Ricerche intorno alla natura dello stile

Cesare Beccaria

RICERCHE INTORNO ALLA NATURA DELLO STILE (1770)

Testo critico stabilito da Gianmarco Gaspari (Edizione Nazionale delle opere di Cesare Beccaria, II, 1984, pp. 65-232)

Excutienda damus praecordia (Pers., Sat. V)

a sua eccelenza | carlo | conte e signore di firmian, | di cronmetz, meggel | e leopoldscron, | cavaliere dell’insigne ordine | del toson d’oro, | gentiluomo di camera | e consigliere intimo | attuale di stato | delle loro maestà imperiali regie e apostoliche, | generale sovraintendente | delle regie poste d’italia, | luogotenente | e vice-governatore de’ ducati | di mantova, sabbioneta | e principato di bozolo | e ministro plenipotenziario | di sua maestà imperiale regia apostolica | presso il governo generale | della lombardia | austriaca

Eccellenza,
io consacro a Vostra Eccellenza quest’opera mia come un pubblico testimonio della più giusta riconoscenza ad un mio benefattore e mecenate, e di quel vero rispetto che inspirano alle anime sensibili le anime grandi. Bramerei che questa mia fatica potesse meritarsi appresso il pubblico e la posterità quel favore che la propagasse in tutt’i tempi e fra tutte le nazioni, acciocché fossero palesi universalmente quei sentimenti di ammirazione dei quali, indipendentemente dall’altezza del rango e dall’autorità, sono debitori gli uomini onesti a quelli che contribuiscono alla pubblica felicità. Non già perché quegli, che ha saputo unire la dolcezza delle virtù sociali alla severa fermezza delle virtù politiche e farsi una passione del pubblico bene così viva, come altri potrebbero farsela per la propria fortuna e per l’ambizione, non sia anche superiore e per modestia e per disinganno a questa sorte di omaggi. Ma perché, se moltissimi al solo e nudo potere avviliscono la lode, e la cambiano in servile adulazione, altri molti non mancano che abbastanza non considerano quanto grande, luminosa e difficile sia la virtù fra gl’inciampi della grandezza, e gli ostacoli che cospirano contro chi del potere e dell’eminenza del grado non altro vuol ritenere se non ciò che favorisce la giustizia e la beneficenza. E se la mia patria, richiamata alla gloria delle lettere da quell’Augusta Provvidenza, nella quale sta il massimo potere dalla massima sapienza temperato, ciò che forma la più felice combinazione d’ogni dominio, deve contare ne’ fasti suoi questo secolo come l’epoca fortunata di una rinascente felicità, vedranno i posteri il nome di un così illustre ministro risplendere di quella pura luce, che la sola virtù può ottenere dalla giustizia de’ tempi. Di più: io debbo all’Eccellenza Vostra il potere con qualche tranquillità coltivare le scienze, e secondare senza ostacoli quell’impeto che, sebbene infruttuosamente per la mediocrità del mio ingegno, almeno sinceramente mi trasporta verso la ricerca della verità. Ella ha dissipate quelle nubi che la invidia e la malinconica ignoranza avevano potuto addensare sul mio capo, ed ha voluto proteggere chi altro non ha mai cercato se non di esporre colla maggior cautela e rispetto gl’interessi della umanità, sicuro di non dispiacere a chi li preferisce ad ogni altro riguardo. Egli è dunque e come cittadino e come privato che io credo di dovere offerire all’Eccellenza Vostra col più vivo e sincero sentimento di gratitudine questo mio lavoro, il quale forse avrà il solo, ma glorioso pregio di portare in fronte il rispettabile di Lei nome, e di recare all’autore la lusinga che Vostra Eccellenza si degnerà continuargli quell’autorevole patrocinio che implora chi con profondo ossequio si rassegna di Vostra Eccellenza umilissimo, obbligatissimo, divotissimo servidore
Cesare Beccaria Bonesana

A chi legge

Di molte cose io debbo prevenire quelli che mi onoreranno d’interessarsi alla lettura di queste Ricerche. Parrà a molti che, avendo io scritto in materie politiche, e la natura delle infelici procedure criminali in altra mia opera esaminata, ed essendomi ora dall’Augusta Clemenza assegnato l’onorevole incarico d’istruire la gioventù in una scienza parimenti tutta politica ed interessante la felicità degli uomini, io abbia non di leggieri traviato dal mio cammino, trascurando e il debito della mia incumbenza, e l’importanza e gravità dell’oggetto, per divertir l’animo nelle più amene e più floride regioni delle belle lettere. Ma cesserà la sorpresa ed il rimprovero per chi considera che la bellezza, la bontà, l’utilità hanno la più grande affinità tra di loro, e che tutti questi modi o concetti della mente nostra finiscono, in ultima analisi, nell’amore della felicità; onde la morale, la politica, le belle arti, che sono le scienze del buono, dell’utile e del bello, sono scienze che hanno una più grande prossimità, anzi una più estesa identità di principii, di quello che taluno potrebbe immaginare: queste scienze derivano tutte da una scienza sola e primitiva, cioè dalla scienza dell’uomo; né è sperabile che gli uomini giammai facciano in quelle profondi e rapidi progressi, se essi non s’internano a rintracciare i primitivi principii di questa. Una tale verità, feconda di utilissime conseguenze, potrebb’essere più accuratamente sviluppata, e cercherò di farlo a suo luogo; basta ora averla accennata per giustificarmi, che, scrivendo le seguenti Ricerche intorno alla natura dello stile, io non perciò sia sbalzato in materie troppo disparate ed estranie all’ordinaria serie delle mie occupazioni: oltredicché non è possibile che, ricercando le verità politiche ed economiche nella natura dell’uomo, la quale n’è la vera fonte, non si debba incontrare anche in quelle verità che, quantunque aliene dall’oggetto che si ha di mira, sono però vicine, e quasi perfettamente simili a quelle che si vorrebbero ritrovare.

Ch’io poi non abbia voluto negligentare ciò che è il dovere più glorioso e caro ch’io abbia, lo potranno conoscere coloro che si accorgeranno della negligenza e fretta con cui quest’opera è scritta: se per questa mia negligenza e fretta appunto volesse taluno incolparmi, io rispondo facilmente che questo mio ardire di tentare il pubblico è nato dalla importanza del soggetto, e dal punto di vista interessante nel quale mi lusingo di aver osservato il soggetto medesimo; cosicché la novità e la natura delle ricerche mi raccomandassero, invece dell’ultima diligenza che io non ho potuto usare. La maggior parte delle cose che qui stanno scritte erano già state pensate e confusamente registrate sono già alcuni anni. Ne ho dato alcun cenno in un foglio periodico che da una società di amici si pubblicava. Questo cenno, comparso al pubblico come un Frammento sullo stile, ha avuto l’onore di essere tradotto in uno de’ più eccellenti e filosofici giornali della Francia: dopo, incoraggito d’alcuni eccellenti ingegni che approvavano la mia maniera di considerare lo stile, ho spinto più innanzi le mie meditazioni; cosicché, d’una idea nell’altra, la cosa è giunta allo stato in cui trovasi presentemente.

Io mi sono sforzato di assoggettare alla filosofia dell’animo, che con poca proprietà vien detta metafisica, e meglio dovrebbe chiamarsi psycologia, questa parte dell’eloquenza che sotto il nome di stile viene compresa, abbandonata fin ad ora quasi intieramente alla fortuita impulsione del sentimento ed alla sconnessa ed irriflessiva pratica di un lungo esercizio. Non sono mancati in questo secolo alcuni sublimi spiriti che nelle opere loro hanno dato non oscuri cenni di voler connettere lo studio delle belle arti colla nuova maniera di filosofare, e di assoggettarlo all’analisi ed al ragionamento; ma, oltreché molti sono stati trattenuti e soverchiamente intimoriti dalla più ripetuta che provata obbiezione che i precetti e le regole non formano i grandi scrittori e i grandi artisti, nissuno ancora ha preso a trattare intieramente di una parte considerabile delle belle arti con quel metodo di accurata analisi dal qual solo, combinato con l’osservazione, la perfezione dello spirito umano e quella delle scienze tutte, e la scoperta di tutto il vero che non eccede i limiti delle facoltà nostre, può aspettarsi. Giovanni Loke ha incominciato un grande edificio, e i filosofi di questo secolo lo hanno considerabilmente accresciuto e migliorato. In questa parte istessa delle belle arti io potrei citare i più gran nomi che hanno felicemente incominciato a sottomettere al dominio della filosofia anche il buon gusto, che altro non è che l’arte di regolare l’attenzion nostra intorno alle idee, come piacevoli o dispiacevoli, se la vera logica non è altro che l’arte di regolarla intorno alle medesime, ma come simili o dissimili, identiche o diverse. Il signor d’Alembert, il più grande forse, e certamente il più filosofo tra i matematici di questo secolo, quanto grandi e nel medesimo tempo quanto utili ed importanti verità non ci ha egli date intorno alle traduzioni, e su questa istessa materia, di cui io tratto presentemente, nell’articolo Elocuzione dell’Enciclopedia, e nelle sue miscellanee?

Il celebre abate di Condillac ed altri troppo famosi superiori ad ogni mia lode, che non occorre qui nominare, hanno saputo portare la luce dell’analisi in questa parte delle lettere resa sterile ed infeconda dal fosco pedantismo e dalla servile imitazione. Essi hanno incominciato a ricercar nelle facoltà nostre, nella nostra maniera d’intendere e di sentire, l’origine e le leggi del buon gusto, leggi così invariabili come lo possa essere l’umana natura; il ben sapere, cioè il ben sentire le quali, è la più prossima e la più sicura disposizione alla perfetta esecuzione di quelle. Io non voglio qui adottare la troppo facile e troppo comune maniera di tessere un lungo catalogo di autori, e dei loro sentimenti ed opinioni intorno all’oggetto di cui si tratta in quest’opera. Le copiose e comode compilazioni, le quali oggi abbondano in ogni parte, mi avrebbero facilmente messo in istato di aggravare la pazienza de’ miei leggitori con un immenso corredo di citazioni, confrontando i passi paralleli, confutando laboriosamente le opinioni diverse, discutendo con microscopica diligenza tutte le minime differenze di tutte queste opinioni e sentenze; ma io rinuncio volontieri alla gloria di dotto e di erudito, per isforzarmi di ottener quella, più invidiosa e più tarda, di accrescere il numero de’ ragionamenti precisi ed adequati nelle materie che interessano o l’utilità o l’innocente felicità degli uomini; e di far ciò senza noia, rapidamente e con un discreto numero di pagine. Ho voluto dunque soltanto far menzione de’ sullodati filosofi, al coro de’ quali può aggiungersi l’immortale autore dello Spirito delle leggi per il suo Frammento sul gusto, perché tutti questi autori si sono non solamente avvicinati ai principii da me posti intorno alla natura dello stile, ma anche talora hanno detto quasi l’equivalente; ma quelli che sono esercitati in questa sorte di meditazioni e di ricerche sapranno distinguere ciò che io ho fatto da quello che altri fatto hanno in una materia nella quale la novità consiste in una maggior precisione d’idee, ed in una più esatta coerenza di più lunghe e più generali deduzioni.

Queste materie non possono riscuotere quell’interno fremito di una tenera sensibilità, che è il più lusinghiero elogio che si possa fare a chi cerca di eccitarla; non lasciano però di essere un oggetto interessante a chi considera che le bellezze tutte, che dallo stile dipendono, sono quelle sole che più d’ogni altra perpetuano ne’ volubili animi degli uomini, e rendono comuni e palpabili alla distratta e pigra mollezza degli ingegni le più grandi verità; perché, cangiandosi con continue vicissitudini le oscure opinioni sulle cose, ed essendo le ricerche intorno alla natura di quelle disparate e remote dalla solita e più desiderata apparenza degli oggetti, le grazie sole e la forza dell’elocuzione le richiamano e le combinano in un modo che interessi la svogliata attenzione, e vestendole di quei colori che permanenti sono e più immediatamente ci feriscono, si moltiplicano per l’universale ricerca, e si rendono popolari e perpetue.

Ma qui facilmente dovrei essere rimproverato per l’aridità colla quale stanno scritte la maggior parte di queste ricerche, e per la rapida e troppo astratta maniera con cui le mie riflessioni sono esposte: quanto a questo rimprovero, facilmente si risponde che, dove si tratti di esaminare con qualche precisione idee e combinazioni di quelle, non è possibile che l’esame non si riduca ad una specie di calcolo secco e disadorno, che non prende la sua forza che da se medesimo, non dalle cose accessorie, colle quali non si debbe interrompere, e diletta più per la sua evidente precisione e nuda grandezza che per gli ornamenti, che non farebbero altro effetto che di allargare ed allontanar di troppo quelle idee le quali, perché ne dipende tutto il risultato, vogliono essere strette ed unite, e senza interposizioni enunciate. Vero è che io avrei potuto, con esempi opportuni ed opportunamente collocati, correggere e rendere più sensibile la troppo metafisica analisi che qui si contiene. Ma ciò ho fatto in vari luoghi, se non l’ho fatto da per tutto, dov’era acconcio e forse necessario. Io non ho avuto tempo, per le occupazioni che il mio dovere m’ingiungeva, di architettare simmetricamente e nel miglior modo queste mie ricerche; ma sono stato costretto di abbandonarmi a quell’ordine ed a quella non interrotta serie di pensieri che mi forniva la natura della ricerca che io facevo più per rinvenire il vero, che per pretendere che questo medesimo ordine fosse il più opportuno alla maggior parte de’ miei leggitori. Ho dunque posto quegli esempi che naturalmente mi si son presentati, trascurando la troppo lunga fatica di cercar gli altri che potessero mancare. La natura di questo scritto dimostra chiaramente che io non lo destino che a quelli che non sono affatto digiuni di buona filosofia, e che sono avvezzi a seguitar con qualche costanza e con qualche attività una non breve serie d’idee. All’imparziale e ponderato giudizio di questi io sottometto questo scritto, mentre quegli altri che i libri non leggono altrimenti che per distrarsi dal tormento di esaminar se stessi, o per avere occasione di poter aguzzar un epigramma e la relativa e limitata gloria di begli spiriti ottenere, non potranno che rifiutarlo con disprezzo, come una misteriosa sciocchezza: ma i primi, io lo spero, ben lontani da ciò, suppliranno alle mie mancanze e, rettificando le mie idee, finiranno di ridurre in sistema ed in iscienza certa e da certi principii dedotta ciò che prima era per lo più un frutto straordinario di uno spontaneo vigore e di una lunga sperienza sopra regole sconnesse di pura pratica.

Ella è questa appunto la ragione che ha fatto a taluni con giustizia reclamare contro l’inefficacia delle regole che, ben lungi di elevare e spignere gl’ingegni, ne circoscrivevano troppo servilmente i confini, e ne rallentavano il libero impeto e l’originale energia. Queste regole non erano per lo più che il ridurre a canoni generali le bellezze già combinate dai maestri dell’arte, quando piuttosto dovevano essere osservazioni pure generali sulla maniera con cui essi le avevano combinate; e mentre queste si doveano cavare dal fondo del nostro cuore, ricercando a qual combinazione di idee, d’immagini, di sentimenti e di sensazioni egli si scuota e si irriti, ed a quali resti inerte e stupidamente indifferente, si sono piuttosto volute rinvenire nel proporre solamente una parte di queste combinazioni, già da’ gran maestri esaurita, come modello di tutte le altre, senza ricercare ed indicare ciò che tanto varie e disparate maniere di dilettare, che l’esperienza ci additava, potessero avere di comune per produrre su gli animi degli spettatori quel sempre medesimo fremito interno di piacere soavissimo ed insaziabile. Ecco ciò che io ho tentato di fare intorno allo stile. Ben lontano dal credere di avere detto tutto ciò che si poteva dire, e di averlo detto senza temere taccia alcuna di critica, scorgo che pur troppo le mancanze di precisione, così facili in così inviluppata materia, e i vuoti considerabili in un oggetto così vasto, non tanto per se stesso, quanto per l’intima connessione che ha con tutto il restante delle belle arti, saranno frequenti; ma solamente mi lusingo di essere riuscito di poter avviare gl’ingegni degli Italiani, che sono stati i maestri e gli esecutori delle belle arti di Europa, a considerarne la filosofia; onde gl’innocenti ed incolpabili piaceri dell’intelletto divengano un oggetto di scienza e d’istituzione, come formanti una non disprezzabile diramazione dell’utilità comune, ed ancora della virtù umana, che dal sentimento prende l’origine sua, i suoi motivi e i suoi precetti.

In due parti ho divisa quest’opera; per ora non si pubblica che la prima parte, ma incessantemente dopo alcuni mesi seguirà la seconda. Alcune circostanze mi hanno indotto a dare in due riprese ciocché più volontieri avrei voluto unitamente pubblicare. Io profitterò di questo tempo per supplire nella seconda parte a que’ difetti ed a quei vuoti che una più matura considerazione e le onorate critiche degli amatori sinceri della verità potranno suggerirmi.

Introduzione

Fino ad ora comune opinione è stata che le regole e i precetti non formino né un oratore né un poeta; essere necessaria una non intesa ispirazione, ed un non so qual estro primitivo dominatore delle menti. Troppo cecamente si obbediscono i sublimi ingegni e si propongono come inalterabili norme alla nostra imitazione; le loro formole, le espressioni, le frasi, le bellezze tutte sono registrate e messe in catalogo; ma rarissime volte si è cercata la maniera con cui sono arrivati a ritrovarle, ed il perché facciano una così dolce impressione sovra di noi. Testimonio ne siano quasi tutte le istituzioni poetiche e rettoriche fin or pubblicate, le quali non salgono giammai all’origine dei nostri sentimenti; riboccanti di osservazioni eccellenti e finissime su i risultati di una lunga esperienza, non s’internano ad indagarne i principii motori. Un’eccellente poetica sarebbe quella che insegnasse a risvegliare in se stesso l’indolente ed indeterminata sensibilità, che facesse scorrere lo spirito osservatore su tutte le cagioni che gli produssero piacere o dolore. Uomo forse non v’è che, tolto all’uniforme ed abituale serie d’azioni a cui la maggior parte è destinata, e che incallito non sia dall’età e dalla facile consuetudine, il quale non acquisti tutt’i germi, benché non isviluppati, del grande e del bello. Sono le osservazioni sopra le interne operazioni dello spirito, non sulle esterne manifestazioni di esso, che formano le vere istituzioni. Mio scopo non è di dare i precetti tutti dell’eloquenza e della poesia, ma soltanto di fermarmi principalmente intorno alla parte di queste due belle arti emulatrice dell’invenzione e perpetuatrice delle più grandi ed importanti verità, cioè l’espressione, ossia lo stile. Se i miei sforzi non riusciranno, in parlando dello stile, a spandere una luce nuova su tal materia, serviranno almeno a scuotere le menti italiane ed a diriggere la fervida loro inquietudine a tentare di scoprire quel secreto che i gran maestri ci hanno celato. Io parlo solamente a quegli animi pronti e penetranti che sanno ripiegarsi in se medesimi a sentir profondamente, ed a quegl’ingegni arditi e liberi che si formano una scienza de’ loro pensieri e non degli scritti altrui. Amo che le mie ricerche, qualunque esse siano, diventino proprie e sostanziali del lettore; ma, perché ciò egli faccia, deve correre con eguale fatica la mia strada, senza ch’egli sia spinto ad ogni passo da una laboriosa e torpida diligenza.

Così, credo, faccendo, avrò convinto almeno in parte i miei leggitori che, in quanto allo scrivere eccellentemente si appartiene, non sia questo un dono di natura, ma uno studio dell’arte diretta da principii certi e da norme inalterabili: perché, se con un sol principio bene sviluppato si arriva a discernere subito fra la moltitudine delle espressioni le migliori, e se da questo istesso principio caverò il modo di avvezzar l’immaginazione e l’intelletto a trovar prontamente copia di espressioni fra le quali sciegliere le più opportune, confesserà ognuno esservi lo stesso artificio a scriver bene, come vi possa essere a far qualunque altra cosa, ove si ricerchino i necessari materiali e meglio quelli si sappiano disporre.

I. Esposizione del principio generale

Sotto il nome di stile comunemente s’intende la maniera di esprimere con parole i concetti dell’animo nostro: basta in questo momento la volgare definizione, finché non sia arrivato ad una più precisa e filosofica. Ogni discorso è una serie di parole che corrisponde ad una serie d’idee; ogni discorso è una serie di suoni articolati: dunque ogni differenza di stile consiste o nella diversità delle idee o nella diversa successione de’ suoni rappresentatori. La diversità delle idee consiste o nelle idee medesime o nell’ordine con cui esse sono disposte, o nell’uno e nell’altro insieme. La diversità dell’ordine de’ suoni può essere relativa alle idee medesime per quella secreta analogia che passa fra le sensazioni dell’udito e quelle degli altri sensi, come l’essere veloci o lente, aspre o dolci, e simili circostanze comuni. La diversità de’ suoni può essere relativa alla disposizione ricevuta dall’uso comune, che chiamasi grammatica; può essere relativa alla maggiore e minore armonia con cui le parole si succedono scambievolmente. Mio scopo non è di parlare di quella parte di stile che appartiene semplicemente alle parole, ma di quella parte che appartiene alle idee.

Un semplice sguardo su di noi stessi ci manifesta che ogni nostro discorso consiste o nell’enunciare una verità o nell’eccitare un sentimento; ma che diverse possono essere le strade che conducono a questi fini. Chiamo idee, o sentimenti principali per le idee, quelle che sono solamente necessarie, acciocché dal loro paragone ne possa risultar l’identità o la diversità, nel che consiste ogni nostro giudizio; e per i sentimenti, quelli che sono il solo oggetto del nostro discorso, sia per manifestare le nostre, sia per risvegliare in altri sensazioni di piacere o di dolore, nel che consiste ogni nostra passione. Chiamo idee o sentimenti accessori quelle idee e quei sentimenti che si aggiungono ai principali, che sono i soli necessari, e che ne aumentano la forza e ne accrescono l’impressione; il che come avvenga si vedrà in appresso.

La diversità dello stile non può consistere nella diversità delle idee o sentimenti principali, se per diversità di stile intendasi l’arte di esprimere in diverse maniere la stessa cosa. Riflettasi che una serie complicata d’idee o di sentimenti può sottodividersi in molte serie parziali, ciascheduna delle quali contenga dei principali rispetto a se medesima. Vi possono dunque essere differenti stili, rinchiusi, per così dire, l’un dentro l’altro. In generale, ogni semplice affermazione o negazione presa da sé non è stile; ma una serie d’affermazioni o negazioni, tutte subordinate ad una principale affermazione o negazione, potendo essere diverse e diversamente disposte, possono formare lo stile.

Qualche volta l’idea o il sentimento principale non sono espressi nel discorso; ma gli accessori gli esprimono sufficientemente. Qualche volta l’idea o il sentimento principale essendo complicati, e nel discorso espressi con tutti o parte dei loro componenti, potendovi essere scelta in queste circostanze, può esservi diversità di stile. Un’idea o un sentimento principale composti, enunciati colla loro parola corrispondente, non formano stile; enunciati per mezzo delle loro parti possono ammettere stile, quando le circostanze permettono la scelta indifferentemente di queste parti.

Dunque lo stile consiste nelle idee o sentimenti accessori che si aggiungono ai principali in ogni discorso. Riduciamo questa definizione dello stile a qualche cosa di più preciso. Tutte le nostre idee o sentimenti, in ultima analisi, si possono considerare come derivanti dalle sensazioni semplici, siano cinque o più i sensi dell’uomo, siano interni od esterni; perché ancora tutte le più complicate idee e le più astratte e generali sono sempre occasionate o accompagnate da qualche sensazione, o da qualche confusa ed interna affezione di piacere o di dolore associata a tali idee, o spessissimo ancora dalla semplice sensazione auditiva o visibile della parola. Non gioverebbe, in questo ultimo caso, obbiettare che si tesserebbero lunghi ragionamenti sopra idee non ben conosciute, perché tali ragionamenti si fanno spesse volte secondando l’analogia della lingua, senza che la mente sia conscia di tutti gli elementi che formano la catena del raziocinio.

Ma il piacere delle cose sensibili non si fa sentire nell’animo dell’uomo se non per mezzo delle sensazioni: dunque la bellezza dello stile dipenderà immediatamente dallo esprimersi di quelle, dal risentimento che s’eccita nell’animo dalle parole che le rappresentano; dunque lo stile consiste nelle sensazioni accessorie che si aggiungono alle principali; dunque, quanto maggior numero di tali sensazioni e quanto più interessanti potremo addensare intorno all’idea principale, in maniera che sieno compatibili con essa e tra di loro, tanto maggiore sarà il piacere che ci darà lo stile. Due sole ricerche dunque ci restano per la perfetta applicazione del principio: l’una, il sapere quali siano i limiti oltre i quali il cumulo e l’interessamento delle sensazioni nuoce invece di giovare; come si aiutino o si danneggino scambievolmente, e l’ordine migliore con cui possano essere disposte; e questa ricerca sarà l’oggetto della prima parte; l’altra, quali siano i mezzi di esercitare l’animo nostro a quel pronto e vivido risentimento, per il quale facilmente ecciti in se stesso una copia di moltiplici e varie sensazioni, le quali scegliere e combinare si possano nel miglior modo possibile; e questa sarà l’oggetto della seconda parte.

Per formarci un’idea più chiara del poco che noi abbiamo detto finora, e del più che resta a dire, bisogna riflettere che, trattandosi di stile, le parole sono il mezzo, ossia lo stromento eccitatore di tali sensazioni. Ora, fra tutto l’immenso corredo delle parole che formano il corpo di una lingua, alcune eccitano veramente ed immediatamente sensazione nell’animo; altre non l’eccitano immediatamente, ma bensì risvegliano l’immagine di altre parole, e talvolta queste parimenti di altre, le quali poi risvegliano le sensazioni; altre finalmente, quantunque le risveglino immediatamente, pure ne rappresentano e ne eccitano un numero così grande alla volta, che non possono che confusamente e debolmente esser sentite; onde l’attenzione o niente percepisce, o si ferma soltanto su pochissima parte del tutto, significato da tali parole. Per sentire la verità di ciò, non è necessario tessere una lunga e minuta storia dell’origine delle lingue; basti il sapere che si assegnano due naturali principii alla formazione di quelle: l’espressioni organiche del piacere e del dolore e le imitazioni degli oggetti da esprimersi; onde di questi due principii con tutte le loro combinazioni si sono formate, secondo la diversità dei bisogni e secondo la differenza degli aspetti nei quali le cose sono state vedute, tutte le parole primordiali e radicali delle lingue. Ora, esaurite facilmente e l’espressioni naturali e proprie delle nostre affezioni, e la limitata imitazione degli oggetti, tutto il resto delle parole dovette formarsi dalle combinazioni delle radicali; parimenti dalle combinazioni delle combinazioni, e così successivamente: dal che avvenne che, complicandosi gli oggetti da esprimersi nel medesimo tempo che si complicavano le parole, queste per un doppio titolo dovettero perdere la loro efficacia; onde le combinazioni più remote dall’origine venivano prima a risvegliare nell’animo non l’oggetto troppo composto a cui erano state adattate, ma le parole di cui erano state immediatamente formate, le quali sovente non le idee che la cosa medesima eccitava rappresentavano, ma solamente, secondo l’occorrenza, alcuna delle circostanze che quella accompagnavano. Dunque ogni nostra ricerca ed ogni nostro esame dovrà farsi intorno alle sensazioni medesime ed alle combinazioni di quelle; e le parole dovranno essere risguardate principalmente come eccitatrici più o meno immediate di tali sensazioni, o combinazioni di sensazioni.

A misura che le sensazioni elementari si associano e si aggruppano tra di loro, cresce il piacere finché l’attenzione vi resiste, e segue l’energia di tutto l’oggetto; ma al di là del limite vario, ma costante, fissato ad ogni essere sensibile, gli avviluppamenti delle medesime sensazioni diminuiscono il piacere medesimo. La moltiplicità dei lati dell’oggetto fa che languide ed oscure si presentino alla vacillante attenzione. Nella scelta delle idee accessorie sceglieremo dunque non sensazioni elementari non troppo complicate, ma combinazioni primitive e sensibili di sensazioni elementari (così opera la natura: essa ci inonda di fasci di sensazioni alla volta, presentandoci masse e non elementi). Quanto maggior numero di tali sensazioni risplenderanno intorno alle idee principali, tanto maggiore sarà il piacere per chi legge o ascolta, perché sentirà un maggior numero di corde sensibili fremere dentro di sé; ma al di là di un certo numero la copia soverchierà l’attenzione, che sempre si sforza di seguire ogni nuova impressione che le è presentata, e stanca ed incerta si fermerà sopra alcune delle più interessanti: tutte le altre, restando impercepite, faranno interruzione di senso e di piacere, ed una tale interruzione dev’essere spiacevole: per esempio, delle due espressioni sguainar la spada, o snudar il ferro, vede ognuno esser più bella la seconda che la prima: l’idea di spada, quantunque tutta composta di sensazioni, pure il troppo numero di un oggetto così composto rende incerta ed indeterminata l’attenzione, invece che l’espressione di ferro ci richiama ad una sensazione sola e determinata, la quale lascia il luogo necessario all’altre impressioni che dall’animo si debbono contemporaneamente sentire per tutta l’estensione della proposizione. Ben è vero che per alcuni, i quali abbiano un grand’uso, per esempio, della spada, e molto si siano esercitati intorno di quella, potranno più facilmente a questa parola di spada sentirsi risvegliar con chiarezza e precisione tutte le idee che sotto questo nome vengono comprese; onde forse più piacere aver possono ascoltando o leggendo la parola spada, di quello che la parola ferro; ma per il maggior numero non sarà così: basta questa riflessione per farci chiaramente intendere l’origine delle tanto diverse opinioni e discrepanti giudizi degli uomini, anche di gusto raffinato, intorno alle cose di stile. Le circostanze di ciascheduno fa che altri più, altri meno idee sentano interiormente risvegliarsi dalle parole pronunciate o lette; e non è così facile di cangiar questa propensione dell’intelletto loro: onde differentissimi saranno i risultati che da ciascuno per ciascuna maniera di stile ne nasceranno. Di qui è che l’assuefazione, l’uso, la commoda imitazione faranno più convergere i giudizi degli uomini sopra lo stile, che la concorde uniformità de’ sentimenti, la quale solo si troverà in quelle cose, verso delle quali li bisogni e le comuni sensazioni stabilmente gli uomini piegano e diriggono: dunque soffriremo la simultanea combinazione di più sensazioni finché l’attenzione non resiste al netto concepimento di esse; ma quando la combinazione rendesse l’attenzione dubbiosa ed incerta ricorreremo alle sensazioni precise e determinate; e tanto più facilmente vi ricorreremo quanto sapremo che, riducendo un oggetto composto di molte sensazioni a qualcuna delle più precise e determinate che lo compongono, se si perde la simultanea impressione di molte sensazioni, si è ricompensato colla maggior estensione che ha l’espressione precisa e determinata, poiché l’analisi delle nostre idee c’insegna che gli oggetti composti, sciolti nelle sue parti principali, si riducono ad alcuni pochi elementi comuni, dalla varia combinazione dei quali e la differenza delle idee e quella delle cose risulta; così l’espressione composta di spada, ridotta all’espressione precisa e determinata di ferro, non ci presenta immediatamente e vivamente tutte le parti di una spada: ma, invece, rappresentandoci al vivo il principale componente di quella, cioè il ferro, fa scorrere la mente con rapidità a tutti gli usi ed agli estesi rapporti di questo metallo. Suggerisce dunque una maggior quantità d’idee senza esprimerle, del qual fenomeno si parlerà in appresso.

Non solamente il maggior numero delle sensazioni, ma la scelta di quelle che si rinforzano reciprocamente, e molto più l’idea principale, rendono migliore lo stile. Ma in qual maniera un’idea può essere rinforzata nell’animo nostro? In due maniere: l’una, coll’analisi dell’idea medesima nelle sensazioni dalle quali è occasionata, vale a dire nella enumerazione di tutti o di parte de’ componenti i più energici che immediatamente non sono presentati dall’espressione propria ed adequata dell’idea totale: dico di tutti o di parte de’ componenti l’idea totale, perché spessissimo una parola, esprimente soltanto una parte dell’idea totale, ci darà una espressione più forte della parola corrispondente all’idea del tutto: se la parte che si esprime rappresenta un’idea tale che determini necessariamente tutto il resto, che sia la più considerabile per rapporto alla sensazione dell’oggetto in tutte le sue circostanze, farà certamente un maggior effetto della parola rappresentante un’idea totale, cioè un fascio d’idee non ben percepite: chi dice cento vele invece di cento navi esprime idee parziali invece d’idee totali; ma l’idea di vela determina necessariamente l’idea di una nave, dell’uso di quella, del suo movimento, della cagione di questo, e nel medesimo tempo è la parte più considerabile per rapporto alla sensazione che si ha di una nave in quasi tutte le sue circostanze. L’altra maniera di rinforzare un’idea nell’animo nostro consiste nell’esprimere le sensazioni associate naturalmente coll’idea principale, perché, richiamandola tante volte quante sono le diverse idee associate, si fissa e si perpetua nell’animo con maggiore costanza e chiarezza. E qui notisi che qualunque sorta d’idee accessorie formanti lo stile debbono essere necessariamente idee associate o associabili nella immaginazione coll’idea principale; anzi, il legame di associazione dev’essere ben più forte colla principale che fra di loro, a misura dell’importanza di quella; altrimenti, se il legame di associazione è più forte tra le accessorie che colla principale, l’accessorio diventa principale, ed il principale accessorio, il che rende lo stile confuso ed inviluppato, perché la sintassi ed il raziocinio sono legati in un modo, e le rappresentanze, che le parole destano nell’immaginazione, in un altro. Ora, le idee si associano nella mente o per immediata successione di tempo, o per coesistenza di luogo, o per similitudine di qualità. Se dunque la differenza fra le sensazioni combinata col loro maggior numero compossibile abbellisce lo stile, eccellenti saranno le accessorie che hanno coesistenza di luogo, o successione immediata di tempo e differenza di qualità; o, viceversa, similitudine di qualità e differenza di luogo o di tempo.

Oltre il numero delle sensazioni, oltre la scelta di quelle che si ripercuotono tra di loro, e di più l’idea principale, debbesi considerare nella scelta delle idee accessorie la quantità dell’interesse delle sensazioni medesime. Le sensazioni sono più o meno interessanti a misura che sono più precise e determinate, a misura che sono più vivaci, a misura che sono più grandi e più varie; e tutto ciò fino ai limiti posti ad ogni intelletto, oltre i quali nasce il dolore e la confusione.

Sono ancora le sensazioni più o meno interessanti a misura che nascono da oggetti più o meno piacevoli, più o meno dolorosi; anzi egli è conosciuto fenomeno che noi preferiamo nelle belle arti la nera e tenebrosa immagine del dolore alla ridente e serena del piacere, sia per un tacito paragone che noi facciamo della nostra coll’altrui situazione, perché l’eccitarsi in noi simili idee ci faccia avidamente correre all’esame dell’attuale stato nostro, e questo esame attuale non può farsi se non si risvegli la nostra attenzione a considerare quella folla di minutissimi piaceri di cui la nostra vita è quasi continuamente inondata, e che sono cotidianamente per noi perduti a cagione della torbida rammentanza del passato e degl’inquieti nostri slanci nell’avvenire; sia perché nei quadri tristi e patetici, quantunque i punti principali sieno dolorosi, pure nella moltiplicità delle sensazioni componenti ve ne sia un maggior numero di piacevoli, o perché, occupati sempre più di noi stessi che delle altre cose, il piacere non è così forte come il dolore per obbligare l’attenzion nostra, per la quale attenzione noi siamo meno obbligati agli oggetti provanti piacere che a quelli sofferenti dolore, per il che questo secondo più infallibilmente che non il primo ci guarisce dalla noia, che esclusivamente ad ogni altro sentimento ci crucia e c’infastidisce; sia perché l’immagine degli oggetti che, presenti, sarebbero dolorosi, essendo necessariamente più debole, rientri nei limiti del piacere; sia finalmente perché questo misterioso piacere appartenga ad un sesto senso interiore, il quale non corrisponda immediatamente agli oggetti esterni, ma bensì solamente alle sensazioni prodotte da’ suddetti oggetti: fors’egli communica e penetra tutto il dominio de’ sensi esterni. Pare che le associazioni delle idee appartenenti a’ sensi differenti non possano farsi che per un legame comune. Forse questo legame è anch’egli occasione di una terza specie di sensazione, oltre le due associate.

