Memorie sulla economia pubblica dello Stato di Milano

Pietro Verri
MEMORIE SULLA ECONOMIA PUBBLICA DELLO STATO DI MILANO [1768]

Testo critico stabilito da Giovanna Tonelli (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, II/1, 2006, pp. 347-435)

Ingenia studiaque oppresseris facilius quam revocaveris subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo et invisa primo desidia postremo amatur.
Tacit.

PREFAZIONE

I fatti della economia pubblica dello Stato di Milano sono restati nella oscurità la più impenetrabile sino in questi ultimi anni. Il Censimento ha posta in vista la popolazione e la fertilità. Il bilancio camerale ha data idea della finanza; la riordinazione dell’archivio del Senato ha resi servibili i documenti della storia; finalmente la instituzione fatta dalla Clemenza della SOVRANA AUGUSTISSIMA d’un Supremo Consiglio destinato a vegliare sugli oggetti della economia dello Stato ha insegnato alla Nazione nuove viste sconosciute per lo passato e intimamente unite colla felicità del Sovrano e de’ sudditi. Assai più che i progressi del secolo hanno contribuito le illuminate determinazioni della Corte a scuoterci dalle tenebre e dal letargo in cui eravamo avvolti.

Io naturalmente inclinato ad instruire e migliorare me stesso mi sono consacrato, appena comparve uno spiraglio di luce, a raccoglierlo, e dalla mole delle scritture dell’archivio del Senato ho cavata con tempo e fatica la serie dei fatti passati che risguardano l’economia politica della mia Patria. Sono entrato il primo in questa disamina colla neutralità e indifferenza che è necessaria a cercare la verità, pronto a lodare o condannare, pronto a compiangere o a magnificare i tempi e il governo, pronto a ricevere l’impressione dagli oggetti qualunque essi fossero. Una sola passione mi animò in questa ricerca e fu quella di distruggere una volta quel malaugurato spirito di mistero che per secoli fu il padre dell’impune arbitrio e della sicura ignoranza e sostituirvi, in faccia del pubblico a cui destinava l’opera mia, l’amore della gloria della SOVRANA AUGUSTISSIMA e della felicità dello Stato, i quali ispirano una benefica ingenuità e sollevano l’anima e la disciolgono dai legami dei minuti riguardi.

Questi fatti, che originariamente ho cavati dalla oscurità, sono già sei anni, sono stati da me confidati a più d’uno; la bassa gelosia non è entrata mai nel mio cuore ed ho comunicato con piacere il frutto delle mie fatiche a chiunque ho creduto capace di adoperarlo a comun bene. Spero che questa mia facilità non ridonderà mai in mio danno e che nessuno m’avrà esposto al sospetto d’un plagio.

Ho scritto con quella libertà che è degna d’un animo onesto, degna di chi sente la felicità di vivere sotto il dolce Impero della Augusta Sovrana, degna di chi personalmente beneficato altro non può offerire con cuore umile e grato che la verità; fortunato me se l’avrò ritrovata nei ragionamenti, come l’ho trovata nei fatti; e se l’onorato zelo che ho per il servigio della Padrona e per la felicità della Patria renderà la mia vita utile in qualche modo alla gloria del Trono ed alla prosperità dei Popoli.

Compositum jus fasque animi sanctosque recessus.
Mentis et incoctum generoso pectus honesto.
Haec cedo ut admoveam templis et farre litabo.

INDICE

I. Natura e prosperità del commercio di Milano prima del secolo XVI.
II.
Cagioni della prosperità prima del secolo XVI.
III.
Del commercio di Milano nel secolo XVI.
IV.
Continuazione sul governo spagnuolo sino alla metà del secolo XVII.
V.
Come si pensasse a rimediare ai mali e stato nostro nel decorso del secolo passato.
VI.
In quale stato si trovasse il Milanese alla fine del secolo passato.
VII.
Governo dell’Augustis.ma Casa d’Austria di Germania sino alla metà del secolo presente.
VIII.
Di alcuni principj radicati i quali hanno diminuito l’effetto delle beneficenze sovrane anche prima della metà di questo secolo.
IX.
Conclusione.

§ PRIMO
Della natura e prosperità del commercio di Milano prima del secolo XVI.

Si sa per tradizione che in Milano ne’ secoli trasandati v’era molta industria, popolazione e ricchezza; si sa che correva per l’Italia il proverbio: «per rinvigorire l’Italia si distrugga Milano». Il Kloch ce
lo annunzia in questi termini: «Quid dicam de Mediolano potentissima Italiæ Civitate Galliæque Cisalpinæ Metropoli, in qua tam multa tamque diversa artificum genera tantaque frequentia, ut inde vulgo sit natum proverbium: “qui Italiam reficere velit eum destruere Mediolanum debere”».1 Da molti documenti si prova che nella sola Città di Milano si contavano settanta fabbriche di lanificio, sessanta mila Lanajuoli che vivevano colle loro famiglie di quest’arte e la popolazione di Milano ascendente a trecento mila e più anime. Lo attestano il Tridi nel suo libretto stampato,2 il Somaglia,3 il libro de’ Dati e Tasse,4 la relazione de’ Fabbricatori di panno al Senato del 1662, la consulta del Senato 1668 15 marzo, la consulta della città 1715 11 aprile e la consulta della Congregazione dello Stato 1724 11 febbraro.

Se consultiamo poi la storia nella sua fonte e confrontiamo le testimonianze degli Autori contemporanei troviamo confermarsi la tradizione venuta a noi. Grandi cose della splendidezza ed opulenza de’ suoi tempi, cioè del secolo XIII, scrisse Frate Bonvicino da Ripa5 ed in Milano asserisce che abitavano: «homines pro armis apti plus quam quadraginta mille, masculi et fœminæ, parvi et magni sunt ducentum mille … inter nobiles de Mediolano qui habitant Civitatem Mediolani et Comitatum sunt inventa ista magnalia, quæ vix credi possent». È vero che Giorgio Merula parlando de’ tempi dell’Arcivescovo Ottone Visconti, cioè verso la fine del secolo XIII,6 dice di Milano che «ingens erat opificum copia peditum equitumque innumerabilis turba … in rationem Annonæ amplius centum et quinquaginta millia Civium capita venisse constat», ed è vero altresì che Tristano Calco dei tempi medesimi parlando dice: «Estimata quoque est singularis populi multitudo et opificum copia, nam cum nunquam otiosa Civitas fuerit sive ab externo bello, sive a domestica seditione, adhuc tamen in rationem Annonæ veniebant centum quinquaginta et eo amplius Civium millia»;7 ma non perciò possono dirsi in contraddizione questi autori, poichè più di cento cinquanta mila abitanti e dugento mila non sono cose contradditorie; oltre di che è chiaro che tanto il Merula quanto Tristano Calco fondano la loro asserzione su i registri dell’Annona senza aver riguardo alcuno a’ contrabbandi, esenzioni ed a tutto ciò che forse d’altra maniera veniva a non essere soggetto a tali registri; final.te il Frate Bonvicino parlava de’ tempi suoi, poichè scrisse appunto nel secolo XIII, e Merula e il Calchi sono del secolo XV, cioè due secoli posteriori. Il Merula asserisce che: «Græci Scriptores uno verbo abunde urbis amplitudinem exprimere mihi videntur, hoc est πολιάνθρωπον, Mediolanum multorum hominum Civitas».8

Galvaneo della Fiamma, scrittore del secolo XIV, così dice de’ tempi suoi: «nunc vero in præsenti ætate priscis moribus superaddita sunt multa ad perniciem animarum irritamenta nam vestis pretiosa et ornatu superfluo circumtecta per totum. In ipsis vestibus tam virorum quam mulierum, aurum, argentum, perlæ inseruntur. Frixa latissima vestibus superinducuntur. Vina peregrina et de partibus ultramarinis bibuntur. Cibaria omnia sunt sumptuosa. Magistri Coquinæ in magno pretio habentur».9 Per avere idea della ricchezza di Milano in que’ tempi basta leggere qualunque de’ Storici o d’Italia o della Lombardia. Il Corio, che dall’archivio ducale ha estratto il corredo nuziale con cui si spedì in Francia la principessa Valentina Visconti, fa fede come oltre la quantità di gemme, parati, stoffe e supellettili d’ogni più ricco lavoro, di soli argenti lavorati se ne diedero per il peso di marchi 1667.10 Lo stesso autore rapporta le feste fatte in Milano coll’occasione che da Venceslao Cesare nel 1395 fu creato Duca di Milano Gian Galeazzo Visconte e furongli date in feudo, oltre le Città che presentemente formano il nostro Stato: Brescia, Bergamo, Novara, Vercelli, Alessandria, Tortona, Bobbio, Piacenza, Reggio, Parma, Trento, Crema, Vicenza ed altre castella, borghi e terre paragonabili a Città. In quelle feste «allo spettacolo di tanta solemnitate vi concorse quase de tutte le Nazioni de’ Cristiani et anche infideli in modo che ciascuno diceva non più potere maggior cosa videre».11 La rendita di esso Duca era di cento mila fiorini d’oro al mese,12 cioè un milione e dugento mila fiorini d’oro all’anno. Sappiamo che il fiorino era l’odierno zecchino e sappiam pure quanto prima della scoperta d’America fossero più rari i metalli preziosi in Europa, del che può prendersi idea dell’antica ricchezza di Milano nel secolo XIV, in cui era la dominante di più di 18 cospicue Città della Lombardia, aveva la Corte Ducale e meritava il nome di Roma secunda, come glielo davano per comune proverbio. Tale era l’aspetto, sotto il quale compariva Milano ne’ secoli XIII e XIV.

Nel secolo seguente poi la ricchezza di Milano e la sua forza crebbe assai di più e l’epoca appunto del secolo XV pare che sia stata il colmo della grandezza ed ubertà di questo Stato. Ne troviamo un cospicuo e fondato documento nelle Vitæ Ducum Venetorum di Marino Sannuto, prezioso manoscritto della biblioteca estense che il chiarissimo Muratori ha dato in luce. Fiorì il Sannuto verso il fine appunto del secolo XV e parla de’ suoi tempi o de’ vicini nel fatto che sono per citare. Il Sannuto riferisce di que’ tempi alcuni discorsi fatti nel gran Consiglio dal Doge di Venezia Tommaso Mocenigo in quel secolo medesimo, e dice di averli trascritti «dal libro dell’Illustre Messer Tommaso Mocenigo, Doge di Venezia, d’alcuni arringhi fatti per dar risposta agli Ambasciatori de’ Fiorentini che richiedevano di far lega colla Signoria contro il Duca Filippo Maria di Milano nel 1420».13 Si trattava adunque di risolvere se conveniva a’ Veneziani il collegarsi a’ danni del Milanese e il Doge provava che non conveniva, allegando in dettaglio la quantità del commercio e delle manifatture del Milanese cavata dai fonti originarj. Se un fatto storico merita fede, certamente egli è questo, trattandosi d’un Doge che in faccia alla Signoria e in faccia a un avversario qual era Ser Francesco Foscari Procuratore in pieno Consiglio dibatte un affare di somma importanza. Questa parlata trovasi riferita da un Autore del medesimo secolo, da un accreditato Autore che la trascrive dal libro del Doge istesso.

Di sole manifatture di lana dice il Doge Mocenigo che se ne trasmetteranno a Venezia le seguenti partite:

Da Milano panno fino
          pezze   4.000
Da Pavia panno ordinario     pezze   3.000
Da Como panno ordinario   pezze  12.000
Da Cremona fustagno           pezze   4.000
Da Monza panno ordinario   pezze   6.000
                                             pezze  29.000

Ventinove mila pezze di panni spediva a Venezia ogni anno quella porzione di Lombardia che ora è Stato di Milano.

Suppongasi che una pezza di panno valesse niente più di 300 lire nostre attuali, il che corrisponderebbe a circa £ 8 il braccio; il totale importo delle pezze ventinove mila sarebbe di quasi nove milioni di lire l’anno. Al dì d’oggi più di tre milioni di lire perde lo Stato di Milano per provvedersi dei lavori di lana, come appare dallo spoglio giustificato dei libri della Mercanzia.

Nel secolo XV scrisse la Storia di Milano Andrea Biglia e de’ suoi tempi dice: «nempe ut facile existiment posse in ea Civitate super triginta hominum millia armari».14 Se trenta mila uomini milanesi potevansi armare, sarà certamente una conseguenza assai moderata il dire che più di dugento mila fossero gli abitatori, poichè è difficile ogni sette anime circa, presi in monte fanciulli, vecchj, inabili e donne, il trovarne uno robusto e capace di guereggiare. Lo stesso Autore parla della peste venuta in Milano a’ suoi tempi, cioè al principio del XV secolo, ed asserisce che: «aliquot diebus sexcentum corporum mortes narrarentur; neque ita paulo post Mediolanum apellatam a Græcis quoque Urbem populosissimam sed desertam quandam coloniam diceres».15 Eppure questo luttuosissimo disastro fu rimediato dall’industria degli uomini guidata prosperamente dalle circostanze e leggiamo nel Corio che, parlando de’ tempi suoi e di quella Corte nella quale attualmente viveva, essendo egli al fiore dell’eta sua16 in quel secolo medesimo: «non ad altro se attendeva che cumular ricchezze circa del che ogni via era concessa. Le pompe, voluptate erano in campo et Giove con la pace triumfava per modo che ogni cosa sì stabile e ferma si dimostrava quanto mai fosse stata negli passati tempi. La Corte de li nostri Principi era illustrissima, piena di nuove fogie, abiti e delicie, nondimeno in ipsa tempestate per ogni canto le virtute per sì fatto modo rimbombavano che una tanta emulazione era suscitata ec. … adunque questo illustrissimo Stato era costituito in tanta gloria, pompa e ricchezza che impossibile pareva più alto potere attingere». Nè certamente per adulazione il Corio scriveva così, poichè poche righe dopo incolpa Lodovico Sforza dei mali sopravvenuti.

