Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese

Pietro Verri
ORAZIONE PANEGIRICA SULLA GIURISPRUDENZA MILANESE [1763]

Testo critico stabilito da Gianni Francioni (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, I, 2014, pp. 422-450)

Delphis oracula cessant.
Juv. Saty. VI

La corruzione del secolo va tanto avanti, Padroni miei, che se qualche Santo non ci provede siamo per vedere ben presto la fine del mondo. Non si sa ormai più come difendere la verità attaccata per ogni verso da un nembo di libercoli Oltramontani, i quali appena sfiorano la materia e infondono il veleno nascosto negli animi degl’incauti, e di quest’incauti il numero va crescendo pur troppo ogni giorno anche nella nostra Italia. La gioventù, adescata dal fallace mele, in vece di provedersi gli stiletti e le pistóle, come si faceva cinquant’anni sono, spende il suo peculio nella compera di libri pestiferi, e persino le donne, le donne istesse omai più non sanno maneggiare la rocca e il fuso e pretendono d’avere anch’esse diritto di succhiare a quelle torbide fonti! Colla lettura di otto tometti d’un certo Voltaire, conosco io una pettegola che ha osato far tacere un Dottore della Biblioteca Ambrosiana, il quale, avendo studiata la storia su quarantanove autori tutti in foglio, cercava d’insegnarle qualche parte del suo sapere: si parlò del Concilio di Basilea, del Concilio di Costanza, e la pettegola sapeva tutto; si parlò dei Valdesi, e la pettegola sapeva tutto; si parlò dei Templieri, e la pettegola sapeva tutto; cosicchè il povero Dottore, fracido e logoro nella erudizione, non ha potuto dire nulla di nuovo ad una Signorina di venticinque anni che conserva intatto il vermiglio del suo volto. Ah Voltaire, Voltaire, assassino degli uomini dotti, che bel merito cercasti tu mai prostituendo la dottrina per tal modo, cosicchè con divertimento in pochi mesi possa ora acquistarsi quello che tu stesso hai comperato con lunghe e nojose vigilie per molti lustri! E come ardisci tu di lagnarti se dichiariamo la tua storia piena di falsità, tu che ci hai ridotti al duro passo o di calunniarti o di ritornare uomini volgari!

Il disordine, Padroni miei, va tanto accrescendosi ogni giorno in Italia che frappoco non sapremo più dove volgerci: abbiam combattuto lungo tempo per difendere i maghi e le streghe, e questi spiritosi novatori hanno fatto tanto che ci è stato barbaramente tolto il diritto non solamente di quella sacra e devota funzione d’abbruciare gli uomini vivi e d’ascoltare le tenere e soavi loro grida uscire dai globi di fumo e dalle fiamme, ma persino da formare un ben ragionato metodico processo de’ loro delitti. Oh tempi, oh calamità! E che dirò poi degli Antipodi, proibiti in tante Giunte, proscritti in tante gride; e che dirò poi del moto della Terra, odioso, perniciosissimo moto, per cui all’età di settant’anni fu messo alla tortura Gallilei, alla presenza di sette Eminentissimi porporati, mali gravissimi della Repubblica, che questi torbidi novatori ci costringono a tollerare! Ah Inghilterra, Inghilterra, ingratissima Inghilterra, se le forze corrispondessero al buon disio, tu non saresti fralle Nazioni viventi; la venefica tua influenza ha già infetta la Toscana, dove si pensa ad abolire la divina giurisprudenza giustinianea, di cui vi si è già tagliato un ramo insigne colla sventurata limitazione de’ fedecomessi. Per te, funestissima Inghilterra, va serpendo d’ogn’intorno il disamore di questa scienza, sola utile al mondo e madre di tutte le altre; per te nel Parmigiano e nel Genovesato non s’ascolta a parlare che di manifatture e di arti; per te vedensi i nuovi Codici in lingua volgare, come se gli uomini dovessero intendere le loro leggi, e viene proibito il citare avanti i Tribunali la venerata autorità de’ Dottori ne’ Stati del Re di Sardegna; per te in somma è infestata la povera Italia da uno stuolo di eruditelli e begl’ingegni moderni che meriterebbero d’essere trattati come la gramigna nel campo.

Ma se la vista della povera Italia agghiaccia il sangue nelle vene per lo raccapriccio, dolcissima è la consolazione che provasi in chi viene a respirare nel Milanese, avventurata Provincia dove, malgrado la universale corruzione, si conserva ancora puro e intatto lo spirito della vera sapienza, dove la povera giurisprudenza del Foro s’è conservato un glorioso asilo e cammina fastosamente preceduta dai consolari littori, dove, mercè il retto giudizio de’ saggi cittadini, costanti all’instituto della dominazione Spagnuola, si vendono ogni anno tremila esemplari della Pellegrina Celeste e fallisce l’editore della Relazione del censimento. Fortunata metropoli, gloriosi cittadini; questa, questa è la strada per cui si sostengono gl’Imperj e si rendono illustri le Nazioni; ed acciocchè si radichi sempre più sodamente ne’ vostri animi illuminati la costanza nel bene scelto cammino, e l’avversione s’interni in voi contro i pretesi eruditelli che vi circondano nelle Nazioni confinanti, io mi propongo, o Milanesi, di mostrarvi i massimi beni e la gloria incomparabile che vi ridonda dal sistema sotto cui ora vivete e le segnalate beneficenze che ha versate nel vostro grembo la regnante giurisprudenza; e come utile cosa è il rammemorare agli uomini sani il pregio della sanità acciocchè la conservino, così io brevemente andrò divisando con voi, se benignamente vi disponete a darmi orecchio.