Comunque sia di questa importante materia, a me basta qui il supporre la verità del fenomeno, da tutti quelli che hanno scritto di belle arti egualmente ammesso, e conosciuto e sperimentato da chiunque, toccandosi internamente, si sarà sorpreso contemplante con piacere, non colla presenza dell’oggetto, ma colla sempre debole immaginazione, il quadro delle miserie altrui. Altrove sarà detto ciò che io ne penso su questo sesto senso.

Al numero ed alla varietà delle sensazioni è preferibile la grandezza e la vivacità di esse, perché l’attenzione è meno divisa e la facilità del concepimento più ovvia; ma, quanto sono più grandi e più vive le sensazioni accessorie, tanto minor numero ne soffre intorno a sé l’idea principale; altrimenti l’attenzione resterebbe isolata alle parti, e non distribuita sul tutto.

Quando le sensazioni sieno picciole e di poca importanza, allora bisogna supplire colla moltiplicità e coll’ordine alla mancanza d’interesse di ciascheduna in particolare. Ho detto che bisogna supplire colla moltiplicità delle idee accessorie, le quali non saranno tali se non sieno sensibilmente differenti tra di loro, e tutte ben precise e determinate. Così col numero di varie sensazioni verremo a formare una quantità d’impressione eguale ad ima più grande e più importante. Tutto dunque si riduce a destare in ogni momento una tal determinata quantità di sensazioni, al di là della quale l’immaginazione soverchiata si ottenebra e si stanca, ed al di qua resta languida, inquieta, e più oltre desiderante.

Ma come potrà mai determinarsi questa quantità d’impressioni, attesa la varia natura delle menti umane? Rispondo che questa varietà di menti umane consiste piuttosto nelle diverse qualità d’idee, che nella diversa quantità di esse che possano contemporaneamente esser presenti alla mente. Gli oggetti presenti inondano tutta la nostra attenzione, e col numero e colla vivezza delle loro percosse destano un maggior numero d’idee dentro di noi; pure, anche nell’osservare la moltiplicità degli oggetti presenti, noi con rapida, ma vera successione fissiamo l’attenzione ad un oggetto solo s’egli è sufficientemente grande, e a due o tre se sono piccioli. Ora, lo stile, per quanto fedele rappresentatore egli sia delle sensazioni presenti, non potrà giammai uguagliare la vivacità attuale degli oggetti; dippiù, la presenza delle cose ci entra nella mente, sia che vi c’interessiamo, sia che non vi c’interessiamo; e, nel primo caso, di più masse l’attenzione ne sceglie una sola per volta, le altre trascurando. Ora, lo stile ci deve interessare ad ogni momento: la quantità dunque dell’impressione che si deve procurar di eccitare ad ogni momento sarà eguale alla massa degli oggetti che l’attenzione considera in una volta. Ma l’attenzione veramente non considera che tre o quattro idee in una volta: dunque la quantità delle impressioni momentanee non sarà mai maggiore di tre o quattro sensazioni; quando sieno di più, bisogna dividere in due impressioni o, per dir meglio, in due tempi d’impressioni, le sei o le otto sensazioni che si debbono eccitare: ora, queste sei o otto sensazioni o non saranno punto o non saranno almeno ugualmente associate o associabili tra di loro. Nella disposizione, dunque, e nella divisione di queste sensazioni faremo in modo che quella delle tre o quattro prime che sarà più atta, perché più associata, a destare alcuna delle ultime tre, sia quella che dia il passaggio dalla prima alla seconda serie di sensazioni.

Nella moltitudine degli oggetti presenti ogni oggetto può essere considerato da sé, e può essere considerato in azione, o come avente una tal determinata proprietà, la quale azione o proprietà suppone l’esistenza dell’oggetto medesimo: così le parole rappresentano o le cose medesime, o le azioni e le proprietà delle cose; ma le parole rappresentanti azioni o proprietà delle cose non potranno essere ben percepite né gustate senza che vi sia espressamente o tacitamente la parola esprimente la cosa. Se dunque in una serie d’idee e di parole noi disporremo le parole rappresentanti o azioni o proprietà in maniera che quelle che formerebbero un oggetto solo non vadano riunite, ma bensì da altre separate – per esempio, avendo due oggetti da rappresentare come uniti, intralceremo le idee dell’uno con quelle dell’altro, – noi verremo a sforzare l’attenzione sul tutto, e faremo correre l’immaginazione eccitata dalla curiosità su tutt’i lineamenti del quadro; per esempio, quando Virgilio dice:

extinctum nymphae crudeli funere Daphnim

flebant,

i due oggetti nymphae flebant e il Daphnim extinctum crudeli funere possono essere considerati separatamente da sé, dicendo così: nimphae flebant Daphnim extinctum funere crudeli: allora l’immaginazione considera solamente il pianto delle ninfe, e poi passa a considerare la morte di Dafni; il che non forma un quadro riunito, ma bensì due rappresentazioni differenti. Per lo contrario, nel verso virgiliano la parola di proprietà della morte di Dafni è riunita coll’oggetto nymphae: extinctum nymphae; e la parola di proprietà delle ninfe è riunita coll’oggetto Daphnim: Daphnim flebant.[1] È dunque sforzata l’immaginazione a considerare contemporaneamente i due oggetti. Ecco dunque in che consiste l’ordine nello stile: in due artifici, cioè nel dividere le serie di sensazioni in serie parziali, passando dall’una all’altra pel legame delle associazioni; e l’altro nello sforzare l’attenzione su tutto il fascio delle idee che si debbono rappresentare simultaneamente.

II. Delle idee espresse e delle idee semplicemente suggerite

Un’altra osservazione, non meno importante che generale, sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie possono produrre quando siano espresse co’ termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente suggerite o destate nell’animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse nuocerebbero al fascio intero delle sensazioni; destate solamente lo giovano, non solo perché la picciola fatica che facciamo e l’applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l’attenzione sul restante, ma molto più perché è legge della nostra sensibilità che tutt’altra forza abbiano le idee espresse e le tacciute, e tutt’altra attenzione esigono da noi quelle che queste. Ora, le attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra di loro e scemano l’attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggieri di attenzione, che balenano in noi per le idee accessorie semplicemente destate e non espresse, accrescono il numero delle sensazioni senza nuocere all’attenzione ed all’energia del tutto. Abbiamo dimostrato che la quantità d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perché per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell’oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della parola visibile o auditiva: se noi dunque volessimo tutte le accessorie che si tacciono esprimere, verressimo ad offendere quella legge che determina e limita la quantità d’impressioni simultanee, oltre la quale o lo sforzo della mente si porterà su tutte le idee espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione delle parti, o solamente ad alcune noi faremo attenzione, cioè solamente di alcune l’immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le altre parole, rimanendo insignificanti, faranno interruzione al senso, e distruggeranno l’effetto delle altre in vece di aumentarlo.

Se dunque una parola racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come spada, esercito, nave ecc., cosicché la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l’una che l’altra delle sensazioni componenti, ma sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta, accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un’idea principale vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza alla principale, ma invece un molto maggior numero, quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di spada, esercito, nave ecc.: e tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l’effetto reale che ne succede si è che la fantasia nostra resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece de’ nomi spada, esercito, nave ecc., si dicesse ferro, soldato, vele, e che questi nomi si condensassero attorno ad un’idea principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni, comprese nel proprio significato delle tre suddette parole, sono quelle che immediatamente e prima d’ogn’altra si risvegliano nella fantasia; onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di associazione non tralascierà la parola di ferro di suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada; quella di soldato, quelle di esercito; quella di vele, quelle di navi. Ma non essendo queste sensazioni suggerite propriamente associate colle parole ferro, soldato e vele, ma con le idee che queste immediatamente risvegliano, non possono nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò parlato de’ nomi speciali ed appellativi, e de’ traslati.

Le idee semplicemente suggerite non entrano nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle; non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino, onde con minore dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. Quando Virgilio fa dire a Didone:
dulces exuviae, dum fata deusque sinebant,
accipite hanc animam, meque his exolvite curis,
quanta folla d’idee si risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces exuviae; la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll’accennar soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente!

Egli è evidente che una medesima serie d’idee per intervalli di tempo più lunghi occupa la mente se siano espresse, di quello che se siano tacciute, perché un maggior tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si continua la presenza dell’idea corrispondente, di quello che sia consunto nella rapida ed affollata successione d’imagini che per forza di associazione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero che non sarà inutile il qui osservare che molte espressioni non sono preferibili alle altre, se non appunto perché la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmente più breve dell’altra: è più bella e più nobile espressione la parola cocchio della parola carrozza, non per l’azzardo capriccioso dell’esser meno comune ed invilita espressione, giacché tant’altre, che nelle bocche di tutti sieno continuamente, ciononostante né si rigettano, né per meno belle son riputate, ma soltanto perché è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora, se le idee tacciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto concepimento del tutto, oppure la mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l’unità dell’idea principale dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che, rendendo l’accessorio principale, produrrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate d’idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver considerazione; perché tutte le più fine e le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane ed esteriori operazioni dell’intelletto, sotto l’inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano.

Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo, tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l’una l’altra, una sola sarà l’espressa, le altre tacciute; perché se tutte fossero espresse, ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza, che fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della ripetizione delle idee principali: queste si rinfrancano come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara; quelle, ripetute, annebbiano e dissipano l’attenzione dalle principali; per lo contrario, se una sola sia l’espressa, le altre analoghe semplicemente destate, la quantità d’idea e d’impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più grande e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell’udito e dell’occhio, che abbiamo visto che un tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’immaginazione; così veniamo ad ottenere un più grand’effetto in più breve tempo: problema che non è solo l’oggetto de’ meccanici, ma della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia.

In secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed associate: di queste ognuna apre la mente ad una serie d’impressioni, e sono, direi quasi, capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’espresse, perché non si destano reciprocamente, ed è necessaria l’espressione per eccitare, ossia perché la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d’idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale in cui tutte le accessorie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi ed associati tra di loro, e moltissimo colla principale, per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicendevolmente si legano.

Una riflessione soggiungo intorno all’effetto delle idee espresse e tacciute: cioè che tra una espressione e l’altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo dell’occhio, quanto per mezzo dell’udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo; se vi sono idee destate e non espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stanchezza; ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l’aumentata fatica delle espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi e più forti saranno le idee accessorie espresse, tanto più numerose possono essere le idee tacciute, ma necessariamente destate da quelle, perché l’efficacia delle prime tende e rinforza l’attenzione, che con più rapidi voli slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudicare all’interesse del tutto, e perché espressioni più grandi e più forti fermano l’immaginazione di chi legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza e grandezza sua esigga tutto questo tempo maggiore di attenzione, ciononostante la mente, dall’impeto concepito a percorrere una serie d’idee quasi trattenuta, più facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all’occasione di espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell’animo suo, potrà facilmente scorgere che, sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero e percuota improvvisamente l’immaginazione, questa, dopo considerato quell’oggetto, nell’atto che si riscuote e si risveglia dall’intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito all’ordinaria impressione delle cose che le stanno d’attorno, ma sibbene destasi in lei una moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressione che l’ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche de’ monti, ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l’attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l’animo liberamente e senza distrazioni dalla considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si gettano nel minuto e sempre uniforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensì a spinger l’animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le accessorie espresse, la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perché la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente più importanti e più forti potendo essere le destate che l’espresse, si corre rischio che le idee dell’autore siano perdute di vista, e confuso ed interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo abbiamo dimostrato, debbono essere molte, acciocché il numero compensi la debolezza; ma molte idee espresse occupano un tempo ch’esclude molte idee tacciute o sottintese, altrimenti di troppo allontaneressimo il concepimento della idea principale. Le accessorie forti, per una contraria ragione, debbono essere poche in ciascun momento d’impressione; ma poche forti lascierebbero del vuoto negl’intervalli necessari dell’espressione, che da molte idee non espresse debb’essere supplito.

III. Delle idee di cose fisiche e delle cose morali

In due classi principali si divide tutta la folla delle sensazioni che possono servire alla tessitura dello stile: espressioni d’immagini rappresentanti oggetti fisici; espressioni di affezioni di piacere o di dolore degli esseri pensanti, o siano sentimenti morali. Non si vogliono qui confondere le espressioni significanti i sentimenti morali coll’espressioni rappresentanti i segni delle affezioni e passioni nostre: per esempio il muto gemito della tristezza, il raccoglimento attento ed indagatore del vanaglorioso, lo sguardo sottomesso, obbliquo ed incauto di un amante, sono espressioni di fisiche esterne apparenze di queste passioni; ma quando io dico tristezza, vanagloria, amore, esprimo le interne passioni di qualcuno, e sono parole morali quelle indicanti, come tutte quelle che indicano approvazione o disapprovazione, merito o demerito delle azioni degli uomini; come ancora queste: giustizia, onore, legge e simili: tutte queste parole indicano bensì un complesso di azioni fisiche, e perciò di sensazioni, ma hanno relazione al sentimento ch’io provo in quanto io considero tali azioni. Avanti di ricevere le idee che le cagionano, è necessario che le parole morali risveglino le parole significanti le idee, dalle quali risulta la moralità, cioè il sentimento di approvazione o disapprovazione; indicano dunque una maggior copia d’idee, ma più lentamente e difficilmente le risvegliano; risvegliate che siano, il sentimento e l’impressione è più volubile, ma più profonda del sentimento e della impressione dei puri oggetti fisici, perché, come sentimenti morali, sono sentimenti di affezioni piacevoli o dolorose originate da un complesso di molte idee risvegliate dentro di noi; non sono dunque in un istante comprese dalla mente, come l’appariscenza di un oggetto esteriore, ma si sviluppano per un intervallo di tempo più lungo nell’animo nostro. Gli oggetti fisici possono bensì risvegliare alcune idee, ma, queste essendo idee di reminiscenza, la vivacità loro non è proporzionata alla vivacità dell’attuale impressione di questi fisici oggetti, quando, i sentimenti morali essendo tutti interiori sentimenti non aventi esterna attualità, le idee da essi risvegliate sono proporzionali alla impressione ch’essi fanno: dunque le idee eccitate dai fisici oggetti saranno trascurate, e quasi direi cancellate dalla vivacità delle sensazioni presenti; mentre le idee eccitate da morali sentimenti si conserveranno nell’animo, finché durano gli oggetti morali che le cagionano.

Nella scelta delle idee accessorie sarà bellissima quella combinazione in cui all’oggetto morale si dà un aggiunto fisico, ed all’oggetto fisico si dà un aggiunto morale, se si parli di combinazione di accessorie tra di loro; oppure ad idea principale morale, accessorie fisiche; ad idea principale fisica, accessorie morali, se si parli di combinazione d’idea principale con accessorie. I sentimenti morali sono sovente complicati e composti ed avviluppati in molti fascetti di varie e comunicanti tra loro affezioni, e sempre più intense che estese. Passano ciascuni rapidamente, ma s’imprimono con violenza; ne resta, egli è vero, bene spesso un lungo risentimento nell’animo, ma solamente quando noi medesimi ne siamo l’oggetto; e l’affezione che si eccita non è nuda ed isolata, ma pregna di conseguenze e di circostanze appunto accessorie che la richiamano continuamente. Per lo contrario, le immagini fisiche ricevono dal tempo e dallo spazio un’ampiezza ed una presenza la quale ce ne rende più immutabilmente e più costantemente fissa l’impressione, nel medesimo tempo che sono meno complicate e variantisi tra di loro, mentre costante, perpetuo e distinto ne è il modello in natura: dunque l’aggiunto fisico di un’idea morale servirà, conservando l’intensione di quella, dandogli la propria estensione e costanza, a renderla più durevole nell’animo nostro, ad imprimerla più addentro, a dargli tempo, per così dire, ch’essa, ne’ volubili passaggi delle molte idee, gli oggetti delle quali non sono presenti, ma sono rappresentati soltanto, possa internarsi nell’animo, e risvegliarvi il medesimo risentimento che l’attualità dell’oggetto morale produrrebbe. Se l’affezione, ossia il risentimento morale che si esprime, è complicato, la volubilità e l’inviluppamento necessario di quello che confuso divagherebbe nella mente, col soccorso dell’immagine fisica distinta e costante si svolge e si ordina intorno di quella. Noi prendiamo più interesse alle nostre affezioni che alle immagini fisiche, che consideriamo come mezzi eccitatori di quelle, ma più ne prendiamo alle immagini fisiche che alle affezioni altrui; anzi, quelle sono il legame che lega ed unisce le diverse affezioni e personalità, che rimarrebbero isolate ed incomunicanti senza questi comuni ed esteriori vincoli ed oggetti su cui gli uomini agiscono: dunque l’interesse che noi prendiamo all’aggiunto fisico aumenterà l’interesse in favore della idea morale, nella quale con maggiore compiacenza si fermerà.

Per convincerci quanto per lo contrario l’aggiunto morale accresca di bellezza all’oggetto fisico, bisogna riflettere, in primo luogo, che i sentimenti morali, che non sono affezioni semplici di piacere o di dolore, tanto più sono complicati, tanto meno hanno relazione a sensazioni; perché la complicatezza loro fa svanire la chiarezza e la distinzione degli elementi originanti un tale sentimento, restando solamente percepita chiaramente la somma delle impressioni unita alla fisica e presente sensazione visibile o auditiva; ma però tanto realmente, in ultima analisi, si riducono ad una maggior quantità di affezioni semplici, e ad una molto maggiore d’immagini e sensazioni di cose fisiche; dunque l’aggiunto morale aumenterà la copia delle impressioni, e nel medesimo tempo risveglierà in noi nuove sensazioni e più varie, quali sono le affezioni semplici, che sono come la base intorno alla quale s’avviluppa la complicatezza dei sentimenti morali, quando tali aggiunti morali non sieno troppo complicati; e quando lo siano aumenteranno sempre la sfera degli oggetti, e renderannoci sempre più care e più interessanti le immagini, risvegliando dentro di noi alcuna di quelle affezioni che ci toccano più da vicino. Quella puntura e quel fremito interiore che le affezioni e i sentimenti morali ci cagionano, non sono l’effetto della nuda presenza degli oggetti fisici, ma delle azioni loro: quindi gli aggiunti morali anima e vita danno più grande e più evidente alle immagini fisiche; dippiù, i sentimenti morali, attesa la complicatezza loro, più idee risvegliano di quelle ch’esprimono, e diverse in diverse menti. La vivacità delle immagini fisiche, per lo contrario, ch’estensione e grandezza rinchiudono nella loro espressione, minor numero d’idee sottintese desta nell’animo: dunque gli aggiunti morali agli oggetti fisici saranno utilissimi per risvegliar idee che non si esprimono; gli aggiunti fisici agli oggetti morali serviranno a fissare l’immaginazione sopra le idee moltiplici che si risvegliano, e fermar l’attenzione più intorno alla connessione che hanno con tutto il resto, che tra di loro; nel qual caso nascerebbe distrazione dall’oggetto principale.

Con questa regola noi verremo ad abbracciare ambedue le sorgenti e del piacevole e del bello; e l’animo, più variamente commosso, con maggiore alacrità potrà distribuire l’attenzione sul tutto, servendo le idee morali alle fisiche, le fisiche alle morali di vicendevole aiuto, onde la fantasia percorrer possa la catena delle idee tutte che si vogliono rappresentare. Credo di avere dimostrato abbastanza quanto questa alternativa d’idee accessorie morali e di fisiche sensazioni giovino allo stile: queste scolpiscono nella mente la volubile complicazione de’ fenomeni morali, e quelle, richiamandoci in noi stessi o verso i nostri simili, ci rendono più interessanti le immagini.

Ma tra la moltitudine delle idee morali che si possono aggiugnere agli oggetti fisici, o viceversa, quali norme seguiremo noi nella scelta? Rispondo che, volendo aggiugnere immagini fisiche ad oggetti morali, osserveremo prima qual relazione abbia al tutto l’oggetto medesimo, e quanto sia egli complicato: allora noi sceglieremo quell’immagine fisica che sforzerà l’attenzione a quel lato dell’oggetto morale che più interessa nelle circostanze attuali del discorso, oppure, ad eguaglianza di circostanze, quell’immagine fisica che ci palesa un legame occulto e non apparente dell’oggetto morale con altri oggetti, quando però l’attenzione al tutto siane piuttosto per ciò aiutata che disturbata.

Volendo poi dare aggiunti morali ad immagini fisiche, oltre i riguardi generali che noi dobbiamo aver sempre ed in ogni supposizione all’idea principale ed a tutto il fascio delle accessorie, procureremo di dare all’immagine fisica quell’aggiunto morale che mette, per dir così, in maggior azione ed in un moto più vivo e più rapido l’immagine fisica medesima.

IV. Dei contrasti

Uno dei principali fonti di bellezza per lo stile sono i contrasti delle idee fra di loro. Ma in qual maniera le idee possono contrastare? Qual è il senso preciso che si debbe attaccare a questa espressione? Due oggetti contrastano tra di loro: primo, se vicendevolmente si escludano, cosicché l’esistenza dell’uno tolga quella dell’altro; secondo, se questi oggetti siano moltissimo distanti, e molto più se siano estremi fra di loro; nell’uno e nell’altro di questi due casi, parlando di stile, si suppone una terza idea, alla quale le due idee contrastanti si paragonano; e questa terza idea sarà necessariamente la principale, non già le accessorie; perché se la terza idea di paragone è una delle accessorie, questa diviene per un momento anch’essa principale, il che vizia tutta la serie delle idee, e l’attenzione resta intercetta e fluttuante tra due principali. Per lo contrario, il contrasto sarà tra le accessorie, non tra un’accessoria e la principale; e ciò per la medesima ragione, perché quest’accessoria contrastante colla principale diventa tale anch’essa; il che forma due sensi contemporanei nel discorso, l’uno espresso dallo scrittore, l’altro da lui eccitato col vizioso contrasto delle idee.

Ho detto che si suppone una terza idea, alla quale si paragonano le idee contrastanti, e ciò per necessità intrinseca della cosa stessa. Il tempo, il luogo, un oggetto che produca il contrasto di due altri, la persona istessa che lo considera come realmente esistente, saranno sempre, se non altro, la terza idea di paragone, la quale nella mente deve sempre mai eccitarsi; perché, ogni volta che noi consideriamo oggetti come opposti o come estremi fra di loro, non potremmo concepirli come tali, se nissuna comune relazione avessero. Quindi viziosi saranno sempre quei contrasti ai quali manca totalmente – o non è espressa, o almeno non facilmente sottintesa – questa terza idea di paragone; perché tali contrasti sono impossibili, sia nella fisica natura, sia nella morale, o, per parlar più precisamente, sia negli oggetti, sia nei sentimenti.

Un esempio rischiarerà meglio quanto abbiam detto finora. Quando Virgilio dice:
nos patriam fugimus, et dulcia linquimus arva
et campos, ubi Troia fuit,
il contrasto del secondo verso è eccellente, perché adempie alle condizioni sovraccennate. L’idea principale, la fuga di Enea dalla patria, è nel primo verso; le accessorie contrastanti sono i campi, ch’erano città prima popolata e magnifica. L’idea di paragone è l’identità del luogo natale da dove fugge Enea, e questa è l’idea principale; le due accessorie contrastano poi solamente fra di loro e non colla principale.

Ma quando lo stesso Virgilio fa dire:
num capti (Troiani) potuere capi, num incensa cremari
Troia potest?
manca intieramente questa terza idea di paragone, perché non erano gl’istessi Troiani che furono presi e que’ che fuggirono; e Troia incendiata da’ Greci non è lo stesso della flotta d’Enea.

I primi due versi della Farsalia ci danno un illustre esempio di contrasti, uno vizioso e l’altro ottimo:
Bella per Emathios plusquam civilia campos
iusque datum sceleri canimus.

L’idea principale si è «canto la guerra civile fra Cesare e Pompeo». Bella civilia è dunque idea principale; il plusquam idea accessoria, destinata a rappresentarci gli orrori di quella guerra che superò in atrocità tutte le guerre civili, quantunque crudelissime di lor natura, oppure guerra che, quantunque civile, fu come se fosse stata fra stranieri affatto e non fra concittadini, per il furore con cui fu guerreggiata. Io non so discernere qual fosse tra questi due il senso inteso dal poeta; in tale oscurità la terza idea di paragone svanisce affatto; dippiù vi è contrasto tra idea principale ed accessoria, e questo contrasto forma interruzione all’attenzione della proposizione principale dell’autore, che è: «canto la guerra civile» ecc. Il secondo contrasto, iusque datum sceleri, è ottimo perché tutto fra accessorie, e l’idea di paragone apparisce manifestamente, cioè perché è la stessa guerra civile, la quale suole armare gli scelerati del legislativo potere per il ben pubblico istituito. Piacciono i contrasti all’immaginazione, perché occupano maggiormente la nostra sensibilità e ristorano l’attenzione, la quale, aiutata dall’idea di paragone, che suggerisce il contrasto (la quale idea di paragone è anche idea principale), con somma facilità trascorre fra le accessorie contrastanti, nel medesimo tempo che rapidamente le tralucono quelle intermedie che connettono idee opposte o estremamente diverse tra di loro; quindi si viene ad ottenere il principio fondamentale di ogni stile, cioè il massimo di sensazioni compossibili tra di loro.

Il contrasto tra espressioni che immediatamente rappresentano sensazioni piacerà sempre all’immaginazione, perché l’espressione delle due immagini riesce viva e chiara, e la distanza tra le idee contrastanti suggerisce le idee intermedie associate; ma sovente freddo e disgustoso è il contrasto tra le espressioni immediate di sensazioni e le espressioni d’idee complesse o morali, cioè di quelle espressioni di cui la reale idea non può essere risvegliata alla fantasia nostra se prima altre espressioni non si risveglino nella mente, perché viva essendo e rilucente una delle idee contrastanti, cioè l’espressione fisica, attesa la semplicità e la costanza del suo modello, è debole l’espressione morale, perché è divisa e sparsa l’attenzione su molte idee; il contrasto non apparisce, né la mente può slanciarsi con rapidità dall’una all’altra. Similmente sfuggire si debbono per lo più i contrasti fra idee complesse e complicate, perché troppa parte di attenzione sarà tolta alle idee principali per darla a contrasti così imbarazzanti; e sovente tra la moltitudine delle idee è facile che se ne risvegli alcuna che, togliendo il contrasto, ne renda contraddittorio l’effetto, perché un contrasto, espresso come tale in termini complessi, si aspetta sul tutto e non sulle parti, e come tale non riesce nella mente che lo considera.

Tutte queste riflessioni ci fanno ancora chiaramente vedere che tra le idee contrastanti vi debb’essere proporzione, cioè che tanta parte di sensazione risvegli l’una quanto l’altra. Dice Virgilio: et campos, ubi Troia fuit. Dice Ovidio: et seges est, ubi Troia fuit. Ognuno vede più bello essere il contrasto di Virgilio che quello di Ovidio. Vasta è l’idea di Troia, ed indeterminata a tutto ciò che vi si conteneva; vasta parimenti è l’idea di campo, e indeterminata a tutto ciò che vi si può considerare; ma l’idea di seges è precisa e determinata, e più ristretta di quello che non sia l’altra parte del contrasto, cioè Troia. Nell’uno la fantasia trasceglie ciò che le piace di far contrastare, o ciò che è più analogo all’abituale corso de’ suoi pensieri; perché sceglierà il pittore nella sua immaginazione perché contrastino tra di loro le altissime torri di marmo colle umili capanne di paglia; l’uomo di mondo, la frequenza strepitosa del popolo colla muta solitudine di una boscaglia; e il pensatore, la volubile molteplicità degli affari e dei piaceri colla taciturna ed immobile semplicità della natura. Nell’altro la fantasia è determinata ad un oggetto limitato.

Inutile sarebbe il qui diffondersi sulla volgare, ma verissima osservazione intorno l’essere viziosi i contrasti di parole fra di loro, o di parola con cosa; essere necessario che i contrasti siano fra le idee, anzi fra le idee del medesimo genere o, per dir meglio, appartenenti a’ medesimi sensi; perché, quantunque le idee d’un senso per il legame di associazione risveglino quelle dell’altro, non si escludono però necessariamente l’una l’altra, o non formano tra di loro una serie continua di fenomeni crescenti e decrescenti, per cui divengono termini reciprocamente estremi l’una delle altre; condizioni da me sopra indicate essenziali per formare un contrasto; quindi, oltre la verità del contrasto, vi si richiede ch’egli sia necessario, e che tale apparisca nel discorso, perché, se accidentale sia, la mente nostra da quello piuttosto si allontanerà, di quello che fosse inclinata ad avvicinarsi, correndo noi, deboli e desiderosi di molto, per inerzia d’animo verso le analogie piuttosto che verso le differenze.

Egli è perciò che stili ne’ quali i contrasti siano troppo frequenti e ricercati stancano finalmente ed annoiano: bellissimi per lo contrario sono quelli dove sono inaspettati ed improvvisi, e che dopo una moltitudine di cose non contrastanti ci si presentano. Anzi, se dopo una serie d’idee che vadano per successive differenze e gradazioni di una facile varietà nutrendo la mente, e conducendola ad idee sempre più distanti e lontane tra di loro, il discorso sia chiuso col riunire ed avvicinare i due estremi, allora un tal contrasto, reso facile dalla mente preparata, sarà come un lampo vivissimo, che, illuminando tutta la serie passata delle intermedie, queste saranno in un fascio ed in un momento dall’attenzione rinvigorita raccolte e fermate.

Non sarà, cred’io, inutile il chiudere questa materia de’ contrasti col riflettere a due fenomeni molto diversi nelle due specie di contrasti da noi distinte: contrasti di cose escludentisi, contrasti di cose estremamente distanti. Nelle cose che si escludono reciprocamente, di cui la presenza dell’una toglie quella dell’altra per legge di continuità, l’eccesso della prima va sempre decrescendo fino ad un punto medio, oltre il quale l’altra comincia a prevalere, e cresce fino all’altro eccesso: il passaggio dalla luce alle tenebre, dal più chiaro mezzodì alla notte la più fitta, fassi per mancanza di luce e per successivi accrescimenti di tenebre e per insensibili crepuscoli; ma nelle cose estremamente distanti, e che hanno una comune natura, cominciano dal poco, giungono ad un massimo punto, e di poi ritornano al poco: il giorno comincia da un languido e dubbio chiarore, cresce fino ad una luce manifesta e vivacissima, indi ritorna a’ medesimi principii. Con questa riflessione il contrasto del primo genere sarà bellissimo per se stesso, perché, oltre la massima differenza delle idee contrastanti, suggerisce necessariamente le idee intermedie di passaggio; il contrasto del secondo genere dovrà, per esser bello, attesa l’uniformità dei due estremi, essere espresso in modo che suggerisca ed accenni il termine di mezzo, che è il più vivo ed il più interessante.

Tutto ciò sia detto intorno ai contrasti presi sulle diverse maniere di esistere d’uno stesso oggetto. Contrasti vi sono di cose e di oggetti isolati tra di loro, ma che coesistono, o almeno come coesistenti si considerano in una maniera o opposta, o estremamente distante; queste ultime riflessioni non sono applicabili a questo genere di contrasti intieramente. Gioverà solo per ultimo il qui soggiungere che, di tutti gli oggetti che cadono sotto il dominio dello stile, dominio che si estende alle cose tutte o a tutte le sensazioni, il principio, il mezzo ed il fine saranno le epoche che sceglierà lo scrittore per dipingere o scolpire nella mente gli oggetti tutti: il principio ed il fine, perché questi sono i momenti in cui un fenomeno nasce da un altro, ed un altro ne produce; esprime perciò non solo se medesimo, ma altri oggetti, e la sensazione suggerisce altre sensazioni; il mezzo, perché in esso consiste il massimo punto di attività della cosa medesima, ed è come il centro ed il fuoco in cui le qualità tutte di un oggetto sono nella massima loro combinazione. E queste ragioni, da me assegnate per provare la bellezza di queste tre epoche di ciascuna cosa, indicano i diversi casi ne’ quali dobbiamo scegliere piuttosto l’una che l’altra. Ciò che dunque viene da’ grandi filosofi suggerito per iscoprire gli andamenti occulti e continui della natura, deve imitarsi nelle belle arti, che altro non sono che richiami ed accozzamenti artificiosi delle apparenze esterne della medesima, punto comune d’appoggio da cui le più divergenti cognizioni partono ed a cui ritornano.

V. Di un altro genere di contrasti

Havvi un’altra sorte di contrasti, della quale giova qui accennar qualche cosa. Questa è l’effetto che prova l’animo nostro quando è sorpreso improvvisamente dall’impressione di qualche nuovo oggetto: perché allora o dobbiamo supporre che la nostra mente sia talmente quieta, che abbia poche idee e poco vive, oppure molto equilibrate tra di loro, ma sempre in maniera che nissuna di queste idee contrasti colla nuova impressione che improvvisamente si eccita nell’animo, e in questo caso la sorpresa sarà minore e appena momentanea; ma se l’animo nostro, nel momento della sorpresa medesima, è di molte idee occupato, e che o tutte o le principali fra queste idee siano talmente disparate o opposte a ciò che improvvisamente succede, di maniera che tutt’altro, anzi l’opposto si aspetti e si prevegga, nascerà la meraviglia e la sorpresa, tanto maggiore quanto maggiore sarà il contrasto tra il fatto e l’aspettazione nostra: in tal caso bisogna distinguere se l’avvenimento che ci sorprende è interessante in modo che sia atto a destar in noi affetto o passione di qualunque sorte, perché allora l’animo dalla sorpresa balzerà nell’affetto che si debb’eccitare, e proverà compassione, gioia, collera o checché altro si sia; ma se l’avvenimento non è per noi così interessante che possa risvegliar affetto, allora continuerà la sorpresa, e si manifesterà per segni esteriori il contrasto della nostra mente; la quale, non trovando un affetto o un sentimento vivo sul quale fermare la propria attenzione, oscillerà continuamente dalle idee presenti del fatto allo stato anteriore delle sue idee disparate ed aliene, anzi spesso opposte a quest’ultime idee; onde la di lui sorpresa comincierà e finirà ad ogni momento, perché le idee attuali la fanno finire, e le idee immediatamente anteriori, non ancora svanite dalla mente e tolte dal fatto presente, la fanno ricominciare col ricorrere innanzi alla fantasia; onde, finché non sia cessata la vivacità delle une o delle altre idee, e non sia restituita al primiero stato la mente, durerà questa oscillazione, della quale il segno esteriore sarà il riso, il quale, da chi ben l’esamina, troverà essere composto del medesimo grido che naturalmente esprime negli uomini la meraviglia e la sorpresa; con questa differenza, però, che l’esclamazione della meraviglia semplicemente è momentanea e passaggiera, ma nel riso si ripete con frequenza, finisce e ricomincia di nuovo per un tempo sensibile. Sembra adunque che si rida ogni volta che vi sia contrasto tra idee altrimenti aspettate ed altrimenti avvenute, quando però non sieno talmente interessanti che un altro affetto prevalga nell’animo, e finché la disparità o l’opposizione tra le idee sia vivamente presente nell’animo, cioè finché sono amendue attuali nella fantasia tali idee contrastanti. Ridono di più gl’ignoranti che gli uomini colti, perché questi trovano minori occasioni di sorpresa contrastante colle proprie idee, le quali molte essendo e più pieghevoli e volubili, cessa più presto quella resistenza e quel contrasto che prova la fantasia nel dover contemporaneamente a cose disparate ed opposte por mente. L’uomo colto trova subito idee intermedie onde connettere le idee opposte e disparate: vi riflette e vi s’interessa; onde cessa in lui più presto quell’oscillazione della mente a cui corrisponde il segno esteriore del ridere. Quindi è la differenza che passa tra il leggiero sorriso del saggio e lo sgangherato ridere dello sciocco; quegli non ride per lo più delle cose di cui ride questi; degli scherzi di parole, per esempio, perché l’uomo più colto è più fermamente e per isperienza e riflessione persuaso che le parole sono segni niente connessi per intima natura e corrispondenza colle cose che rappresentano, ma solamente per associazione, onde corre subito dai segni alle cose rappresentate, né, trovando in esse alcun contrasto e alcun motivo di sorpresa, non ride; per lo contrario lo sciocco, confondendo e giudicando della diversità o simiglianza delle cose per quella delle parole, ride immediatamente, non essendo avvezzo né spinto a portar più oltre la riflessione. Per lo contrario, di molte cose ride il saggio di cui non ride lo sciocco, cioè dove il contrasto e la sorpresa non sono immediatamente espressi, ma si nascondono dietro rapporti fini d’idee, e richieggono, per essere sentiti ed eccitati nell’animo, qualche momento di riflessione. Gli uomini faceti e lepidi dicono e sanno trovar cose che fanno rider gli altri senza ch’essi ridano, perché sanno l’arte di nascondere quelle idee che farebbero svanir la sorpresa ed il contrasto; essi non ridono perché veggono la connessione, ma fanno ridere perché hanno l’artificio d’impedir che gli altri la veggano immediatamente. Gli uomini freddi e tranquilli ridono rade volte; gli uomini agitati anche sovente da passioni triste e malinconiche, gli uomini occupati intorno ad idee che mediocremente interessino (dico mediocremente, perché il predominio troppo forte di un’idea interessante impedisce l’attenzione ad ogni altra cosa), ridono più facilmente se queste idee siano di quel genere che possino generar sorpresa colle altre, cioè trovarsi in opposizione cogli avvenimenti che accadono: questi fenomeni possono, cred’io, provare abbastanza la verità della mia proposizione, che io lascio alla matura considerazione di quelli che si occupano dello studio dell’uomo; mentre troppe cose sarebbero da dirsi, per esaurire questo argomento, che mi devierebbero troppo lungamente dal mio soggetto. Dall’altra parte, qualche cosa doveasi da me accennare, acciocché ognuno cavi da quanto ho detto che sia e come si acquisti lo stile faceto: cioè unendo accessorie talmente disparate ed opposte tra loro e le principali, che facciano tutt’altro aspettare e tutt’altro realmente dicano, che si trovino unite per una vera ma non aspettata connessione di fatto, ma non per analogia e probabile relazione, senza che però destino altri affetti ed interessi, o siano talmente incongruenti e deformi tra di loro e colla idea principale, che noia, dolore o confusione si generi invece di riso. Osservabile fenomeno si è che ogni nostro ridere non versa intorno ad idee puramente di cose fisiche, ma morali; cioè ha sempre relazione all’intenzione ed alle idee di un altro uomo, o almeno di un altro essere sensibile; ciò si spiega, cred’io, dall’istessa origine e natura da noi stabilita del ridere; poiché gli oggetti fisici considerandosi come distaccati ed indipendenti gli uni dagli altri, e facendo un’impressione vivace e forte per le qualità di cui sono rivestiti, non fanno nascere una serie d’idee e di analogie, per cui l’animo, senza interessarsi molto, da una cosa tutt’altro si aspetti, e tutt’altro ritrovi improvvisamente avvenuto. Siamo troppo avvezzi a considerare gli effetti opposti e contrari delle cose, da una parte, e dall’altra la compagnia e le relazioni che abbiamo cogli esseri sensibili ci accostumano e ci sforzano ad argomentare continuamente da tali segni tali intenzioni; onde il nostro ridere avrà sempre relazione a qualche sentimento o affezione morale, perché per lo più questi soli possono generare in noi argomentazioni e conghietture che cagionino quella specie di contrasto combinato colla sorpresa da cui il ridere deriva.

