Risposta ad uno scritto che s’intitola Note ed osservazioni sul libro Dei delitti e delle pene

Pietro Verri
RISPOSTA AD UNO SCRITTO CHE S’INTITOLA NOTE ED OSSERVAZIONI
 SUL LIBRO DEI DELITTI E DELLE PENE [1765]

Testo critico stabilito da Gianni Francioni (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, I, 2014, pp. 801-857)

Nolo in suspicione hæreseos quemquam esse patientem, ne apud eos qui ignorant innocentiam, ejus, dissimulatio conscientiæ judicetur, si taceat.
S. Hieronym. Epist. XXXVIII

Non è un male certamente nuovo o impensato in Europa per gli uomini di lettere il ricevere ad un tratto i più lusinghieri applausi del pubblico e le opposizioni di alcuno scrittore, nè può maravigliarsene un autore che abbia consacrato qualche porzione del suo tempo all’importante cognizione dell’animo umano. Non è strana cosa neppure che si coprano col santo manto della religione le accuse anche meno fondate contro uno scrittore che la porti scolpita nel cuore, la onori ne’ suoi scritti e la professi nelle azioni. Testimonj ne abbiamo nella nostra Italia anche in questo secolo in due pii e rispettabili letterati per ogni ragione, Prevosto Lodovico Antonio Muratori1 e Marchese Scipione Maffei.2 Il Cristiano illuminato perdona le ingiurie e pone nella vera luce le accuse tolte dal Sacrario, senza odiarne l’autore e senza negligentare il dovere verso Dio e il proprio nome.

Ho la gloria di rinnovare all’Italia l’esempio dei due nominati chiarissimi uomini, e per la terza volta in questo secolo forz’è che veda il pubblico intentata la gravissima accusa d’irreligione con prove e con ragioni poco veramente degne della santità dell’augusta materia. L’autore che le produce compare col titolo: Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene.

In queste Note ed osservazioni viene qualificato l’autore Dei delitti e delle pene per un uomo di mente angusta e limitata (pag. 51), frenetico (p. 66), impostore (p. 67), ingannatore del pubblico (p. 70), di mal talento (p. 154), che non sa quel che si dica (p. 138), che scrive con molta falsità (p. 139), che nausea colle franche sciochezze (p. 140), stupido impostore (p. 159), furibondo (p. 93), satirico sfrenato (pag. 42), che fa stomaco (p. 130), pieno di velenosa amarezza, di calunniosa mordacità, di perfida dissimulazione, di maligna oscurità, di vergognose contraddizioni (p. 156), di soffismi, di cavillazioni, di paralogismi (p. 46). Spetterà al giudizio del pubblico il decidere a chi facciano torto tai modi di dire,
 su i quali l’avversario non aspettisi nè retorsione nè risposta di sorte alcuna.

L’autor delle Note ed osservazioni dà al mio libro i nomi di opera sortita dal più profondo abisso delle tenebre, orribile, mostruosa, piena
 di veleno (pag. 4), temerariamente ardita (p. 16), calunniosa (p. 82), ridicola (pag. 25), infame, empia, maledica e che sorpassa la misura della più maligna e più sfrenata satira (p. 42). Egli vi trova forti temerità, ardite bestemmie (pag. 19), fantastiche dottrine (p. 20), indegne ingiurie (p. 24), insolentissime ironie (p. 25), fallaci e miserabili raziocinj (p. 62), impertinenze, pedanteria (p. 62), scherni goffi e temerarj (p. 65), proditorj soffismi, tortuosi cavilli (p. 86), crudeli invettive (p. 95), ributtanti atrocità (p. 93), impertinenti sciocchezze (p. 130), imposture (p. 114), ridicoli equivoci (p. 130), eccessi d’irragionevolezza (p. 141), arrabbiate invettive (p. 156), mordacità (p. 182), scandalose ed empie lepidezze, grandi impertinenze (p. 183), goffe supposizioni (pag. 38), incredibile acceccamento d’audacia (p. 41).

Nè al solo autore o all’opera circoscrive la sua collera, che per sino lo stampatore non ne va esente, venendo egli caratterizzato come un uomo sfacciato e indegno (p. 188). Nemmeno a questo genere d’eloquenza son io disposto a rispondere in conto alcuno. Dice l’avversario prima di por mano alle sue note: comincio tranquillamente le mie note e le mie riflessioni. L’istessa tranquillità si terrà nel rispondere, benchè sembri più facile l’esser freddamente accusatore che il rispondere alle calunnie con moderazione.

L’autore delle Note ed osservazioni fa molte opposizioni ai principj della politica e del gius delle genti da me fissati. Non penso a combattere su di ciò le obbiezioni sue: chi le adotta non approverebbe i miei ragionamenti su di ciò, e chi approverebbe i miei ragionamenti non ne può aver bisogno.

L’autore delle Note ed osservazioni forma due massime accuse contro di me: la prima è fondata sulla religione, la seconda sulla venerazione dovuta ai Sovrani; e queste due importantissime accuse sono le sole del suo libro che intendo di esaminare. Cominciamo dalla prima.

PARTE PRIMA
Accuse d’empietà

ACCUSA PRIMA
L’autore Dei delitti e delle pene non conosce quella giustizia che trae la sua origine dall’eterno Legislatore, che tutto vede e che tutto prevede, pag. 24.

RISPOSTA
Così ho distinta la giustizia puramente umana da quella che ha le sue radici nella religione: «Per giustizia non intendo altro che il vincolo necessario per tener uniti gl’interessi particolari» (pag. 8);3 così dichiaro di voler parlare unicamente di questa umana giustizia, non già di «quell’altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire», pag. 8. Come mai l’accusatore proverà che io non conosca una giustizia emanata dall’Eterno Iddio dopo una sì chiara spiegazione? Il modo con cui cava l’accusatore una sì strana conseguenza è con questo sillogismo:

L’autore non crede bene il lasciare all’arbitrio del Giudice l’interpetrazione della legge.

Chi non crede bene il lasciare all’arbitrio del Giudice l’interpetrazione della legge non crede a una giustizia emanata da Dio.

Dunque l’autore non crede a una giustizia emanata da Dio.

ACCUSA SECONDA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene mostra di credere altrettante imposture le Scritture Sacre, pag. 131.

RISPOSTA
In tutta l’opera Dei delitti e delle pene non ho mai nemmeno accennata la Sacra Scrittura, e in quell’unica volta che ho parlato del popolo d’Iddio così si legge a pag. 99: «Quel popolo eletto da Dio, a cui i miracoli più straordinarj e le grazie più segnalate tennero luogo della umana politica», pag. 99. Questa ed altre simili che vedremo, e che per moderazione seguiteremo a chiamar accuse, in prova delle quali nemmeno s’adduce alcuna ragione, ma gratuitamente si asseriscono, non pajono dettate da uno spirito praticamente imbevuto della Divina morale de’ Libri Sacri.

ACCUSA TERZA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene è giudicato da tutto il mondo ragionevole nemico del Cristianesimo, cattivo filosofo e cattivo uomo, pag. 155 e seg.

RISPOSTA
Ch’io sembri all’avversario buono o cattivo filosofo, non preme. Ch’io sia non un cattiv’uomo lo attesta chi mi conosce. Che poi io sia nemico del Cristianesimo si può conoscere dove dico che «i Ministri della verità evangelica» colle loro mani «ogni giorno toccano il Dio di mansuetudine», pag. 15; che «fra i motivi che spingono gli uomini anche alle più sublimi operazioni furono destinati dall’invisibile Legislatore il premio e la pena», pag. 19; che Dio è un «Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a sè solo il diritto di essere Legislatore e Giudice nel medesimo tempo, perchè ei solo può esserlo senza inconveniente», pag. 20. Si può conoscere quanto io sia nemico del Cristianesimo dove insto perchè la pubblica autorità protegga la sacra tranquillità de’ Tempj: «I semplici e morali discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità de’ Tempj protetti dall’autorità pubblica», pag. 29; dove, parlando del Purgatorio, così ho detto: «Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall’umana debolezza e che non hanno meritata l’ira eterna del Grand’Essere debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate», pag. 37. Si può per fine conoscere quanto io sia nimico del Cristianesimo dove dico che in mezzo a mille errori, ne’ quali la mente degli uomini col tratto de’ secoli è stata avvolta, la sola rivelazione s’è preservata immune: «Da questa legge universale non ne sono andate immuni sin ora che le sole verità che
la sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle», pag. 69. Troppo lunga cosa sarebbe il trascrivere tutt’i passi pieni d’amore, di riverenza e di fede per la Santa Religione che trovansi nel piccol libro Dei delitti e delle pene, sebbene non oltrepassi il numero di 104 pagine.

ACCUSA QUARTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene crede incompatibile la religione col buon governo d’uno Stato, Not., p. 165, e afferma che la religio
ne non influisce niente negli Stati, Not., pag. 169.

RISPOSTA
Queste due accuse si distruggono vicendevolmente, poichè una cosa che non influisce nulla nello Stato non può essere incompatibile col buon governo d’uno Stato. Ho detto che «i sentimenti di religione sono unico pegno dell’onestà della maggior parte degli uomini», pag. 44. Cosa può dirsi di più chiaro e preciso per provare che la religione è non inutile, non incompatibile, ma necessaria ad uno Stato?

ACCUSA QUINTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene asserisce che le dottrine più auguste, più venerabili e più interessanti delle Sacre Scritture non sono
che semplici opinioni umane, che queste chiamate opinioni possono accomodarsi con quelle delle altre Nazioni, e che di più possono essere vere e false. Not., pag. 161 e seg., ed altrove.

RISPOSTA
Da ciò che si è detto alla terz’accusa ognuno comprenderà se i dogmi della Santa Chiesa siano risguardati dall’autore Dei delitti e del
le pene come semplici opinioni umane. Che le infallibili verità della vera religione possano accomodarsi colla felicità d’ogni Nazione, ciò
è certo, e se in questo senso vien fatta l’obbjezione non contrasto di così pensare. Che poi io abbia asserito che i dogmi della Santa Fede possono essere veri e falsi, ciò difficilmente il farà credere l’accusatore. Gli uomini illuminati e religiosi sin ora hanno asseriti veri i dogmi; gli uomini empj hanno asserito falsi i dogmi. Chi gli asserisse veri e falsi ad un tratto sarebbe un nuovo mostro della teologia e della logica, cioè un uomo illuminato, religioso ed empio in una volta. Son tanto lontano dall’assurda opinione che diverse religioni contradditorie a se medesime possano essere un culto egualmente accetto al Creatore, come bestemmiarono alcuni, che anzi una sola vera religione ho dichiarata «la quale ha più sublimi motivi» d’ogni umano motivo «che correggono la forza degli effetti naturali», pag. 79.

ACCUSA SESTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene parla della religione come se fosse una semplice massima di politica. Not., pag. 159.

RISPOSTA
L’autore Dei delitti e delle pene chiama la religione «un prezioso dono del Cielo», pag. 44; non pare che una cosa ch’è un «prezioso dono del Cielo» possa mai interpretarsi per una semplice massima di politica. Se poi l’accusatore pretendesse d’imputarmi quasi che consigli d’assoggettare la santa religione alla umana politica, legga dove dico apertamente che «gli affari del Cielo si reggono con leggi affatto dissimili da quelle che reggono gli affari umani», pag. 44, e giustifichi poi la sua accusa.

ACCUSA SETTIMA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene dice che sembra odioso l’impero della forza della religione sulle menti umane. Not., pag. 156.

RISPOSTA
Nel mio libro, a pag. 93, così sta scritto: «Quantunque odioso sembri l’impero della forza sulle menti umane ec.», nè può immaginarsi d’onde tragga l’accusatore il diritto di frapporvi del suo la forza della religione. L’impero della forza sulle menti umane non è un impero legittimo; la ragion sola, la persuasione, l’evidenza hanno diritto a quest’impero, e la santa ed immacolata religione nostra non s’è già diffusa sulla terra colle straggi e col furore come la setta Maomettana, ma bensì colla predicazione, colla mansuetudine, colle più celesti virtù, col sangue puro e innocente de’ Martiri; nè mai lo spirito della Santa Madre nostra la Chiesa è stato uno spirito di forza o di tirannia, ma anzi uno spirito di dolcezza, di clemenza, uno spirito di madre in somma de’ fedeli, che cerca a tenergli nella strada del retto colla carità, cogli esempj, colle ammonizioni e con i miti castighi, quand’anche l’assoluta necessità suo malgrado l’obbliga a ricorrervi. Tale è lo spirito che ogni illuminato Cattolico riconosce nella Sposa di Gesù Cristo Signor Nostro. Intrudendo dunque l’accusatore in quel mio passo le parole l’impero della forza della religione, attribuisce alla Santa Chiesa uno spirito che ha sempre abborrito:4 «l’impero della forza sulle menti umane sembra odioso» alla Santa Chiesa, tale sembra a me pure. Quando l’accusatore poi voglia sostenere che l’impero della forza sulle menti umane sembri grato, è libero a farlo. L’inserire del proprio nei testi degli autori per poi combatterli non pare conforme alle leggi d’una legittima critica; nella grave materia di religione poi ciò si deve decidere al tribunale della morale evangelica.

ACCUSA OTTAVA
L’autore è un cieco nemico dell’Altissimo. Not., pag. 156.

RISPOSTA
Io lo prego con tutto il mio cuore a perdonare a chi m’offende.

ACCUSA NONA
Esaggera le stragi che sono state occasionate dalle verità del Vangelo, tacendo sempre i beni ed i vantaggi apportati a tutto il genere umano dalla luce dell’evangeliche verità ec. Not., pag. 158.

