Prolusione alla cattedra di Scienze camerali

Cesare Beccaria
PROLUSIONE NELL’APERTURA DELLA NUOVA CATTEDRA DI SCIENZE CAMERALI [1769]

Testo critico stabilito da Gianmarco Gaspari (Edizione Nazionale delle opere di Cesare Beccaria, III, 2014, pp. 79-96)

Destinato dall’augusta clemenza di Sua Maestà ad insegnare l’eco­nomia pubblica ed il commercio, cioè quelle scienze che suggerisco­no i mezzi di conservare e di accrescere le ricchezze di uno stato, e di farne il miglior uso: se mi rattrista il dubbio che le mie forze non sieno sufficienti alle difficoltà di un oggetto sì vasto, mi conforta e mi rassicura il dover ciò eseguire nella mia patria, dove almeno non sarò costretto né a coprire il vero di artifizioso velo, né a cercarne gli esempli solo da lungi, o nelle morte carte di negletti autori: ma sibbene, rivolgendo appena lo sguardo a quanto si è fatto finora in que­sta fortunata provincia, gareggiano dinanzi agli occhi miei in gran copia illustri monumenti ed attuali prove delle più importanti ed utili verità della pubblica economia. Misurate le terre; adeguati i tributi; incoraggite le manifatture; eretti dicasteri che veglino particolarmente, quali all’opulenza della nazione, quali alle scienze; ricolmi i sudditi d’immensi benefici: uno de’ maggiori è senza dubbio l’ave­re l’augustissima Sovrana confidata la somma delle cose di questo stato ad un illustre personaggio, a cui non sono meno familiari le più profonde cognizioni della colta letteratura che le più sagge massime di buon governo, ed in cui le virtù le più magnanime, l’affabilità, l’u­manità, l’equanimità, tanto più risplendono quantoché collocate in grado più eminente.

Sotto una così dolce ed illuminata amministrazione, all’ombra trionfale degli allori imperiali, gli umili e pacifici allori delle muse, già inariditi e languenti, riverdeggiano e si rinforzano; rinascono nella patria di Cardano le arti e le scienze, senza delle quali o in una iner­te desidia intorpidisce, o dietro rovinosi pregiudizi è strascinata la facile ma turbolenta imbecillità de’ popoli.

Non sono ancora emanate dal Trono tutte le superiori provvidenze sopra un oggetto così interessante: frattanto si comanda con generosa predilezione che s’insegni in volgar lingua quella scienza ch’era una volta con inutile, anzi dannosa prudenza, sottratta dagli occhi e dall’esame del pubblico, tanto più inavvedutamente quantoché tutte le scienze, e le politiche principalmente, s’ingrandiscono e si accosta­no all’evidenza a misura che passano e ripassano per l’urto e per la folla de’ diversi ingegni; che la luce universale col freno della pubbli­ca opinione previene gli abusi; che mille pregiudizi si oppongono spesse volte alle più sagge disposizioni, ed avvelenano negli animi de’ sudditi le più sincere e le più benefiche determinazioni; che ridicoli timori, maligne prevenzioni, errori protetti dalla sterile consuetudine, resistono sempre alle novità le più utili, e per conseguenza le più temute; che collo spargere i lumi nella moltitudine svaniscono queste larve malefiche, e l’obbedienza dovuta agli ordini supremi diviene più pronta e più dolce, perché spontanea e ragionata.

È dunque manifesta l’utilità generale che tali scienze sieno dalla pubblica autorità sostenute, e coltivate da’ cittadini che aspirano a rendersi degni, cui il Sovrano confidi la gelosa custodia degl’interessi del principato e della nazione.

Né bisogna credere che una cieca esperienza ed una meccanica abi­tudine tenga luogo di principii sicuri e di massime ben ragionate nelle impensate combinazioni politiche; né basta il possedere le verità generali senza discendere a’ particolari, dai quali diverse e moltiplici modificazioni soffrono le teorie di questa scienza. Non solo, per esempio, è necessario il sapere che per quattro mezzi principali fiori­sce il commercio: cioè concorrenza nel prezzo delle cose, economia della man d’opera, buon mercato nel trasporto, e piccoli interessi del danaro; che l’industria delle opere si anima e si vivifica coll’alleggerire i diritti d’entrata delle materie prime, e d’uscita delle lavorate; e coll’aggravare quelli d’entrata delle lavorate, e d’uscita delle prime; che ogni operazione economica si riduce a procurare la maggior quantità di travaglio e di azioni fra i membri di una nazione, e che in ciò solo consiste la vera e primaria ricchezza, molto più che nella quantità di metallo prezioso, segno rappresentatore soltanto, che accorre sempre alle chiamate dell’industria e della fatica, e che fugge malgrado ogni ostacolo dalla dappocaggine e dall’indolenza; ma è necessario altresì unir queste massime colle differenti situazioni di una provincia, colle diverse circostanze di popolazione, di clima, di ferti­lità spontanea o industriosa delle terre, coll’indole de’ confini, coi bisogni de’ popoli aggiacenti, colla diversa natura de’ prodotti e delle arti da quelli alimentate.