Frate Isidoro Isolani, domenicano, che nel 1518 recitò la sua orazione De patriæ Urbis Laudibus, ci dice: «anno enim Dominico nonagesimo secundo supra quadrigentesimum et millesimum per mandatarios Serenissimi Regis Neapolitani numeratæ fuerunt apothecæ infra Urbis ambitum, repertaque quatuordecim mille sexcentæ; domus autem sine apothecis fuere decem et octo mille ac trecentæ et amplius. At nostra tempestate ampliore existunt in numero».17 Quattordici mila e seicento botteghe v’erano in Milano nell’anno 1492 ed erano cresciute al principio del secolo seguente. Al dì d’oggi il numero delle botteghe di tutta la Città e Borghi è di 4.345 come può conoscersi dettagliatamente dalla tabella che unisco sotto la lettera A. Per non avventurarmi a calcoli ipotetici ho schiarito questo punto col fatto da cui si dimostra che presentemente le botteghe sono meno della terza parte di quello che furono. Il numero poi delle case attualmente esistenti in Milano io non l’ho nè su questo posso far paragone. Una sola osservazione può farsi ed è che se
le case di Milano alla fine del secolo XV erano 18.600, convien dire che gli abitanti fossero circa 372.000, poichè una casa coll’altra si calcola contenere venti anime18 per lo meno. In Parigi si contano circa 21mila case e non più compresi i sobborghi19 e certamente Parigi contiene più di un mezzo milione di anime, per il che vedesi che venti anime per ogni casa è una moderata supposizione e se si credono le 18.600 case esistenti in Milano ai tempi di Frate Isolani, conviene ammettere altresì la popolazione di più di 300mila anime, massime poi riflettendo che in que’ tempi l’uso d’alloggiare largamente non vi era, di che ce ne fanno fede le abitazioni antiche che tuttora ci restano delle famiglie anche più opulente e illustri della Città.

La costante tradizione, la uniforme e replicata testimonianza degli Storici contemporanei e più accreditati, la ragione d’essere Milano la capitale d’un Ducato che poteva dirsi un Regno, che stendevasi da un mare all’altro e dalle Alpi innoltravasi sino frammezzo agli Apennini, la grandiosa copia delle manifatture che da noi si fabbricavano, la storia tutta d’Italia per fine ci prova che Milano fu in que’ tempi popolatissima, ricchissima e potentissima Città; nè questa verità può combattersi senza dimenticarci della storia e senza contraddire gratuitamente alla voce di tutti gli Scrittori contemporanei. I grandiosi monumenti che ci hanno lasciati di que’ tempi i nostri maggiori fanno fede alla storia; i magnifici tempj, gli edifizj pubblici, le larghe pie fundazioni, i canali navigabili singolarmente sono un perenne ricordo dell’antica dovizia e della riconoscenza perpetua nostra verso i saggi e benefici nostri Antenati.

Non è però da maravigliarsi che tale fosse l’opulenza del Milanese nel secolo XV, poichè l’Italia allora, come è noto, aveva sull’Europa tutta la sovranità del commercio più tranquilla e forse più vasta dell’antica sovranità ottenuta coll’armi. Venezia, Genova, Pisa, Firenze, Amalfi, Ancona avevano stesa la loro navigazione non solamente sul Mediterraneo, ma per l’oceano e pel Baltico: tutto il commercio d’Europa era nelle mani degl’Italiani. Le leggi amalfitane erano il gius comune marittimo. Cottoni, cannella, sete, zuccheri, droghe tutte, cuoj, gemme, le merci in somma dell’Indie Orientali e del Levante venivano in Europa sulle navi d’Italia, le quali riportavano in contraccambio i nostri lavori, panni, saje, rovesci, fustagni e simili. La mercatura e le forze marittime de’ Veneziani erano assai considerabili, come anche lo attesta l’ingenuo e chiarissimo lume della nostra storia, il Sig.r Muratori negli Annali d’Italia20 e come si può scorgere dal citato Sannuto autore contemporaneo e accreditatissimo che asserisce che Venezia sola aveva in piedi ben undici mila Marinaj,21 numero sterminato per quei tempi ne’ quali la nautica era sì poco avvanzata e i viaggi di lungo corso interamente sconosciuti.

Il commercio adunque del Milanese nel secolo XV era un commercio accessorio e secondario di quello de’ Veneziani. La sorte delle Città mediterranee è di essere dipendenti dalle Città marittime nel commercio esterno. Al giorno d’oggi la massima parte del nostro commercio fassi con Genova, forse perchè l’Alessandrino e Tortonese essendo smembrati, il Re di Sardegna si accontenta d’un leggiero diritto di transito, laddove in prima, unite queste Provincie allo Stato, per intrinseco difetto delle nostre tariffe tuttora veglianti le merci dovevano pagare i rigorosi diritti di transito. Forse anche ha contribuito a spingere il nostro commercio verso Genova e abbandonare l’Adriatico, il sopraccarico de’ tributi che dal Papa, dai Duchi di Mantova, Parma e Modena si sono imposti alla navigazione del Po, i quali attualmente sussistono.

La seta, come la storia c’insegna, è originaria dall’Asia e appena cominciò ad essere in uso presso noi occidentali sotto l’impero di Giustiniano, come Procopio attesta.22 Il Re Roggiero di Sicilia nell’anno 1130 devastando le città dei Greci, Atene, Corinto e Tebe, trasportò il primo ai confini d’Italia l’arte della seta, sul che veggansi Antiquitates Italicæ medii ævi.23 Al tempo di Lodovico il Moro Duca di Milano, cioè dopo la metà del secolo XV, si cominciò a conoscere questa manifattura nella Lombardia. Ottanta telaj di seta potè finalmente mettere in opera in Milano la protezione di Francesco Sforza nel 1460, numero allora prodigioso; esiste tuttora il decreto di esso Duca Francesco stampato nei Statuti de’ Mercanti di seta, oro e argento24 della nostra Città. Dal discorso di sopra citato del Doge Mocenigo di Venezia vedesi che di drappi di seta a’ suoi tempi ne venivano da Venezia a Milano pel valore di dugento cinquanta mila annui ducati.25 Da questi fatti appare dunque come l’industria nazionale fosse allora principalmente rivolta alle manifatture di lana e da esse originariamente nascesse la prosperità somma di questo Stato.

§ SECONDO
Cagioni della prosperità del commercio di Milano prima del secolo XVI.

Due cagioni concorsero a formare l’antica prosperità del Milanese: una si fu esterna, l’altra interna. Scorriamo brevemente sull’esame dell’una e dell’altra.

L’esterna cagione della prosperità antica si fu che l’Italia tutta era in que’ tempi il centro del commercio e il punto d’appoggio fra l’Europa e l’Asia. V’è chi disputa se gl’Italiani prendessero le merci da
gli Arabi solamente, ovvero se per l’istmo di Suez passando al Mar Rosso ivi avessero i loro stabilimenti e navigassero immediatamente per l’Asia e per le Indie Orientali. Questa erudita disamina non ha influenza sull’oggetto di quest’opera, perciò si tralascia. La presa di Costantinopoli e della Grecia fatta da’ Mussulmani nel 1453 cominciò a frastornare assai il commercio d’Italia, la scoperta del Capo di Buona Speranza fatta poi nel 1497 da Vasco de Gama sotto il Re Emanuele IV di Portogallo cambiò affatto le relazioni politiche d’Europa. «Par la découverte du Cap de Bonne Espérance et celles qu’on
fit quelque tems après l’Italie ne fut plus au centre du monde commerçant, elle fut pour ainsi dire dans un coin de l’univers» dice il Presidente di Montesquieu.26 Questa nuova strada, benchè assai più lunga, essendo tutta marittima, recò le droghe dall’Indie Orientali all’Europa a minor prezzo e gl’Italiani, che dal Mar Rosso al Cairo eran costretti a trasportarle per terra, in concorrenza de’ Portoghesi dovettero cedere e cessare il trasporto. Parlando di questa scoperta funestissima per l’Italia nella storia di Venezia così scrive Pietro Bembo: «Talibus iactatæ incomodis Civitati malum etiam inopinatum ab longinquis gentibus et regionibus extitit. Petri enim Pascalici apud Emanuelem Lusitaniæ Regem Legati litteris Patres certiores facti sunt regem illum per Mauritaniæ Getuliæque oceanum convehendis ex Arabia Indiaque mercibus itinera suis tentata sæpe navibus demum explorata compertaque habuisse navesque aliquot eo missas pipere et cinnamis ejusmodique rebus onustas Olysiponem revertisse: itaque futurum ut … nostri in posterum Cives parcius angustiusque mercarentur magnique illi proventus qui urbem opulentam reddidissent toti pene terrarum orbi rebus Indicis tradendis Civitatem deficerent … Ita Ægyptios Venetosque instituta antiquitus mercaturæ ratio, quæ intercipi nullo posse tempore videbatur alio conversa prope deseruit».27 Scorsero quegli arditi e felici Argonauti portoghesi la costa orientale dell’Affrica, la costa dell’Asia e le isole adjacenti, tanto che nel 1514 divennero signori del commercio di Ceylan, dove la natura pare che privativamente faccia nascere la cannella; di Bengala, Regno attraversato dal Gange, fertile di cottone, lacca, seta, zucchero, pepe, indaco e gengiojo; di Siam d’onde si traeva oro, argento, avorio, muschio; di Macao punto d’appoggio per il commercio di que’ tempi della China, d’onde venivano porcellane, drappi di seta, vernici ec. e finalmente delle Molucche dove moltissime droghe e singolarmente i garofani privativamente nascono. In somma verso la metà del secolo XVI tutto quasi il commercio d’Oriente fu perduto per l’Italia, la quale divenne dipendente nel commercio successivamente dai Portoghesi, Inglesi, Fiamminghi, Francesi e Olandesi. Come dunque il grandioso commercio d’Italia e singolarmente di Venezia animava l’industria Milanese, così colla caduta di esso perdette questa Provincia quell’esterna cagione che la rendeva florida e abbondante.

La cagione interna poi della prosperità del nostro commercio in que’ tempi facilmente si conosce esaminando le nostre originarie leggi e le massime seguite dal Governo. Per leggi nostre originarie intendo gli antichi statuti di Milano stampati nel 1480. Le leggi antiche e originarie dunque le vediamo primieramente tendenti ad escludere dal ceto de’ Commercianti la cavillazione curiale ed a tenere in vigore la semplice e sommaria giurisdizione consolare. Veggansi i suddetti statuti28 nel decreto ducale ivi inserito: «Nulla persona, Commune, Collegium, vel Universitas possit appellare seu appellationem interponere ab aliqua sententia deffinitiva, vel interlocutoria cujuscumque quantitatis sit lata, seu ferenda per Dominos Abbates Mercatorum Mediolani», se prima non avrà pagato, o data cauzione di pagare, il debito in cui è stato condannato e allora: «commissiones appellatorum fieri debeant per Abbates et Consules et non per aliquem alium et intelligantur factæ auctoritate Ducali et fiant duobus vel tribus Mercatoribus approbatis et descriptis ecc.». Altrove apertamente si escludono Avvocati e Procuratori dalle cause commerciali: «Officiales et Consules, qui sunt et pro tempore erunt, non possint nec debeant audire in aliquibus questionibus que orirentur occurrentie lane seu drapporum, vel quacumque alia ratione que moveatur ipsis audire aliquos Advocatos vel Procuratores partium sed omnes questiones vertentes coram eis dicta occasione debeant per se audire, terminare et finire et hoc sub pena librarum x tertiolorum cuilibet Consuli
et Officiali facienti contra predicta».29 Si proibisce apertamente il deludere la giurisdizion consolare deviando ad altro Giudice: «Nullus possit se intromittere nec in ea procedere» nella causa spettante alla giurisdizione dei Consoli «nec aliquid agere, nec ab interlocutoria eorum Consulum valeat aliquo modo ad alium Iudicem appellari».30 Si estende la giurisdizion consolare su ogni e qualunque debitore d’un mercante: «Nullus debitor vel fidejussor alicujus ex causis antedictis, vel ex pretio alicujus rei empte vel vendite in Civitate vel Districtu Mediolani possit recusare iudicium dictorum Consulum, vel
se ab eis appellare».31 Si proibisce ogni sutterfugio d’interpretazione de’ statuti riservata questa al solo Sovrano: «Eorundem tamen correctionem, additionem, mutationem, diminutionem et interpretationem nobis et arbitrio nostro in posterum reservari».32 Vigorosissime leggi contro i fallitori dolosi leggonsi nell’editto del Duca Galeazzo Maria Sforza 1473 12 febbraro inserito pure nel codice de’ statuti. Ivi il fallito doloso: «ipso facto post fidem fraudatam … noster et status nostri rebellis factus sit et censeatur et rebellium quorumcumque aliorum penam incurrat perinde ac si ob quamcumque majorem altioremque causam rebellis noster existimari et esse mereretur»33 e più oltre prescrive nello stesso decreto che i falliti dolosi non abbiano alcun asilo e possano essere carcerati «quibuscumque diebus tam feriatis quam non feriatis ubicumque fuerint vel in foro vel in Ecclesia vel in loco proprie habitationis nullo locorum habito respectu etiam in propria Camera nostra et residentie nostre».34

Le tariffe della Mercanzia dovevansi ogni anno pubblicare per rendere chiari e solenni i diritti di ognuno e ogni anno dovevansi fare ad esse quelle mutazioni, che il moto universale del commercio suggerisce: «Quolibet anno ante kalendas mensis novembris eligentur octo providi viri … qui debeant examinare et videre Data datiorum et intratarum Communis Mediolani et ea reformare ita quod iniquitates et baratarie refrenentur in quantum fieri potest et quod eorum reformationi stetur et secundum ipsam reformationem fiant incantus post modum subsequentes».35

Le Università, ossia Paratici, cioè quei Corpi delle Arti e dei mestieri, che al dì d’oggi sono tanti, quante le Arti e i mestieri possibili ad esercitarsi dall’umana industria, allora erano dai statuti espressamente proibiti ed annullate e cassate preventivamente le leggi o statuti che in avvenire essi corpi pretendessero mai di arrogarsi. Ecco le originarie parole dello statuto: «Nullum Parathicum seu Universitas alicuius Parathici sit in Civitate Mediolani nec Comitatu et si aliquando contingeret de mandato Domini Mediolani Parathicum esse in Civitate Mediolani vel Comitatu nullum statutum, quod per ipsum Parathicum factum esset vel fieret, non valeat, nec teneat, nec observetur, sed solumodo serventur statuta Communis Mediolani in presenti volumine, seu compilatione comprehensa»;36 e ne’ seguenti statuti vedesi accordata la facoltà ad ogni forastiero di stabilirsi in Milano e pacificamente e liberamente esercitarvi ogni arte o mestiero di qualunque sorta si sia e ciò si concede alle donne, agli uomini, ai Cittadini, agli estranei ed a chiunque: «Quilibet Civitatis et Districtus Mediolani, vel aliunde tam masculus, quam femina tute et impune et ubique et in quolibet loco in Civitate et Comitatu Mediolani possit facere et exercere et operari quamlibet artem seu artificium, ministerium vel laborerium cujuscumque generis et maniere
sit nisi in contrarium lege municipali reperiatur cautum»;37 e la legge municipale alcune poche eccezioni vi pone, come può vedersi dai statuti, lasciando una generalissima libertà d’esercitare tutte le arti e mestieri a chiunque senza obbligo di matricola, di esame o maestranza di alcuna sorte.