Non basta che il contrasto combinato colla sorpresa, da cui abbiamo derivata l’origine del ridicolo e del riso, sia negli oggetti che si presentano, ma è necessario che questo contrasto sussista nella mente di chi lo considera, e vi sussista in modo che dia luogo ad una continua replicazione del sentimento di sorpresa e del segno suo corrispondente. Ora, perché il contrasto duri e richiami continuamente la sorpresa alle occasioni degli oggetti che ci fanno ridere, è necessario che noi rapportiamo gli avvenimenti e le azioni che chiamansi ridicole ad un fine che l’autore dell’azione e dell’avvenimento si sia proposto, o supponiamo abbia voluto proporsi, perché, avendo sempre di mira i mezzi che conducono ad un tal fine, e trovandosi il fatto contrastare con il fine che pur vediamo manifestamente essersi proposto, abbiamo immediatamente un contrasto che riproduce una continua sorpresa: quindi è che gli oggetti insensibili, ai quali nissun fine, nissuna intenzione, nissun proponimento possiamo supporre, quantunque contrastanti sieno tra di loro, quantunque producenti un’immediata sorpresa, questa non dura, e quelli non ci fan ridere; quindi è parimenti che i fanciulli e i selvaggi, che danno alle cose una specie di vita e di senso simile al loro, ridono con oggetti insensibili, ai quali attribuiscono intenzioni e fini nelle azioni ed effetti da quelli prodotti. Da qui si può in un tratto vedere come la deformità sia una delle più ampie sorgenti del ridicolo, perché deforme è quella cosa che trovasi fatta in maniera che per qualche riguardo contradice più o meno a quel fine a cui, per vari altri riguardi, non possiamo a meno di non considerarla come destinata.

VI. Degli aggiunti

Una delle parti più difficili e più delicate dello stile sono gli aggiunti (o siano gli epiteti), i quali tanta bellezza aggiungono al discorso, ne aumentano l’energia, e, stringendone l’espressioni in uno spazio più angusto, in ogni istante occupano maggiormente la nostra sensibilità. Vedrà ognuno ch’essi non debbono essere inutili ed oziosi, e che aggiunti di tal natura fanno vacui noiosi, o languide ripetizioni di cose già dette; ma, di molti aggiunti che si presentano alla fantasia di chi scrive, quali norme seguiremo per la scelta? Il nostro principio generale servirà in ogni caso a farci cogliere il migliore, che sarà appunto quello che, unito col fascio delle idee accessorie, ecciterà in noi il massimo di sensazione.

Una breve analisi della natura degli aggiunti ci rischiarerà sull’applicazione del principio. Gli aggiunti che si danno ad un oggetto indicano o le qualità permanenti dell’oggetto medesimo, o le qualità passaggiere e mutabili, o le passioni de’ medesimi. E questi oggetti o sono nel discorso indicati coi nomi speciali e propri, o coi nomi generali ed appellativi. Agli oggetti che sono composti di qualità permanenti molto diverse e varie tra di loro, potremo dare un aggiunto esprimente la più viva, la più sensibile ed interessante di quelle, avuto sempre riguardo alla combinazione intiera della principale colle accessorie; ma quando tra le permanenti non ve ne siano di sufficientemente vive ed interessanti, noi le sceglieremo tra le passaggiere e mutabili. È necessario qui riflettere due cose: la prima, che l’estensione ed il moto sono tra le qualità permanenti e passaggiere le più interessanti ordinariamente in un oggetto fisico. L’estensione, perché tante sono le sensazioni moltiplici, quantunque uniformi, quanti i punti fisici che la compongono; e queste sensazioni essendo permanenti per quanto tempo l’oggetto è presente, chiara e facile riesce l’immagine: quindi è che la memoria e l’immaginazione delle cose vedute è sempre più viva della memoria e immaginazione delle cose udite, gustate o toccate: anzi le idee della vista quelle sono che facilitano a richiamare tutte le altre. Se il tatto è quello che rettifica tutt’i nostri sensi, s’egli è quello che ci dà l’idea delle cose com’esteriori e realmente esistenti, può dirsi che la vista sia il senso che serve alla riunione ed all’associazione delle idee medesime. Di più, coll’estensione vanno sempre accompagnate le primarie sensazioni di colore e di figura, di cui le une vestendo e variando gli oggetti, e le altre limitandoli e separandoli reciprocamente, formano la più vasta e più dilettevole provincia di tutto il regno delle idee. Il moto poi piace sommamente, perché, oltre l’estensione dell’oggetto in movimento, che suppone necessariamente, egli non è altro, per chi lo considera, che un’applicazione continua e successiva della medesima estensione, ossia del medesimo corpo ad altre estensioni e ad altri corpi: dunque l’espressioni dei movimenti indicano e rappresentano non solamente il corpo mosso, ma suggeriscono ed eccitano necessariamente immagini di altri corpi, e degli spazi che si percorrono; il che, facendo crescere la copia delle sensazioni, ottiene il fine generale dello stile. Dunque estensioni figurate o colorate tra le qualità permanenti, e moti tra le passaggiere e mutabili, saranno le preferite da noi, e, ad eguaglianze di circostanze, più le seconde che le prime, perché le prime sono più facilmente dal nome dell’oggetto suggerite, perché costanti, di quello che le seconde, perché non sempre con esse accoppiate.

In secondo luogo, bisogna aver moltissimo riguardo alle idee che si richiamano dal nome dell’oggetto medesimo. Gli oggetti altro non sono per noi che la somma di tutte le qualità riunite costantemente insieme: qual ne sia il legame o la realità o la sostanza, o checché altro si dica, è ignoto per noi, e lo sarà perpetuamente. Dunque il nome dell’oggetto richiama sempre, e non altro richiamerà mai, se non alcuna delle qualità che lo compongono. Dunque negli aggiunti dovremo guardarci ordinariamente da quelli che ripetessero quella qualità che è più facilmente e comunemente suggerita dal nome dell’oggetto: dico ordinariamente, perché se il discorso e le idee principali vertono appunto intorno a quella tal qualità o intorno a cose analoghe, allora l’insistenza su questa qualità rinforza l’idea principale, e diventa bello ciò che in ogni altro caso sarebbe disgustoso e spiacevole. Fuori di ciò, noi allora ricorreremo alle meno ovvie qualità dell’oggetto medesimo, e tra le meno ovvie sceglieremo la più grande, la più forte e la più sensibile di tutte.

Gli aggiunti dunque di oggetti di qualità molto uniformi e troppo apparenti non saranno scelti su le qualità le più dominanti, quantunque le più sensibili, ma tra quelle che sono meno immediatamente suggerite dal nome. Così, noioso ed intolerabile è il dire bianca neve, perché il nome di quella immediatamente risveglia la bianchezza, e non altro quasi risveglia; sarà però più soffribile e meno ingrato il dire la fredda neve, sì perché l’aggiunto non è immediatamente suggerito dal nome, e non esclude la percezione della qualità dominante, che è la bianchezza, dal nome di neve sufficientemente indicata; ma ancora perché l’aggiunto di fredda indica necessariamente una viva sensazione appartenente a tutt’altro senso che a quello della vista: onde due sensi sono occupati col dire fredda neve, ed un solo col dire bianca neve. Ma perché mai non siamo offesi, anzi piuttosto ci piace il dire il bianco fiocco di neve, spiacendoci nello stesso tempo bianca neve? Il nome di neve, in primo luogo, risveglia l’idea di un volume sufficientemente grande, onde la ripetizione di questa qualità dominante non fa che allungare l’uniformità di una tale sensazione; ma la voce di fiocco indica una minima particella, e però una picciola sensazione. L’aggiunto di bianchezza dunque non fa che ingrandire e fermare nella fantasia una qualità che le sarebbe sfuggita. In secondo luogo, la parola di fiocco suggerisce non così immediatamente la bianchezza, come la figura e la disposizione delle parti. Per lo contrario, chiara è la ragione per cui ci piacerebbe l’aggiunto di bianca alla neve, dicendo, per esempio, donna più bianca della bianca neve. L’idea principale è la bianchezza somma di una donna; dunque la lunga e replicata estensione dell’espressione della bianchezza non fa che rinforzare l’idea principale.

Sonovi aggiunti che indicano le azioni e le passioni delle cose, e sotto ciò io comprendo gli usi di quelle, gli effetti che indi ne nascono, le cagioni da cui procedono: questi aggiunti sono sempre più piacevoli che gli aggiunti di qualità, massime permanenti, perché rinchiudono nel medesimo spazio una maggior quantità d’idee, e spingono la mente in una più densa, per dir così, atmosfera di sensazioni: queste per lo più o non sono del tutto o solo debolmente suggerite dal nome degli oggetti; quindi non sono così facilmente nella classe delle idee destate, ma esigono l’espressione perché la fantasia nostra sia sforzata a considerarle.

Prima di procedere più oltre, bisogna farci a considerare la diversa natura delle impressioni che in noi eccitano i nomi speciali e propri, e i nomi generali ed appellativi. Nomi propri e speciali propriamente sono quelli che significano individui isolati indipendentemente dalla considerazione di altri individui simili, o in tutto o in parte; nomi generali ed appellativi quelli sono che significano una serie d’individui simili, o in tutto o in parte, cosicché rappresentano ciascuno in particolare e tutti in generale; perciò, a chi sottilmente considera, ben lontani di rappresentare un’idea o una nozione, involgono un tacito e rapidissimo paragone che fa la mente nostra schierandosi dinanzi una moltitudine d’individui, di cui ne considera la somiglianza, ossia il rapporto comune. Tutt’i nomi in tutte le lingue sono stati appellativi, il minor numero de’ quali poi ha preso il significato di nome proprio, secondo i diversi bisogni che diversi uomini e diverse società hanno avuto di distinguere le cose simili tra di loro; il maggior numero però ha conservato la natura di appellativo, con questa differenza, che alcuni lo sono meno, ed altri più; cioè alcuni si estendono a meno individui, ed altri ad una maggior quantità di essi. Per esempio, uomo è più speciale e meno appellativo di animale, ed animale è meno di essere, e cittadino ed italiano sono a diversi riguardi meno di uomo appellativi, e più speciali. A misura che questi nomi divengono più generali e più appellativi, cresce la moltitudine degl’individui ai quali convengono: ora, crescendo il numero degl’individui, s’indebolisce la somiglianza che questi molti individui hanno tra di loro; ma il nome appellativo non può rappresentare molti e diversi individui, se non per le somiglianze che hanno tra di loro: dunque quanto più il nome sarà appellativo e generale, tanto più si ristringerà il significato ad idee più poche e più deboli, quantunque abbia un significato numericamente più esteso. Quanto dunque i nomi saranno più appellativi e generali, crescerà per l’attenzione la difficoltà di non pensare soltanto alle deboli somiglianze che restano ancora tra di loro, piuttosto che alle molte differenze per le quali si distinguono; questi nomi allora risveglieranno un giudizio tacito, anzi spessissimo una serie di giudizi che, istituendo altre idee principali, alieneranno la mente e diminuiranno la forza e la vivacità di tutta la combinazione delle idee, o per lo più, come abbiamo accennato nel principio di queste Ricerche, diverranno formole meramente meccaniche, visibili o auditive, restando nella mente affatto insignificanti e tenebrose. Per le medesime ragioni, quanto i nomi sono più speciali e meno appellativi, estendendosi ad un minor numero d’individui, rappresenteranno un maggior numero d’idee con maggiore nettezza e precisione, perché maggiori saranno le idee simili per cui combinano questi più pochi individui dal nome più speciale significati. Dunque i nomi quanto più speciali saranno, ecciteranno sensazioni sempre più intense e profonde; e i nomi quanto più generali ed appellativi saranno, ecciteranno sensazioni tanto più estese e più superficiali. A questi nomi dunque appellativi e generali possono convenire aggiunti che significano qualità permanenti; perché tali aggiunti essendo nomi speciali di sensazioni, sforzeranno la fantasia, che scorrerebbe leggermente per l’esteso significato del nome appellativo, ad internarsi nelle qualità particolari di qualcuno degl’individui simili rappresentati da quello, e daranno alla espressione una realità ed una esistenza meno fuggitiva e meno nebbiosa, come suole avvenire ne’ discorsi tessuti di nude parole di questo genere.

Non è però che tali nomi debbano escludersi; essi sono indispensabili spessissimo, anzi talvolta utili ad ornare lo stile medesimo, perché se una parte di una proposizione principale avrà accessorie significanti sensazioni vive, speciali ed intense, l’altra parte, che completa la medesima, potrà avere accessorie di nomi appellativi, che daranno estensione ed ampiezza alle prime, nello stesso tempo che la mente variamente commossa prenderà alacrità e ristoro.

Fra i nomi appellativi e generali, quelli saranno più da sfuggirsi che non risvegliano idee, se prima non risvegliano nomi subalterni, che le idee poi particolari di tali nomi generalissimi suggeriscono: chiara ne è la ragione a chi considera che noi dobbiamo, acciocché l’espressioni facciano la massima impressione, sfuggire tutte le idee oziose che intralciar si potessero fra le utili e significanti; e tali sarebbero tutte le idee auditive o visibili di parole che dai nomi troppo generali sono sempre suggerite, le quali, intersecando il discorso e ficcandosi tra l’espressione e l’idea, ne impediscono quell’immediato e rapido eccitamento per cui la parola dall’idea debb’essere il meno che sia possibile distante; onde i risentimenti nostri interni siano tutti d’idee reali e significanti, e le idee visibili ed auditive non siano niente di più che meri mezzi eccitatori. Ed è appunto questa ridondanza di parole e questa copia d’idee semplicemente auditive o visibili, che, illanguidendo e distraendo l’unione e la forza delle sensazioni, rendono lo stile prosaico, e lo distinguono dallo stile eloquente e poetico.

A nomi speciali, poi, e propri, converranno ben più aggiunti significanti qualità passaggiere, piuttosto che permanenti, abbastanza connotate nel nome medesimo: aggiunti significanti usi, effetti, cagioni, fenomeni precedenti e conseguenti l’oggetto medesimo, perché in questa maniera ne estendono la significazione; e ciò tanto più sarà necessario, quanto più composto di sensazioni è il nome, e che le circostanze del discorso non ne permettono l’espressione analitica, voglio dire il discioglimento del nome in alcune delle parti che lo compongono. Riesce troppo debole allora l’impressione se un aggiunto di tal natura non ne aumenti la forza collo spingere, direi quasi, il nome medesimo in una sfera più vasta, onde si compensi colla copia la debolezza. Questi nomi composti sono talvolta di altri nomi, o, anche senza di ciò, di parti molto differenti e complicate; principalmente se queste composizioni non siano naturali, di cui perenne, costante ed immutabile ne sia il modello, ma artificiali, dagli uomini solamente in certi tempi ed in certi usi variamente combinati. Tali sono i termini delle arti e i termini tecnici tutti, che per voce universale di tutt’i conoscitori debbono sfuggirsi da chi scrive per dilettare e per persuadere vivamente l’animo; perché troppo lontane, per così dire, sono dalla parola le idee, né queste senza il corteggio di molte altre parole vengono dietro al nome che le deve rappresentare. Le lingue sono state formate gradatamente prima dai bisogni, dalle passioni, dalle impressioni originali che largamente sono sparse nella natura, costanti e comuni a tutt’i tempi ed a tutt’i luoghi; poi dalle circostanze locali, dalle volubili ed artificiali combinazioni dei complicati sentimenti degli uomini colti. Quest’ultima classe di parole dovrà essere usata con sobrietà, perché più tardamente e più inviluppate e confuse risvegliano le idee corrispondenti, non potendolo fare se prima non destano le parole primitive ed originarie, che sole per lo più risvegliano le immediate sensazioni, e sole, fuori di chi è estremamente esercitato in quella classe particolare, formano le unioni e le associazioni delle idee.

Prima di abbandonare queste considerazioni intorno alla natura degli aggiunti, gioverà qui notare alcune generali avvertenze, ch’eccellentemente col principio generale si confanno: e in primo luogo è da avvertire che generalmente i più belli aggiunti sono quelli che tengono luogo di una proposizione incidente, onde, risparmiando le divisioni grammaticali delle idee, e subordinando ad un minor numero d’idee principali un maggior numero di accessorie, noi veniamo nel medesimo tempo a risparmiar la fatica, a chi legge o ascolta, di seguir laboriosamente tutta una lunga serie di logiche deduzioni, e invece quasi in un prospetto solo veniamo a delineare una gran copia di oggetti: il che piace moltissimo a noi che amiamo di esser sempre, ma facilmente, occupati. In secondo luogo, esser noiosa affettazione l’ostinata attenzione che hanno alcuni di accompagnar sempre qualunque nome con un qualche fedele epiteto, onde ne’ vari periodi si possono contare tanti aggettivi quanti sostantivi, né più né meno. Una tale simmetrica formalità di scrivere genera sazietà nell’animo nostro: alle cose sempre aspettate non facciamo attenzione; e le parole a cui non si faccia attenzione riescono per noi insignificanti, e le parole insignificanti niente presentano all’animo se non meri suoni e meri caratteri, onde ci stancano, e medesimamente ci confondono ed annebbiano il restante del discorso. La novità non piace all’uomo per altro motivo, se non perché è costretto a farvi attenzione; e le cose solite e consuete ci ristuccano, perché appunto ci esercitano l’animo, senza che molt’attenzione vi facciamo: onde la fatica ci sembra senza compenso. Gli eccellenti stili, appunto, che son fatti per perpetuarsi nella memoria degli uomini, quelli sono che, variando continuamente i modi di presentare il più gran numero di sensazioni, mantengono perciò più facilmente e lungamente l’aria di novità, o, per dir meglio, sono tali che l’attenzione nostra vi si trova sempre impegnata. Quindi, tornando agli aggiunti, eglino faranno un grandissimo effetto se non aspettati vengano ed improvvisi, non quasi in cadenza, a certi determinati luoghi collocati.

VII. Delle figure, e prima dei traslati

Dalle cose tutte qui sopraccennate chiaramente conosceremo con quali norme dobbiamo noi far uso delle figure: delle quali lunghe enumerazioni troviamo negli antichi precettori, ma nissun principio che ci guidi a scegliere opportunamente in mezzo a tant’abbondanza. Il nostro principio ci guiderà facilmente e brevemente in questo gramaticale labirinto.

Per figure intendono i migliori scrittori non quelle maniere di dire che lontane sono dall’uso comune: perché, come saggiamente riflette uno dei più filosofi in questa materia, più figure si fanno delle femminette in un giorno di mercato che in un anno nelle scuole; ma quella qualunque forma che si può dare alla serie delle idee, o alle parole che le rappresentano. Quindi dividono in due classi, cioè in figure di sentenze e in figure di parole, le figure tutte.

Le figure di parole le quali più interessano lo stile, o sono così detti tropi, che noi diremo traslati, o non lo sono. Tropi o traslati saranno tutte quelle parole che si prendono in un senso diverso da quello che letteralmente esse significano. Tali sono quelle che con greco e misterioso vocabolo chiamansi metafore, metonimie, sinecdoche ecc.

Abbiamo detto che le idee si associano tra di loro o per immediata successione di tempo, o per coesistenza di luogo, o per similitudine di qualità: alla somiglianza di qualità si riducono le metafore, che sono uno de’ maggiori soccorsi per lo stile. Gli oggetti hanno molti lati ed aspetti per cui si assomigliano. Dunque ogni espressione d’un rapporto comune tra due oggetti può servire ad esprimerli ambidue; cioè possono facilmente associarsi nell’intelletto ed eccitarsi scambievolmente.

La metafora sarà buona, cioè associabile, naturale ecc., quando il lato simile dell’oggetto che somministra la metafora sarà tale che superi colla sua impressione, anzi impedisca, il destarsi dei lati per cui l’oggetto differisce dall’altro che si vuol esprimere. La metafora sarà gigantesca, strana ecc., non solamente quando sia falsa o debole la somiglianza, ma ancora quando essa sia talmente associata cogli altri lati differenti, o questi talmente numerosi, che si destino piuttosto essi nell’animo, di quello che lo faccia il rapporto comune. Di qui è che quanto più una nazione è selvaggia, tanto meno vedendo le differenze degli oggetti, tanto più le di lei metafore saranno ardite e forti; e quanto è più colta, cioè essendo più osservatrice, le metafore di quella saranno più naturali, più esatte e più deboli.

L’ordinario destino delle metafore, quando divengono comuni e familiari al popolo, cioè quando la necessità, sola cagione dei progressi che fa il volgo lasciato a se stesso, lo costringe ad usare d’una espressione metaforica, è di perdere la qualità di metafore, e diventare propria espressione dell’oggetto che rappresenta. La cagione di questo fenomeno è l’associazione perpetua dell’espressione metaforica coll’oggetto che non è il suo proprio. Questa è la cagione per cui lo stile cangia di natura colla successione de’ tempi, perché l’impressione che fa negli animi non è più la medesima, e ci par languido e triviale ciò che secoli fa era vivace e sublime: ciò ch’era prima il rapporto di due idee, non è che il segno di una sola.

Alla metonimia e alla sinecdoche si riduce il prendere gli uni per gli altri reciprocamente antecedenti e conseguenti, cause ed effetti, generi e specie, tutto e parte, contenuto e continente, il segno e la cosa segnata.

A questi differenti tropi aggiugnere si possono altri moltissimi; e generalmente tutte le parole rappresentanti idee, e che abbiano altre idee necessariamente e prossimamente associate, possono prendersi l’una per l’altra, e scambiarsi il loro significato. E questo scambio sarà tanto più piacevole quanto sarà fatto fra idee più comunemente e più universalmente associate, cioè fra quelle associazioni che dalla generale e costante natura degli uomini e delle cose sono prodotte, non dalla locale e temporaria, e perciò incerta, particolare e solamente relativa. Quindi prenderemo o l’antecedente per il conseguente, o il conseguente per l’antecedente, o la parte per il tutto o il tutto per la parte, a misura che o l’uno o l’altro saranno più forti e più significanti; che o l’uno o l’altro daranno una maggior estensione d’idee quando faccia d’uopo, o una maggiore intensione quando questa sia richiesta dalle circostanze del discorso e dal canone fondamentale di ogni stile, cioè dal doversi eccitare il massimo d’impressioni sensibili e combinabili nell’animo. Così Virgilio dicendo
fontemque ignemque ferebant,
prende il tutto per la parte, il fonte per l’acqua, rendendo così più interessante e più varia e in qualche maniera circoscritta e precisa un’idea, che languida sarebbe e triviale e troppo uniformemente estesa; per lo contrario, dicesi poeticamente mille vele per mille navi, cioè la parte per il tutto, per rendere più sensibile, perché più precisa, l’idea troppo complicata di nave; questa e simili parole significando vagamente tutte le parti da cui il tutto risulta debole, e l’impressione di ciascuna in particolare appena si desta nell’animo; ma se siano espresse con una delle principali, cioè di quelle che indicano o l’uso o l’azione o l’origine o la conseguenza della cosa medesima, noi veniamo a rendere dominante nella fantasia un’idea sensibile, precisa e particolare, che richiama tutto il resto sufficientemente, rilegandolo, per così dire, nella folla delle idee taciute, lasciando lo spazio ed il tempo ad altre accessorie che si debbono esprimere.

Un altro uso di questi traslati sarà quello di rendere più serrato il discorso, risparmiando la ridondanza e la ripetizione: egli è talvolta necessario per la serie delle idee principali che siano destati nell’animo e presenti alla mente e il tutto e la parte, e il continente ed il contenuto ecc. Allora, per isfuggire la noia delle due espressioni, ciascuna delle quali, oltre il proprio significato, in grazia del legame necessario di associazione, risveglierebbe quello dell’altro, basterà l’esprimere quella dell’espressioni che le altre idee espresse nel discorso non suggerirebbono così ovviamente. Così Virgilio, nella descrizione dell’incendio di Troia, dovendo accennare che la fiamma s’avvicinava al palazzo di Priamo, avrebbe dovuto dire: iam ardet proxima domus Ucalegontis; egli prese il posseditore per la cosa posseduta, e disse:
iam proximus ardet
Ucalegon,
nel che sfuggì la noia della per noi insignificante idea di Ucalegonte, rendendola interessante, perché con una sola espressione due idee si rappresentano, e nello stesso tempo conservò quella dell’espressioni che dalle altre idee non poteva essere suggerita.

Non sarà inopportuno il qui riflettere come i traslati acquistano chiarezza e bellezza dalle altre idee colle quali nel discorso vanno uniti: anzi, sono quest’altre idee che costringono chi legge o sente ad allontanarsi dal senso proprio della parola, ed a riceverla in un altro significato di quel che suona. Sonovi nel discorso sempre alcune parole prese nel proprio lor senso che, unite con altre, le quali se sono intese secondo la propria significazione non combinerebbero colle prime, ma nel medesimo tempo risvegliano quelle che vi si uniscono; allora la mente corre al sotto inteso significato, e vi si ferma e si riposa. Dunque dove vi sono traslati vi debbono essere parimente parole proprie, acciocché queste servano di spinta alla facile e necessaria intelligenza di quelli; e vizioso sarebbe un discorso lungamente tessuto tutto di traslati, senza parole proprie frammiste. Vedrà ognuno che se Virgilio, invece di dire «già arde il vicino Ucalegonte», detto avesse «già cade il vicino Ucalegonte», svanirebbe la figura, perché raddoppiata. Essendo preso cadere per ardere, effetto per la causa, ed Ucalegonte per la casa, può ciononostante unirsi letteralmente il verbo cadere con Ucalegonte, il che risveglia un senso proprio e diverso dal preteso, mentre l’ardere non può unirsi con Ucalegonte, nel discorso, se non vi si sott’intende la di lui casa. Dunque fra le parti principali di ogni discorso non bisogna che tutte le principali idee siano espresse con traslati, potendolo essere le accessorie: ma qualcuna delle proprie espressioni si dovrà esprimere, acciocché l’immaginazione sia fissata ad un solo senso, e possa prendere i traslati come traslati o come idee accessorie, e non come sensi propri e come idee principali; altrimenti il discorso degenera in allegorie ed allusioni, che sono per lo più fredde e noiose, perché, oltre la fatica di dover sostenere il peso di due sensi contemporanei, l’uno sott’inteso e raffigurato, l’altro proprio e letterale, l’animo non s’interessa né per l’uno né per l’altro, perché diviso e dissipato fluttua dall’uno all’altro.

Da quanto abbiamo or ora accennato apparisce un uso maraviglioso de’ traslati, e che da molti non si sarebbe sospettato; ed è che questi, quando siano ben impiegati, contribuiscono alla chiarezza del discorso, benché la moltiplicità di essi produca oscurità ed imbarazzo, in quella maniera appunto che la troppa quantità di luce abbaglia e confonde quella luce medesima, che le cose tutte ci distingue nello stesso tempo che contemporaneamente ce le fa sentire. Gli oggetti quasi tutti apparendoci composti ed avvolti, quasi tutte le parole proprie lasciano incerta l’attenzione sulla moltitudine delle parti, quindi lasciano per lo più indefinito e indeterminato l’oggetto, né la mente può vederne i confini ed i limiti con chiarezza e precisione. La simultanea compresenza di altri corpi fa che si distinguano e limitino reciprocamente gli uni gli altri. Quindi la vivacità e la chiarezza delle immagini presentateci dalla natura istessa, quindi ancora il piacere che risulta dai movimenti di queste immagini medesime, perché l’applicazione di un corpo alle diverse parti di molti altri ci fa badare a tutte, e tutte distinguere, senza del quale forse indistinte e confuse si affollerebbono nella mente. Quindi è che in natura piacciono gli oggetti semplici, uniformi ed indeterminati per se stessi, rotti però e intercetti da oggetti precisi, determinati e composti; questi ci fanno attendere alle molte parti che, per l’uniformità dell’oggetto sempre simile a se stesso, non sarebbero che confusamente e languidamente concepite; e quelli, dandoci un’idea sempre costante e simile a se stessa, fanno risaltare la diversità e i limiti delle parti varie e complicate dell’oggetto composto.

Applichiamo allo stile tali riflessioni, allo stile, scopo del quale è certamente di sforzarsi di eccitar nelle menti umane le medesime impressioni, e nel medesimo grado, per quanto sia possibile, di quello che la presenza degli oggetti in natura produce. Le figure aumentano la copia delle idee, portano l’attenzione a quella parte di oggetto a cui vogliamo che sia portata, rendono simultanea la presenza di molte immagini, perché, le parti inutili allontanando, permettono che nel medesimo istante altri oggetti ed immagini corrano a presentarsi, quando che se con parole proprie si esprimessero, una sola alla volta potrebbe forse esprimersi e concepirsi. Rendono dunque più padrone lo scrittore d’imitare la natura col distinguere, avvicinare e far risaltare gli oggetti in quella maniera che producano il massimo d’impressione, il più vivo, cioè il più chiaro e il più distinto possibile.

Così le parole proprie, esprimenti sensazioni uniformi e indefinite, saranno accoppiate con figure e traslati che aumentino e moltiplichino la copia delle idee; e le parole proprie esprimenti parti varie e complicate lo saranno con figure e traslati che sciolgano gli oggetti in sensazioni semplici, similari ed uniformi.

In parlando di questi traslati non ho voluto magistralmente discendere al noioso e minuto dettaglio di tutte le loro differenti specie, indicandone l’uso ad uno ad uno; basteranno agl’ingegni sagaci quelle poche applicazioni che ho fatto sopra alcuni di essi per cogliere in un baleno la maniera di applicare questi principii a tutti gli altri. Chi vuole istruire con sicurezza, fa sempre meglio, quando non ammette fra i particolari dettagli che quelli soltanto necessari per discendere a dimostrare li principii generali, e lascia l’applicazione di tutto il resto a chi ama di seguire una qualunque serie di cognizioni. La fatica che noi siamo forzati di fare incatena l’attenzione, e nello stesso tempo si fanno simultaneamente le due operazioni elementari di ogni disciplina, l’istruzione e l’esercizio, che, disgiunte, sono lente, ingrate e difficili; riunite riescono pronte, piane e dilettevoli. Per lo contrario, se l’applicazione è fatta tutta dall’istitutore, la mente nostra meramente passiva con eguale facilità riceve e dimentica; e, restando superflua una parte meno occupata dall’attenzione, questa dall’espansiva vivezza degli oggetti presenti viene preoccupata. Noi, che prendiamo maggiore interesse alle cose nostre che alle altrui; che alla facilità ci abbandoniamo; che le picciole resistenze rinvigoriscono, e la reattiva forza dell’animo nostro agli ostacoli opponiamo, noi non daremo mai l’energia tutta dell’animo nostro in balìa di un terzo, lasciando la parte più attiva di noi medesimi tutta intera all’azione ed all’impressione altrui. Quindi la disattenzione degli uomini alle cose troppo facili e troppo ovvie, disattenzione che tanti errori palpabili in ogni combinazione di cose anche le più interessanti produce, e dalla quale gli uomini non guariscono se non appunto quando le cose medesime troppo facili ed ovvie, sia per qualche accidente, sia artificialmente, si rendono più difficili e meno ovvie ad ognuno. Col lasciar dunque una parte all’industria ed alla fatica di ciascheduno si ottiene che, divenendo in parte istitutore di se medesimo, l’attenzione si rende più alacre, e l’effetto è più intrinseco e più costante; questa essendo l’istituzione della natura la meno umiliante, la meno noiosa e la più durevole. Se il bisogno è stato il padre ed il motore di tutte le invenzioni umane, sarà sempre vero che ogn’istituzione dovrà sottrarre una parte delle cose ch’ella potrebbe comunicare, perché si sviluppi in chi s’istruisce l’indispensabile bisogno della curiosità.

VIII. Delle altre figure

Vi sono figure di parole che non sono traslati, ma che lo sono delle parole proprie; queste vertono intorno non al significato delle idee medesime, ma intorno alla corrispondenza che il suono e la collocazione delle parole hanno colle idee che rappresentano. La medesima analisi delle nostre idee ci guiderà facilmente alla teoria di tali figure: se si trovi un’idea dominante in una serie di altre idee che debba successivamente paragonarsi colle altre, egli è chiaro che dovrà ripetersi la parola che la esprime ogni volta che dovrà replicarsi l’idea; perché, importando moltissimo la facilità del concepimento, e l’identica rappresentanza di una tale idea accoppiata successivamente con altre diverse, la parola dovrà essere immutabile ed identica, acciocché non si alteri, col cangiarla nella mente, né la forza né la qualità dell’impressione, ed alterata sarebbe se diverse parole destinassimo a replicare la medesima idea: primo, perché non vi sono parole diverse significanti precisamente lo stesso, come da eccellenti scrittori è stato dimostrato; secondo, perché, quand’anche ve ne fossero, doppia fatica sarebbe nella mente nostra, proclive ad argomentare diversità di cose dalla diversità delle apparenze, il fare il doppio paragone, prima della diversa parola colla medesima idea da tutte egualmente significata, poi di questa idea colle diverse e successive del discorso.

Per lo contrario, dovremo cangiare i suoni della medesima idea quando si tratti ch’ella sia complicata e difficile, ch’ella debba ingrandirsi, che si paragoni non con molte per farne vedere l’identità di essa con la diversità delle altre, ma con un’altra per mostrarne la perfetta somiglianza e la dissomiglianza. Perché in questi casi la diversità de’ suoni non confonde l’attenzione, ma bensì la ristora, ritornando la mente alle cose medesime con varietà di sensazioni; e, stante la moltiplice e diversissima maniera con cui le associazioni si formano nelle diverse menti umane, fra la varietà dell’espressioni troverà ciascuno quella che le è più propria e famigliare.