Con tutte queste considerazioni non bisogna perder giammai di mira l’indole universale dell’umana natura, più sicuramente regolata dagli ostacoli che dai divieti; che si precipita ciecamente verso l’interesse presente ed immediato, trascurante il futuro; amante la varietà e la mutazione, ma nel giro delle consuete cose – dagli esempi delle quali è piuttosto guidata, che dai ragionamenti – desiderosa del molto agire, ma colla minor fatica possibile; dalla certezza sia del bene sia del male animata e frenata, avvilita dall’arbitrio e dalla incertezza. Di questi, ed altri luminosi e grandi principii, applicati con assidua ed esatta diligenza alle circostanze particolari di uno stato, è necessa­rio che sieno imbevuti i facili ingegni dell’ardente gioventù, accioc­ché si rendano abituale quello spirito di calcolo e di paragone, rapido e profondo, per cui si sorprende il vero ne’ più complicati e difficili suoi inviluppameli, e da cui solo la scienza legislativa può acqui­stare la sua perfezione.

Con queste viste l’economia pubblica porterà la sua luce ne’ tortuosi ed oscuri andirivieni della giurisprudenza privata, onde chi giu­dica o tratta gli affari de’ cittadini, fra’ quali sono sovente frammisti affari di corpi pubblici, possa scostarsi dalle fallaci e fluttuanti regole d’equità particolare, ed aver sempre di fronte, interpretando i casi dubbi ed incerti, la legge interminabile dell’utile, e le norme eterne dell’equità universale, tutte stabilite sulle massime della pubblica eco­nomia.

Oltrediché non sarà mai grande ed illustre nella sua scienza colui che si restringe ne’ limiti di quella, trascurando le scienze analoghe e confinanti. Una rete immensa lega tutte le verità, ed esse sono più variabili, incerte e confuse a misura che sono più ristrette e più limitate; più semplici, più grandi e più sicure quanto si allargano in uno spazio più vasto, e si elevano ad un punto di vista più eminente.

Per prova di questa verità basta richiamare alla mente i tempi e i luoghi dove – tacendo nell’anarchia feudale, fra lo strepito delle armi, sepolte, le scienze tutte – la giurisprudenza privata era divenuta la pubblica legislatrice. Impedire la libera interna circolazione delle der­rate; incagliare gli affari spediti e veloci del commercio con lente e simmetriche procedure; immaginarsi di rendere opulento uno stato con risecare con istoiche prammatiche le spese de’ ricchi particola­ri, e con ciò inaridire le sorgenti dell’industria, ottondere gli stimoli al travaglio ed ammortire la speranza di una miglior condizione, ch’è il fuoco vitale d’ogni corpo politico; ridur quasi a monastica discipli­na i corpi degli artigiani, stringendoli in fazioni emule e litigiose, che s’impongono tributi, che si prescrivono regole fra di loro, per cui cadevano languenti le arti che si nutrono di libertà e di facilità; lasciare un campo libero a disposizioni più rispettabili pe’ loro motivi, che salutari per le naturali loro conseguenze, ch’erano di stabilire un canone antipolitico: «sia l’inerzia mantenuta dalla pubblica bene­ficenza, ed ottenga il premio dovuto alla fatica ed al sudore». Questi ed altri sono gli effetti d’aver ristretti fra i limiti della privata giustizia la giurisprudenza, che abbracciar dovrebbe tutt’i più grandi principii della morale e della politica.