RISPOSTA
Non si citerà una parola del mio libro in cui si parli di stragi nate per il Vangelo nè direttamente nè indirettamente; pure, qui si asserisce un fatto, cioè che se ne parli, e se ne parli con esaggerazione. Vi saranno a quest’ora nell’Italia mille uomini che hanno nelle loro mani il mio libro, sarà cura dell’accusatore il giustificarsi in faccia di essi. È vero che non ho parlato nel libro Dei delitti e delle pene dei beneficj che ha fatto all’uman genere la luce dell’Evangelo.

ACCUSA DECIMA
Bestemmia contro i Ministri della verità evangelica chiamando lorde di sangue umano le loro mani. Not., pag. 37.

RISPOSTA
Nella mia opera ho asserito che l’introduzione della stampa abbia contribuito a incivilire ed umanizzare l’Europa; e soggiungo che chi conosce la storia vedrà ne’ passati tempi «l’umanità gemente sotto l’implacabile superstizione, l’avarizia, l’ambizione di pochi tinger di sangue umano gli scrigni d’oro e i troni dei Re, gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi, ogni Nobile tiranno della plebe, i Ministri della verità evangelica lordando di sangue le mani che toccavano il Dio di mansuetudine, non sono l’opera di questo secolo illuminato che alcuni chiamano corrotto», pag. 15. E questa è la bestemmia contro i Ministri della verità evangelica. Tutti gli scrittori della storia da prima di Carlo Magno sino a Ottone il Grande e dopo ancora sono pieni di sì fatte bestemmie, poichè il Clero, gli Abati e i Vescovi per quasi tre secoli andarono alla guerra, e di sì fatte bestemmie l’accusatore ne potrà trovare in abbondanza nelle Antiquitates Italicæ, dissert. XXVII, tom. 2, col. 164. Le mani de’ Sacerdoti, che allora avevan parte ai macelli dell’uman genere, non è bestemmia il dire che fossero «lorde di sangue umano», nè è una bestemmia il ricordare quest’antico disordine della disciplina come una delle più convincenti pruove dell’ignoranza e barbarie di que’ tempi, disordine riprovato e corretto da’ Sommi Pontefici. Io non farò torto alle cognizioni del mio accusatore sospettandolo poco versato nella storia di que’ tre secoli, dico bensì che le accuse di bestemmie si trovano nel suo libro più frequentemente che i sillogismi.

ACCUSA UNDECIMA
Tende a levare ogni rimorso di coscienza anzi che tutt’i doveri di natura e di religione. Not., pag. 37.

RISPOSTA
Ecco su che è fondata quest’accusa. Io dico che «l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla Nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi li commette», pag. 19. Io ho definito il delitto «un’azione opposta al ben pubblico», pag. 17. Io ho fatto vedere il peccato un’azione che offende i «rapporti che sono tra gli uomini e Dio», pag. 20. «Delitto» e «peccato» sono dunque due cose diverse, ogni «delitto» è un «peccato», perchè Dio ci comanda di non fare «azione opposta al ben pubblico», ma non ogni «peccato» è «delitto», perchè alcune azioni contrarie ai rapporti fra Dio e noi possono essere indifferenti al ben pubblico. Se ancora la mia proposizione non fosse chiara bastantemente, converrà addurre un esempio. Chiunque faccia un giudizio temerario senza pronunziarlo mai, ha fatto un «peccato» e non ha fatto un «delitto».5 Posti questi principj, ossia definizioni di nomi, facciamo un sillogismo: Un’azione opposta al ben pubblico è tanto maggiore quanto è maggiore il danno fatto al ben pubblico; ma il delitto è un’azione opposta al ben pubblico; dunque un delitto è tanto maggiore quanto è maggiore il danno fatto al ben pubblico; dunque l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla Nazione. L’accusatore a questa proposizione soggiunge: stimo affatto superfluo il star qui a rispondere e notare la sua assurdità e la sua mostruosità, Not., pag. 37.

Io non credo già che tal fatica sarebbe stata superflua, che anzi opportunissima e necessaria cosa è il provare le imputazioni che si fanno; e molto più in una materia grave, e moltissimo poi dove si tratti di accusare un uomo di empietà. Due uomini hanno tentato di rubbare, uno trova lo scrigno vuoto, l’altro trova denaro e lo usurpa: la malizia dell’atto è eguale, e perciò il peccato in sè sarà eguale; il danno fatto alla società è diseguale, e perciò saranno diseguali delitti, e presso tutt’i Tribunali d’Europa disegualmente puniti.6 Ma qui, soggiunge l’accusatore, dati i miei principj ne verebbe che bisognerebbe che si punissero anche le case che rovinano, gl’incendj, le inondazioni, i sassi, il fuoco e le acque, Not., pag. 38, poichè fanno danno alla società. Il fine delle pene secondo i miei principj è «d’impedire il reo di far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimovere gli altri dal farne eguali», pag. 31. Se dando le pene alle case che rovinano, agl’incendj, all’inondazioni, ai sassi, al fuoco ed alle acque si potranno «impedire i nuovi danni e rimovere gli altri dal farne uguali», si dovranno punire. Tocca all’accusatore a provare come i fenomeni della fisica siano in questo caso. Mi si dirà che un pazzo può fare un omicidio quanto un altr’uomo, eppure non sarà punito quanto un altr’uomo. L’accordo: ma ciò non perchè sia diversa in ambi l’intenzione e la malizia, ma perchè fa minor danno alla società il matto che il sano, poichè questo insegna a far dei delitti e quegli non dà altro esempio che di crudeli pazzie. Uno eccita lo sdegno e l’idea d’un massacro, l’altro eccita l’idea della compassione nel pubblico. Però sempre vale il teorema che anche in questo caso è il danno fatto alla società che misura le pene, non l’intenzione. Col nome di danno si deve intendere generalmente ogni sorta di danno fatto alla società, sia coll’azione per sè, sia coll’esempio. Decide l’accusatore che non si dà vero delitto senza malizia, Not., pag. 38. Altro è che non vi sia delitto senza malizia, altro è che la malizia sia la misura del delitto. Tutt’i criminalisti e i Tribunali d’Europa tengono l’opinione che tanto il dolo quanto la colpa costituiscono un delitto, e la colpa non è malizia. Ora, perchè ho detto che la misura de’ delitti è il danno fatto alla società, non l’intenzione, perciò l’accusatore dovrà dedurne ch’io tenda a levare ogni rimorso di coscienza, anzi anche tutt’i doveri di natura e di religione! Il rimorso viene dal peccato, e quando ho parlato d’un peccato che non credo un delitto, ho detto che «è una colpa che Dio punisce, perchè solo può punire anche dopo la morte», pag. 86, che «ha stabilito pene eterne» a chi manca alla Divina sua Legge. Se questa dottrina tende a levare ogni rimorso di coscienza e tutt’i doveri di natura e di religione, ognuno ne sia giudice. Ciò è accaduto perchè l’accusatore ha confuso le due idee di peccato e di delitto. Il non intendere un libro è un piccol male; il confutarlo non intendendolo
è un male grande; il confutarlo e ingiuriarlo non intendendolo è uno de’ più grandi mali che abbia fatto agli uomini l’arte della scrittura.

ACCUSA DUODECIMA
L’autore Dei delitti e delle pene accusa di crudeltà la Chiesa Cattolica e prende di mira i savi della Chiesa Cattolica. Not., pag. 95.

RISPOSTA
La Santa Chiesa Cattolica, nel di cui seno Dio mi ha data la grazia di nascere, i di cui dogmi onoro come divini e credo come infallibili, nel grembo della quale spero di vivere e di morire, non è mai stata da me accusata nè di crudeltà nè di verun vizio. I savi della Chiesa Cattolica sono i miei maestri, ed ho fermissima opinione nel lor sapere, nella loro rettitudine, che ciascun d’essi vorrebbe fare anzi la parte che ora faccio io di rispondere, che quella che ha fatto il mio accusatore coll’oppormi fatti provati falsi in un sì importante argomento.

ACCUSA DECIMATERZA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene chiama i mansuetissimi Prelati di tutto il Cattolicismo inventori di barbari ed inutili tormenti. Not., pag. 95 e segu.

RISPOSTA
Non è per mia colpa se sono costretto a ripetere la stessa cosa più d’una volta. Nel libro Dei delitti e delle pene in nessun luogo si chiamano i Prelati inventori di tormenti.

ACCUSA DECIMAQUARTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene nega che l’eresia si possa chiamare delitto di lesa Maestà Divina. Not., pag. 44.

RISPOSTA
Non v’è una sola sillaba in tutto il mio libro da cui si possa dedurre questa proposizione. In tutto il mio libro io non mi sono prefisso di parlare che dei delitti e delle pene, non già dei peccati. Sino al bel principio ho dichiarato che per nome di giustizia intendeva «il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari … non quell’altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita a venire», pag. 8. Questa è la ragione per cui ho ommesso di parlare della lesa Maestà Divina. Forse avrei ben fatto a parlarne; sia: ma l’ommettere di ragionarne non è negare che l’eresia possa chiamarsi delitto di lesa Maestà Divina. L’errore di chi mi accusa di quello che non ho detto proviene da ciò che leggesi nel mio libro a pag. 22, cioè in proposito del delitto di lesa Maestà, che «la sola tirannia e l’ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee più chiare, possono dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a delitti di differente natura», e l’accusatore forse non sa quanto abuso ne’ tempi appunto della tirannia e dell’ignoranza siasi fatto del nome di lesa Maestà, accomunato a delitti appunto d’una «differente natura», poichè non tentano «la immediata destruzione della società», pag. 22. Vegga egli dunque la legge degl’Imperadori Graziano, Valentiniano e Teodosio, leg. 2, Cod., de Crimin. sacril., ed ivi imparerà che si trattano rei di lesa Maestà per sino coloro che hanno potuto dubitare an is dignus sit quem elegerit Imperator. Vegga la leg. 5 ad leg. Jul. Majest., la quale estende il delitto di lesa Maestà a chiunque offenda gli Ufficiali del Principe, per questa ridicola e cavillosa ragione, che ipsi pars corporis nostri sunt. Vegga un’altra legge di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio, leg. 9, Cod. Theod., de falsa moneta, ed ivi troverà
il delitto di lesa Maestà esteso ai monetari falsi. Vegga leg. 4, § ad 
leg. Jul. Majest., e sarà istrutto che vi volle un Senato-Consulto per far cessare l’accusa di lesa Maestà contro chi avesse fuso le statue scartate degl’Imperatori. Vegga la leg. 5, § ad l. Jul. Majest., e saprà che vi volle un editto degl’Imperatori Severo e Antonino per far cessare l’azione di lesa Maestà contro chi vendesse le statue degl’Imperatori. Ivi ve
drà che vi volle pure un loro decreto perchè non fosse riputato reo di lesa Maestà chi a caso avesse gettata una pietra contro una statua d’un Imperatore. Vegga la storia e troverà che Domiziano fece morire una donna perchè s’era spogliata davanti la statua di lui; Tiberio condannò alla morte come reo di lesa Maestà uno che avea venduta una casa con entro la statua dell’Imperatore. Vegga anche ne’ tempi a noi più vicini come abusandosi Enrico VIII delle leggi facesse morire con infame supplizio il Duca di Norfolk accusandolo di lesa maestà, perchè avesse fatto scolpire negli argenti di sua famiglia le armi dell’Inghilterra. Vegga come lo stesso Sovrano abbia esteso il delitto di lesa Maestà sino a chi osasse vaticinare la morte del Principe, dal che ne nacque che nessuno de’ medici lo avvisò del pericolo nell’ultima malattia. Vegga in somma nell’intero la legge Julia Majestatis, e allora, instrutto l’accusatore di quelle cose che non s’ignorano da chi vuol parlare di materie legislatrici e criminali, non anderà più tanto lontano per interpretare che mi voglia dire allorquando scrivo che «la sola tirannia e l’ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee più chiare, possono dare il nome di lesa Maestà a delitti di differente natura», nè s’esporrà allora al pericolo di credere con ciò negato che l’eresia si possa chiamare delitto di lesa Maestà Divina.


ACCUSA DECIMAQUINTA
Secondo l’autore del libro Dei delitti e delle pene gli eretici condannati dalla Chiesa e dai Principi sono vittime d’una parola. Not., pag. 43.

RISPOSTA
Questa accusa non troverà verun vestigio di prova nel mio libro. Il dover tante volte ripetere che l’avversario mi fa delle imputazioni smentite dal fatto è cosa nojosa per me e per i lettori, non so poi che debba essere per il mio accusatore. Io esporrò qui come nasca il di lui ragionamento, e per farlo più semplicemente trascrivo primieramente il mio testo, indi il comento ch’ei vi fa parola per parola. Così dunque dice il mio libro: «Alcuni delitti distruggono immediatamente la società o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza d’un cittadino nella vita, nei beni o nell’onore; alcuni altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare o non fare in vista del ben pubblico. I primi, che sono i massimi delitti, perchè più dannosi, son quelli che chiamansi di lesa Maestà. La sola tirannia e l’ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee più chiare, possono dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a delitti di differente natura, e rendere così gli uomini, come in mille altre occasioni, vittime d’una parola», pag. 22.

Vediamo ora come interpreti questo passo l’accusatore. Ecco le sue parole:

Già si sarà accorto il lettore che qui l’autore parla del perfido delitto di eresia, ch’egli nega arrogantemente che si possa chiamare delitto di lesa Maestà Divina, e che tratta da tiranni e da ignoranti quelli che insegnano il contrario, affermando in oltre con iniqua impertinenza che gli eretici condannati dalla Chiesa e dai Principi sono vittime d’una parola. Not., pag. 43.