Troppo lunga cosa sarebbe il voler entrare in un esame minuto delle leggi originarie di Milano; molte certamente sarebbero ineseguibili al giorno d’oggi e molte altresì si risentono della ignoranza di que’ tempi, ma per tutto ciò che concerne la buona fede de’ contratti, la legalità del commercio, la celerità de’ giudizj e la protezione dell’industria, spirano da ogni parte in un barbaro latino la sapienza d’un illuminato Legislatore. Ottime leggi aveva il commercio e questa è la interna cagione della grandezza a cui ascese.

Le massime poi del governo sugli oggetti di pubblica economia erano providissime. Da molti documenti appare che gli Operaj e Artigiani erano allora preservati immuni dalle pubbliche gravezze. Il decreto del Duca Massimiliano Sforza in data del 1514 23 decembre38 dichiara immuni da ogni carico i Tessitori. Leggesi un monumento glorioso alla memoria dell’Augusto Carlo V in data de’ 6 marzo 1526:39 «Carolus Divina favente clementia Romanorum Imperator semper Augustus. In universis et singulis ecc. salutem. Habiamo visti li privilegji et esenzioni concesse alli Tessitori dell’arte dell’oro, argento e seta di questa inclita Città di Milano e perchè non meno desideriamo che questa inclita città di Milano sia de honorevoli artificii adornata che abbiano fatto li retroatti Principi di essa, però conoscendo che detti Tessitori sono privilegiati de’ molte esenzioni et massime alloggiamento de’ Soldati … per tenore delle presenti ordiniamo e comandiamo non dobbiate molestare nè aggravare in niun modo li detti Tessitori nè li loro beni mobili seu immobili in qualunque luogo del Dominio nostro situati, nec etiam li Massari di detti Tessitori sì per li carichi imposti, quanto che s’imponeranno per l’avvenire, perchè intendemo siano preservati esenti … e questo alla pena di ducati 500 applicandi alla Camera nostra in caso d’inobedienza ed oltra sotto pena dell’indignazione nostra». Questi documenti, sebbene posteriori al tempo della prosperità del nostro commercio, provano però quali fossero le massime seguite dalli retroatti Prencipi di Milano e quali fossero i principj ereditati per tradizione. Per conoscere poi anche più da vicino con quanta parzialità si tenessero immuni gli Artefici e le manifatture nazionali giovi osservare che nel 1409 ai 17 aprile si fece un’imposizione di tributo sulla estrazione de’ panni, tele e fustagni nostrali e nel seguente mese, cioè a 5 di maggio, per pubblico bando fu rivocata dal Duca Gian Maria Visconti,40 cosicchè appena 18 giorni si lasciò sussistere una cattiva operazione delle tariffe. Era dunque ferma la massima in que’ tempi di preservare esenti dal tributo gli operaj e le manifatture nazionali.

Di più, gli Artefici erano personalmente beneficati e protetti a norma del bene che facevano allo Stato. Le manifatture di seta s’introdussero da noi con annui stipendj accordati a’ Fiorentini che vennero a portarci quest’arte come vedesi dal privilegio accordato dal Duca Filippo Maria nel 1442 1 gennaro e nell’altro privilegio del 1443 1 febbraro riferiti nella consulta della Reale Giunta del Censimento fatta a S. M.41 Si estesero i privilegj dello statuto de laute ædificando nel 1493 17 luglio (cioè il diritto di obbligare il vicino a vendere la sua casa) in comodo e favore degli edificj destinati alle manifatture, come appare dalla stessa consulta.42 Era in onore la condizione del Commerciante, nè in que’ tempi venivano esclusi da verun ordine o grado i Cittadini che ne facevano la professione, e questa massima cotanto sana e giovevole si mantenne in vigore sino all’anno 1593, epoca in cui il Collegio de’ Giureconsulti escluse con suo decreto i Commercianti dalla Nobiltà,43 riserbandone gli onori a tante famiglie oziosamente a carico della Società e giudicandone indegni tanti industriosi Cittadini che, facendo in grande il commercio, travagliano per la grandezza dello Stato travagliando per la propria.

Le cagioni dell’antica prosperità erano dunque: prima, la vicinanza del gran commercio de’ Veneziani. Seconda: la sicurezza dei beni fondata su buone chiare leggi e custodita dalla giurisdizion consolare precisa e salva dai cavilli curiali. Terza: la immunità di molti tributi accordata ai Commercianti. Quarta: la buona direzione delle tariffe a proteggere l’industria nazionale. Quinta: la universale facilità accordata a chiunque di esercitare liberamente la propria industria dove e come voleva. Sesta: finalmente gli onori accordati alla professione di Commerciante e le gratificazioni ben distribuite ai Commercianti più utili.

La prima cagione non è più in mano nostra il farla rinascere. Le altre cinque stanno in mano del Principe. Sarebbe una chimera il pretendere un ritorno allo stato antico, ma non lo è l’aspirare a migliorare la situazion presente. Giovi però prima di entrare a parlare dei mezzi ch’io credo conducenti a questo provido fine il seguitare la storia municipale del decadimento del nostro commercio, poichè dagli errori fatti dai predecessori si conoscono e le massime ereditarie di chi governa e lo spirito della Nazione che è governata; dal che naturalmente scaturiranno i lumi per quello che rimane da farsi a beneficio del Sovrano e della Provincia.

§ TERZO
Del commercio di Milano nel secolo XVI.

Poichè, il commercio di Venezia scemato, diminuiva in parte lo sfogo delle manifatture nostre di lana, si rivolse l’industria nazionale alla seta. I lavori di lana tengono gli uomini dipendenti per un bisogno fisico, quelli di seta li tengono dipendenti per opinione, cioè per il lusso; la necessità obbligava a questo cambiamento. Al principio di questo secolo i Francesi sostituirono alle pelliccie l’uso delle vesti di seta ed in quel Regno qualche smercio vi cominciarono ad avere queste nostre manifatture,44 poichè tenui e nascenti erano allora le fabbriche de’ Francesi: «Les riches manufactures de soye qui eurent leur commencement sous Francois Premier ne firent de rapides progrès que sous le Règne de Henri IV. Ce Père tendre de ses Peuples se proposoit d’encourager de plus en plus la culture des terres et les manufactures».45 Il Ducato di Milano, divenuto al principio del secolo XVI una Provincia della Francia, facilmente vi spacciò le sue manifatture, poi vi trasmise gli Artefici, le arti e le leggi, giacchè pochissima industria avevano i Francesi in que’ tempi, come l’attestano gli Autori di quella Nazione medesima: «Nous n’avions dans ce tems là qu’une seule fabrique de draps en Languedoc établie par des Gentilshommes du nom de Varennas dans un lieu appellé Septes auprès de Carcassonne».46 Dieciotto anni durò la Dominazione francese. La perdita de’ principj naturali è un male dovunque, ma lo diminuì fra di noi la dolcezza e la sapienza del Governo de’ Francesi, sotto de’ quali non s’impose veruna nuova gabella. La necessità della guerra incessante fece imporre dei sussidj straordinarj,47 ma questi non fecero tanto male agli interessi della nostra industria, quanto la lega di Cambraj, la quale diede un crollo al commercio già diminuito de’ Veneziani e conseguentemente al nostro.

Il nostro commercio, scemato con Venezia, si rivolse alle Fiandre e leggiamo che parlando del commercio d’Anversa il Guicciardini dice di que’ tempi che: «da Milano et dal suo Stato c’inviano molta robba come oro et ariento filato per gran somma di danari, drappi di seta et d’oro di più sorte, fustani infiniti di varie bontà, scarlati et altre simili pannine fini, molti risi et buoni, armadure eccellenti, mercerie di diverse sorte per gran valuta et infino al formaggio appellato parmigiano per mercanzia d’importanza».48 Popolatissima era la Città nostra prima della metà di questo secolo XVI poichè il Morigia, Autore accreditato e quasi contemporaneo, parlandoci della pestilenza che fu in Milano nel 1524 dice che: «dagli Sig.ri Conservatori della Città di Milano furono numerati più di cento mila che nello spazio di quattro mesi erano morti di peste et ciò fu l’anno 1524, et prima che la peste cessasse ne morirono più di cento quaranta mila»,49 e quest’Autore che non cita un numero ideale, ma avuto dai Conservatori istessi della Città, era figlio d’uno che morì appunto di quella pestilenza, come dice egli stesso; nè la Città sola appare tanto popolata, ma i borghi e le terre pure lo erano. Leggiamo nell’aggiunta all’Istoria del Bugatti,50 che a’ tempi suoi, cioè nel 1576, si contavano in Seregno anime 4.000, ora ve ne sono 3.113, ed in Monza si contavano 18mila anime ed ora sono 7.929, cioè allora in Monza erano più del doppio.

Dell’indole del nostro commercio in quel secolo se ne può vedere minutamente il dettaglio in un antico manoscritto che ha per titolo: Formazione del valimento del traffico del commercio della Città di Milano dell’anno 1580. L’autore si è il Ragionato Barnaba Pigliasco, il quale per formare il censo de’ Commercianti ebbe ordine di stralciare i libri della dogana della Mercanzia. Il risultato di questo spoglio da lui fatto sulla sola Città di Milano fa ascendere la contrattazione che vi si faceva a £ 29.512.482.8. Attualmente dai notificati appare che il traffico di Milano sia di annue lire 19.271.331, dal che vedesi quanta ne sia la diminuzione, avuto massimamente riguardo al valore triplicato che aveva la lira di quei tempi. A questo proposito è da osservarsi che sbaglierebbe nel calcolo chi fondandosi su il notificato dei 19 milioni calcolasse il nostro attuale commercio di Milano in quella somma, poichè il notificato risulta dalle deposizioni giurate d’ogni mercante di quanto ha trafficato in un anno, perciò tutti i Mercanti rivenditori fanno un duplicato coi Mercanti all’ingrosso e molte volte l’istesso capitale è notificato da più parti, perchè lo notifica chiunque mercante che lo abbia comprato e venduto. Il Mercante all’ingrosso notifica per esempio il zucchero che ha venduto al Droghiere, il Droghiere lo stesso zucchero che ha venduto al Caffettiere, il Caffettiere lo stesso zucchero che ha spacciato in bottega; per il che la notificazione prova la circolazione della mercanzia e non il valore assoluto. Ma tornando al manoscritto ivi leggesi quest’articolo: «Panno alto di Milano per uscita pezze 3.195, b.za 7, con detrazione di pezze 162, b.za 2, per quello che si è giudicato dalle partite delli libri del Dazio che sia uscito dalli Mercanti Drappieri di detta Città». Queste pezze 162, b.za 2, le crede non fabbricate in Milano, resta pezze 3.032, b.za 35, con addizione della «metà per il dispenso e consumo fatto nella detta Città, conforme alla decretazione delli Sig.ri Prefetti sopra le deposizioni degli testimonj esaminati fanno in tutto pezze 4.549, b.za 2, a £ 410 la pezza monta £ 1.865.106.8». Tale era il valore delle fabbriche di lana della sola nostra Città. Paragonato col secolo precedente questo commercio era diminuito, poichè si osservò che 4.000 pezze andavano a Venezia ed ora veramente uscite dalla Città erano sole pezze 3.032; con tutto ciò il valor totale delle fabbriche de’ panni di Milano era di quasi due milioni di lire, al che aggiungendo le saglie, i cappelli, calze ed altri lavori di lana ascenderà il totale delle nostre fabbriche d’allora a due milioni e mezzo di lire di quei tempi, come può scorgersi dalla tabella B.