Se in questa sì squisita udienza immaginar potessi che taluno vi fosse de’ moderni inettissimi novatori, suvvia, gli direi, parlate, esponete: qual altra parte del mondo trovate voi che sia meglio regolata della Lombardia? E già mi sentirei rispondere l’Inghilterra, cioè quell’isola abominevole d’onde non s’è mai veduto uscire un solo Consulente, non un Repetente, non un Trattatista; quell’isola dove le leggi sono scritte in lingua volgare; quell’isola dove servilmente stassi alla lettera dello Statuto, miserabile libro su cui decidono alcuni giurati estratti a sorte da un bussolo. Ebbene, direi, quali più nobili, più benefiche, più alte mire ha il Governo dell’Inghilterra di quelle di questo Stato? Forse la popolazione? Chiudete, chiudete la profana bocca, e sappiate che una società di uomini non è una mandra di cavalli, e sovvengavi che non v’è cosa così contraria alla santissima castità quanto la procreazione della specie; nè mi ripetete che la grandezza della Nazione dipenda dal numero de’ componenti, che da questi prendasi norma per il tributo, e sì fatti soffismi atti ad afascinar gl’incauti, perchè io risponderovvi che più sono gli uomini in una Nazione e più sono le bocche da mantenere; perchè risponderovvi che più sono quei che consumano e tanto meno ne resta per dare in tributo; perchè risponderovvi che la sana politica c’insegna che conviene tener ferma l’autorità del Sovrano, e che l’autorità del Sovrano tanto più vacilla quanto egli ha che fare con una Nazione più numerosa; perchè finalmente citerovvi la Spagna, dove non v’è mai stata vera quiete se non se dopo la sua spopolazione.

Ma ascolto l’avversario mormorar sotto voce i nomi di agricoltura e di commercio. Eccomi, eccomi al cimento; e che per ciò? Forse che le misere cure dell’agricoltura e del commercio possono rendere una Nazione degna d’essere proposta per modello? Innezie sono queste, le quali tutto al più possono dare in balìa degl’Inglesi delle Colonnie in Affrica, in Asia ed in America, onde faccino delle prepotenze in Europa in pregiudizio del terzo, e con aperto danno delle due importantissime virtù, la pazienza e la povertà. Ecco, Signori miei riveriti, ecco dove va a finire il gran merito vantato degl’Inglesi! Ma frattanto di studj sodi, di studj utili, di giurisprudenza in somma, come stiamo? Povera gente, non ne sanno nemmeno i principj!

Così dicasi, Signori miei, delle vantate riforme del Re Federico di Prussia, il quale ha rovinato gli Stati suoi abolendo la giurisprudenza giustinianea e sostituendo al Nuovo, al Vecchio, all’Inforziato tre miserabili tometti tedeschi, ai quali ha osato dare il nome di Codice, ridicolo codice in vero, che potrebbe portarsi comodamente al passeggio! Infelici sudditi di quel Monarca, fra’ quali le questioni più brocardiche e i più begli articoli forensi vengono miseramente svenati al nascere; misera Nazione, dove con universale scandalo de’ buoni è stata tolta la sussistenza a un gran numero di Giurisprudenti: Giudici, Attuarj, Cancellieri, Notaj, Portieri, Scrittori, Secretarj, Avvocati, Sollecitatori, Consiglieri e Clienti, i quali tutti servivano un tempo di gloria e di decoro alla loro Patria, e poscia hanno dovuto per vivere prendere le armi e sostenere disperatamente colle allegazioni de’ fucili il fedecommesso della Slesia! Quindi, Signori miei, quindi ne’ suoi Stati colano i rifiuti dell’Europa, gli autori delle Pulcelle, delle Enciclopedie, dell’Emile; quindi, inferocitosi l’animo di quel Monarca, alla testa delle sue armate ha commessi tanti omicidj e tanti atti contrarj alle gride delle armi; quindi perfine il massiccio della legge e il sodo della scienza più non si conosce fra que’ popoli, e si perdono que’ travviati ministri nelle puerilità del commercio, delle finanze e della milizia, e s’è introdotta una nuova lingua di gius naturale, gius delle genti, patto sociale e sì fatte idee vaghe e chimeriche, le quali in fractione panis rovinano un povero giovine e lo lasciano pieno di pregiudicj e di supposizioni.