Come mai pretende l’accusatore che s’accorgano i lettori parlarsi del delitto d’eresia dove dividonsi i delitti in tre classi: primo, quei che tendono alla immediata destruzione della società; secondo, quei che offendono un cittadino; terzo, quei che offendono le sole leggi! Come mai può venire in mente che si parli d’eresia dove si stabilisce una teorica e puramente umana divisione dei delitti, universale a tutto l’uman genere, e Maomettano e Idolatra e Eterodosso, indipendentemente affatto dalla religione! Ciò dipende dal desiderio di ritrovarvela in guisa che sembra che per esso dimentichi l’accusatore l’opinione che i lettori devono formare di lui.

Qui dunque trattasi del delitto di lesa Maestà senza l’epiteto di Divina, e delitto di lesa Maestà senza l’epiteto Divina presso tutt’i Dottori, presso tutt’i tribunali, presso tutti gli uomini dell’Europa significa un delitto puramente umano, non già il delitto d’eresia. Chiunque abbia qualche notizia della storia degl’Imperatori vedrà quanti siano per tirannia e per ignoranza stati vittime d’una parola, la qual parola è questa appunto, lesa Maestà. A quanto ho detto sull’accusa decima quarta aggiungo ch’io consiglio all’accusatore a dar prima una occhiata alle storie, caso che pensi di continuare ad arricchire la Repubblica delle Lettere co’ suoi scritti e ad edificare i Cristiani colle sue accuse, e nella storia vedrà quanto questa parola lesa Maestà abbia servito di pretesto alla tirannia ne’ tempi de’ Romani Imperatori, perchè chiamandosi gratuitamente delitto di lesa Maestà ogni azione che dispiacesse ai dispotici, si usurpavano coloro la libertà de’ sudditi a lor talento e s’impinguavano con infinite rapine sotto il nome di confische. Vegga l’accusatore Tacito e Svetonio, e sarà instrutto delle enormi tirannie che colla parola lesa Maestà hanno fatto Tiberio, Nerone, Claudio, Caligola e sì fatte cancrene dell’umana specie. Plinio dice che il delitto di lesa Maestà era il delitto di quegli che non ne avevano alcuno. Quindi, parlando del delitto di lesa Maestà, se ho detto che la tirannia e l’ignoranza hanno dato questo nome a delitti di natura diversa e reso
gli uomini vittime d’una parola, ho detto quello che m’insegnano a dire tutte le storie, nè certamente può pormisi in bocca ch’io abbia avvanzato che gli eretici condannati dalla Chiesa e dai Principi sono vittime d’una parola se non da chi faccia uso d’una logica nuova affatto, e per fortuna dell’uman genere sinora sconosciuta.

ACCUSA DECIMASESTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene si duole de’ nostri teologi perchè insegnano che un peccato è un’offesa infinitamente grande che si commette contro la Divina Maestà di Dio. Not., pag. 43.

RISPOSTA
Non ho mai parlato della misura dei peccati, non mi sono mai doluto de’ nostri Teologi, non ho mai negato che il peccato sia un’offesa infinitamente grande contro la Maestà d’Iddio; in una parola, nemmeno v’è una riga nel mio libro che dica ciò. Per soddisfare la curiosità del lettore, anche in questo luogo farò vedere come l’avversario faccia nascere quest’accusa.

Dopo aver io parlato della natura del delitto di lesa Maestà, dopo d’averlo definito un delitto che tende a distruggere immediatamente la società, dopo d’aver accennato l’abuso che di questa parola lesa Maestà si è fatto ne’ tempi della tirannia e dell’ignoranza attribuendola ad azioni che non tendevano alla destruzione della società, ma che anzi erano di differente natura, passo ad accennare il pretesto con cui si vollero far ree di lesa Maestà anche le azioni che non lo erano col confondere l’«offesa della società» e la «destruzione della società»; quindi dico: «ogni delitto, benchè privato, offende la società, ma ogni delitto non ne tenta l’immediata destruzione. Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata di attività, e sono circoscritte come tutt’i movimenti di natura dal tempo e dallo spazio; e però la sola cavillosa interpretazione, ch’è per l’ordinario la filosofia della schiavitù, può confondere ciò che dall’eterna verità fu con immutabili rapporti distinto», pag. 22 e segg.

A ciò soggiunge l’accusatore queste parole:

Si duole qui l’autore dei nostri Teologi perchè insegnano che un peccato è un’offesa infinitamente grande che si commette contro la Divina Maestà di Dio. Not., pag. 43.

Lo sbaglio veramente singolare dell’accusatore proviene da ciò, che non ha ben intesa la tanto ripetuta distinzione fra delitto e peccato, che non ha posto mente alle diverse definizioni che se ne sono premesse nel mio libro, come dissopra s’è veduto, che non ha osservato che il libro delle pene e dei delitti, come dal suo titolo appare, non deve trattare della malizia dei peccati; e vedendo quella parola azioni morali, forse per non essere troppo versato nella lingua de’ scrittori del gius naturale e delle genti, ha creduto che si parlasse di morale, cioè
di peccato, come comunemente parlano i Casisti. Quando egli abbia legitima autorità di leggere le opere di Puffendorf, le legga, e imparerà che le azioni morali, per chi parla di politica, non sono peccati. Ora, 
le azioni morali non avendo per oggetto l’infinito Iddio, ma partendo
da un essere finito quale è l’uomo e dirigendosi a un altro essere finito quale è la società, devono avere «la loro sfera limitata di attività, e sono circoscritte come tutt’i movimenti di natura dal tempo e dallo spazio, e però la sola cavillosa interpretazione, che è per ordinario la filosofia della schiavitù, può confondere ciò che dall’eterna verità fu con immutabili rapporti distinto», come alla detta pag. 22 e segu.; nè 
da ciò può dedursene o doglianza contro i Teologi o bestemmia contro
la natura della malizia del peccato, come l’accusatore sembra credere. Regola generale: prima di accusare un libro, bisogna intenderlo.

ACCUSA DECIMASETTIMA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene ha detto che merita la gratitudine degli uomini quel filosofo che ebbe il coraggio, dall’oscuro e disprezzato suo gabinetto, di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle utili verità, e questo filosofo è Monsieur Rosseau, e questa è un’empia bestemmia. Not., pag. 15.

RISPOSTA
Ho detto che «merita la gratitudine degli uomini quel filosofo che ebbe il coraggio, dall’oscuro e disprezzato suo gabinetto, di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle utili verità», pag. 4; non ho detto che quel filosofo sia il Signor Rosseau, non credo che sia empietà o bestemmia il dire che i filosofi che comunicano delle verità utili agli uomini meritino gratitudine. Nè credo che sia empietà o bestemmia il dire che i primi semi delle verità utili restano lungamente infruttuosi.

ACCUSA DECIMOTTAVA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene dice una troppo forte temerità ed una terribile bestemmia quando dice che nè l’eloquenza, nè le declamazioni e nemmeno le più sublimi verità bastano a frenare per lungo tempo le passioni degli uomini. Not., pag. 19 e segu.

RISPOSTA
M’immagino che la forte temerità e la orribile bestemmia non cada nè sull’eloquenza nè sulle declamazioni. Cade dunque sulle più sublimi verità. Domando all’accusatore se crede che queste sublimi verità, cioè quelle della Santa Fede, sieno note in Italia? Risponderà di sì. Domando se in Italia per lungo tempo siano state frenate le passioni degli uomini? Tutt’i Sacri Oratori, tutt’i Giudici, tutti gli uomini Italiani rispondono di no. Dunque di fatto «non bastano le più sublimi verità a frenare per lungo tempo le passioni degli uomini»; e sin tanto che vi saranno Giudici criminali, prigioni e pene in una Nazione Cattolica, sarà segno che «le più sublimi verità non bastano». Io non ho mai detto che le verità della fede non potrebbero frenare anche per sempre le passioni degli uomini, se gli uomini le meditassero seriamente, come vorrebbe la ragione che si facesse, e a tal proposito vegga dove io dico che «chi vive nella vera religione ha più sublimi motivi, che corregono
la forza degli effetti naturali», pag. 79; dico bensì che di fatto gli uomi
ni in generale questa seria meditazione alle più sublimi verità non la fanno, e perciò «nemmeno le più sublimi verità bastano», come giova ripetere. La terribile bestemmia è svanita: resta la forte temerità, ma non son io che l’ha scritta; e il non averla scritta fa piacere al Cristiano, al filosofo e all’uomo d’onore.

ACCUSA DECIMANONA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene scrive con sacrilega impostura contro l’Inquisizione. Not., pag. 157.

RISPOSTA
In tutto il mio libro non è stata mai nè tacitamente nè espressamente nominata o indicata la Santa Inquisizione. Quest’è un Tribunale più spirituale che mondano, e nel mio libro ho voluto trattare delle instituzioni puramente umane, non delle religiose. Vediamo però d’onde l’accusatore tragga le mie sacrileghe imposture contro l’Inquisizione.

Leggesi nel mio libro verso il fine così: «Chiunque leggerà questo scritto accorgerassi ch’io ho ommesso un genere di delitti che ha coperto l’Europa di sangue umano e che ha alzate quelle funeste cataste ove servivano di alimento alle fiamme i vivi corpi umani, quand’era giocondo spettacolo e grata armonia per la cieca moltitudine l’udire i sordi confusi gemiti dei miseri che uscivano dai vortici di nero fumo, fumo di membra umane, fra lo stridere dell’ossa incarbonite e il friggersi delle viscere ancor palpitanti. Ma gli uomini ragionevoli vedranno che il luogo, il secolo e la materia non mi permettono di esaminare la natura di un tal delitto», pag. 92.

Su questo passo l’accusatore comincia col dire che fra quante invettive gli eretici hanno scritto contro Roma e contro il Tribunal dell’Inquisizione, questa è scritta colla più sacrilega impostura di ogni altra. L’accusa non è certamente frivola, convien vedere se le pruove vi corrispondano. Eccole. Egli mi pone in bocca primieramente che
il sangue degli eretici condannati alle fiamme abbia coperto l’Europa di sangue umano, pag. 157. Io ho detto che v’era «un genere di delitti che ha coperto l’Europa di sangue umano». L’autore interpreta che questo sangue umano che ha coperto l’Europa sia quello degli eretici sparso dal Tribunale dell’Inquisizione. Domando io: il fatto è egli come lo interpreta o no? Se fosse così, non sarebbe più una sacrilega impostura il dirlo. Se non è così (come non è di fatti), come mai gli viene in capo ch’io parli di eretici e d’Inquisizione parlando di sangue umano sparso in Europa!

Il talento d’interpretazione dell’accusatore cresce subito dopo, dove mi fa dire che sia stato un giocondo spettacolo ed una grata armonia per la cieca moltitudine Cattolica l’udire i sordi confusi gemiti dei miseri ec., Not., pag. 157. Con qual principio di ragione può mai l’accusatore intrudervi la parola Cattolica! Con qual ragione può mai l’accusatore dire ch’io abbia scritto che la vista delle cataste ove si bruciavano gli eretici era per la moltitudine Cattolica uno spettacolo giocondo ed una grata armonia! come asserisce, Not., pag. 158. Egli stesso confessa che crudelissimi ed iniquissimi tormenti le Nazioni pagane e le sette di tutt’i tempi hanno fatte eseguire o contro i Cristiani o contro gli eretici o contro gli avversari settarj, Not., pag. 158, e dice vero e bene; ma se ciò è stato fatto dai pagani contro i Cristiani, come vediamo dagl’infiniti Martiri che hanno glorificata la Chiesa di Dio, se ciò è stato fatto dagli eretici contro di noi Cattolici, come l’accusatore potrà vedere tra gli altri nella storia d’Inghilterra del P. Bartoli, se ciò è stato fatto dai Giapponesi e da altre Nazioni dell’Asia contro di noi, come potrà pur vedere dalle storie delle Missioni; perchè mai l’accusatore vorrà assolutamente che la cieca moltitudine sia Cattolica, anzi che pagana o eretica? Perchè mai vorrà assolutamente che i vivi corpi umani siano eretici e non Cristiani e Cattolici?7

Io ho scritto il mio libro, come ognuno che lo legga può conoscerlo, per stabilire le teorie generali della legislazione puramente umana dei delitti e delle pene. Queste teorie generali, se fossero bene dilucidate (il che io non mi lusingo d’aver potuto fare), dovrebbero essere la norma de’ Codici criminali de’ Cristiani, degli Idolatri, de’ Maomettani e di qualunque società d’uomini, qualunque fosse la loro religione. Si scrivono gli elementi della geometria, del commercio, della medicina e d’ogni scienza senza che si scriva la geometria de’ Cristiani o il commercio de’ Cristiani; così io ho scritto gli elementi che mi sono sembrati veri per la scienza criminale senza circoscrivermi.

Domando al mio accusatore s’ei crede che sia veramente conforme allo spirito della Santa Madre Chiesa di abbruciare gli uomini vivi? Se ciò fosse, ei sì che farebbe un’ingiuria alla benignissima nostra Santa Madre. La Santa Madre Chiesa Cattolica ha sempre abborrito sì fatti crudeli spettacoli: legga la storia ecclesiastica, legga S. Ilario lib. 1, Lattanzio lib. 3, Sant’Atanasio lib. 1, S. Giustino Martire lib. 5, ed ivi vedrà lo spirito vero della Chiesa Cattolica. Sebbene anche senza tanto sforzo di lettura, veda ei medesimo l’Europa Cattolica, e mi dica poi se per sentenza di verun Giudice ecclesiastico si vedano abbruciare gli eretici. Dopo ciò domando io di nuovo al mio accusatore se cred’egli un bene che si dia alla cieca moltitudine lo spettacolo d’udire i sordi confusi gemiti dei miseri uscir dai vortici di fumo di membra umane fra lo stridere delle ossa incarbonite e il friggersi delle viscere ancor palpitanti? S’immagini di dover decidere l’universal questione per fondare i principj criminali di tutte le società sia de’ Turchi, sia de’ Cristiani. Trova egli un bene il rimettere in vigore queste usanze?

