunque venga da intenzioni sublimi, è il fomite della indolenza, è un vero furto, ossia un attentato alla prosperità sociale.

La beneficenza da insegnarsi a’ miei alunni non ha dunque a consistere in uno stimolo continuato dell’inerzia, ma bensì del lavoro. Fra le opere benefiche, si devono accostumare a preferire quelle che più si approssimano delle riproduzioni.

Non esito punto a credere che divenuti adulti nelle massime di una ragionata beneficenza, si faranno gloria di cooperare con ogni lor possa alla formazione degli avanzi ed alla prosperità della coltura delle terre.

Un commerciante elevato in sì luminosi principj non isdegnerebbe al certo lo stato degli agricoltori, non avrebbe lo spirito occupato di pregiudizj contrarj alla coltura, non risguarderebbe con entusiasmo tanti oggetti che acciecano oggidì il suo stato. Vediamo presso a poco la marcia della di lui riflessa beneficenza.

Gettando i suoi sguardi sulle campagne vede per esempio un agricoltore che incurvato sull’aratro gli sembra essere attento al proprio lavoro, e degli altri nel medesimo più intelligente. Lo osserva con attenzione, aspetta che stanco si riposi delle sue fatiche, ed allor che lo vede corricarsi sulla terra vicino a’ di lui buoi, che fa al par di lui riposare, lo avvicina. Dopo di avergli fatto un grazioso saluto, osservando che la di lui terra è meglio ingrassata delle altre che vede, lo loda e lo interroga con ogni dolcezza sulla ragione di una sì rimarchevole differenza. A caso si ritrova di passaggio un altro contadino, che gli risponde così: Se la terra del mio vicino vi pare, come in fatti è, meglio affumicata in contorni, la cagione è la di lui sobrietà, la di lui alienazione per ogni genere di stravizzo. Invece di perdere il suo tempo ed i suoi quattrini dall’oste, viv’egli e la sua affezzionata famiglia colla maggior parsimonia, e tutt’i risparmj impiega in avanzi sulla picciola porzione di terreno che coltiva. In questa guisa arriva che le dodici pertiche che gli aspettano danno maggior quantità di produzioni che dieciotto di qualunque altro terreno di questo distretto. Vive con gran parsimonia in vero, ma non manca del bisognevole come gli altri contadini, e così è meglio nel caso di rimettere le perdite che vengono dalle intemperie delle stagioni. Dopo di aver udito il commerciante un sì avvantaggioso dettaglio di circostanze, gli fa molte questioni, a cui risponde con senno, e penetrato di vero contento per quel che apprese, lo lascia al suo lavoro e si ritira pensando ai mezzi di essergli giovevole.

Parla colle persone le più autorevoli di quel luogo, e le relazioni tutte essendo di un ugual tenore, s’informa se vi sono terre incolte. Gli vien detto che il signore di quel picciol borgo ne ha almeno quattro cento pertiche di una terra naturalmente eccellente. Lo interroga se gliele vuol concedere in ferma. Le ottiene a poco prezzo, colle condizioni le più favorevoli. Va alcuni giorni dopo alla dimora del suo virtuoso contadino, che riconoscendolo lo accoglie con rispetto. Ne vede la sposa ed i figli attenti ad ogni lavoro, si rallegra, fa mille ben lusinghieri eloggj ad una sì meritevole famiglia. Questiona il contadino per sentir se brama di divenir fermiere di un terreno fin ora stato incolto. Risponde che gli mancano i mezzi di formar sì ardite imprese. Allora il mio commerciante più non dissimula il suo progetto, gli offre tutto il necessario pegli avanzi primitivi, lo assicura che per gli originarj ha la promessa del proprietario. Gli dà in oltre da che vivere e da che mantenere il numero di servi e bestiami sufficienti fino al tempo della raccolta. Trasportato di gioja, il colono coll’attiva famiglia lo bagnano di pianti, vive espressioni di una sicura riconoscenza; si formano le stipulazioni; si segna il contratto; ed il nostro contadino divenuto coltivatore o fermiero, dopo alcuni anni ritrovandosi riccamente stabilito, restituisce al benefattore la somma degli avanzi cogl’interessi ordinarj, e resta così fermiero del suo signore.

Ecco uno di quei tratti di vera generosità che diverrebbero famigliari ai nobili ed ai commercianti alunni instruiti ne’ sodi principj della proprietà e di tutte le leggi economiche, che diriggono il lor corso all’accrescimento delle riproduzioni con quello degli avanzi. Una simile generosità non empie il mondo di vagabondi, ma fa preparare l’aumento di popolazione colla via dell’aumento delle riproduzioni. Questo metodo di beneficenza è la sola utile alla prosperità nazionale, col dettare tutti quei generi di lavori che sono i più utili, o per meglio dire i più essenziali, all’accrescimento del prodotto netto e della ricchezza de’ sovrani.

XVII. Mestieri ed arti, frutti dello stato sociale. Se meritano una particolar educazione.

L’inerzia era lo stato dei primi uomini isolati. Non conoscendo i bisogni di comodità, aspettavano che la fame e gli altri stimoli della natura li avvertissero per iscuotere il letargo ed essere attivi. Soddisfatti i medesimi, il sonno e la noja li ponevano nella situazione di un tale abbandono di loro stessi che quasi uguagliar si potevano ai bruti. La scarsezza dei prodotti della terra, che per anco non lavoravano, la difficoltà di far prede sufficienti, il desiderio di aver qualche antro o vuoto d’albero per ivi difendersi dalle ingiurie de’ tempi erano le loro occupazioni. Se altri stimoli li animavano ad agire, erano i fisici impulsi dell’amore destituiti di quei sentimenti veramente sublimi che fecero indi e fanno tuttavia quella deliziosa voluttà che trasporta con tanta gioja verso gli oggetti riflessi gli uomini riuniti dalle sociali costituzioni. Così l’inerzia intellettuale propriamente detta è lo stato della insociabilità.

Qual altro stimolo guidò gli uomini fuori del limitato centro delle loro isolate famiglie per vivere in società, se non la brama di procurarsi un vitto migliore ed un maggior numero di soddisfazioni per goderle nello stato di tranquillità? No, certamente s’inganna chiunque pretende essersi gli uomini assoggettiti a certe date leggi o convenzioni mossi da qualunque altr’oggetto.

Formate molte società e smenticati i veri principj che le unirono, il timore s’insinuò allora nel cuore degli uomini, che credendosi esposti questi alle rapine di quelli, cominciarono a riflettere sulle prime idee della castramazione, quale non consisteva che in semplici muri e torri di terra con fosse profunde per trattenere l’altrui avido valore, poi in armi con cui s’impadronivano degli armenti delle altre nazioni e degli uomini per ridurli in ischiavitù, principio lugubre e sanguinario dello spirito di conquista.

Posti in uno stato di difesa, eletti per condottieri i più esperti ed i più arditi, che avevan per guide delle loro imprese il furore e la vendetta, s’accorsero i nuovi cittadini esser circondati da molti bisogni. Col comunicarsi l’un l’altro le idee si accrebbero le cognizioni. Isolati si contentavan di poco, riuniti non si limitarono ai cibi con cui si pascevan da selvaggj: solcarono e travagliarono con più modi la terra, ne multiplicarono i doni. Il lavoro e l’industria si aumentarono, s’esercitarono e produssero le arti ed i mestieri.

Vedendo che i grani pistati davano un cibo più sano delle carni e dei pesci, si studiarono di ridurli in farine, affinchè, ajutate dall’acqua e dal fuoco, col prendere un gusto migliore divenissero più grate al palato; i molini sì rozzi nella loro invenzione, e sì difficili le pene di chi li governava, divennero col tempo più facili e di una maggiore utilità.

Gli albori di ogni sorta de’ quali vedevano ornata la terra, e con cui alimentavano il fuoco, credettero suscettibili di procurare altri vantaggi. Li tagliarono dunque in molte forme con istenti incredibili, perchè ignoravano in quei secoli i metallici tesori che la terra rinchiudeva nel proprio seno. Edificarono tempj, senati, domicilj, ed il rustico falegname tenne luogo d’architetto.

Contenti da principio di guarentirsi dalle impressioni più forti dell’aria e di cuoprir la nudità, non avevan per anco alcuna industria nella scelta delle materie che v’impiegavano. Con preferenza di quelle si servivano che da loro non esigevano lunghe preparazioni: le scorze d’alberi, le foglie, le erbe, le pelli di capre, di agnella, di fiere. Accortisi col tempo che le lane distaccar si potevano dalla pelle degli animali, e che di bel nuovo crescevano, grossolanamente unendole ne formarono stoffe informi.

Il travaglio regolare del ragno, che ordisce colla sua propria sostanza fili maravigliosi ed impercettibili con cui forma le sue reti per tendere insidie a tanti altri più deboli ed incauti insetti di cui si ciba, può forse aver date idee ai primi uomini di fabbricar le tele.

Inventata l’arte di filare, di tessere e di cucire, cresciuto il piacer di comparir con una figura più amena, inventarono anch’essi più mestieri per alimentarsi.

Vedendo a caso galleggiar sul fluido delle acque pezzi di legno, unitine molti assieme con varj legami, conoscendo che potevan sostener pesi proporzionati alla lor profundità, alla loro estensione, provarono a guidarli. L’impeto con cui muovono i venti le diverse materie che incontrano colpirono l’immaginazione, che vidde il bisogno di vele. Quanto ha ragione un poeta di dire che la quercia la più dura, un triplice bronzo circondava il cuore intrepido di colui che il primo osò confidarsi ad un debil legno fra le acque infide.[49] I naufragj frequenti, i tanti pericoli di un elemento sì traditore li obbligarono a studiarne la direzione. Di qual formato fossero le prime, quali le materie, lo ignoro. L’oscura origine si perde nelle tenebre della più rimota antichità.

Se produsse i mestieri e le arti il solo bisogno, questo unito alle passioni diede alla luce le prime nozioni delle arti liberali. Gl’innocenti pastori che guidavano i greggi e gli armenti scorser le ombre delle loro innamorate, degli animali e delle piante, e le delinearono d’intorno. Prendendo i raggi solari nuove direzioni, s’accorsero allora che le linee disegnate rappresentavan con fedeltà i medesimi oggetti. Furono in fine i ritrovatori della pittura. Da queste sì semplici idee fino all’uso de’ colori non credo già troppo grande l’intervallo. Forse colui che fè la prima scoperta pensò quest’altra.

Riflettendo sulla flessibilità della terra e di altre materie, uomini rozzi provando ad imitar diverse figure furono i primi scoltori. Vedendo che i venti, le pioggie, le nevi ed altri disaggi distruggevano frutti sì cari della loro nascente industria, travagliaron sul legno, ma scorgendolo esposto ad esser poco a poco roso e consunto da insetti, materie presero più compatte e dure. Conosciuti i metalli, ritrovato lo scolpello, trionfò allora l’industria col genio. Formò questa bell’arte principj e leggi. L’avorio, il marmo, il rame, il bronzo, l’argento, mezzi fornirono di rendere immortali i prodigiosi suoi monumenti. L’amore, la riconoscenza, l’adulazione e perfin la superstizione gli presentarono oggetti su cui esercitar l’estro ed il brio.

Che portenti maravigliosi non presenta la storia dell’ingegno umano! Sortito rozzo ed inerte dal sen della natura, quasi belva finchè vive rintannato co’ selvaggi, non conosce l’uomo che pochi elementari bisogni. Se il fastidio che seco porta la solitudine lo rende mesto e infelice, lo spirito sociale meglio sviluppando i suoi sensi lo inalza a’ più sublimi ritrovati.[50] Comparando l’uno le proprie idee con quelle degli altri, da tali rapporti vede scaturir fonti di piaceri. Prova la sua forza, ed unita coll’arte obbliga gli altri abitatori della terra non solo, ma quelli dell’aria e dell’acqua a conoscere per legitimo il forse usurpato suo impero.

Questa idea non va presa in un senso troppo rigoroso. Col dire che la dominazione dell’uomo sugli animali è usurpata non si distrugge per questo la di lui eccellenza e primazia sopra tutti gli abitatori del mondo. La di lui superiorità è indicata dalla natura. Non si avrebbe mai finito di addurre tutte le prove che la assicurano; non mi servirò che di un sol passaggio del signor di Buffon: Deducendo conseguenze generali, cosi si esprime, di quanto abbiamo detto, ritroveremo che l’uomo è il solo degli esseri viventi la cui natura sia a tal segno forte, a tal segno estesa, a tal segno flessibile per poter sussistere, multiplicarsi in ogni parte e prestarsi alle influenze di tutt’i climi della terra.[51] Qual altro animale costrinse esseri viventi a servirlo, ad ajutarlo a lavorare le terre, a fornirgli cibi e vestimenti? La forza di alcuni che altri divorano, il veleno di altri che colle loro punture c’immergono nel seno della morte, far non ci debbono illusione.

Meditati i vantaggi dello stato sociale e la storia delle arti e de’ mestieri che ci procurano mille comodità e dolcezze nella vita, come potrà mai un filosofo vantare l’immaginaria felicità degli sventurati selvaggi e degli uomini isolati, che in preda ora alla noja ma non già al furore vivono, privi di una infinità di veri piaceri?

Le arti[52] ed i mestieri, ameni doni dello stato di sociabilità, stromenti anch’essi che mostrano la superiorità dell’uomo sopra tutti gli altri esseri viventi, risguardar per questo non si debbono come produttori di ricchezze. Le materie che mettono in opera non sono già create dalla loro industria ma bensì date dalla terra costretta a colmarci di doni col lavoro e cogli ostinati avanzi. Guaj a quel governo che non la riconosce per origine di ogni opulenza, e che con tanta ingratitudine pretende di appoggiare la forza di una nazione sopra lavori che non esisterebbero senza i frutti della stessa. Abbiamo prove parlanti in molte parti della Europa che ci persuadono della assurdità di un tal principio. Regni le cui popolazioni si ritrovano scemate per una particolar protezione accordata alle arti e mestieri a pregiudizio della madre agricoltura sono argomenti che ci dovrebbero una volta costringere di rinunciare a pregiudizj che furono sì funesti alla umanità. O uomini accecati dalla falsa apparenza, o veri filadossi, cessate di offrir progetti che non hanno altra mira che i progressi sforzati delle arti e dei mestieri, che l’emulazione inoltrata per lavori che non producono; ma gettando lo sguardo sulla terra, studiando le leggi fisiche ed irrefragabili della natura, conoscete qual sia la sola fonte della prosperità di una nazione, lasciatevi convincere dalla verità, meditate i di lei beneficj ed indi osate con forza ragionar sul pubblico bene!

Egli è dunque con gran ragione che gli economisti, esaminando l’origine dei lavori che ci procurano le arti ed i mestieri, conchiusero non meritare la classe de’ cittadini dediti alla medesima se non il nome di classe sterile, e non esser degni di esser chiamati produttivi se non quei lavori e quelle industriose cure che sono direttamente impiegate nella coltura delle terre.