E per convincerci maggiormente dello stato di cecità a cui sono ridotti gl’Inglesi e i Prussiani, osservate, Signori miei, come quelle due avvilite Nazioni siano giunte persino ad abolire qualunque crociuolo per cui purgano l’infamia i rei. Non v’è chi negare possa che la corda, la veglia, il canape e simili ingegnose invenzioni non sieno del genere de’ purganti, non dirò già della senna e del rabarbaro, ma dei purganti in genere; la sede della verità è riposta nella cavità glenoide, dove sta compressa dall’osso dell’omero in chi più ed in chi meno, come appunto la sede de’ pensieri è il cerebro, la sede de’ desiderj è il cuore. Gli uomini veridici hanno l’osso dell’omero meno aderente alla cavità, onde ha campo la verità di farsi strada e rimontare alla lingua; ma gli uomini che non sono veridici hanno bisogno che si distragga l’osso dell’omero onde esali la verità, e perciò s’è inventata la tortura della corda, chiamata a ragione Regina tormentorum. Un povero reo non è sproveduto da noi di tutti i soccorsi necessarj per essere veridico; qui da noi abbiamo l’umanità di purgarlo quando egli sia tinto d’infamia; ma ne’ Stati di quelle infelici Nazioni un infame resta sempre un infame. Le lagrime vengono alle ciglia in vista d’una sì barbara ed implacabile legislazione! Ma per poco diasi tregua ai violenti affetti e pongansi pure in chiara luce le innettissime ragioni colle quali pretendono i novatori di difendere un sì mostruoso sistema. Dicon dunque costoro: o il delitto è incerto o il delitto è certo; s’egli è incerto, è cosa ingiusta porre al tormento un cittadino che forse è innocente; che s’egli è certo è cosa inutile, poichè la confessione del reo anche per pratica nostra non è necessaria, poichè non può obbligarsi mai un uomo a rinunziare all’inalienabile diritto naturale della propria difesa; poichè l’accusatore deve essere esenzialmente una persona distinta dall’accusato; poichè finalmente di tutte queste ragioni noi medesimi mostriamo d’intenderne la forza, risguardando per nulla la confessione fatta ne’ tormenti se non venga ripetuta fuori de’ tormenti medesimi. Chi difende la buona causa non teme di porre nella più chiara luce le dificoltà degli avversarj, e quali dificoltà, che un soffio di vento abbatte a terra! Se i cittadini innocenti non devono essere esposti alla tortura, converrà dire che i cittadini innocenti non debbino mai avere il mal di capo, la febbre, la podagra e tutta la infinita lista de’ mali compresi tra l’apoplessia e l’aura convulsiva; ma i cittadini innocenti hanno di questi mali: dunque i cittadini innocenti è falso che non debbino essere posti alla tortura. Ecco rovinata la metà dell’argomento cornuto; or vengo, Signori miei, all’altro corno. E qui rispondami l’avversario se, perchè la tortura non è necessaria, crede che sia buona logica il dire ch’ella non deve usarsi? Dunque, non essendo necessario ch’io risponda alle sue dificoltà, dovrei non rispondervi? Ma no, ch’io voglio rispondervi, e dirò che citarmi il dritto naturale egli è un ricorrere a una chimera combattuta da tanti valenti uomini, e ultimamente dall’intero Parlamento di Parigi nella condanna del velenoso libro dell’Emile; per tal modo che, non vi essendo l’allegato diritto, cade ogni ragione che da esso voglia mai dedursi. Che la persona dell’accusatore debba essere divisa da quella dell’accusato non lo neghiamo; ma si ricordi l’avversario che sono appunto nel microcosmo dell’uomo due persone morali, la parte inferiore e la par
te superiore; la prima comanda sino ai trent’anni, l’altra il rimanente della vita, onde non vi può essere assurdo se nell’uomo medesimo risedano l’accusatore e l’accusato, poichè vi risedono il comandante e il ribelle. Ed ecco sfrantumato in polve il colosso de’ soffismi che tanto arditamente si propongono. Italia fortunata, in cui si conserva in tutta la forza virginale l’impero della tortura, lascia, o bella Italia, che gracchino gli Oltremontani, e che gl’Inglesi e i Brandeburghesi vantino l’esattezza della loro giustizia criminale senza tormenti; lascia che tutte le milizie d’Europa s’unischino a declamare col proprio esempio contro i tormenti; lascia che gli eruditi ti rinfaccino le leggi stesse Romane oggetto della tua adorazione, leggi nelle quali altro veramente non manca che quella della tortura per gli uomini liberi; e malgrado il rumoreggiare di tante voci, sta ferma e imperterrita nell’amore della tortura; tortura che dando il privilegio ai Dottori di non provarla, quand’anche fosse inutile per la giustizia, sarebbe sempre utilissima per il decoro che fa cadere sulla laurea; tortura la quale, o diasi ut officiat ovvero super aliis et complicibus, è sempre un atto sacro alla umanità, tolto il quale sarebbe pure distrutta la gloria de’ due celebri scrittori Bosso e Claro, sulle private opinioni de’ quali si lussano le ossa e si amputano le membra di questi fortunati cittadini!