Queste crudeli carnificine, scrivendo nel secolo presente, in Europa non sono più, grazie a Dio, in uso; perciò ho detto che «nè il tem
po, nè il luogo, nè la materia mi permettevano di esaminare la natu
ra di un tal delitto». Questo delitto, dice l’accusatore, è l’eresia. Ma chi gliel’ha detto? Quando mi son io spiegato su questo proposito? Dev’egli esser permesso il supporre delle intenzioni a un autore, e su queste fondare delle accuse, e presentare queste accuse così fabbricate 
al tribunale del pubblico, e chiamar reo l’autore per ciò di sacrileghe imposture!

L’accusatore buonamente crede che gli eretici soli siano stati arsi; e che questo supplicio sia stato principalmente inflitto loro dai Tribu
nali ecclesiastici. L’accusatore ha detto ch’io voleva imporre vantando
di aver lette le storie, e che io ardiva d’ingannare il pubblico con ciò, Not., pag. 70; io devo lodare la sincerità di lui di lasciarsi conoscere veramente digiuno assai nelle storie, come si mostra e qui e altrove, poichè imputando egli gratuitamente ai Tribunali ecclesiastici ed alla Inquisizione particolarmente la moltitudine di uomini abbruciata in qualche secolo della passata ignoranza, egli asserisce cosa perfettamente contraria al fatto. Io non dirò che tutt’i Ministri de’ Tribunali anche più santi e rispettabili abbian sempre, ed in ogni paese ed in ogni età, corrisposto allo spirito della loro vocazione; fra gli Apostoli volle permettere il Divin Redentore che uno ne fosse reprobo, e la Chiesa di Dio essendo composta d’uomini, sarebbe un tentar Dio e pretendere
un continuo miracolo se si volesse che mai non vi nascessero dei disordini. Ma questi disordini il Cristiano fedele li conosce, li disapprova, non gli attribuisce mai a tutto il corpo, ma bensì ai soli membri che
ne sono cagione, e o non ne scrive, ovvero ne scrive in modo e con circospezione tale d’osservare il ricordo di San Paolo che siam debitori
ai dotti ed agl’indotti, ricordo ch’io mi son fatto legge d’osservare in tutto il mio libro, e singolarmente a quella pag. 92. Se l’accusatore squarciando questo velo ch’ei chiama maligna oscurità (a pag. 156) e portando la questione alla intelligenza del volgo vi abbia corrisposto,
 nol saprei. So, per ritornare al punto controverso, so che gli orro
ri d’ardere vivi gli uomini furono nella massima parte commessi dai Tribunali laici in ogni parte d’Europa; so che la maggior parte di quegl’infelici furono così maltrattati per delitti di stregheria e di magia, e vegga Bartolomeo Spina, De strigibus, cap. 13, vegga Niccolò Remigio, consigliere intimo del Duca di Lorena, il quale nella sua Dæmonolatreja si vanta d’aver così fatto morire ben novecento streghe. Vegga Pietro Roger nel supplemento al Dizionario economico del Chomel, art. Sorcelerie, ediz. d’Amsterdam 1740. Vegga Pietro le Brun, Storia critica delle pratiche superstiziose, tom. 1, lib. 2, cap. 3, e sarà instrutto come più di seccento stregoni siano stati miseramente abbruciati nel solo distretto del Parlamento di Bourdeaux. Giorgio Gobat Gesuita nelle sue Opere morali, tom. 2, trat. 5, cap. 42, lez. 2, num. 63 gli farà vedere che in un sol anno del secolo scorso si sono incenerite ducento streghe nella Slesia. Egli potrà erudirsi su tal materia e nella Biblioteca magica, tom. 36, pag. 807, e nel Del Rio, Disquisit. Magicarum, e presso Pietro Crespet, De odio Satanæ, lib. 1, disc. 3, e presso Bodin, Demonomania, lib. 4, cap. 5, e presso Lamberto Daneo, citato dal Del Rio, Proloquio alle Disquis. magic., e ne’ Dubbj del P. Federigo Spe, il quale sì fatto supplicio chiama apertamente così: certe irreligiosa hæc mihi crudelitas videtur, dub. 23.

Ora, se le opinioni mie intorno l’abbruciare gli uomini vivi non sono conformi a quelle di molti Tribunali laici de’ secoli trasandati,
 se non sono conformi a quelle d’alcuni Ministri anche ecclesiastici
che Dio possa aver dati qualche volta ai fedeli nella sua indegnazione;
 ma bensì sono conformi allo spirito della Santa Chiesa, a quello de’ Sommi Pontefici, a quello della stessa Santa Inquisizione di Roma,
di cui una delle più serie e sollecite cure è quella di tener rinserrati
 ne’ limiti della più scrupolosa dolcezza e della più paterna clemenza tutt’i Ministri sparsi nel mondo Cristiano; se, dico, le mie opinioni sono di tal natura, dove mai troverà il mio accusatore le discolpe per giustificarsi d’avermi a tal proposito qualificato qual uomo che ha una sacrilega avversione ai giudicj della Chiesa e ai dogmi del Cristianesimo, Not., pag. 156, che merita il nome di cieco nemico dell’Altissimo, Not., pag. 156, com’ei pretende dedurne? Crede egli che questa nuova logica sia conveniente a un uomo che ha cura del proprio onore? Crede egli
 che questa nuova logica sia degna di chi prende a scrivere in materia
di religione e crede d’aver un Giudice supremo, inevitabile, che vede
 e penetra ne’ più remoti nascondiglj de’ cuori, e giudica con infinita giustizia le azioni degli uomini!

Ma torniamo all’accusa. L’avversario, non potendo far la guerra al libro, cerca di farla alla intenzione dell’autore. Dice dunque che in quel passo io abbia avuto intenzione di parlare del delitto d’eresia. E quando mai ciò fosse, che ne verrebbe da ciò? S’io avessi non consigliato di abbruciar vivi gli eretici, avrei consigliato di proseguire a far quello che si fa da tutti i Cattolici del giorno d’oggi: dove mai s’abbruciano gli eretici in questi tempi? Non è in Roma istessa, sotto lo sguardo del Vicario di Gesù Cristo, nella capitale stessa della religione Cattolica, che i Protestanti di ogni nazione trovano tutt’i doveri della umanità e della ospitalità! Gli ultimi Sommi Pontefici e quello che felicemente regna al dì d’oggi hanno accolti e accolgono con somma benignità e Inglesi, e Olandesi, e Tedeschi, e Moscoviti di sette, di religioni diverse; ivi hanno fatto e fanno tutto dì libera dimora e godono della protezione del governo non meno che gli altri uomini. Qual è l’eretico che il Tribunale della Santa Inquisizione Romana abbia fatto abbruciare ai dì nostri? Nel mio libro ho fatto vedere ch’io son di parere che la Corte di Roma e l’Inquisizione abbiano ragione di così fare; l’accusatore vorrebbe provare che la Corte di Roma e l’Inquisizione hanno torto di così fare, e poi mi vuol dire ch’io sfogo il mio furore contro la Corte di Roma e contro la Santa Inquisizione!

Bisogna distinguer bene le cose che per loro natura vanno distinte. Lasciare la libertà ad ogni cittadino di esercitare pubblicamente ogni setta è una proposizione. Lasciare che un uomo che ha la disgrazia d’essere in una falsa religione, ma che non ne fa un pubblico esercizio, viva libero e tranquillo in uno Stato, è un’altra proposizione. Cercare di ridurre gli eterodossi al grembo della Santa Chiesa colla dolcezza e colle persuasive, anzi che colla forza, è un’altra proposizione. Abbruciare vivi gli eretici è pure un’altra distinta proposizione. E quando quest’ultima non mi paresse degna da porsi in pratica, non ne verrebbe per ciò ch’io adottassi tutte tre le prime, ma una di esse, e quest’una sarebbe la terza. Soggiungo ancora un periodo, poichè col mio accusatore vi vuole chiarezza e non lasciar nulla a’ suoi commenti. Io confesso la mia debolezza pubblicamente, ed è che non mi par cosa buona il bruciare nessun uomo: ognuno ha il suo gusto. Ma io ho detto nel mio libro che se v’ha chi con conosciuta autorità condanni a tal pena, ciò deve credersi necessario, e conseguentemente giusto, pag. 93, ed ora lo torno a dire.

ACCUSA VIGESIMA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene è pieno di velenosa amarezza, di calunniosa mordacità, di perfida dissimulazione, di maligna oscurità e di vergognose contraddizioni. Not., pag. 156.

RISPOSTA
Quest’accusa s’appoggia sullo squarcio seguente del mio libro; ivi così: «Troppo lungo e fuori del mio soggetto sarebbe il provare come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno Stato, contro l’esempio di molte Nazioni; come opinioni che distano tra di loro solamente per alcune sottilissime ed oscure differenze, troppo lontane dalla umana capacità, pure possano sconvolgere il ben pubblico, quando una non sia autorizzata a preferenza delle altre; e come
la natura delle opinioni sia composta a segno che mentre alcune col contrasto fermentando e combattendo insieme si rischiarano, e sopranotando le vere, le false si sommergono nell’obblio; altre, mal sicure
per la nuda loro costanza, debbano esser vestite di autorità e di forza. Troppo lungo sarebbe il provare come, quantunque odioso sembri l’impero della forza sulle menti umane, del quale le sole conquiste sono la dissimulazione e l’avvilimento; quantunque sembri contrario allo spirito di mansuetudine e fraternità comandato dalla ragione e dall’autorità che più veneriamo, pure sia necessario ed indispensabile. Tutto ciò deve credersi evidentemente provato e conforme ai veri interessi degli uomini, se v’è chi con conosciuta autorità lo esercita. Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura del patto sociale, e non de’ peccati, dei quali le pene anche temporali debbono regolarsi con altri principj che quelli d’una limitata filosofia», pag. 93.

A questo mio squarcio sottopongo, trascrivendo parola per parola, quanto l’accusatore trova bene di opporre. Così egli: La stupidezza poi
 va del pari coll’impostura nel nostro autore; dice che sarebbe troppo lungo 
il provare come possa esser necessaria una perfetta uniformità di pensieri (cioè di religione) contro l’esempio di molte Nazioni. Come mai troppo lungo soltanto il provare se uno Stato viverà più tranquillo politicamente 
se avrà una sola religione che se le ammetterà tutte? Così l’accusatore, Not., pag. 159. Anche questa volta l’avversario ha fatto uso delle sue particolari leggi critiche d’inserire un cioè di religione dove gli tornava comodo. Ma se altre volte simili innesti sono stati fuori di luogo, ora per fortuna l’ha indovinata. Comincia egli dunque a maravigliarsi meco perchè mi paja lungo il provare la necessità della uniformità de’ pensieri in tal materia in uno Stato contro l’esempio di molte nazioni. Perchè maravigliarsi che mi paja lungo! Ei lo crede facil cosa, prova della prontezza del suo talento; e a me pare cosa lunga, prova 
della stupidezza della mia mente, come riflette benissimo: in ciò non v’entra nè bestemmia, nè sedizione. Ma poche righe dopo mi cambia l’accusatore lo stato della questione, al solito, e viene a rimproverarmi così: Qual cecità parlare della religione come se quella fosse una semplice massima di politica, e domandare se debba conformarsi coll’esempio delle altre Nazioni? Not., pag. 159. Chi è mai che riduca la religione ad una semplice massima di politica, perchè s’è detto che sarebbe lungo provare come sia necessaria ad uno Stato una perfetta uniformità di pensieri anche in fatto di religione! Vi sono due proposizioni distintissime e separatissime una dall’altra, che il mio accusatore non ha ben osservate: la religione è una semplice legge politica è una proposizione; la religione ha influenza sul sistema politico d’una Nazione è un’altra proposizione; e queste due proposizioni sono talmente distinte che la prima è una proposizione d’ateista, la seconda è una proposizione da Cristiano. Ciò posto, può un Cristiano esaminare l’influenza della religione per la sola parte politica facendo astrazione alla sua verità o falsità, senza che alcun illuminato cristiano fedele abbia ragione di rimproverarlo.

In questo passo (voglio avere la compiacenza di dirgli anche i miei pensieri, se non sono bastate le parole del mio libro) si parla dunque della influenza puramente politica della religione, e noti della religione, non già d’una tal religione, cioè della setta Turca, Confutzese, Bramanica, Banianica, Luterana, Calvinista e di ogni altra setta di religione che sia nel mondo, le quali hanno tutte l’universale vocabolo
di religione come lo ha la Santa Fede nostra, con quella differenza
che passa fra la verità e la menzogna. Dico dunque che troppo lungo sarebbe il provare che sia indispensabile per la tranquillità pubblica una perfetta uniformità di pensieri di religione in uno Stato. Dico di più, che sarebbe «fuori del mio soggetto» il provarlo. Dico di più, che «deve credersi evidentemente provato» che questa uniformità di pensieri sia indispensabile, pag. 93. Come mai viene in capo a tal proposito all’avversario d’accusarmi di parlare della Santa nostra Religione come se fosse una semplice massima di politica! Come mai si mette in impegno di provarmi quello che in più luoghi del mio libro ho detto io medesimo, cioè che di religioni vere non ve ne sia che una sola! Come mai può egli aggiungervi quell’ingiurioso dilemma di cui una proposizione suppone ch’io creda falsa la mia santa religione!