Più. Le scienze di pubblica economia non possono non ingrandire e nobilitare le mire stesse private dell’economia domestica, suggerendo i mezzi di riunire l’utilità propria con quella del pubblico. Avvez­zandosi a considerare gli affari della società, e a rimaneggiare le idee di bene universale, l’amor naturale che noi portiamo ai nostri ragio­namenti ed agli oggetti che eccitano in noi tanti piaceri intellettuali, riaccende l’illanguidito amore della patria; non ci consideriamo più come parti isolate, ma come figli della società, delle leggi e del Sovra­no; la sfera dei nostri sentimenti diventa più grande e più viva; le pas­sioni esclusive si diminuiscono; le affezioni sociali si dilatano e si rinforzano per potere dell’immaginazione e dell’abitudine; e misuran­do gli oggetti nelle vere loro dimensioni ci allontaniamo da ogni bas­sezza e viltà, vizi che nascono sempre dalla falsa misura delle cose.

Quindi è che, paragonando le diverse professioni degli uomini, vediamo con tenerezza e con meraviglia la mutua catena de’ recipro­ci servigi, onde divengono per noi care e rispettabili, non a misura del fasto e della pompa che ostentano, ma in proporzione dell’utilità che arrecano, e delle difficoltà che superano; impariamo quanto debba rispettarsi l’orgogliosa indolenza di chi, lacero, poltrisce fra le sdrucite immagini degli avi, e l’industria operosa e benefica del ruvido agricoltore; ed ammirando il solitario ed austero cenobita, non disprezzeremo l’umile padre di famiglia, che divide un pane bagnato di sudore fra i teneri allievi della nazione.

Finalmente, non picciolo vantaggio può arrecare lo studio di una scienza non rinchiusa nella solitudine di un gabinetto, non versante intorno ad oggetti remoti dall’uso promiscuo della vita, ma della quale tutt’i circoli e le radunanze risuonano, e gli avvenimenti giornalieri ci richiamano a continue applicazioni; onde gioverà sempre il guardarsi, per interno convincimento, e per quella luce tranquilla e chiara che le scienze solidamente studiate c’infondono, sia dai venerati pregiudizi che per domestica tradizione ci vengono tramandati, sia da quell’abituale querulità e malcontentezza, che non cessa in ogni tempo ed in ogni luogo d’esser soffiata sulla diffidente e docile ignoranza.

Eppure una scienza così necessaria ed utile è stata delle ultime a svi­lupparsi nello spirito umano, e non è ancor giunta a quell’ultimo grado di perfezione di cui sembra suscettibile. Tutte le arti e le scienze sono nate dai nostri bisogni, siano da’ primari, cioè da quelli che l’uomo anche solitario ed abbandonato a se stesso risente necessaria­mente, siano da’ secondari, cioè da quelli che sentono gli uomini riu­niti in società osservandosi ed imitandosi reciprocamente, come per esempio la curiosità, la voglia di distinguersi, la fuga della noia; mentre dall’una parte si rende più facile il soddisfare alle naturali neces­sità, e cresce dall’altra l’attività dello spirito coll’addensamento degli esseri pensanti. Vi sono dunque sempre state fra gli uomini, in qua­lunque maniera riuniti, economia pubblica e commercio; in ogni tempo vi è stato cambio di cose con cose reciprocamente superflue e necessarie, di azioni con cose, di azioni con azioni. Eccovi il princi­pio d’ogni traffico. In ogni tempo gli uomini riuniti per qualche motivo sono stati forzati, per mantener l’unione ed ottenerne il fine, di concorrere con un certo numero di operazioni al bene comune, e di consegnare sia la direzione sia il prodotto di tali operazioni ad un supremo magistrato. Eccovi il principio d’ogni sorte di finanze, e del­l’amministrazione di esse. Ma queste cognizioni erano guidate sola­mente dalla disordinata e contraria opportunità de’ tempi, dalla pre­senza sollecita del bisogno, e dal timore istantaneo e precipitoso de’ mali, non da una catena di riflessioni e di verità dedotte ordinata­mente le une dalle altre, e prese sulla somma totale de’ bisogni sociali.

Era dunque necessaria una moltitudine di secoli, ed una infinita serie di fatti e di esperienze per supplire al confuso e lento progresso degli uomini verso le scienze economiche, e per produrre quella folla di minute circostanze che determinasse l’ingegno ardito e felice a por­tar la luce in simili materie attraverso le tante resistenze degl’interessi privati, e le fantastiche illusioni della prevenzione e dell’errore. In fatti, se noi portiamo lo sguardo ai primi tempi, noi vedremo gli uomini rari sulla terra, riguardo alla presente popolazione; ma molti­plicati oltre i mezzi che la spontanea natura offeriva ai loro bisogni, arrestati da’ fiumi che non ardivano varcare, frenati da’ monti per essi facilmente insormontabili; appena cambiavansi le derrate più necessa­rie della vita, derrate a forza d’armi a vicenda strappatesi dalle mani.