Ma troppo a lungo, m’avvedo, v’ho io trattenuti, riveriti Signori, su queste vanissime curiosità, e tempo è egli ormai che la orazione mia rivolga alla giurisprudenza, Donna e Signora di questa beata regione; a quella divina giurisprudenza che Vulpiano definisce la scienza della umane e delle divine cose, divinarum humanarumque rerum scientia; a quella benefica giurisprudenza alla quale in conseguenza si deve il nome d’enciclopedia e si devono a giusta ragione le cariche tutte. E per formarvi una limpida idea delle eterne obbligazioni che avete a questa incomparabile giurisprudenza, date meco, Signori, per poco un’occhiata a que’ luttuosi tempi della città vostra ne’ quali sessanta mila commercianti vivevano fralle vostre mura, orgogliosa schiatta di uomini i quali, raunati in Consiglio, osavano dettare le leggi senza aver più riguardo per i Giureperiti di quello che gli uomini sani e robusti ne abbino per i medici; veggansi la confusione e il disordine d’una sterminata moltitudine di treccento mila abitanti che passeggiavano urtandosi per queste strade; ascoltisi lo strepito incessante di innumerevoli telaj che per ogni parte erano sparsi in settanta fabbriche di lanificio; veggansi i poveri Giureperiti scarmi e logori errare confusi col volgo, esclusi da tutte le cause di commercio per legge statutaria, esclusi dallo stipulare i contratti, i quali senza notaj e senza testimonj, su un informe pezzo di carta, a guisa di lettere di cambio avevan fede; veggansi i concorsi de’ creditori miseramente estinti in pochi giorni colla divisione delle sostanze in ragione del credito, secondo quell’orribile statuto compartiantur equaliter nulla habita ratione cartae, temporis, vel privilegii, e così seppellite miseramente sotterra le poziorità, gl’istromentarj, i chirografarj, la Legge Scripturas e simili ingegnosi amminicoli che aguzzano l’ingegno e somministrano materia alle questioni più utili di tutte; veggasi la Nobiltà avvilita e degradata a segno che non aveva persino erubescenza a far tessere le lane per suo conto ed in sua casa; veggasi in una parola l’universal corruzione introdotta negli animi de’ cittadini dall’avidità del denaro, in guisa da prostituire con eterna vergogna il decoro della povera loro Patria rendendola sporcamente salariata de’ Veneziani, dai quali (convien pure ch’io lo dica) i Milanesi ricevevano ogni anno il vilissimo pagamento di cento venti mila zecchini. Dolorosa memoria! Mostruosa cecità! Qual riposo, qual quiete trovar mai in una città discesa a sì misero stato, dove ora a’ Principi veniva in capo di fabbricare uno spedale, ora un magnifico Tempio, ora altro pubblico edificio! Qual pace o ristoro trovar poteasi in una città dove ogni giorno venivansi a stabilire le forestiere famiglie, dove la misera plebe doveva co’ sudori della sua fronte scavare i canali per condurre le acque alla città e facilitare il trasporto de’ viveri, dove finalmente, per dir tutto in poche parole, l’odio comune era sì fattamente stabilito che correva il terribile proverbio che conveniva distruggere Milano per veder risorgere il commercio d’Italia!

Da quella maraviglia che scorgo espressa ne’ vostri volti, Signori miei, ben io m’aveggo che questi atroci fatti della vostra storia domestica vi sono stati prudentemente sin ora nascosti in buona parte; ma l’argomento mio m’ha imposta la legge di svelarvi le piaghe antiche, acciocchè benediceste nell’intimo del vostro cuore la saluberrima, la providissima giurisprudenza per di cui mezzo siete a più pura vita risorti. In fatti, a chi altri mai attribuire potrebbesi il rimedio portato a questi mali enormi se non se alla nostra enciclopedia? Appena questa rovinata Provincia cadde in mano della Spagna, che alcuni Giureperiti, alla testa de’ quali era il famoso Presidente Sacco, pensarono alla riforma, e ciò si fece col Codice delle Nuove Constituzioni, codice sacro, codice benemerito a cui dobbiamo tutt’i massimi vantaggi che c’innalzano al dì d’oggi sulle altre Nazioni. Risvegliate per poco la cortese attenzion vostra, Signori, che or ora c’ingolfiamo nel grande pelago delle nostre felicità.

Sogliono le altre Nazioni d’Europa avere de’ Giudici bensì, ma Giudici servi e dipendenti dalla legge; col nuovo Codice si pone per fondamento nel Milanese che vi sia un corpo di Giudici padroni della legge, e questo è il Senato, cui spetta il giudicare delle sostanze, della vita, della fama de’ cittadini o secondo la legge, o contro la legge, o fuori della legge, o seguendo o non seguendo le formalità prescritte dalla legislazione. E dove troverassi mai, Signori miei, al mondo una città che possa vantarsi d’avere un corpo così augusto che sia più augusto della legge medesima, come lo abbiamo noi? Habeatque idem Senatus auctoritatem infirmandi, confirmandi, tollendi et concedendi etiam contra Statuta et Constitutiones. Oh gran Senato! Oh grande prerogativa, o Milanesi, della vostra città! I poveri vostri antenati erano pur digiuni nella giurisprudenza quando stabilirono quella inettissima legge che verba Statutorum serventur ut iacet littera, nè sapevano che littera occidit, spiritus autem dat gratiam. Venne finalmente lo spirito, quel ben augurato spirito curiale che vi riscosse, che vi illuminò, che fece conoscere il decoro d’un Tribunale maggior delle leggi, d’un Tribunale che in questo senso può chiamarsi illegittimo, d’un Tribunale il quale, riunendo in sè le due persone del Legislatore e del Giudice, fa vedere la fallacia dell’opinione del Cancelliere Francesco Bacone e del Presidente Montesquieu, i quali osarono asserire che dovunque queste due persone trovinsi riunite, ivi è il vero dispotismo. E qui di nuovo esclamare m’è forza: oh gran Senato, oh augustissima adunanza, adunanza sciolta da ogni legame, adunanza che giudica ex informata conscientia! Oh gran Senato, presso cui, acciocchè i casi decisi non pregiudichino mai a quelli da decidere, con saggio accorgimento non fanno peso le decisioni già fatte, la quale adunanza di virtuose prerogative chiamasi in greco epicheja. Oh gran Senato, che non giudica come i Senati, ma bensì come Dio, Senatus judicat tamquam Deus, cioè tamquam Deus non dando mai ragione delle proprie sentenze; poichè se desse ragione gliene resterebbe tanto meno per lui, e non è mai soverchia la ragione in un Tribunale di giustizia; judicat tamquam Deus ad imitazione de’ giudizj di Dio col fuoco, coll’acqua, col duello e coi dadi, i quali, come c’insegnano le storie, chiamavansi pure judicia Dei.