Spiacerebbemi assai se il leggitore s’immaginasse non fare io verun caso delle arti e dei mestieri. Sempre ne parlerò con eloggio, ne riconoscerò la necessità e ne consiglierò l’emulazione, ma rinunciandone il pernicioso entusiasmo, non ne misurerò l’utilità che in ragione degli avvantaggi che possono procurare alla coltura delle terre, sorgente inesausta di veri tesori; non condannando se non quella sorte d’incoraggimento e di emulazione che può portare alterazione ai sacri avanzi della classe coltivatrice, che alimentar deve la classe de’ proprietarj e la classe sterile; classi fra le quali si ritrovano distribuite le numerose famiglie più conosciute sotto il nome di nazioni.

Quegli uomini della classe sterile che si danno alle diverse sorte d’industria, cioè che co’ loro lavori danno alle prime materie diversi ordini, forme e fatture, sono utili alla classe coltivatrice, non solo come consumatori di derrate proprie al loro sostentamento e di materie prime che comprano per lavorarle, ma altresì come promotori di spese nella classe de’ proprietarj e nelle estere nazioni. Come consumatori essi medesimi, dando un valor venale e costante alle derrate, sostengono gli avanzi alla classe coltivatrice dalla quale le comprano; e come promotori di spese nella classe de’ proprietarj e nei forestieri, accrescendo il medesimo valor venale, aumentando vieppiù anche gli avanzi, contribuiscono nella maniera la più efficace all’accrescimento delle riproduzioni ed alla prosperità nazionale. Ecco il primo beneficio dei coltivatori della industria; se a questi aggiungiamo ancora la quantità delle soddisfazioni e godimenti che procurano, la popolazione che in più modi fomentano, il commercio che ajutano, la nostra riconoscenza sarà sempre più riflessa e più ragionevole. Sarebbe dunque ingiusto il pensare che non porto a codesta classe la vera stima che riscuoter si deve da tutti gli esseri che fanno professione di amar l’umanità. Ma se la mia stima è fondata sulla evidenza, non acconsentirò ad innoltrarla in modo di perdere di vista il principal punto di mira che aver deve ogni vero economista, l’elementare oggetto delle di lui speculazioni nella madre comune di tutte le scienze, arti e mestieri, cioè nell’agricoltura.

Se non sono chimerici ma reali i vantaggi che ci furono recati dalle arti e dai mestieri, mi sembra scaturire la necessità di promoverne l’emulazione ed i progressi. Non sono già le leggi, le proibizioni, le esclusioni, le particolari distinzioni a pregiudizio dell’agricoltura che li possono favorire, ma la libertà, quella libertà che appoggiata sulla proprietà personale e mobiliare è l’unico fundamento di qualunque legame sociale.

Pur troppo le arti ed i mestieri hanno bisogno di libertà; e questa libertà deve annunciarsi colla distruzione di tanti pregiudizj da’ quali furono fin ora circondati. Diversi periti nei medesimi, inventati avendo molti dialetti, per mostrarne la teoria ne impedirono in qualche modo l’accesso il più facile; ma dappoi che alcuni filosofi pel bene della umanità intrapresero di approfondire sì utili cognizioni, questo particolar genere di fanatismo cominciossi a dissipare per dar luogo alla verità. Credo di certo che dopo la scoperta delle leggi imposte dalla natura pel miglior metodo della coltura delle terre, dopo il perfezionamento di molte scienze, non vi sieno scoperte più utili, che riscuotono i nostri applausi verso la filosofia, delle tante opere che in codesti due ultimi secoli si sono scritte sopra le arti ed i mestieri. Hanno desse alquanto sminuito il particolar genere di fanatismo che li circondava e prodotti artefici più illuminati. Dio voglia che la voce della filosofia, facendosi ognor più sentire da’ governi, finisca di dissipare per sempre gli abusi delle private giurisdizioni, invenzioni dei tempi d’ignoranza, accompagnate nelle nostre contrade da superstiziose circostanze che ne impediscono i progressi e che sono proprie a ralentire l’ardore con cui annunciar si deve la vera industria.

Egli si è dunque sulla rovina di tali monumenti trasmessi dai secoli calliginosi che le nazioni possono formare speranze di veder perfezionate le arti ed i mestieri. Se la libertà accordata ad ogni cittadino di coltivare a suo piacere e senza imposte e pesi nelle maestrie quell’arte o mestiero, pel quale si sente più fervida la di lui inclinazione, fosse già un gran passo verso un tale perfezionamento; non è men vero che l’educazione, dandone l’ultima spinta, mancar non potrebbe di formare i più industriosi artefici. Pubblici stabilimenti particolarmente favoriti da’ sovrani sarebbero opere insigni degne dell’attenzione legislativa. Diretti questi dal supremo Consiglio della educazione, serviti da abili e bene accostumati precettori, largamente rimunerati dall’autorità tutelare con onorifiche distinzioni e premj venali, non v’ha dubbio che adempite sarebbero le brame de’ filantropi, che nella istruzione della gioventù a ragione ritrovar vorrebbero i mezzi i più sicuri di veder riformati i costumi delle nazioni, e rese comuni certe utili verità che peranco restano rinchiuse ne’ libri o nei gabinetti di chi coltiva le scienze.

XVII. Ostacoli della perfezione delle arti mecaniche e dei mestieri.

Mancano gli artefici nei mestieri di prima necessità in alcuni paesi, mancan le mani necessarie alle manifatture, si scema l’industria per le professioni più utili al pubblico, si distrugge l’emulazione, si formano lamenti, si cercan le cause. Non mi perderò in vane declamazioni per ricercarne l’origine; semplici saranno i miei ragionamenti.

Il fasto, che fa accordare alle arti e mestieri di sontuosità ogni sorta di lusinghiere distinzioni, n’è la primaria cagione. Il ferraro, il falegname, il muratore ed altro simile rustico artigiano spande caldi sudori nella oscura officina, tristo vede che le sue veglie appena gli procuran da che sostenere una misera vita. Volge penetrante lo sguardo al laboratorio dell’orefice, del giojeliere, dell’indoratore o di altro artista che passa i giorni suoi a fomentar colla sua industria l’altrui sfarzo, l’altrui magnificenza, non lo trova già annerito, coperto di cenci, esposto alle intemperie de’ tempi nè affamato; ma osserva sulla di lui ben preparata mensa succolenti vivande, lo scorge ben vestito, ornato il di lui alloggio non solo del bisognevole ma del superfluo, sempre visitato dall’opulente che lo ammira e largamente lo compensa delle sue pene. Sorpreso dallo stuppore, tristo e bagnato di lagrime esclama: Che sarebbe il ricco senza di me? Mi espongo tutt’i dì a mille pericoli nello edificar la sontuosa sua dimora, che innalza sino alle nubi; sprezzando il fuoco, colle mie mani gli preparo varj ben travagliati metalli per legarne le mura; dò la prima forma alle lane, alle sete, a’ bombaci di cui si veste; incallisco gli organi del mio odorato con continua fetide esalazioni per fornirgli una varietà di cuoj e di pelli, sì per farlo camminar con leggierezza che per presentargli mille oggetti di bisogno; mi avvilisco con molti impieghi che ributano; con pazienza soffro l’ignominia; se del tutto non mi rifiuta, mi scema almeno la tenue mercede che gli chiedo in guiderdone. E colui che non gli dà che il superfluo, che non lavora se non per procurargli ornamenti, non solo si vede ricompensato con usura, non solo si arrichisce con un travaglio meno faticoso del mio, ma gode del piacere di vedersi blandito e corteggiato.

Indirizza allora sovente il discorso alle proprie figliuolanze, e dice: Cangiate idea, figli miei: non seguite le traccie di un infelice genitore, che curvato sotto il peso delle pene più che degli anni, appena sa guadagnar con che nutrirvi; itene ai laboratori di arti più lucrose, sebben superflue; con minori pene vi porrete in istato non solo di menare una vita felice, ma di sostenere un dì la mia cadente vecchiaja. Egli è così che le arti di sontuosità, distinte con troppa preferenza, scoraggiscono gli artigiani dei mestieri di pura necessità. Se queste lodi vengono da quelli che sono elevati in più sublimi dignità e nel primario ministero, fanno una crudele impressione nella moltitudine ed accellerano la decadenza dell’agricoltura e del commercio.

Le schiere di arroganti domestici, necessarj prodotti della sontuosità, sono un’altra sostrazione di mani strappate quasi a forza dall’agricoltura, dalle arti, dai mestieri, dalle manifatture. Le ricche livree che si vedono dietro i rotolanti gabinetti dorati, i volanti che inumanamente si sforzano alla corsa più che i cervi, i cocchieri, parimenti vestiti con gusto e con legiadria, servono pur troppo d’invito ai fanciulli dei mestieri artigiani. L’ozio, che ha le sue attrattive, finisce di persuaderli, loro promette una vita più allegra, meno stentata e più dolce. I tanti impieghi che esercitano un’altra specie d’industria nel saziare i parasiti ed i ghiottoni, impieghi di cui sono pieni i sontuosi palazzi dei ricchi, ajutano altresì ad animar la diserzione di coloro che applicar si dovrebbero alle arti ed ai mestieri di prima necessità.

I pubblici studj, le università sono cagioni non meno funeste di un sì fatal sconvolgimento. Amando i padri i proprj figliuoli, cercano di procurar loro una migliore esistenza. Vedono aperte molte carriere che conducono ad una sorte più dolce; osservano con gelosia colui che passato avendo l’infanzia in un’officina, co’ studj suoi, ma più ancor colle sue frodi divenne opulente fra i fastidiosi clamori di un foro arrabbiato, e col sovente tradir lo spogliato cliente che ne implorò l’interessato soccorso. Ecco come si empiono le società di falsari, e come si vedono contaminati procuratori, arricchiti di gemiti, farsi tal volta vanto della scellerata finezza con cui rogar seppero indegni codicilli.

I pubblici studj fanno empiere gli antri de’ chiostri. La vita monastica alla quale si trova condannata suo malgrado tanta nobile gioventù, tradita da inumani parenti con istudiate carezze, con orribili minaccie, è però una graziosa carriera pelle figliuolanze degli artigiani. Quando anche decider non potesser del loro stato che in una matura età, credo che talvolta la sceglierebbero con preferenza. Il discorso che fanno in questi cimenti mi sembra naturale. Eccolo: Il genere di vita a cui mi decido e che sembra tanto infelice, non è però sì disastroso che l’altro a cui sarei naturalmente destinato da’ miei genitori; una tonica meglio mi cuopre che una lacera veste; ho da che satollarmi ne’ miei fisici bisogni; il coro, l’officio non mi affatican già come un penoso mestiere; se sopporto con buon animo le ridicole prove del noviziato, se faccio progressi nei sofismi della teologia, fatto sacerdote mi trovo venerato dalla moltitudine, veggo a’ miei piedi nobili e plebei chieder con pianti il perdono deloro peccati. Se abile mi rendo con qualche applicazione a predicare, cresce colla pubblica la stima dei miei confratelli per me; aumentano i miei comodi, m’innalzo nei gradi dell’ordine, ove ho il piacer di commandar ai parenti di quei ricchi che avrebbero con pena rispettata in me l’umanità, se abbracciata avessi la profession cui pareva destinato dalla natura. Arrisico d’innalzarmi alle più sublimi dignità; mitre e porpore m’aspettano, e perfino lo stesso soglio; e là godendo della voluttà di esser risguardato qual Dio, se più non calpesterò corone e scettri, leggi darò almeno a mia fantasia agli stupidi mortali; col vedermi prodigati voti ed incensi, mi riderò delle lor triste vicende. Sembrerà chimerico e vagamente immaginato un tal raziocinio al volgo, il filosofo però non mancherà di essere convinto.

Il sacerdozio, generalmente preso, è una forte impulsione per sedurre molta gioventù ad abbandonare i mestieri. L’inerzia in cui vive, il rispetto che riscuote, sono attrattive dalle quali facilmente vincer si lascia il figlio indigente dell’artigiano, che ama di sortire da una professione che vede vilipesa e dispreggiata. Ma come annicchilare questa inclinazione pella sontuosità? Come rianimare la spenta emulazione verso le arti, i mestieri e manifatture le più utili all’agricoltura? Non vi è mezzo più sicuro della libertà. Se libero fosse il commercio, se tasse non pagassero i coltivatori della industria sterile, se abolite fossero le prerogative ed esclusivi privileggi, in breve tempo si vedrebbero fiorire anche le arti, mestieri e manifatture di prima necessità. Non si vedrebbe più allora lo sconvolgimento dell’ordine naturale essenziale delle spese nazionali, che aumenta la massa delle spese non produttive al pregiudizio di quelle che servono alla produzione, e nello stesso tempo al pregiudizio della medesima produzione.

Non è dunque disastroso di animare l’emulazione pelle arti e mestieri di prima necessità. Non sono però le leggi suntuarie di una difficilissima esecuzione, che costano ad un governo il mantenimento di tanti agenti per farle osservare, che distruggono l’inclinazione pella sontuosità? Queste leggi producono effetti o contrarj alla idea che si propone o perniciosi in altra guisa alle riproduzioni.

Non abbiamo dunque bisogno di consigli e dicasterj particolari per far fiorire le manifatture utili. La libertà sola ne ottiene l’intento. Da sola senza altre leggi dirigge l’aratro, forma gli avanzi alla classe coltivatrice e costringe i liberi cittadini ad essere ostinati nel fare spese che destano le consumazioni delle nostre produzioni territoriali. Non si cercano dunque più questi stimoli delle arti e mestieri in oggetti che non li interessano, ma nella libertà, nella proprietà personale e mobiliare e nella sempre attiva sicurezza della medesima.

XVIII. Modo di riformarli.

Se dopo di aver indicati gli ostacoli opposti al progresso delle arti e dei mestieri ed il modo di riformarli non volessi considerare qual sia il genere di educazione che meglio convenga per istimolare l’emulazione, inutili diverrebbero le esposte riflessioni. Pria di entrar in materia, avverto che non pretendo già di offrire un piano esatto, che solo meriterebbe molti volumi, ma un saggio di massime elementari, che meditate da ingegni profundi sapranno forse un giorno suggerire a qualche penna eloquente l’idea di un compìto trattato.

Siccome qui scrivo pella figliuolanza di uomini rozzi, penserà forse il leggitore che stabilir voglia il timore quale spirito direttore di una tal educazione. Svanisca questo pensiero. Amo l’umanità, scriverò sempre pe’ suoi vantaggi. Se riesciranno inutili i miei sforzi, se capace non sarò di persuadere, la mancanza di talento ne sarà la cagione, non già quella del cuore. Me fortunato, se animato dal medesimo stimolo, qualche vero sapiente vorrà supplire alla mia debolezza.

Infelice puerizia degli sventurati artigiani! Abbandonata al caso, niuno ancor s’intenerì a dovero sulla tua sorte. Lasciata alla cura di scoraggiti genitori, le battiture, gli oltraggi son le tue prime sensazioni, che rendendoti il cuor avvilito innaffiar non lo posson di virtuosi sentimenti. I mezzi con cui vorrei che si dessero le prime istruzioni ai nobili, ai negozianti, sarebbero efficaci anche per te. Al par di loro gli artigiani son nati liberi, e se nella educazione non si rispetta questa indelebile facoltà dell’uomo, se la dolcezza non ispira chi ha la cura di elevarli, già mancata l’educazione, non aspettate più di veder generazioni di generosi cittadini.