Soggiunge qui l’accusatore una immagine della religione ch’io vuo’ trascrivere, acciocchè serva ai miei lettori d’un saggio della chiarezza delle sue idee. Eccola: Se la religione rappresenta un uomo che tocchi col
la testa il nostro globo e che abbia le sue piante appoggiate in Cielo, tutta quella parte della figura di quest’uomo che potrebbe esser veduta da noi stando sul nostro globo sarebbe quella parte, secondo me, che rappresenta la più perfetta politica per governare gli uomini. Se la nostra politica non è una parte visibile della vera religione, non sarà mai buona politica, ma una vaga e guasta filosofia; così egli, pag. 159, e continua a provare quello che nessuno gli ha mai contrastato, cioè che la politica sia tanto più perfetta quanto più è conforme alla vera religione. Passa in seguito a dire che la politica corrisponde a quello che si chiama corpo umano, e ciò può essere, e che siccome questo non può viver sano se quella che n’è l’anima non è sana, cosa che pure può essere, così, soggiunge, si veda se non sia da forsennato il cercare se la religione sia una cosa da doversi adattare all’esempio delle altre Nazioni. Distinguo: l’adattare la vera religione all’esempio delle altre Nazioni o (per dir meglio quello che ha inteso di dire) alle false religioni, egli è lo stesso che apostatare, e ciò è male; l’adattare le false religioni all’esempio delle altre Nazioni o religioni è cosa molto indifferente. L’adattare la falsa religione all’esempio della Nazione che vive nella vera, non che esser cosa da forsennato, è cosa commendevolissima e fortunata. Ma perchè mai l’accusatore va così errando per sentieri sì lontani dal mio, a segno di concludere questo discorso coll’assicurarci ch’egli non è nè fanatico nè visionario?, Not., pag. 160. Quand’anche l’avessi pensato, il mio stile non è di ricercar vezzi di questa natura, e poteva promettersi che non gliene avrei mai dato il nome.

Passiamo alla interpretazione che il mio accusatore dà alla seconda cosa ch’io non ho voluto provare, perchè «troppo lunga e fuori del mio soggetto». Ecco le di lui parole: Affinchè poi apparisca sempre più o il disprezzo che l’autore ha per le dottrine del Cristianesimo o la sua imperizia circa quelle per cui siamo separati da tutte le sette, noterò qui di nuovo ch’ei chiama queste dottrine semplici, sottilissime ed oscure differenze, Not., pag. 160. Domando io al mio accusatore se è conforme, non dirò all’Evangelo di Cristo, non dirò alla buona logica, ma neppure a quel grossolano senso comune che hanno tutti gli uomini in generale l’imputare ad un autore che è nato Cattolico, che non ha mai dato saggio d’apostasia, che in un libro che non è di religione ha scelti tutt’i luoghi dove veniva opportuno per inserirvi de’ tratti pieni di riverenza, di persuasione e d’amore per la Santa Religione di Cristo, domando io se è permesso di supporre che quando in quel libro dice sottilissime ed oscure differenze possa egli intendere con ciò i dogmi essenziali della sua fede! Nè di sì odiosa interpretazione pure contento, l’accusatore passa a pormi in bocca la seguente orribile bestemmia, ch’io quasi temo trascrivendo di non offendere le pie orecchie de’ lettori; ma pure forz’è imbrattar la penna di simili iniquità, poichè l’accusatore ha cercato d’intruderle nel mio libro; ecco dunque da quelle mie sottilissime ed oscure differenze che ne deduca: Le dottrine più auguste, più venerabili e più interessanti delle Sacre Scritture non sono che semplici opinioni umane, Not., pag. 161 e segu.

Io ho scritto ch’era «troppo lungo e fuori del mio soggetto il provare come opinioni che distano tra di loro solamente per alcune sottilissime ed oscure differenze troppo lontane dalla umana capacità, pure possano sconvolgere il ben pubblico», pag. 92. Vorrei poter esser breve, ma come si può mai esserlo quando s’è nella necessità di provare ad ogni passo i primi principj! Che sembri a me cosa lunga o cosa breve il provar questo, non credo che sia il soggetto della disputa; ma bensì che si diano opinioni, anche in fatto di religione, le quali distano
 tra di loro per alcune sottilissime ed oscure differenze troppo lontane dalla umana capacità. Primieramente, come ho detto, il parlar della religione, qualunque, vera o falsa ch’ella sia, considerandone l’influenza politica semplicemente e facendo astrazione dalla verità o falsità di essa, era conforme all’instituto mio, che scriveva dei delitti e delle pene da uomo che esamina la legislazione criminale generalmente. Che nell’universo si diano e si siano date delle sette distanti fra di loro per «sottilissime ed oscure differenze lontane dalla umana capacità», ognuno che sappia cosa accade al dì d’oggi su questo globo, anche al di là dell’orizzonte che vede, ogn’uomo che sappia cosa è accaduto su questo globo anche prima di lui, conosce e sa che di tai sette ve ne sono e ve ne sono state; nè può venir in mente a nessun uomo ragionevole che per ciò le Sante Dottrine del Cristianesimo sieno semplici opinioni umane.

Ma l’accusatore vuole assolutamente che si debba questa universale proposizione restringere alla sola Santa Religione nostra, e che
sia detta per indicare alcune sette che da lei si sono ribellate. La cosa veramente non è così. Ma quello che v’è di più singolare in questo proposito si è che date anche tutte le supposizioni dell’avversario, dato che si voglia intendere questo mio passo delle sette divise dalla Santa Chiesa, non ne verrebbe nessuna delle orribili conseguenze che l’accusatore ne deduce; poichè sarebbe una bestemmia il dire che le differenze che passano fra di noi fedeli e gli eretici sono non essenziali, sarebbe un’altra bestemmia il dire che le differenze che passano fra di noi fedeli e gli eretici non sono un ostacolo alla vita eterna; ma il dire che queste essenzialissime differenze, le quali pongono un partito nella strada della eterna dannazione, sono «sottilissime ed oscure e lontane dalla umana capacità» non sarà mai una bestemmia, ma bensì un fatto vero e legitimo, un fatto che ogni buon Teologo accorda, un fatto che ce lo comprovano le storie dell’eresie, particolarmente della Chiesa Greca. Ecco dove terminano tutte le declamazioni del mio accusatore, e contro gli spiriti forti e contro i libertini e contro la mia imperizia, della quale lo lascio arbitro a pensare come gli torna più comodo.

Veniamo al passo che siegue. Io porrò prima di nuovo il testo del mio libro, poscia la spiegazione che ne fa il mio accusatore. Così ho scritto: «Troppo lungo e fuori del mio soggetto sarebbe il provare come … la natura delle opinioni sia composta a segno che mentre alcune col contrasto fermentando e combattendo insieme si rischiarano, e sopranotando le vere, le false si sommergono nell’obblio; altre, mal sicure per la nuda loro costanza, debbano esser vestite d’autorità e di forza», pag. 92. Ecco come l’accusatore le interpreta:

Sarebbe troppo lungo il provare come i dogmi della religione Cristiana, dopo qualche esame, parte di essi sono creduti per veri e parte vengono rigettati come falsi; e perchè segua che alcune altre delle stesse dottrine, benchè false e ridicole, e che non hanno altro merito che quello d’essere credute buone dai Cattolici ostinati, siano però dai medesimi Cattolici sostenute sino a far abbruciare chi le volesse negare. Così intendo io quelle parole, e non dubito punto che questo non sia il loro vero senso, Not., pag. 161. L’accusatore avrebbe fatto bene a dubitarne, e forse ne avrebbe avuta la coscienza più quieta e l’opinione pubblica più favorevole. Egli
è un fenomeno logico de’ più curiosi, cotesto di trovare un cumulo di bestemmie e d’empietà in un passo di tal natura, e d’intendere ed interpretare e francamente presentare al pubblico un ammasso di errori postimi in bocca. Traduciamo brevemente il passo in lingua volgare, non già per i lettori, pe’ quali è superfluo, ma bensì perchè l’accusatore conosca qual uso ha fatto del suo tempo nelle note che vi ha appo
sto. Ecco il mio squarcio tradotto per l’intelligenza di lui: «In questo libro non parlo dei peccati: le pene temporali dei peccati debbono regolarsi con principj che non dipendono dalla sola ragione umana,
ed io mi sono prefisso di non parlare che delle azioni che emanano dalla ragione puramente umana. Credo che sia evidentemente provato giusto il supplizio che si è dato in alcuni casi a chi non pensava conformemente alla religione dominante dello Stato; ma io non vuo’ ragionarne di ciò, nè imprendere a provarlo, poichè sarebbe cosa troppo fuori del mio soggetto e troppo lunga; ed acciocchè vediate ch’ella sarebbe cosa lunga ed estranea al mio argomento, vi accenno quattro elementi principali, su i quali dovrei farvi quattro dissertazioni, se volessi accingermi a quest’impresa, cioè: primo, che sia necessaria alla quiete pubblica una perfetta uniformità di pensare; secondo, che quando questa uniformità fosse anche tolta per differenze sottilissime e lontane dalla capacità degli uomini, ne verrebbe danno alla quiete pubblica; terzo, che sia la forza e l’autorità un mezzo per dilatare e mantenere la credenza ad un dato genere di verità presso il pubblico; quarto, che sia necessario e indispensabile l’usar della forza, benchè essa per lo più non produca che dissimulazione e avvilimento. Queste quattro proposizioni le voglio credere provate, ma non voglio entrar in materia di provarle».

Veda ora l’accusatore istesso se que’ tanti pii e zelanti uomini che mi hanno letto e inteso abbiano torto di non trovare nel mio libro tutti gli errori più enormi e più sediziosi bestemmiati sin qui contro la Sovranità e contro la religione Cristiana da tutt’i più empi eretici e da tutti gl’irreligionarj antichi e moderni, Not., pag. 187, ch’egli vi trova per non averlo, convien pur dire, inteso.

Che se anche coll’aver io esposti i quattro articoli che dovevansi provare, ne nascesse un dubbio che difficil cosa sia il provare come sia utile alla pubblica salvezza politica (di cui tratta il mio libro) l’usare di forza e di supplicj; questo dubbio sarà sempre ancora più moderato di quello che in mezzo all’Italia, colla approvazione de’ più pii e apostolici Prelati, ha stampato su tal proposito l’ottimo Cristiano, l’esemplarissimo Ecclesiastico, il dotto, il benemerito Signor Muratori nel suo trattato De ingeniorum moderatione, lib. 2, cap. VIII, dove così: Quid Catholici nonnulli ad ea respondeant (cioè a quel fatto del Vangelo di San Luca, quando chiedendo i Discepoli a Gesù Cristo Signor Nostro ch’egli volesse far cadere dal Cielo le fiamme su i Samaritani, il Divin Redentore rispose: Nescitis cujus spiritus estis, Filius hominis non venit animas perdere, sed salvare) sentientes morte quoque hæreticos pertinaces posse juste mulctari? … Nobis interim mitiora suadentibus satis est ec.; e 
nel libro medesimo, al cap. VII: Hæreticos ergo Ecclesia potest suis urgere armis quo illos in suam causam rursus perducat; armis inquam spiritualibus, excommunicatione, ac diris omnibus. Ad Reges autem sæculique Principes spectat salutaribus etiam pœnis solicitare devios, aut alienos a fide, ne in errore diutius perstent, neve eidem immoriantur. Se dunque può un Cattolico esser del parere che la pena di morte data agli eretici non sia ben data, perchè ella non è una pena salutare, come vorrà l’accusatore trovarmi un abisso di scelleratezza quando dicessi che è difficile il provare come sia ben data ad essi la pena di morte! Per altro conviene distinguere due differenti proposizioni: punire gli eretici è una, punirgli della morte è un’altra. Pare che l’avversario non abbia avuto presente, quando ha scritto, che i suoi lettori non sarebbero già stati i popoli abitatori del Caucaso o del Tauro, non i selvaggi del Canadà, ma gl’Italiani.

ACCUSA VIGESIMAPRIMA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene ha descritto con colori infernali i Religiosi, massimamente Claustrali. Not., pag. 78.

RISPOSTA
In nessun luogo del mio libro si troverà ch’io parli de’ Religiosi nè de’ Claustrali. Ecco il paragrafo del mio libro che serve all’accusatore 
per trovarvi i colori infernali. Così dico: «Io chiamo ozio politico quel
lo che non contribuisce alla società nè col travaglio nè colla ricchezza, che acquista senza giammai perdere, che, venerato dal volgo con stupida ammirazione, risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per gli esseri che ne sono la vittima, che, essendo privo di quello stimolo della vita attiva che è la necessità di custodire o di aumentare i comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che non sono le meno forti, tutta la loro energia. … Le leggi devono definire qual sia l’ozioso da punirsi», pag. 52.

Siccome l’aver io qui parlato d’ozio politico soltanto si è quella importantissima restrizione che rende la proposizione esente da ogni taccia, così ha stimato bene l’accusatore, per disporsi ad interpretarla a suo modo, di chiamarla perfidamente astuta, Not., pag. 78. Ma la questione presente, per altro agitata assai diffusamente da esso per otto e più pagine, si riduce a nulla, perchè siamo tutti due dello stesso parere.

Non chiamo oziosi politicamente, nè descrivo con colori infernali, come dice l’avversario, quelli che più d’ogni altro hanno contribuito e contribuiscono tuttavia colle lor mani, col loro talento e col loro esempio al maggiore vantaggio ed alla più perpetua felicità temporale e politica di tutte le società; quelli che studiano continuamente per sua ed altrui erudizione, e che ajutano gli altri a studiare ed a vivere da buoni cittadini; quelli che solo coll’esempio della vita che menano fanno che si conservi più stabilmente nel suo buon ordine la società, Not., pag. 78. Il vocabolo «oziosi politicamente» loro non conviene in maniera alcuna, ed il dargli questo titolo sarebbe, come nota benissimo l’avversario, una grande cecità, una grande ignoranza da mezzo letterato e da insano politico, Not., pag. 78. Ma come dice altresì egregiamente l’avversario, questo giudizio può essere fondato nell’esempio di que’ pochi Religiosi che s’incontrano nelle piazze e in qualche Casa, e però manco perfetti. Questo giudizio può spettare a quelli che contribuiscono alla società «nè col travaglio nè colla ricchezza, che acquistano senza mai perdere»; onde quando l’avversario ha provato che non v’ha cosa buona ed utile al pubblico, e di cui almeno in parte non ne siam debitori ai Religiosi, Not., pag. 81, e che non si troverà in tutta l’Italia una sola Casa religiosa che abbia delle rendite superiori al puro necessario mantenimento de’ suoi Religiosi, Not., pag. 82, quando, dico, ha ciò sì ben provato, non doveva credere che questo non fosse il parere anche mio, perchè tali non sono oziosi politici.