La prima professione, perché la più facile e necessaria fra gli uomi­ni, fu quella della caccia. L’uso continuo di essa fece loro conoscere le bestie da pascolo, e divennero pastori. Crebbe allora, in uno stato più ozioso e tranquillo, lo spirito di osservazione, le cose commercia­bili e gli stimoli al commercio, coll’adagiarsi ad una vita meno ruvi­da e feroce; ma crescendo tuttavia i bisogni e la popolazione, si ebbe campo di secondare coll’arte le spontanee produzioni della natura, e gli uomini divennero agricoltori. Ma l’invenzione de’ metalli fu quella che spinse l’umanità in una nuova rivoluzione di cose, e la sollevò ad un grado maggiore di moto, e per conseguenza di perfe­zione.

La durevolezza di questi nell’uso delle arti, la voglia di distinguersi con un monumento durevole dell’industria e della forza, la trepida sollecitudine de’ mortali nell’offerire alla Divinità ciò che vi era di più utile e di più caro, fece e ricercare e stimare, in proporzione della ricerca e della rarità, i differenti metalli. Così, aggiuntovi l’uniforme apparenza ed una commoda divisione di quelli, divennero a poco a poco il cambio d’ogni derrata, e per conseguenza l’universale rappre­sentazione di esse, come potevano esserla stata avanti una tale sco­perta le produzioni più necessarie e di un uso più comune. Ecco l’origine della moneta, ch’è stato il veicolo per cui la macchina politica divenne più mobile e più scorrevole. Finalmente la ferrea costanza degli uomini giacenti lungo le coste marittime, nel tentare l’immen­so pelago, moltiplicò la comunicazione, il moto e il cambio recipro­co dei comodi e delle delizie della vita.

L’Asia, nell’epoche a noi note, fu il primo emporio del commer­cio. La fama delle navigazioni dei fenici risuona ancora fra noi. Dall’Oriente, dall’Affrica, dall’Europa questi arditi navigatori chiamava­no con istancabile industria tutt’i doni della natura negati all’arido e piccolo loro distretto; essi gli ricambiavano e rispandevano dove mancassero; e con innumerabili trasporti si rendevano tributarie le nazioni rannicchiate ne’ loro paesi, emule e guerreggianti fra di loro.

Cartagine in epoca più certa, colonia de’ fenici sul Mediterraneo, s’innalza dalle rovine di Tiro e di Sidone. Abbraccia per mezzo del Mar Rosso e dei porti di Elath e di Esiongaber le coste orientali dell’Affrica, diviene la distributrice dell’oro e dei profumi più preziosi, spinge le sue flotte nelle coste occidentali e nel Mediterraneo, leva dalle Spagne le lane, il ferro, il cottone, l’oro e l’argento; arriva fino alle isole Cassiteridi, ora Brittanniche, per prendere lo stagno. Frattanto la Grecia fiorisce per la libertà e per le invenzioni le più subli­mi dello spirito umano; ma, squarciata in repubbliche gelose e divise continuamente, fuorché nel difendere contro a’ barbari la propria indipendenza, sembra non aver fatto del commercio la prima occu­pazione, fra la democratica turbolenza e la spartana e disdegnosa severità di militari costumi.

I focei, colonia d’Atene, fondano Marsiglia, emula costante di Cartagine, mentre Roma da oscuri principii si eleva; ma si eleva ambiziosa e conquistatrice, profitta dell’alleanza dell’emule repubbliche di Cartagine per distruggerla, e, distrutta, rende le alleate appoco appoco soggette e tributarie: politica da Roma in ogni tempo con­servata.