Scherzin pure gli artigiani nella puerizia, e come preme allo stato che de’ nobili divengan più forti, più semplici sieno i lor cibi, più penosi i lor esercizj. Anch’essi guidati da laici istruttori, faccian gli esempj altrui le prime lezioni. Diretti anch’essi dal tribunal de’ filosofi, avranno il piacer di veder veri sapienti, esaminarne i principj delle passioni, renderle ferventi al sommo ben dell’impero. O ingegni sublimi! Non temete già di abbassarvi nè di contaminar la vostra gloria! Entrate pure a parte degl’innocenti solazzi di questi fanciulli, compiacetevi pur di mischiar alle loro le vostre gioje, il vostro riso; nudrite in quei teneri petti l’amor della virtù coll’industria; non risparmiate pene e fatiche. Sarete allor legislatori. La munificenza de’ sovrani, la pittura, la scoltura stanno già preparando vere ghirlande, ricompense e monumenti.

Le leggi dell’Egitto non permettevano che si sortisse dalla professione in cui si era nato. Potevano essere utili sino ad un certo segno, e tal volta servir di ostacolo alla vera industria.

Ho detto che un de’ primi sentimenti che ispirar si deve all’uomo è la coscienza della libertà. Avranno i miei fanciulli avanti di loro infinite professioni: i soggetti dei giuochi essendo gli stromenti delle medesime, sceglin pure con una libera facoltà quelli pe’ quali si sentono una maggior propensione. Incapace talvolta l’uomo di divenire un buon tessitore, avrà il talento di un abile tornitore. Obblighi, castighi non sieno già messi in uso. L’esempio, la natura saranno le lor guide sicure. Sarebbe di una grande utilità, se dopo avere scelto il fanciullo quel genere di arte o mestiero nel quale si sente più forte l’inclinazione, vi fossero case o appartamenti per le principali professioni, ove congregati non si trovassero se non que’ fanciulli che liberamente le scelsero.

Le lezioni debbono esser semplici, date come se dar non si volessero, ed anzi servir di trastullo. Tra le elementari istruzioni della puerizia degli artigiani non passerò sotto silenzio l’aritmetica. È una scienza utile in tutti gli stati. Leggere e scrivere sono cognizioni di una uguale necessità. Il condannare gli artigiani ad una assoluta ignoranza delle medesime è una crudeltà. Gli elementi delle scienze economiche, il rispetto all’autorità tutelare, i giusti riguardi verso la classe produttiva, più la venerazione pelle magistrature, saranno sentimenti che cominciar si debbono ad inculcare nella puerizia. Cercherò nell’adolescenza di spianare vieppiù alcune difficoltà e di rendere più facili gli esposti pensieri. Molte idee che si troveranno nei capitoli di rustica educazione, ed in quella de’ nobili e commercianti, essendo addattate anche all’educazione degli artigiani, potranno esser consultate per rendere assai più agevole un sì importante soggetto.

XIX. Diritto di proprietà.

Le prime idee sul diritto di proprietà portano seco il germe delle società umane. Se è necessario il darne esatte definizioni ai nobili ed ai commercianti alunni, molto più ai fanciulli artigiani ed a tutte le figliuolanze popolari.

Se colla educazione si dessero idee giuste e precise di codesto inviolabile diritto; se tutt’i precetti che naturalmente ne scaturiscono si rendessero palesi a’ fanciulli di tutte le condizioni; se loro s’insegnasse la bella morale che rinchiude, più attenti un giorno a’ loro doveri, non romperebbero al certo i legami dell’ordine sociale. Da codesta fatale ignoranza ne vengono molti delitti. Gli autori che diedero della proprietà idee false forse non s’accorsero che ragionando sui loro principj alcuni fra la malcontenta moltitudine potrebbero dire: Chi è colui che ci costringe a menare una vita sì sventurata, ad accontentarci di un tozzo di pane amuffito, a vivere in cupi ed oscuri tugurj, a passare i nostri dì fra le annerite officine come i ciclopi della favola con insopportabili lavori, a chiedervi con tanta sommissione la mercede della nostra industria laboriosa, nel tempo che vivendo voi nell’abbondanza di ogni cosa necessaria e superflua, circondati vi vediamo da tutti i segni rappresentativi della pubblica opulenza? Questo essere crudele che ci obbliga ad impiegare i nostri industriosi sudori affin di sostenere una vita stentata viene chiamato sovrano. Da chi ha egli ricevuto tanto potere se non dalle nostre volontà? Potevamo forse dargli quello di renderci infelici? Avrem costituito in lui le nostre forze affin che se ne servi per muoverci cruda guerra? Rompiamo queste dure catene; nullo è il contratto, nulla la cessione della nostra autorità, posciachè tanto ne abusò; rientriamo nel seno della libertà, cangiam l’ordine delle cose, facciamo altri stabilimenti che procurar ci possano una miglior condizione. Non vogliamo più avvilirci nell’implorare il nostro vitto dall’altrui indolenza. Abbandonate, spietati usurpatori, i frutti delle vostre rapine; tutto è commune; rientriam nell’ordine della natura. Lavori ciascun per sè, e se lo fa per altri, lo faccia col patto almeno che colui che ricevette qualche frutto della sua fatica travagli dal canto suo anche per lui.

Così discorrerebbero pur troppo gli artigiani se ricevettero del diritto di proprietà le definizioni di cui sembrano persuasi alcuni filosofi. Le nazioni sarebbero involte negli orrori e delitti, tristi ma sicuri effetti di ogni anarchia. In preda gli uomini ad una vita tumultuosa ed infelice, senza leggi e senza convenzioni, errerebbero da forsennati nelle selve e nelle campagne quali belve furiose a soddisfare i piaceri sfrenati ai quali li trasporterebbero le loro sregolate passioni. Lo stato degli uomini infine, simile a quello de’ bruti, sarebbe per conseguenza uno stato di continua guerra.

Tale sarebbe pur troppo lo stato degli uomini, se la moltitudine scuoter volesse il dolce giogo della proprietà imposto dalla natura. Cessata la sicurezza di godere con tranquillità i frutti della terra, chi vorrebbe mai lavorarla e fargli i dovuti avanzi nella incertezza di raccogliere? Studiate, o uomini orgogliosi, le leggi della sufficienza, la necessaria libertà nelle consumazioni; compiacetevi di esaminare la marcia non della falsa e piena di assurde opinioni, ma bensì della vera scienza economica, e parlate poi se potete contro la proprietà, di cui ne vedete le graziose conseguenze; contemplate il vero ordine essenziale, stabilito nel genere umano dalla stessa natura, messa in moto dall’increato creatore, e decidete poi, se vi sia possibile, esser la proprietà l’origine delle umane sventure.

I furori, i disordini dunque fra i quali sarebbero involti gli uomini se si desse agli artigiani ed alle figliuolanze del popolo una falsa idea del diritto di proprietà, diverrebbero inevitabili. Quelli che trovarono nella vera scienza naturale l’ordine politico ragionarono altrimenti, e col loro ragionare ci sanno indicare come rendere si possono felici le società.

Tutte le figliuolanze, sì quelle dei ricchi come quelle che viver debbono dei frutti dei loro sudori, non hanno bisogno d’idee chimeriche, ma di una giusta ed invariabile definizione del diritto di proprietà. Se devo dunque ragionare sui mezzi di dare alle figliuolanze artigiane e popolari giusti principj della proprietà, li esponerei nei termini seguenti.

“È incontestabile che al formarsi delle società tutt’i membri contrattanti hanno promesso di contribuire colle loro forze alla sicurezza di ognuno, affinchè tutti potessero godere gli effetti dell’associazione, cioè la proprietà e la libertà, per ottener la maggior quantità possibile di produzioni della terra.

Tutti si obbligarono ad una continua e reciproca difesa sì contro le estere società che contro gl’interni perturbatori delle conchiuse convenzioni; e per meglio riuscirvi diedero al sovrano alcune porzioni degli annui prodotti, affin di armarsi in favore della difesa di tutti e di ognuno.

Stabilito questo primo patto, alcuni destinarono le loro veglie alla istruzione della gioventù, altri a fare eseguire con esatezza le leggi; quelli a smaltire il superfluo dei prodotti per cangiarli con quelli dell’altrui clima ed industria, e questi per far prendere alle produzioni della terra nuove forme per procurarci armi, stromenti, manifatture, secondo i tanti bisogni sì varj negli uomini che non sono più isolati, ma uniti in società.

Per poter lavorare con maggior sicurezza alla pubblica e privata felicità, hanno conchiuso che ciascuno non solo conserverebbe i frutti delle sue veglie o fatiche, ma che li trasmetterebbe alle proprie figliuolanze non più disperse sopra la terra, ma radunate sotto l’autorità de’ genitori, nei quali crescere dovette l’amore per le medesime, giacchè non erano più i prodotti dei soli fisici bisogni comuni a tutti gli animali, ma quelli di una inclinazione ragionata, fundata sulla scelta delle compagne, che far non potrebbero se fossero privi della proprietà, stato in cui la bellezza e le cose le più preziose aspetterebbero a colui che più forte essendo degli altri trionferebbe del più debole”.

Dimostrato alle figliuolanze degli artigiani per sicuro ed invariabile codesto principio, di cui non ne dò qui che una debole idea, si deve passare a parlar loro della utilità dello stato sociale; far vedere ch’era impossibile il procurarci tanti piaceri reali senza cedere altri vantaggi che non ne hanno se non l’apparenza.

Qui sarebbe necessario estendere le riflessioni sopra la dolcezza che gusta l’uomo sociale nel seno di un’amata famiglia. Una sposa affezzionata, figliuoli cari ed ubbedienti, l’armonia impareggiabile di una virtuosa e ben accostumata famiglia, si presentino con eloquenza, affinchè, invece di abborrire la loro sorte, applaudischino al disegno dei primi uomini che pensarono a formar le società.

Dimostrati tali principj, presentata ai sensi la legittimità del diritto di proprietà, seguiterei a ragionare sulla differenza della industria degli uomini e su i casi inopinati che producono le passioni, acciochè si persuadino non esser fondata la disproporzione insensibile che si vede nelle fortune se non nella uguale disproporzione che si trova nella industria, nella virtù e nel vizio fra i mortali, sì varj ne’ loro caratteri. Gli artigiani e le figiuolanze popolari non risguarderebbero più i ricchi come tiranni, ma cercherebbero a forza di travaglio e d’industria a multiplicare il loro bene, per divenire in uno stato da potere spandere sopra i più indigenti la loro beneficenza, unico sentimento delizioso che invidierebbero nei ricchi educati secondo gli esposti principj.

XX. Agricoltura, ben degna di educazione.

V’ha apparenza che la caccia, la pesca ed alcuni frutti agresti furono il primo sostentamento degli uomini.[53] Poterono ben sospettare la terra capace d’infiniti variati tributi, ma è natural cosa che non l’abbiano travagliata se non dopo l’invenzione degli stromenti per solcarla. Questa comune madre doveva allora esser ben informe. I grani troppo frammischiati con cattivi germi e coperti di loglio; di pampani invece ornate esser dovevano di foglie le viti; agresti al palato la maggior parte de’ frutti, che non erano inserti; erranti senza ordine e senza cura tutte le produzioni della natura; verdeggianti i campi e coperti di erbe e fiori; osservando alcuni i greggi e gli armenti pascolarsi, approssimandoli trovati pacifici e quieti, concepiron l’idea di porli sotto la loro schiavitù. Ubbidirono senza pena quelle belve, e gli uomini divennero pastori. Trovarono nel latte degli soggiogati animali un nuovo genere di alimento più dolce e più agradevole, ma non pensarono per questo sì tosto all’arte sebben semplice di far butirri ed altre sorte di deliziosi ritrovati nei laticini che con tanto diletto nutriscono i ricchi parasiti ed i poveri contadini. Da questa epoca a quella della prima coltura del terreno non credo essersi passato grande spazio di tempo; perchè antichissimi essendo i mestieri, di necessità non poterono essere stati inventati pria dell’agricoltura che ne fu la vera fonte.

Qual maraviglia non dovette mai destar il primo uomo che solcò la terra? Al germogliarsi dei semi sparsi, al crescer dei medesimi, lo stuppore e la gioja combattendosi nel cuore degli altri abitatori, li mossero a risguardarlo con venerazione. Il primo monumento, la prima statua sortita dalle rozze mani di chi inventò la scoltura dovette esser per lui. Ne fu imitato l’esempio, e fabbricando sul modello del suo altri stromenti di una ugual forma, ciascun lavorò qualche porzion di terreno. I prodotti furono variati non solo nella quantità ma nella bontà, secondo le qualità delle terre, i gradi d’industria e di lavoro. Se gli uomini non avessero già rispettato il diritto di proprietà avanti di formare le società, l’agricoltura non li avrebbe potuto riunire sotto gli stendardi dell’autorità tutelare, perchè non avrebbero giammai avute porzioni disponibili di sussistenze e godimenti per poterla formare.

L’agricoltura formò le associazioni, mentre con essa crescendo sulla superficie della terra le produzioni, e colle produzioni la popolazione, gli stimoli verso la rapina divennero forti a sufficienza per pensare ai mezzi di reprimerli con un pubblico potere che esser potesse superiore ad ogni privato potere.

Ecco la vera origine delle associazioni. In vano molti autori, che non seguono se non l’opinione, pretendono essere varie e sì differenti ne’ loro principj quanto varie e differenti sono le passioni.

Le riflessioni sulle prime azioni che costrinsero gli uomini ad unirsi in società non sono tanto oscure, sebbene sieno coperte dalla rugine di una antichità sì rimota che si perde nelle tenebre dell’obblio; non sono infine un aggregato di assurdi paradossi per chiunque si degna meditare le leggi fisiche ed irrefragabili della natura.

È indubitabile che se lo spirito di società inventò tante arti e tanti mestieri, ha dovuto altresì preliminariamente inventare l’agricoltura. I primi secoli di società dovettero esser secoli di continue scoperte, perchè continui erano i bisogni. Si fecero stromenti informi di legno, ed indi trovati i metalli e l’arte di renderli maleabili e pieghevoli, queste materie più proprie, perchè infinitamente più dure dei legni, diedero all’aratro una maggior consistenza e suggerirono altri stromenti che abbreviarono i complicati lavori delle terre.

Col volger dei tempi si fabbricarono aratri e stromenti più comodi; s’inventò pegli animali il giogo; si obbligarono a sottomettervisi, a piegar ubbidienti il collo, sì per lavorar le terre che per trasportare con maggiore facilità le voluminose derrate.

Quanto interessante sarebbe pella vera filosofia se dar si potesse una storia di tutte le prime invenzioni e progressi della coltura; come si rese l’aratro proprio a distrugger le erbe perniciose, a ridurre la terra in piccioli gruppi che ricevono con più facilità le influenze dell’aria in proporzion che son più divisi; come si sieno inventate le ruote, ritrovato sublime e profundo che dovette ne’ tempi successivi divinizzar la memoria di quel vago ingegno che ne fu l’autore.