Deve però l’avversario accordarmi che dove si dessero persone alle quali s’adattassero ne’ termini le proprietà ch’io ho assegnate per definire l’ozio politico, questi dovrebbero chiamarsi «oziosi politicamente», e che per ciò sarebbe «stupida» la «venerazione» se il «volgo» ne avesse per loro, e che il «saggio li dovrebbe guardare con isdegnosa compassione». Se poi di questi ve ne siano, io non l’ho deciso, ed anzi ho soggiunto che spetta alle leggi il definirlo. In fatto Sommi Pontefici, Principi Cattolici, Ministri religiosi ed illuminati hanno sempre ritrovato e ritrovano pernicioso alla società egualmente che alla religione che vi siano in uno Stato di que’ uomini ai quali convenga la detta definizione. I Templieri, i Gesuati, gli Umiliati e simili Ordini dalla vigilanza de’ Sommi Pontefici aboliti; le leggi, le prammatiche, gli ordini de’ Sovrani in ogni Stato d’Europa che provedono e vegliano acciocchè le ricchezze non si condensino nelle mani morte, provano che il timore di quest’ozio politico è ragionevole e Cristiano.

Concludiamo dunque ch’io ho rispettato sempre gli Ecclesiastici e Regolari come Ministri dell’Altare e del Vangelo, e che se l’accusatore m’avesse inteso, avrebbe risparmiato a se stesso l’incommodo di quelle otto pagine di parole e il dispiacere di far vedere una volta di più di non aver egli inteso un libro che voleva combattere.

ACCUSA VIGESIMASECONDA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene dice che alcuni sono non d’altro rei che d’essere fedeli ai proprj principj, e intende di parlare degli eretici. Not., pag. 123.

RISPOSTA
Ho detto che alcuni sono stati esposti a barbari tormenti non d’altro rei che d’essere fedeli ai proprj principj, e non s’intende di parlare degli eretici. Qui non si parla della religione; ma quando l’accusatore
ne volesse un esempio della religione, consulti la storia ecclesiastica, e vedrà quanti Martiri furono esposti ai tormenti ed alle carnificine le più barbare «non d’altro rei che d’esser fedeli ai proprj principj» della fede e della costanza per le verità rivelateci da Dio.

ACCUSA VIGESIMATERZA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene è uno di quegli empj scrittori che trattano di buffoni gli Ecclesiastici, di tiranni i Monarchi, di fanatici 
i Santi, d’impostura la religione, e che bestemmiano per fino la Maestà 
del loro Creatore. Not., pag. 42.

RISPOSTA
Due edizioni del mio libro si sono già vendute in Italia. Lettori che avete nelle mani la mia opera, vedete se vi sia in esso vestigio alcuno di simili empietà? Tutta questa compendiosa accusa la cava l’avversario dal passo seguente.

Io ho detto a pag. 21 che il «danno della società è la misura dei delitti», ho detto che dovrebb’essere questa una verità conosciuta da «ogni mediocre talento. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite d’autorità e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune poche con violenti impressioni sulla timida credulità degli uomini, dissipate le semplici nozioni che forse formavano la filosofia delle nascenti società, ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci riconduca», pag. 21.

L’accusatore così trascrive questo mio passo. Si lamenta della mia incredibile audacia ed accecamento d’aver detto che le opinioni Asiatiche (cioè la religione) e le passioni (cioè i principj Cristiani) vestite d’autorità e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte (predicazione delle verità del Santo Vangelo), alcune poche per violenti impressioni (i miracoli più strepitosi) sulla timida credulità degli uomini (il popolo Cristiano), dissipate le semplici nozioni che forse formavano la prima filosofia delle nascenti società, ed a cui la luce di questo secolo (la luce era nel mondo, ma le tenebre ec.) sembra che ci riconduca ec.

Si è questa un’assai nuova maniera d’interpretare, e tale che da se stessa dimostra il desiderio di trovare l’empietà dove non v’è, come l’inutilità degli sforzi. Si è questo al certo un nuovo vocabolario, che le opinioni Asiatiche voglia dire la religione, le passioni i principj Cristiani, le insensibili spinte la predicazione del Vangelo, le violenti impressioni i Miracoli più strepitosi, la timida credulità degli uomini il popolo Cristiano. Pare che l’avversario, prendendo in mano il mio libro Dei delitti e delle pene, senza aprirlo dicesse: io voglio confutarlo.

Avrò anche questa volta la compiacenza di fargli intendere quello che ogni altro ha già inteso. Opinioni asiatiche, dunque, sono le opinioni del dispotismo e della schiavitù, come è noto ad ognuno,8 le quali stabilite ora con violenza ed ora con più miti ma continue spinte, hanno offuscata la mente degli uomini presso tutte le Nazioni che hanno avuto la disgrazia di provarlo, a segno di non ravvisare le più palpabili verità, qual è quella che il danno fatto alla società è l’unica misura dei delitti. Interesse d’ogni tiranno si è che tale massima non sia fissata, poichè gli toglie l’arbitrio di punire a capriccio; ma la luce di questo secolo, la quale riunisce sempre più gl’interessi de’ Sovrani con quei dei sudditi, ci riconduce a vedere di nuovo questa verità.

Meritava egli questo passo le esclamazioni dell’accusatore, il qual dice: Chi mai sarebbe quel Cristiano tanto poco zelante della riputazio
ne della sua Divina Religione che si potesse contenere in questo passo di
non prorrompere nelle più tremende esecrazioni contro l’infame ed empia maldicenza colla quale si descrive e si calunnia qui tutto quello che v’ha di più augusto e di più rispettabile nell’universo. Chi mai potrebbe trattenersi d’esclamare che quest’autore ha sorpassato la misura della più maligna e più sfrenata satira! Ma sa l’accusatore chi si potrebbe frenare? Chiunque intende il libro.

E qui porrem fine alle accuse fattemi sul punto della religione, grande, augusto, divino argomento su di cui non dovrebbe mai scrivere che una mente santa, pura e illuminata. Io non ardirò già, interpretando la intenzione dell’accusator mio, incolparlo di averla fatta volontariamente servire ai privati suoi fini. Credo anzi che con molto buon cuore e semplicità di spirito, per puro zelo egli abbia preso a maneggiare contro di me questo soggetto il più sublime che abbiano gli uomini; ma in ricompensa della rettitudine di sua intenzione, aggradisca egli un mio consiglio, il quale gli vuo’ dare e come fedel Cristiano, 
e come uomo che parla con qualche cognizione di causa. La premura di trovar le bestemmie e d’intrudere le empietà in un libro che non ne ha, non conviene all’edificazione de’ fedeli; non contribuisce al decoro di chi le afferma; non pregiudica al nome nè del libro nè dell’autore. Chiunque ha vocazione di scrivere delle cose di Dio, cominci dall’averlo nel cuore; la pace, la dolcezza, la persuasione traspireranno allora ne’ suoi scritti. S’instruisca dappoi; e se vuole persuadere gl’increduli, non cominci mai col prendere un uomo e supporlo incredulo per combatterlo; ma sibbene s’addentri a conoscerli, s’addestri a ragionare con buona logica, e allora scriverà della religione con quella dignità e virtù che può darvi un uomo colle deboli sue forze. Le materie sacre così trattate furono e dai Bossuet e dai Fenelon e dai Cardinali Orsi e dai Padri Berti. Faccia il Cielo che vi sia ragione un giorno d’aggiungere a questi chiari nomi anche quello del mio accusatore.

PARTE SECONDA
Accuse di sedizione

ACCUSA PRIMA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene tratta da crudeli tiranni tutt’i Principi e tutt’i Sovrani del secolo. Not., pag. 133.

RISPOSTA
Ecco come trattansi tutt’i Sovrani e li Principi d’Europa nel mio libro l’unica volta che ne parlo: «Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che vediamo riposti su i troni d’Europa Monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtù, delle scienze, delle arti, padri de’ loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità dei quali forma la felicità dei sudditi perchè toglie quell’intermediario dispotismo più crudele, perchè men sicuro, da cui venivano soffocati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò è dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggior ardore il continuo accrescimento della loro autorità», pag. 69 e seg.

ACCUSA SECONDA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene si scatena enormemente contro le pene con cui i Principi Cattolici puniscono i delitti d’eresia. Not., pag. 154.

RISPOSTA
In tutto il mio libro ho sempre parlato dei delitti, non mai dei peccati; questa distinzione l’ho fatta da principio e ripetuta più volte nel decorso del libro. L’unica volta in cui ho detto di volo qualche parola sulle pene anche temporali de’ peccati, così ho scritto: «Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, e non dei peccati, dei quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principj che quelli d’una limitata filosofia», pag. 93. E questi principj sono i principj del Santo Vangelo, della buona teologia e del gius canonico. Ecco come mi scateni enormemente contro i Principi Cattolici che puniscono i delitti di eresia.

ACCUSA TERZA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene esclude arditamente tutto ciò che la retta ragione, la politica e la religione insegnano pel buon regolamento del genere umano. Not., pag. 3.

RISPOSTA
Aspetto che l’avversario mi adducca le prove d’una sì strana imputazione; frattanto, acciocchè veda che almeno una cosa insegnata dalla retta ragione, dalla politica e dalla religione non la escludo, dirò che le leggi che provvedono ai calunniatori son ottime al buon regolamento del genere umano.

ACCUSA QUARTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene con una franchezza che fa paura si scatena in una furiosa maniera contro i Principi, contro le persone ecclesiastiche ec. Not., pag. 27.

RISPOSTA
La franchezza non è un male. Qui ambulat simpliciter, ambulat confidenter, qui autem depravat vias suas manifestus erit, dice lo Spirito Santo ne’ Proverbj, cap. X. Che la mia franchezza faccia paura al mio accusatore, egli n’è giudice competente; lo attesta, e lo credo: poichè scrivendo questa specie di sogni si attacca, è vero, la religione, il credito e la fama d’un uomo dabbene; ma la franchezza dell’uomo dabbene serve d’un terribile ribalzo, e la ripercussione è funesta; ma che nel mio libro io mi sia scatenato contro i Principi e contro le persone ecclesiastiche, ciò è interamente supposto. Le persone ecclesiastiche non sono nemmeno mai state nominate da me. Dei Principi ecco alcuni pochi tratti del mio libro, che mostrano con quale spirito di amore e di rispetto per i sovrani sia scritto.

«Il Legislatore rappresenta tutta la società riunita per un contratto sociale», pag. 8. «Il Sovrano rappresenta la vivente società ed è legittimo depositario delle volontà di tutti», pag. 10. Nessuno dei benefici Sovrani che reggono l’Europa pretende maggiore autorità di questa. I migliori pubblicisti l’hanno per primo principio, vegga tra gli altri Vattel, Le droit des gens ou principes de la loi naturelle, lib. I, cap. IV, dove troverà questa furiosa maniera di parlar de’ Principi:9 La Souveraineté est cette autorité publique qui commande dans la societé civile, qui ordonne et dirige ce que chaqu’un y doit faire pour en atteindre le but. Cette autorité appartient originairement et essentiellement au corps meme 
de la societé, au quel chaque membre s’est soumis et a cedé les droits qu’il tenoit de la nature de se conduire en toutes choses suivant ses lumieres par 
sa propre volonté et de se faire justice lui meme. Mais le corps de la societé 
ne retient pas toujours à soi cette autorité souveraine. Souvent il prend le parti de la confier à un Senat ou à une seule personne. Ce Senat ou cette personne est allors le Souverain. Io non ho trascritto qui il passo di questo celebre pubblicista per persuadere il mio avversario coll’autorità sulla origine de’ corpi politici, nè pretendo di sconvolgere il sistema ch’egli ha fabbricato sull’origine delle civili società con ragioni le quali, se non hanno il merito della chiarezza, hanno però quello per 
lo meno della curiosità.10 A me basta il fargli vedere che tali verità si scrivono ai dì nostri in Europa, nè alcuno de’ Sovrani che presiedono
ai diversi Stati ha mai risguardato o gli autori o le opere come contra
rie ai sacri diritti de’ Principi. Ma torniamo alle mie furiose maniere di parlar de’ Sovrani.

Io approvo «lo spirito d’indipendenza» ne’ sudditi, «ma non già scuotitore e ricalcitrante ai supremi Magistrati», pag. 13. Anzi desidero
che questi uomini non ischiavi, ma liberi sotto la tutela delle leggi, diventino «intrepidi soldati difensori della Patria e del trono … incorrotti Magistrati, che con libera e patriotica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi del Sovrano, che portino al trono coi tributi l’amore e le benedizioni di tutt’i ceti d’uomini, e da questo rendano ai palazzi ed alle capanne la sicurezza, l’industriosa speranza di migliorarsi la sorte ec.», pag. 34. Nessun Sovrano o monarchico o aristocratico o democratico altro più desidera che di regnare su uomini di tal tempra. I tempi dei Caligola, dei Neroni, degli Eliogabali non sono più i nostri, e l’accusatore fa una ingiuria ai Principi s’ei crede che i miei principj faccian loro ingiuria.

Io ho chiamato i contrabbandi «un furto fatto al Principe», pag. 87, ed ho detto che «vi sono de’ contrabbandi che interessano talmente la natura del tributo, parte così essenziale e così difficile d’una buona legislazione, che un tal delitto merita una pena considerabile fino alla prigione medesima, fino alla servitù ec.», pag. 88. Crede l’accusatore che ciò pure possa parer oltraggioso ai Sovrani e meriti il nome di furiosa maniera di scatenarsi?