Trovasi in quel manoscritto che ogni anno s’introducevano per 75 vendersi alle macellerie bovi n° 7.050 e vitelli 20.436, il che prova qual fosse allora lo stato della popolazione, il notificato fatto dai macellari nel 1767 importa bovi 1.100 e vitelli 11.611.51 Osservasi che di calze di seta sole 34 paja ne entravano allora ogni anno e si valutavano £ 28.18.4 di quei tempi ed ora valgono 10 o 12 lire. È bastantemente noto come appena cominciava in que’ tempi l’uso delle calze di seta. I drappi però di seta della sola Città di Milano importavano l’annuo valore di tre milioni, come può vedersi dalla d.a tabella B, da 
cui può aversi idea del commercio nostro nel secolo XVI. Raccogliendo le separate partite vedesi che la filatura e tilatura dell’oro e argento davano l’utile di quasi 800mila lire, i lavori degli Argentieri davano l’utile di lire 800mila. Al dì d’oggi le manifatture di lana portano in vece lo scapito di più di tre milioni, i drappi di seta non ci producono per 200mila lire. La tilatura e filatura d’argento è talmente deperita che siamo per quest’oggetto passivi e gli Argentieri al dì d’oggi fanno un utile commercio che di circa 45mila lire. Tutti questi fatti risultano dallo spoglio da me fatto dai libri della Mercanzia del 1762. È da osservarsi che la lira allora era più forte di circa due terzi di quello che ora non lo è.

Colla eredità fatta del Milanese da Carlo V cominciò la Dominazione spagnuola in questa Provincia e Don Antonio de Leva Governatore diede principio a danneggiare e commettere estorsioni enormi, del che concordemente deplorando ne scrivono gli Autori.52 Le antiche patrie leggi vennero abolite da un codice ch’ebbe il titolo di Nuove Constituzioni. Si concesse al Senato per sistema al bel principio di esso codice l’autorità: «Constitutiones Principis confirmandi, infirmandi, tollendi, ac concedendi quascumque dispensationes etiam contra statuta et Constitutiones»,53 per il che la vita e le fortune de’ Cittadini vennero abbandonate al dispotismo d’un Corpo superiore ad ogni legge ed arbitrio. La giurisdizion consolare, tanto privilegiata ne’ statuti, venne delusa coll’ordine del Senato 24 novembre 1542, per cui ad istanza d’una parte litigante si concesse di deviare dal foro mercantile e d’inviluppare ogni lite commerciale nel labirinto delle procedure forensi sotto un Giudice ordinario.54 Io non farò una ragionata critica di quel codice fatto da’ Giureperiti; dirò bensì che quel codice è stato l’epoca del decadimento di questa Provincia, che dappertutto vi spira un principio funesto alla libertà ed alla industria, che vi si considerano i Senatori e i curiali come padroni della Nazione e non fatti per lei che al favore di questo una sproporzionata parte di uomini vestì la toga e abbandonò il commercio; che i litigj e le sottigliezze divennero la occupazione di buona parte del popolo, che si avvilirono gli animi de’ Cittadini, poichè come osserva il Sig.r di Montesquieu: «Lorsque dans la même personne, ou dans le même Corps de Magistrature la puissance législative est réunie à la puissance exécutive, il n’ y a point de liberté parce qu’on peut craindre que le même Monarque ou le même Sénat ne fasse des loix tiranniques pour les exécuter tiranniquement».55 In somma fu tolta dalle radici quella sicurezza civica che era una delle cagioni dell’antica prosperità; tutto divenne contenzioso, precario e incerto; l’arbitrio del Giudice prevalse ad ogni legge; non fu più la Provincia governata dalle leggi e cominciò il governo degli uomini.

I Commercianti cessarono d’essere immuni dai tributi, si accrebbe il prezzo della vendita del sale due volte in questo secolo, venti soldi per volta.56 S’impose la gravosa gabella nel 1545 chiamata Macina straordinaria di soldi 46 per ogni moggio di farina all’introduzione di Milano; contemporaneamente s’impose il dazio al vino che s’introduceva in Città;57 s’impose il dazio della carne nel 1576,58 oggetti tutti che risguardando la consumazione del popolo generalmente dovevano accrescere il valore della man d’opera a scapito delle interne manifatture. Nè qui pure terminò la falsa politica di que’ tempi di offendere e rovesciare i principj che s’erano sino allora con tanto successo osservati: in vece dell’antica immunità s’impose un carico assai pesante di tributo privativamente al Corpo commerciante col titolo di Estimo del Mercimonio, aggravio che sussiste anche al dì d’oggi unitamente ai predetti.59 Così si tolse l’altra cagione della prosperità del commercio col togliere l’immunità ai commercianti ed aggravarli di tributo.

L’industria nazionale non più restò protetta dalle tariffe. Si accrebbero replicatamente i tributi delle gabelle prima del 1555, poi nuovamente nel 1558.60 Indistintamente si aggravarono i panni fabbricati in Paese e tutte le manifatture nostrali: «Plus on se ruine plus il devient indispensable de se mieux ruiner», dice il Sig.r Marchese di Mirabeau,61 e la sperienza lo dimostra.

Oltre i sussidj considerabili che s’erano dal Governo spagnuolo esatti dallo Stato sino al principio della dominazione,62 s’impose un annuo carico permanente di scudi 300.000 all’anno da pagarsi dallo Stato ed ebbe il nome di Mensuale, perchè si considerarono 25mila scudi al mese per mantenimento dell’armata.63

Altro carico universale s’impose e fu chiamato Tassa della Cavalleria64 destinato pure a mantener l’armate. Nuovo carico s’impose poco dopo col nome di Presidio Straordinario.65

Quando i tributi eccedono la forza della Nazione sono come i gravi che dalla lor prima caduta acquistano nuovo impeto che li preme e li spinge al basso con maggior celerità e violenza. L’accrescimento del tributo accresce il prezzo de’ generi e delle manifatture, il loro prezzo accresciuto ne diminuisce lo spaccio, da ciò minor coltivazione e travaglio, indi minor popolazione, in conseguenza minore rendita al Sovrano e necessità con essa di nuovo accrescimento, perciò dice l’illustre Sig.r di Montesquieu che: «Il n’y a point d’État ou l’on ait plus besoin de tributs que dans ceux qui s’affoiblissent de sorte que l’on est obligé d’augmenter les charges à mesure que l’on est moins en état de les porter».66 Da ogni parte cominciarono a desertare gli abitatori. La Nuova Constituzione67 contiene la pena di morte ai sudditi che si trasferiscono altrove. Il gius di natura e delle genti freme in vista di tal legge e la sana politica compiange l’imperizia d’un legislatore che pensa di contenere la popolazione cogl’insulti in una Provincia donde i Cittadini escono con poca spesa, corto viaggio e senza accorgersi nè per la lingua, nè per i costumi d’aver mutato Patria.

Abbiam veduto nel capitolo antecedente l’assoluta proibizione che v’è nei statuti originarj di erigere le Arti e Mestieri in corpo d’Università e la proibizione di fabbricare privative leggi e statuti per questi corpi. Lo spirito del governo cambiò. Se gli Antenati nostri videro prosperare l’industria col favore della libertà, se temettero lo spirito di privativa e monopolio a cui tendono le arti e ceti d’uomini tutti, radunati che siano in una privata società, se credettero la concorrenza essere la giusta livellatrice de’ prezzi, l’animatrice e perfezionatrice di ogni arte, quelli che dappoi ressero sotto la Spagna singolarmente ebbero principj direttamente opposti. Una politica forzosa e vincolante si sostituì; ogni arte, ogni manifattura s’eresse in corpo, formossi leggi e statuti suoi proprj, ottenne il monopoglio e l’esclusione per ogni Cittadino che non fosse ascritto d’esercitarvi la propria industria; colla falsa apparenza d’un bene pubblico mal inteso s’introdussero i principj vincolanti che sono la vera scuola sofistica della economia pubblica. Si credette di servir bene al pubblico col proibire che nessuno lavorasse o vendesse se non esaminato, approvato e descritto. Gli esaminatori furono quei del Corpo dell’Arte i quali hanno interesse di stare più in pochi che possono; esami, lunghi tirocinj, naturalizazione, spese non indifferenti per la matricola, formalità in gran numero s’inventarono e resero difficile e talvolta disperato l’adito ai Cittadini industriosi d’essere impunemente industriosi. Nel secolo XVI quasi tutte le arti e mestieri divennero colla approvazione del Senato tanti Status in Statu e monopolj aventi privilegio esclusivo della loro Arte,68 e così vennero vincolati i Cittadini, ai quali non resta più una sola arte libera da scegliere per procurarsi il vitto. Questi Corpi poi e per le ridicole pretensioni reciproche e per le pompe di sagre funzioni e per l’espilazione dei loro Amministratori e per gli eterni litigj ne’ quali si sono avvolti si sono accollati assai debiti e sono diventati nell’interno della Città una burlesca immagine delle Repubbliche della Grecia, salva la loro virtù, come a suo tempo vedrassi.

Tale era verso la fine del secolo XVI lo stato delle cose nostre. I Commercianti oppressi e avviliti per ogni parte ricevettero un nuovo colpo dal Collegio de’ Dottori, che è il solo Corpo municipale che provi nobiltà, coll’esserne esclusi, come si è detto.

Il Governo della Spagna tentava d’introdurre la Inquisizione in questa Provincia, la quale leggesi nella Storia del Concilio di Trento:69 «ridotta in miseria per le eccessive gravezze si dissolverebbe affatto con quella che superava tutte, preparandosi già molti Cittadini per abbandonare il Paese».

Tutto in quel secolo portava desolazione e rovina; la soldatesca indisciplinata e distribuita senza stipendj nelle famiglie private saccheggiava i Cittadini che doveva difendere. Io riferirò le parole del Guicciardini a tal proposito: «Erano restati senza pensieri de’ pagamenti de’ Soldati i quali, alloggiati per le case de’ Milanesi, non solo costringevano i padroni delle case a provedergli quotidianamente il vitto abbondante e delicato, ma eziandio a somministrare loro danari per tutte le altre cose delle quali avevano necessità o appetito, non pretermettendo per essere provisti di usare ogni estrema accerbità, i quali pesi essendo intollerabili non avevano i Milanesi altro rimedio che di cercare di fuggirsi occultamente di Milano, perchè il farlo palesemente era proibito. Onde per assicurarsi di questo molti de’ Soldati massimamente spagnuoli, perchè ne’ Fanti tedeschi era più modestia e mansuetudine, tenevano legati per le case molti de’ loro padroni, le donne e li piccoli fanciulli, avendo anche esposto alla libidine loro la maggior parte di ciascuno sesso ed età. Però tutte le botteghe di Milano stavano serrate … onde era sopramodo miserabile la faccia di quella Città, miserabile l’aspetto degli uomini ridotti in somma mestizia e spavento; cosa da movere estrema commiserazione ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a quelli che l’avevano veduta pochi anni innanzi pienissima d’abitatori e per ricchezza de’ Cittadini, per il numero infinito delle botteghe ed esercizj, per l’abbondanza e delicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e sontuosissimi ornamenti così delle donne come degli uomini; per la natura degli abitatori inclinati alle feste ed ai piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia,
 ma floridissima e felicissima sopra tutte le altre Città d’Italia» ecc.70 In tal guisa l’industria del Popolo, che in prima era protetta, venne atrocemente perseguitata e si spense anche questa cagione dell’antica prosperità.

Verso il fine di questo fatale secolo XVI venne la peste a portare nuova desolazione all’afflitta Provincia. Celebre è la mortalità di quel tempo in cui sino a ben quaranta mila amalati si contarono in Milano tutti ad un tratto come lo attesta il Sig.r Muratori.71 S’eresse alla fine di questo secolo il Banco di S. Ambrogio per decreto di Governo 1593 14 settembre. Si può dire di Gio. Antonio Zerbi che ne fece il progetto che «quidam ut aliquid sui viderentur afferre etiam recta mutarent».72 Questo Banco da principio fu un mero deposito, poi esibì i frutti ai sovventori, poi nel secolo seguente mancò alla pubblica fede. Sino a quel tempo non avevan conosciuto i Milanesi altro mezzo di cavar rendite dal denaro che impiegandolo nell’agricoltura, o nel commercio, o imprestandolo a chi ve lo impiegasse; s’aprì con quella occasione un comodo di render fruttifero il denaro senza il bisogno dell’industria e così da ogni parte venne nelle sue cagioni attaccata la sorgente della pubblica felicità.

§ QUARTO
Continuazione sul Governo spagnuolo nel Milanese sino alla metà del secolo XVII.