Sortito il genere umano dalla infanzia, diviso in imperj ed in repubbliche, non mancarono i legislatori di volger le prime lor cure alla coltura delle terre. Per renderla ognor più degna di venerazione la collegarono colle molte opinioni religiose, la eressero alcuni fin sugli altari. Si popolò l’Olimpo di coloro che con ingegnose sebben semplici invenzioni più avean contribuito a perfezionarla. Fortunate le nazioni, se si fosse limitata l’impostura a presentar per oggetti di culto quegli uomini veramente grandi e benefici che ad altro non si applicarono che a colmarli così di veri favori!

Non contenti i primi capi de’ popoli di animarli all’agricoltura col mezzo della religione, vollero servir di pubblico esempio. Deposti in alcuni dì i diademi, scendevano dal trono, e prendendo rustici stromenti solcavano o con altri modi travagliavano le terre. Molti fra i medesimi non si limitavano a queste pubbliche ostentazioni, ma sceglievano terreni nei loro giardini ed orti, ove piantavano e coltivavano con molta cura albori, erbe, legumi, grani e fiori. Le feste dei Caldei, dei Persiani, degli Assirj, degli Egiziani, dei Cinesi e dei Greci inventate per celebrar cotanto insigni memorie; varie medaglie pervenute alla posterità; statue ed altri monumenti, non ci permettono di formar dubbj e sospetti sulla venerazione che avevano fino i monarchi i più superbi per un’arte in cui evidentemente riconoscevano l’origine d’ogni loro potenza.

Ne’ molti secoli che a questi successero punto non si scemò l’ardore negli uomini per l’agricoltura. Monarchi e sudditi, patrizj e plebei, cittadini e magistrati, capitani e soldati, oscuri contadini ed eroi, a gara prendevan l’aratro, a gara studiavansi di multiplicare i prodotti della pubblica opulenza. Ne parlavan i filosofi in diversi trattati con un’augusta dignità ed indicavano precetti. I poeti cantavano con ugual entusiasmo gl’innocenti amori dei pastori, i rustici piaceri degl’industriosi coloni, i diversi metodi con cui si lavoravan le terre, si tagliavan gli alberi, si seminavano e raccoglievano i grani, si potavan le viti; come le gesta maravigliose degli eroi fra i bellici tumulti o nelle senatorie adunanze. Le selve, il mormorio dei ruscelli, la vaga primavera, il caldo estate, l’umido autunno, il freddo verno, le messi, le vendemie esprimevano con estro ed energia.

Soggiogata la maggior parte delle nazioni, distrutta quasi in ogni parte la patria libertà, formato l’enorme colosso dell’impero romano, se si viddero tiranni sprezzar le rustiche cure e le delizie della vita villareccia, i principi benevoli che tennero di quando in quando le redini di quella superba monarchia non mancarono di far rivivere negli spiriti abbattuti dei cittadini costernati dalla sofferta tirannide gl’innocenti piaceri dell’agricoltura. Chiari diedero esempj, ed immaginarono premj lusinghieri per far amar la fatica, per animar l’industria dei coltivatori e per eccitar l’emulazione in un’arte che sola procura agli uomini i mezzi di soddisfare i bisogni e le comodità della vita e di sostener qualunque impero.[54]

L’urto impetuoso del sacerdozio coll’impero scacciò l’inclinazione pel lavoro nell’abbattuta moltitudine, e se distrusse il commercio, se scemò l’emulazione pei mestieri e le arti, non mancò di render languido il genio dell’agricoltura. Disertando gli abitanti, molti correndo da forsennati sotto le belliche insegne che in ogni parte della terra si mostravano spumegianti di sangue; altri rintannandosi negli antri tenebrosi dei chiostri, per menare una vita che si credeva dallo stupido volgo esser la sola che guidar poteva all’eterna beatitudine, pochi restarono a lavorare le terre, i cui prodotti venivano in parte devastati dal numero considerevole di fiere che con attività si multiplicano in tutti quei climi ove si scema la popolazione degli uomini.

Le leggi crudeli, le tante tiranniche imposte messe dai signori allo stabilimento dei feudali governi, le nuove particolari guerre e persecuzioni che succedettero alle grandi e generali; i boschi e vaste selve espressamente piantate per soddisfare il genio insano e la inclinazion delle caccie, anch’esse ajutarono a spopolare le terre.

Le massime insensate di spargere in climi lontani il sangue per assoggettir le coscienze degl’infedeli o per conquistar le provincie ove seguiti erano i misterj del Cristianesimo vennero a secondar le succennate angoscie. Furono il nuovo flagello che servì a spopolar le campagne e render sempre più sventurate le nazioni in preda ad ogni sorta di disordini. Questa fu l’epoca delle immense ricchezze di molti ordini regolari e del clero. S’istituirono allora nuove abbazie, priorati ed altre ecclesiastiche dignità, che con accordi taciti o palesi oppur con frodi s’impadronirono delle terre. So che molti monasterj meritano applausi per aver rese colte tante abbandonate campagne; ma riflettendo indi che un tale scopo si sarebbe ottenuto con maggiore efficaccia, se invece di animare i ricchi proprietarj alle crociate incoraggiti si fossero a farle valere, questa riconoscenza cessar deve nella posterità per dar luogo alla compassione che esiggono da noi i nostri padri guidati da un sì rabbioso fanatismo nel seno delle sciagure. Non si vantino più i beneficj che costarono sì caro alla umanità.

In fine dopo tanti secoli di tenebre, dopo una sì longa rivoluzione di guaj, si stancarono le nazioni ed i governi di essere infelici. Quei medesimi sapienti che sparsero raggi sì luminosi in tutte le scienze prepararono da lungi l’aura felice che incominciamo a respirare. Se c’illuminarono nelle idee di commercio, nelle arti e nei mestieri, rivolsero con ugual ardore i loro pensieri alla coltura delle terre. Alcune nazioni più particolarmente si rischiarirono, e le altre per seguire in qualche modo un sì lodevole esempio si contentarono per ora di mettere argini alla cupidità di chi servir si vorrebbe del fanatismo per tenerle assoggettite.

Col distruggersi mediante molte riforme gli abusi i più assurdi in varj oggetti, col rischiarirsi che fecero i governi in diverse parti essenziali della pubblica amministrazione, la medesima aura felice servì di fiacola per dissipar l’ignoranza non solo nelle idee scientifiche ed astratte, ma bensì in quelle che risguardarono il commercio, le arti e l’agricoltura. Si fu soltanto dopo una sì graziosa rivoluzione nello spirito umano che venne concesso d’investigare i veri fundamenti della politica; scienza che per lo passato era circondata da precipitose voragini, formata da precetti variabili e più inaccessibile di tutte le altre cognizioni. Si è dunque a codesta sì bella rivoluzione che dobbiamo la preziosa libertà con cui alcuni ingegni favoriti annunciarono diverse verità, che sviluppate da altri ci fecero sentire quanto sia importante alla nostra felicità di accrescere l’emulazione pella coltura delle terre, col mezzo di quei stimoli che si annunciano con tanta evidenza.

Se colle suaccennate intraprese tolti abbiamo diversi ostacoli, quanti non ve ne sono ancora a superare per rendere feconde le terre? Le tante imposte indirette ed arbitrarie che restringono all’uomo i godimenti della sua proprietà, le tante leggi e proibizioni che ne limitano la libertà, anima delle ricchezze, le diverse assurde opinioni generalmente adottate da’ governi e che sminuiscono la sicurezza della proprietà sono funestissime barriere che impediscono l’accesso della opulenza.

Le leggi dell’agricoltura tengono all’ordine della natura. Gli errori fisici che si commettono da’ governi si risentono di queste leggi. Se si piantano alberi, se si approffita de’ fiumi per formar canali e ruscelli, questi trasmandano vapori nell’aria che si cangiano in pioggie e ruggiade. Se si negligentano i canali ed i ruscelli e si sradicano gli alberi, meno vapori ricevendo l’aria, rara divenendo la pioggia, più non si vedono che vaste sterili brughiere.[55] Se queste poi cangiar si vogliono in campi fertili, quali pene, quanti ricchissimi avanzi, quanti stenti in fine per render benigna la natura!

Quando i governi si discostano dalle leggi naturali e necessarie all’avanzamento dell’agricoltura, più lagnar non si debbono dell’agricoltura se mancano le derrate, ma di loro stessi. Felici i sovrani ed i popoli, se sempre avanti gli occhj avuto avessero che la coltura delle terre è la sola fonte di tutte le ricchezze. Sarebbero più rispettate la proprietà, la libertà, la sicurezza, senza le quali far non si possono grandi avanzi, che soli ammigliorano le terre e ne mantengono stabile la fecondità.

Se non contempliamo la natura, far non potiamo leggi favorevoli all’agricoltura. Dalla ignoranza de’ suoi precetti sortono tutt’i precetti assurdi che incolti lasciano immensi terreni e che spandono nelle nazioni una infinità di enormi pregiudizj. Il meno forte di cotesti pregiudizj non si è al certo l’idea ricevuta contro i gran proprietarj. A sentir ragionare alcuni volgari politici, che non hanno per principj se non l’opinione, sembra che la grandezza di una nazione dipenda dalla maniera di ben dividere con accurate porzioni le terre. Vorrebbero sconvolgere l’ordine della società e che si facessero ogni dì leggi agrarie per mettere tutt’i cittadini gli uni a nivello degli altri. Sfuggite l’opinione che vi acceca, o falsi ragionatori! studiate meglio le leggi della natura. La prima delle sue leggi è la libertà; ed imparate una volta che mal si governa per voler troppo governare.

La prosperità di una nazione, le ricchezze de’ sovrani, dipendono dalla quantità dei prodotti e dal giusto valore de’ medesimi. Un popolo che non ha sufficienti produzioni o presso del quale le produzioni sono in non valore è sempre languido ed infelice.

La quantità delle produzioni ed il buon valore delle medesime dipendono dal genere di coltura con cui si lavorano le terre. Queste non rendono che in ragione degli avanzi.

Una moltiplicità di poveri coltivatori non avendo mezzi di fecondare le terre, mancando di avanzi, le produzioni si riducono a poca quantità e ad un picciol valore. Per render fertile un terreno vi si richiedono grandi avanzi, e simili esiggono coltivatori opulenti, favoriti, particolarmente protetti e rispettati dal legislatore.

Se tre mila pertiche di terra divise in trenta povere famiglie di massari, o fra cento cinquanta ancor più poveri pigionanti, rendono due cento cinquanta, a ragione di un quarto di scudo la pertica, questo terreno coltivato da chi ha ampj mezzi di farlo valere colla gran coltura ne renderà, spese dedotte, almeno otto cento. Nel primo caso il sovrano non si può prevalere che di 60 scudi, e nel secondo 250 formano la di lui porzione d’imposte.

Le ricchezze de’ fermieri sono dunque quelle che fertilizzano le terre, che attirano abitanti alla campagna, che fanno fiorire nelle città scienze, arti e mestieri. La coltura de’ massari e pigionanti rovina i fundi colla mancanza di avanzi di ogni genere e fa languire la nazione.

La gran coltura, cioè la coltura la più vantaggiosa all’imposta ed alla nazione, quella coltura che dà una maggiore quantità di produzioni ed un alto prezzo sempre sostenuto, vuole ancora una condizione di prima necessità, cioè la libertà. Se il commercio delle derrate non è libero, cadono queste in non valore. La gran coltura, colla distruzione della libertà, non essendo incoraggita perde le sue forze, e le campagne fertili e ben irrigate si cangiano in vaste ed aride brughiere.

Questi principj economici devono dirigere i legislatori nelle leggi che cercano di fare per favorire l’agricoltura. So che si oppongono alle idee generalmente ricevute dalla moltitudine. I pregiudizj contrarj non si possono scancellare se non colla educazione. Se le sane massime economiche insegnate esser devono a’ nobili, a’ commercianti, agli artigiani, perchè se ne dovranno privare i contadini, cioè quegli uomini che sotto la direzione d’istrutti fermieri destinati sono dalla natura ad arrichire le nazioni?

Come mai possiamo ora pretendere che mancando intieramente di educazione, che abbandonati alla balìa d’ignari genitori, oppure a loro stessi, senza premj, senza emulazione, senza principj, possino pensare ad accrescere la pubblica opulenza? Sono anch’essi figliuoli dello stato, che non ne può trasgredire l’istruzione senza esporsi a molti pericoli e senza mostrare una troppo palese ingratitudine. Riformiamo dunque un tale abuso; non vergogniamoci di confessare il nostro errore; siamo più sensibili alla ragione, più inclinati alla umanità; e cessiamo infine d’istupirci come nelle contrade che si trovano sotto i climi i più particolarmente favoriti dalla natura l’agricoltura si ritrova sì languida e distrutta.

XXI. Servitù, principal ostacolo della rustica educazione.

Misero l’innocente contadino, in molte contrade servo e tal volta strettamente avvincolato co’ lacci della schiavitù, come pretender che lavori con ardore e pensi a ben educar la sfortunata sua prole, se la vede perir pella mancanza di que’ generi che a forza di stenti, di sudori, offre con tanta prodigalità ad un insolente e spietato padrone?

Non presenterò dunque le mie idee sulla rustica educazione a quei duri governi che i coltivatori delle terre confondono co’ greggi e cogli armenti, ed ove il clero, i grandi, i nobili, credendosi composti di una natura più eccellente, osano ragionar in questi termini: Per noi solo l’eterna Sapienza dal nulla tirò questo universo. Vili plebei, tremate al nostro aspetto; a noi cecamente sommettete le vostre azioni, i vostri pensieri; se vi ha dotati il Creatore di qualche apparente scintilla d’intelligenza, sappiate che non ha avuta altra idea che di rendervi capaci di quel genere di lavoro e d’industriose produzioni che ottener non potiam dai soli destrieri e giumenti; se sarete sì audaci di mormorar della vostra sorte, se inteneriti dai famelici bisogni delle spiranti vostre famiglie ne cercherete il sollievo con qualche picciola porzion di quelle immense derrate che ci danno le mani vostre incallite, che vendiamo ad esteri mercatanti, vi troncherem con pene crudeli il filo di una vita sì piena di angoscie.

Fra i molti paesi ove pur troppo osservai i tristi effetti di questa favella, la Polonia si è quella che mi presentò spettacoli più lugubri. Sovente trasportati da una eccessiva riconoscenza vidd’io a’ miei piè prosternati squalidi agricoltori prorrompere in pianti di allegrezza per tozzi offertili di un pane annerito, limitati avanzi di una mensa sobria e frugale, in quella stessa felice stagione in cui, carche di ricche spoglie le spaziose amene campagne, si trovavano circondati dai segni della opulenza.

Popoli sfortunati, quanto compiango mai la vostra sorte! Nati in un suolo fecondo, quando avrete il coraggio di dire ai vostri tiranni? Siamo uomini di una natura uguale alla vostra; se avete la proprietà delle terre, dateci almeno da che satollar la fame; fate nuove leggi che spieghino avere anche noi un’anima dotata di facoltà e di ragione.

Ma rasciugate oramai il vostro pianto: un’aura felice già spira anche per voi. La clemenza colla filosofia al fin sedono sul vostro trono. Le eminenti virtù che si ammirano in Stanislao, i benefici stabilimenti a cui pensò fra le divisioni che tuttavia lacerano la patria vostra sono preludi di belle speranze. Invano si oppone una insensata politica di alcuni amatori dei disordini col favorir tanti pubblici nemici. Scorre ancor a ruscelli con quel de’ felloni il sangue innocente, ma vicina forse la pace, i trionfi gloriosi della gran Catarina finiran coll’abbattere i tristi monumenti di quella tirannide che fin or vi mantenne nella schiavitù.