Ho dipinta una Nazione ben governata con questi termini: «una forma di governo per la quale i voti della Nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero Sovrano», pag. 62. Sarebbe questo mai che all’accusatore facesse nascere la idea della mia furiosa maniera di scatenarmi contro i Sovrani?

Se io ho reso un pubblico omaggio alla verità parlando degli attuali Sovrani che governano l’Europa, se io ho definita la suprema podestà del Principe conformemente ai principj adottati in ogni parte dell’Europa presente, se io ho lodato il governo in cui siano fedeli e liberi i sudditi a preferenza d’ogni altro, se io ho dichiarate sacre e da difendersi le supreme regalie de’ Principati, come mai l’autore può dirmi ch’io abbia mancato a quel rispetto e a quella sommissione che ogni suddito deve al suo Principe ed ogni uomo onesto a tutte le supreme podestà anche estranee! Nel mio libro non mi sono proposto di cercare che la natura in generale delle pene e dei delitti. Io l’ho cercata da uomo che non si circoscrive ad una Nazione o ad un secolo, ma che esaminando gl’immutabili rapporti delle cose ne stabilisce la universale teoria. Non ho mai avuto di mira verun secolo in particolare o veruna Nazione, e chiunque disapassionatamente leggerà la mia opera lo vedrà facilmente.

ACCUSA QUINTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene ha detto che ha maggior diritto un uomo privato che tutta la società insieme o quelli che la rappresentano. Not., pag. 85.

RISPOSTA
Se nel libro Dei delitti e delle pene vi fosse una sciocchezza di tal natura, non credo che l’avversario avrebbe fatto un libro di 191 pag.
 per confutarlo.

ACCUSA SESTA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene contrasta ai Sovrani il diritto della pena di morte. Not., pag. 108.

RISPOSTA
Se il libro delle Note ed osservazioni potesse vivere sino ai secoli a venire (vaticinio di cui io non oso lusingarlo), servirebbe certamente
di soggetto a molte dispute fra gli eruditi intorno lo spirito del se
colo decimottavo. La storia tutta di questo secolo troverebbero essi ripiena di tratti di augusta beneficenza, di paterno amore e di clementissime virtù manifestate a gara dai Principi verso l’umanità loro soggetta: tratti e virtù che di gran lunga sopravanzano gli esempj veduti nelle passate età. Vedranno l’umanità rispettata in mezzo ai mali indispensabili delle guerre; vedranno la libertà politica cresciuta; il commercio dovunque rianimato; i magnifici ricoveri pubblicamente eretti per gl’invalidi e onorati guerrieri; vedranno i mendici tolti dalla fame e dalle ingiurie, e con pubblica sovrana munificenza alimentati, ricoverati, assistiti; vedranno i miseri orfanelli e quella porzione della umanità nata senza le civili e religiose approvazioni, che in prima periva infelicemente, ora in molte parti dell’Europa per paterna cura de’ Principi tolta dalle fauci della morte; vedranno il fasto e l’alteriggia non già, come per l’addietro, ma l’umanità, la beneficenza e le benedizioni de’ popoli star d’intorno ai troni de’ Monarchi d’oggi giorno, ai quali i più miseri hanno facile accesso e trovano la più sicura e pronta difesa in loro soccorso; vedranno in somma i frutti d’una dolce e augusta virtù, che sembra fare il distintivo carattere del secol nostro. Ma come conciliare tanti e sì numerosi testimonj colla lamenta dell’accusator mio perchè si contrasti ai Sovrani il diritto di dar la pena di morte! Possibile, direbbero allora gli eruditi, che in que’ tempi ai Sovrani sembrasse prezioso tanto il diritto di dar la pena di morte!

Male assai conosce l’accusatore l’indole de’ Sovrani d’oggidì. Sappia egli che tutt’i Principi d’oggi giorno, in vece d’aver caro il funesto diritto di togliere la vita a un uomo, risguardano anzi quest’atto come uno de’ pesi più dolorosi del Principato. Sappia che tutt’i Principi d’oggi giorno in vece d’aver caro il diritto di dar la pena di morte premierebbero qualunque trovasse un mezzo per provvedere alla pubblica sicurezza senza l’esterminio di verun uomo. Sappia che tutt’i Principi d’Europa d’oggi giorno non hanno mai fatto uso personalmente di questo tristissimo diritto, ma bensì se ne sono scaricati su i Tribunali, riservandosi a loro soli il quasi divino diritto di beneficare graziando. Sappia che alcuni Principi in questo secolo son giunti ad imitare gli esempj degl’Imperatori Maurizio,11 Anastasio e Isacco l’Angelo,12 i quali non vollero far uso alcuno della podestà di punire di morte. Sappia per fine che tutt’i Principi d’oggi giorno hanno limitato, ristretto, raffrenato nei loro Stati l’uso della pena di morte, e gli archivj criminali d’ogni Nazione Europea e la tradizione di tutti gli Europei viventi gliel’attesteranno.

Ha sempre una grande vantaggio uno che attacca, ed è che un’accusa anche supposta si scrive in poche righe, laddove una dimostrazione della falsità dell’accusa s’estende per sua natura a più pagine. Quest’inconveniente lo vedo, e spero che i saggi lettori non me lo vogliano attribuire a colpa. Io dunque ho contrastato ai Sovrani il diritto della pena di morte? Ecco cosa ho detto io: «La morte d’un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza
che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita
… Quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere
gli altri dal commettere delitti», pag. 62. Se io stabilisco due classi universali di delinquenti contro i quali «è giusta e necessaria» la pena
di morte, come mai l’accusatore dirà ch’io contrasti al Sovrano la podestà di dar la pena di morte!

Notisi qui di passaggio che tutti gli assurdi e le imputazioni che l’accusatore fa nascere contro di me su questo proposito vengono dall’arbitraria confusione che ha fatto di due nomi che io distinguo costantemente, diritto e podestà. Il diritto l’ho già definito al principio del mio libro: «l’aggregato di tutte le porzioni di libertà poste nel pubblico deposito forma il diritto di punire», pag. 7. Ora, non essendo presumibile che nessun uomo abbia posto nel pubblico deposito quel
la porzione di libertà che gli è necessaria per vivere, non si chiamerà diritto la ragion di punire di morte. Ma la ragion di punire di morte
 sarà però giusta e necessaria contro le due accennate classi di delitti,
 e questa si chiamerà podestà, e podestà giusta e necessaria, poichè se si trova che la morte d’un uomo sia utile o necessaria al ben pubblico,
 la suprema legge della salvezza del popolo dà podestà di condannare a morte, e questa podestà nascerà come nasce quella della guerra, e sarà «una guerra della nazione con un cittadino, perchè giudica utile o necessaria la destruzione del suo essere», pag. 61 e seg.

Tanto è vero ch’io nel mio libro ho creduta giusta la pena di morte qualunque volta ella sia utile o necessaria, come ho espressamente detto, che per provare che non conviene dar la pena di morte ho cercato di far conoscere che la pena di morte non è nè utile, nè necessaria, e così dico al bel principio: «Se dimostrerò non essere la pena di morte nè utile nè necessaria, avrò vinta la causa della umanità», pag. 62.

S’io l’abbia bene o male dimostrato quest’assunto, a me non giova il trattarlo, creda l’accusatore quel che vuole, poichè ciò non risguarda nè la Santa Fede, nè i Principi, ma un puro ragionamento. Il mio sillogismo eccolo in ristretto:
La pena di morte non deve darsi se non è utile o necessaria.
Ma la pena di morte non è utile nè necessaria.
Dunque la pena di morte non deve darsi.

Qui non si tratta dunque di ragionare de’ diritti del Sovrano. L’accusatore non vorrà già sostenere che la pena di morte si debba dare benchè non sia nè utile, nè necessaria. Una sì scandalosa e disumana proposizione non può uscire dalla bocca d’un uomo Cristiano. Se nel
la minore non ho ragionato bene, questo sarà un delitto di lesa logica, non mai di lesa Maestà. Sono per altro compatibili i miei errori, sono essi del genere di quelli che commisero tanti zelanti Cristiani ne’ primi secoli della Chiesa.13 Sono del genere di quelli che commettevano i Monaci al tempo di Teodosio il Grande, verso la fine del quarto secolo,
 de’ quali parlano gli Annali d’Italia al t. 2, l’anno 389, dove così dice il Signor Muratori, che Teodosio fece una legge contro de’ Monaci acciocchè stassero ne’ loro Conventi, essendo giunta a tal segno la loro carità verso 
il prossimo che levavano i rei dalla mano de’ giustizieri, perchè non volevano che nessuno morisse. La mia carità non giunge sino a tal segno, e convengo volontieri in dire ch’ella in que’ tempi fosse mal regolata. Un’azione violenta contro la pubblica autorità è sempre colpevole. Io non ho levato verun reo dalle mani dei giustizieri, ho scritto che è giusto che vi vadano quando è utile o necessario il farlo; ho creduto che ciò non possa essere nè utile, nè necessario fuori che nei tempi de’ torbidi d’una Nazione; e s’ha a dire per ciò ch’io contrasto ai Sovrani il diritto della pena di morte! E un uomo mi si deve scagliar contro perchè ho scritto che non si devono uccider gli uomini che o per pubblica utilità o per necessità! E quest’uomo mi dovrà per ciò dire che la mia opinione è erronea, pag. 105, che v’è del marcio, pag. 108, ch’io sono uno spirito forte, pag. 110, che faccio insani ragionamenti, pag. 112, che sono un impostore, pag. 114, ch’io accuso di crudeltà la stessa Provvidenza Divina, pag. 118, ch’io dico impertinenti sciocchezze, pag. 130, che faccio stomaco, che equivoco ridicolosamente, pag. 130, e che per fine gli uomini saggi guarderanno sempre simili verità con occhio di disprezzo e le giudicheranno parti d’uomini indispettiti, come dice che mi sono io mostrato, pag. 135.

Prima ch’io termini la risposta a quest’accusa sesta, non devo ommettere un argomento suo, esposto in questi termini: Se l’autore crede alla Sacra Scrittura, dunque deve credere alla medesima anche quando gl’insegna che la pena di morte è giusta e necessaria, e che si devono rispettare le leggi ed i Sovrani. Not., pag. 133.

Dove si legge mai nel mio libro questa bestemmia, che le pene di morte decretate da Dio nel governo del popolo eletto non sieno giuste e necessarie!

Dove si legge mai nel mio libro che non si debba dare la pena di morte quando sia giusta e necessaria!

L’accusatore ha il dono di scambiare per lo più una proposizione coll’altra. Io ho detto, lo ripeto, che quando la pena di morte è utile e necessaria, è pure giusta, e si deve dare; a che egli si affatica dunque a provarmi che la pena di morte può essere giusta e necessaria!

Ma l’accusatore, citandomi la Sacra Scrittura, mi cita un argomento che non prova contro una proposizione che non ha bene intesa. Io dovrò dunque ripetergli quello che sta scritto su mille libri, cioè che il Governo del popolo Ebreo non era monarchico, non era aristocratico, non era democratico, non era misto, ma era teocratico, cioè diret
to immediatamente dalla mano di Dio resosi visibile ne’ moltiplicati prodigj operati in favore ed istruzione del suo popolo, e che i Profeti parlavano immediatamente a quella Nazione colla voce di Dio. S’ei leggerà la Sacra Scrittura e i buoni e ortodossi interpreti, vedrà che molti fatti della storia di quel popolo non potrebbero giustificare la nostra imitazione: così la uscita dall’Egitto, così l’ingresso nella terra di promissione furono accompagnati da alcune circostanze, giuste unicamente allora, che vennero comandate dal Supremo Creatore e Signore degli uomini e delle cose, il quale sa battere strade giuste ed ammirabili, ma nello stesso tempo imperscrutabili al debol occhio dell’uomo. Ciò posto, dovrò pure avvertire il mio accusatore come colla promulgazione del Vangelo e della legge di Grazia siano state abrogate non tanto le cerimoniali leggi dell’Antico Testamento, quanto le giudiziarie; e come scrive Tertulliano, Vetus lex ultione gladii se vindicabat, nova autem lex clementiam designabat, Tertu., Advers. Jud., cap. III. Cose che sono d’una molto facile erudizione. Rifletta quindi che la sola causa criminale giudicata da Cristo Redentor nostro non finì già colla lapidazione, come stava scritto nelle leggi, ma bensì colla clemenza. Esamini bene lo spirito del S. Vangelo, gli Atti degli Apostoli, gli scritti de’ primi Cristiani, lo spirito della Santa Chiesa, che sospende dal Sacro Ministero chiunque sia partecipe della morte d’un uomo, e veda poi se sia più conforme, non dirò alle virtù dell’umanità, della beneficenza e della tolleranza degli errori umani (virtù che l’avversario trova equivoche, Not., pag. 30), la mia o la sua sentenza; ma veda esaminandole su i principj del Cristianesimo quale delle due vi sia più conforme.