Né è da temersi che questa varietà produca prolissità e noia, perché lo stile riesce noioso e prolisso quando la massa delle parole, o sia de’ segni rappresentatori, sia maggiore della quantità d’idee rappresentate; e per idee rappresentate intendo quelle a cui l’attenzione si applica, nulla essendo quelle dalle quali si allontana e ritira. Sia dunque la soverchia ripetizione delle medesime, sia la trivialità e la poca importanza di quelle, quando tali sono che la mente disattenta le rifiuti, allora, restando sempre la massa delle parole, siano lette, siano ascoltate, maggiore della quantità d’idee ricevute, e per conseguenza interrotte da indifferenti distrazioni, le impressioni rese disuguali e troppo disparate riescono dolorose e spiacevoli. Ma la varietà dell’espressioni destinate a replicare nella mente la medesima idea importando varietà d’idee accessorie, perché diversità di sinonimi non può altro significare che diversità di accessorie ad una medesima principale, la quantità delle idee sarà sempre o uguale o maggiore della quantità dell’espressioni; e perciò, quando opportuna, né ingrata né spiacevole per questo titolo. Quindi l’ascendere per gradi o il discendere sarà essenziale nello stile, quando tutte le idee che formano la gradazione debbano essere espresse; e debbono esserlo quando la natura delle idee principali richiegga d’insistere su di una moltitudine d’idee analoghe; ma quando questa insistenza d’idee analoghe non sia richiesta dalle idee principali, e che questa gradazione fosse semplicemente accessoria, allora sarà meglio sopprimerla, e lasciare che si risvegli nell’animo coll’esprimere fortemente gli estremi.

Abbiamo già detto essere gli oggetti fisici il legame comune delle differenti affezioni degli uomini, ed ancora delle differenti maniere di sentire di ciascun uomo per se medesimo. Quando dunque un’espressione sarà tale che leghi due serie diverse di sentimenti e di affezioni, ed anche d’immagini, la ripetizione della parola legante – cosicché la medesima finisca e la medesima cominci le due serie, – sarà bellissima, perché, replicandola immediatamente, sarà resa più forte e più ricca la seconda serie d’idee dal ripetersi nella mente le idee della prima.

Le parole poi morali e complicate saranno ripetute quando esse siano dalle altre accessorie talmente abbellite, che possano nello stile essere ammesse; anzi, se molte siano le accessorie fisiche e sensibili che intorno ad un’idea complessa si addensano, perché l’attenzione non sia strascinata dietro oggetti estranei dovremo ripetere l’espressioni complesse, dividendo ciascuna porzione d’immagini, proporzionalmente alla natura loro ed alle altre leggi sovr’indicate, per ciascun membro della ripetizione.

Credo di aver sufficientemente indicate le relazioni che possono avere sì la diversità come l’uniformità delle parole, per esprimere la medesima idea col nostro principio generale. Non minore e non meno evidente l’avranno quelle figure che servono a sopprimere nel discorso molte parole, in vece di aggiungerne e di ripeterne. Tutte le parole che non aggiungono chiarezza al discorso, che non istampano nuove impressioni, e che non guidano l’attenzione a nuove e diverse maniere di sentire, dovranno essere soppresse. Questa è la ragione che fa sopprimere i verbi che affermano la medesima cosa di molti soggetti; che senza di ciò ne sopprime moltissimi, quando i nomi necessariamente li richiamano senza equivoco e senza oscurità; che le particole, le congiunzioni e tutto il corredo delle parole grammaticali ommette spessissimo, serrando in uno spazio più angusto ed in tempi più rapidi le espressioni e le parole significanti idee e sensazioni.

Tutte le idee si associano nella mente per alcuni legami reali, ma finora a noi ignoti ed occulti; e gli oggetti esteriori che somministrano tali idee sono tra loro o coesistenti o successivi, e variamente uniti e disuniti. Le parole grammaticali, quelle, cioè, che immediatamente non rappresentano né sensazioni né affezioni, siano semplici siano complesse, fanno l’ufficio sia di manifestare esteriormente i legami di associazione interna delle idee, sia di esprimere la coesistenza e la successività, la unione e la disunione degli oggetti esteriori. Ora, molte volte accade che molti oggetti sono uniti in natura e non sono così facilmente associati nella mente, e molte volte sonovi oggetti associati nella mente che non sono uniti in natura. In questi casi le parole grammaticali saranno ed utili e necessarie ancora per la chiarezza, ed aggiungeranno forza allo stile, perché segneranno fortemente quella combinazione d’idee accessorie e principali che si vuole esprimere. Ma quando l’associazione delle idee vada di pari passo colla unione o disunione naturale e consueta degli oggetti, le parole grammaticali, potendo essere soppresse, salva la meccanica regolarità della sintassi, renderanno debole e noiosa e ripiena, per così dire, di vuoti e di fessure la tessitura del discorso.

Sono dunque, lo ripeto, utili tali parole quando segnino unione o disunione, coesistenza o successività non solita, non costante, non facilmente preveduta, o non associata o associabile facilmente nella mente nostra. In tutt’altra occasione saranno atte solamente a disgiugnere ed allontanare le idee, disgiugnimento ed allontanamento che aliena l’attenzione, che la stanca, volendosi sostenere che, rendendole troppo rari i piaceri che le son propri, si ributta d’una fatica senza premio, e di uno stento che la distrae dalla più interessante considerazione delle cose presenti. Questo disgiugnimento ed allontanamento delle idee non sarà utile se non allora ch’essendo alquanto complicata ciascuna delle idee, sia necessaria una certa distanza, la quale dia spazio e tempo alla mente di abbracciarle nella loro totalità ed estensione; allora le parole grammaticali nulla significanti possono giovare ad intersecare il discorso, e ad interporsi fra tali idee, dando respiro e comodo all’attenzione.

Un esempio si può qui allegare in proposito di ciò. Virgilio nelle Georgiche dice:
saepe etiam steriles incendere profuit agros,
atque leves stipulas crepitantibus urere flammis.
Sciogliamo questo secondo verso, aggiugnendogli le parole grammaticali ch’ei può ammettere, dicendo così: atque stipulas, quae sunt leves, urere flammis, quae sunt crepitantes. Svanisce ogni bellezza di quel bellissimo verso, perché la doppia inserzione delle parole grammaticali quae sunt allontana e separa troppo le accessorie dalla principale, e fra di loro; ciò che prima era un colpo simultaneo d’impressioni, non è più che una lenta successione di sensazioni nude ed isolate.

Questo verso ci darà campo a riflettere come ogni idea accoppiata ad una qualunque altra idea suppone necessariamente un giudizio, il quale talvolta si esprime e talvolta è soppresso, perché queste idee non potranno chiamarsi accoppiate nella nostra mente, se non sono simultaneamente da quella considerate; il che suona lo stesso che giudizio e paragone, che altro non è se non attenzione a due idee compresenti nella mente: dunque tutte le accessorie che si aggiungono alle principali, le accessorie delle accessorie medesime possono essere sciolte in altrettante proposizioni particolari ed incidenti, ciascuna delle quali, rispetto a se medesima, sia idea principale, ma non lo sia riguardo a tutta la serie delle idee contenute nel discorso. Tali sono le due quae sunt leves e quae sunt crepitantes nel succennato verso di Virgilio; ma questi, siccome sono giudizi rapidissimi ed abituali della mente nostra, così sarebbe stato superfluo, anzi noioso, di allungare quest’operazione dell’intelletto coll’esporre grammaticalmente e logicamente quelle due accessorie di leggerezza e di strepito che caratterizzano quell’abbrucciamento; ma spesse volte accade che le idee principali sono talvolta espresse come accessorie, e, quantunque essenziali alla serie tutta del discorso, pure, soppressi tutt’i legami grammaticali e logici, si uniscono come aggiunti, e si rinchiudono nelle espressioni e fra le accessorie di un’altra più principale idea. Mille esempi potrebbe fornire Tacito di questa maniera di scrivere, maniera che è una delle caratteristiche primarie dello stile di quel grand’uomo. In questa forma lo stile diventa serrato e pregno d’idee; poche parole, ma sostanziali, feriscono e penetrano profondamente l’animo, e le cose scritte di questa foggia non isvolazzano intorno alla superficie della immaginazione, ma s’internano in quella, e diventano a poco a poco parti essenziali della nostra maniera di pensare: pure, siccome le idee e l’espressioni divengono un poco più complicate, scrivendo in questa maniera, di quello che separando ciascuna principale, e circondandola di pure accessorie, così stili di questa sorte richieggono attenzione e perspicacia d’intelletto ad intenderli e gustarli. Non sono dunque stili popolari, ma di uomini colti e pensatori: la percossa interiore che l’animo ne risente è grande e viva, ma non immediata, cioè richiede un picciolo sforzo della nostra mente, un movimento dalla nostra parte, onde, per così dire, noi ci avanziamo verso lo scrittore; il che è per lo più contrario all’ordinaria maniera di sentire degli uomini, i quali, se non sono stimolati dal bisogno, vogliono che la sensibilità loro sia sempre passiva e strascinata dagli oggetti, ed amano piuttosto di lasciarsi trasportare dalla corrente delle impressioni, che diriggere essi medesimi i propri sentimenti, ascoltandosi interiormente, ed obbedendo a quelle segrete e passaggere spinte che in una sfera più ampia e più ordinata di cose li guiderebbe.

Così grandi e semplici immagini fisiche, che interrompono questa sorte di stili stretti e vibrati, serviranno di mirabile soccorso, e di grande aumento di bellezza a tutto il fascio delle idee.

IX. Delle diverse specie di stili

Abbiamo cominciato a vedere una delle caratteristiche essenziali che distinguono uno stile dall’altro; vediamo se i nostri principii ci forniscono precise definizioni dei vari aggiunti con cui ordinariamente si distinguono gli stili de’ diversi scrittori.

Molti di questi stili prendono il loro nome dalla natura delle immagini e delle idee accessorie che dominano in quelli, e questi non hanno quasi bisogno di schiarimento; molti altri prendono il nome dalla maniera con cui lo scrittore combina le idee accessorie, e dalla qualità dell’impressione che, qualunque cosa rappresentino, sono atte a risvegliare negli animi.

Così chiameremo stile fluido (prescindendo dalla scorrevole armonia de’ suoni e dal volubile e non interrotto concento di parole) quello ch’eccita nell’animo un’impressione analoga a quella che il moto de’ fluidi eccita ordinariamente in noi, cioè un moto equabile ed uniforme. Sarà dunque fluido quello stile in cui le accessorie saranno di egual forza e di egual importanza costantemente, cosicché le impressioni non sieno diseguali ed interrotte, ma, l’una non prevalendo sopra dell’altra, abbiano una successione continua e sempre eguale. E se lo stile fluido dovrà discendere a minori impressioni o ascendere a maggiori, lo farà per leggere ed impercettibili diminuzioni o accrescimenti.

Lo stile conciso sarà quello in cui le idee principali, accompagnate da poche accessorie, ma importanti, si succedono rapidamente, e quando si destino più idee di quello che si esprimano con parole. Lo stile è conciso e chiaro quando le espresse destano necessariamente le tacciute, e oscuro quando di più idee tacciute è incerta, senza essere indifferente per chi legge, la scelta.

Lo stile è diffuso quando sono ripetute le medesime idee accessorie, e quando ve ne siano molte che pochissimo differiscano tra di loro. Lo stile è diffuso non tanto per la moltitudine, quanto per la poca importanza delle idee accessorie relativamente alla principale.

La nobiltà, la gravità, la maestà dello stile sono qualità che non differiscono essenzialmente tra di loro. Chiamasi nobiltà di stile quando nello scegliere le accessorie noi sceglieremo quelle che non sapranno suggerirci che idee non comuni né popolari; quelle che hanno, per così dire, un’illustre genealogia, che non sembrano derivare dalla comune ed ampia sorgente dei primari piaceri dei sensi, ma che nascondono questa comune origine col corredo di affezioni e d’immagini più rare, più delicate e meno semplici.

Lo stile è grave poi quand’oltre le succennate qualità, le accessorie sono importanti, e di una importanza piuttosto morale che fisica, di una importanza che riguarda piuttosto le conseguenze e le relazioni delle cose, che non le qualità loro piacevoli e dispiacevoli. Questa sorte di stile risveglia una moltitudine d’idee, ma poche ne esprime, e quelle poche tali non sono che, avvicinando tra di loro le qualità sensibili delle cose, vi dipingano l’oggetto, o risveglino nell’animo affetto e passione, ma sibbene quelle che rispingano la mente da questa più viva maniera di sentire ad una più elevata e più estesa, per cui gli oggetti si veggono meno distinti, e fanno un’impressione meno separata e particolare che generale ed in massa; in questa sorte di stili non si escludono le immagini fisiche, ma appena accennate; un’altra accessoria vi rispinge nella folla delle idee morali e complicate. La verità di ciò si può vedere considerando attentamente i primi tre versi del terzo libro dell’Eneide:
Postquam res Asiae Priamique evertere gentem
immeritam visum superis ceciditque superbum
Ilium et omnis humo fumat Neptunia Troia.
Dove si può vedere quanta folla d’idee, e quanto importanti siano l’espressioni di res Asiae, visum superis, Priami gentem immeritam evertere, e la grande immagine fisica, omnis humo fumat Neptunia Troia, corretta ed allontanata nella fantasia del lettore coll’aggiunto di Neptunia, che nelle origini troiane vi spinge; e la natura dell’immagine medesima, semplice, niente complicata, indicante il fine di un gran fenomeno, ma non risvegliante l’idea di un altro contemporaneo.

Quasi perfettamente simile a questo è lo stile maestoso; colla differenza però che la qualità dominante non è tanto la importanza ed il peso degli oggetti, quanto il punto di vista da cui lo scrittore li contempla e li espone. Nello scegliere i lati seri delle cose, egli non si ferma nelle figure le più vive e le più energiche, ma che dimostrano l’impressione di chi scrive, e però la sua dipendenza dagli oggetti, ma quelle piuttosto che poco avvilite dall’uso, o piuttosto poco associate sono con idee troppo piacevoli o troppo forti, energiche e sensibili. Egli non cerca l’aspetto il più luminoso ed il più interessante degli oggetti, celandone i lati tenebrosi e deboli; ma esprime quelle idee che possono essere comuni, e risvegliare ambedue i lati, onde destino negli animi altrui l’opinione di un certo equilibrio di passioni e di una certa equanime indifferenza di sentimenti che lo mostrano superiore alle cose tutte. A chi vede un altr’uomo superiore a quelle cose, da cui egli si riconosce dipendente, sorge nell’animo un timido sentimento d’inferiorità che chiamasi venerazione, e maestoso e grave chiama colui che sa presentargli immagini di tal natura.

Per lo contrario chiamasi patetico o appassionato quello stile nel quale le accessorie tutte indicano l’affetto e l’impressione che soffre dagli oggetti chi scrive. Non v’è in natura oggetto ridente e consolante che non abbia un lato serio e tormentoso. Il dolore si diffonde largamente per tutta la catena degli esseri sensibili. Rispinto incessantemente, incessantemente ritorna; a tutti serve di stimolo, che li sollecita ad allontanarsi dal presente, ed a spingere l’inquieto sguardo nell’avvenire, mentre il piacere nel seno dell’inoperosa voluttà facilmente addormentando gli uomini, non sarebbero spinti a quella progressiva serie di mutazioni e vicissitudini, da cui dipende lo sviluppamento dell’umana perfettibilità, ed insegnandoci a sostituirci ai nostri simili, stringe sempre più le relazioni morali, dalle quali l’amore non ragionato di noi stessi ci allontanerebbe. Dunque gli oggetti li più ridenti e li più allegri possono, col considerarne le origini, le conseguenze e le circostanze tutte, ricevere le tinte le più forti e le più oscure della mestizia e del dolore. Anzi non è mai più bello lo stile che quando vi sia un tal contrasto, che necessariamente abbraccia una quantità più grande di sensazioni, e nel medesimo tempo più vera e più reale.

X. Dello stile semplice, medio e sublime

Suolsi comunemente dividere lo stile in tre specie: semplice, medio, sublime; delle quali specie vaghe e poco esatte definizioni sogliono darsi, contentandosi molti di allegare per lo più eccellenti esempi corredati di fine e belle osservazioni, ma particolari, non indicando punto ciò che hanno precisamente di distinto gli uni dagli altri, e di comune ciascun di loro in ogni caso.

Per bene intendere che sia stile semplice, bisogna prima conoscere qual idea gli uomini si formano della semplicità, cognizione che non ci sarà inutile. Sembra che semplice e semplicità sia in opposizione a composto e a complicatezza, come uno è opposto a più, e unità a pluralità; con questa differenza, però, che unità e pluralità possono applicarsi ad oggetti che siano indipendenti gli uni dagli altri, e semplicità e complicatezza ad oggetti solamente che dipendano tra di loro. La semplicità richiama dunque necessariamente più oggetti al paragone, e chiamasi semplice quello che è composto di minor numero di parti meno diverse e più uniformi tra di loro. Uno dunque rappresenta la quantità e semplice la qualità delle cose: una cosa può dirsi una, e può essere compostissima nello stesso tempo, perché tale allora si dirà quando non se ne consideri la moltitudine e la diversità delle parti; ma prendendola in massa, senza ulteriore analisi si prende per comune misura di molte altre; per lo contrario, una cosa moltiplice e numerosa può essere semplice, purché le parti di essa siano poco diverse, anzi tanto più semplice apparirà, quanto saranno più grandi ma più uniformi. Dovremo però qui incidentemente riflettere che la rigorosa e matematica unità non è realmente dagli uomini compresa se non nelle sensazioni ultime ed elementari, che non si posson più oltre dividere: un odore, un sapore, per esempio. L’estensioni ed i contatti simili sono sensazioni semplici ma non une, perché composti di simili ma moltiplici punti fisici, luminosi o resistenti. Quando noi diciamo uno l’oggetto composto di molti oggetti, allora realmente nell’animo nostro ci si manifesta pluralità e moltitudine, ma considerandoli come simili li segniamo tutti con un nome collettivo che li rappresenti ciascuno indifferentemente; e formiamo così una specie di unità verbale e grammaticale, senza di cui svanirebbe l’uso delle parole e delle lingue, cioè non indicherebbe una quantità di oggetti con un sol segno, massimamente non presenti; ma ogni nostro discorso si ridurrebbe, come il linguaggio naturale degli animali, ad una semplice manifestazione delle attuali impressioni e volontà nostre.

Quindi le cose più complicate possono acquistare una certa semplicità verbale, la quale in altro non può consistere se non nel nascondere i lati dissimili e diversi, e nel rappresentare le cose per le loro somiglianze; nel che le parole generali e collettive riescono, perché allora la mente nostra, non eccitata da alcuna espressione particolare, non può abbracciare la moltitudine delle cose se non raccogliendone le uniformità, ch’esigono un minor movimento ed una minor azione di quello che in una volta la sensibilità nostra è suscettibile.

Quindi è che i teoremi più grandi e le più classiche verità riescono semplicissime, perché l’analisi da cui nascono ci conduce sempre all’uniformità ed alla somiglianza; e ci soddisfano, e ci riempiono di una certa patetica contentezza non tanto per se medesime, quanto paragonandole colla diversità e disordine da cui siamo partiti; diversità che noi tanto più facilmente consideriamo e concepiamo, quanto più la vediamo appoggiata su di uno strato esteso ed uniforme.

Applicando allo stile queste considerazioni, noi troveremo lo stile semplice essere quello nel quale le accessorie non ammettono che quella diversità la quale sia richiesta dalla serie delle idee principali, non quelle che una scelta particolare di esse potrebbe introdurre; tali accessorie non dovranno risvegliare né una quantità d’idee, né suggerire punti di vista moltiplici e diversi delle cose. Una semplice e nuda pittura degli oggetti; un’esposizione delle qualità loro più apparenti, non delle più occulte e sconosciute, coi nomi loro propri; non le origini e le conseguenze delle cose, ma lo stato attuale di quelle; non i contrasti, le idee complesse morali, gli aggiunti significanti rapporti e somiglianze improvvise di cose diverse, o differenze occulte ed inaspettate di cose simili, ma bensì termini complessi di oggetti fisici, o sia termini appellativi con aggiunti di qualità permanenti; espressioni che sian comuni, ma non avvilite dall’uso, il che vuol dire che non risveglino accessorie disgustose e dispiacevoli; le quali espressioni rendano finito e terminato l’oggetto, ma non col mezzo de’ traslati, che facciano campeggiare alcuna di quelle qualità che ingrandiscono l’idea, e destano nella mente idee simili, che, aumentando di troppo la massa delle sensazioni, facciano un’impressione troppo forte e troppo intensa, si richieggono a formare il carattere dello stile semplice.

La natura delle idee principali deve determinare l’occasione di servirsi di questo stile: siccom’egli ammette un minor numero di bellezze, la sola necessità ci deve consigliare a servirsene; quindi deve chiaramente apparirne il motivo, acciocché gli uomini svogliati e distratti non gettino uno scritto al quale il solo bisogno di piacere o d’istruzione ha consigliato di ricorrere. Quando dunque le principali sieno di tal sorta che non ammettano accessorie associate o associabili, che siano interessanti e vive; quando queste principali debbano per la chiarezza e l’importanza dell’istruzione essere molto vicine tra di loro, e che si debba aspettare più effetto dalla loro combinazione, che da ciascuna in particolare; che si parli a persone, o in circostanze, nelle quali la folla delle idee e delle immagini non possa essere risvegliata, o sarebbe contradditoria allo scopo che si propone: allora lo stile semplice debb’essere impiegato.

In tutt’altri casi anche l’istruzione medesima dimanda ornamenti e bellezza; non basta, perché l’uomo corra per la strada che noi vogliamo, che utile ne sia il fine; bisogna ch’essa medesima sia dilettevole; non basta, in nissuna istituzione né letteraria né politica, desiderare, proporre, persuadere ed esigere i fini; bisogna che i mezzi stessi sian grati e piacevoli, ch’essi sieno sensibili, che il premio della fatica non sia tutto lontano ed ammucchiato al termine di quella, ma distribuito e sparso per la carriera tutta che si deve percorrere, perché trattasi, e ne’ libri e ne’ costumi e nelle combinazioni civili, di vincere la forza incessante degli oggetti presenti, che di sensazioni dilettevoli ci inondano, e di vincere e cangiare quelle direzioni, verso delle quali tende ogni momento la debole nostra natura, cioè il ben essere attuale, o almeno così poco lontano che la mente con poca riflessione vi arrivi.

A questo fine soddisfa lo stile medio, quello stile, cioè, nel quale le accessorie abbondano e producono il massimo d’impressioni compossibili tra di loro e con l’idea principale. Quando le idee principali tali sieno che non abbiano bisogno di essere avvicinate tra di loro; quando le idee principali non siano talmente interessanti immediatamente, che da sé sole possino reggere o lo debbano senza essere dagli ornamenti distratta la loro connessione: allora noi dovremo far uso di questo stile, che è quello che ammette nella maggior loro latitudine ed ampiezza tutte quelle maniere di dilettare che abbiamo annoverato in queste Ricerche.

Noi meglio comprenderemo che sia stile medio quando si sarà chiaramente sviluppato che sia stile sublime, ch’è l’estremo dello stile semplice e perciò talvolta confondesi ed avvicinasi a quello. Per ciò intendere, vediamo che sia realmente sublimità nel concetto degli uomini. Questa parola, nel senso suo proprio, è destinata a rappresentare un luogo estremamente elevato, che superi l’altezza comune e promiscua degli altri corpi, e che da quello contemplandoli in un tratto ne scopra una moltitudine al dissotto. Applicando un tal concetto fisico al sublime dello stile, diremo essere sublime quando l’idea principale sia tale ch’ella campeggi e domini tutte le altre vicine, e che non le accessorie facciano spiccare la principale e la segnino, la rischiarino e la rinforzino nella mente, ma essa invece suggerisca le accessorie, anzi piuttosto le involva nel proprio suo concetto. Essa debb’essere talmente elevata, che non suggerisca e non sia associata immediatamente colle cose che gli sono vicine nel discorso, ma lo sia solamente per mezzo di accessorie da lei suggerite e non espresse; in quella maniera che in un luogo estremamente elevato i circonvicini oggetti sono al dissotto, e sono frammezzati da uno spazio tacito e solitario, per cui gli oggetti circostanti ed inferiori, piccioli diventano e spessi, di grandi e distanti che sono realmente quando discendiamo al loro livello. Similmente gli oggetti estremamente elevati in natura si ristringono nella cima, e si allargano verso la base, attorno della quale è costipata la folla degli oggetti inferiori. La sublimità delle idee deve avere una qualche analogia con questa proprietà de’ corpi elevati: una semplice espressione rappresentante una semplice idea debb’essere quella che formi il concetto sublime; ma questa semplice idea deve risvegliare alcune accessorie, e queste altre più numerose, e così di mano in mano in maniera che la percossa, che l’animo attento riceve da tali concetti, vada a poco a poco allargandosi, e divenendo vasta e grande coll’eccitare, per così dire, un bullicamento di moltiplici e varie idee che sembrino lontanissime dal concetto semplice e ristretto espresso nel discorso.

Se tutte le idee che si racchiudono nella sublimità del concetto si volessero esprimere dallo scrittore, la sublimità sarebbe perduta: primo, perché la moltiplicità delle parole prolunga il tempo dell’impressione, ed un’impressione prolungata è un’impressione necessariamente divisa in molte impressioni; non è dunque più un’impressione grandissima e subitanea, non un colpo di luce che, balenando improvvisamente nella mente, scopre ad una grandissima distanza una moltitudine di oggetti. Secondo, perché l’esprimere con parole le idee tutte, che dipendono dal concetto sublime, rende altrettanto efficace l’impressione nell’animo di queste, quanto l’impressione di quelle parole, dal significato delle quali si esprime il concetto sublime; perdesi dunque la sublimità, perché tutte le immagini riescono, per così dire, ad uno stesso livello. Quando Virgilio dice di Didone:
alto
quaesivit coelo lucem, ingemuitque reperta,
ognuno trova sublime questo concetto, perché sono soppresse tutte le idee che sono relative alla terribile e violenta situazione nella quale trovasi la disperata Didone. Ognuno sente eccitarsi in se medesimo una folla di moltissimi sentimenti, che agitano confusamente l’animo nostro, e lo fanno al solo accennarci che fa il poeta il cupo gemito della sgraziata regina nel cercar la luce del cielo, ch’ella va a perdere per sempre; e noi comprendiamo subito l’abbandono dell’amante, la perduta felicità di un crescente impero, la fede giurata a Sicheo, tutt’i progressi di una passione forsennata, quale ci è dipinta in tutto il quarto libro dell’Eneide: questi oggetti tutti in un momento solo necessariamente si risvegliano dentro di noi; e quantunque ciascuno di per sé, per la compagnia degli altri, non sia che debolmente sentito, pure appunto per ciò fanno in noi l’impressione di una folla di oggetti da un punto elevato e distante considerati. Se Virgilio avesse lentamente sviluppato tutti questi sentimenti, avressimo più chiaramente e più fortemente ciascuna idea separatamente compresa; ma il totale di ciascheduna impressione sarebbe stato più debole di questa unica impressione, che tutte insieme le riunisce e ne forma un concetto sublime, perché l’indagar dal cielo la luce, e il gemito nell’averla trovata, formano la sola espressione immediata che ferisce l’animo, dalla quale si traveggono rapidamente moltissime idee; e il poco distinto sentirsi di questa moltitudine d’idee suggerite, mentre con somma evidenza si distinguono le idee nel verso sublime espresse, aggiungono, anzi formano principalmente la sublimità del concetto, perché la poca distinzione degli oggetti ci fa giudicar della lontananza de’ medesimi.

Da ciò si vedrà, in primo luogo, che non può ammettersi uno stile costantemente sublime, perché eccederebbe i limiti della nostra comprensibilità, ed alla fine dovressimo essere sazi e stanchi. Questi slanci vigorosi ed arditi debbono essere sparsi opportunamente, quando il bisogno e l’opportunità lo richieggano. Si vedrà parimente come dalla maggior parte di chi ha scritto in questa materia sia stata confusa la copia, la magnificenza, la grandezza dello stile e delle idee colla sublimità: una serie di oggetti sublimi troppo vicini tra di loro si offuscherebbero reciprocamente, intercettandosi a vicenda la vista degli oggetti circostanti; così una serie di concetti sublimi o sarebbero simili ed analoghi tra di loro e, ripetendo le medesime idee, tanto più facilmente, quanto più sublimi sono, produrrebbero ripetizioni e noia; o molto differenti tra di loro, ed incrocicchiamenti e confusioni d’idee sarebbero l’effetto di un tal lusso di sublimi concetti. Dunque lo stile medio quello sarà che ingrandisce e ravviva ed anima ed abbellisce gli oggetti, ma senza elevare alcuno particolarmente molto al dissopra del comune livello o, per dir meglio, della loro realità, o senza deprimerli e nasconderli troppo, perché non danneggino un’idea principale che non può, se non con altre unita, interessare o esser utile.

Non sarà inutile il qui notare non esservi stile particolarmente appropriato ad un tal genere di componimenti piuttosto che ad un tal altro, né questi richiedere esclusivamente una sola sorte di stile, se non quando le circostanze delle persone a cui si parla non lo richieggono; né la proposizione contraria può essere intesa se non moderata in questo senso, che alcuni generi di componimenti, non essendo per lo più destinati che ad un tal genere d’idee, perché queste determinano la qualità dello stile, così può dirsi che tali componimenti tali stili richieggono.

XI. Di altri generi di stile

Egli è facile il definire che sia copia, magnificenza, grandezza, energia e forza di stile. L’opulento, il magnifico, il ricco occupa una mezza città intorno ai suoi piaceri, ai suoi addobbi, ai trattamenti ch’egli fa; tutte le arti e tutte le produzioni a gara gli contribuiscono; ed egli tutto mette in mostra con pompa e con isplendore; niente vi lascia desiderare ed indovinare, ma sibbene cerca di prevenirvi ne’ vostri desideri e nelle vostre conghietture. Tale sarà lo stile copioso e magnifico: un’abbondanza d’idee accessorie, tutte sensibili ed interessanti, prese da tutte le sorti di oggetti, una varia profusione d’immagini e di sentimenti inondano l’animo di chi legge, ed una rapida successione di piaceri lo incantano in maniera che poco resta all’immaginazione di forza, onde risvegliare da se stessa idee accessorie ed associate. Tutto è prevenuto dall’espressioni dello scrittore, che vi strascina dietro la corrente delle sue idee. Non è che in questi stili non vi siano idee semplicemente suggerite e non espresse; se non ve ne fossero, non sarebbero riempiuti i necessari vuoti, che la meccanica forma della parola lascia necessariamente: ma queste sono picciolissime ed ovvie, onde non è questa qualità che prevale e domina in questa classe di stili.

La forza poi e l’energia dello stile consistono in una più stretta relazione che hanno le accessorie coll’idea principale sempre richiamata da quelle; onde necessariamente dimanda poche espressioni, e l’attenzione nostra, non estesa e trasportata senza intervalli e dimore dietro idee variamente interessanti, ma concentrata e fermata da un’espressione ch’esprima chiaramente una stretta collezione d’idee, ciascuna delle quali richiama la mente all’idea principale, e dove le idee suggerite, senz’esser espresse, debbano avere un rapporto maggiore e più forte coll’espressione.

La grandezza poi dello stile sarà ancora facilmente intesa se si consideri che noi chiamiamo grande un oggetto molto esteso; non basta che molti sieno gli oggetti, bisogna che formino un tutto di grande estensione. Un oggetto fisico qualunque, vale a dire, riguardo a noi, un fascio di sensazioni, se sia variato e diverso ne’ suoi componenti, non sarà mai chiamato uno, se non vi sia una sensazione sempre simile a se medesima che si ripeta tante volte quante sono le parti varie dell’oggetto, e vi serpeggi per entro a legare ed unire con se medesima tutte queste parti; ora, un oggetto, anche vario e composto, sarà come grande concepito, quando ampia e molto sensibile sia questa sensazione legante e formante l’unità dell’oggetto; dico solamente ampia e sensibile, non mettendo per qualità dominante l’energia e la forza di tali sensazioni; e d’idee ampie e leganti varietà d’idee, e di sensazioni formanti oggetti uni e grandi, debbono essere composte le accessorie espresse, che formano grandezza di stile. Si troveranno grandi questi due versi d’Ovidio:
Regia Solis erat sublimibus alta columnis,
clara micante auro, et flammas imitante pyropo,
essendo le idee simili, e ripetenti se stesse, di colonne e di oro, quelle che legano e si combaciano con tutte le parti varie e moltiplici di una reggia.

Ora, come tempo e spazio non sono sensazioni, ma solo successione e coesistenza di sensazioni diverse e moltiplici; così quelle parole ch’esprimono più oggetti come un solo, senz’altro legame comune che di tempo e di spazio, non contribuiranno alla grandezza dello stile se non vi s’inserisca un’idea reale e comune, e tutti questi oggetti e queste espressioni, quanto maggior numero di oggetti parziali e più diversi racchiudono, tanto più acquistano di bellezza e di grandezza con quest’aggiunta.

Non è così facile il definire la mollezza e la delicatezza dello stile, qualità che hanno un effetto tutto diverso dai precedenti, sempre però dipendente dal nostro principio, che variamente si modifica colle diverse combinazioni d’idee accessorie tra di loro e colle principali.

Le sensazioni eccitate da corpi molli sono sensazioni sorde e poco vivaci, e lentamente succedentesi. Applicando allo stile tali proprietà di corpi molli, diremo essere quello nel quale le idee non sono tessute tra di loro per mezzo di accessorie che le richiamano fortemente, i confini delle quali sieno marcati e precisi per mezzo delle qualità dominanti espresse, e di quelle che concentrino tutta l’attenzione verso un oggetto, ma di quelle che debolmente richiamano le principali e le altre accessorie, che non le richiamano immediatamente, ma per mezzo di altre, e per i lati meno vivi degli oggetti, ma per quelli che sono i più deboli e sfumati; molte debbono essere le idee espresse, e piuttosto analoghe senza essere noiose, acciocché l’attenzione si allarghi e si ammollisca, per così dire, senza irrigidirsi alle percosse di espressioni troppo forti e troppo marcate; onde saranno permessi i vuoti e gl’intervalli di silenzio tra un’idea e l’altra, più che in ogni altra sorte di stili, per mezzo di qualche espressione superflua e sinonima, onde con maggiore lentezza le idee si succedano.

Delicata poi noi chiamiamo una cosa che facilmente si contamina e si logora, se sia fortemente toccata e maneggiata, onde da mani leggiere e delicate vuol essere trattata; perciò delicatezza di stile quella sarà ch’esprime le idee per mezzo di accessorie che appenna accennino la principale, che la circondino, per così dire, e la risveglino, ma non la esprimano, e che mostri una certa diligenza e premura nello scrittore, nell’evitare le qualità dominanti e principali delle cose. Chiaro apparirà in questo luogo che le cose e le idee principali, e le circostanze in cui sono enunciate, determinar debbono la qualità dello stile: perché delicatamente saran tocchi quegli oggetti che, avendo framiste qualità o disgustose od offensive, sia fisicamente sia moralmente, con qualità piacevoli, belle o desiderabili, noi cercheremo di celare e nascondere le prime e di esporre le seconde; oppure, quando la necessità e la serie delle idee ci sforzi a suggerire tali idee disgustose, allora appena appena toccheremo di volo ciò che è necessario, facendo scorrere con immagini anche aliene la fantasia dall’oggetto pericoloso e delicato.

Così la mollezza dello stile sarà impiegata dove una lunga e viva attenzione, prima soverchiamente esercitata, richiede trattenimento, ma non faticoso ed intenso; o dove le idee principali siano talmente voluttuose e piacevoli che abbiano bisogno piuttosto di essere indebolite che rinforzate. Egli è superfluo il qui annoverare tutt’i possibili casi: a me basta di mettere su la strada chi ha forza di percorrerla da se stesso; a me basta di diriggere l’elettrica fiamma degl’ingegni verso questi oggetti, e di lasciare il restante alla collisione ed al fermento delle idee de’ miei lettori.