Saranno sempre inutili le cure de’ legislatori ad animar l’agricoltura, se non si pensa ad istituir la gioventù de’ contadini; ma altrettanto impraticabile una riforma nella educazione, se sussister si lascia la servitù. Vuol l’educazion per base la virtù; e tolta la libertà all’uomo, cammina a gran passi nella via tortuosa del vizio. La servitù produce il timore, e questo limita le facoltà dell’anima e rende il cuor avvilito. L’uom vilipeso da chi lo comanda trema avanti di lui, sprezza sè stesso, non si fida di alcuno, ha le immagini confuse, divien superstizioso, sempre si porta alla frode, e sovente è capace de’ più turpi delitti.

Se voglio che i sentimenti onorati guidin l’educazione de’ nobili, de’ commercianti, degli artigiani che vivono ne’ borghi o nelle tumultuose città, avran da dirigere altresì i figliuoli dei rozzi agricoltori. Assai più preservate dalla corrutela le umili capanne delle troppo popolate città, si vedrebbe subentrar l’industria e l’emulazione in quei medesimi petti ove fin or non si osservarono che spiriti grossolani ed abbattuti.

Rendiam dunque la libertà a questo stato; non più intorpiditi nella indigenza e tormentati da continui bisogni, ascoltate, o rustici coltivatori, l’amico dell’umanità. Col rendervi la stima che merita una sì nobile professione, meglio iniziati nella teoria della vostr’arte, divenite più felici col render più opulenti i fermieri che presiedono ai vostri indeffessi lavori, ed anche più ricca la classe de’ proprietari, i cui vantaggi non dipendono che dalla vostra prosperità.

Ma cessiamo le dolorose lamente che naturalmente partir devono da qualunque animo che fa professione di amare l’umanità. Per render felici gli agricoltori d’uopo non abbiamo d’intenerire i sovrani in loro favore con uno stile appassionato e lagrimevole. Contribuiamo piuttosto a far conoscere ed a spandere nel pubblico i principj della vera scienza economica, che in sè sola rinchiude tutte le leggi utili alla società. Questa scienza luminosa colle armi della sua evidenza farà sempre maggiore impressione nelle anime di chi la coltiva che le più patetiche declamazioni, più sovente il frutto della opinione che della verità.

Le istruzioni che vengono offerte da questa scienza sublime non consistono già in precetti astratti vuoti di senso che trasportano lo spirito umano in vane chimere ed in labirinti tortuosi di oscuri ragionamenti. Sono verità degne di occupare la mente di qualunque filosofo e di appagare la curiosità di qualunque uomo che s’interessi nella felicità del genere umano. Le sue verità sono belle, chiare, luminose. L’evidenza le accompagna, l’interesse proprio loro serve di una scorta sicura. Questo interesse non è in contraddizione colle virtù che formar devono un perfetto cittadino; ma un interesse che illumina ogni uomo sopra i suoi veri vantaggi, che lo rispinge dai pensieri cupi che portano ai disordini sociali. Se questa scienza fosse insegnata a tutte le classi e condizioni umane, si vedrebbero le nazioni mosse da un naturale impulso verso il pubblico bene e fiorire l’agricoltura; popolate le campagne di abitanti felici che godendo i piaceri i più ameni ed innocenti, non invidierebbero la sorte de’ grandi nè le cure fastidiose delle città. La loro sorte sarebbe fortunata, e come la descrive eloquentemente Virgilio:

O fortunatos nimium, sua si bona norint
Agricolas! Quibus ipsa, procul discordibus armis
Fundit humo facilem victum justissima tellus.
Si non ingentem foribus domus alta superbis
Mane salutantum totis vomit aedibus undam,
Nec varios inhiant pulchra testudine postes,
Illusasque auro vestes Ephyreiaque aera,
Alba neque Assyrio fucatur lana veneno,
Nec casia liquidi corrumpitur usus olivi,
At secura quies et nescia fallere vita,
Dives opum variarum; at latis otia fundis
Speluncae vivique lacus; et frigida Tempe,
Mugitusque boum mollesque sub arbore somni
Non absunt. Illic saltus ac lustra ferarum
Et patiens operum parvoque assueta juventus…
Georg. lib. II. vers. 458 et seq.

Abbiamo già veduto a chi consegnar si dovrebbe l’educazione della rustica gioventù. Entriamo ora vieppiù nella materia e cerchiamo di mostrare quali sieno le istruzioni che convengono al loro stato, e sopra il tutto al modo di farle agevolmente ricevere. Lo farò con brevità, come lo esigge lo scopo che prefisso mi sono in codesti saggi. Le dividerò secondo le età nei due primi volumi, affin di non confondere l’ordine e rendermi più facile.

XXII. Elementi di rustica educazione.

Se col restituir la libertà agli agricoltori abbiam tolti gli ostacoli della loro educazione, è tempo di vedere in che debba consistere e di far scelta di quelle istruzioni che possono convenire a questo stato. I modi di coltivare, di raccogliere, di conservare e di mettere ad economico profitto tutte le produzioni della natura formano la teoria complicata dell’agricoltura, arte la più utile che esigge una particolar cura di corpo e di spirito in chi v’è destinato.

Sortito robusto ed incallito dall’infanzia il figlio dell’agricoltore, non lo vuo’ già rattristar con precetti fastidiosi de’ quali è incapace la puerizia, età, come già dissi, che non ama se non ischerzi e piaceri. Libero, vedendo gli altri fanciulli prender nelle mani rustici stromenti, imitar ogni lavoro, senza indurlo con preghiere nè premj, cerca di moverli colle deboli sue mani. Gliene presento allora di più leggieri, di una forma più vaga. Se ne impadronisce con avidità, cerca con ardore di far qualche saggio, e trovandosi da sè incapace, chiede all’uno ajuto, all’altro consiglio. È naturale che lo dimandi a quegli che riscuote da’ precettori più lodi. Si accostuma così a prestare i suoi primi omaggi al più industrioso ed al più capace; e l’altro fanciullo, che si vede corteggiato, applaudisce alle pene che gli procurarono un tal guiderdone.

Questo è il tempo d’impedir l’accesso di tanti pregiudizj de’ quali abbonda lo stato de’ coltivatori, e che hanno tanta influenza alla mancanza di prosperità nello stato. Diinsi dunque loro idee chiare e precise dei primi elementi dell’agricoltura. Assistendo i parrochi e gli esperti ai loro lavori, non si permetta che gl’imperiti genitori osino interrompere l’incominciato travaglio con avvisi immaginati ulteriormente dall’ignoranza e trasmessi ai posteri da una sempre cieca abitudine.

Se voglio per esempio servirmi in avvenire del seminatorio a cilindro nelle terre unite, che non sieno troppo pietrose, perchè si forma il solco che ricever deve il grano, e questo si semina con ugualità al fundo delle fessure e si ricuopre collo smosso terreno; ne comincierei ad insegnarne l’uso a’ rustici fanciulli; ne darei alcuni ma leggieri con piccioli cavalli, indi nel crescer dell’età e della forza sempre più pesanti fino allo stato che esser deve questo stromento mosso da cavalli di una ordinaria statura e forti. Questo utile stromento ed ingegnoso serve a raccogliere con minor quantità di sementi una molto maggiore quantità di grani. Previene la violenza con cui il vento confonde e dissipa i grani seminati, e li guarentisce dalla rapace avidità degli uccelli che li divorano. Estende con più libertà le sue radici nella terra questo genere; produce spiche più dense, paglie più forti, e previene ogni mancanza di attenzione con cui i coltivatori ignoranti talvolta malamente distribuendolo lo perdono. Se gl’inconvenienti di un tal seminatorio sono di ostacolo, gli accostumerei a seminare prendendo minor quantità di grani nella mano, ed a tener chiusi il dito annulare e l’agricolare[56] per raccogliere una maggior quantità di grani con minor quantità di sementi.

Se collo strappar le erbe cattive strappano i contadini e le contadine anche molti germi, avrei per esempio gran cura d’insegnare il miglior metodo a’ fanciulli. Li accostumerei anche a conoscer la miglior qualità dei letami; loro vorrei che si mostrassero poco a poco le ragioni perchè quello ch’è utile ad un terreno può esser nocivo ad un altro. Agl’istruttori si aspetterebbe il leggere il bel trattato della nuova coltura delle terre del sigr. Duhamel: La nouvelle maison rustique; gli articoli del dizionario enciclopedico grani e fermieri; e gli articoli di agricoltura che sono sparsi nelle opere di vera economia politica, dei quali facile sarebbe il procurarne una esatta traduzione.

Siccome si annojerebbero i fanciulli se applicati sempre venissero ad un medesimo lavoro, si variino pure i travagli ed i terreni, affinchè ne imparino a conoscere le differenti nature. Scorgerebbero così ove meglio si compiace una tal pianta, un tal grano ed una tal erba; il formento, il grano turco, le patate, la segala o ben l’avena. Si avezzino a veder cosa esigge il prato, la vigna, il bosco o le umide riviere, secondo i diversi climi e le posizioni locali. La direzion delle acque che tanto fertilizzano i terreni sarebbe una bella occupazione anche per la puerizia, che ama il corso dei ruscelli e di divertirsi ai bordi dei medesimi. Vivo sicuro che con un’assai maggiore celerità imparerebbero quest’arte delle altre tutte.

Per renderli più laboriosi ed industri, stabilirei che non si desse colazione, pranzo o cena se non dopo di aver eseguita una certa quantità di lavoro. Ma per toglier poi dal loro spirito ogni idea di timore e di castigo, vorrei che lor si desse altresì a conoscere non esser sano il cibo pria della fatica, ma anzi pernicioso nella loro età. Mi contenterei di lodare i più esperti, di lusingarli con alcune preferenze, ma giammai sarei del parere di umiliare i meno diligenti con parole aspre e dure. Se ama naturalmente il fanciullo gli eloggi, il silenzio de’ precettori sarebbe in lui più forte d’ogni pena, un tacito rimprovero che lo muoverebbe a riparar il dimani la mancanza di travaglio che oggi dimostrò. Pubblici i pasti, variati e sani i cibi e le acque, larghe e comode le vesti, continui e faticosi gli esercizj, fra i quali mischierei alcuni movimenti e voluzion militari.[57]

Quanto utile sarebbe per formare i lor cuori alla virtù il vegliar che gl’ignari genitori osservino silenzio sopra tutto ciò che risguarda la morale e la religione, affinchè loro non si presentino larve funeste e spiriti proprj ad otturarli ed a renderli fanatici e stupidi! Per meglio riuscire in una tal idea, li accostumerei a correre di solazzo in solazzo cogli altri fanciulli della loro età, ed accompagnati dai precettori che scherzando con loro si renderebbero ognor più grati, trovando nelle rustiche capanne le azioni dei genitori ugualmente rozze, quelle degl’istruttori allegre ed amene, ne cercherebbero così la società con quella de’ lor piccioli compagni. Che rapidi progressi non farebbero in questa guisa ne’ principj della loro arte? Qual forza, qual coraggio e quali virtù non germoglierebbero mai ne’ loro sempre fervidi petti?

Anch’essi, al par degli altri fanciulli, imparar dovrebbero cogli esposti modi a leggere ed a scrivere, nozioni di cui mancando la nostra rustica gioventù riesce sì ignorante e superstiziosa. Questo è un comune difetto di tutti quei paesi che gemono sotto il giogo della superstizione, i cui fautori, tutti dovendo i loro vantaggi e credito all’ignoranza, ben lungi di sminuirla, cercano di render sempre più fosche le tenebre che la circondano. Generalmente più istrutto e più virtuoso, il clero presso i protestanti non solo insegna al contadino a leggere ed a scrivere, ma lo inizia di più nella divina favella delle sacre carte. Dirozzati così dagli evangelici pastori gli abitatori delle campagne, quanto li trovai più amanti della fatica! quanto più inclinati alla vera pietà! e quanto meno ignoranti dei nostri in tutti i principj dell’agricoltura! Ne conobbi diversi aver lumi più estesi di molti dei nostri ecclesiastici, che presso l’intorpidita moltitudine passan per sapienti. Se chi mi legge avrà viaggiato nella Sassonia, nell’Inghilterra, in molte parti del Settentrione e nei cantoni svizzeri riformati, non mancherà di confermar colla sua la mia esperienza.

L’aritmetica è pure una cognizione necessaria nei contadini. Pur troppo sovente rimangono vittime di chi li rende sì miseri e sì infelici che più non dovremmo stupire se tanti fra di loro si portano al furto ed a molti altri delitti. Non contenti i proprietari delle terre, i fermieri e gli ecclesiastici di campagna d’ingannare gli agricoltori nelle misure e qualità dei generi, loro confondono talmente il cervello con conti multiplicati ed oscuri che veggono più volte ridotti al zero i più fecondi prodotti dei loro sudori, e ciò perchè non hanno veruna tintura di una scienza sì facile. Se non volete che s’introduca questo piano di educazione, se lo trovate estravagante, stabilite almeno, o reggitori de’ popoli, varj incorrotti magistrati che viaggiando pelle ville rendino giustizia agl’infelici coltivatori, che più non si porrebbero allora ai reati che punite colla morte e che prevenir potete colla umanità. Vorrei che si cominciasse in questa età ad ispirare le massime di una buona morale, i principj di società, i primi doveri dell’uomo indicati dalla natura dell’ordine sociale, le massime elementari di diritto naturale, ed i vantaggi che ritrovano gli uomini nella associazione. Tutte queste istruzioni sono trattate nella vera scienza economica. Mi si risponderà forse: mostratele, e non parlate sì vagamente. Ho procurato e procurerò di spiegarle nel corso di codesti saggi, con cui cerco di svilupparle e presentarle sotto l’aspetto il più semplice. Se non vi sono riuscito, pregherò di leggere i libri classici di cotesta sublime ed essenziale scienza ed i libri composti da quei maestri illuminati che seppero ultimamente scuoprire le più importanti verità dell’ordine naturale ed essenziale.

Fra i tanti precetti che si trovano in codesta scienza, non sceglierei pella rustica istruzione che i più semplici e che conducono alle nozioni necessarie al loro stato, non essendo necessario d’iniziarli nelle difficoltà. Basta che sappiano ad evidenza le cognizioni fondamentali, riserbando le più difficili pella nobile gioventù, principalmente per quei candidati che si destinano a sostenere nelle magistrature l’autorità tutelare dei sovrani contro i disordini dei male intenzionati e perniciosi cittadini.

XXIII. Esercizj, pene e ricompense.

Ho detto che ne’ giorni festivi i rustici fanciulli e la gioventù debbono incamminarsi al borgo più vicino co’ parrochi ed altr’istruttori, affinchè da’ filosofi possano esser esaminati i progressi ed i diporti. Marcin dunque pure, ma in pompa guerriera divisi in ischiere secondo le età, servino da ufficiali i più esperti ed i più industriosi. All’avvicinarli del borgo sotto le armi parimenti distribuiti giusta le età, anche quei giovani ricevino con onori i rustici alunni.