Finalmente alcuna cosa convien pur dire intorno il rispettar le leggi ed i Sovrani, cosa che la insegna la Scrittura, ed oltre la Scrittura l’insegna il buon senso e la ragione ad ogni uomo di qualunque religione. Qual legge v’è al mondo che proibisca di dire o di scrivere che un Governo può sussistere in pace senza decretar pena di morte a nessun reo! Questo lo dice Diodoro, lib. I, cap. 65, raccontandoci che Sabacone Re d’Egitto con lodatissima clemenza mutò le pene capitali colla pena della schiavitù e fece servire i delinquenti alle opere pubbliche con felicissimo successo. Questo lo dice Strabone, lib. XI, di certi popoli vicini al Caucaso, de’ quali dice nemini mortem irrogasse quamvis pessima merito. Questo lo dicono le storie Romane dopo la Legge Porcia, con cui si stabilì che la vita non potesse essere tolta a un cittadino Romano che per sentenza di tutto il popolo, legge di cui parla Livio al lib. X, c. IX. Questo per fine lo dice l’esempio di vent’anni di Regno seguito ai dì nostri nel più vasto Impero del mondo, nella Moscovia, dove salendo al trono la Principessa ultimamente morta giurò di non togliere la vita a nessun reo, e mantenne il giuramento, senza che la giustizia criminale abbia lasciato d’avere il suo corso o la pubblica tranquillità siasi veduta peggiorare. Se questi fatti sussistono, è dunque un fatto che qualche governo può sussistere senza decretar pena di morte a nessun reo. E per avere scritto un fatto pubblico crederà l’avversario che ne vengano offese o le leggi o i Sovrani! Le leggi, i Sovrani e gli uomini non vengono offesi da altri fatti che dai fatti falsi o calunniosi.


Sarà forse proibito ad un cittadino, intanto che ubbidisce alle leggi presentanee, il far de’ voti e lo scrivere perchè se ne formino di più adattate, di più chiare, di più dolci! Sarà forse delitto il ragionare su gl’inconvenienti universali di tutte le Nazioni perchè si riformino! È stato forse riguardato come un sovvertitore del pubblico riposo, un oltraggiatore delle leggi e de’ Sovrani e della Chiesa il benemerito e illustre Sig. Marchese Scipione Maffei, quando combattendo le idee della magia potevasi pur dire di lui che trattasse da crudeli tiranni tutt’i Principi e tutt’i Sovrani del secolo ed i savj della Chiesa perchè condannavano alla morte (i maghi e le streghe, direbbesi allora) i scellerati, Not., pag. 133, come l’accusatore pretende d’imputarmi! Crede egli che vi sia o vi possa essere alcun Governo in Europa che stimisi talmente perfetto che il suggerimento d’una mutazione debba offenderlo! Io assicuro l’accusator mio che tutt’i Governi d’Europa e tutt’i Principi che vi presiedono ne’ loro Stati accettano o escludono i libri secondo giudicano conveniente di fare; che ascoltano o ricusano le proposizioni universali a misura che sono convenienti o no alla loro Nazione; nè che mai si credono mancato loro il rispetto da chi espone generalmente le sue opinioni, buone o cattive ch’elle sieno, senza diswgno o vista di dispiacere ad alcuno.

ACCUSA SETTIMA
L’autore del libro Dei delitti e delle pene ha scritto non già per amore della umanità, ma solamente per sfogar la sua bile contro la comune maniera di giudicare. Not., pag. 142.

RISPOSTA
In questo pio giudizio che l’accusatore porta dei moti reconditi del mio animo, non ha migliore fortuna di quella che ne abbia avuta ne’ giudizj del mio libro. Sul bel principio del mio libro si legge: «Me fortunato, se potrò ottenere i segreti ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi della umanità!», pag. 5; e più avanti: «Se sostenendo i dritti degli uomini e dell’invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angoscie della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell’ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d’un solo innocente nei trasporti della gioja mi consolerebbero del disprezzo degli uomini», pag. 30 e seg. Siccome questi tratti sono partiti dal mio cuore, così mi prometto che ogni sensibile e giudizioso lettore sentirà s’io abbia scritto non per amore della verità, ma solamente per sfogar la bile contro la comune maniera di giudicare.

CONCLUSIONE

Il libro dunque Dei delitti e delle pene viene constituito reo delle seguenti imputazioni: di non conoscere la Giustizia Divina; di non credere alle Sacre Scritture; d’esser nemico del Cristianesimo; di aver asserita incompatibile la religione col buon governo; di aver chiamate le verità della Fede semplici opinioni umane; di aver guardata la religione come una semplice massima di politica; di aver chiamato odioso l’impero della religione; d’essere un nemico dell’Altissimo; d’aver accusato il Vangelo di stragi orribili; d’aver bestemmiato contro i Ministri della verità evangelica; d’aver cercato di togliere ogni rimorso di coscienza e tutt’i doveri anche di natura; d’aver preso di mira i savj della Chiesa Cattolica; d’aver calunniati i Prelati ecclesiastici; d’aver negato che l’eresia sia un delitto di lesa Maestà Divina; d’aver detto che gli eretici condannati dalla Chiesa sono vittime d’una parola; d’aver negato che il peccato sia una offesa infinitamente grande fatta a Dio; d’avere scritto con sacrilega impostura contro dell’Inquisizione; d’aver dipinti i Religiosi con colori infernali; d’aver trattato da crudeli tiranni tutt’i Principi e tutt’i Sovrani del secolo e d’essersi scatenato contro di essi in furiosa maniera; d’essere ripieno in somma d’empie bestemmie e di contenere, per dirla in breve, tutti gli errori più enormi e più sediziosi bestemmiati sin qui contro le Sovranità e contro la religione Cristiana da tutt’i più empj eretici e da tutti gl’irreligionarj antichi e moderni. E tutto ciò nel mio libro vi ha ritrovato l’avversario e lo comunica al pubblico per amore della bella verità, Not., pag. ult.

Una sola di queste iniquità basterebbe per disonorare l’autore che la sostenesse o l’accusatore che falsamente l’avesse imputata. Come l’accusatore abbia provate le sue tesi, ogni ragionevole lettore che abbia veduto lo scritto medesimo di lui lo ha potuto conoscere abbastanza. Potrà parere strano a taluni ch’io abbia preso a rispondere a un avversario di tal natura, ma cesserà la maraviglia a chi rifletta di quali importanti soggetti si trattasse. Quest’è un pubblico omaggio che uno scrittore Cristiano deve alla Santa sua Religione, o di difendersi quan
do ne venga a torto incolpato o di ritrattarsi quando sia trascorso in errore di tal natura. Uno de’ tratti più luminosi della vita di Monsignor di Fenelon si fu quando, avvisato della disapprovazione che il Sommo Pontefice avea data ad una proposizione da lui scritta, salì quell’onorato e pio prelato in Pergamo, e alla vista di tutto il popolo con nobile e coraggiosa virtù ritrattossi e rese gloria alla verità della Fede. Io avrei avuto il coraggio d’imitare, almeno scrivendo, un esempio sì illustre, quando una sola delle appostemi empietà mi fosse trascorsa, e in vece di risposta avrei fatto vedere al pubblico la ritrattazione del mio errore, e mi attribuirei, come devo, a gloria di mostrarmi con un atto solenne ubbidiente figlio della Chiesa d’Iddio e intimo conoscitore di quella distanza che passa fra i Sovrani e un privato.

Ma nello scritto del mio avversario (ch’io pure ho sempre voluto chiamar libro) e nelle imputazioni che ivi si leggono (alle quali ho pure sempre voluto dar il nome di accuse) non ne ho trovata una sola fondata nemmeno su una apparenza di verità. Da qui ne viene che in vece di provare alcuno di que’ fastidiosi rimorsi dai quali l’accusatore crede che io sia inquietato, Not., pag. 6, anzi desidero di cuore che la rettitudine della sua intenzione sia stata tanta da lasciare anche a lui la coscienza in pace. Le accuse contro me intentate non davanti un Giudice, non davanti un Tribunale, ma in faccia di tutt’i Giudici, di tutt’i Tribunali d’Italia dal mio avversario, non sono un affare di letteratura. Se queste accuse fossero provate, io sarei l’uomo il più detestabile del mondo; se non sono provate, io gli perdono, nè altro più domando da
lui se non se che s’astenga in avvenire dal dare il suo giudizio su altri scrittori della nostra Italia; e in caso pure che ciò non sia sperabile, che ponga almeno sul frontispizio delle accuse ch’ei farà agli altri autori l’avviso di esser lo stesso che ha scritto le Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene.

 

NOTE

1 Il Sig. Prevosto Muratori è stato accusato d’eresia pel suo libro De ingeniorum moderatione: Vita del Proposto Lod. Ant. Muratori, Venezia 1756, pag. 119. Fu accusato d’eresia, gli furono scritte ingiurie, strappazzi e minaccie, ibid., pag. 120. Fu accusato capo di setta, ib., pag. 130, inventore di novella eresia contra la B. Vergine, ib., pag. 131. Gli furono stampate contro dal Bernardes mille infamie, ingiurie, calunnie, contumelie, villanie, ib., pag. 141. Fu accusato di giansenismo, ib., pag. 146. Fu dichiarato dopo sua morte dai Pergami eretico e dannato, ib., pag. 150, ecc.

2 Il Sig. Marchese Scipione Maffei fu accusato di novatore, di eretico, di giansenista, di calvinista ec. Vedi Animadversiones ad Historiam theologicam dogmatum et opinionum de divina gratia, e sopra tutto l’Infarinato posto al vaglio.

3 Si avverta che tutte le citazioni che si faranno dell’opera Dei delitti e delle pene indicano la pagina della prima edizione in quarto di pag. 104.

4 Sant’Agostino così definisce lo spirito della Chiesa: Non in contentione et æmulatione et persecutionibus, sed mansuete consolando, benevole cohortando, leniter disputando, sicut scriptum est: servum autem Domini non oportet litigare, sed mitem esse ad omnes, docibilem, patientem, in modestia corripientem diversa sentientes.

5 Un peccato non si commette senza malizia, ma un delitto si può commettere per dolo malo, per mala intentione e per ignorantiam. Così L. Respiciendum § delinquunt ff de Pœnis, dove leggesi che delinquitur aut proposito, aut impetu, aut casu. Veggasi le Leggi 1 ff de Legibus, e L. 1 C. si adversus delictum, dove leggesi si tamen delictum non ex animo sed extra venit, e L. 2 ff de Termino moto in fine, trattandosi d’infligger pene a chi movesse i termini, dice quod si per ignorantiam aut fortuito lapides furati sint, sufficiet eos verberibus decidere, ecco un delitto che non è peccato, e delitto punito, e così molti altri. Spiacemi di dover discendere a provare i primi principj delle cose che ognuno sa; ma non è per colpa mia se l’accusatore negandoli o confondendoli mi obbliga a farlo.

6 Furtum non committitur, nec furti pœna locum habet quando effectus sequutus non est. Ita si quis furti faciendi caussa domum alicujus ingressus est, nihil tamen furatus fuit, non tenibitur de furto, nec de furto puniri potest. L. Vulgaris § qui furti ff de furtis, et L. 1 Sola cogitatio ff de furtis ubi DD, et in specie Farinac., De furtis, quæst. 174, num. 1.

7 Osservisi bene di non dimenticare la distinzione essenzialissima fra delitto e peccato, di cui abbiamo parlato dissopra. La virtù la più pura de’ Martiri, nel linguaggio de’ criminalisti eterodossi, si chiamava delitto, ed io, parlando universalmente di leggi criminali d’ogni Nazione e d’ogni religione, chiamo delitti quei che le leggi d’un Paese chiamano delitti, e in questo senso ho detto nel mio libro che vi sono dei delitti impossibili, pag. 60, cioè delle azioni che vengono chiamate delitti benchè io creda impossibile il commetterle.

8 A pag. 90 della mia opera avrebbe potuto conoscere l’accusatore cosa significhino le opinioni asiatiche, dove si legge la tirannia confinata nelle vaste pianure dell’Asia ec.

9 Devo aggravare i miei delitti verso il mio avversario, il quale, per alcuni ch’ei chiama francesismi scriffi scriffi, dice che si rende più accorto della mia parzialità per certi scrittori, Not., pag. 85 e segu. Sappia ei dunque ch’io ho la disgrazia d’intendere il Francese, e di più che ho l’empietà di saper trascrivere, come qui vede.

10 Io non mi sono proposto in questa scrittura di rispondere nè a tutte le obbjezioni che l’avversario mi ha fatte, nè a tutt’i ragionamenti. Mi sono circoscritto alle sole gravi accuse. Chiunque però dubitasse ch’io forse a torto non dica male de’ suoi principj politici, è giusto che ne vegga alcuni che mi sono caduti accidentalmente sott’occhio. Eccoli. Che un Codice di leggi reso comune farebbe gli uomini più arditi nel commettere il male e moltiplicherebbe i delitti, pag. 26. Il timore conserva i Regni, p. 164. L’uomo diventa peggiore a proporzione che diventa più libero, p. 165. Un Magistrato che riceva le accuse secrete dei delitti contro lo Stato e che non palesi mai i delatori, e li premj eziandio nel caso che ne trovasse qualcuno calunniatore, benchè ciò possa cagionare la rovina di qualche innocente, si deve giudicare e credere un Tribunale il più utile e il più vantaggioso per tutti gli Stati e il capo d’opera dell’umana politica, pag. 50 e segu.

11 Evagr. Hist.

12 Frag. di Svid. in Costant. Porphyrog.

13 Nel che consultinsi i Santi Padri, e tra gli altri Tertulliano, il quale nell’Apolog., cap. XXXVII, così dice, che era una delle massime de’ Cristiani di soffrire la morte piuttosto che di darla altrui; e nel Trattato della idolatria, cap. 18 e 19, condanna tutte le sorte di pubbliche cariche come proibite ai Cristiani, a cagione della necessità di condannare a morte i rei. Ognun comprenderà facilmente come l’orrore per la condanna di morte fosse portato in que’ tempi al di là de’ confini del giusto, nè voglio io sottoscrivermi in ciò al parere di Tertulliano; ho detto bensì con Sant’Agostino che è miglior cosa che i rei, anzi che andare al supplicio, alicui utili operi integra eorum membra deserviant, August., Epist. CCX. Basta solo che il mio accusatore vegga da ciò se lo spirito de’ primitivi Cristiani sia più in favore di me, che vorrei che le pene degli uomini non giungessero sino alla morte e che si riparasse alla pubblica sicurezza altrimenti, ovvero in favore di lui, che vuole che si ammazzino gli uomini assolutamente.