Havvi un’altra sorte di stile, del quale non so se noi altri Italiani potremo fornir l’esempio, lo stile, cioè, che da’ Francesi chiamasi naif, e che noi chiameressimo stile di naturalezza e di bonarietà, se questi vocaboli non iscandalezzano le purissime orecchie de’ parolai, e non peccano contro l’etichetta della lingua nostra. Noi chiamiamo bonarietà quella qualità dell’animo che lo stimola a manifestare i suoi pensieri, oltre anche l’esigenza della più rigorosa sincerità che nei soli confini del vero si ristringe, non però tutt’i veri palesa e manifesta. I pensieri del buon uomo gli sgorgano dall’animo ispidi e selvaggi quali nacquero, non puliti e leccati dall’arte e dallo studio. Niente in lui si scorge di premeditato e lontano, tutto è presente e vicino; nissun indizio di sforzo e di ritegno segnano in lui lo stento e la difficoltà; ma bensì movimenti tutti spontanei, una cert’anima, un certo vigore in quasi tutte le cose, una profonda indifferenza in quelle poche alle quali egli si sottrae, manifestano ad ogni tratto l’apertura dell’animo e la facilità del suo carattere. Egli tratta seriamente anche le più picciole cose, e perciò appunto le picciole cose gliene suggeriscono delle grandi ed importanti, che senza quasi accorgersi di dirle sorprendono gli astanti. Siccome le cose stesse e la presenza degli oggetti lo strascinano quasi a lor piacimento, così egli è ben lontano di esser sagace e diffidente calcolatore degli effetti e conseguenze delle cose, e invece è un eccellente pesatore delle qualità loro piacevoli o dispiacevoli: non è dunque di quegli uomini pei quali ogni detto o fatto proprio o d’altrui è una linea che tende ad un centro, un mezzo diretto ad un fine, un oggetto di esame e di ponderazione per la loro felicità: la stima e l’approvazione degli altri è per lui un effetto necessario, al quale non tende direttamente, al quale non pensa, della privazione del quale non s’offende, e appena quasi s’accorge, perché dall’affetto ch’egli prende alle cose ed alle qualità loro è spinto all’azione, piuttosto che da questo mobile mutabile ed arbitrario: dunque nelle sue azioni e parole nulla si scorge di preparato e di artificioso, nulla che indichi un amor proprio diffidente, osservatore ed aucupe dei detti e delle dimostrazioni altrui esteriori di stima e di lode. Egli parla volentieri di se medesimo, perché parla come pensa; quindi riesce più grato e più ricercato degli altri, perché tranquilli lascia gli amor propri altrui, e gli affetti e i capricci loro, e tutti quei minimi gusti ed interessi che variano e tessono il fondo uniforme della vita nostra, e non si chiamano affari perché non sono durevoli: sono più al largo con un uomo di tal tempra, che non con altri di un umor più predominante e più difficile. Facile sarà quindi il conoscere che sia lo stile di bonarietà, e quale impressione faccia nell’animo de’ lettori. Le accessorie saranno non disposte coll’ordine e colla scelta che è la migliore per ottenere la massima impressione in chi legge, ma bensì in maniera che indicano tutta l’impressione e la persuasione dello scrittore, accozzando le più picciole alle più grandi idee, le espressioni avvilite dal costume e dalla delicatezza sociale colle più nobili ed energiche, rompendo ad ogni tratto quell’esatto filo che ci guida d’una idea nell’altra, abbandonandosi totalmente alla corrente delle idee, ancorché principali non siano; ma, dipingendo sempre se medesimo o la maniera sua di sentire, egli mette affetto, azione o grandezza nelle cose tutte senz’arte e senza studio, cioè senza prevedere egli medesimo che lo faccia, e senza prevenirne chi legge. Nasce da queste qualità quell’affetto invincibile che ci attacca e ci fa perdere le ore e i giorni del travaglio e della gloria dietro libri scritti in questa foggia, se pur perdita può chiamarsi un così dolce esercizio dell’animo modificato e modellato più dalle impressioni grandi e vigorose di una natura libera e padrona, che smunto ed assottigliato dai noiosi e servili aiuti dell’arte e delle regole.[2] Chi legge stili di questa sorte non si accorge di avere un maestro, ma un amico. Non entra in diffidenza alcuna contro di lui, non sollevasi alcun ambizioso pensiere di esame e di critica che lo vendichi dall’umiliazione che prova al rapido e trionfante succedersi dei ragionamenti di un uomo superiore; ma i difetti con libera franchezza lasciati scappare dall’autore, la buona fede con cui espone se medesimo, gli fanno perdonare la grandezza e la superiorità delle idee; l’istruzione entra secreta e di soppiatto, e ci pare piuttosto di conquistare che di essere conquistati, di tirarci con noi l’autore che di esserne tirati: quindi l’uomo di mondo, potente sulle cose e sulle combinazioni di quelle, perdona alla filosofia, che riguarda come una severa e debole censuratrice della sua condotta; quindi il dotto, che divaga senz’utilità alcuna nell’immenso pelago dell’erudizione, si riconduce a se stesso, alla società degli uomini, all’andamento naturale ed interessante delle cose giornaliere, presenti e continue. Quindi i risultati più speculativi e profondi della morale e della politica, nascosti ed internati ne’ più cupi recessi della filosofia, riprendono la forma originaria nella qual nacquero, e sono esposti con quella istess’aria di spontanea e non affettata facilità con cui si tessono i cicaleggi delle consuete conversazioni, nei quali consiste tutta la scienza e la filosofia degl’inoperosi.

XII. Dei difetti dello stile

Avendo annoverate molte delle buone qualità dello stile, sarà facile il comprendere e il definire quali siano i stili difettosi, per esempio stile gonfio, freddo, noioso, languido, stentato, legato, duro, ed altri. Noi diciamo, per esempio, gonfia una cosa che sotto molto volume contiene poca materia; così, gonfio sarà quello stile che, sotto espressioni sonanti e piene, poche e picciole idee rinchiude, parlando di accessorie proprie, ed in cui le accessorie, che sono traslati, sien traslati in modo che il significato indiretto e figurato sia di nissun valore, e superfluo all’idea principale ed a tutto il fascio delle accessorie, ma il significato diretto sia ampio e forte, ma niente legato con tutto il resto.

Così, freddo sarà quello stile che nissun movimento eccita nell’animo, nissuna immediata sensazione, ma solamente debolissime e lontane, quali appena bastino perché nasca concatenazione d’idee, giudizio e paragone nell’animo: così il freddo intorpidisce le membra, e le ferma nell’inazione; similmente l’animo di chi legge resta torpido ed insensibile, non mosso che dalle immediate sensazioni auditive o visibili delle parole, e per conseguenza in una situazione troppo uniforme ed inferiore a quella che prova quando, senza premura alcuna, riceve l’impressione degli oggetti attuali. Così lo stile sarà stentato quando le idee siano talmente disordinate e poco chiaramente enunciate, cioè con espressioni che danno luogo ad altre idee principali, che la rapidità delle idee dello scrittore sia minore della rapidità delle idee del lettore. Così, languido sarà quello stile nel quale le accessorie saranno meno vive e meno sensibili di quello che lo siano le idee che naturalmente si presentano colle principali alla considerazione di chi legge: questi deve indebolire il movimento della sua fantasia, e ritardare l’alacrità delle proprie idee per mettersi al livello dello stile dello scrittore, e perciò prova quella mancanza successiva di movimento e di forza, che languore e languidezza viene chiamata.

Parimente chiameremo legato quello stile nel quale le idee accessorie sono piuttosto unite sforzatamente, e co’ legami grammaticali, che naturalmente, e coi legami logici con cui le idee si combinano ordinariamente. Ogni volta che si avvicina o si unisce un’idea con un’altra che abbia più stretta connessione con una terza, se questa è inutile o contraria alla serie delle idee vi sarà una distrazione ed un vacillamento nella mente di chi legge, la quale andrà affannandosi intorno a quella terza idea che, malgrado lo scrittore e la connessione grammaticale, affacciasi ostinatamente.

Tutti questi intralciamenti d’idee, poco connesse naturalmente, e solo forzatamente colle parole accozzate insieme, quelle idee inutili e contrarie sovente al fine proposto che si risvegliano in grazia di espressioni malamente scelte e mal combinate, formano la durezza dello stile, così chiamata perché, poco bene adattandosi alle idee principali le accessorie, e queste da espressioni destate che non rispondono esattamente allo scopo prefisso, oppongono all’attenzione di chi legge difficoltà e resistenza a progredire più avanti.

Soverchia fatica per me sarebbe e pei lettori l’annoverare tutt’i difetti dello stile, e lo spiegare tutta la prolissa nomenclatura di tutte le viziose maniere di quello: se il principio da me proposto e sviluppato in tutte le sue modificazioni è la vera norma onde scegliere, fra le varie e molteplici espressioni, in ogni caso la migliore, tutte le diverse combinazioni d’idee che si opporranno a questi principii saranno tante diverse qualità di stili viziosi; e perciò non avrei che a stendere le proposizioni contrarie alle già dimostrate per noiosamente pretendere di avere trattata a fondo questa materia: nel qual caso otterrei forse di accontentare qualche scrupoloso pesatore di volumi, che ama d’intirizzirsi nel rigore della più esatta distribuzione de’ minimi dettagli; ma sarei con annoiato disprezzo rigettato da tutti quelli che i libri prendono come occasioni ed eccitamenti dei loro pensieri, come guide che additano una strada nella quale vogliono stamparvi le proprie traccie e corrervi padroni e liberi, non seguire con umile docilità le orme lente ed imbarazzate di un precettore istancabile.

XIII. Dell’armonia dello stile

Finora io ho parlato dello stile, considerando semplicemente le parole come espressioni d’idee: ma non ho considerata la relazione che passa tra la successione meccanica dei suoni, quantunque non pronunciata talvolta, e la serie delle idee. Eccellenti precetti ed ottime riflessioni sono state da gran maestri suggerite intorno a ciò, ed è forse questa la parte nella quale sono stati meno misteriosi ed occulti, e nella quale hanno più concesso d’influenza all’arte ed all’esercizio di alcuni principii fissi e dominatori, piuttosto che di ricorrere allo spedito rifugio della mistica ispirazione della natura, perché troppo manifeste e chiare sono le esterne relazioni e le influenze di questi suoni negli organi esterni.

Io dunque non mi dilungherò punto a ripetere ed a misurare il valore delle vocali e consonanti, ed a indicarne minutamente le combinazioni le più musicali ed armoniose; solo mi basterà accennare alcune poche riflessioni che non sono le più ovvie. La durezza e l’intralciamento de’ suoni non solamente sono disaggradevoli all’orecchio, ma sono nocive ancora alla successione facile delle idee: siccome le parole sono i mezzi onde quelle si comunicano, e la volubile fluidità de’ suoni che si trasmettono serve come di veicolo per trasportare le idee dall’uno all’altro; e, come abbiamo accennato altrove, questo mezzo dev’essere il più immediato, il più pronto, il più facile ed efficace, ed il meno occupante di se medesimo che sia possibile, acciocché l’attenzione si occupi tutta delle cose ch’egli trasporta con sé, e non resti distratta dall’istromento che serve ad un’operazione in danno dell’operazione stessa: ora, egli è facile il dimostrare che la facile successione de’ suoni, che l’armonia ed il concento delle parole ottengono quest’effetto, di occupar meno di se medesime che delle idee che rappresentano; ma, dirassi, se l’armonia piace all’orecchio, attenta a questo piacere l’anima si sottraerà dall’attenzione delle idee per lasciarsi strascinare dietro la soave melodia delle parole. Rispondo: ma se le parole sono disposte in maniera che i suoni riescano interrotti, aspri, spezzati e imbarazzantisi tra di loro, l’anima soffrirà un vero dolore che annerirà e disturberà tutte le idee, benché piacevoli ed interessanti esse siano, e sarà più occupata a schivare questo disturbo che a prestarsi alle idee dell’autore. I piaceri sono rare volte così vivi, che escludano la compagnia di altre idee; ma il dolore per lo più è imperioso e solo nell’animo, e tutta convelle l’immaginazione, e tutte le impressioni simultanee sono da tal convulsione modificate e travolte: ma il piacere, nel quale l’animo si ferma e si adagia, ammette talmente moltiplicità d’idee, che anzi taluno ha voluto provare che l’essenza del piacere non in altro consiste che in questa moltiplicità d’idee uniformi simultaneamente dall’animo sentite.[3]

Ora, l’animo per necessità dovendo, per mezzo di sensazioni fisiche esteriori auditive e visibili, conoscere le altrui idee o sensazioni, non può a meno di non occuparsi del mezzo trasportatore di tali idee; ora, se le parole sono facili, scorrevoli, fluide, soggette ad un numero costante, nasce l’abitudine e la spontanea proclività dell’animo a ricevere ed a lasciarsi penetrare da un tal mezzo di comunicazione, onde, da quest’abitudine assuefatto, tutta concentra l’energia dell’attenzione verso le idee da quello rappresentate ed eccitate; ma le interrotte ed irregolari ondulazioni rompono il corso dell’attenzione alle idee, e la trasportano al risentimento dell’orecchio offeso e maltrattato; il che è osservabile avvenire, ancorché mutolo perfettamente chi legge scorra coll’occhio solamente, perché le parole vedute si trasportano per tacita e mentale associazione alle parole udite, e la reminiscenza rumina secretamente i suoni tutti, ancorché un atomo d’aria non sia mosso dalla pronunciazione: tanto è vera questa osservazione della facilità o, per dir meglio, della quasi trasparenza e pellucidità che il mezzo comunicatore delle idee deve avere, che la poesia, che si assoggetta ad una misura costante, fa per questo solo motivo una più viva percossa nell’animo, e dà agli oggetti una più vera presenza, che non il discorso sciolto da ogni metro, quantunque armonico e concentoso; e la memoria ne è più franca e sicura, perché tanto più facilmente ognuno ricordasi quanto maggiori sono i lati e i vincoli vicendevoli delle idee, e tanto questi sono maggiori quanto le idee sono più vive e più strettamente unite tra di loro, e lo sono da parole che facilmente si collocano e si diffondono per la immaginazione, perché queste si richiamano più facilmente ancora.

Quindi vediamo ancora che le lingue tutte sono tanto più energiche e poetiche, quanto conservano più fresca la traccia del linguaggio primitivo ed originario, che è il linguaggio rappresentativo e di azione; e perciò quelle che hanno meno parole grammaticali, o che le hanno rilegate al fine delle parole significanti, hanno più d’energia; e più d’energia hanno quelle lingue di cui le parole complesse rappresentanti idee complesse sono visibilmente composte di radicali immediatamente rappresentanti sensazioni; onde nel discorso il più raffinato e composto di società culta ed artificiosa, l’orme sensibili si conoscano ed i primi lineamenti di una selvaggia ed incolta fantasia.

Nel principio di queste Ricerche abbiamo veduto che l’animo nostro ha bisogno di una certa quantità simultanea d’impressioni, siano contemporanee, siano immediatamente e rapidamente succedentisi; al di qua o al di là della quale o il penoso sentimento di mancanza o la stanchezza e confusione fannosi sentire. Parimente diremo che è necessaria una certa quantità di suoni, che entrino in una volta nell’animo, voglio dire senza interruzione e posa, perché se troppi suoni si accavalleranno gli uni su gli altri, il corso della mente sarà soverchiato, e non potremo se non sentirne affanno e stanchezza, e perderemo di mira le idee, ispessendosi ed addensandosi, per così dire, il fluido trasportatore di quelle. Se poi i suoni saranno troppo scarsi e deboli, oltrecché le idee che si vogliono eccitare non potranno esserlo senza che diventino vaghe ed erranti a capriccio nella immaginazione, noi sentiremo mancanza e vuoto; onde la mente, sentendo improvvisamente cessare quel movimento al quale si aspettava, ed eravi proclive ed avvezzata, resterà attonita e cruciata: il che avviene ogni qual volta un movimento da noi concepito è improvvisamente fermato, perché senza saltare a movimenti tutti diversi, e perciò in quel caso molto maggiori e violenti, non può eseguirsi una tal fermata. Quanto la successione de’ suoni è più armonica e risuonante, e scorrono le voci con maggiore varietà e rotondità di periodi, tanta maggior copia di quelli entra nell’animo senza interrompimento e pausa; dunque entravi e deve entrarvi col mezzo trasportatore una maggior quantità d’idee alla volta: ora, una maggior quantità d’idee espresse suppone (come abbiamo visto) una minore e scarsissima quantità d’idee suggerite; dunque la troppa armonia de’ suoni non sarà adattata a quelle combinazioni di accessorie, dove non solo si eccitano le idee dalle parole rappresentate, ma ne suggeriscono altre molte; nel qual caso qualche interrompimento di armonia, e qualche collisione di suoni che fermino ed arrestino il moto concepito, giovano a dar tempo all’immaginazione, durante questo vuoto, che si risveglino queste idee non immediatamente dalle parole suggerite. Dunque gli stili di riflessione pensati e profondi non richieggono la più grande e la più estesa armonia, ma bensì spesse pause, e suoni che da sé sussistano senza che siano combinati in modo che si invitino e si attraggano gli uni gli altri, come gli anelli di una catena: e così debbono essere, e lo sono, quelle sentenze che penetrano e feriscono per lungo tempo l’animo; e se non risuonano nell’orecchio, rimbombano però nel più cupo delle nostre facoltà, dove si annidano per sempre, per farsi sentire replicatamente nella reminiscenza, la quale è sempre più forte quando risvegliasi per idee del medesimo genere reciprocamente legate ed unite, che per parole che sono idee di un genere unite ad idee che lo sono di un altro. L’armonia dello stile sarà dunque ottima dove si tratti non di far pensare e riflettere, ma dove è necessario di rendere attento l’uditore; senza del quale allettamento, abbandonato a se medesimo, potrebbe facilmente distrarsi; così, dove sia moltitudine riunita, il concento delle parole può essere giovevole, perché altrimenti, senza questo mecanico e fisico fascino, che tutti strascina verso il parlatore gli spettatori, questi vicendevolmente si distraerebbero.

Superfluo è il qui parlare de’ suoni imitatori delle cose stesse, de’ quali comuni ed ampli sono gli esempi, e verissime osservazioni si trovano negli scrittori; ma non credo inutile il qui accennare una più delicata sorte d’imitazione, la quale consiste nel far sì che i suoni esprimano la maniera con cui sono combinate le idee e i sentimenti stessi, cosicché l’elevazione, la mollezza, il disordine, la spezzatura delle idee siano rappresentate da suoni elevati, molli, disordinati, spezzati; dove sia perfetta identità d’idee, siavi identità di suoni, e cresca la varietà di questi in proporzione della varietà di quelle; dove siano idee intermedie soppresse, sianvi parimenti suoni non rivolgentisi gli uni negli altri, ma collidentisi; e se la lingua e la grammatica lo soffre, siavi soppressione di vocali ed addensamenti di consonanti: in somma, che siano dallo scrittore espresse, per quanto egli è possibile, e rese evidenti tutte le analogie che passano fra le sensazioni appartenenti a diversi sensi.

XIV. Delle passioni riguardo allo stile

Noi fino ad ora abbiamo considerato lo stile principalmente riguardo alle combinazioni di accessorie principali, cioè d’idee destinate ad enunciare una verità, piuttosto che ai sentimenti principali destinati a manifestare ed eccitare una sensazione interna di piacere o di avversione, secondo la distinzione fatta fino sul principio di queste Ricerche. Da questa sola distinzione chiaramente apparisce che le idee principali in questo senso devono essere anche ridotte in ultima analisi almeno a due; perché ogni cosa, di cui si cerca la somiglianza o dissimiglianza ad un’altra, suppone la presenza e la coesistenza sia mentale sia reale di quella; quando, trattandosi di sentimenti principali, può essere il sentimento principale solo ed isolato, cioè non essere oggetto di paragone con nissun’altra idea o sentimento, quantunque composto egli sia ed abbia origine da altri moltiplici sentimenti, e più effetti egli produca; ora, oltre queste cause ed effetti, sonovi altri sentimenti ed altre passioni analoghe e producentisi scambievolmente, che possono servire di accessorie ad una passione o ad un sentimento principale. Egli è necessario di sviluppar meglio ciò che qui abbiamo solamente indicato. Una passione è un’impressione sempre costante della sensibilità nostra tutta rivolta ad un medesimo oggetto; ella è un desiderio di ottenere o di fuggir qualche cosa che sempre si riproduce, ed è sempre riprodotto nella nostra mente quasi in ogni circostanza; e quella folla d’idee e di oggetti che dissipa gli uomini non appassionati, e divide l’attenzione in varie parti, concentra e rinforza quest’unico e padrone desiderio, perché sono in tal guisa combinati, che lo richiamano continuamente; e può una moltitudine di oggetti richiamarne un solo in un soggetto, e non in un altro, quando quegli e non questi sia stato in circostanze che tali oggetti siano o successivamente o simultaneamente stati coesistenti con quello che è divenuto oggetto di passione. Una passione è dunque un desiderio talmente associato nell’animo con tutto il resto delle idee, che quasi al tocco di ognuna di quelle si risveglia e si riaccende; e potrebbonsi i gradi di passione misurare per la quantità delle associazioni che formano o, per dir meglio, per la quantità delle idee che la risvegliano.

Potrebbe qui alcuno di que’ pochi che non amano di pigramente riposarsi sulle asserzioni altrui, ricercarmi che sia desiderio, e a qual combinazione di sensazioni gli uomini abbiano dato questo nome. Ogni desiderio suppone mancanza della cosa desiderata; pure, non ciò solo suppone, ma ancora sentimento penoso di detta mancanza. Ora, per sentire ed accorgersi di una cosa che manchi, è necessario di aver l’idea di tal cosa mancante; perché chiunque consulti interiormente se stesso, troverà il desiderio essere distinto da ogni altro sentimento penoso; onde sentonsi dolori senza idee nella mente da cui si veggano originati; mentre, per lo contrario, chi desidera e s’inquieta per una cosa che non ha, ha benissimo l’idea di questa cosa. Ora, come l’idea di una cosa piacevole, cioè un’idea per se stessa grata e soave, può, non avendosi la cosa stessa, esser cagione d’inquietudine e di dolore? Il non avere la cosa stessa che si desidera, nient’altro significa realmente che il non avere idee così vive, né così strettamente unite e simultanee, come quando la cosa chiamasi presente e reale; ora, dicono alcuni, il paragone che facciamo tra la vivacità degli oggetti presenti e la debolezza d’impressione della idea della cosa desiderata produce nell’animo uno sforzo doloroso per ridurre all’attualità, cioè al medesimo grado di vivacità, questa debole impressione. È necessario di spiegare a qual sensazione corrisponda la dolorosa percezione dell’anima; perché pare che non dovrebbe corrispondere alle impressioni degli oggetti presenti, che servono di oggetto di paragone, perché questi possono essere o indifferenti o piacevoli ancora; non alla debole sensazione della cosa desiderata, perché se la sensazione attuale della cosa stessa, cioè un maggior grado di vivacità della medesima, non è dolorosa, tanto meno dovrebbe esserlo la sensazione che se ne ha desiderandola, perché più debole e meno viva, almeno secondo le teorie ordinarie del piacere e del dolore, secondo le quali le percezioni dolorose dell’animo suppongono un’impressione più forte nell’organo che occasiona tali percezioni, di quello che lo sia l’impressione occasionante la percezione piacevole. Per ispiegare dunque in qual maniera desiderando noi sentiamo qualche cosa che internamente ci crucia e c’inquieta, credo che si potrebbe facilmente ottenere l’intento supponendo un sesto senso interiore, il quale in una maniera sua propria occasioni nell’anima altre percezioni distinte da quelle che gli altri sensi vi occasionano. Per ammettere questo sesto senso non è necessario di allontanarsi da’ più sicuri principii psicologici. Ognuno che ha lumi su di questa importante materia sa che gli organi de’ sensi, i quali ricevono le impressioni degli oggetti esterni per mezzo de’ nervi che servono ad un tal uso, trasmettono tali impressioni nella sostanza del cervello, ove questi stessi nervi hanno una comune origine; ora, questa comune origine chiamasi sensorio comune, ai movimenti del quale poi corrispondono le idee e le percezioni dell’anima. A tali e tanti movimenti in questo sensorio prodotti corrispondono altrettante e diverse idee dell’anima; cosicché se i movimenti son molti, molte sieno le idee; se i movimenti sieno distinti, distinte sono ancora le idee; se quelli sieno deboli o confusi, parimenti poco vivaci o perturbate siano queste. Ciò supposto, in quella maniera che l’anima distingue le percezioni in lei eccitate all’occasione dell’impressioni della luce, che l’occhio trasmette, dalle percezioni eccitate all’occasione delle impressioni del suono per mezzo dell’orecchio prodotte in questo comune sensorio, nella stessa maniera possono eccitarsi nell’anima percezioni distinte e diverse dalle percezioni della luce e del suono, quando la luce ed il suono, trasmettendo le impressioni loro nel comune sensorio, possano eccitare, oltre i movimenti che occasionano le dette percezioni, altri movimenti ancora.[4] Ora, pare che tali movimenti eccitare si debbano, perché in qual altra maniera arriveressimo noi ad unire e comporre molte percezioni occasionate da’ differenti sensi, per esempio dall’occhio e dall’udito, ed attribuirle ad un solo oggetto, se non vi fosse comunicazione tra le impressioni di un organo e quelle di un altro? Ora, questa comunicazione d’impressioni formerà un terzo movimento nel comune sensorio distinto dalle impressioni lucide e dalle sonore, il quale occasionerà nell’anima una terza idea distinta dalle idee della luce e dalle idee del suono. Ora, le percezioni dello spirito sono o piacevoli o dolorose, secondoché i movimenti che le occasionano sono più o meno forti; e queste così saranno, secondo le differenti maniere con cui questi movimenti sono generati: i nervi occasionatori delle idee dell’anima sono variamente intralciati nel comune sensorio, e quelli di un senso comunicano con quelli di un altro.

Queste comunicazioni sono parimenti ramificazioni di nervi forse più sottili e delicate di quelle che si spandono ai differenti organi de’ sensi: un movimento che non è troppo forte per questi, può esserlo per quelli; dunque le percezioni che questi movimenti occasioneranno nello spirito saranno dolorose per la legge del commercio reciproco, per la qual legge a tali movimenti distinti nel comune sensorio tali determinate e distinte idee corrispondono nell’anima. Se dunque alla vista di una rosa sento in me risvegliarsi il desiderio di fiutarla, io sentomi inquieto, io sento un picciolo dolore finché non abbia adempito a questo mio desiderio. Per mezzo dell’occhio, cioè per mezzo delle impressioni del colore e della figura della rosa, sento risvegliarsi in me reminiscenza del soave di lei odore: vi è trasmissione nel sensorio comune dalle impressioni della luce e della figura alle impressioni che corrisponderebbono all’organo dell’odorato; questa trasmissione farà dunque tre impressioni distinte in questo sensorio: l’una sarà l’anzidetta di luce e figura, l’altra sarà fatta su nervi che trasmettono le impressioni dell’odorato, una terza fatta su nervi più sottili e più deboli, che rendono comunicanti i nervi appartenenti a questi due sensi: questa terza impressione può essere troppo forte, perché riceve un movimento eguale a quello che ricevono i nervi appartenenti alle impressioni esteriori del senso della vista: la impressione poi ricevuta dai nervi dell’odorato non lo sarà, perché questi saranno simili a quelli dell’altro senso; queste tre impressioni occasioneranno tre percezioni distinte dell’anima: la prima sarà idea piacevole di luce e figura, la seconda sarà idea parimenti piacevole di odore, la terza sarà percezione dolorosa, ma necessaria ad unire insieme le altre due idee. Ecco in qual maniera si possa spiegare l’inquietudine cagionata dal desiderio, la quale non cessa se non quando, realizzandosi le due percezioni di vista e di odorato simultaneamente, noi non faremo più attenzione a questa terza percezione; comunicandosi vicendevolmente questi moti, si confondono nel comune sensorio e s’indeboliscono, perciò le idee da quelli occasionate diverranno sempre più deboli, meno dolorose, piacevoli o indifferenti. Di qui si può spiegare quel verissimo fenomeno, da Lucrezio accennatoci, che l’animo, in mezzo a’ piaceri più vivi che i sensi ci cagionano, sente una secreta puntura che ci rende inquieti, e forse ci preserva dal troppo abbandonarci alle presenti impressioni:
medio de fonte leporum
surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat.

Quindi, astrazione fatta dalle più serie considerazioni che ci debbono render guardinghi contro le sensazioni troppo vive, queste percezioni dolorose sono originate dai movimenti che il tessuto più delicato del comune sensorio troppo fortemente commovono, nel mentre che le impressioni esteriori, per diversi sensi trasmesse, si comunicano tra di loro. Io ho voluto con qualche accuratezza sviluppare questa ipotesi perché può condurci a spiegare con chiarezza maggiore molti inviluppati fenomeni dell’animo nostro.

Potrebbesi ancora ricorrere all’altra ipotesi da me accennata, cioè che ogni sensazione elementare ed unica sia dolorosa, ma che un fascio di queste sensazioni elementari dolorose, vicine e, per così dire, confondentisi l’una coll’altra, si contemperino e si rintuzzino in modo che facciano un tutto che sia piacevole e grato; che la natura del piacere sia d’essere composta di molte sensazioni contemporanee, e che quella del dolore sia d’esserlo di sensazioni distaccate ed isolate; e che il moto accresciuto, ossia l’eccessiva vivacità delle sensazioni piacevoli medesime, divenga dolorosa, perché questo accrescimento di moto non si faccia se non si interrompa la continuità delle fibre producenti la sensazione, e le si rendano incomunicanti tra di loro, e perciò si riducano al loro stato proprio, cioè di far sentir dolorosamente. In questa ipotesi potrebbesi dire che ciascuna di queste sensazioni interiori sia elementare e dolorosa; che le sensazioni esteriori siano quasi sempre composte e perciò piacevoli; che i desideri di cose piacevoli sono idee interiori simili alle esteriori, ma che, per conseguenza, quando sieno unicamente eccitate e non contemperate da altre immediate e contemporanee, quelle sian dolorose, ancorché queste sian piacevoli; e che l’uomo avendo per isperienza provato che, come il doloroso sentimento della fame con il cibo si guarisce, così il cruccio del desiderio si toglie e cangiasi in diletto quando rende attuali le idee eccitate interiormente, cioè quando trova il mezzo di far balzare l’impressione dalle fibre de’ sensi interni a quelle de’ sensi esterni, e quando le sensazioni elementari e dolorose, cioè distaccate e solitarie, può unire ed avvicinare in modo che produca piacere, il che per mezzo di altre idee e di altre sensazioni intermedie e continue può farsi; così ne nasce lo sforzo di soddisfare ai propri desideri, cioè di togliere quella pena interiore che non cessa se non coll’attualità dell’idea medesima, o coll’affollamento di altre idee che la temperino e ne moderino il movimento occasionatore, o la distruggano col suggerirne altre diverse e disparate. Con queste riflessioni si potrebbe spiegare ancora come sorga nell’uomo quell’inquieto desiderio di novità, che lo agita nelle cose troppo uniformi e continue, delle quali si sazia, e lo spingono al cangiamento: perché, rendendosi troppo facili e pronti i movimenti anche composti delle cose solite, ne avviene che questo moto va sempre a finire in un moto comunicato ad una fibra non solitamente mossa, e per conseguenza, finché questa non prenda tanta facilità di produrre altri movimenti nelle sue vicine, di modo che nascer ne possa piacere, o si renda attuale colla presenza dell’oggetto che le corrisponde, sarà sempre dolorosa, e perciò farà nascere l’azione che conduce l’uomo a procacciarsi movimenti maggiori, sia nelle fibre de’ sensi interni, sia in quelle de’ sensi esterni. Ma il volere abbandonarsi a tutte le conseguenze ed a tutt’i ragionamenti che esigono queste due conghietture da me proposte sarebbe un eccedere i limiti anche troppo da me trascurati di una digressione in una materia che richiederebbe una dissertazione particolare: basta che io abbia potuto in qualche maniera appagar me stesso, e quelli de’ miei lettori che non si fermano nelle loro ricerche se non quando è impossibile di proceder più oltre; e basta, per averle avanzate, che non sia così facile il dir qualche cosa di più soddisfacente in un soggetto tanto avviluppato e nascosto: sopra tutto la prima di queste conghietture merita tutti gli sforzi e gli esami de’ pensatori, perché può condurre molto addentro nella cognizione di noi medesimi, o de’ fenomeni dello spirito umano. Queste conghietture non sono state avanzate per cavarne delle conseguenze positive, ma soltanto per ispiegare un fatto che, qualunque spiegazione se ne voglia o se ne possa dare, non lascia di essere di eterna esperienza, cioè che noi sentiamo la privazione di molte idee, e che a questo sentimento di mancanza si riducono tre delle principali e più autorevoli disposizioni dell’animo nostro, cioè il desiderio, la noia e la curiosità: abbiamo visto come il desiderio sia manifestamente un sentimento di mancanza di un oggetto determinato; ora, quando si producono interiormente sentimenti di mancanza moltiplici e indeterminati, il che avviene ogni volta che l’animo, assuefatto da lungo tempo ad una tal quantità d’idee, si diminuisce una tal quantità, allora accorgendosi di una tal mancanza (il che come possa essere abbiamo veduto e, comunque sia, non importa, purché il fatto sia vero, cioè che la privazione talvolta sia senza niente di positivo e talvolta lo sia, voglio dire, accompagnata di sentimento), e restando indeterminate le azioni dalla natura e quantità delle sensazioni attuali producenti interno sentimento di privazione, producesi quel fastidio che chiamasi noia; sentimento perfezionatore dello spirito umano, che cresce colla perfezione di lui medesimo, perché ne crescono le cause produttrici, onde quasi inerte e torpido negli uomini di poche idee, sparsi e divisi, cresce coll’addensamento degli uomini più attivi e più bisognosi. Per intendere poi come la curiosità sia anch’essa un sentimento di privazione, rifletter bisogna ad un fenomeno importante del nostro spirito, che ad altre conseguenze ci deve condurre anche più importanti di queste, cioè non essere in nostra scelta il passare da una idea ad un’altra per qualunque strada, ossia per qualunque serie d’idee noi vogliamo, ma che tra due idee associate non immediatamente, ma per mezzo d’altre idee intermedie, quella non risveglierà giammai questa se non si risveglino le idee intermedie; di più ancora, se le idee siano nuove ed insolite, noi ci accorgiamo della mancanza delle intermedie necessarie, e l’accorgimento di questa mancanza è ciò che noi chiamiamo curiosità. Quindi apparisce, primo, che in proporzione non della quantità delle intermedie cresce la curiosità, ma della vivacità delle idee che la movono, perché il moto doloroso eccitato sulle fibre interne, che danno l’accorgimento di mancanza, è maggiore in proporzione del movimento delle fibre del senso esterno. Secondo, che la curiosità nostra si estende ancora ad idee che poi debbono crucciarci, e forse ancora in appresso produrci un maggior dolore, ma che deve terminare, perché impazienti siamo di rimediare al dolor presente, il quale, essendo continuato, ci priva del godimento di altre cose; e questa privazione di godimento, essendo parimente sentita, fa crescere la quantità del dolore; onde preferiamo di rendere attuale anche un dolore più grande, ma che lascia un campo alle successive idee piacevoli; onde dal solo sentimento di mancanza, ammesso per doloroso e positivo nell’animo, può spiegarsi l’avidità colla quale gli uomini i più volgari, e i fanciulli e le donne, ne’ quali questo sentimento debb’essere il più vivo, corrono agli spettacoli o atroci o insoliti e stravaganti, e può spiegarsi ancora l’approvazione che noi diamo alle cose difficili, e la lode sovente ingiusta che queste riscuotono; perché tormentoso ci riesce quest’interno movimento d’idee, e col sentire la mancanza, cioè il non essere l’idea corrispondente alle impressioni delle fibre de’ sensi esterni, cioè dove sarebbero piacevoli, ma a quelle dove sono dolorose, ci sforziamo di fare questo scambio, e siamo grati a chi ce lo procura col rendere le idee attuali e presenti.