Dopo alcuni militari saluti, deposte le armi, vadino al cerchio a far mostra della loro attività al lavoro e della lor capacità alla presenza del consiglier filosofo, che li invita con viso sempre gajo e sereno. Alcune ore prima avran preceduti i parrochi e gli altr’istruttori. Dopo un saggio e bene scelto esame, notati i gradi di perfezione di ognuno, sentite e notate con esatezza tutte le azioni, encommiati i più virtuosi ed i più istrutti, animati con promesse che debbono dai sovrani meritarsi gli effetti, entra allora il consigliere a parte dei fanciulleschi esercizj.

Passar si deve il mattino in prove, finite le quali pronuncierà il presidente i nomi dei più industri, dei più infaticabili al lavoro di ogni età, raccolti pria i suffragi degli stessi alunni, che non mancheranno di riunirsi in favor de’ più abili. Risuoni pur l’aere d’intorno di acclamazioni e di canti giojosi a queste nominazioni.

Coronati di allori, circondati da’ lor compagni, venghino condotti con apparato di gloria fra il concento de’ musicali stromenti fino al luogo ove per tutti è preparata la mensa. Ricevino gli omaggi non solo di quelli della villa, ma degli altri ancora. La villa che avrà ottenute più corone in un anno avrà nel seguente la preferenza sulle altre.

Sedente il filosofo alla mensa cogl’istruttori, abbia a’ suoi canti i coronati eroi. Semplici sieno i cibi portati dalle diverse ville. Si accompagni il pasto con molti scherzi giojosi che rallegrin gli astanti e che distrugghino in alcuni la mestizia pegli altrui meritati allori. Si lodin pur tutti e si mostri a tutti un vero contento.

Parlar si dovrà dagl’istruttori in queste feste dell’amor che il sovrano porta a’ suoi sudditi. I termini rispettosi, le espressioni di tenerezza con cui dovrebbero essere accompagnati i racconti delle virtù del commun padre del popolo ecciterebbero di buon’ora nei teneri cuori zelo pel suo serviggio e riconoscenza pe’ suoi benefici. Unendosi con tanta frequenza la rustica gioventù fin dalla puerizia, diverrebbero ameni i di lei costumi. Si formerebbero legami della più sincera amistà. Si multiplicherebbero col volger degli anni gli esempj della più pura virtù.

Finito il pranzo si corra alle armi. Situati gli alunni cinti di allori vicini al filosofo, venghino salutati dalle coorti, giusti onori con cui cominciar debbono i loro militari esercizj. Marcie, contramarcie, conversioni, voluzioni, diversi movimenti della tattica si eseguischino. Nulla riesce difficile in quelle verdi età. Se qualche giovine o fanciullo mostra aversion per questi guerrieri solazzi, non si obblighi già colla forza a prender la corrazza, l’elmetto ed il fucile. Lasciato in balìa alla propria volontà, ben tosto verrà costretto da sè a prender parte dall’onta interna. Forse penserà che i suoi compagni s’immaginano aver egli una tale aversione per mancanza d’industria. Se ne parla a qualche istruttore, questo confermar gli deve i suoi dubbj. Gli fa d’uopo mostrar qualche stuppore nel vederlo inerte e fuor di esercizio. Se lo vede pentito, gli dice che sarà sua cura di scusarlo; lo consiglia sì, ma non lo sforza a riprendere il suo posto ne’ battaglioni. Dite, o leggitore, qual truppa regolata, qual disciplina potrebbe mai vincer quella intrepida milizia?

Terminati i militari esercizj, si separerebbe quella gioventù in diverse bande, ciascheduna volgendo il suo cammino alla villa natìa. Trionfante sarebbe il ritorno di quelli che con essi loro conducessero un coronato di allori. Festeggiante la rustica patria lo accoglierebbe nel suo seno con applausi. I parenti inteneriti verserebbero lagrime di piacere nel contemplare un simil portento, benedirebbero le cure paterne di un sì benefico sovrano che tutto si occupa di far educar le loro figliuolanze, sospirerebbero occasioni per mostrarne i più grati sentimenti. Deposta la corona nel lor rozzo arsenale, se molte fossero le medesime, qual comune trofeo mostrerebbero ai contadini delle altre ville, che a gara studierebbero di animare i loro figliuoli per decorar la patria con sì bei monumenti.

Presiederebbe il fanciullo o giovine coronato tutta la settimana agli altri compagni. Le sue prerogative non consisterebbero però che in onori e distinzioni. Lungi di accordargli autorità sugli altri, persuader si dovrebbe non esser meritato il suo trionfo se non col servir di perpetuo esempio di attività e d’industria, ed essere indegno dell’altrui stima colui che gonfio di un male immaginato orgoglio cerca di mostrare una vanità che lo degrada.

Almeno una volta ogni mese assisteranno a queste rurali più consiglieri filosofi, affin di poter fare al ritorno alla capitale un giusto rapporto al lor sublime senato dei progressi della rustica gioventù, per indi informarne il sovrano.

Nuovamente dirò dover essere il supremo Consiglio della educazione indipendente da ogni dicasterio come nel grand’impero della Cina il tribunal delle matematiche. Non solo questo, ma tutti gli altri consigli non devon dipender che dal sovrano. Nella stessa guisa che la proprietà di un cerchio consiste nell’aver tutt’i punti della sua periferia ugualmente distanti dal centro, così le diverse parti di una pubblica amministrazione, se hanno da produrre una giusta armonia, devono conservare una uguale distanza dal centro comune che è il sovrano, ove tutte devono altresì per necessità interseccarsi.

XXIV. Diritto di proprietà.

Non vi è stato di uomini a cui sia più necessario di presentare il diritto di proprietà sotto un aspetto vero e piacevole che agli rustici abitatori delle affumicate capanne, quali hanno il cordoglio di lavorare un terreno che a loro non appartiene, di raccogliere le abbundanti biade delle quali aver non ne possono se non una picciola porzione. Guaj dunque, se si dessero loro definizioni sospette ed una lugubre pittura di codesto diritto; alzando allora più forte la voce di quello che far non lo possono di presente, trovandosi più numerosi e più forti degli altri stati della società si riderebbero delle leggi, direbbero ai pochi ricchi loro signori: Se fin ora avete abusato della nostra semplicità, se comandato avete ogni sorta dei più penosi travagli, se vivendo nel fasto e nella mollezza ci avete con crudeltà sempre respinti lungi dai vostri palazzi, è tempo oramai di farvi provar quel che soffrimmo. Sortite dalla indolenza, e se di sostener bramate la vostra vita, a solcare andate le terre, esponete i gracili vostri corpi ai disaggi delle stagioni, imparate in fine che è tempo a rispettar l’umanità.

Per allontanare gli agricoltori dalla idea di un sì sedizioso discorso, ho già parlato della necessità di abolire la funesta servitù e di restituire a questo stato la libertà civile, acciochè reso l’uomo all’uomo, non più vilipesi, si risguardino in avvenire quali membri rispettabili del genere umano, parti anch’essi delle associazioni, ben meritevoli di esser protetti da quelle convenzioni tacite o palesi che formano la sovranità.

Resi in tal guisa felici i coltivatori delle terre, particolarmente guarentiti dalle insidie e dalle rapine degli opulenti, non saprei trovar metodo più sicuro per far loro amare il diritto di proprietà di accostumarli a risguardarlo colla dovuta venerazione, giacchè è il fundamento della legislazione e delle idee di giustizia, che di parlare con gran dignità ai rustici alunni dell’agricoltura, dar loro definizioni sublimi dello stato in cui si trovano collocati, acciochè lungi d’invidiar quello degli altri uomini, degni li trovano se non di compassione. Parlerei loro in codesti accenti.

“Gettate uno sguardo, felici coloni, sopra i grandi ed i nobili che tanto impongono colla ostentazione delle loro ricchezze, sopra tutt’i possessori delle terre. Hanno il timore della grandine, della siccità, delle inondazioni di comune con voi; ma più ancora le inquietudini di dover difendere i proprj possessi contro le ingiuste pretese dei vicini. Questo genere di guerra, la necessità in cui si trovano di vivere fra la speranza di conservare i lor beni e lo spavento di esserne tal volta privati dalla ignoranza, ma più ancora dalla corrutela dei tribunali destinati a pronunciar nei loro dissidj, li rendono sventurati. Famigliarizzandosi colle stiracchiature dei farraginosi chiosatori, dei venali e cavillosi legisti, gente la più perniciosa, la più ignorante e la più avida degli altrui beni, sovente si trovano costretti a perderli per la loro infedeltà, per la loro rapace avidità, a sopportare le insolenze di giudici ancor più venali e ad essere ridotti allo stato di più non saper come sostenere le loro famiglie desolate.

Buona parte di questi grandi e nobili passano il tempo in continue veglie, studiando le antiche e le moderne carte, affin di rendersi degni di occupar magistrature. Avute che l’hanno dopo molti stenti, brighe e pene, sono di continuo oppressi dalle più difficili cure. Scorrer vedono i dì tumultuosi e mesti, agitati da un canto dalle pubbliche voci che ne decidon la fama e la riputazione, da un altro dalla ambizione, che lacerandone il cuore li obbliga ad azioni umilianti e qualche volta disdicevoli. Se hanno l’animo retto, la coscienza delicata, fra quanti dubbj, fra quante false apparenze debbon mai ricercare la ragione sovente circondata da pregiudizj? Da quanti importuni assediati non ricevon insidie? Sempre di pericolo in pericolo errando, menano una vita sfortunata, senza poter gustar veri piaceri perchè amareggiati da infinite angustie.

Gli altri nobili che non hanno magistrature, cariche militari, se vivono nella indolenza sono forse degni d’invidia? La mollezza, le mense delicate, le continue veglie, mille solazzi nocivi al temperamento, avvicinandoli ad una precozia vecchiaja, provano vantaggi capaci d’interessare il vostro cuore?

Se i nobili ed i ricchi non possono eccitare l’invidia vostra, il vostro rancore, assai meno far lo potranno i negozianti e mercadanti. Chi può descriver le agitazioni che provano e che avvelenano tutt’i piaceri della vita? Un nautico inesperto mal guidando la sua nave la porta a sommergersi nelle unde od a perire contro uno scoglio. Il suo disastro porta i gemiti in molti commercianti, che invece di ricevere ricche merci si vedono delusi delle più belle speranze. Se prospera talun di loro, quanti fastidj nel conservar le ricchezze, nel far nuove intraprese! Il fallimento di un altro lo sconcerta, l’abbassamento di prezzo di un genere o altra mercatanzia lo inquieta, l’altrui privileggio in varj oggetti lo allarma. Passa con tanta rapidità dal piacere al cordoglio, che non mai contento e sicuro, sempre si crede minacciato da infortunj.

Troverete forse migliore lo stato degli artigiani, che fatto avendo con indefessi lavori qualche guadagno, confidandolo al commerciante per un ingordo interesse, vengono sovente esposti alla indicibile sventura di perderlo, ed avere in questo caso angoscie sì amare che li fanno soccombere sotto il peso di un inaspettato cambiamento di sorte che non prevedevano? Soffrono in fine gli artigiani tutti gli stenti che soffrite senza poter provare i vostri contenti.

A simili guaj esposto non è il vostro stato. Contenti di poco, accostumati ad essere sobrj e frugali, l’ombra di un faggio, di una quercia, di un altro albore piantato e cresciuto col lavoro delle vostre mani più vi rallegra che gli appartamenti fastosi non allettano l’infastidito opulente; ivi riposate le stanche vostre membra, contemplate le bellezze della natura che vi colma di beni, fate pasti ove regna la gioja, prendete parte al piacer di un figliuolo amato che unisce la sua sorte con quella di una vaga fanciulla industriosa ed innocente. Colà non sentite i malenconici racconti delle disgrazie di un favorito, le triste vicende di un ministro, che non avendo potuto sostenere il proprio credito contro le brighe di un invidioso competitore, vien rilegato ad annojarsi in un esiglio che sostener non può con pace per essere accostumato ad una vita tumultuosa. Non vi affannate colà della trista novella di un abbandonato orfanino, che vittima diviene della avidità del suo tutore sostenuto da qualche giudice iniziabile che con esso lui ripartisce i frutti delle sue rapine; le vostre orecchia non sono offese, i vostri cuori non sono sorpresi da tante altre rivoluzioni colle quali vengono costernati gli altri stati della società.

O fortunati, nuovamente il dirò, innocenti coloni! chi può uguagliar la vostra sorte? chi di voi può osarsi dir più felici, se la virtù abita ne’ vostri cuori? Avete piaceri reali in quegli oggetti che sono indifferenti agli altri uomini. Se qualche vento nella primavera vi adolora col gettar molti teneri frutti sul suolo, altri vi rallegrano su di cui giungete a scuoprire il morbido pelo che a vestirli comincia. La vigna da un canto vedete carca di uve preziose, da un altro le spiche che si piegano onuste per non poter sostenere un sì gran volume ed i prati ornati di fiori vi promettono il copioso mantenimento di belve che vi son care, perchè vi sollevan ne’ vostri lavori”.

Non essendo la mia idea di dare un compìto dettaglio delle vere dolcezze della vita campestre, finirò col dire che sovente dovranno i precettori della rustica gioventù parlarne coi termini i più ameni e dilettevoli. Simili discorsi ripetuti con frequenza ed i principj più chiari della vera economica scienza saranno le definizioni del diritto di proprietà. Non v’ha luogo a dubitare che prendendo idee disavantaggiose dello stato in cui si trovano gli altri uomini a torto invidiati dagli agricoltori imparerebbero a far maggior caso della propria condizione; che non sono reali ma apparenti i contenti dell’opulente; non gemerebbero più sulle loro disgrazie, ma allegri e giojali si crederebbero i più fortunati fra’ mortali.

XXV. Se è necessario l’insegnare la religione nella puerizia.

Più volte riflettendo sui principj di una buona educazione, mi dimandai se sia necessario iniziare la puerizia nella religione. Esaminai una tal quistione sotto una infinità di aspetti. Dopo averla in qualche maniera analizzata, la ritrovai sì degna dell’attenzione de’ filosofi che ho desiderato di vederla trattata dalla penna profunda di qualche vero conoscitore. La proposi perfino ad un illustre autore mio amico, che forse si sarebbe deciso a scioglierla se una infinità di occupazioni in cui si ritrova ingaggiato non lo avesse respinto. Una tal decisione più che da ogn’altro aspettar si poteva dalla conosciuta sublimità del suo intelletto.

Le prime idee che si danno nella più tenera età influiscono più che non si pensa in quelle che riceviamo da adulti. Idee false e mal fondate non conducono ad acquistarne delle vere in una altra più matura età. Quelle che a me in particolare sono state insegnate da alcuni del tutto ignari precettori tonsurati mi avrebbero senza dubbio condotto alla decisa incredulità, oppure al pirronianismo, se un onesto uomo assai illuminato in un certo clima settentrionale, temendo gli scogli infiniti e gli errori in cui sarei infallibilmente caduto se travagliato avessi sulle già ricevute idee, non si fosse mosso a compassione e distrutti non avesse con molta pena tutt’i cattivi germi su i quali già cominciava a edificare un funesto edificio.