S’è veduto nell’antecedente discorso come il Governo spagnuolo abrogasse le buone leggi di questo Paese, togliesse le immunità ai Commercianti, sconvolgesse ogni principio di pubblica economia nelle tariffe, togliesse gli onori al commercio e sostituendo alla originaria libertà una falsa politica vincolante, opprimesse la Provincia coi tributi, colla licenza militare involgendola nell’incertezza d’ogni diritto, nell’avvilimento e nella desolazione. La storia del secolo XVII ancora più dettagliatamente ci fa vedere gli errori della pretesa politica della Spagna. «De la lenteur sans prudence, de l’ambition sans entreprise, de la fausseté sans pouvoir tromper et du raffinement sans vraie profondeur; tel étoit le caractère de Philippe et tel celui qu’il imprima aux Conseils d’Espagne. Des Provinces rebelles ou dépeuplées, des habitans irrités ou indolens furent le spectacle que ces domaines répandus dans tous les climats du monde offrirent à Philippe».73 I fatti tutti confermano il ritratto che ne fa l’illustre Scrittore inglese. Il Ducato di Milano, divenuto una Provincia affatto distaccata dal Regno dominante, era nel caso di cui parla Tacito che: «ex distantibus terrarum spatiis consilia post res afferebantur»,74 sebbene gli ordini della Corte poca o nessuna influenza avevano nel Governo. Celebre è tuttora il detto di un Governatore a un Milanese che ritornava da Madrid con un Reale Dispaccio in favor suo: «Il re comanda a Madrid, io a Milano». I Governatori venivano posti in carica per tre anni, alla testa d’uno Stato di cui era complicatissimo e quasi inintelligibile il sistema, sì per ciò che spettava l’erario camerale, che per la percezione del tributo, per i Banchi eretti, per il governo delle Comunità e per tutte le Regie e Civili amministrazioni; dovevano essi dunque abbandonare ogni speranza di penetrare in sì breve tempo in questo oscurissimo labirinto e confidare il governo in mano de’ Ministri secondarj, dei quali appunto in que’ tempi scriveva il Kloch: «tantaque est Regiorum Ministrorum crudelitas et avaritia ut proverbio in Italia locum dederit: in Sicilia quidem Ministros Regis erodere, in Neapolitano autem Regno comedere, in Mediolanensi vero Ducatu penitus devorare».75 Questi secondarj Ministri erano tutti togati, cioè, curiali in origine, divenuti gli Aruspici di quel Governo. Tutto era mistero profondissimo: l’arte di governare gli uomini, gl’interessi della Società avevano preso un aspetto quasi
di magia, le finanze e l’economia pubblica avevano una lingua inintelligibile e arcana; chiunque non presentasse un carattere grave e
una vita apparentemente divota non poteva sperare d’aver luogo nel ministero; la Nazione giaceva nell’ignoranza, nell’ipocrisia e nell’avvilimento; i Ministri in pochi anni ammassavano scandalose ricchezze; il sistema in somma era d’una corrotissima oligarchia, che multiplicava i dispotici sul popolo moltiplicando i Ministri, ciascuno
de’ quali era munito d’autorità per nuocere e sprovveduto per giovare al ben pubblico. Se taluno in que’ tempi aveva mente e cuore per suggerire il bene doveva per necessità celarsi poichè come dice Plinio: «neque enim cuiquam tam clarum statim ingenium est, ut possit emergere nisi illi materia, occasio, fautor, comendatorque contingat»;76 così gl’interessi pubblici passavano dalle mani di un mediocre all’altro e si laceravano impunemente per stabilire le private fortune. Presso poco in que’ tempi lo stesso spirito regnava anche in Francia: «L’ancienne finance aussi dure dans ses principes
que dans sa régie affectoit soigneusement une marche ténébreuse dans toutes ses opérations … c’est ainsi que fut substituée la crainte
à la confiance, que les Ministres se trouverent dans une dépendance forcée des gens d’affaires et furent trompés, que la difficulté de prouver les exactions leur assura l’impunité, qu’on éloigna toute idée de réforme, que les bons esprits furent découragés et éloignés
de toute étude d’une partie si essentielle et enfin qu’il a paru si peu d’hommes capables de l’administration des finances».77 Co’ progressi che l’ingegno umano ha fatto dappoi s’è conosciuto che il mistero sugli oggetti pubblici ad altro non giova che a rendere impune
la malversazione e venerabile l’ignoranza e che la facilità, la chiarezza e la libertà di scriverne e trattarne sono i soli mezzi che obbligano i Ministri anche mal intenzionati a far bene e illuminano sem
pre più i veri interessi del Sovrano inseparabili da quei dello Stato.

Il commercio de’ Veneziani sempre più andava languendo: al principio di questo secolo XVII erano involti ne’ torbidi per l’interdetto di Paolo V e per le minacce della Spagna. Poi negli Annali d’Italia leggesi all’anno 1613 una inaudita tempesta che affondò quasi tutte le navi che si trovavano ne’ porti da Marsiglia sino a Napoli, il che fu un colpo fatale alla navigazione già abbattuta degl’Italiani; poi il Duca d’Ossona, Vice Rè di Napoli, inimico del nome veneziano, colla flotta che teneva in que’ tempi nell’Adriatico sempre più rovinava il commercio di Venezia: per un milione di ducati li rappresagliò in tante merci di che essi commerciavano in Levante.78 Gli Uschocchi dal canto loro altresì colle incessanti piraterie rendevano minore e più difficile la navigazione di Venezia e così sempre si diminuiva quell’emporio che in origine aveva dato anima alle nostre manifatture. Gli aggravj sulla man d’opera s’andavano moltiplicando. Oltre i replicati accrescimenti del sale del secolo antecedente, oltre le gabelle imposte sulla farina, sul vino e sulla carne, di che s’è già detto, s’impose il dazio della polleria;79 e la Città, che sbilanciava ogni anno lire 441.500, dovette accrescere i dazj sul vino e sulla carne ed impose nuove gabelle sulla legna da fuoco e sul riso alla introduzione in Città.80 Contemporaneamente si accrebbe d’altri venti soldi il prezzo del sale;81 poi tre anni dopo s’impose il carico del 5 per % sull’affitto delle case e si sopracaricò l’Estimo del Mercimonio di £ 75.000.82 S’inventò la gabella sulla vendita del vino al minuto detta il Bollino;83 poi si fece un sopracarico di gabella all’olio,84 alla farina, carbone ecc.,85 e s’eressero nuovi monopolj trasformando in regalia l’acquavita e il tabacco.86 Da ogni parte in somma si aggravò la mano sempre più sugli oggetti della consumazione del Popolo e sul tributo imposto al commercio in tal modo che appena rimase la memoria della immunità di cui aveva per l’addietro goduto.

I tributi pubblici poi di ogni sorta crebbero pure in que’ tempi. Pesantissimi sussidj straordinarj si fecero sborsare dallo Stato oltre
gli aggravj stabilmente accresciuti nel secolo precedente.87 La Citta di Milano impose un perticato sulle terre civili del Ducato;88 poi s’impose altro tributo col nome d’Annata Regia;89 poi i tre perticati.90 Tutti questi tributi straordinarj imposti dalla Dominazione spagnuola verso l’anno 1627 ascendevano a sei milioni di lire di que’ tempi di annuo pagamento ed in alcuni distretti dello Stato l’aggravio degl’infelici Coloni ascendeva all’enorme somma di venti scudi per testa, fatto ch’io non ardirei di avvanzare se nol leggessi scritto nelle istruzioni date appunto in que’ tempi dalla città di Milano al Marchese Cesare Visconti destinato a rappresentare alla Corte di Madrid la miseria comune.91

Le tariffe non erano più considerate come una parte essenziale della legislatione, ma semplicemente si risguardavano come un espediente per cavare il danaro dalle mani del Popolo. S’è veduto come nel secolo antecedente si accrescessero i tributi delle tariffe più d’una volta e senza distinzione alcuna si aggravassero le interne manifatture; in questo secolo XVII sempre più s’accrebbe questa rovina. Una gabella s’impose all’uscita de’ nostri panni92 e un’altra gabella s’impose alla introduzione della seta in Città.93 Così si ferirono i principj più limpidi della economia politica e sulla manifattura perfezionata e sulla materia prima. Nuove gabelle s’eressero col nuovo monopolio dell’indigo, droga di cui si fa tanto uso nella tintura, e col dazio della vallonia che serve alla preparazione de’ cuoj.94 Si accrebbero tutti in un colpo i dazj di tutte le mercanzie di un terzo, cosicchè la mercanzia che pagava 9 si aggravò del peso di 12. Ciò avvenne nel 1614,95 epoca veramente funesta la quale i scritti de’ nostri Commercianti molto dolorosamente hanno rammentata dappoi. Ma sebben grandi fossero questi errori delle tariffe e rovinosi, d’un altro ancora più fatale mi resta da far menzione. Il disordine giunse a segno che le tariffe non furon più un codice conosciuto dal Popolo, divennero un arcano,96 e gl’Impresarj e Gabellieri furono fatti dispotici Legislatori ed esecutori delle estorsioni che arbitrariamente facevano al passaggio di tutte le mercanzie.97 Pare impossibile come a questo segno si corrompesse dal Governo della Spagna un sistema originariamente sì ben organizato qual era il nostro; eppure cento scritti contemporanei ci costringono a crederlo. Questo intollerabile disordine nelle tariffe sussistè per buona parte dello scorso secolo e convien dire che fosse questo lo spirito di tutta la Monarchia della Spagna, giacchè leggiamo nelle Considérations sur les finances d’Espagne: «L’obscurité des loix fournit aux Fermiers une infinité de moyens de vexer le peuple et leur avidité toujours déguisée sous le prétexte de l’intérêt du Roy les fit multiplier à un tel point qu’eux seuls en furent les interprêtes comme ils en étoient les exécuteurs». In vista di tai disordini estremi v’è da maravigliarsi che sia rimasto un germe d’industria tuttora in questo Stato.

Al principio del secolo XVII di cui parliamo la cattiva politica spagnuola trovò nella zecca una nuova sorgente di danaro sconosciuta ne’ secoli antecedenti, e fu di comandare al popolo che credesse che le monete erose avessero un valore che non avevano e che il Governo istesso ricusava ne’ tributi. Del male cagionato da questa illegalità di valore bastantemente ne trattano gli Scrittori. Il Sig.r Don Geronimo Ustariz, Ministro della Spagna, così ne scrive: «Le plus funeste de tous ce fut l’altération des monnoyes. On ne fit pas réflexion qu’elles doivent être maintenues pures comme la religion … Filippe III, sourd à la voix de la raison, doubla la valeur du billon qui jusque-là avoit été proportionée à celle des autres matières. Les étrangers s’en aperçurent et nous apportérent du cuivre en échange de l’or et de l’argent: le désordre et la confusion s’emparèrent de la Monarchie, le commerce s’embarassa, les prix des marchandises haussérent» ec.98 Il disordine nato da questo falso principio sussiste anche al dì d’oggi e ottanta nove leggi, ossia editti monetarj pubblicati dappoi, non vi hanno posto rimedio, poichè in vece di dare il valore giusto del metallo ad ogni moneta ostinatamente s’è voluto sempre comandare e ricomandare al Popolo che credesse che l’immagine del Principe accrescesse il valore dei metalli nel commercio. La sperienza di un secolo e mezzo e l’innosservanza di 89 editti uniformi avrebbero dovuto far disingannare dei metodi usati, giacchè «insanum quiddam esset et in se contrarium existimare ea quæ nunquam facta sunt fieri posse, nisi per modos nun
quam tentatos», come scrisse l’immortale Bacone.99

Si è veduto di sopra quanto gravi e moltiplicati fossero i tributi imposti a questo stato dal Governo spagnuolo: in confronto però del naturale loro peso era ancora più rovinoso il metodo con cui venivano percepiti. Primieramente per uno spirito di mal intesa divozione gli Ecclesiastici, possessori d’un buon terzo de’ fondi dello Stato,100 si pretendevano esenti dai carichi e difendevano le loro pretensioni: «proibendo i santi sacramenti e scomunicando gli Agenti delle Communità che li volevano far pagare»;101 e queste immunità dai carichi non solo le estendevano sul prediale, ma perfino su i dazj della Mercanzia, come vedesi dai Capitoli fra la Regia Camera e gli Daziari della Mercanzia per gli anni 1607, 1608 e 1609;102 questa ostile renitenza degli Ecclesiastici di ricusare il concorso ai pesi pubblici si mantenne per quasi tutto il passato secolo, come vedremo nel capo seguente. Anche in ciò erano dimenticate le sante leggi de’ patrj statuti che proibiscono l’acquisto de’ stabili agli Ecclesiastici e annullano ogni possessione che potessero mai acquistare dopo il 14 marzo 1370 come può vedersi ne’ statuti antichi.103 In secondo luogo, è cosa luttuosa il dirlo, ma pure è un fatto che gli Esattori de’ tributi spessissime volte erano i Soldati i quali, sprovveduti di paga,104 colla licenza militare vivevano a discrezione sulle terre e Communità dello Stato.105 Questo saccheggio di sistema durò per buona parte del secolo passato, come vedrassi ne’ capi seguenti. Ogni riflessione ch’io vi facessi sarebbe men forte del fatto istesso.

L’economia delle Comunità dello Stato era regolata da quej medesimi principj che dirigevano ogni cosa. Con somma facilità si accordavano ad esse le dispense per accollarsi debiti per modo che pareano i tribunali eretti non più per custodire in osservanza le leggi, ma per dispensarle ad ogni richiesta. «Des règles établies pour l’utilité publique sembloient ne devoir point admettre de dispense … mais dans la suite les dispenses furent données sans ménagement et la règle ne fut plus qu’une exception» dice il Presidente Montesquieu.106 Così appunto avveniva nel nostro sistema, se pure un vocabolo che indica una regolarità qualunque allora poteva convenire al governo del Milanese. Nell’anno 1631 i Pubblici avevano alienati tutti i loro fondi comunali ed avevano di più la insigne somma di debito ascendente a circa trenta milioni di lire.107 Il Somaglia, Autore del secolo passato, nella sua Storia dei tributi nostri, asserisce che ai tempi suoi ogni Cittadino pagava al Principe settanta lire all’anno.108 L’economia adunque de’ Corpi pubblici era rovinata dal peso dei debiti. I gravosi interessi del 7, 8 e per fino del 10 per % che allora portavano essi pubblici109 sopracaricavano il peso da una parte e dall’altra invitavano i possessori del denaro a toglierlo dall’agricoltura e dalle manifatture per deporlo su i Pubblici con tanto utile. Questo disordine allora era comune a quasi tutta l’Europa. Gl’interessi dell’Inghilterra erano al 12 per %110 e quei della Francia al 8 e 10 %.111 La economia pubblica era generalmente sconosciuta. Ma da noi v’era di più. Gl’individui della Comunità, ciascuno separatamente, erano obbligati in solidum per i debiti del loro pubblico, e i Creditori potevano per il debito pubblico convenire in giudizio e carcerare chiunque, benchè avesse pagata la porzione propria. Pare incredibile questa barbarie, eppure ci costringono a crederla documenti indubi
tati e contemporanei.112 Ne’ statuti originarj v’è la legge dettata dalla giustizia in questi termini: «Nullus compelli possit ad solutionem alicujus pecunie vel oneris pro altero».113 Ma la Nazione era giunta al sommo dell’avvilimento; erano smarrite le idee primordiali del giusto e dell’ingiusto; erano abrutiti gli animi; la forza e il timore erano i soli principj motori. La falsità e la minuta astuzia, il sublime dei popoli corrotti, divennero l’occupazione delle menti non volgari. Superstizione profondissima, ignoranza, mistero furono gl’idoli della Nazione. L’abbandono delle terre, l’emigrazione degli abitanti, lo squallore, il disordine sono gli oggetti che ci presenta la nostra storia del secolo passato.