Questo adorabile corpo era in principio composto di tre ordini di persone, di Ecclesiastici, di Militari e di Dottori, e forse ciò si fece per non urtare di fronte la pubblica ignoranza; ma poco a poco dissipate le di lei tenebre, gli Ecclesiastici e i Militari dovettero lasciare il campo libero ai Giureperiti, cosicchè tutta di enciclopedisti è composta al dì d’oggi quella divina adunanza. E qui non vi dispiaccia, riveriti Signori, di far meco qualche più intima osservazione sulla natura di questo corpo animatore della Patria vostra. Ne’ Paesi che si pretendono colti, ma che a parer mio non lo sono, viene vietato al Giudice l’accogliere in sua casa i litiganti, i quali, poichè fra di loro hanno concertato il fatto, si presentano co’ loro avvocati al Tribunale, dove esponendo ciascuno le ragioni, vengono posti i Giudici in caso da proferire la sentenza; ma in questa illuminata Patria vostra non temesi, a ragione, veruna corruzione ne’ Giudici, perciò i litiganti passeggiano più volte dalla casa d’un Giudice all’altro; ed acciocchè non si dica che la bugia non sia un peccato (e tal non sarebbe se non fosse libera), si lascia la libertà a ciascuno di rappresentare il fatto come vuole; finalmente, come non mai bastantemente si tiene in uso e in esercizio la divina nostra giurisprudenza, così s’è stabilito che tante aringhe e tante informazioni si faccino quanti sono i Giudici che hanno voto nel tribunale, dal che poi ne viene l’onorata mercede d’uno zecchino per ogni volta ai dotti Curiali. Le sentenze, o per dir meglio servendomi della comune espressione, gli oracoli del Senato si hanno colla vile moneta di cento doble per articolo, e l’anatomizare questi articoli dipende dal Senato medesimo, da cui alcune liti riduconsi talvolta come la spina del dorso nel corpo umano; dal che ne viene lo stabilimento universale del retto criterio di verità, che per detto anche de’ moderni consiste nella esatta divisione delle cose, divide et impera. Due classi poi, attenti, Signori miei, due classi sono de’ Senatori: altri sono i Senatori invisibili, altri i Senatori visibili; gl’invisibili sono i Signori Tiraquel, Mantica, Menocchio, De Lucca e Raffaele Fulgoso (quest’ultimo ha grande influenza su i maschi delle femmine), e questi Senatori invisibili sono i veri Senatori che interpretano la legge; i Senatori poi visibili, quando non abbino qualche epicheja contraria, raccolgono i voti degl’invisibili e distendono la sentenza.

Con qual profonda sapienza sia fabbricato sì bel sistema, lo dica chi ha fior di senno in capo; lo dica la voce de’ litiganti, i quali restano in un salutare timore, sebbene abbino in favore i testi letterali delle leggi; lo dica la Università celebre di Pavia, dove per le attente cure del Senato non è mai giunta la corruzione che i moderni hanno tentato di spargere nelle scienze, dove la medicina, la fisica e le pericolose scienze matematiche proscritte da Giustiniano e tutte le altre frivole cognizioni dell’orgoglioso ingegno degli uomini vengono contenute in quell’aurea mediocrità tanto celebrata dagli antichi filosofi, e in quella salutare moderazione per cui si obbedisce al precetto del ne quid nimis ed al consiglio del non plus sapere quam oportet sapere. Perciò in questa Provincia non vedonsi quelle scandalose meridiane, le quali altrove s’incontrano persino nelle chiese con universale raccapriccio de’ fedeli; meridiane, empie meridiane ricoperte di Leoni, di Tori, di Granchj, d’Arieti e simili bestiali avanzi del Gentilesimo. Perciò da due mila anni a questa parte non v’è chi sappia precisamente in qual parte del globo sia riposto Milano; perciò un temerario che anni sono ardì formare il sedizioso disegno di pubblicare la carta topografica del Milanese fu colto a tempo, e posto in carcere servì d’esempio agli altri. Tanto è vero, Signori riveriti, che il secreto è l’anima degli affari. Oh previsione ben accertata! Oh profonda sapienza! Oh sublime politica! Oh beata ragione sotto l’impero della giurisprudenza!