È sì vera questa opinione che si vedono molte nazioni ingolfate nell’ateismo. Per atei non intendo soltanto quelli che sedotti o ingannati da un falso sistema più volte confutato di una fisica mal ragionata, s’immaginano chimere, assurdità e paradossi, delle quali ne vediamo i funesti prodotti; ma tutti coloro che errando in sofismi che non possono comprendere, si formano una divinità mostruosa composta di malefici attributi che ne distruggono l’esistenza della vera. Ammesso questo principio che non soffre modificazione, non sarà più difficile il sentire ad evidenza che vi sieno popoli intieri di atei, diretti, governati e spiritualmente catechizzati da altri maggiormente atei, sebbene si prendino la cura di anatemizzare sì co’ scritti che coi fatti l’ateismo.

Avendo detto che le prime idee che si danno all’uomo dalla più tenera età sulla religione

decidono di tutte quelle che può ricevere progressivamente da adulto, intraprenderò a dimostrarne le cagioni con tutta quella facilità che mi sarà possibile.

L’uomo è un essere misto di due sostanze che unitamente con un perfetto accordo lo mantengono con leggi, sulle quali moltissimi filosofi si sono perduti in vani ragionamenti, ma che verun di loro ha potuto definire. L’una di queste sostanze è l’anima, spirito sublime che non si distrugge, e l’altra è un amasso di materia, una machina soggetta a mille variazioni, ma molto più all’irresistibile impero della morte. Questa machina non è però indifferente alle nostre azioni morali e spirituali. Ha i suoi ordigni: sono i sensi. Ognun di questi è una nuova machina con altri ordigni, che sono le fibre, i nervi, i muscoli, i vasi. Un fluido li mette in moto; se si sconcerta troppo o si arresta nel suo corso, si sconcertano parimenti oppure finiscono le loro operazioni.

Questi sensi sì maravigliosi ci fanno scorgere gli oggetti. Continuamente vengono colpiti dai medesimi. L’anima è la direttrice di coteste differenti impressioni che ne rende la ripercussione più o meno forte in ragione della perfezione dei medesimi sensi che ci conducono alla riflessione. Più noi ci arrestiamo sui diversi oggetti che ci colpiscono, più l’anima è attiva in noi; meno ci fa riflettere, più approssima allora a quella delle belve, che agisce sulle sensazioni se non quanto può loro esser necessario per l’uso de’ sensi limitati a’ fisici bisogni, ma che a quel che comunemente si crede, loro non saprebbe procurare una concezione morale e riflessa degli oggetti che le circondano: anima però assai meno mecanica di quel che Cartesio e molti altri filosofi l’hanno supposta, e sulla quale dir non potiamo se non cose vaghe ed indecise.

I sensi hanno il lor punto di communicazione nel cervello, punto d’onde nasce e sorte ogni sensazione. I filosofi, cioè la maggior parte de’ medesimi, si sono perfino inoltrati a credere che il medesimo cervello sia l’origine di ogni sentimento, e per conseguenza del dolore o del piacere.

Un dotto moderno ha combattuta con forza questa opinione ed ha detto essere questo punto di sentimento universale il diaframma. Una tale idea fu abbracciata da alcuni altri, ma non si ritrova fra essi chi lo dimostri con maggior energia del signor di Buffon. Questo illustre sapiente naturalista si spiega così: Nell’uomo e negli animali che gli rassomigliano, il diaframma sembra essere il centro del sentimento; egli è sopra codesta parte nervosa che agiscono le impressioni del dolore e del piacere; ed egli è sopra codesto punto d’appoggio che si esercitano tutt’i movimenti del sistema sensibile. Il diaframma separa trasversalmente il corpo intiero dell’animale e lo divide assai esattamente in due parti eguali; nella superiore vi sono il cuore ed i polmoni, e nella inferiore lo stomaco e gl’intestini. Questa membrana è dotata di una estrema sensibilità e di una gran necessità pella propagazione e la communicazione del sentimento, che la più leggiera ferita, sia al centro nervoso oppure alla circonferenza, ovvero alle tendini del diaframma, è sempre accompagnata da convulsioni e spesso seguita da una morte violente. Il cervello, che si è detto essere la sede delle sensazioni, non è dunque il centro del sentimento, giacchè si può al contrario ferirlo, toglierne una parte senza che la morte ne sia un seguito, e si ha l’esperienza che dopo di aver tolta una porzione considerevole del cervello, l’animale non ha cessato di vivere, di alimentarsi e di sentire in tutte le sue parti. Distinguiamo dunque la sensazione dal sentimento. La sensazione non è che uno scuotimento nei sensi, ed il sentimento è questa medesima sensazione divenuta piacevole o dispiacevole col mezzo della propagazione in tutto il sistema sensibile. Poche righe in appresso dice fra le altre cose: Non vi è al contrario alcuno indizio di sentimento nel cervello, e non si hanno nel capo che le sensazioni pure o piuttosto le rappresentazioni di queste medesime sensazioni semplici e destituite dei caratteri di sentimento; soltanto si sovviene, si ricorda che tale o tal sensazione ci è stata amena o disgustosa; e se questa operazione che si fa nel capo è seguita da un sentimento vivo e reale, allora se ne sente l’impressione nell’interno del corpo e sempre alla regione del diaframma.[58]

Distinguendo dunque i movimenti piacevoli e dolorosi prodotti dai sentimenti dai movimenti che hanno per origine i sensi, non ci lasciamo più persuadere essere il cervello l’origine sì degli uni che degli altri. Sebbene possa sembrare intieramente digressivo questo ragionamento, a me però è parso ragionevole il far qui una tal distinzione, affinchè venga reso palese a quelli che non intendono la favella francese un sentimento che si presenta con tanti caratteri di verità. Ma riprendiamo il filo della materia.

Le nostre idee le più spirituali dipendono originariamente dal movimento che si fa nel medesimo cervello. Se non avremmo nervi, non avremmo sentimenti. Ogni senso ha la sua particolare organizazione che gli è propria. Le percezioni e le sensazioni ne sono gli effetti.

L’anima ritiene più o meno le determinazioni, i pensieri, i sentimenti che l’hanno affettata, le imprime nella memoria, che sembra un corpo fisicamente dotato di nervi, di fibre, di vasi, di una esatta organizazione.

Le sensazioni dei primi oggetti non trovandone altri ne’ suoi recipienti, la memoria li ammette senza paragone e se gli scolpisce con una forza sorprendente. Le prime idee così sono gli elementi sui quali forma l’anima la base delle sue riflessioni.

Lo scuotimento delle fibre della memoria viene fortificato dall’attenzione, che da qualcuno è creduto un corpo parimente organizzato. Presa dalle elastiche sue fibre una certa data direzione con cui comincia le sue funzioni, difficilmente la cangia verso altra parte.

L’autore del saggio analitico nella sua palingenesia filosofica si mostra persuaso che non solo la memoria e l’attenzione, ma altresì i pregiudizj sieno enti o esseri dotati anch’essi di fibre, che con loro crescono e si fortificano. Chechè ne sia della verità di un tal sentimento, è nulladimeno proprio a scioglierci molte difficoltà e ad indicarci le ragioni per le quali sia sì difficile di sradicare quei pregiudizj che sono ispirati nel cuore umano nella più tenera età col mezzo delle irruzioni presentate da una funesta educazione.

Quando al crescere di età si presenta all’uomo un oggetto da considerare, ricorre alla memoria. La consulta se lo deve ammettere, oppure se si trova contrario a quelli che ha già riflessi nella infanzia e nella puerizia. Perfezionandosi l’ingegno nostro, aumentando vieppiù in riflessioni, trova tal volta buone e reali le considerazioni che gli vengono presentate dalla sana ragione; ma nel riceverle la coscienza sua sovente lo avverte che sono in contraddizione con quelle che ha già scolpite nella memoria. Ne arriva in seguito che sebbene convinto della loro realità, sebbene credendole vere le abbia conosciute esser le sole degne di essere abbracciate dalla sua intelligenza, pure al diminuirsi delle forze de’ suoi organi, nella vecchiaja o con altre malatie, di bel nuovo implora con quell’ardore di cui è capace l’ajuto di quelle che furono le prime ad imprimersi nella sua memoria. Ecco la ragione pella quale alcuni, filosofando nella gioventù e durante il possesso delle fisiche loro forze, si sono veduti rimbambiti ricader negli errori della puerizia per qualche disordine arrivato nella loro organizazione.

I primi pregiudizi di religione conducono all’ateismo di due differenti maniere.

1° Se il fanciullo li ammette indifferentemente nel suo cervello senza formar dubbj e sospetti, vi s’incalliscono co’ suoi organi in modo che più esser non possono in veruna guisa sradicati.

2° Se il fanciullo però osa far su dei medesimi varie picciole obbiezioni, che i precettori ben si guardano di sciogliere, finge di riceverli, comincia a fissare i primi principj di un fatale pirronianismo, che lo conducono qualche volta alla luce, ma quasi sempre ad una decisa indifferenza.

Ordinariamente la religione è insegnata con uno stile imperioso che non ammette discussione. Se qualche fanciullo forma obbiezioni, il severo precettore rimproverandolo con parole aspre e dure gl’insinua essere i suoi dubbj istigazioni del demonio. Si prepara così lo spirito umano al timore ed alla frenesia; si seminano ne’ cuori i germi d’intolleranza; si contamina con annedotti calunniosi la memoria de’ riformatori degli abusi; s’insegna di buon’ora a risguardar con orrore i seguaci di una opposta dottrina, e poi si declama per provare l’eccellenza della carità cristiana.

Tutte queste riflessioni mi conducono a conchiudere che o non si dovrebbe istruire la puerizia nella religione, oppure servirsi di metodi spogliati di idee metafisiche e teologiche che i fanciulli non possono intendere, e che in qualunque modo che da loro si ricevano, sempre li guidano al pirronianismo, alla incredulità oppure alla superstizione, tre differenti generi di vero ateismo.

XXVI. Conseguenze.

I sommi motivi che ci fanno agire sono il desiderio di andare in traccia del piacere e quello di evitare il dolore. Questo non è un sentimento acquistato, ma nato con noi, inseparabile dalla natura dell’essere misto. S’innoltra perfino ad internamente avvertirci che indipendentemente del contento che si prova ad esser giusto, goderanno le anime nostre al separarsi della materia altre nuove consolazioni, sebben capaci non siamo a dimostrarne l’evidenza. Se coi sensi e coll’anima ricevuto abbiamo dall’increato Creatore un tal sentimento che ci porta al bene, non è possibile che lo abbia sì profundamente insinuato nel cuore, se veramente non ce ne ha destinata la realità; realità che non potremmo provare se l’anima non fosse immortale.

Chi rigetta l’immortalità dell’anima rigetta l’esistenza di Dio. Chi crede in lui non può mancar di credere esser l’anima immortale. Colui ch’è infelice a segno di dubitare dell’esistenza di un Dio increato cerca l’infelicità, s’immerge in uno stato doloroso, da cui lo deve naturalmente allontanare la coscienza della sua propria esistenza. O falsi filosofi che pubblicate un tal sistema, tremate pelle orribili conseguenze che ne derivano; se una tal credenza fosse anche un errore, direi col filosofo oratore romano che mi è caro un tal errore, che sarei intieramente sventurato se mi venisse tolto.[59]

L’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima nostra si tengono dunque sì inseparabilmente l’una all’altra che non è possibile rigettare la prima senza far lo stesso colla seconda, almeno che non si diventi misologo, odiante le ragioni come il misantropo odia gli uomini.[60]

Chi ammette un Dio creder deve agli attributi infiniti di giustizia e di bontà che lo accompagnano, e per conseguenza che ciascheduno riceverà al separarsi che farà l’anima dal corpo il bene o il male che avrà fatto allorchè abitato avrà questo corpo. Questa è una delle prime dichiarazioni della rivelazione, dichiarazione consolante che stabilisce con evidenza la proporzione esatta fra le pene ed i peccati, proporzione che rigetta con orrore tutte quelle idee che si trovano in contraddizione colle idee di clemenza e di giustizia infinita, attributi inseparabili di un Essere onnipotente.

L’esistenza di un Essere sommamente giusto, sovranamente clemente, l’immortalità dell’anima, la necessità di una felicità eterna pe’ giusti, quella di alcune pene proporzionate alle colpe de’ peccatori sono le prime idee elementari sulle quali riposar deve la religione.

Dimando ora a’ ragionatori: queste idee elementari che formano la base della religione sono forse proprie a colpire i deboli organi de’ fanciulli ed a condurli a tutti gli insegnamenti della medesima?

A qualunque evidenza che possano esser ridotte da un filosofo, sempre conserverebbero intrinsecamente una infinità d’idee metafisiche che non sono già della capacità della organisazione de’ fanciulli nella puerizia.

Si dovrà dunque privar questa età della cognizione di Dio e di quella di tante cose consolanti che l’accompagnano? In risposta pregherò il mio leggitore di scegliere fra i fanciulli di un talento perspicace quello che gli sembrerà il più dotto di questa età, indicato come tale da’ più esperti precettori che se ne gloriano de’ progressi; cioè colui che più felice avendo l’organisazione della sua memoria, a mente imprese una lunga serie di parole che formano il lungo quantunque sublime catechismo. Lo esamini con attenzione, rimarchi pure ogni suo detto, ogni sua risposta. Se ne trova un solo fra di loro che fuori dal limitato centro delle date questioni, interrogazioni e risposte, imparate a mente, sappia dare una idea riflessa nel suo intelletto di Dio o degli altri esposti oggetti, ragionar con un’apparenza di fundamento su di quelle stesse opinioni nelle quali con maraviglia degli astanti sembra sì istrutto, mi deciderò allora altrimenti ed avrà l’abitudine guadagnata la causa.

La noja ed il fastidio non conducono alla cognizione; le parole senza idee che s’imparano nella puerizia con i tanto lodati catechismi, invece di preparare lo intelletto a più profunde istruzioni, stancano i deboli organi del cervello de’ fanciulli e preparano ostacoli, affinchè nelle progressive età difficile riesca il conseguir la verità.

La religione non è come alcune altre scienze. Non ha bisogno di un certo dialetto particolarmente tessuto. La sua energia deve consistere nella chiarezza, unico simbolo della verità. Perchè affaticare il povero fanciullo con fargli imparare a mente tante parole che per lui sono a fatto prive di significazioni?

La religione dovrebb’essere insegnata col metodo della geometria. Le nozioni le più semplici devono servir d’introduzione alle composte.

Se il fanciullo non ha inteso cosa sia la linea, è inutile dimostrargli il triangolo o il pentagono.

Perchè tanto affrettarvi, o precettori, ad istruire la puerizia nella credenza di Dio? Temete forse che non l’impari al crescer di età? Bisogna che ne abbiate una troppo cattiva opinione, per mostrare una tal diffidenza.