Un monumento della superstiziosa crudeltà e ignoranza del secolo passato l’abbiamo in Milano nella colonna infame. Mentre la peste venutaci dalla Valtellina nel 1630 faceva strage de’ nostri Cittadini,
 dei quali appare che 150mila ne siano allora periti,114 si sparse la superstizione nel Popolo che questo disastro fisico fosse cagionato da stregheria e da malefici unguenti sparsi per la Città. Il Popolo di Roma, l’anno della Città 423 sotto Claudio Marcello e Caio Valerio Consoli, ebbe un consimile errore. Leggiamo in Livio: «Proditum falso esse venenis absumptos quorum mors infamem annum pestilentia fecerit».115 Due poveri Cittadini, Piazza e Mora, a furore di Popolo sospettati rei d’onzione malefica, furono posti nelle carceri. Fanno orrore le torture nelle quali vennero lacerati per più giorni. Il Ripamonti fedelmente ne descrive la storia e, sebbene fosse egli stesso prevenuto dal comune pregiudizio, dal di lui racconto si vede che non erano rei e che in que’ tempi medesimi alcuni li credevano innocenti;116 e nella raccolta di Don Pio della Croce leggesi che il Piazza e il Mora dopo condannati «ridissero come falsamente ciò avevano in giudizio confessato e sin all’ultimo spirare pertinacemente affermarono d’esser innocenti sopportando del rimanente poi quella morte con assai buona disposizione. Dal che s’argomenta la diabolica fattura in questo fatto».117 Tale era la logica di quei tempi che si cominciò per supporli rei e si spiegavano le prove della lor innocenza coj principj della magia. Il Senato gli fece morire tenagliati, squarciati, abbruggiati con enormi supplicj: «Superstitio fusa per gentes oppressit omnium fere animos, atque hominum imbecillitatem occupavit».118 Fece demolire la casa dell’infelice Mora ed eresse ivi una colonna infame colla iscrizione in cui leggesi: «Lætiferis unguentis huc et illuc aspersis plures ad diram mortem compulit dum pestis atrox sæviret». Credette il Senato: I: che quando v’è una peste atroce si debba cercare altronde la cagione della mortalità; II: che sia possibile una crudeltà gratuita nel cuore umano di avvelenare gli uomini indistintamente senza alcun proprio utile; III: che si diano unzioni che al solo contatto avvelenino. La chimica non ha per ventura dell’umano genere trovate sin’ora di sì fatte unzioni artificiali; elleno sono ignote nella piena luce
di questo secolo al dotto Sig.r Brogiani che ha scritto con tanto credito de Veneno. Allora l’ignoranza dei giudici immolò queste e più altre vittime colla scorta de’ sogni stampati di Cardano e di Martino
del Rio. Si può dire a questo proposito quello che un Autor francese dice dei Giudici della Marescialla d’Ancre: «Ses Iuges devojent être au-dessus des pérjugés du Peuple; leur ignorance ou leur cruauté envoya cependant la Femme d’un Maréchal de France ou Bûcher où elle fut brûlée vive. Que nous sommes heureux de n’être pas nés dans ces siècles trop fameux par des exemples de férocité et d’ignorance crasse, risibles en eux-mêmes si l’humanité pouvoit se prêter à rire des attentats faits contre les droits de ses enfans».119 Dopo che i Ministri hanno avvilito il popolo in ogni paese diventano essi medesimi avviliti e partecipi della opinione del Popolo istesso.

In un paese in cui regnava la cavillazione curiale, abolite le patrie leggi, resi i Giudici arbitri della vita e delle sostanze, invase tutte le amministrazioni dei Banchi, delle monete, della pubblica abbondanza, dei fiumi, del tributo dai Giurisperiti; oppressi dai vincoli, dai carichi i Manufatturieri e gli Agricoltori; dove l’immunità ecclesiastica e la licenza militare aggravavano a vicenda i popoli, dove sconvolta ogni direzione sulle tariffe, resi dispotici i Gabellieri e i Soldati, sopracaricati di debiti tutt’i Pubblici, tutto spirava confusione e disordine; in un paese dove la sola cura del Governo era di cavar denaro alla giornata trascurando l’avvenire ed avvilendo il Popolo per non aver la noja d’ascoltarne i gemiti; in un Paese in somma devastato da una pessima politica non potevano contenersi gli abitanti. Prima del 1630 erano già mancati 24.000 Traficanti nella sola Città di Milano,120 i terreni abbandonati e incolti moltiplicavano da ogni parte, i Principi vicini invitavano colla esenzione de’ carichi e colla protezione gli oppressi Milanesi ad abbandonare la Patria.121 Le frontiere dello Stato di Milano dalla parte di Venezia sono popolate anche al dì d’oggi di fabbriche di lana mantenute sul Bergamasco in gran parte da noi. Le fabbriche di lana, che dapprincipio erano 70, nella Città di Milano verso la metà di questo secolo appena si ridussero a 15,122 e deve far maraviglia che anche queste vi fossero. Ma nè il buon Governo rimedia tosto ai vizi radicati, nè il cattivo spegne sì presto i buoni principj d’una Nazione. V’è una forza d’inerzia anche nel cuore del uomo e ne’ costumi d’un popolo; nè gl’infingardi diventano operosi, nè gli operosi infingardi se non con molto tempo e stimoli; «ingenia et mores mutare populi novisque ea legibus moderari extemplo velle non modo non facile verum ne tutum quidem omnino est» dice Plutarco,123 e Cicerone scrivendo al suo fratello Quinto osserva che: «difficile est mutare animum et si quid est penitus insitum moribus id subito evellere». L’esperienza di tutti gli Stati ci fa vedere costantemente questa verità sia nel male, sia nel bene.

§ QUINTO
Come si pensasse dalla Spagna a rimediare ai mali del Milanese, quale fosse lo Stato nostro nel decorso del secolo passato.

La Spagna vedeva sott’occhi la propria decadenza nel secolo passato; padrona dei tesori del Potosì sempre più rendevasi dipendente dalle altre Nazioni di Europa; l’espulsione de’ Mori, le Provincie unite, i Portoghesi e i Catalani occuparono il Gabinetto di Madrid. 
I Governatori di Milano in quel torbido secolo dovevano pensare quasi sempre alla guerra. Al bel principio del secolo 30mila combattenti soggiornavano nella Lombardia spagnuola124 per tenere in soggezione i Veneziani posti all’interdetto da Paolo V. Il Conte di Fuentes, Governatore, accrebbe l’armata per timore della invasione di Enrico IV.125 Il Marchese dell’Inojosa gli succedette e cominciò a guereggiare co’ Piemontesi, poi venne la guerra co’ Grigioni, co’ Mantovani e co’ Piemontesi, poi dopo breve intervallo si ruppe nuovamente la guerra co’ Piemontesi, co’ Francesi, co’ Modonesi, co’ Mantovani, si disputò coll’armi dell’Alessandrino, del Novarese, del Regiano, del Cremonese per circa trentaquattro anni. Quasi tutta la metà del secolo scorso fu occupata in un continuo e lento macello
che non cambiò quasi i confini ed altro effetto non produsse che di rendere più infelici di prima i nemici e noi.126

In mezzo però a questa fatalità di tempi e di Governo la gravezza dei mali, le grida e i clamori de’ Popoli obbligarono a pensare finalmente ai rimedj. Venne dalla Corte l’ordine di consultare i mezzi per
far risorgere lo Stato.127 La prima volta in cui si riscosse il Governo fu quasi dopo un secolo di cattiva amministrazione, cioè nel 1631. Tutti i Corpi pubblici e le Università vennero eccitati ad esporre le loro domande e i loro pareri. Il risultato delle molte scritture fatte dai pubblici in quell’occasione si riduce a cinque articoli che domandavano: primo: che i Soldati venissero pagati dalla Regia Camera e non distribuiti a vivere a discrezione sulle Comunità; secondo: che si riducessero le usure dei debiti pubblici; terzo: che si togliesse ai Creditori dei Pubblici la barbara azione solidale; quarto: che gli Ecclesiastici si facessero concorrere ai pesi pubblici; quinto: finalmente che si facesse una giusta perequazione de’ carichi troppo sproporzionatamente distribuiti. Questi sono gli articoli principali, omettendo io di ricordare le piccolezze e le misere idee dettate da privati interessi e fini secondarj dei quali troppo se ne vede in quelle scritture.128 La Nazione, già avvilita e immersa nell’oscurità, non vedeva che gli oggetti i quali immediatamente operavano sopra di lei, le cagioni poi situate nelle leggi, nell’arbitrio, nell’instabile proprietà, nelle tariffe, nelle direzioni vincolanti, cagioni sì bene conosciute dai padri loro, o non si vedevano, o non si osava lasciar conoscere di vederle. Comunque sia quei cinque articoli meritavano pure attenzione e rimedio. Fatto sta che non ebbero riscontro alcuno e gli scritti de’ pubblici si dimenticarono, per modo che due anni dopo si dovettero nuovamente eccitare i Corpi pubblici a dire lo stesso,129 e neppure questa replica ebbe effetto, poichè nel 1634 venne da Madrid nuovo ordine sollecitando il Senato a suggerire i mezzi per sollevare lo Stato.130 Così si trattavano allora i più pressanti interessi della causa pubblica.

Le altre due Provincie che la Spagna possedeva in Italia oppresse dal cattivo governo avevano tumultuato.131 I mali del Milanese andavano ogni dì più crescendo colla trascuranza de’ rimedj. Dopo la pace de’ Pirenei Filippo IV si rivolse a pensare anche alla Lombardia. Ordinò che non vi si mantenessero che sei mila uomini per la difesa,132 poi comandò che si esaminasse lo stato delle cose e si consultassero i mezzi per rimediarvi.133 Furono di bel nuovo invitati i Pubblici ad esporre le loro occorrenze, i Tribunali a suggerire e questa fu la seconda volta in cui si pensò a rimediare ai disordini.

Dalle scritture di quei tempi vedesi che i mali accennati nel 1631 erano nel pieno loro vigore anche nel 1662. I soldati non avevan pa
ghe e le ricevevano dalle Comunità. «Cogitur Provincia – dicevano i Lodigiani – per impositionem collecta solvere in pecunia numerata milites et Officiales in præssidiis commorantes».134 Le usure dei debiti pubblici in gran parte erano come prima.135 La barbara azione solidale de’ Creditori de’ Pubblici sussisteva.136 Gli Ecclesiastici ricusavano tuttavia di concorrere ai pesi pubblici.137 In somma tutti i disordini sussistevano come prima; anzi com’è natura sì de’ beni che de’ mali s’erano riprodotti e multiplicati.

I debiti de’ Corpi pubblici erano enormemente accresciuti. Nella scrittura presentata in que’ tempi al Senato a nome del Ducato, stampata col titolo Facti series pro Ducatu Mediolani pro petito sublevamine ab oneribus quibus præmitur obtinendo 1662, leggesi che il Ducato avesse allora il debito di cento milioni di lire. Il Somaglia nel libro asserisce138 che nel 1650 avesse lo Stato di Milano il credito verso la Regia Camera di dugento quarant’otto milioni novecento settanta
due mila settecento ottanta nove scudi, cioè più di mille trecento sessanta nove milioni di lire. «Maxima hominum contemptio est et intolleranda mendaciorum impunitas» l’esagerare in tal guisa in faccia
al Pubblico ed ai Tribunali. Tutto il commercio d’Europa appena in quattro anni riceve questa somma dall’Affrica e dalle ricche miniere d’America.139 Queste gigantesche asserzioni potrebbero discreditare le verità medesime che ci appajono dai separati e confrontati documenti della nostra storia, ma in vece di far torto alla verità ce ne somministrano due altre. Conviene che fossero assai grandi i debiti pubblici e assai grande l’ignoranza e l’impostura con cui si trattavano i pubblici affari. Diasi qualunque difalco a questi debiti, il primo de’ quali cioè di cento milioni è asserito dai Sindaci del Ducato in officio avanti il Senato: ne viene una conferma sempre della antica ricchezza.

Era cresciuto a dismisura in que’ tempi il numero de’ Curiali. Essi hanno sempre credito a proporzione che le leggi sono cattive, perchè il bisogno cresce a misura che la proprietà è incerta. Dal numero e autorità dei Giurisperiti si può in ogni paese calcolare il disordine che v’è nella legislazione. Le adunanze degli Artisti, Mercanti e Manufatturieri chiamate Università, Camere, Scuole e Badie vennero sollecitate nel 1662 a dire lo stato loro. Esaminate le molte scritture presentate al Senato da questi Corpi mercantili vedesi la loro decadenza anche in quel secolo. Dalle separate relazioni si legge che i Tessitori di seta da 5.000 telari che avevano 22 anni prima erano ridotti a soli 200. I Cimatori da 40 erano ridotti a 8, i Carminari da 15 a 3, i Centurari da 24 a 4. I Tintori di seta tingevano in prima libre di seta 200.000, allora appena 8.000. I Ricamatori avevano 40 botteghe, erano ridotti a 10. I Fabbricatori di panno, che erano anticamente 70, poi alla metà del secolo scorso 15 (come si è veduto alla fine del § antecedente) in pochi anni erano ridotti a non più di otto. Tale era lo stato dell’industria di Milano nel 1662. La Nuova Costituzione, rendendo incerto e arbitrario ogni diritto, aveva resi importanti e necessarj i Giureperiti. Ogni Corpo mercantile aveva come anche ha al dì d’oggi il suo dottore privativo. La funesta attività di questi Curiali e la facilità aperta di litigare disperdeva il tempo e il denaro di questi Corpi in eterni litigj. Dalle scritture di quel tempo vedesi che gli Orefici, Merciaj e Pellicciari erano di più aggravati per debiti contratti nel secondare la libidine forense di litigj. Reciproche e ridicole pretensioni di prerogative, di precedenza, di privativa, di giurisdizione animavano queste Università in dispendiosissime liti. Oltre gli scritti di que’ tempi assai bene questa materia vedesi trattata dal Dottor Cesati nella informazione da lui fatta alla Giunta del Censimento nel 1754 30 settembre ai §§ 39 e 49. Per un momento io mi diparto dal filo della storia. Nel 1750 la Giunta del Censimento ha radunate le notizie dei debiti di queste Università di Milano e dalle tabelle che si trovano in Officio del Censo appare che questi debiti nel 1750 ascendevano alla somma di £ 167.394. Sedici anni dopo, cioè nel 1766, si fece nuova ricerca allo stesso fine e risulta che i debiti delle medesime Università ascendevano alla somma di £ 226.308.11.9,140 cioè in sedici anni hanno peggiorata la loro economia di £ 58.914.11.9.