Ripigliando, dopo questa lunga digressione, la materia delle passioni per quanto appartiene allo stile, diremo che, se le passioni altro non sono che un desiderio costantemente ripercosso e ridestato dalla maggior parte delle idee che riceve l’uomo appassionato, chiara cosa sarà che le idee accessorie di questa specie di stili saranno le idee che più comunemente e più facilmente risvegliano tal sorta di desideri. Ora, questi desideri essendo stati definiti sentimenti dolorosi di mancanza, fanno sentire e ripetono nella mente il sentimento di mancanza quegli oggetti che tolgono l’oggetto mancante e desiderato; quelli che son capaci di darlo; quelli che sono naturalmente coesistenti ed associati coll’oggetto della passione; e quelli che manifestano ad altri il sentimento di detta mancanza. Da queste sole fonti si debbono scegliere le idee accessorie, ma in maniera che ciascuna di esse contribuisca a far sentire la mancanza dell’oggetto della passione, il quale oggetto uniforme e sempre quello sarà l’idea principale: quanto più varie saranno tali accessorie, che tutte finiscono ad una comune idea principale, tanto più appassionato sarà lo stile; e sarà tanto più bello, perché risveglierà un maggior numero d’immediate sensazioni, legate tra di loro col vincolo comune e strettissimo di un sentimento doloroso.

Prima di procedere più oltre, giova qui accennare alcuni fenomeni principali, e comuni ad ogni passione. Primo, ogni uomo appassionato precipita con violenza i suoi sforzi per soddisfare la sua passione a misura che è più vicino a soddisfarla; egli non può soddisfarla che con successivi mezzi; questi mezzi ch’egli impiega sono naturalmente associati coll’oggetto della passione ch’egli soffre, e il numero di questi diventa maggiore quanto è più vicino a soddisfarla; dunque in proporzione cresce il sentimento di mancanza, e per conseguenza il dolore e l’inquietudine; quindi l’attività a rimoverli, ed a realizzare l’oggetto e l’idea che sente come mancante. Secondo, ogni uomo appassionato, quantunque soffra dolorosamente, ama ciononostante, e si ostina a nutrirsi ed a ruminare sull’oggetto della propria passione, ed odia e rifiuta di volere di proposito deliberato dissipar l’animo da tali, quantunque tormentose, considerazioni. La mente è talmente avvezza a sentirsi presente l’idea favorita, che non crede, malgrado il cruccio ch’ella soffre, possibili per lei altre combinazioni d’idee; chi si considera profondamente trova che ciascuno di noi sceglie, fra tutta la moltitudine delle idee attuali, quelle che sono più piacevoli, o quelle che conducono più immediatamente alle più piacevoli; né questa naturale tendenza può essere circoscritta, se non da quella facoltà che ha l’anima di preferire l’onesto al piacevole, quand’ella il voglia; in quelle dunque si ferma, finché la dipendenza ed il rapporto che passa fra le idee medesime non faccia sparir la maggior parte delle presenti che formavano l’attual combinazione, per sostituirne altre nuove che sforzino l’attenzione ad una nuova scelta: ciò succede nello stato di tranquillità; ma nello stato di passione, ritornando sempre il sentimento doloroso di mancanza e l’idea dell’oggetto desiderato, e campeggiando fra tutte le idee che nella mente si ammucchiano, da quello richiamate, e lui medesimo richiamanti, ritorna sempre per l’uomo appassionato presso a poco la medesima combinazione; gli par dunque di non avere altra via di rendersi felice in ciascun momento, che di scegliere le più piacevoli nella combinazione di tutte le idee che formano la passione, cioè le associate al sentimento doloroso di mancanza: dunque, quantunque da quello crucciato ed afflitto, lo risguarda ciononostante come l’unico per lui che possa fornirgli idee grate e piacevoli; e perciò abborrisce e fugge di dissiparsi. Quindi, qualunque benché menoma cosa appartenga all’oggetto della passione di un uomo, è per lui preziosissima. Osservisi un giuocatore, con qual attenzione ed intrinsichezza maneggia le carte, e come giubila e gli brillano gli occhi, e si sente largo e comodo nel luogo e fra quelle persone dove e con le quali arrischia la fortuna di una deplorata famiglia, e dove si è visto tante volte smanioso e rabuffato, e tinto il volto di disperato pallore; chiedasi ad un amante sfortunato, qual profonda scossa e quanto aspra voluttà egli senta al solo avvicinarsi alle vesti, al solo respirar l’aria ventilata, al solo udire il lontano calpestìo dell’idolo superbo che lo tiranneggia, e con quanto ostinata assiduità e piacere contempla il fumo che ascende da quella casa ove dimora, e quasi ne invidia le insensibili pietre e i freddi marmi; eppure una tormentosa cura gli morde continuamente il cuore e ne domina altamente tutte le facoltà. Quindi si può incidentemente osservare che difficilmente si guariscono gli uomini da una passione urtandola di fronte, ma bensì obbliquamente e per gradi declinandola, né con manifesta ed importuna assiduità cercando di alienar l’animo che sempre ritorna verso il molesto pensiero, ma anzi mostrandovisi interessato, e nutrendolo di pensieri analoghi, ma talmente molti e vari che a poco a poco ed insensibilmente pieghino l’attenzione, ed o tutta la forza di quella dividano, cosicché l’idea dominante non abbia più poter di prevalere, o ne sorgano altre parimente dominanti che quella moderino e, per così dire, contrabilancino con oggetti equivalenti. Chi possedesse a fondo l’arte di raccogliere e concentrare la sparsa e divisa attenzione da molti oggetti su di un solo, quando faccia d’uopo; e parimenti, quando faccia d’uopo, la raccolta e concentrata su di un solo, spargere e dividere su di molti: colui certamente, sciogliendo in ogni caso questi due fondamentali problemi, tutto il secreto saprebbe dell’eloquenza e dell’arte delicatissima di condurre gli uomini; né questi problemi sciogliere si possono altrimenti che conoscendo profondamente tutte le facoltà dell’uomo, e sapendo, date tali idee attuali e tal combinazione d’idee, qual sia per essere l’interesse momentaneo: onde e l’eloquenza ed una massima parte delle belle arti sta in questa definizione, cioè essere queste le arti di render presenti le cose remote, passate e future.

Il terzo fenomeno, da tutti osservabile e da tutti osservato, si è che le passioni tutte, come gli anelli di una catena, sono legate fra di loro, e si chiamano l’una l’altra, cosicché una sia la dominante e principale, e le altre subalterne ed accessorie, in maniera che gli uomini non variano tanto per la varietà delle passioni, quanto per la varietà degli oggetti che le accendono; e quella varietà che è nelle passioni stesse consiste piuttosto nell’essere principale in uno quella che in un altro è subalterna, la dominante di costui l’accessoria di un altro: chiunque ama una cosa e la desidera ardentemente, invidia chi la possiede, si adira con chi ne lo allontana, odia chi costantemente gliela rifiuta; appena ottenuta, teme di perderla, ne diventa geloso custode, si crede felice possedendola, s’immagina che gli altri lo riputeranno felice, e però si crede superiore a chi ne è privo; s’invanisce perciò e diventa ambizioso, e quindi aucupe della lode da una parte, ed avido di comandar dall’altra, per assicurarsi od aumentare il possedimento della cosa prediletta. Così chiaramente si vede che chi avesse una di queste passioni, l’altre parimenti avrebbe, non dominanti però, ma subalterne ed accessorie; anzi, strettamente ragionando, deve dirsi che la passione sia unica, cioè la dominante, e le passioni subalterne siano solamente sentimenti ossia passioni iniziali, perché la nozione di passione involve, secondo le cose da noi sopra rischiarate, costanza e predominio su tutto il restante delle idee: le passioni subalterne sono altrettanti sentimenti dolorosi di mancanza che rinforzano il primario sentimento, e che talvolta per la moltiplicità delle circostanze può successivamente prevalere e guadagnare su quello, onde, di principale e dominante, egli divenga subalterno ed accessorio; perciò s’intende come sia facile il trasformarsi di una passione in un’altra; anzi sia meno difficile il passar da una passione ad un’altra, che dallo stato di tranquillità, ma di tranquillità abbondante di idee ed operosa, allo stato di passione; dico abbondante di idee ed operosa, perché lo stato di tranquillità va distinto dallo stato di inazione, perché il primo significa soltanto equilibrio d’idee, le quali, se siano molte e varie, è difficilissimo che o l’una di queste od una nuova sorga a conquistare la divisa attenzione; quando lo stato di inazione significa poche idee, onde è più facile che una benché debole impressione nasca ad usurpare il dominio dell’intelletto.

Quarto, sonovi due classi generali di passioni: passioni che hanno un oggetto determinato ed unico; passioni che hanno un oggetto vario ed indeterminato; anzi, con maggior precisione diremo che ciascuna passione può essere determinata e indeterminata nel suo oggetto: l’amore, per esempio, e la lascivia, in ultima analisi, finiscono ad un istesso desiderio, ossia al sentimento doloroso di mancanza di oggetti del medesimo genere; ma l’amore sarà determinato ad un solo individuo esclusivamente, e l’altra passione a molti ed indeterminati individui del sesso che può essere oggetto della passione; così l’invidia può tormentarci considerando che noi non godiamo il bene e la felicità di un tale, oppure ogni volta che noi ci consideriamo come privi di tutti quei beni che troviamo esser posseduti da quei molti che l’occasione ci presenta; e l’ambizione può esser diretta ad acquistare una tal determinata sorte di comando, che noi calcoliamo come essenziale alla nostra felicità, o veramente ad acquistare generalmente qualunque sorta di autorità. Le prime sono più attive e violente, perché il legame tra l’idea dominante e l’idee subalterne è molto più forte e molto più stretto che nelle seconde, dove molte sono e varie le idee dominanti, quantunque simili e di un medesimo genere, ma atte non pertanto a dividere l’attenzione, e potendo di più ciascuna di queste idee dominanti variare moltissimo nelle idee subalterne colle quali sono associate. Ma siccome le passioni determinate occupano, per così dire, un campo meno vasto nell’animo, così sono meno durevoli, quantunque a prima vista non paia a chi le considera nel loro massimo grado di forza; resta per queste nella folla di tutte le combinazioni della vita, nelle continue e varie scosse degli oggetti presenti, un più gran numero d’idee atte a far divergere l’animo dalla passione: di più, l’oggetto determinato di essa, come unico e determinato, occupa uno spazio, ed è prefisso a tali tempi e a tali luoghi, onde il passaggio del tempo e la distanza del luogo ammortiscono la forza della passione, mancando le idee primarie risvegliatrici di essa: per lo contrario, le passioni indeterminate ed occupano un maggior numero d’idee nell’animo nostro, e, quantunque più deboli, sono più durevoli, perché quasi in ogni luogo ed in ogni tempo trovano l’alimento che le accende e le perpetua nell’animo; quindi quelle sono che degenerano in vizi e creano le abitudini, onde giudicar non si deve del carattere degli uomini dalle loro passioni determinate, perché passaggiere per lo più, ma dalle indeterminate, perché stabili e periodiche.

Io non debbo qui fare un trattato delle passioni, né svilupparne tutto il giuoco, il che richiederebbe un intiero volume; ma ho voluto semplicemente accennare alcune generali osservazioni che ci serviranno a stabilire le massime e i punti di vista da osservarsi dall’eccellente scrittore; e di più lo consiglieranno a meditar profondamente su questa parte della scienza dell’uomo, giacché il bene saper le cose conduce infallibilmente a bene esporle, non essendo l’esposizione che un ritratto fedele di ciò che passa nell’animo nostro.

Dunque, in vigore della prima osservazione, per cui si osserva che le passioni accelerano per gradi la loro forza e la loro violenza, si vedrà da ognuno che la catena delle accessorie che accompagnano le idee principali, significanti passione ed affetto, dovrà essere crescente e, per così dire, accelerata dalle più remote alle più prossime all’oggetto della passione, onde da alcuni pochi ed oscuri lineamenti, che appena la adombrino, si passi a que’ tratti più chiari e più marcati che la circondano e la dimostrano, indi in quelli fermandosi che la sostengono e la mettono incessantemente in azione ed in movimento: questi primi e confusi lineamenti, ben lungi d’impedire l’effetto che si desidera e di nuocere all’impressione che si pretende di fare, servono a sospender l’animo di chi legge od ascolta, a risvegliare la necessaria curiosità, a rimovere l’animo alienato da oggetti estranei allo scopo, e prepararlo a quella situazione nella quale vuol essere, perché senta profondamente ed esclusivamente i tocchi e i risentimenti di quella passione che si descrive. La chiarezza dello stile deve essere costante ed inalterabile nel fare che ogni idea da per sé sia rappresentata con parole e con frasi che la eccitino senza equivoco e senza inciampo di sorte alcuna, ma non nel mostrare in un momento tutt’i rapporti delle idee medesime con altre non ancora espresse o suggerite.

In vigore della seconda osservazione le accessorie saranno tali che tutte affrettino a risvegliar la principale, cosicché quella risvegli tutte queste, e ciascuna di queste quella; non, come è bello talvolta in istili non di passione e di affetto, che per lo contrario si rende importante la principale col fermare la fantasia sulle accessorie: nello stile di passione queste divengono importanti piuttosto in grazia della principale che di lor medesime; perché niente più caratterizza la passione quanto l’esaggerazione che si dà alle cose che le appartengono. Onde le parole indeterminate, e le espressioni che fanno fare giudizi e paragoni, ed indicano rapporti estesi delle cose, indeboliscono l’effetto, quantunque in altre occasioni lo ingrandiscano, perché diminuiscono l’intensità del sentimento; onde la mente è per un verso preparata, e quasi previene l’affetto che si vuol eccitare, e dall’altra viene slanciata a rapporti più estesi, da lei però non sentiti né gustati, perché angustiata dovrebbe farlo con troppa rapidità, né può nello stesso tempo trovarsi in così contrarie situazioni.

La terza considerazione poi ci consiglierà a far consistere le accessorie di uno stile appassionato nelle passioni subalterne ed iniziali, ossia ne’ sentimenti che accompagnano la passione dominante; onde questa, ingrandita e rinforzata dalla folla di tutte le altre passioni, divenga quasi maggior di se stessa, e paia più intensa, più profonda e più aliena dallo stato di indifferenza e di tranquillità: due avvertenze però dovranno in ogni caso aversi; l’una, che queste passioni secondarie siano da tali lati accennate, che richiamino sempre mai la passion dominante; l’altra, che tutta questa catena di affetti sia interspersa di sensazioni fisiche di oggetti. È superfluo, dopo le cose fin qui dette, il render ragione della prima avvertenza, ed apparirà chiara quella della seconda per chi consideri che per sola cagione degli oggetti medesimi gl’interni affetti e si risvegliano e si sentono dentro di noi, e per mezzo di questi soli e delle esterne e fisiche manifestazioni noi gli scorgiamo in altri, e il risentimento analogo all’occasione dell’altrui sentimento in noi si eccita: dunque uno stile, le accessorie del quale fossero tutte espressioni semplicemente esprimenti l’interna successione degli affetti, e lasciasse all’immaginazione di ciascuno la necessaria briga di appoggiarli sulla base degli oggetti e delle sensazioni fisiche ed esteriori, dove solamente possono sostenersi e crescervi, diverrebbe perciò languido, noioso e metafisico, e, se non oscuro, almeno non bene inteso, perché l’attenzione dovrebbe necessariamente alienarsi dalla serie delle idee espresse per andare in cerca di qualche sensazione fisica, su cui appoggiare e sostenere questi sentimenti interni, che come nudi ed isolati sono dipinti dallo scrittore; ed è questa la cagione di quella sazietà che si prova in leggendo gli imitatori del Petrarca e talvolta lui medesimo; onde pensieri pieni di verità, e profondamente presi da’ più cupi recessi del cuore umano, perché nudi e mancanti del loro vero sostegno, riescono spesse volte insipidi e nauseosi: tanto è vero che il principio da noi accennato nell’incominciar quest’opera è il canone fondamentale ed universale per ogni sorta di stile.

Finalmente la quarta osservazione, nella quale noi abbiamo distinto le passioni determinate dalle indeterminate, ci indicherà che le prime vogliono essere descritte per le circostanze loro particolari ed immediate, che appunto le determinano; mentre le seconde non avendo che circostanze generali e comuni, appunto perché sono indeterminate (altrimenti non lo sarebbono), dovrannosi appoggiare ai rapporti meno sentiti e meno preveduti che tali passioni possono avere cogli oggetti tutti, e rinforzare con una maggior copia di oggetti e di circostanze fisiche, di quello che si farebbe colle prime, nelle quali i rapporti più remoti e più fini alienerebbero per sempre l’animo dalla passione determinata; il che non può accadere nelle indeterminate, perché questi rapporti medesimi aiuterebbero a far percorrere l’immaginazione per tutta quella massa di oggetti analoghi che formano la passione indeterminata. La troppa copia delle circostanze fisiche, non potendo prescindere dai legami che queste hanno con altri oggetti, parimenti divertirebbero sempre l’attenzione dalla passione determinata, che come tale ha un oggetto unico e non moltiplice.

Cade qui in acconcio di spiegare un fenomeno non da tutti osservato, perché principalmente negli stili appassionati si osserva e si verifica; cioè che talvolta le cose descritte fanno una impressione più grande della realità medesima di quelle, e maggior piacere e più vivo ed intimo fremito risvegliano nell’animo: nel che bisogna prima di tutto osservare che lo scrittore trasceglie ed accumula a suo arbitrio tutte quelle circostanze le quali contribuir possono a rinforzare sull’animo la percossa che si vuole imprimere, ed allontana tutte quelle che potrebbono indebolirla, quando nella promiscua e moltiplice combinazione de’ giornalieri avvenimenti ben rade volte le cose si trovano così riunite con tutte quelle circostanze che sarebbero atte a portarne l’effetto al suo massimo grado di forza, e così nude e scevre di quelle che lo indeboliscono e divertono in parte dallo scopo a cui tende; che ciò che manca di vivacità e di forza nella imitazione è supplito abbondantemente dalla scelta; di più, il numero delle idee rapidamente succedentisi è più grande nell’imitazione che nella realità, dove la vivacità e la reale grandezza degli oggetti, occupando l’attenzione ad un maggior oggetto in una volta, rende più lenta la successione e la diversità di tutti questi oggetti che a produrre l’effetto concorrono: per lo contrario, essendo minore e più piccola l’impressione di ciascun’idea, risvegliata dal segno rappresentatore, non occupa talmente l’attenzione che non ammetta, anzi non esiga altre idee che immediatamente e senza intervallo alcuno si aiutino e si rinforzano reciprocamente; onde, se l’effetto è minore in ciascuna idea in particolare, egli diventa maggiore in tutto il complesso, perché ristretto in un tempo minore ed in una minore ampiezza, che danno minor luogo alla distrazione, e minor tempo al movimento interno eccitato dalla curiosità e dall’interesse di rallentarsi. Né osta ciò a quanto abbiamo nel principio di queste Ricerche accennato, cioè che lo stile seguir deve la realità, nella quale l’attenzione non si presta che a tre o a quattro idee alla volta, e non più, perché nella realità degli oggetti queste tre o quattro idee o sono prese su di un oggetto solo, o la celerità dell’azione le fa prendere sopra oggetti molto lontani e disparati; ma nello stile l’attenzione di chi legge è forzata alla scelta dello scrittore, che prende queste tre o quattro idee sopra più di un oggetto, tralasciando l’inutile, o si ferma su quelli che nella realità medesima sarebbero dalla celerità stessa perduti ed annientati per chi non li considera: onde non sarà contraddizione il dire che, quantunque le sensazioni eccitate dallo stile siano più picciole e più deboli delle sensazioni grandi, di cui ne sono, per così dire, la copia in miniatura, pure, il prodotto essendo proporzionale alla limitata facoltà di sentire dell’animo, supera l’effetto delle sensazioni grandi, che non possono tutte simultaneamente dall’attenzione abbracciarsi; anzi queste escludono quelle idee accessorie che aumentano le impressioni di quelle, e ne includono delle inutili e superflue, dalle quali la mente volendosi allontanare, si distrae per ciò appunto, e ne sente pena e disagio.

XV. Dell’entusiasmo

Noi abbiamo definite le passioni un desiderio costante e ripetuto quasi in ogni occasione nella mente di chi è appassionato; sonovi altre passioni, ovvero un altro stato dell’animo nostro molto analogo allo stato di passione: questo è lo stato di entusiasmo e di estro, fino ad ora eccellentemente descritto coi più vivi colori, cogli effetti che ne derivano, e colle circostanze che lo circondano; ma nissuno infino ad ora, per quanto io sappia, ne ha data un’idea precisa e determinata la quale rappresenti lo stato della mente o, per dir meglio, paragoni il modo con cui le idee esistono nell’animo, quando ebbro di entusiasmo si sente fervido e fremente, ed affollato dalla moltitudine e dalla varietà delle idee e delle immagini, con quello col quale esistono e si succedono nella mente, quando, tranquilla e fredda, lentamente ed ordinatamente combina, calcola e paragona poche idee alla volta. Io azzarderò la mia opinione con tanto maggior fiducia, quanto i passi anche più limitati e più deboli meritano d’esser valutati in una materia così difficile e complicata, della quale per conoscere chiaramente tutta la natura bisognerebbe e l’interiore struttura del cervello aver conosciuto, e le leggi profonde ed impercettibili della sensibilità avere discoperto, e più di tutto la intima natura dello spirito nostro avere penetrato.

Accennerò dunque brevemente i miei pensieri in questo capitolo, quantunque il luogo più opportuno di parlarne sarà nella seconda parte (la quale verserà intorno all’esercizio ed allo studio che debbe fare chiunque aspira alla gloria di eccellente scrittore), perché lo stato di entusiasmo è a un di presso simile allo stato di passione; onde ciò che si è detto qui di questo contribuisce moltissimo allo schiarimento di quello. Ognuno che sappia cosa sia associazione d’idea deve sapere altresì non essere in nostra balìa il saltare immediatamente da un’idea nell’altra, ma essere necessario il passare per le idee intermedie, che legano un’idea coll’altra; e finché non segua, sia lentamente, sia rapidamente, questo passaggio inevitabile per queste intermedie, dalla prima idea non si arriverà ma alla seconda. Figuriamoci che molte siano queste intermedie, per le quali passando velocemente l’immaginazione, arrivi finalmente a quella idea che da queste è legata colla prima: chiunque avrà esaminato se medesimo attentamente troverà la maniera sua di sentire e di esistere alquanto cangiata; né più quella freddezza e quello stento di prima proverà, ma in qualche modo un certo calore ed una certa alacrità viva e profonda, che nasce dal maggior movimento in cui è posto l’animo per la presenza delle due idee e delle intermedie che le collegano, onde, aumentata la copia delle idee, sembra accresciuto ed ampliato il sentimento della nostra esistenza. Questo stato dell’animo nostro, benché nella maggior parte degli uomini passaggiero e momentaneo, è appunto lo stato di entusiasmo, ma a cui non è stato consacrato questo nome perché mancante di due condizioni che lo rendono sensibile, manifesto ed utile agli altri: perciò dunque figuriamoci una nozione complessa qualunque, alla quale terminino molte serie d’idee, quali ad un lato, quali ad un altro di questa nozione complessa; se l’animo nostro imbocca, per così dire, alcuna di queste serie, egli potrà arrivare con velocità alla nozione complessa, la quale richiamerà tutte le altre serie che a lei finiscono; ora, quanto più numerose ed ampie e varie saranno queste serie, quanto più veloce sarà il passaggio dall’una nell’altra, e quanto più interessanti saranno queste e lo sarà la nozione tutta, tanto più forte e più durevole sarà l’entusiasmo. Onde, se è lecito di geometricamente esprimersi in quest’occasione, l’entusiasmo sarà in ragione composta dell’interesse di ciascuna di queste idee che lo formano, e delle diramazioni maggiori o minori dell’idea centrale: quindi ne viene che se tali idee sono interessanti solamente per chi le prova e le eccita in se medesimo, l’entusiasmo si fermerà in quell’individuo soltanto che lo risente; e gli spettatori, attoniti e sorpresi, lo derideranno dell’importanza e della serietà ch’egli mette in cose che li lasciano tranquilli ed indifferenti; ma se le idee sono interessanti anche per la moltitudine degli ascoltatori, allora l’entusiasmo si comunica e diventa contagioso; né altrimenti che, tolto l’equilibrio nel quale riposa l’elettrico fluido, per qualche improvviso sfregamento si comunica e si propaga, finché non trova un qualche altro aggregato di uguale materia che gli contenda il passaggio, così l’entusiasmo si diffonde e spazia per gli animi tutti che possono esser dentro la sfera della di lui attività, e cessa soltanto di propagarsi se non quando ritrova una mente di altre idee ripiena ed intorno ad altre idee dominanti e centrali occupata. Quella specie di disordine, quella negligenza e trascuranza medesima che intorno a ciascuna cosa in particolare agli uomini di entusiasmo si rimprovera dalle anime scarse e sterili; quell’abitudine medesima che hanno di correre e di avanzarsi sui minimi rapporti delle cose, ed il menomo barlume di una lontana analogia prendere per il chiaro lume dell’evidenza; tutti questi difetti, che quelli sono degli uomini di tal tempra, quando provano l’accesso dell’entusiasmo e nello stesso tempo l’improvviso scagliarsi nelle più remote e disparate combinazioni d’idee, l’avvicinar le cose lontanissime e, togliendo di mezzo con impeto e con fremito tutti gli ostacoli che si oppongono al libero corso delle loro idee, aprire nuove vie allo spirito umano, e in esse orme solitarie, ma franche e rapide, stamparvi; tutti questi difetti, dico, e queste buone qualità, ridotte ai minimi termini, non altro indicano essere l’entusiasmo negli uomini che tre condizioni contemporanee che in una mente debbono verificarsi, cioè, prima: l’aggregato d’idee moltiplici e varie; seconda: queste interessanti; terza: tutte subordinate, e che collimino, come linee ad un centro, ad un’idea che tutte leghi e tutte richiami, e che serva come punto di appoggio all’attenzione che va e ritorna per una folla d’idee. Ma una generale avvertenza è qui da farsi, che queste idee moltiplici, che si richiamano l’una l’altra, sieno rappresentanti sensazioni di cose o di affetti, ma non le semplici idee auditive o visibili delle parole, ossiano segni delle idee; mentre non sarebbero interessanti, ed invece di entusiasmo ne nascerebbe l’insulsa verbosità: il che accade ordinariamente nell’uso promiscuo della vita fra la maggior parte degli uomini, nella mente de’ quali restano più associate e più si risvegliano reciprocamente i segni delle idee fra di loro, che non le idee che vi sottostanno.

Soverchio sarebbe se io volessi esaurire in questo luogo quanto si potrebbe da questa teoria dell’entusiasmo dedurre, la quale da noi si ripiglierà nella seconda parte; nella quale dovendosi parlare dell’esercizio, ossia dell’educazione che ciascheduno deve dare a se stesso per divenire eccellente scrittore, dovremo necessariamente trattare del modo di rendersi familiare l’entusiasmo, e di eccitare a nostro talento l’immaginazione, i piaceri della quale, l’analisi interiore di noi medesimi, l’imitazione, il metodo di studiare, e le leggi della nostra attenzione saranno, io spero, in qualche nuovo aspetto sviluppate; onde la filosofia dell’animo, quella filosofia, cioè, dalla quale sola i grandi pensieri e le grandi cose dipendono, sia dagl’ingegni italiani, per quanto i miei sforzi e i miei tentativi potranno porger loro occasione, studiata e perfezionata.

 

Parte seconda

Se la lunga e disadorna analisi, che ha occupata tutta la prima parte di queste Ricerche, ha potuto ributtare una gran parte di coloro che mi han fatto l’onore di leggerle, ciò nasce da quella naturale propensione la quale ci rende contenti e paghi del sentire e distinguere gli effetti delle cose, senza prenderci molto la briga di indagarne le origini e le cagioni: e quantunque queste, ben conosciute e ben dedotte dalla osservazione de’ fenomeni, e dalla esatta analisi delle idee quindi nascenti, potrebbono moltiplicare il nostro potere sugli oggetti conducenti alla nostra felicità, ed accrescere l’autorità e l’efficacia di tutte quelle minime forze che agitano l’intelletto e scemano la prepotente influenza degli oggetti presenti ed immediati; ciononostante, essendo a pochi data la felice combinazione di

interessarsi, e di curiosamente investigare intorno alle dette origini o

cagioni, e più pochi ancora avendo avuto la constanza di molto esercitarsi e dimorar su questa sorte di indagini, pochissimi in conseguenza avranno voluto meco ravvolgersi in questo analitico laberinto.

Ora io spero che questa seconda parte potrà ottenere una più facile condiscendenza ed una più alacre e spontanea attenzione da’ miei leggitori, i quali in essa potranno scorgere una più pronta e più usuale applicazione de’ principii da me posti ed accennati nella prima parte: anzi, tutti questi non essendo che diramazioni e modificazioni d’un sol principio o, per dir meglio, di un sol fenomeno della umana natura, avranno campo, io lo spero, di compiacersi della fecondità ed ampiezza di quello.

XVI. Del principio generale per lo studio dello stile

Vi è dunque un sol principio il quale ci serve a distinguere fra una moltitudine di espressioni la migliore; ma abbiamo veduto che non basta discernere fra molte espressioni la preferibile a tutte le altre, quella cioè che risveglierà un maggior numero di idee combinabili tra di loro e con il tutto; essere ancora necessario di abituare l’intelletto e la fantasia nostra a facilmente suggerire ed eccitare in noi medesimi una moltitudine di queste espressioni, sulle quali fare la scelta. I mezzi dunque di renderci familiare e pronto ad ogni occasione questo suggerimento ed eccitamento di copiose e varie espressione da scegliersi, e quella educazione che noi dobbiamo procacciarci da noi medesimi, che ci renda in certo modo duttile ad ogni forma ed alterabile l’immaginazione e la memoria, saranno l’oggetto principale di questa seconda parte.

Per ottenere più facilmente il nostro intento, gioverà qui premettere alcune osservazioni intorno alla diversità dello stato attuale delle idee che sono nell’animo di chi parla o scrive, e i segni da lui adoperati per manifestare, quando occorra, queste sue idee.

Chiunque non ignora che la materia prima, per cosi dire, della quale le lingue sono tessute, per quanto or lontane ci sembrino da questa selvaggia e primitiva origine, sono li diversi gridi naturali espressi dalle impressioni de’ differenti oggetti, e le più facili imitazioni, sia col gesto, sia col suono articolato, delle qualità di questi oggetti medesimi, conoscerà ancora ad evidenza che l’idea qualunque di un oggetto ha dovuto precedere l’uso del segno, sia naturale, sia artificiale, che lo esprime. Fra le nazioni abbandonate alla naturale loro perfettibilità ed al lento sviluppamento delle loro facoltà, non accelerato da straordinarie circostanze, non si è tostamente posto il segno ad un oggetto, avuta che si ebbe l’idea di quello, ma ad una quantità di oggetti, benché diversi moltissimo tra di loro; solo che si unissero in qualche maniera, ancorché accidentale, a produr un medesimo effetto negli animi, il medesimo grido avran dovuto eccitarvi. Per lo contrario, diversi gridi cogli stessi oggetti avranno corrisposto, solo che molto diverse siano state le impressioni anche accidentali da quelli occasionate. Di più dovette certamente passar gran tempo, e grandi rivolgimenti di bisogni e di vicissitudini fisiche e morali, avanti che questi diversi segni si connettessero tra di loro, cosicché l’uno richiamasse l’altro, ma sibbene richiamavano ciascuno separatamente ciascuna idea a lui corrispondente. Non occorre qui ingolfarci nella oscura ed inviluppata storia delle lingue, che nella notte silenziosa de’ tempi si nasconde, avanti l’epoca delle stabili tradizioni e dei monumenti perpetuatori dei fasti della umanità. Riflettiamo solamente un momento a’ fanciulli, che sono per noi un adombramento sincero di quel primo stato di nazioni che ancora in moltissime regioni del mondo esiste, cioè di robusta fanciullezza, nella quale nacquero e perirono tante successive generazioni d’uomini. Quei pochi suoni che essi balbutiscono, accompagnati da una gesticolazione frequente e risoluta, sono da essi in moltissime occasioni adoperati, e fatti corrispondere a disparatissimi oggetti; e ad ogni segno con cui esprimono le passioni e le sensazioni loro, si scorge uno sforzo di eseguir l’azione che essi vogliono accennare; né, se non tardi, si esprimono con una serie di segni corrispondentisi tra di loro: la loquacità è una proprietà di persone adulte ed educate; lo scarso esprimersi e il molto agire è la proprietà de’ fanciulli e de’ selvaggi; dunque in questa situazione la relazione fra le idee e i segni sarà di molte idee e di pochissimi segni, e questi sconnessi e poco richiamantisi l’un l’altro, ma invece moltissimo connessi colle idee che gli hanno occasionati, e sempre quelle richiamanti.

Ma che è addivenuto nell’accrescersi le lingue, e nel rendersi, per così dire, più ampio e farraginoso il volume de’ segni? Egli è certo che a poco a poco questi si sono moltiplicati a misura che stringevansi le relazioni degli uomini, che crescevano li bisogni di vicendevole aiuto, che le azioni, prima isolate, per ciascun individuo ad un privato fine dirette, divennero communi a molti, e fatte insieme colla riunione di molte forze ad un commun fine ordinate. Durante questo accrescimento, o, per dir meglio, questo accoppiamento de’ primitivi segni vocali ed imitativi degli oggetti, non è possibile che le parole rappresentassero altro che le combinazioni sensibili ed ordinarie degli oggetti, e le affezioni che questi a vicenda destavano ne’ petti degli uomini. Le combinazioni più complicate e più rare, quelle, cioè, che sono meno sensibili perché meno frequentemente rappresentate dinanzi alla imaginazione, non erano ancor formate; per conseguenza le parole corrispondevano fedelmente agli oggetti che le avevano prodotte; mentre, rendendosi più frequente l’uso delle parole medesime, queste do­vettero connettersi insieme tra di loro ancora, cioè non solamente risvegliar l’idea corrispondente a ciascuna di loro, ma eziandio richiamarsi l’una l’altra. Se i fanciulli hanno più idee che parole, le quali adattano sforzatamente ad esprimere diversi concetti dell’animo loro, distinguendogli col gesto, coll’azione, coll’imitazione assai più che colla differente combinazione delle articolazioni, si vede, a misura che essi crescono in età ed in forze, ed acquistano una maggior relazione cogli oggetti che stanno loro d’attorno, crescere in essi la copia delle idee; ma crescere nel medesimo tempo il bisogno di manifestare le proprie e di conoscere le altrui, onde farsi proporzionatamente in loro più frequente l’uso de’ segni, o sia l’uso di adattare le parole all’idee ch’essi giornalmente vanno acquistando. Durante questo accrescimento cominciano a connettere le parole tra di loro, ed a richiamarne l’une per mezzo delle altre, sempre però avendo viva e presente e dominante l’imagine delle idee che vi corrispondono; sempre però queste idee sono le combinazioni sensibili, frequenti e reali degli oggetti, onde le parole, le frasi, le espressioni camminano direttamente ad eccitare l’immediata rappresentanza degli oggetti od affetti a cui corrispondono; il che si può conoscere dai cangiamenti improvvisi di passioni che si leggono sulle ingenue loro fisonomie, dalla fretta con cui essi parlano (onde si comprende che le idee incalzano, per così dire, le parole), dalla gesticolazione con cui accompagnano i loro discorsi. Se essi parlano di relazioni complicate di idee, non adoperano parole astratte e generali, ma bensì particolari e rappresentanti gli oggetti sensibili da cui si estraggono le astrazioni e le massime generali; tutto descrivono e raccontano; e invece di riflettere, esprimono i fatti e gli oggetti da cui si compongono le riflessioni: questo è il secondo stato generale delle idee per rapporto alle parole che le rappresentano, quello, cioè, nel quale il numero delle parole è proporzionato al numero delle idee nella imaginazione di chi le proferisce; cioè che ogni parola risveglia, sia nel parlatore, sia nello ascoltatore, idee determinate e sensibili; nel medesimo tempo queste parole facilmente si richiamano l’una l’altra; onde la serie delle idee rende facile la serie delle parole; e quella delle parole, quella delle idee.