Se avessi da comporre un catechismo pella puerizia, comincierei dalle idee le più volgari. Uno stromento di loro uso comune, un oggetto di solazzo sarebbe il primo uncino delle mie idee elementari, il mio punto d’appoggio, da dove partirei per condurli alla nozione d’Iddio e per conseguenza alle altre inseparabili idee. Li inizierei però gradatamente; non proporrei nuovi soggetti da meditare se pria tutte sciolte non mi avessero le altre difficoltà. Mi guarderei di farli studiare a mente queste materie, vorrei che le scrivessero nel cuore, che potessero a piacere formare obbiezioni, le quali essendo naturalmente semplici, semplici sarebbero altresì le sue risposte.

[1] Nam imprimis juvenum cura suscipienda est ut quam optimi viri fiant, quemadmodum bonum agricultorem teneriores primum plantas curare decet, ac deinceps aliis previdere….

[2] Vedi Traité des sensations.

[3] I sensi nel nascere sono per anco imperfetti. Gli occhj del bambino alcune ore o giorni dopo la nascita sono inutili, mentre non ne può fare alcun uso. Non avendo quest’organo una sufficiente consistenza, i raggi della luce non possono arrivare che confusamente sulla retina. Gli occhj, dice un gran medico, non acquistano la tensione necessaria a trasmetter con ordine gli oggetti, che in cinque settimane in circa. Se li muovono, i bambini lo fanno imperfettamente, essendo di continuo ingannati sulla forma e grandezza degli oggetti; finchè si accostumano col volger di varj mesi a conoscerli col tatto, gli sembrano roverscj.

[4] Il signor di Buffon è del parere, che l’udito ci rende proprj alla sociabilità, la quale senza questo senso non potrebbe aver luogo. Udendo i pensieri altrui, e facendo passare agli altri i nostri pensieri, ne formiamo allora i risultamenti ed i paragoni, che formano l’arte di ragionare.

[5] Vedi Buffon, Histoire naturelle de l’homme.

[6] Per generare uomini sani e robusti, converrebbe diriger le madri durante il tempo della gravidanza. Sebbene la dissertazione del sig. Ballexferd coronata nella Società olandese di Harlem sia una opera utile, desidererei per l’amore che porto alla umanità, che il sigr. Tissot volesse onorarla con qualche suo sistema. Questo gran professore ha già pubblicate su di ciò varie belle istruzioni, che bramerei vederle sempre più sviluppate dalla sua penna. Non v’ha dubbio che esposti i raziocinj con chiarezza e precisione dalla penna di questo insigne professore, non mancherebbero di essere letti con piacere e seguiti con ardore.

[7] Vedi ciò che dice M. Ballexferd, pag. 30 e seg.

[8]… natos ad flumina primum deferimus, saevoque gelu duramus et undis. Virg. Æneid. lib. IX. v. 603, 604.

[9] Vedi Ballexferd, Loke, Emile.

[10] Se v’e cosa capace, dice Buffon, di darci idea della nostra debolezza, è lo stato in cui ci ritroviamo immediatamente dopo la nascita. Vedi Hist. nat. de l’homme.

[11] Vedi Locke.

[12] Di bel nuovo il ripeto, essere i cattivi esempj de’ genitori e degli adulti funestissimi a’ fanciulli. Giovenale dice che la natura stessa ci persuade di una sì incontestabile verità: Sic natura jubet: velocius, et citius nos | Corrumpunt vitiorum exempla domestica magnis | Cum jubeant animos autoribusSat. XIV.

[13] Habent enim rationem cum terra, quae numquam recusat imperium, nec umquam sine usura reddit quod accepit: sed alias minore, plerumque majore cum faenore. Quamquam me quidem non fructus modo, sed etiam ipsius terrae vis ac natura delectat. Cato in Cicer. De senectute. Cap. XV.

[14] La proprietà pubblica de’ luoghi pii è della natura di tutte le altre proprietà che aspettano al pubblico. Niun la rispetta, e vi è chi la rimira come un oggetto di giusta invasione. V’ha chi rapisce in codesti fundi che rispetterebbe la proprietà di un privato cittadino. Se non vi fossero luoghi pii nè spedali, niuno più non si darebbe in preda all’indolenza. È assai meglio, ma dirò più umano, di prevenir l’indigenza, o sia d’impedirla, che il soccorrerla.

[15] Teognida poeta greco presso Zenofonte nelle cose memorabili di Socrate, lib. I.

 

[16] Souffrir est la première chose qu’il doit apprendre, et celle qu’il aura le plus grand besoin de savoir. Emile, liv. II.

[17] Le favole in questo caso posson esser di grande utilità.

[18] Condillac desidererebbe che tutti quelli che s’incaricano della educazione non ignorassero tali cognizioni. Così si esprime: Il seroit à souhaiter que ceux qui se chargent de l’éducation des enfans n’ignorassent pas les premiers ressorts de l’esprit humain. Essai sur les connaiss. hum.

[19] Poena tamen praesens, cum tu deponis amictus | Turgidus, et crudum pavonem in balnea portas. | Hinc subitae mortes, atque intestata senectus. Juv. Sat. I.

[20] Plurimus hic aeger moritur vigilando, sed ipsum | Languorem peperit cibus imperfectus, et haerens | Ardenti stomacho. Ibid. Sat. III.

[21] … at vos, | Praesentes, Austri, coquite horum obsonia. Quamquam | Putet aper rhombusque recens, mala copia quando | Ægrum sollicitat stomachum, cum rapula plenus. | Atque acidas mavult inulas. Lib. II. Sat. II. v. 39 et seq.

[22] Accipe nunc: victus tenuis, quae quantaque secum | Adferat. In primis valeas bene: nam, variae res | Ut noceant homini credas, memor illius escae, | Quae simplex olim tibi sederit. At simul assis | Miscueris elixa, simul conchylia turdis, | Dulcia se in bilem vertent, stomachoque tumultum | Lenta feret pituita. Vides, ut pallidus omnis | Coena desurgat dubia? Quin corpus onustum | Hesternis vitiis animum quoque praegravat una; | Atque adfigit humo divinae particulam aurae. Ibid. vers. 69 et seq.

[23] … uterne | Ad casus dubios fidet sibi certius? Hic qui | Pluribus adsuerit mentem corpusque superbum, | An qui contentus parvo metuensque futuri | In pace, ut sapiens, aptarit idonea bello?

[24] Quid, quod ne mente quidem recte uti possumus multo cibo et potione completi? Est praeclara epistola Platonis ad Dionis propinquos; in qua scriptum est his fere verbis: Quo cum venissem, vita illa beata, quae ferebatur, plena Italicarum Syracusiarumque mensarum, nullo modo mihi placuit, bis in die saturum fieri, nec unquam pernoctare solum, ceteraque, quae comitantur huic vitae, in qua sapiens neme efficietur umquam, moderatus vero multo minus. M. T. C. Tusc. disp. L. V. XXXV.

[25] Adde siccitatem, quae consequitur hanc continentiam in victu. Adde integritatem valetudinis. Confer sudantis, ructantis, refertos epulis, tanquam opimos boves: tum intelleges, qui voluptatem maxime sequantur, eos minime consequi; jucunditatemque victus esse in desiderio, non in satietate. Ibid. XXXIV.

[26] Potest igitur exercitatio et temperantia etiam in senectute conservare aliquid pristini roboris. De senectute, cap. X.

[27] Plat. de Rep. Lib. VIII.

[28] De Buffon, Hist. nat.. Edit. de Paris de 1758 in-12. Tom. VII.

[29] Il résulte aussi de ce que nous venons de dire, que l’homme dont l’estomac et les intestins ne sont pas d’une très-grande capacité rélativement au volume de son corps, ne pourroit pas vivre d’hérbe seule. Ibid. Tom. VIII.

[30] Vedi Montaigne, Locke e J. J. Rousseau.

[31] Vedi l’Onanisme, ou Essai sur les maladies produites par la masturbation, par Mr. Tissot.

[32] Qui legitis flores, et humi nascentia fruga, | Frigidus, o pueri, fugite hinc, latet anguis in herba. Virg. Bucol. Eclog. V. v. 92, 93.

[33] Qui per nobili intendo le figliuolanze delle ricche e benestanti famiglie.

[34] Vedi De la santé des gens de lettres. § 19.

[35] Hoc maxime officii est, ut quisque opis indigeat, ita ei potissimum opitulari: De offic. l. I. c. 15.

[36] Il signor La Chalotais, Ed. nati. XXV.

[37] Burlamaqui, Principes du droit naturel, cap. I. § 8 così si spiega: Il termine di diritto vien da diriggere, e significa condurre ad un certo scopo nel cammino più corto. Non lo contrasto, ma se vivesse e fosse qui presente, non mancherebbe di persuadersi meco esser le nostre leggi atte a guidarci ad uno scopo falso e per vie tortuose e difficili.

[38] Quemadmodum omne id homini bonum esse dicimus quod eum conservat ac perficit, malum, quod eundem destruit deterioremque reddit. Elem. phil. § CXLII. Il signor Hubner così difinisce il diritto naturale, cioè il sistema o l’unione delle regole obbligatorie che la sola ragione ci prescrive per condurci sicuramente alla felicità, considerate come tante leggi che l’Essere Supremo impone agli uomini.

[39] Libertas inaestimabilis res est. L. 106. D. de div. 1 nr. Potrei citare molti altri passi.

[40] Vedi Nouvelles maximes sur l’educ. chap. I.

[41] Plato dialog. 7 De Rep. vel de Justo.

[42] Qual folle vanità, diceva un amico, può mai innalzarci sopra i nostri simili? Non sentiam forse tutti le medesime debolezze? Non siamo soggetti ai medesimi difetti? Le nostre cadute, le nostre visioni non sono le stesse? Re, popoli, sapienti, stupidi; uguali imperfezioni, ugual ridicolo. Alcuni giorni più o meno ne fa la differenza. Questa presonzione che non ha altro fundamento che il nostro orgoglio, non è forse un soggetto di umiliazione?

[43] Ex quo, quia suum cujusque fit eorum, quae natura fuerant communia, quod cuique obtigit, id quisque teneat: e quo si quis sibi appetet, violabit jus humanae societatis. Cicer. De offic. lib. prim. cap. VII.

[44] Un filosofo dell’antichità così si esprimeva circa il dovere di mantenere coloro che ci prestan serviggi: Non soffrite che i vostri domestici sieno nella miseria fratanto che voi immersi vi trovate nelle ricchezze. Possono servirvi con gioja, se non avete nemmen cura della lor vita? Voi siete tutti uguali e tutti simili, secondo le leggi della natura. Non aggiungete nuovi affronti all’onta in cui la lor povertà li mantiene. Di che son colpevoli che di esser meno felici di voi?

[45] Phocylide ne’ suoi precetti così si spiega: Non rimandate l’indigente il lendimani; è forse pietà il volere che un uomo sii misero ancora un giorno, quando da voi dipende d’impedirlo? La carità prolonga forse le miserie che può finire? Prec. XII.

[46] Interiores simplicius et antiquius permutatione mercium utuntur. Corn. Tac. De mor. Germ.

[47] Quando Roma si trovò sommessa agl’imperadori, questi non si contentavano di chiedere grani in tributo, ma impiegavano parte delle specie o danari che si esiggevano in contribuzione dalle provincie nel comprarne, affine di mantenere l’abbondanza in un popolo torbido e pronto a ribellione. Le distribuzioni di pane, grani o farine erano credute necessarie principalmente ad un popolo i cui grandi avevano cangiati i terreni in laghi, parchi, superbi passeggi ed altri simil impieghi di stato. Il governo in questo modo era compratore di grani, e per evitarne anche la concorrenza, ne distrusse o limitò il commercio. Vi sono pur troppo giurisconsulti a segno ignoranti per far l’eloggio di un tal costume come di una impresa dettata dalla più consumata politica.

[48] Il commercio speculativo non poteva fiorire presso de’ Romani a cagione del disprezzo generale che avevano pe’ suoi agenti, e principalmente pegli artefici e mercadanti. Molti autori illustri parlano di questo ceto di cittadini co’ termini i più rivoltanti. Se volessi rapportare tutt’i passaggi mi renderei troppo difuso, mi contento di accennarne due di Cicerone assai rimarchevoli. Illiberales autem et sordidi quaestus mercennariorum omnium, quorum operae, non quorum artes emuntur: est enim in illis ipsa merces auctoramentum servitutis. Sordidi etiam putandi, qui mercantur a mercatoribus, quod statim vendant; nihil enim proficiant, nisi admodum mentiantur; nec vero quicquam est turpius vanitate. Cic. De officiis lib. I. cap. XLII. Mercatura autem, si tenuis est, sordida. Ibid.

 

[49] Illi robur, et aes triplex | Circa pectus erat, qui fragilem truci, | Commisit pelago ratem | Primus. Horat. Od. III. v. 9 et seq.

[50] Coll’unirsi in società l’uomo ha fatto il migliore uso della sua ragione. Non rinunciò alla libertà, ma all’abuso della medesima. Non perdette le sue forze coll’unirle a quelle degli altri, ma acquistato ha un diritto incontestabile sulla sua ed altrui libertà.

[51] En tirant des conséquences générales de tout ce que nous avons dit, nous trouverons que l’homme est le seul des êtres vivants dont la nature soit assez forte, assez étendue, assez flexible pour pouvoir subsister, se multiplier par tout et se prêter aux influences de tous les climats de la terre. Hist. nat. Edit. de Paris de 1764, in-12. Tom. XVIII.

[52] Qui per arti non s’intendono le belle arti, ma solo le arti mecaniche.

[53] Sed rami, atque asper victu venatus alebat. Virg. Æneid. lib. VIII.

[54] Tum dare operam agrorum cultu, quo, Hercules, stare respublicae solent. Vellej. Paterc.

[55] … namque | Neglectis urenda filix innascitur agris. Horat. Sat. III. v. 36, 37.

[56] Vedi Essai sur la quantité de semences la plus avantageuse au produit des recoltes, brochure in-4° par Mr. Mourgues.

[57] Il Cancelier Baccone li consiglia. Vedi sue Opere morali e politiche, XL. Vedi il cap. seguente.

[58] Hist. nat. Tome XIV, pag. 11 et suiv. de l’édit. de Paris de 1764 in-12.

[59] Quod si in hoc erro, qui animos hominum immortalis esse credam, libenter erro: nec mihi hunc errorem, quo delector, dum vivo, extorqueri volo. De senectute, cap. XXIII. Mi sarà permesso il dir di più ancora collo stesso antico: Neque enim assentior iis qui haec nuper disserere coeperunt, cum corporibus simul animos interire atque omnia morte deleri. De amicitia, cap. IV.

[60] Osservo che la misologia viene dalla medesima fonte della misantropia. Avendo l’uomo preso sede in altri uomini senza esame, trovandoli ingannatori, falsi ed infedeli, dopo molte simili prove vedendosi sempre ingannato, stanco di esserlo si porta ad odiare tutti gli uomini, credendoli tutti perfidi (a). Così colui che credute avendo molte ragioni solide, se ne arriva a scuoprire l’insussistenza, non dà più fede a ragioni, le odia tutte indifferentemente, e diviene deciso misologo.

(a) Chi più di me dovrebbe odiar l’umanità? Dalle prime dignità fino alle capanne, non trovai che ipocrisia; in un modo o in un altro quasi tutti gli uomini m’ingannarono. Scuoprii la perfidia fin in coloro che per lungo tempo creduti aveva amici. Eppure ho amata l’umanità, l’amo e sempre l’amerò.