Ritorniamo alla storia. Fece il Senato la consulta nel 1662 8 luglio. I mezzi che propose si riducono a dieci articoli: I: togliere gli aumenti de’ dazj sulle lane, olj, sapone ed altre materie prime; II: lasciar immuni all’entrata le lane di Spagna sull’esempio del Gran Duca di Toscana; III: sollevare la gabella alla estrazione de’ panni e cappelli; IV: accrescere la gabella de’ panni lavorati sulle terre dello Stato; V: sollevare l’Estimo del Mercimonio; VI: bandire i panni forastieri e cappelli forastieri della qualità dei fabbricati in Milano; VII: proibire che ne’ Borghi si fabbrichino panni della bontà e marca di Milano; VIII: rinnovare gli ordini per l’antica bontà de’ panni; IX: spingere i Nobili al commercio; X: accordare finalmente esenzione dai carichi per alcuni anni ai fabbricatori che venissero a stabilirsi
in Milano. Il quarto e settimo di questi articoli pajono dettati con molta predilezione alla sola Città di Milano. Il sesto articolo è una legge proibitiva di quelle che non vanno mai al bene, poichè per osservarla bisogna stendere la inquisizione sino agli abiti dei primi Nobili e Magistrati, metodo odiosissimo e sempre deluso. La proibizione salutare si è sempre quella di rendere posponibili le mercanzie
che si vogliono escludere o nel prezzo o nella bontà. La grand’arte del Legislatore è e sarà sempre quella di far coincidere l’interesse privato col pubblico. Gli altri articoli di questa consulta sono ragionevoli, ma vi manca il principale e sarebbe stato quello di far rivivere l’antica sicurezza colle leggi de’ statuti, di ristabilire la giurisdizion consolare, di escludere le cavillosità curiali dal commercio e di ridonare in somma la libertà civile tolta dalle Nuove Costituzioni senza di cui non può sperarsi industria in uno Stato. Cittadini che devono cercare i loro crediti per il labirinto del Foro, Università espillate dalle liti e distratte colle gare e gelosie sempre vigenti, uomini costretti a temer tutto dalla somma illimitata potenza dei Ministri non è possibile che si sveglino dall’indolenza, che è l’ultimo periodo dell’oppressione, se non riacquistando la vita civile, cioè il governo delle leggi.

Tutte le rimostranze del 1662 produssero una lodevole operazione risguardante la distribuzione delle truppe sulle terre ed ebbe il nome di Rimplazzo. Si fu questo l’affittare ad un Appaltatore l’obbligo di mantenere legna, lume, fieno, biada e letto alle truppe, sgravandone le Comunità dove alloggiavano e distribuendone l’importanza su tutto lo Stato.141 La consulta del Senato fece nascere la grida 1664 7 agosto di bando generale ai panni forestieri della qualità dei nostri,142 la quale non potè mai essere osservata, come vedesi dalla consulta del Senato 1668 15 marzo.

Siccome un oggetto delle doglianze de’ Pubblici erano i debiti loro e gl’interessi esorbitanti, così dovette il Sen.o rappresentarlo alla Corte, a tal fine trasmise un decreto circolare ai Pubblici;143 poscia fece la consulta accennata del 1668 15 marzo, proponendo le stesse cose che aveva proposte sei anni prima intorno il commercio ed aggiungendo di più le sue riflessioni sull’indole de’ debiti pubblici, sull’ingiusto ripartimento de’ carichi e sulla necessità di creare una deputazione stabile di persone destinate a meditare, attendere e proteggere il commercio. Le provvidenze che da Madrid vennero in conseguenza di questa consulta furono ordini per la reintegrazione [dei carichi] straordinariamente pagati dallo Stato per Reale Servigio,144 la riduzione degli interessi de’ Pubblici145 e la destinazione d’una Giunta commerciale.146

Gl’interessi de’ detti Pubblici erano già stati altra volta ribassati sino al due per %.147 Dalle scritture contemporanee veggo che nel Pavese nel 1636 si ridussero gl’interessi al 5 per %. Nella Comunità di
San Colombano ciò non ostante nel 1662 pagavasi il 7 per %. La Corte mandava separati dispacci e diverse provvidenze per ciascun distretto dello Stato: non è possibile il formare una idea precisa e generale di queste operazioni economiche; appena si crede di aver trovato un regolamento universale, che i fatti particolari lo smentiscono. Tutte sì fatte operazioni avevano l’impronta d’un non so che di magico e di difficile a penetrarsi. Nella riduzione degl’interessi di cui ora ho parlato si stabilì148 che gl’interessi si riducessero al 5 per %,
e questo interesse medesimo pagasse il 7 ½ per % di tributo alla Comunità debitrice in iscomputo del capitale. Queste complicatissime operazioni erano allora conformi allo spirito della pubblica amministrazione, e resero un tessuto intralciatissimo la finanza, il tributo, l’economia pubblica ed ogni reale e civica azienda, ed assicurarono così il dispotismo dei pochi che ne sapevano il filo. Questa oscurità
fu cagione di liti e dispendj gravissimi fra i Creditori e le Comunità, debitrici singolarmente nelle Provincie Cremonese, Comasca, Novarese, Alessandrina, Casal Maggiore e Lumellina. Tre anni di dispute vi vollero per porvi in esecuzione quest’ordine sovrano, e molte e replicate sentenze del Senato v’intervennero.149

Le scritture, le rimostranze, le consulte già per tre volte ripigliate, cioè nel 1631, 1662 e 1668 non avevano arrestato il decadimento di questa Provincia; disertavanla sempre più i cittadini rifugiandosi ne’ Stati limitrofi.150 Somma lentezza nel proporre i rimedj, somma incertezza nell’immaginarli erano i vizj allora dei buoni Ministri e quei che non lo erano avevano i fini privati dell’autorità e lucro personale in opposizione colla causa pubblica a cui dovevano provvedere. Quel tarlo che era nella legge, quella universale incertezza del diritto, quel funesto dispotismo stabilito dalle Nuove Costituzioni, che dando tutto all’arbitrio del Giudice toglie ogni sicurezza civile e rende instabile ogni proprietà, rimaneva sempre intatto. I mali sempre più crescevano frattanto, e per la quarta volta venne ordine dalla Corte di consultare i mezzi per ristorare questo Paese.151 Se nelle passate scritture gli Amministratori pubblici comparvero deboli, in quelle prodotte in questa quarta epoca compajono imbecilli. Il lusso è sempre stata la base del commercio delle Monarchie,152 massimamente quello che ha per oggetto le interne manifatture. «On étoit persuadé – dice un illustre Autore – que le Royaume s’épuisoit par les denrées du luxe qui lui fournissoient ses voisins. On crut y remédier par des loix somptuaires qui achevèrent d’écraser nos manufactures».153 Il Marchese di Mirabeau su questo argomento dice: «on a quelquefois voulu taxer le luxe sous le prétexte du rétablissement du bon ordre et de la modestie. Les loix sumptuaires ne valent rien».154 L’autore dell’Essai politique sur le commerce, scrivendo del lusso, dice: «Le luxe, l’objet de tant de vagues déclamations qui partent moins d’une saine connoissance ou d’une sage sévérité de meurs que d’un esprit chagrin et envieux».155 Moltissimi altri Scrittori
ne parlano con un consimile linguaggio. Non v’è Nazione o secolo illuminato senza lusso, nè tutti i vizj politici sono vizj morali, nè tutti i vizj morali sono vizj politici. L’opera del Sig.r de Mandeville assai bene lo prova. Quand’anche quest’unico rimedio contro l’ozio e l’indolenza fosse un vizio politico sarebbe sempre vero che due vizj opposti sono meno perniciosi ad uno Stato che un vizio solo. Erano ben distanti da questi principj i Ministri e Rappresentanti pubblici che trattarono di far risorgere il commercio nel 1679. La Città di Milano, con sua consulta del 15 aprile, propose che universalmente si proibissero le dorature su i cocchj, le frangie e simili ornamenti; propose che venisse proibito ai Volanti di portare la canna, propose che nell’occasione d’inviti, veglie, o feste non si diano acque rinfrescative più di due sorti, restando proibiti tutti i canditi, zuccheri e cioccolatte. Credette la Città che diminuire il numero degli indoratori, intagliatori, ricamatori, selari e confetturieri fosse
un bene per lo Stato e mentre che le usurpazioni degli Ecclesiastici opprimevano d’un terzo il tributo, mentre che le tariffe erano arbitrarie, arbitrario il diritto, ingiustamente ripartito il carico, vigenti in somma i mali che si sono veduti, credette la Città di dover pensare alla canna dei Volanti e alle acque rinfrescative. Il Senato pienamente si confermò ai suggerimenti della Città e colla consulta che fece156 propose alla Corte tutte le riforme sumptuarie, aggiungendovi qualche maggiore precauzione. La Città proponeva di togliere l’uso della canna ai Volanti; il Senato suggerì di proscrivere assolutamente i Volanti istessi: «Famulos Cursores quos Lacchè appellamus non esse permittendos» dice quella consulta. Di più suggerì il Senato che si facesse portare il collare ai Nobili: «Nobiles, nisi iter acturi sint, teneri vestibus hispano vel italico more compactis prout et collari uti» e che si proibisse alle donne portare la veste che strascini al suolo: «interdicto etiam syrmate vestium muliebrium vulgo la coda». A tale miseria erano ridotte le menti degli uomini da quello spirito monastico, curiale, dispotico che s’era diffuso per tutta la Nazione.

Altra maniera di rimediare ai mali non s’immaginò che coll’adoperare sempre mezzi odiosi e coercitivi, resi sempre inefficaci nell’esecuzione. Vennero dalla Corte gli ordini di moderare il lusso,157 ma non ebbero effetto. I bandi delle stoffe e panni forestieri si replicarono sempre inutilmente: divennero come una solennità periodica d’effemeridi da rinnovarsi ogni anno.158 Si proibì la estrazione della seta greggia159 come si proibiva la estrazione de’ grani, la partenza de’ Cittadini, la uscita del danaro e simili, regolamenti dettati tutti da una politica superficiale che s’indirizza agli effetti dimenticando le cagioni e conseguentemente regolamenti delusi sempre dall’effetto. «Qui primum, et ante alia omnia animi motus humani non exploraverit, ibique scientiæ meatus et errorum sedes acuratissime descriptas non habuerit, is omnia larvata et veluti incantata reperiet»:160 ogni legge contraria ai sentimenti naturali del uomo deve essere sempre delusa.

Qualche buona operazione che si fece in que’ tempi, tale si fu l’abolire il monopolio della vallonia, droga inserviente a preparare i cuoj,161 che s’era voluto erigere 27 anni prima. Ordinò la Corte che si abolisse il dazio sulla introduzione della seta greggia: ciò fu con Reale Dispaccio del 1681 21 aprile, al quale ordine si diede esecuzione poi 58 anni dopo,162 tanta era la lentezza con cui si ubbidirono gli ordini più benefici del Sovrano. Si pose qualche freno alla licenza de’ Gabellieri, stampandosi finalmente nel 1686 un libro di tariffe intitolato Dati e tasse diverse. Ma questi lenti e poco vigorosi provvedimenti non potevano ridare la vita all’industria d’un popolo oppresso radicalmente dalla legislazione e dal disordine d’ogni politica economia.

§ SESTO
In quale stato si trovasse il Milanese alla fine del secolo passato.