Prima di quest’epoca, Alessandro aveva fondato un nuovo impero. Al suo genio conquistatore si apre l’Egitto incomunicabile, e l’India antichissima: i suoi mari sentono il peso di straniere lotte. Alessandria, secondo emporio dei due commerzi d’Oriente e d’Occidente, si edi­fica. Dura fino sotto i Tolommei una tale opulenza: ma Roma alla fine passa col ferro trionfatore su tutti i monumenti dell’antica indu­stria, ingoia tutte le ricchezze, e i tributi immensi di tante provincie formano la sola economia pubblica del Romano Imperio. La traslazione di questo a Bisanzio fatta da Costantino, epoca feconda di tante conseguenze, stabilì intorno all’Ellesponto una grande fermentazione di affari politici ed economici; ma la mole immensa dell’impero, la maestà di un popolo conquistatore (tacendo intorno ad un centro in cui gravitavano i tributi della terra la voce imperiosa del bisogno), circondato da popoli barbari o avviliti, mancava di quello stimolo che nasce dal paragone con nazioni emule e più felici. Ma la miseria e la schiavitù riaccese in tutt’i cuori la disperazione ed il coraggio. Cadde interamente l’impero d’Occidente, mietuto e lacerato dai popoli settentrionali. Tutte le arti ed ogni sorta d’industria restano sepolte: solo in Italia si conserva fra quel popolo attivo ed inquieto una navigazione ed un commercio. L’antico spirito repubblicano cova sotto le ceneri del Romano Impero. Rompe l’Italia appoco appoco parte delle sue catene postele da un popolo feroce, ma ignorante. Sorge dalle paludi dell’Adriatico la libertà, e l’industria veneta: Genova, Pisa, Firenze si combattono, ma conservano, a confronto di tutta Europa, il dominio del mare e la superiorità delle manifatture. Le flotte italiane per mezzo d’Alessandria fanno sole il commercio di Levante, e le nazioni europee consegnano all’Italia tutte le materie prime che sola sapeva lavorarle, mentre quelle, scissa e lace­rata pel governo feudale ogni attività d’amministrazione, gemevano sotto un dispotismo tanto più desolatore, quanto più debole e molti­plicato.

Le navigazioni degl’italiani verso il nord fanno delle Fiandre un deposito di commercio. L’esempio domestico risveglia i fiammenghi, e gli rende i secondi manifattori dell’Europa. Le facilità accordate da’ conti di Fiandra a’ negozianti animano quella nazione; le medesime, tolte, la deprimono. Altre nazioni approfittano della loro imprudenza; e con questa vicenda l’Inghilterra, la Francia, l’Ollanda, la Germa­nia coll’unione delle città anseatiche entrano a parte dell’opulenza e dell’industria già propria unicamente del genio italiano.

Gli ebrei, perseguitati a vicenda dappertutto, non tanto per un zelo malinteso, quanto per l’avidità delle loro ricchezze, ricorrono, per sottrarle alle tiranniche ricerche, all’invenzione delle lettere di cambio, epoca fondamentale del commercio, per cui si rese più rapida e più sicura, e perciò maggiore, la comunicazione fra’ popoli commercianti. Scopresi la bussola, che guida nell’Affrica i portoghesi, ove fanno grandiosi stabilimenti. Bartolommeo Diaz raddoppia il Capo di Buona Speranza; raddoppiamento fatale all’Italia, che perde la miglior parte del commercio d’Oriente, cioè le Indie. Poco dopo Cristoforo Colombo, uno di quegl’ingegni arditi ai quali la timida prudenza de’ mediocri darebbe il nome di chimerici e romanzeschi, apre alla Spa­gna un nuovo mondo, frutto della costante e lungo tempo derisa sua fermezza. L’oro, che vi brilla da tutte le parti, rende gli spagnuoli avidi e coraggiosi oltre l’amor della vita, avvelenata nella sorgente medesima, oltre le fortune del mare immenso e rivoltoso. Scorrono torrenti di sangue, e milioni di vittime sono immolate in apparenza alla religione d’un Dio di pace, ed in realtà all’ingordigia del metallo rappresentatore di tutt’i piaceri. La facile ma crudele conquista dell’oro rende gl’immediati di lui posseditori negligenti nelle arti e nell’agricoltura, mentre quello, seguendo l’infallibile attrazione dell’in­dustria e della fatica, messa in un nuovo fermento fra le nazioni escluse ancora dall’America, non fa che passare per le mani ino­perose degli spagnuoli per circolare in Ollanda, in Inghilterra, in Francia. La necessità e la disperazione creano nelle Provincie Unite la libertà e l’industria: alcuni mercanti divengono sovrani di vasti regni nelle Indie orientali, e ’l commercio esclusivo degli aromi assicura alla nazione una sorgente inesausta di ricchezze.

Elisabetta in Inghilterra, e la sapienza de’ suoi Parlamenti, portano al colmo la superiorità delle manifatture e l’impero del mare. Il famoso Atto di navigazione incoraggisce da una parte, e, dall’altra, le compagnie di commercio, ad imitazione di quelle in Ollanda, riuniscono le forze della nazione, e rinnovano l’antico punico esempio de’ mercatanti conquistatori. Luigi XIV e Colbert innalzano quasi in un momento la Francia, rianimando ogni sorta d’industria; e tutte le belle 0 arti, le arti dell’ozio e della pace, fra le ambiziose intraprese di con­quista, sono mirabilmente nutrite ed incoraggite; ma il colpo morta­le della rivocazione dell’Editto di Nantes dona in un tratto alle poten­ze gelose una gran parte delle sue forze e delle sue risorse.