Resta il terzo stato da considerarsi, nel quale si troveranno gli uomini allora che, rendendosi sempre più frequente l’uso delle parole, e la necessità di crescerle e moltiplicarle, queste acquisteranno una grandissima facilità di richiamarsi reciprocamente, ed una strettissima connessione tra di loro: la facilità sempre più grande colla quale una parola richiama l’altra, fa che le idee si succedono più rapidamente; e quanto più rapida è questa successione di idee, tanto minore attenzione noi vi facciamo, perché minor tempo gli oggetti, o le imagini che si risvegliano, restano presenti alla imaginazione e reminiscenza nostra. La attenzione è una fatica dello spirito nostro: quando impariamo colla esperienza a fuggire questa fatica, noi volentieri incliniamo a fuggirla. Le parole molte, molto familiari, molto facilmente suggerentisi reciprocamente, ci risparmiano molta attenzione alle idee che le rappresentano; perciò di buona voglia trascuriamo di fissar l’attenzione nostra su di quelle, e scorriamo volentieri per la successiva serie delle parole, senza badare a tutte le idee corrispondenti, ma solamente ad alcune, quante appena bastano per formare un certo tal qual senso, ovvero a misura che la curiosità nostra trovasi interessata per la novità o per la natura della impressione che la parola è atta a risvegliare, o secondo la disposizione attuale nella quale ritrovasi l’animo di chi parla o di chi ascolta: quindi da una parte la necessità di dover far uso di molte idee e molto complicate in una volta, dall’altra la somma facilità e connessione che acquistarono le parole fra di loro, dovettero far nascere combinazioni artificiali di parole primitive, le quali o nessune o pochissime idee risvegliassero; e queste parole, nate e combinate da altre parole, quantunque moltissime idee significassero, non però la attenzione di chi se ne serve portasi verso di queste, ma bensì verso le parole di cui quelle sono formate, o da cui sono derivate.

Ecco dunque le tre epoche principali del rapporto che hanno avuto le idee degli uomini con ciascuna lingua che essi parlano o hanno parlato: più idee che parole, e queste poco connesse tra di loro; secondo, egual numero di idee ed egual numero di parole immediatamente richiamanti le idee, e proporzionatamente connesse tra di loro; terzo, numero di parole maggior del numero delle idee richiamate da quelle, e queste parole più connesse tra di loro, di quello che lo siano le idee tra di loro.

Questi tre rapporti generali tra le idee e i segni corrispondenti si ritrovano verificati in tutte le nazioni in generale, come appresso a poco in tutti gli uomini in particolare nel successivo e graduato sviluppamento delle loro facoltà. Nelle nazioni può fino ad un certo segno essere alterato dalla forma di governo, e dalle sopravegnenti circostanze nelle quali si trovano, l’ordine e la durata di ciascuno di questi rapporti; ma molto più facilmente può esserlo in un particolare individuo dall’educazione e dalla imitazione ed autorità de’ costumi già introdotti. La nazione può trovarsi nel terzo stato: l’uomo che vi nasce passerà dunque rapidamente per li due primi, per avvicinarsi stabilmente al terzo.

Il primo stato è lo stato selvaggio e primitivo delle nazioni: essendovi più idee che segni rappresentatori, e questi difficilmente richiamandosi tra di loro, l’imaginazione ha sempre di bisogno della presenza dell’oggetto, ossia della sensazione reale, per essere fortemente commossa: quindi si veggono le nazioni selvagge indifferenti e stupide alla nostra sociale verbosità, ed inalterabili a tutto ciò che commove ed altera noi, che ci siamo avvezzati a risentirsi ai minimi cenni ed adombramenti delle cose; ma invece le veggiamo sensibili, attive, e da un impeto di passioni predominante animate alla presenza di quelli oggetti dai quali hanno le idee pronte e facili nella mente: quindi le belle arti e tutta la poesia e la pittura di queste nazioni non possono consistere che in una sorte di danza imitativa, ossia in un ballo pantomimico, nel quale si sforzano di eseguir realmente e per trattenimento ciocché per bisogno, per necessità e per passione sogliono fare di più forte e di più interessante. E tanto è vero che le poche parole loro siano segni li quali hanno più connessione colle idee che tra di loro, che quando vogliono ed hanno di bisogno di tesserne una lunga serie, essi procurano di disporle in un ordine costante, e distribuirle in periodi di tempi eguali, e richiamarsele col soccorso di desinenze simili, acciocché la somiglianza e l’identità delle sensazioni renda associate quelle idee che immediatamente non lo sono, onde l’origine del verso, più antica del discorso prosaico e sciolto dal metro, la quale si perde fra le prime e rozze origini delle società. Quindi i costumi loro, le paci, li contratti, la legislazione, la religione sono sempre accompagnate di pantomimiche rappresentazioni, le quali sole servono a stabilmente conservare nella memoria ed a efficacemente communicare quelle idee che formano il soggetto di tutte queste relazioni.

Il secondo stato è lo stato poetico, imaginoso ed eloquente delle nazioni. Cresciuti e perfezionati i segni tra di loro a misura che cresce la copia e la perfezione delle idee, l’uso di quelli diviene più utile e più frequente; cessando la necessità della reale rappresentazione o della immediata imitazione degli oggetti, e bastando sempre più i segni per richiamare un gran numero di idee, se cessa quell’impeto e quel vigore che ispirano all’animo la forza e la vivacità delle sensazioni immediatamente imitative, l’esercizio della imaginazione diviene più frequente e più facile; onde se si perde qualche grado di intensione, si acquista una più estesa e più ampia facoltà di rendersi presenti molti oggetti in una volta, e perciò una sorgente più feconda e più variata di piaceri. La facile connessione de’ segni, ed il pronto e vivace risentimento che essi eccitano nell’animo nel richiamare immediatamente una gran copia di idee sensibili, renderà l’imaginazione oltremodo sensibile alle qualità piacevoli o dispiacevoli delle cose, e gli uomini diverranno pronti e sagaci combinatori delle bellezze tutte, sparse con profusione, ma interrotte e confuse in tutta l’estensione delle cose naturali. Quindi la delicatezza del gusto nel discernere il buono ed il piacevole tra l’insipido ed il disgustoso ne’ più complicati oggetti; quindi l’origine delle belle arti, che altro non sono che la combinazione e la riunione del più bello, ossia del più sensibile, piacevole o interessante, vale a dire conducente al piacere che si trova sparso nella natura, tolto di mezzo il superfluo, il dispiacevole, ciò che confonde, e non interessa l’attenzione degli uomini alle cose: dalla facilità di richiamarsi una gran copia di idee, senza la presenza reale o imitata degli oggetti, e per conseguenza dal pronto e replicato effetto delle diverse qualità delle cose sopra degli animi, nasce la perfezione de’ segni; onde se prima la differenza fra le idee era maggiore della differenza de’ segni, in questo stato la differenza delle idee è proporzionale alla differenza de’ segni. Dopo dunque che gli uomini avranno, per l’incessante stimolo che gli porta continuamente prima a moltiplicare i piaceri, poscia, non potendo sempre, per la limitata forza di ciascuno, e per i confini necessari della propria sensibilità, e per la natura medesima alterabile e passagiera degli oggetti procuranti piacere, averli sempre presenti, realmente ed efficacemente eccitanti sensazioni grate e desiderabili, si sforzano di richiamarli davanti alla reminiscenza, e delinearli nella fantasia propria, e colla imitazione de’ segni adattati dar loro una specie di corpo e di esistenza tutta interna. Dopo dunque, dir voleva, ch’essi avranno esaurita in qualche maniera la combinazione delle piacevoli ed interessanti qualità degli oggetti, onde la perfezione e la corrispondente alle idee diversità de’ segni, due effetti si vedranno nascere nello stato delle idee degli uomini, rispetto a’ segni che servono a rappresentarle. Il primo effetto sarà l’origine delle scienze e la filosofia: queste, se ben si considerano, non consistono in altro fuori che nel separare esattamente le cose simili dalle dissimili, onde la infinita diversità delle proprietà, e la multiforme ed instabile apparenza de’ fenomeni delle cose tutte, si riducono al minor numero possibile di proprietà semplici e di fenomeni distinti; vale a dire al minor numero possibile di idee semplici e distinte, costantemente immutabili nella mente. Ora, così definite essendo generalmente le scienze tutte, egli è chiaro a vedere che le idee tutte che entrano nella mente sono idee particolari delle cose individue, non già idee generali: perciò qualora le idee sono rappresentate da’ segni corrispondenti, dove si trovano idee simili a quelle da cui si è originalmente derivato il segno, questo segno si adopera per la seconda idea simile alla prima; quindi la generalizzazione delle idee, cioè la percezione della somiglianza di molte idee, e della convenienza di tutte queste con un medesimo segno; quindi l’uso di questo segno per separare tutte le simili idee, a cui conviene, da tutte le altre, e la facoltà di considerarle tutte in globo, onde le proposizioni e le teorie generali che formano il corpo di ciascuna scienza. La copia de’ segni non è nata che dalla copia accresciuta delle idee per la necessità ed utilità della communicazione di queste medesime idee; la distinzione, la connessione e la coerenza analoga alla natura delle idee, non è nata se non dalla ripetuta ed usuale considerazione delle idee medesime: la prima distinzione e connessione de’ segni era proporzionale ed analoga alle necessità ed alle occasioni che la introdussero, poscia a poco a poco diviene analoga alla differenza e connessione delle idee; dunque la perfezione delle lingue, l’uso delle imagini, l’eloquenza e le belle arti dovranno precedere, anzi esse medesime avvieranno gli ingegni delli uomini, colla distinzione de’ segni, alla generalizzazione delle idee, e dalla generalizzazione delle idee alle scienze ed alla filosofia.

Ma il secondo effetto che nasce dal grande uso de’ segni, mentre cresce sempre più la copia delle idee, sarà quello che conduce al terzo stato da noi stabilito delle idee rapporto a’ segni rappresentatori. Mentre crescono le idee, e variamente con innumerabili combinazioni si alterano e si modificano scambievolmente, i segni rappresentatori divengono segni generali convenienti a tutte le idee originariamente simili; la moltitudine di queste combinazioni e la varietà di esse rende sempre più difficile ed incommodo all’attenzione il tenersi costante e fida seguace della differenza delle idee; la connessione perpetua e pronta delle idee, divenute sempre meno sensibili, più vaghe e meno lungo tempo presenti, e ripetute nella mente coi segni rappresentatori, va sempre più indebolendosi, frattanto che la differenza e distinzione dell’occhio e dell’udito, per i segni che di nuovo cominciano a diventar inferiori di numero alla accresciuta moltiplicità delle combinazioni ideali, dimorerà ferma e costante: sarà più facile all’attenzione di badare alla reale e distinta sensazione auditiva e visibile delle parole, ed alla reale e mecanica connessione che passa tra queste, di quello che alla interiore, oscura, rapida e volubile distinzione delle idee nella sola reminiscenza risvegliate. Quindi quantunque crescano le idee presso gli uomini presi tutti insieme, e la varietà loro presso ciascuno; pure, nell’uso che essi faranno delle parole non adatteranno sempre un egual numero di idee al numero delle parole da essi impiegate, ma un numero assai minore: e le parole saranno molte di più, perché saranno suggerite dall’attenzione, che, sfuggendo la fatica dell’esame accurato delle idee, si porterà sulla facile connessione e successione de’ segni, contentandosi delle confuse e più sensibili percezioni. Chiunque nell’aritmetica deve maneggiare una quantità di numeri alquanto estesa, prova che, perdendo affatto di mira le cose numerate, si applica soltanto alla semplice connessione de’ segni numerici tra di loro, ossia alle leggi con cui si succedono e si combinano. Lo stesso accade in ogni discorso, nello stato nel quale si trovano le idee e le lingue al giorno d’oggi presso le colte nazioni: le parole sono connesse grammaticalmente tra di loro; gli uomini si avvezzano a lasciarsi condurre da questa grammaticale connessione, ed a trascurare la successione delle corrispondenti idee; e siccome numerando non si richiamano le idee delle cose numerate se non quando la necessità o l’opportunità, e prima dell’incominciarsi e dopo finito il computo, per lo più solamente si risvegliano; così, discorrendo, non si dirigge l’attenzione, se non quando la necessità ci sforza, o l’interesse nostro ce lo consiglia; e nell’atto di principiare una serie di proposizioni, perché solamente le idee possono esser motivo inducente alle parole; e nel terminarla, perché la curiosità e l’attenzione essendo risvegliate, queste restano per qualche tempo messe in azione dopo cessate le parole medesime.

Ma vi è una differenza notabile fra gli effetti della nostra attenzione limitata ai numeri, e gli effetti della medesima attenzione limitata alle sole parole; perché le idee corrispondenti ai numeri sono idee precise, costanti è determinate, e la successione e combinazione de’ segni numerici è perfettamente analoga e corrispondente a queste idee, onde, come si cangiano e si succedono i segni, proporzionatamente si cangiano e si succedono le idee; e come quelli si combinano, così queste; ma lo stesso non si può dire delle altre parole e segni relativamente a tutte le altre idee, perché questi segni non sono sempre stati i medesimi alle medesime, ed a non semplici combinazioni di idee precisamente e costantemente affini, ma variarono secondo le disposizioni e le circostanze diverse di chi combinava il segno, e della cosa a cui era apposto; onde nacque tra la perfezione e la ricchezza delle lingue medesime la imprecisione (se si può introdurre questo termine), la inesattezza e confusione delle idee, e le innumerabili questioni di parole; e la serie delle ricerche utili ed importanti fu inviluppata ed interrotta dalle frivole ed inutili. I segni numerici sono nomi generali, i quali servono a distinguere esattamente una moltitudine di cose, ed a trovarne l’eccesso o il difetto, secondo un commune modello che chiamasi l’unità. Ora appunto, perché questi nomi convengono egualmente a tutte le cose, e non è meraviglia se, in combinandoli, noi perdiamo le idee che vi sottostanno; così è avvenuto delle lingue in generale; essendo sempre stati adattati i segni a dinotare un sempre maggior numero di idee complesse, le quali se hanno, tra gli elementi che le compongono, alcune idee simili ed omogenee, ne hanno molte di più dissimili ed eterogenee, è dovuta sempre più crescere la difficoltà di rapportare il segno alla cosa segnata; onde si è trascurata dagli uomini questa fatica, e nell’accozzamento di molti segni si è preso il partito di accontentarsi della grammaticale e regolare combinazione de’ segni, e di badare solamente alle idee di alcuni de’ principali fra questi.

Io spero che mi sarà perdonata, da chi sa riflettere, la prolissità mia nell’accuratamente esporre queste tre epoche principali delle lingue, in grazia delle molte conseguenze che da questa considerazione si possono dedurre. Ora, per applicare al caso nostro quanto abbiamo fin qui esposto, si vedrà da ognuno che il secondo stato delle lingue, cioè quello nel quale i segni, quantunque connessi tra di loro, richiamano però sempre le idee loro corrispondenti, e le presentano chiaramente davanti alla memoria ed alla imaginazione, ed ogni combinazione di segni dipinge fedelmente una combinazione d’idee, e la connessione mecanica della sintassi non impedisce l’attenzione dal vedere la logica connessione delle idee, è lo stato nel quale le espressioni delle lingue avranno più di forza e di interesse, e commoveranno più profondamente l’animo di chi ascolta o legge tali espressioni. Le parole di una lingua indicano il numero delle idee che communemente si hanno da chi parla la lingua medesima; le di lei frasi, o sia le combinazioni delle parole, indicano le combinazioni di idee già fatte; la differente ricchezza ed abbondanza delle lingue di colte nazioni non è tanto (almeno considerando tutto il corpo di una lingua insieme) nell’avere l’una piuttosto che l’altra un maggior numero di parole, ma nella maggior copia e diversità, e nella più significante e più pronta energia delle frasi e modi di dire di una lingua rispetto all’altra. La ragione di ciò si è perché le idee primarie e componenti la materia prima, per così dire, delle menti, sono appresso a poco le medesime fra le nazioni colte, e perciò le parole di una non supereranno di molto quelle dell’altra; ma le ulteriori combinazioni di idee, che formano le frasi e i modi di dire, dovranno essere moltissimo diverse, e molto più abbondanti in un genere e più scarse in un altro, e generalmente ancora più copiose in una lingua e meno in un’altra, secondo le diverse occupazioni, le varie arti e bisogni, i differenti studi e le passioni dominanti di una nazione riguardo all’altra; onde uno scrittore, o dicitor qualunque, può colle sole parole della propria lingua arrichire la medesima; basta che le medesime o communi idee tessa in una maniera nuova e nel medesimo tempo facile ed interessante, perché egli sia costretto a servirsi di nuove frasi e di non usitati modi di dire. Dunque l’esercizio dell’eccellente scrittore sarà quello di perpetuamente sforzarsi di non lasciar che la mente si carichi di parola alcuna senza che ella non sia stabilmente più associata colla sua precisa e determinata idea corrispondente, che colle altre parole connesse per l’andamento della lingua con lei medesima; e che ad ogni accozzamento di parole che egli faccia, abbia prima fatto il vero accozzamento delle idee corrispondenti: bisogna che egli riduca le parole astratte all’origine delle idee sensibili da cui furono formate, e le parole generali egli faccia discendere alle idee particolari da cui risultano: così facendo, egli non solo sentirà che da pochissimi soltanto questi accozzamenti di parole e le parole astratte e generali sono ridotte agli elementi sensibili e corrispondenti ad idee nella mente, onde si sforzerà di rendere evidenti e sensibili le espressioni sue; ma ancora si servirà con sobrietà di termini astratti e generali; e quando se ne serva (il che non di rado siamo costretti a fare), egli le circonderà di parole richiamanti necessariamente l’idea, acciocché questa renda chiaro e vivace il restante della combinazione; ma ancora renderà facile a se stesso il sug­gerimento di molte idee, quanto facile è al commune degli uomini il suggerimento fortuito delle parole; e le parole non saranno per lui che meri mezzi ed aiuti onde percorrere con rapidità una lunga carriera di pensieri, di imagini, di sentimenti: la facilità di richiamar le idee primarie e sensibili, elementi ed origini di tutte le altre, renderà facile il combinar in una nuova maniera ed insolita queste sensibili e primarie idee; e perciò il veder nuovi rapporti di queste, e perciò il far nuove combinazioni; l’animo suo diverrà sempre più facilmente irritabile, onde sarà sempre più padrone di rapidamente unire e disgiungere molte idee tra di loro.

Ciò che rende gli intelletti di alcuni uomini, come è creduto naturalmente, fantastici, imaginosi, poetici, i quali ogni discorso animano di un certo vigore di sentimento, o di certa evidenza di sensazioni che ci interessa e ci rende attenti, è l’abitudine, acquistata per una non preveduta combinazione di cagioni, di rapportar nella mente loro le parole tutte, e tutta la gramatica e il dizionario della lingua che parlano, alle idee sensibili, da cui tutto l’edificio dell’umano discorso si è inalzato.

Queste cagioni producenti questa assuefazione possono essere molte e varie. Una specie di educazione libera ed immetodica, la quale abbia lasciato sfogo alla fanciullesca inquietudine, e quell’impeto di curiosità che gli agita per ogni verso a tentar gli oggetti che nuovi sono per essi; le passioni più per tempo sviluppate, le quali accellerando la reazione dell’animo nostro verso gli oggetti, ci solleva dalla nebbia delle parole, e ci porta nella chiara realità delle cose; le afflizioni, i dolori, gli ostacoli e le resistenze istesse fino a quel segno che l’animo non abbattono ed aviliscono, le quali aumentano la necessità ed i motivi di agire, e rendono l’animo alacre, attento, consideratore, fermo in se stesso, non pigro, non inconsiderato né molle, ed ubbidiente alle altrui direzioni: queste ed altre possono essere le cagioni fortuitamente assuefacenti l’uomo a ricevere una educazione di idee varia, e non una educazione di parole uniforme e stentata.

Ora, ciò che la combinazione di accidentali circostanze può produrre, non lo potranno fare l’arte e l’istituzione ben regolata, solo che si conoscano le cagioni producenti, e queste si sappiano disporre e condurre allo scopo prefisso? Io credo che ciò sia possibile: anzi gli effetti dell’arte e dell’instituzione non saranno così pericolosi e frammisti di inconvenienti, come lo possano essere gli effetti dell’accidentale combinazione delle sovrallegate cagioni. Questi talenti, che l’azzardo ha resi fantastici ed irritabili all’eccesso, nella immaginazione de’ quali scorrono continuamente le scene più sensibili ed interessanti della natura e della vita, miste e confuse come sono nella realità, sono soggetti alle pertinaci debolezze della illusione, agli immedicabili dolori delle opinioni; e la felicità loro e la loro virtù bene spesso, e perciò la quiete de’ loro vicini, e l’esempio che dobbiamo agli altri, ne soffrono moltissimo: quindi l’eccesso istesso e l’abuso di questa versatile loro fantasia gli allontana, invece di avvicinargli, da quello stato di cui parliamo, e lo rende inutile ed inefficace, perché troppo variabile ed estranio al solito andamento ed aspetto nel quale le cose sono per gli altri uomini. Tutte le verità come le bellezze diverse di questo mondo sono incatenate e continue; onde, quando le qualità che le producono divengono eccessive ed esuberanti, si oppongono tra di loro, e si impediscono reciprocamente l’azione.

Dunque l’arte potrà sciegliere e combinare in maniera le occasioni o i mezzi di render l’intelletto ricco e franco maneggiatore dell’idee, ma senza confusione, volubilità e pericolo; onde la verità sia adornata e non coperta, aiutata e non oppressa dagli idoli della fantasia e della immaginazione. Avanti di proceder più oltre, conviene addur qui qualche esempio il quale rischiari perfettamente le importanti considerazioni da me adotte, e perché non siano prese per una sovrabbondante ed inutile mania di speculare.

Figuriamoci che si tratti di ricercare l’origine della giustizia, e dell’idea che di quella si formano gli uomini. Finché noi ci fermeremo a combinare le parole astratte e i termini generali che sono relativi alla parola giustizia, alle quali non corrispondono che pochissime e sfuggevolissime idee nella mente nostra, noi arriveremo forse a tessere una lunga dicerìa la quale annoierà gli ascoltanti, e gli renderà disattenti e disgustati del non sentire calmata l’inquietudine della curiosità, e del non trovarsi eccitate dal discorso e dalla lunga serie di suoni idee chiare e determinate nella mente loro: finché noi, per esempio, diremo che la idea della giustizia è nata negli uomini dal bisogno che hanno avuto di conservare la pace e la tranquillità delle famiglie, e, conservando a ciascuno le cose proprie, stimolare l’indolenza ed estinguere il furore che nasce dall’incertezza del proprio sostentamento, e perciò togliere di mezzo la sterilità o la distruzione per cui si scemerebbe a ciascuno più di quello che ciascuno, essendo ingiusto, potrebbe acquistare; finché diremo consistere questa in una esatta proporzione e distribuzione delle cose, a misura de’ diritti acquistati da ognuno, e questi diritti non essere altro per noi che quanto ci detta la ragione essere conforme alla umana natura; finché noi queste e simili cose diremo, noi avremo detto una serie di parole tutte corrispondentisi tra di loro, e tutte derivanti da certe ed inconcusse verità; ma pochissime idee saranno ciò non ostante risvegliate nella mente di chi ci ascolta; l’idea complessa della giustizia non sarà chiaramente determinata, non saremo né convinti né appagati delle cose dette, ed il dubbio e la confusione resteranno nella mente: ma se invece chi ascolta, o chi medita per esporre chiaramente ciò di cui si tratta, avrà cura di fissare la sua attenzione intorno alle poche idee sensibili e particolari che si risvegliano in questa occasione, nella quale si ricerca l’origine della giustizia, come uomini, famiglie, sostentamento, fatica ecc., egli si sforzerà di chiaramente imaginarsi tali idee e farsele sensibili, e, non perdendole giammai di mira, di trovare ciò che hanno di commune con esse le parole generali, pace, tranquillità, incertezza, sicurezza, diritto, umana natura ecc. Per ciò fare, egli si rappresenterà a se medesimo se stesso ed altri individui, come aventi necessariamente fame, sete, bisogno di coprirsi e di difendersi dalla crudeltà delle stagioni e dalle fiere; onde essere una conseguenza necessaria della propria organizzazione il cercar e prendere quelle cose che sono più abili a dissetarlo, sfamarlo, coprirlo e difendere; e ciò più prontamente e più sicuramente; e di tralasciar quelle ricerche che rade volte lo sodisfacciano, ed a costo di molti pericoli e dolori.

Quindi si rappresenterà questi individui dispersi a ricercar i frutti spontanei della terra, o riuniti a distruggere gli animali più deboli per dividersene le spoglie, piutosto che combattere, uccidersi tra di loro, rendendosi così meno sicuro il sodisfacimento de’ propri bisogni; quindi rivolgersi alla terra, ed in essa trasportarvi parte delle cose acquistate, educarvi gli animali pacifici, e, vista la riproduttrice delle cose in essa nascostevi, aiutarla e secondarla colla propria fatica. Vedendo perciò crescere molto di più le cose utili al vitto e mantenimento, senza bisogno alcuno di usurparsi le cose da altri occupate, nacque l’idea della proprietà; cioè l’associazione perpetua dell’idea di una tal persona coll’idea del travaglio, dell’idea del travaglio coll’idea di un determinato suolo riproducente per mezzo del travaglio medesimo. Come non sarebbe nata l’idea esclusiva della proprietà degli uomini, se essi consideravano la terra che ciascuno avea travagliata come inzuppata del sudore de’ propri corpi, e riproducente cose che essi vi avevano deposte, come le sementi, delle quali si erano già impadroniti senza toglierle a nissuno? Come non doveano credersi esclusivi posseditori di un territorio quelle nazioni, a preferenza dei nuovi venuti, se le riproduzioni dell’ultimo anno erano una conseguenza necessaria delle produzioni dell’antecedente, e queste dell’altro, e così successivamente risalendo sino al primo e necessario risultato dei bisogni inerenti alla organizzazione di quelle generazioni che nacquero e perirono, e le ceneri dei quali si confusero colla polvere del campo su quel distretto? Alcuni selvaggi risposero ad alcuni europei, che gli esortavano a lasciare il loro territorio per istabilirsi in un altro: come è possibile che noi possiamo questo terreno abbandonare? Dite alle ceneri ed alle ossa sepolte de’ nostri padri che si levino su, e vengano con noi. Da queste chiare, sensibili e determinate nozioni nacque negli uomini la distinzione precisa di ciò che era proprio di ciascuno; quindi il risentimento di vederselo usurpato da un altro, quindi la cognizione e l’idea di un medesimo risentimento che quest’altro proverebbe a vicenda se egli usurpasse la di lui proprietà; la quale idea, unita con quella di potere, senza produrre in altri questo doloroso sentimento, procacciarci ciò che la nostra organizzazione e i nostri bisogni dimandano, ha fatto nascere l’idea della giustizia negli uomini: idea perpetua ed immortale nell’umana natura, che risorge trionfatrice dalle vicissitudini e dalle rovine di tutti li sistemi politici e religiosi. Ora, riunendo tutte queste varie idee sensibili sotto alcuni nomi o segni generali, cioè che rappresentino egualmente tutte le analoghe, se noi chiameremo facoltà dell’umana natura tutte le tendenze de’ nostri sensi e della nostra organizzazione; se noi chiameremo diritto tutto ciò che è un risultato, un effetto necessario di queste tendenze, il dritto potrà essere definito una conseguenza necessaria dell’uso delle nostre facoltà, e la giustizia sarà il non impedire l’uso eguale delle medesime facoltà in altrui; come il dovere sarà definito ciò che è necessario che dalla parte nostra si faccia acciocché non sia impedito l’uso necessario delle facoltà altrui.

Io spero che mi sarà perdonata questa lunga digressione, non solamente per l’importanza della cosa in se stessa, ma molto più perché ella ci farà chiaramente vedere l’applicazione di quanto abbiamo detto finora. Consideriamo l’effetto che fanno sull’animo nostro le ultime definizioni: esse riducono in uno strettissimo spazio una lunga serie di ragionamenti, ma non sarebbero da alcuno facilmente intese se non avesse o lette o supplite da se stesso le idee sensibili da cui esse derivano. Premesse queste idee sensibili, le ultime definizioni debbono moltissimo piacerci, perché le consideriamo come facili e pronti aiuti a richiamar le idee sensibili che esse rappresentano in epilogo; ma senza di quelle sarebbero parole vaghe e fluttuanti nella mente, che punto non interesserebbero l’attenzion nostra, la quale, per essere interessata, vuole mai sempre esser eccitata per mezzo di idee particolari, cioè di sensazioni. Noi troveremo inoltre che il sentimento di giustizia nacque coll’umana società, che i soli rapporti fisici degli uomini tra di loro potevano produrlo e conservarlo; e la vivacità di questo sentimento doveva risplendere nelle imaginazioni tutte, di idee sensibili nutrite nell’adolescenza di tutte le nazioni: ma quando le parole, prima rappresentanti idee determinate e sensibili, divennero, per lunga osservazione delle cose analoghe, per l’uso connesso e continuo delle parole tra di loro, e per la crescente moltiplicazione delle ideali combinazioni, segni indeterminati e generali di molte cose, allora solo poté nascere la scienza della giustizia, cioè l’enunciazione rapida e generale di tutti i fenomeni simili, a questo sentimento del giusto appartenenti: ma il trascurarli troppo facilmente per le ragioni molto innanzi accennate, di ricorrere alle idee sensibili determinanti, ha reso vago e vario il significato delle parole, e piegato l’animo a poco a poco a contentarsi della vuota ed isolata impressione di quelle.

Dunque il principal artificio di chi vuole riuscire eccellente scrittore sarà quello di ridurre a tutte le idee sensibili componenti tutto il corredo delle parole, delle quali egli, conversando e studiando, carica la memoria; il che finalmente si riduce al principio medesimo esposto nella prima parte di queste Ricerche. Se l’eccellenza dello stile consiste nello esprimere immediatamente il massimo numero di sensazioni unibili colle idee principali, per mettersi in istato appunto di esprimere questo massimo numero, sarà quello di averne ricca l’imaginazione. Ora, come mai ciò potrà aversi, se tre quarti della istituzione nostra si fa per mezzo delle parole, ed è necessario di farlo, attesa la complicata coltura de’ nostri costumi? Non certamente in altra maniera, in fuori che in quella di studiosamente e ad ogni occasione portar l’unione delle generali ed indeterminate espressioni alle sensibili, precise e determinate.

 

Appendice

Materiali preparatori e stesure rifiutate
1
Con quali idee si associa il tal desiderio e lo produce più costantemente.

Più bello sarà se ciò che in uno desta un desiderio diverso, o anche opposto, in altro ne risveglia il desiderio che si descrive.

Non figure, non paragoni, tutto evitar che produce ragionamento.

Non mai passione senza imagini fisiche né mai queste senza quelle.

Parole particolari e semplici combinazioni di idee, esprimenti non idee complesse; fugir termini appellativi ed indeterminati.

Passioni immediate / Passioni mediate
amor / ambizione

Entusiasmo: segue quando si eccita l’idea che è centro, e tutte le associate in un colpo risveglia, mentre una di queste non tutte le altre risveglia.

Quando le parole risvegliano la situazione attuale e al commune delle idee indifferenti per lo più attacca affezioni non

2
Tutte le belle arti non sono che richiami artificiali verso le care sensazioni, che, tocchi, risuonano delle grandi percosse che la natura ci dà perpetuamente. Poiché tanto più preziose dell’umana sapienza, quanto dal dolore istesso hanno saputo cavar copiosa e consolante materia di diletto, sono le eguali espressioni delle sensazioni, siano imagini, siano sentimenti, che piacciono solamente e che formano la materia dello stile.

3
Fino ad ora commune opinione è stata che le regole e i precetti non formino né un oratore né un poeta; che egli è necessario esser ispirato da un estro innato, che domina sulle menti umane, la parte dell’uomo forse la più schiava di tutte; che i canoni tutti delle scuole non indicano le bellezze, ma solo difetti da evitarsi. Tutto ciò è verissimo se si parli di quasi tutte le instituzioni poetiche e retoriche finor publicate: esse non rimontano giammai all’origine dei nostri sentimenti, esse consistono in osservazioni eccellenti e finissime sui risultati, non mai sui principii motori e sui dettagli. Un’eccellente poetica sarebbe quella che insegnasse a risvegliare in se stesso la soffocata sensibilità, che facesse scorrere lo spirito osservatore su tutte le cagioni che gli produssero piacere e su quelle che gli destarono avversione e dolore. Uomo forse non v’è che tolto all’uniforme e meccanica serie di azioni a cui la maggior parte è destinata, e che incallito non sia dall’età e dalla prepotente abitudine, che non abbia in sé tutti i germi, benché non isviluppati, del grande e del bello. Sono le osservazioni sopra le interne operazioni dello spirito, non sulle esterne manifestazioni di esso, che formano le vere istituzioni. Mi si obietterà non esservi stato uomo meno eloquente di Loche, né più esatto geografo dello spirito umano. Io rispondo non esser egli stato grande scopritore delle regioni del vero, non di quelle del bello, aver egli esaminato lo spirito che osserva e che discorre, non quello che sente e si appassiona. Ciò non ostante a lui si deve il merito immortale di aver fatto epoca nello spirito umano, a lui si deve la linea principale di separazione tra lo spirito antico e il moderno. La precisione, la chiarezza, l’ordine naturale, le viste del giudizio che paragona, la severa ricerca del valore delle parole, il ridurre a semplici fatti le complicate combinazioni, i primi elementi motori dell’animo, sono il precipuo distintivo della moderna filosofia; l’ordine artificioso ed i termini che ne impongono ai raziocini, i grandi risultati e le grandi ed ultime impressioni delle cose sullo spirito, le viste dell’imaginazione che combina, il maestoso e grande disordine della natura, è il carattere impresso nella antica filosofia. Nei primi questa, non meno che nelle matematiche, nella morale, nella politica, nei costumi degli uomini istessi, tutto è sintesi; nei secondi può dirsi che tutto è analisi. Io m’intendo dello spirito più dominante nei diversi tempi; l’esperienza ci fa vedere molti anacronismi.

4
Riduciamo questa definizione dello stile a qualche cosa di più preciso. Tutte le nostre idee o sentimenti in ultima analisi si possono considerare come derivanti dalle sensazioni semplici, siano cinque o più i sensi dell’uomo, siano interni od esterni: perché ancora le idee puramente spirituali, che ha l’anima riflettendo sopra se medesima, tutte le più complicate idee e le più astratte o generali, sono sempre occasionate o accompagnate da qualche sensazione o da qualche confusa ed interna affezione di piacere o di dolore associata a tali idee, o spessissimo ancora dalla semplice sensazione auditiva o visibile della parola.

5
Abbiamo detto che nella diversità delle idee accessorie consiste la diversità dello stile. Sarà dunque migliore quello stile che presenterà una miglior scelta d’idee accessorie sia rispetto alla lor riunione, sia rispetto a ciascuna di per sé, sia a rispetto di ciascuna in particolare verso l’idea principale. Ma quale sarà la norma per fare questa scelta, norma dalle grandi anime solamente sentita ed eseguita, ma non giammai chiaramente presentata alla folla degli ingegni? Una tal ricerca essigge una accurata analisi degli effetti primitivi e communi ad ogni sorta di stile che ci diletti. Tutti i nostri piaceri e dolori sono sensazioni. Questi sono gli elementi animatori di tutto il mondo morale.

Tutte le età e tutti gli angoli del mondo sensibili non rimbombano che d’inni e di aneliti alla sempre fuggente voluttà, e d’imprecazioni e di fremiti contro l’imminente dolore. A misura che le sensazioni elementari si associano e si aggruppano tra di loro, nasce il piacere finché l’attenzione resiste e segue l’energia di tutto l’oggetto, ma, al di là del limite vario ma costante fissato ad ogni essere sensibile, gli avviluppamenti delle medesime sensazioni diminuiscono il piacere medesimo, la moltiplicità delle faccie dell’oggetto fa che languide ed oscure

6
Nella scelta delle idee accessorie scieglieremo dunque quelle non solo che ci rappresentano non tanto sensazioni elementari, ma combinazioni primitive e sensibili di sensazioni elementari.

Quanto maggior numero di tali sensazioni potremo addensare intorno all’idea principale, tanto maggiore sarà il piacere per l’animo di chi leggendo sentirà un maggior numero di corde sensibili rifremere dentro di sé. Ma al di là di un certo numero la copia delle sensazioni soverchierà l’attenzione, che sempre si sforza di seguire ogni nova impressione che le è presentata, se non istanca e vacillante potrà fermarsi sopra alcune delle più interessanti.

Non solamente il maggior numero delle sensazioni rende migliore lo stile, ma la scelta di quelle che si rinforzano tra di loro, e più l’idea principale. Ma in qual maniera una idea può essere rinforzata nell’animo nostro?

In due maniere: coll’analisi della idea medesima nelle sue sensazioni, vale a dire nella enumerazione di tutti o dei componenti energici della combinazione, o nell’esprimere quelle sensazioni associate naturalmente alla idea principale, perché richiamandola tante volte quante sono le diverse idee associate, sono tante ripercosse nell’animo, che calcano più addentro l’idea principale.