Nè qui ancora hanno fine le beneficenze, o Milanesi, che sono piovute sopra di voi col Codice delle Nuove Constituzioni, che se a quello siamo debitori dell’odierno spirito dell’augusto Senato, a quello di più dobbiamo riferire la sublimità a cui la natura umana è sollevata fra di noi. Eccomi alla prova. Vorrebbe la corrotta natura che un padre non fosse sordo ai gemiti d’un figlio benchè bandito, quando di mezzo inverno venisse a notte oscura a cercare ricovero nella casa paterna: ma gridi pure la corrotta natura sin che vuole, la Nuova Constituzione condanna a morte il padre che accolga il figlio. Vorrebbe la corrotta natura che la legge punisse gli atti esterni e non i soli pensieri: ma la Nuova Constituzione vuole che i Milanesi sieno buoni nel fondo del loro cuore, perciò condanna providamente a morte chi ha semplicemente pensato d’uccidere, anzi di più, chi è stato informato di questo pensiero. Vorrebbe la corrotta natura che andasse a morte un sicario, ma non già chi abbia semplicemente promesso di esserlo, forse anche per impedire che durante il bollore delle passioni non se ne dia ad altri la commissione: ma la Nuova Constituzione sublima l’uomo e condanna a morte chi semplicemente abbia promesso. Vorrebbe la corrotta natura che fosse punita la donna che ha deliberatamente privata la Patria d’un cittadino proccurandosi l’aborto; la Nuova Constituzione innalza alla perfezione la donna e la condanna a morte quando per innavertenza, sebbene non per suo disegno, abbia dato cagione all’aborto. Vorrebbe la corrotta natura che un cittadino che non turba l’ordine della società si lasciasse in vita quand’anche per ventura avesse commessa azione venerea con una Ebrea: la Nuova Constituzione condanna a morte il cittadino; e qui notate, Signori, come i saggi Legislatori, sotto la direzione del celebre Sacco, abbino preservato i membri tutti de’ Milanesi dalla giudaizazione, e di più, obbligando i lascivi avanti commettere le loro impudicizie a chiedere la fede del Battesimo, fanno che si ravvivi alla mente la memoria di quell’augusto Sacramento e la divina sua instituzione, onde i carnali si liberano dalla tentazione e restano col solo peccato del desiderio. Venga l’Asia, venga l’Affrica, venga l’America, venga l’Europa tutta, e produchino, se tanto possono, un vero capo d’opera paragonabile alla Nuova Constituzione!

So che alcuni sfaccendati critici credettero di trovare mal proporzionate le pene ai delitti nel sacro nostro Codice, e ciò particolarmente paragonando la pena di morte decretata al peccato coll’Ebrea e la sola fustigazione decretata al padre che prostituisce la propria figlia: come mai, dicevano costoro, un infame cittadino il quale, abusando del diritto che gli ha confidato la legge per ben educare la figlia, lo rivolge contro di essa per farle rinunziare alla religione, alla virtù; come mai un infame cittadino che rende per sempre disonorata una innocente e che lacera il legame della pubblica onestà colla più prepotente ingiustizia, come mai dovrà essere men punito dell’altro che nel bollore del sangue ha dimenticato di riconoscere la fede del Battesimo? Lungi, lungi, o profani, o superficialissimi critici! E non vedete come la legge dell’Ebrea assicuri la pubblica continenza? Ora, qual maraviglia se un delitto che più non può commettersi resti leggermente punito dalla legge, come di Licurgo si narra, il quale nessuna pena decretar volle contro i parricidj, risguardando quell’azione impossibile in pratica ad avvenire!

Ma lasciamo le infelici opposizioni de’ pretesi begl’ingegni e ritorniamo ancora un momento all’aureo nostro Codice, in cui sta inserita la legge che proibisce sotto pena di morte ad ogni Milanese di stabilirsi altrove, legge adorabile e sagacissima fatta non già, come sembra a primo aspetto, per ritenere veramente i cittadini, de’ quali infatti due buoni terzi sono partiti dopo la pubblicazione della legge medesima. Sapeva il celeberrimo nostro Sacco che un tale delitto non può commettersi che fuori de’ confini dello Stato e che i delitti ivi commessi, non avendo il delinquente nelle mani, non si possono punire; ma la penetrazione della giurisprudenza volle con questa raffinatissima legge distogliere gli estranei dal venire a piantarsi fra di voi, facendo ad essi accortamente credere che fra di voi si viva così male che per evitare la deserzione de’ sudditi vi voglia niente meno che il terrore dell’ultimo supplicio, e così siete posti in sicuro da non dover mai dividere il vostro pane cogli estranei.