La luce delle scienze le più utili all’umanità comincia a scintillare in Europa, rovesciato l’idolo tenebroso della peripatetica superstizione. Lo spirito profondo ed osservatore della filosofia spandesi sull’econo­mia pubblica e sul commercio. Già gl’inglesi hanno potuto rinvenire in Bacone i primi semi di queste scienze, da altri valentuomini di quell’illustre nazione in seguito isviluppati e prodotti. In Francia il Maresciallo di Vauban, simile a Senofonte nella professione delle armi, da cui abbiamo il solo monumento di quella parte della politi­ca che ci abbiano tramandato gli antichi, fece il primo risuonare lo sconosciuto linguaggio della ragion economica. Melon, l’immortale Montesquieu, Ustariz, Ulloa, il filosofo Hum, il fondatore di que­sta scienza in Italia, abate Genovesi, oltre parecchi altri, l’hanno spin­ta a quel segno a cui non mancano che gli ultimi e non meno diffici­li lineamenti per renderla perfetta, e di un uso comune e sicuro.

Ma, rivolgendo lo sguardo da cose a noi lontane alla nostra provin­cia, si vedrebbe da quale stato di antica floridezza fosse caduta, non solo pel fulmine di guerra che passò tante volte sopra di essa, ma ancora per la disuguale distribuzione de’ tributi, e per la moltiplicità e confu­sione delle amministrazioni; rianimata dappoi, ed eretta ad un nuovo e felice ordine di cose sotto il regno immortale di Maria Teresa, con leggi ed ordini altrettanto semplici che universali, per le quali, tolto l’arbitrio distruttore, sono dati alla legislativa mano del principe i mez­zi ristoratori dell’industria e della pubblica felicità. Ma la brevità del tempo e la lunghezza de’ dettagli, necessaria dove si tratti non solo di cose proprie, ma ancora di tante auguste beneficenze, mi costringono a serbare una sì consolante discussione al progresso delle mie lezioni.

Restami solo a qui promettere solennemente che, nell’esporsi da me i principii più sicuri intorno all’agricoltura, commercio, manifat­ture, polizia interna, finanze, non dimenticherò giammai il sacro dovere imposto a tutti quelli che sono incaricati della pubblica istru­zione: di parlare mai sempre il linguaggio della verità, chiaro, sempli­ce, energico.

Richiamando gli oggetti alle origini loro primitive, ove si trovano meno intralciati, fra tanti rapporti e modificazioni, le definizioni riu­sciranno esatte e non arbitrarie; l’evidenza nascerà dal discioglimento delle nozioni complesse ne’ suoi elementi, e da un’ordinata deduzio­ne delle proposizioni più semplici alle verità più generali e più com­plicate. Nel medesimo tempo, realizando le massime economiche colla continua applicazione alle circostanze nostre, mi sforzerò di allontanarmi dalle sterili ed astratte speculazioni, e da tutto quell’apparato imponente di termini scientifici, onde le scienze tutte sembra­no misteriose ed inaccessibili, e con eguale premura schiverò le magi­strali e dogmatiche decisioni, sotto il giogo delle quali l’originario vigore degli spiriti si rallenta dietro una servile imitazione, e le scien­ze divengono un artificioso accozzamento di termini convenuti.

Diffidando di me medesimo, e sgomentandomi dell’importanza d’una scienza che versa intorno agl’interessi delle intere nazioni, spero di essere animato ed assistito dall’illustre gioventù milanese. Il docile ingegno, l’animo fervido ed instancabile, la vivace curiosità loro con­tribuiranno a dileguare il sempre imminente e pieghevole errore, ad abbattere i barbari pregiudizi e le anticipate opinioni, che, ad onta della timida e sfuggevole verità, potrebbono opporsi in questo suolo ai doni immortali della natura; e, benché invano, alle magnanime provvidenze di chi ci governa. Me beato, se le sollecite mie cure arri­veranno ad accrescere il numero de’ sudditi illuminati alla sempre augusta Sovrana nostra, de’ veri cittadini alla patria, degli uomini vir­tuosi e di sode cognizioni avvalorati alla società del genere umano.