Oltre il numero delle sensazioni, oltre la scelta di quelle che si ripercuotono tra di loro e ripercuotono in noi l’idea principale, e l’analizzano ne’ suoi componenti sensibili, devesi considerare l’interesse delle sensazioni medesime, sia riguardo a loro sia riguardo all’idea principale.

Le sensazioni sono più interessanti a misura che sono più precise e determinate, a misura che sono più vivaci, che sono più grandi e più varie, finché la grandezza e la varietà non comincino ad intorbidare la facilità dell’impressione, perché allora cominci la necessità imperiosa dell’ordine e della simmetria, la quale alla fine facilitando la presenza di molte imagini diminuisce la forza di ciascuna per l’attenzione nostra che si divide.

Non solamente la scelta delle idee accessorie sono importanti nello stile, ma l’ordine con cui si succedono, sia rispetto a loro, sia rispetto all’idea principale. A misura che le idee accessorie sono meno interessanti di per sé, tanto più l’ordine con cui sono disposte si rende osservabile dallo ottimo scrittore.

Quell’ordine sarà preferibile che sforza l’attenzione sul tutto: allora quel piacere che manca alle sensazioni solitarie rinasce nella loro combinazione; perché non basta che la combinazione sia fatta da chi scrive, vuolsi violentare la forza d’inerzia dell’animo nostro, vuolsi tendere l’attenzione come tendesi una molla, perché ribalzi con maggior impeto contro l’alto ostacolo. L’attenzione sul tutto si sforza col serbare all’ultimo que’ lineamenti che rendono quadro preciso e determinato e le idee più interessanti, perché l’attenzione cresce colla speranza e perché l’anima correrà con violenza da un minor ad un maggior piacere, e con istento e ribrezzo si sotrae dal maggiore al minore.

L’ordine solo non osservato fa che molte idee accessorie cessino d’esser tali, perché tali non sono che per il legame che fanno concepire con una idea principale: se esse fanno quadro da sé, l’attenzione si ferma e si distrae dal resto. Noi sbalziamo su vari oggetti, l’accessorio diventa principale, principale l’accessorio, e la sconnessione del tutto o la poca importanza ci stanca e ci annoia.

Ecco dunque il principio dell’arte di scrivere. Il maggior numero delle sensazioni più interessanti compossibili fra di loro e colla idea principale, e quell’ordine di esse che sforza l’attenzione sul tutto. Il mezzo si è l’esercizio continuo di analizzare tutte le nostre idee, non solo per la loro identità o diversità, cioè verità o falsità, officio del freddo filosofo: ma per il grado e per la maniera della loro piacevole o dolorosa impressione. I seguenti dettagli renderanno, spero, più chiari i miei principii, e scioglieranno ogni dubbio.

Al numero delle sensazioni non mutate intorno ad una idea principale, è preferibile la grandezza e la vivacità di esse, perché l’attenzione è meno divisa e la facilità del concepimento più ovvia; inoltre la vivacità e la grandezza delle sensazioni tanto è più grande, altrettanto minor numero ne sofre intorno a sé l’idea principale, perché è limite eterno delle operazioni naturali che l’intensione cresce col diminuirsi dell’estensione, e viceversa questa col diminuirsi di quella. Abbiamo detto che lo stile esigge un ordine che porti l’attenzione sul fascio intero della idea principale colle idee accessorie. Ora, crescendo la vivacità e la grandezza delle accessorie, bisogna diminuirne il numero perché l’uno non nuoca all’altre, e l’attenzione non resti isolata alle parti e non al tutto. Questa è la ragione per cui lo stile di que’ fortunati che sanno parlare a tutti i secoli ed a tutte le nazioni, e che fanno rimbombare i lor sentimenti negli animi de’ lettori con incessanti percosse, è sempre rapido, conciso, di corti periodi; si guardano di legare le idee con perpetua e fredda simmetria, perché sentono dentro di sé che molte idee non possono essere ammucchiate tra di loro senza un ordine, e l’ordine di molte idee conserva la memoria di tutte, e però scema l’intensione di ciascheduna. Siccome consacrano i loro scritti all’immortale verità ed alla beata virtù, le loro idee principali sono estremamente importanti e spiccano sempre sulle accessorie, e di queste, le più analoghe alle prime e le più interessanti, se ne servono come di principali per comporre altri fasci ed altre combinazioni.

Lo stile antico italiano avea il diffetto essenziale dello scrupoloso legamento delle parole, sia che questo sia il difetto commune ai secoli ancor nuovi e teneri per le produzioni di spirito, per cui il poco uso ad una lunga successione d’idee ne renda necessaria la facilità di una simmetrica disposizione, che a spese dell’energia facilita l’intelligenza, sia perché, imitatori forzati delle opere latine, ne seguirono anche in questo la maniera, senza considerare la differenza essenziale che passa tra una lingua in cui le parole grammaticali (come gli articoli, le preposizioni, le inflessioni delle declinazioni, le congiunzioni) sono e più lunghe e precedono le parole reali, e quella in cui sono desinenze delle parole reali istesse. In queste la successione delle sensazioni essendo più rapida, il legamento ne è più sofferibile: benché vediamo che Tacito e Seneca, i più profondi ed originali pensatori dei Romani e che più intimamente ci feriscono, seguirono un tutt’altro metodo di Cicerone e di Tito Livio.

Un’altra osservazione non meno importante che generale si è intorno delle idee accessorie: si è che le medesime accessorie che si destano nell’animo del lettore quando non sono espresse per se medesime, ma per mezzo delle altre che si esprimono, fanno spessissime volte un più grande effetto, e spesso un opposto di quello che se fossero espresse esse medesime; espresse nuocerebbono al fascio intiero, destate solamente lo giovano. Non solo perché la picciola fatica che facciamo e l’applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l’attenzione sul resto, ma molto più perché è legge della nostra sensibilità che tutta altra forza hanno le medesime espresse col loro proprio segno, e tutta altra attenzione prendono sopra di noi che semplicemente destate. Ora, come abbiamo detto, le attenzioni parziali son tanto più grandi, tanto più si nuocono tra di loro e sceman l’attenzione al tutto, mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passagieri di attenzione, che fanno in noi balenare le idee accessorie semplicemente suggerite da alcune altre, accrescono il numero delle sensazioni, senza nuocere di molto all’attenzione totale ed all’energia del tutto.

Mi si dimanderà in qual maniera la sola moltiplicità delle sensazioni produce un piacere nell’animo nostro, ancor che le sensazioni per se stesse sieno presso che indifferenti e spessissime anche dolorose. Non basta, a mio parere, rispondere, per la parte delle sensazioni indifferenti, che moltiplicate riescono piacevoli, perché l’animo nostro si compiace nell’esercizio delle nostre facoltà, perché queste ci moltiplicano l’esistenza e ci danno nuove prove di essa. Questo si è un fenomeno verissimo e generale che può condurre la spiegazione di altri più generali, ma esso stesso dimanda una spiegazione che ci conduca a qualche fenomeno semplice e primitivo che passi in noi stessi: da questi soli dipendendo le soluzioni di tutti i problemi morali e forse di ogni scienza. Non basta il rispondere, per la parte delle idee dolorose, che espresse nello stile, moltiplicate, producono piacere, perché sono una felice imitazione del vero, perché riflettendo su di noi ci troviamo esenti dai mali che ci vengono dipinti, perché applaudiamo alla nostra sensibilità e ci figuriamo gli applausi degli altri uomini interessati a lodare gli altri virtuosi. Questo piacere provasi anche da coloro che non hanno mai riflettuto sulle belle arti e sulle idee della lode e del biasimo, e sembra tanto immediato che sembra escludere il tacito e supposto paragone tra la nostra e la situazione di chi è dipinto in tale stato di dolore. Sovente i mali dipinti sono minori dei mali reali che sofferiamo; sovente proviamo un secreto, alla dipintura di sensazioni, dolore, per cui non potiamo applaudirci, e cerchiamo di nascondere agli altri uomini.

In molti casi il piacere che le imagini del dolore ci producono nasce dall’abborrimento e dallo sforzo che facciamo per toglierci dalla noia, la quale, essendo un dolore continuato ed uniforme, incatena tutta la nostra attenzione, ed ad essa preferiamo dolori interrotti, rapidamente succedentisi e variati, pei quali, divisa l’attenzione, rendesi minore in noi il sentimento doloroso.

Ma ciò ancora non basta, perché preferiamo l’imagine tempestosa e torbida delle scelerattezze e delle angoscie umane alle dolci, alle tranquille scene di una solitudine campestre, di un beato e filosofico ritiro, e i tormenti e i rammarichi di solenni virtù punite e calpestate ai taciti premi delle oscure e domestiche.

Questo è un fenomeno primitivo che la nostra esperienza ci prova, e che forse si può conghietturarne la spiegazione se si ardisca supporre che la moltiplicità delle sensazioni dolorose, essendo le più forti, cioè nate da un maggior movimento nel nostro sensorio, che è una parte continua e communicante di noi stessi, possa produrre un terzo movimento che sia piacevole. La somma delle sensazioni differenti in qualità supera certamente il numero degli organi esterni del sentimento. Questi terzi movimenti, queste interne sensazioni che non possono essere destate se non dalla moltiplicità delle impressioni esteriori, sono forse l’organo morale da alcuni preteso dimostrato.

Se si spinga più avanti questa conghiettura, potrà supporsi esservi dentro di noi un senso interno al quale tutti gli esterni sensi communicano, il quale non sia mosso immediatamente dagli oggetti esterni, ma solamente gli sia communicata l’impressione dai sensi esterni mossi dagli oggetti. Forse per la tessitura di quest’organo, non può esser mosso da una sola percezione, ma da più insieme; forse le percezioni piacevoli nell’organo esterno non sono sempre sufficienti a produr piacere nell’organo interno, forse i primi gradi di sensazioni dolorose, o le pitture di sensazioni dolorose, che sono dolori appena incominciati, appena bastano per produrre sensazione piacevole nell’organo interno, quantunque crescendo l’esterna impressione dolorosa, alla fine anche l’interno organo si addolori. Questo organo è forse esparso per la sostanza del cervello a traverso tutte le diverse fibre appartenenti ad ogni altro. Questa forse è la sede delle associazioni delle idee, questa la sede del senso morale, le di cui esterne apparenze, benché complicate e moltiplici, da noi conosciute e sentite, per ultimo risultato ci conducono a semplici affezioni di satisfazione o di aversione, cioè piacevoli o dolorose, e che sembrano non più oltre definibili ed analizabili ed indipendenti dalla riflessione sul nostro proprio interesse. Forse questo senso è meno suscettibile d’intensione nelle sue proprie sensazioni, ma, per lo contrario, ha una maggior estensione ed una influenza più generale e più dilatata, in proporzione che egli è più esercitato, sul resto della nostra machina, e potrebbe in quel caso chiamarsi l’organo del desiderio, della volontà, della libertà, della speranza e del timore ecc. La lentezza degli uomini nella fabrica delle lingue farebbe sospettare che nomi distinti, costantemente usati nelle lingue colte e conosciute, e non analizzabili, indichino percezioni distinte: e se tali esse sono senza che potiamo metterle sotto alcuna classe di sensazioni esterne, come rifiutar loro un organo proprio e particolare?

L’ammettere un senso di più, sforzati dai fenomeni bene esaminati, il quale ha leggi analoghe agli altri sensi, sempre relative alla sua organizazione particolare, non è un rimettere il chimerico platonismo e le inutili ed inesplicabili idee innate. Il saggio e tolerante lettore perdonerammi questa disgressione, valuterà le mie conghietture come un semplice sforzo e non come un’asserzione che richiederebbe un più minuto esame, che forse altrove ingegnerommi di fare. Basta alla mia teoria il conosciutissimo fenomeno che non solo le imagini patetiche piacciono al lettore, ma in ogni bell’arte le preferisce alle piacevoli e ridenti.

Nella scelta delle idee accessorie, se le idee principali sono sentimenti morali, bisogna amministrar imagini accessorie; se le idee principali sono imagini, le accessorie saranno sentimenti morali. Con questa differenza, nel secondo caso, che debbono essere meno composte le accessorie quando sono sentimenti che quando sono imagini, atteso il naturale e più difficile passaggio dalle imagini ai sentimenti, che dai sentimenti alle imagini, di queste costante essendone il modello in natura. Questa alternativa tra le idee accessorie e le principali giova mirabilmente: le imagini scolpiscono nella mente la volubile complicazione de’ fenomeni morali, e questi, richiamandoci in noi stessi e verso i nostri simili, rendono più interessanti le imagini.

Quanto più grandi saranno e più forti le idee accessorie espresse, tanto più numerose possono essere le idee accessorie tacciute e semplicemente destate: perché l’attenzione a queste è più rapida e minore, e cresce il piacere senza pregiudizi dell’attenzione e dell’interesse al tutto. Per lo contrario, più picciole e meno importanti sono necessariamente le accessorie, la scelta si farà su quelle che ne destano un minor numero, perché la differenza tra l’une e le altre essendo minore, e sovente più forti potendo essere le destate che le espresse, noi leggendo perderemo di mira le idee dell’autore e confusa od interotta ne uscirà l’impressione totale. Dai principii sovraposti facilmente troverassi la norma per l’impiego delle figure delle parole, quali si numerano esattamente dai precettori di poetica e di eloquenza, ma non se ne indica con precisione l’uso. È egualmente figura il prendere la parte per il tutto o il tutto per la parte, il continente per il contenuto, e viceversa. Ma quando impiegheremo l’una di queste contrarie figure? Noi si serviremo del nome della parte per esprimere il tutto quando il tutto sia troppo composto e l’espressione della parte ecciti una sensazione più interessante, più grande, più precisa, più determinata, la quale, quantunque nell’espressione del tutto sia sottintesa, pure sfugge all’attenzione per la troppa composizione di esso. Così per esprimere la parte si serviremo dell’espressione del tutto, quando quella sia troppo semplice e troppo debole sensazione, e questo, senza nuocere al fascio intiero delle idee, eccitar possa e contenga sensazioni maggiori e più interessanti. L’istesso ragionamento facciasi per tutte le altre figure di parole; a me basti l’avere indicato una regola sicura per il sagace ed attento scrittore. Chi vuole istruire con sicurezza, è forse meglio d’indicare e dimostrare i principii generali e lasciarne l’applicazione a chi ama di seguire una qualunque serie di cognizioni. La quasi mecanica fatica che noi siamo sforzati di fare incatena l’attenzione; e nello stesso atto facciamo le due operazioni elementari di ogni disciplina, l’istruzione e l’esercizio, che disgiunte sono lente e difficili, riunite riescono pronte, piane e dilettevoli.

Per lo contrario, se l’applicazione è tutta fatta dall’istitutore, la mente nostra meramente passiva con egual facilità riceve e dimentica, e le vive sensazioni degli oggetti presenti sorprendono sulla parte superflua della meno occupata attenzione. Siami qui permesso di osservare per incidenza che, siccome la vera strada per le scoperte è il gran canone di Bacone, è di riascendere dai particolari ai principii generali, che non sono che enunciazioni di idee communi che quelli hanno, ma nel medesimo tempo non essendo necessario per la dimostrazione dei principii generali il novero di tutti i particolari, ed essendo ottima cosa, per la preziosa e grata brevità, il non servirsi che dei necessari, così ottimo esercizio sarebbe l’impiegare i discepoli all’applicazione del principio generale ai particolari ommessi: in questa maniera si stampano nella mente le grandi teorie, e siamo per la strada più breve in parte institutori di noi stessi – principio generale d’ogni futura istruzione, – ché è l’istituzione della natura simile alla infallibile della necessità e del bisogno, la meno umiliante e la meno noiosa e la più durevole.

I contrasti fra le imagini e fra i sentimenti accessori nello stile riescono a meraviglia, quando esse son tali che non contrastino coll’idea principale; ma se, per lo contrario, il contrasto fra di loro produce il contrasto con l’idea principale di alcuni di essi, il che accade quando parte delle accessorie appartengono alla idea principale, l’interesse si divide, per conseguenza l’attenzione e lo stile riesce falso. Quando Virgilio dice et campos ubi Troia fuit, il contrasto è maraviglioso fra di loro, e non coll’idea principale, che è la fuga di Enea:
nos patriam fugimus, et dulcia linquimus arva.
Ma quando Lucano dice:
Bella per Emathios plusquam civilia campos,
il contrasto tra il plusquam e il civilia è tra l’accessorie e la principale.

Il contrasto tra le espressioni delle sensazioni piace sempre all’imaginazione, perché l’espressione delle due imagini riesce viva e chiara, e la distanza tra le idee contrastanti risveglia le idee intermedie associate. Ma molto meno, e sovente è freddo e disgustoso il contrasto tra le espressioni delle sensazioni con quelle delle idee complesse, e di queste fra di loro; l’imagine risultante da l’espressione di una idea complessa riesce debole e confusa, perché, la sensazione auditiva essendo associata costantemente con molte idee, riesce debole il moto communicato a ciascuna di esse.

Il contrasto tra le idee complesse o non sarà fissato dall’attenzione perché troppo difficile o, se sarà fissato, due casi possono facilmente avvenire: l’uno, che le idee accessorie contrastanti prendano sull’attenzione alla principale; l’altro, apparendo, come è facilissimo, tra le idee componenti l’idea complessa una qualche analogia, renda falso il contrasto che esposto in termini complessi si aspetta sul tutto, e non sulle parti.

Le sensazioni troppo analoghe tra di loro rendono lo stile diffuso e noioso, perché l’imaginazione del lettore previene l’espressione dello scrittore, e molto più perché le idee troppo analoghe si risvegliano tra di loro troppo facilmente, e per conseguenza si ripetono fra di loro, il che produce noia e dolore.

Le idee accessorie sono idee associate o associabili nella imaginazione coll’idea principale; il legame di associazione dev’essere ben più forte colla principale che fra di loro, a misura dell’importanza di quella. Ora, le idee si associano nella mente o per coesistenza di tempo o per similitudine di qualità: se dunque la differenza fra le sensazioni e il loro maggior numero abbelliscono lo stile, eccellenti saranno le accessorie associate o associabili (secondo che noi componiamo o imitiamo) alla principale che hanno coesistenza di tempo o differenza di qualità, o, viceversa, similitudine di qualità e differenza di tempo.

Lo stile fluido è quello (prescindendo dalla fluida e scorrevole armonia de’ suoni) in cui le accessorie serbano tra di loro equilibrio di forza e d’importanza, per cui e l’attenzione ed il piacere restano sempre eguali nell’animo di chi legge.

Lo stile maestoso sceglie per accessorie i lati seri di un oggetto. Nell’uso delle metafore non scieglie le più vive o sempre le più energiche, ma che dimostrano l’impressione di chi scrive e la sua dipendenza dagli oggetti, ma quelle piutosto che, poco avvilite dall’uso, conservano abbastanza di vivacità per il lettore e destano nell’animo di lui idee che gli dipingono lo scrittore superiore agli oggetti descritti. Il non mostrarsi al di fuori mosso da alcuna passione, il poco curarsi degli oggetti presenti, il non piegarsi alle allettative della minuta folla de’ piaceri che si presentano, l’affettare una vista profonda e quasi indifferente del futuro, in somma il niente ammirare, rendono agli uomini venerabile la persona, e lo stile per conseguenza, che debb’essere la copia fedele delle impressioni degli oggetti. Se noi tocchiamo internamente noi stessi, noi vedremo che le vive scosse del piacere ci rendono dipendenti dagli oggetti. Tutti gli esseri sensibili adorano e pregano davanti all’imagine della voluttà. Ma l’uomo istesso, spettatore e spettatore interessato degli altri uomini, si abbandona alle illusioni delle esterne dimostrazioni delle impressioni altrui, le quali, se mostranglisi superiori a ciò da cui egli dipende, generanogli un timido sentimento d’inferiorità che chiamasi venerazione, e maestoso e grave chiama il mascherato istrione che sa presentargli imagini di questa natura.

Lo stile patetico è quello che dimostra una certa malinconia nello scrittore, o di chi fa parlare, ed ogni imagine indica che egli sofre; ogni parola è un rimprovero verso le fatali cagioni che lo pascono di mali e di dolori. Non v’è infelicemente in natura oggetto ridente e consolante che non abbia un lato serio e tormentoso. Il piacere non è dato a tutti, è dato quasi sempre all’individuo isolato, e i piaceri sociabili e quelli della natura sono o a spese d’altri esseri sensibili o urtanti nelle complicate combinazioni sociali.

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Qualunque materia vogliamo scrivendo trattare, cioè che non si riduce a semplici percosse dell’udito, non può esprimere che sensazioni. Non è dunque la mancanza di sensazioni che rende lo stile didattico e noioso, ma l’uniformità di quelle, o per la troppo frequente ripetizione delle medesime sensazioni e la troppa complicatezza, o il passaggio dalle une alle altre, benché varii per gradi insensibili di differenze.

Le figure di sentenze (figurae sententiarum) si riducono al medesimo principio delle figure di parole, colla differenza che lo scopo di queste si è la miglior maniera di esprimere le idee principali, di quelle si è la miglior maniera di risvegliare l’interesse principale. Così ampliaremo un oggetto per ottenerne quelle sensazioni che lo rendono piacevole o spiacevole; così adopereremo l’antitesi quando l’interesse principale sia la differenza tra un oggetto ed un altro; così si serviremo della ripetizione quando ci prema di far dipendere molti differenti oggetti da un solo; così ecc.

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Ma qui avendo citati questi autori debbo evitare un altro scoglio, ed è che, le opere eccellenti di questi grandi uomini avendo abbracciato con uno spirito di ardita elevatezza la filosofia dell’uomo in tutte le sue relazioni, hanno potuto in qualche parte meritarsi la censura della ecclesiastica autorità; onde alcune di queste opere ed alcune delle opinioni in esse stabilite sono state giudicate o pericolose, o nocevoli od empie: a me, profano uomo, non appartiene che di sottomettermi alla reverenda autorità di quelli a cui spetta il definire in queste materie; ma ho dritto di prevenire, non quegli illuminati e discreti personaggi che moderano le opinioni umane, ma coloro che, non autorizzati, stanno in aguato con diffidente oculatezza a ricercare in ogni scritto l’irreligione e l’empietà, cosicché in ogni frase ed in ogni parola che si scosta dalla pedissequa mediocrità sospettano ed a buon conto conghietturano il veleno, e gridano all’empio, all’epicureo, al materialista. In grazia dunque di questi spontanei ed oziosamente lividi censori son qui costretto di dire che, se in quest’opera parlasi ad ogni momento di sensi, di sensazioni, d’impressioni, non è però secondo che taluni amerebbero che io volessi intenderlo, cioè come materialista, ossia come uomo che dà ai corpi la facoltà di sentire, ma come ordinariamente si vuol significare, cioè di idee che si ricevono dall’anima per mezzo del corpo; e sfortunatamente le belle arti non di altro sono composte che di questa sorte di idee. Certamente non saranno i teologi che mi negheranno che l’anima non sia strettamente unita al corpo, e nemmeno mi sarà negato quello che in tutti i quaderni di filosofia si è sempre insegnato, in tutte le scuole, senza contrasto: ciocché chiamasi legge del commercio, cioè che ad ogni movimento corporeo corrisponde un atto determinato dell’anima, ad ogni determinato atto dell’anima un determinato movimento del corpo; si è disputato del come ciò avvenga, il che ha dato luogo alle diverse ipotesi delle cause occasionali, dell’influsso fisico, dell’armonia prestabilita, ed a simili altre miserie della filosofia; ma nissuno ha mai rivocato in dubbio il fatto. Dunque le idee le più pure e le più, se si può dire, immateriali, non si avranno mai dall’anima, finché sta quaggiù riunita ad un corpo materiale per vincoli a noi impercettibili e sconosciuti, se non vi si ecciti un corporeo corrispondente movimento: onde, in qualunque maniera si ragioni di questa oscurissima materia, quelle idee ch’ella potesse nel suo proprio fondo ripescare indipendentemente dagli oggetti esteriori, non però lascierebbono inerti ed inoperosi i sensi intimi ed interni; onde ho potuto con ogni esattezza nominar sensazioni tutte queste sorti di idee senza traccia di materialismo, per ridurre ad una espressione uniforme, e più confacente a ciò che è la materia ordinaria delle belle lettere, tutte le differenti ed analoghe maniere di esprimersi. Arrossisco per me e per molti de’ miei leggitori di dovere con tanta accuratezza prevenire le sinistre interpretazioni: ma l’esperienza mi ha insegnato che non bastano le più innocenti intenzioni a difenderci, in una materia tanto più pericolosa quanto più venerabile. Basta qui citare l’autore delle Note ed osservazioni sul libro Dei delitti e delle pene. Fortunatamente il soggetto di questo libro non è tanto suscettibile di questa sorte di combattimenti, per la medesima ragione che non potrà tanto interessare la curiosità del pubblico, mentre gli affari suoi non sono così da vicino, e così intimamente toccati.

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Cadde qui in acconcio il riflettere quando noi dobbiamo aggiungere alle principali accessorie che sieno indeterminate, nel senso però sovraindicato, e quando precise e determinate. Possono essere indeterminate le accessorie quando poche siano, perché, le idee che sono dalle espresse suggerite essendo moltiplici, vi sarà tempo che ognuno possa vibrar l’attenzione su quelle che gli sono più care e più consuete; in secondo luogo, quando le idee principali esprimano immediatamente oggetti o azioni fisiche, non quando esprimano oggetti o azioni morali: perché questi richiedendo una operazione della mente più lunga e più intensa, e versando intorno ad una massa di pensieri più volubile e più sfuggevole, bisogna allontanare l’animo di chi legge o vede o sente da tutte quelle espressioni indeterminate che gli producono oscillazione e movimento alieno dal movimento principale. Per lo contrario, espressioni precise e determinate sono punti fissi ed ostacoli che impediscono la mente da quel divagamento che gli oggetti morali, sotto tanti angoli differenti veduti quanti uomini sono, producono ordinariamente.

Saranno parimenti utili tali indeterminate ma sensibili espressioni a coprire la poca importanza delle principali; della qual sorte la serie delle idee e la catena tutta del discorso siamo talvolta costretti ad amettere nelle nostre produzioni, ed alle quali basta un colpo passagiero di attenzione: colpo che non sarà disturbato dalla scelta di molte idee eccitate da un’espressione inde­terminata, perché manca a queste idee la forza che avrebbero se fossero espresse co’ termini loro corrispondenti, nel qual caso, forse, diventando principali disturberebbero l’effetto di quella che, come tale, è necessario trovarsi nel discorso.

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A misura che questi nomi divengono più generali, cresce la moltitudine degli individui che la mente considera, e la difficoltà ch’essa sofre dal pensare soltanto alle deboli somiglianze che restano ancora tra di loro, piutosto che alle molte differenze per le quali si distinguono. Questi nomi allora o risvegliano un giudizio tacito, anzi spessissimo una serie di giudizi che, istituendo altre idee principali, alienano la mente da quelle che nel discorso tessono la catena tutta del raziocinio; o anche, come abbiamo accennato nel principio di questa dissertazione, divengono formole meramente mecaniche, visibili o auditive, restando nella mente affatto impercepite e tenebrose.

Ma di ciò sarà parlato più in dettaglio nel progresso di queste ricerche; per ora bastici il riflettere che i nomi speciali e propri risvegliano più nettamente, e con precisa vivacità, le idee che qualificano l’individuo: sono perciò espressioni che forniscono sensazioni più intense e profonde. I nomi generali ed appellativi risvegliano una maggior quantità d’idee, ma più debolmente, perché è divisa la momentanea attenzione su tutte le idee simili ed associate, che alla percossa del nome appellativo si destano nella mente, onde forniscono sensazioni più estese e più superficiali.

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Il dolore stende il despotico suo impero in tutta la sfera d’attività degli esseri sensibili. Antico quanto il tempo, esteso quanto la natura, inesorabile come il destino, tutte le cose gli obbediscono fuggendo, ed al fine della loro carriera lo ritrovano come al principio, solo infallibile esecutore delle leggi di natura. Egli si serve delle minime cose per atterrare le grandi, e delle grandi per sconvolgere le piccole; ed i piaceri verso de’ quali ogni essere che senta gravita incessantemente, da lui ricevono la spinta e l’urto al cangiamento; onde instabili e fugaci ricreano, ma non assopiscono, gli animi, che diversamente nell’indolenza e nel letargo si giacerebbono.

 

Io qui debbo spiegarmi in grazia di quelli che non vogliono interpretare nel senso più favorevole i passi degli autori. Parlo del dolore solamente in quanto a rapporto allo stato presente e naturale delle cose, non per rapporto all’uomo, quale doveva essere prima del peccato di Adamo, quale è ora per rapporto allo stato di grazia, e quale debb’essere per rapporto allo stato di gloria che noi speriamo; e per destino non intendo che l’ordine stabilito da Dio nelle cose naturali, il quale per se stesso non può deviare se non per un atto positivo della divinità. E intanto io non mi sono spiegato così chiaramente nel testo, in quanto ho voluto con poetica energia esprimere la massima influenza del dolore nelle cose umane.

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È necessario di spiegare su qual sensazione cade il dolore, perché pare che non dovrebbe cadere né sugli oggetti presenti, che servono di oggetto di paragone – questi essendo o indifferenti o piacevoli ancora, e capaci di eccitare desideri, – né sulla debole sensazione della cosa desiderata, perché se la sensazione attuale della cosa stessa, cioè un maggior grado di vivacità della medesima, non è dolorosa, tanto meno dovrebbe esserlo la sensazione che se ne ha desiderandola, perché più debole e meno viva; almeno secondo le teorie ordinarie del piacere e del dolore, che fissano il principio di questo al crescersi del moto producitore di quello. Si vogliono accuratamente distinguere due sorti di fibre communicatrici delle sensazioni all’anima. Fibre di sensi esterni, fibre di sensi interni, o vogliam dire il sensorio commune. Alle prime corrispondono nell’anima le idee proprie di ciascun senso esteriore, ed alle seconde possono corrispondere idee particolarmente relative a questo senso interiore. In tal supposizione potrebbe dirsi che tali idee deboli, e non rappresentanti cose attuali, quantunque simili a queste possono essere dolorose, quantunque meno vivaci di queste, perché prodotte sono da un minor movimento riguardo alle fibre mosse dagli oggetti attuali; lo sono però da uno abbastanza grande riguardo a se medesime, ché insomma il tutto dipende dal riconoscere per vero quel fenomeno che abbiamo fin dal principio di questo trattato conghietturato, cioè che le idee richiamate ed eccitate da altre idee non corrispondono a fibre del medesimo genere delle fibre dalle quali si eccitano le idee de’ sensi esteriori, e che, per cosi dire, la scala de’ movimenti di quelle sia di un tono più bassa della scala de’ movimenti di queste; potrebbesi ancora dire che quando una di queste più grosse e più robuste fibre move una di quelle più deboli e più delicate, le conferisce un moto che non è abbastanza forte per essere doloroso per se stessa, ma lo è per quella che è mossa; quantunque poi questa istessa, movendone successivamente dell’altre del medesimo genere, indebolendosi il moto, successivamente ritorna ne’ limiti del piacere. Ma potrebbesi rispondere non esser vero che, ad ogni scossa che le fibre de’ sensi esteriori danno a queste altre interne, queste siano mosse dolorosamente da quelle: a ciò risponder si potrebbe che per lo più il dolore resta assorbito dalla celerità con cui le prime fibre interiori movon le altre loro simili; secondo, che gli uomini o non curano, o anzi cercano dolori che terminano prestissimamente e sicuramente in piacere; terzo, che nell’ipotesi di cui ragioniamo bisogna ammettere che una sola fibra di sensi esterni non move sempre una sola degli interni, ma ne può movere contemporaneamente più d’una (se queste fossero, per esempio, trasversalmente disposte lunghesso di quelle). Che se poi più d’una delle fibre, per dir così, esteriori, movesi contemporaneamente, tanto più presto cresce la massa dell’interno movimento, e perciò svanisce ogni dolore, perché il moto primitivo si distribuisce su di una maggior quantità di materia, e perciò diventa minore in ciascuna delle parti.

 

Riflettiamo qui di passaggio che se le fibre interiori possono essere mosse dall’esteriori, queste parimente possono esser mosse da quelle: quando dunque le fibre interne movono le fibre de’ sensi esterni, esse non possono comunicare che un moto relativamente debole per le fibre de’ sensi esterni; queste dunque risveglieranno l’idea corrispondente, ma dentro i confini del piacere e non mai del dolore. Vi può essere dunque doppia idea simile, l’una corrispondente alla fibra interna e questa dolorosa, l’altra, debolissima, corrispondente alla fibra del senso esterno, e questa o piacevole o indifferente. I passaggi delle idee dall’una all’altra debbono farsi per il tessuto della sostanza del cervello; i movimenti che si diffondono debbono passare necessariamente, o mettere in oscillazione ed in movimento anche le fibre de’ sensi esterni, onde vi possono essere doppie e triple imagini perfettamente simili del medesimo oggetto, altre piacevoli ed altre dolorose, secondo che cadono su diversi generi di fibre diversamente mosse e diversamente movibili; de’ quali raddoppiamenti d’idee simili, più o meno vivaci, più o meno piacevoli, non dubbi esempi appariscono nella reminiscenza: il ricordarci, alla presenza di un oggetto, d’averlo noi visto in altre circostanze disparate dalle presenti fà che oltre l’imagine attuale di quello si risvegli un’altra imaginetta simile, ma più debole, colle altre circostanze associata; il qual raddoppiamento d’imagine nella memoria, non bene osservato da’ psicologi, ha dato luogo ad imbarazzanti ragionamenti intorno alla natura di questa facoltà primaria degli esseri pensanti.

[1] Ho cavato quest’esempio dall’eccellente Saggio sull’origine delle cognizioni umane dell’abate di Condillac, il quale è stato il primo, per quanto io sappia, a fare quest’importante riflessione sull’inversione. Ecco quanto egli dice a proposito: «Nymphae flebant Daphnim extinctum funere crudeli. Voilà une simple narration. J’apprends que les nimphes pleurent, qu’elles pleuroient Daphnis, que Daphnis étoit mort etc., ainsi les circonstances venant l’une après l’autre ne font sur moi qu’une légère impression. Mais qu’on change l’ordre des mots, et qu’on dise:
extinctum nimphae crudeli funere Daphnim
flebant
l’effet est tout différent, parce qu’ayant lu extinctum nimphae crudeli funere, sans rien apprendre, je vois à Daphnim un premier coup de pinceau, à flebant j’en vois un second, et le tableau est achevé… Tel est le pouvoir des inversions sur l’imagination». V. Essai sur l’orig. des connoiss. hum., tomo II, § 121, 122.

[2] Montaigne e La Fontaine sono i più grandi originali per questa sorte di stile.

[3] Il che, sia qui detto per incidenza, se si combini con un’altra opinione di valentuomini, essere il piacere nient’altro che una cessazione di dolore, potrebbe far nascere una terza ricerca: se il piacere umano consista in una determinata combinazione, o in un tale aggregato di sensazioni dolorose; se ogni sensazione sia originariamente e come tale spiacevole ed ingrata, e solamente una certa somma, più in un modo che in un altro unita, di queste producano il piacere, e di qual natura sia un tale aggregato. Questa ricerca potrebbe forse condurci a spiegare una quantità di fenomeni morali, e ad una più interiore analisi de’ nostri affetti e delle nostre passioni, ancorché arrivassimo a trovar falsa l’ipotesi, ed a risultati tutti contrari; perché, oltre che ci servirebbe di occasione d’internarci più addentro nella considerazione di noi stessi, noi moltiplicheremmo i punti di vista del vero medesimo, questa essendo forse una utilità non picciola dell’errore, cioè di dare una maggior estensione alla verità medesima, e di riconfermarla e ripeterla nella mente nostra per differenti strade e per opposte direzioni. Se il vero è semplice ed uniforme, se l’errore è vario e moltiplice, e se, come alcuno ha detto, ciò che ha di positivo è vero, la falsità essendo una semplice privazione, egli è certo che escludendo tali privazioni e cercando ciò che molti errori hanno di positivo e di comune, noi dovremmo necessariamente cader nel vero; del che non dubbi esempi ci forniscono gli aritmetici e i geometri coi loro metodi di falsa supposizione e di esclusione.

[4] Un valente medico, anatomico e filosofo, in un libro da lui per modestia intitolato Indice de’ discorsi anatomici, è arrivato per altra strada a presso a poco ai medesimi risultati.