Finalmente si pose il colmo alla grand’opera delle Nuove Constituzioni coll’assoggettare i commercianti in tutte le cause ai Giureperiti e dichiarando che qualunque cittadino venga accusato d’avere offeso un Giureperito non possa difendersi che in carcere, sulla norma dei rei di delitto capitale. Così restò stabilita la venerazione alla toga, onde la scienza sublime del Foro s’è innalzata come era di ragione sulle altre, ed ora riceve gli onori e gl’inchini del felice popolo che applaude alla Maestà togata e gode sotto l’ombra di essa, nel silenzio, nell’ammirazione e nella oscurità, la vita precaria che con atti di continua clemenza gli lascia godere. Ma per giungere a questo sublime grado di felicità, indispensabil cosa era il disfarsi de’ commercianti, mecanica schiatta di uomini che seco sempre strascina un malnato genio opposto alla cieca subordinazione, madre della pubblica tranquillità; schiatta di gente libera, arrogante, avida del guadagno e sopramodo impaziente delle formalità sante del Foro. Come liberarsi da questo membro viziato della Nazione? Pericolosa cosa era l’esiglio, pericolosa ogni aperta violenza. Ah genio beato della giurisprudenza, tu fosti quello che rendendo arbitraria ogni ragione cominciasti a far vacillare il potente nemico; tu fosti quello che dando vita e moto ai concorsi de’ creditori, sottoponendo al Gallo ed al Cavallo ed al Senato gli ostinati commercianti, diminuisti l’attività del loro impeto; tu fosti quello che lasciando imporre al commercio il giogo dell’Estimo del Mercimonio, lasciando esercitare arbitrarie vessazioni su i tributi alle Dogane, smungesti quel sangue traditore che animava quelle perfide vene; tu quello fosti che stimolando il Collegio de’ Dottori e il corpo della città dirigesti la penna ne’ loro decreti, pe’ quali restò escluso dagli onori della nobiltà ogni commerciante; tu in somma, divino genio, tu solo fosti quello che costringesti a fuggire questi nemici interni e seco loro strascinare la lunga schiera de’ vizj che avevano resa obrobriosa la memoria de’ trasandati tempi.

Mirate que’ miserabili rifugiati sullo Stato Veneto, quegli, dico, che tuttora menano bassamente la vita tessendo le lane, quegli che ora per voi lavorano e vivono per alcuni milioni, che voi mandate loro ogni anno; quegli, sì, quegli sono i traditori che altre volte nutrivate, o Milanesi, nel vostro seno; eccoli ridotti nello stato di dipendenza, eccoli resi precarj: e chi ha fatto mai sì giovevole cambiamento, se non la giurisprudenza! Mirate queste vostre strade libere alla salubrità del passeggio, i fitti delle case resi più discreti, l’ordine, la tranquillità universale: e chi vi ha proccurato, o Milanesi, tutti questi beni, se non se la giurisprudenza! Mirate quelle altere nazioni, l’Inghilterra, la Francia, la Germania, occupate a tessere panni e stoffe per voi: chi ve le ha rese vostre ancelle e vostre salariate, chi ha innalzata la gloria vostra sopra di esse a un grado sì sublime, se non se la giurisprudenza!

Questa benefica giurisprudenza, quasi rugiada fecondatrice, s’è poco a poco andata dilatando, onde il Magistrato Camerale, altre volte composto chi sa come di povera gente che intendeva le finanze, ora finalmente è composto tutto di Dottori, i quali colla giurisprudenza alla mano regolano i fiumi, i canali, i tributi, le gabelle, le monete e l’Annona. Da questo rispettabile corpo sono uscite ottantotto leggi monetarie, da un secolo e mezzo a questa parte, le quali formano una collezione unica forse in Europa. Da questo rispettabile corpo si mantengono in vigore le sapientissime leggi della Nuova Constituzione sull’Annona, le quali proibiscono sotto pena di morte l’esportazione de’ grani; leggi combattute, lo so, dai novatori moderni, ma leggi sante e providissime: poichè s’egli è pur vero che non conviene, come suol dirsi, cambiare il certo per l’incerto, chiara cosa è che conservando i grani nel vostro Stato non potrete mai perire di fame, laddove, o Milanesi, se vi lasciate miseramente sedurre dal denaro, potrebbe venire la carestia e la destruzione della vostra Patria. E a chi dovete voi la raffinazione di questi lumi, se non se alla giurisprudenza!

Nè qui degg’io tralasciare di fare onorata menzione della Congregazione dello Stato, cioè di quell’adunanza di Giureperiti che rappresenta tutto lo Stato di Milano: valorosa, benemerita Congregazione, la quale con animo invitto seppe sostenere la guerra contro il pernicioso progetto di uguagliare i tributi alle facoltà di ognuno; il che pure disgraziatamente fu fatto da que’ Toscani che seco loro portarono le perniciose massime della loro Patria. Oh censo del sale, tasso della cavalleria, diaria, diarietta, nomi sacri un tempo, oh civile, rurale, interessati, liberati, oh punti, oh segni, oh medaglie, oh buoi, oh fuochi, oh cammini, oh teste, oh mezze teste, oh bocche, oh mezze bocche, oh teste vive, oh teste morte, oh pertiche, oh mezze pertiche, oh uguaglianze, oh capissoldi, oh preziosissimi monumenti, tutti barbaramente distrutti ed atterrati al suolo! Sventurata Congregazione, vengon le lagrime agli occhi rimembrando il caso atroce, sfugge il pensiero al doloroso oggetto e la memoria si rimescola in vista di quella funestissima epoca della più perniciosa e indelebile novità che accader potesse a questo Stato! Pure, la guerra sostenuta per quasi un mezzo secolo a che altro attribuirassi ella mai se non se al vigore della forense giurisprudenza, la quale osò attaccare il nemico progetto sino entro i penetrali della geometria, disputando arditamente contro il velenoso uso della Tavola Pretoriana! Fu vinta, è vero, la Congregazione; ma la vittoria lasciò presso i posteri indeciso qual fosse maggiore la gloria fra il vincitore e il vinto.

Di tanto è capace la divina giurisprudenza, e ben a ragione, o Milanesi, voi confidate ad essa tutte le pubbliche amministrazioni; ben a ragione sono nelle di lei mani i banchi pubblici, ove s’odono rimbombar le aule de’ sacri nomi, ignoti al volgo, di cartulario, locatario, quadernerio, retrodati, dato, adeala, abboccazione e simili voci tutte di buon augurio, le quali, sebbene non abbino impedito che il Banco nello scorso secolo per le vicende de’ tempi sia comparso fallito, pure al dì d’oggi fanno che la plebe di Milano contribuisca giuliva circa due annui milioni a quella illustrissima mensa. Di tanto, lo ripeto, è capace la divina giurisprudenza, e ben a ragione, o Milanesi, la carne, il pane, le uova, le candele, il burro e simili vengono fra di voi regolate dalla giurisprudenza del Vicario di Provvisione, carica che ne’ tempi delle antiche tenebre davasi ai cittadini, ma che poi, illuminati che foste, con savissimo accorgimento riservaste ai soli Dottori.

Deh lasciate, riveriti Signori, lasciate che un momento ancora mi pascoli della beata visione del mirabile sistema in cui siete avvolti; lasciate ch’io contempli la bella schiera de’ Causidici, i quali sotto nome di Cancellieri o di Sindici stanno alla testa di tutti i vostri corpi mercantili, e di tempo in tempo gli stuzzicano a far decidere qualche articolo legale, il che impedisce che non cadino nella letargia dell’ozio gran padre de’ vizj tutti, il che mantiene lo spirito del corpo, il che finalmente produce una perenne circolazione della specie dalle mani de’ vili commercianti in quelle de’ Causidici, Sollecitatori, Notaj, Attuarj, Scrittori, Giudici, Fiscali, Questori e Senatori; con che si mantengono con decoro ducento settantotto Causidici registrati; così vivono seccento trentuno Notaj, il che forma il numero di novecento nove curiali, ai quali aggiungendo gli Avvocati e Giureconsulti di prima sfera e folta turba degl’inservienti alle liti non registrati, ascenderà il numero a mila e cinquecento Professori della scienza enciclopedica, la quale difende il lustro, la gloria e il buon nome della Patria vostra.

Oh beata giurisprudenza, oh fortunata regione in cui per salvezza degli uomini sei tu piantata! Oh beate le seccento lire che si spendono a Pavia! Beati i due falsi giuramenti che vi si fanno! Beate le due liste di carta lunghe tre piedi e larghe sei pollici che si ricevono con due ragioni da dubitare e due ragioni da non dubitare! Beate le due porte per dove passando si fanno le due riverenze! Beati i due siti dove due volte si sede e due volte si alza! Beati i due sillogismi che vi si pronunziano! Beati i pifferi e le trombe che danno fiato alla pubblicazione d’un dottore! Per queste beatitudini passando, un cittadino come potrà non essere utile a sè, alla famiglia, alla Patria, al mondo tutto! Ah se v’è alcuno che da sì dolce spettacolo non sia commosso, venga e regga se può alla interna gioja che malgrado la durezza del cuore si fa pur sentire nell’animo di tutti, quando si vedono volare i salami, le pagnotte e le ricotte dalle finestre d’una casa dove un giovane con cinquecento sessantaquattro lire, con settecento ottanta nove visite e con cento anni di tranquillità ne’ suoi antenati ha provato di essere un buon Giudice! Ivi al suono de’ giureperiti oricalchi bevono i Nobili le limonate, mangiano i confetti ed accompagnano al Collegio il candidato con un ordine, con una gravità che non hanno esempio altrove. Ivi il giovane candidato per eccesso di modestia prega uno che lo lodi in Latino ed invita l’augusto Senato, acciò sospendendo le brighe supeflue del suo ministero venga a servire di documento autentico alle sue lodi; finalmente riceve la Croce in memoria della passione e morte di Nostro Signore.

Ma tempo è ormai di raccogliere le audaci vele, e poichè in chiara luce abbiam posti gl’infiniti vantaggi della regnante giurisprudenza, a voi concludendo rivolgerò l’orazione mia, giovani fortunati cui punge un bel desio di correre questa ben avventurata carriera. Piova il cielo sul vostro capo i più puri lumi della giurisprudenza, onde possiate veder chiaro il bene ch’ella ha fatto a questa Patria vostra; possiate voi detestar sempre cane pejus et angui le oltramontane fallacie; possiate voi conoscere chiaramente che gli editti d’un Principe Greco pubblicati in Costantinopoli sono già mila e ducent’anni devono ragionevolmente convenire all’Italia ed al nostro secolo; possiate voi servire d’egida imperterrito contro il garrire degli eruditi impertinenti, ai quali non è dato intendere come un dottore seppellito diventi Legislatore; possiate voi perfine tramandare a’ vostri posteri santa e incorrotta la possanza del vostro impero quale v’è stata confidata. Diceva.