L’ingenuo Sig.r Muratori, padre e maestro della storia d’Italia, così 
ne’ suoi Annali scrive della dominazione della Spagna: «Uso fu degli Spagnuoli, allorchè li pungeva la necessità delle guerre, di provedere 
al bisogno presente senza mettersi pensiero dell’avvenire col vendere
i fondi del dominio e delle rendite regali; tornando poi nuove angu
stie per nuove guerre, altro ripiego non restava che d’inventar nuove gabelle ed aggravj, del che forte si dolevano i Popoli».163 In fatti per quasi un secolo vi fu una perenne creazione di aggravj e gabelle ed
 un incessante mercato delle regalie. Quel Banco di S. Ambrogio, che fu incautamente eretto alla fine del secolo XVI, ei solo possiede al dì d’oggi di regalie per l’annua rendita di £ 1.800.000, quasi tutte cavate dalla più misera plebe di Milano sul pane, vino, legna, olio, carne e simili oggetti del vitto comune. Ho detto un milione e ottocento mila lire e direi più vero se dicessi due milioni e più, poichè il Popolo paga le spese della percezione e l’utile degl’Impresarj oltre la rendita del Banco. Dei misterj di questo Banco io non ne ho alcuna legittima informazione, bensì ne ho alcune notizie privatamente raccolte coll’esaminare le antiche carte. Alcuni fondi che possede questo Banco, quali sono l’accrescimento d’un soldo per lira sugli affitti delle case fatto nel 1617 e un sopracarico fatto allora all’Estimo del Mercimonio, vennero assegnati al Banco col nome di arbitrj sino all’estinzione di alcuni debiti.164 Fallì il Banco nel 1658: ridusse gl’interessi al 2 per % e i capitali al 40 per %. Per ordine di Governo si stabilì nel 1670 un fondo di £ 47.300 da amministrarsi onninamente in una cassa separata, da non disperdersi per nessuna urgenza e da impiegarsi ogni anno per estinguere il debito capitale di £ 100.000.165 Ciò posto, quasi dieci milioni di debiti antichi a quest’ora dovrebbero essere saldati e diminuito il peso annuo di £ 200.000. Molti progetti sono stati fatti per finire questo Banco che impone sopra ogni Cittadino milanese maggior tributo di quello che ne esigga il Sovrano. Il primo ch’io sappia è stato il Somaglia, che pubblicò il suo piano nel 1640, in seguito comparvero i progetti di Luigi Cavallero, di Gian Francesco Malatesta e di Ambrogio Paravicino, tutti caduti l’un 
dopo l’altro nella dimenticanza.

I tributi erano insopportabili alla Nazione, ad ogni passo v’era 
una gabella ed era inegualissimo il metodo con cui si esiggevano. Il denaro pubblico per tante mani passava e giungeva al Regio Erario per giri sì complicati e tortuosi, cosicchè nè il Sovrano sapeva donde partisse, nè il Popolo dove terminasse. La distribuzione del carico sulle terre facevasi in parte a norma della popolazione di più di due secoli prima, cioè sulle stara di sale consumate nel 1462, e parte sul Censimento fatto sotto Carlo V. La ingiustizia intrinseca nel riparto 
del tributo sulle terre giungeva a segno che di due pezzi di terra d’egual valore uno pagava 2 e l’altro 13166 e la tassa personale dei Coloni in un distretto era 2, nell’altro 29.167 Il Senato medesimo nella consulta 15 marzo 1668 così ne scrisse: «Erat jamdiu nobis perspecta inæqualis ea imponendi ratio plurium Opidorum et Villarum notæ quærelæ, nec occulta quæ olim peculiari Magistratus zelo excitata fuerant in remedium. Iniustitia hujusmodi distributionis patet ad sensum cum stariorum salis portio unicuique pago olim constituta pro necessario incolarum alimento, mox in metodum exigendi oneris ad prædia pertinentis versa sit. Invaluit abusus tam in Reali, quam in personali contributione» ec.

Oltre l’arbitraria e ingiusta divisione del tributo doveva il povero Contadino sopportare l’espilazione che del denaro pubblico facevasi
dai Magnati Amministratori e Ministri, resi dispotici padroni d’ogni cosa. Il Magistrato Ordinario non potè celare questo interno saccheggio nelle sue consulte, leggendosi in quella del 1660 8 gennaro proposto: «che non si admetta a carica, nè amministrazione pubblica, Decurione, Patrimoniale, o qualsivoglia altro Ministro che prima non mostri d’aver compito alli suoi carichi per l’Estimo che tiene» e nell’altra consulta 1706 14 novembre: «Quelle finezze, quali in tutti i tempi hanno manifestate questi fedelissimi Sudditi con tutte le forze ed amore al suo adorato Monarca, saranno sempre per continuarle di buon cuore sin all’ultimi respiri, quando però si convertano le loro contribuzioni nella causa pubblica et non alcuna nel privato interesse che ha reso in tutt’i tempi più dolenti le loro piaghe».

Le querele dei Popoli sulla usurpata immunità degli Ecclesiastici erano nel pieno loro vigore anche alla fine del secolo passato; nessuna providenza si era data a questo ingiustissimo sopracarico che portavano i sudditi. Nelle Riflessioni stampate sopra un nuovo sistema di taglia così si qualificano i beni Ecclesiastici: «Quella quota che si usurpa il bene d’essere difesa col sangue e sostanza de’ Sudditi colla crudele ritrosia di non concorrere al pagamento di quel esercito che la difende». Così parimenti nella consulta del Senato 1712 7 giugno leggesi: «Iniustæ et indebitæ dici merentur Ecclesiasticorum oppositiones convolantium statim ad arma spiritualia et fulmina censurarum ad captandum sibi lucrum cum aliena jactura contra præceptum divinarum et humanarum legum» e nella consulta pure del Senato dell’anno seguente 1713 17 giugno si ripete che «Ingemiscit Mediolanensis districtus, quod magna pars bonorum ut plurimum de fertilioribus possidetur per Ecclesiasticos minus juste renuentes solutionem onerum saltem pro parte colonica». Sussistevano dunque tutt’i disordini nel tributo alla fine del passato secolo ed al principio del presente malgrado le querele dei Popoli.

I Cittadini erano in ogni parte esposti all’arbitrio altrui, nemmeno la casa propria era un sicuro asilo, poichè i Bargelli, il Giudice delle monete e i di lui Subalterni portavano la vessazione e le inquisizioni ad ogni ora nelle private famiglie. I Soldati alle porte della Città di presidio decimavano ad arbitrio quanto entrava e usciva.168

La Dominazione spagnuola terminò nel 1706: durò nella Lombardia per lo spazio di cento settanta due anni. Ritrovò in Milano 300mila abitanti, ve ne lasciò circa 100mila. Ritrovò 70 fabbriche di lana, cinque appena ve ne lasciò.169 I mulini da seta che erano alla fine del secolo scorso si contavano non più di 25;170 tutto era in decadenza e rovina. Con tutto ciò gli uomini che passano per più assennati comunemente si lodano del governo spagnuolo e lo ricordano come un tempo felice per questa Provincia. Questo fenomeno politico facilmente si spiega esaminandolo, sebbene al primo aspetto sembri un paradosso. Giovi per altro accennare i principj che lo producono.

Gli abitatori del Milanese suppongansi divisi in cinque parti eguali. Una quinta parte vive nelle Città, le quattro altre parti vivono
alla campagna, dove, occupate dei giornalieri lavori, non si curano di ragionare sul passato, nè danno voto alcuno. La quinta parte che è cittadina per lo più non sa nulla di quanto accadeva cento anni fa. Gli Ecclesiastici godevano di tutte le immunità, privilegj e usurpazioni possibili sotto la Spagna: essi amano dunque quei tempi e ognuno sa quanta influenza abbiano sulle opinioni del popolo i Ministri del Santuario. Gli Amministratori pubblici, i Togati profittavano della miseria comune e nella oscurità, arbitrio e licenza passata ottenevano somma considerazione e ricchezza; questi colla protezione loro tenevano sotto l’ombra ciascuno un numero di famigliari, parenti e clienti d’ogni specie, i quali tutti dovevano essere lodatori di que’ tempi. La disgrazia somma de’ popoli corrotti e avviliti si è che nessuno del popolo quasi giudica da sè, ma ripete i giudizj e le declamazioni degli uomini d’affari ciecamente e questi uomini d’af
fari cavando i principali loro beni dal disordine pubblico sono per natura portati a lodare il male pubblico travestendolo con apparenza di bene. «L’intérêt de quelques hommes puissans – dice un ingegnoso autore – est de vivre sous une administration relâchée, parcequ’alors les revenus publics, les loix et toutes les parties du gouvernement se ressentent de cette foiblesse. La grandeur des particuliers consiste à tromper leur prince et c’est alors que les loix se vendent à plus haut prix, que les injustices, les préférences odieuses rapportent
de plus grandes sommes»;171 e così la Nazione avvilita crede suoi protettori i suoi più crudeli interni nemici, crede bene il male, male il bene, e se un Cittadino illuminato s’erge a parlare per il ben pubblico, la turba sconsigliatamente lo maledice e lo risguarda come un pubblico nemico e molte volte avenne che: «multorum obtrectatio devicit unius virtutem».172 Tale è il destino d’un popolo corrotto.

Quella sicurezza civile che in un governo ben organizzato sta sulle leggi, in un corrotto governo sta nella protezione degli uomini d’affari. In uno Stato corrotto, le leggi salutari sono dimenticate e le leggi osservate sono vincoli per lo più fatti per vendersene la dispensa e si riducono ad un tributo. La voce del Legislatore diventa odiosa al popolo, perchè sempre gl’intima nuova perdita della libertà naturale o nuovo pagamento. I numi tutelari sono gli uomini in carica e colla più servile adulazione si cerca la protezione di essi che soli possano difendere. La Nazione diventa necessariamente falsa, ipocrita, simulata, indiretta nelle sue vie e questi vizj non può un uomo illuminato attribuirli agl’individui, ma deve incolparne l’educazione pubblica dipendente dal sistema di Governo. In quella Nazione il Sovrano deve essere secretamente risguardato non come il legittimo padre del suo Popolo, ma come una potenza estranea che ha forza per fare ciò che vuole e i Magistrati antichi in origine hanno tutti gl’interessi nel disordine che li predicano per padri del Popolo. Sin che la proprietà e la vita de’ Cittadini resta abbandonata all’arbitrio degli uomini; e sinchè un Tribunale avrà legittima facoltà di disporre delle fortune, della libertà, della vita istessa de’ Cittadini senza rendere ragione nelle sue sentenze della legge su cui si appoggiano, cosa ch’io sappia inusitata in ogni altro Stato, il popolo avrà ragione di ripetere che il Senato «judicat tamquam Deus», come è proverbio comune, spererà tutto dai Ministri, odierà le leggi e resterà sempre occupato a preservarsi dai mali organici d’un pæse dove più possono gli uomini che le leggi per tutte quelle strade tenebrose che un Popolo ingegnoso per se stesso deve ricercare. Ed ecco come la lunga e ripetuta azione d’un governo arbitrario, degradando persino le menti dei sudditi, renda il pubblico ingiusto nel distribuire le lodi e il biasimo e riduca i ben intenzionati Cittadini a dire con Cicerone in mezzo alla corrotta sua Patria: «Quodsi is casus fuisset rerum quas pro salute Rei publicæ gessimus, ut non omnibus gratus esset; et si nos multitudinis vis furentis inflammata invidia pepulisset, si tribuniciaque vis in me populum sicut Graccus in Lænatem, Saturninus in Metellum incitasset, ferremus, o Quinte frater, consolarenturque nos tam Philosophi qui Athenis fuerunt qui hoc facere debebant, quam clarissimi viri qui illa Urbe pulsi carere ingrata Civitate quam manere in improba maluerunt».173 Da questi principj ne vengono le lodi che tutt’ora ciecamente si danno al passato Governo sotto la Spagna.

Gli uomini, originariamente rivolti ai mestieri, ai cambj, all’agricoltura e a simili sorgenti della pubblica ricchezza, si sviarono concorrendo in numero eccedente alle scuole sotto il Governo della Spagna pubblicamente aperte dai Gesuiti e Barnabiti; questa straordinaria folla di gente istrutta nel latino s’affollò a riempiere i chio
stri, popolò la Città d’un eccedente numero di Preti, moltiplicò il numero de’ Curiali e de’ Dottori d’ogni specie: gente tutta della quale il vitto è sempre a carico dei Cittadini, poichè tanto guadagnano quanto da essi ne ricevono, laddove l’Agricoltore e il Commerciante dalla fisica fertilità del suolo e dalla dipendenza dalle altre Nazioni colla fatica e industria accrescono la ricchezza nazionale creando la propria. Deserzione d’abitanti, oscurità d’ogni cosa, obbliquità di costumi, incertezza d’ogni possesso, ignoranza, timidezza e superstizione furono le qualità che rimasero impresse in questo Stato sul finire della dominazione spagnuola.

§ SETTIMO
Del Governo dell’Augustissima Casa d’Austria di Germania sino alla metà del secolo presente.

Se mi trovassi nell’alternativa o di tradire la verità o di esporre delle verità troppo odiose al Governo attuale terminerei a questo punto la storia. Fortunatamente tale non è lo stato mio; posso senza parzialità esaminare gli oggetti e rappresentare i fatti che mi restano lontano da ogni adulazione.

Dopo i disastri della passata amministrazione pare che dovess’essere esausta affatto di danaro questa Provincia e ridotta ad un deser
to, ma gli Stati hanno delle risorse talvolta nei mali medesimi; tale si
fu la guerra, che i Gall’Ispani fecero al principio di questo secolo per difendere la Lombardia, per la quale la Francia sola fece colare in Italia, come ci attesta il Muratori, la prodigiosa somma di settanta milioni di luigi d’oro,174 della qual somma buona parte restò nel Milanese.

Appena cominciò fra di noi la dominazione austriaca il generoso Principe Eugenio di Savoia fu nostro Governatore. Le estorsioni, gl’ingiusti riparti che sin’allora si facevano nell’alloggiamento militare, oggetto di tante querele de’ pubblici, di tante inutili consulte del secolo precedente, cessarono in un sol punto. Nel 1707 fecesi il regolamento della Diaria, di cui la proposizione fu promossa dal Conte Carlo Borromeo, uno de’ più illuminati e zelanti Patrizj di quel tempo. Si unirono in un sol carico con questo nome i molti che successivamente s’erano imposti sotto la Spagna per mantenere l’armata. La Congregazione dello Stato ed il Magistrato separatamente la consultarono, così il primo apparire del Governo austriaco fu l’epoca in cui cessò il libertinaggio militare sulle terre dello Stato: male certamente de’ maggiori che si siano sofferti nel secolo passato175 e di cui per il buon Governo degli Augusti Sovrani e per la disciplina delle truppe austriache non ci resta più nemmeno l’idea.

L’ingiusta ripartizione de’ carichi era pure un altro male sommo. Abbiamo già veduto le querele inutilmente fattene dai Pubblici e le consulte su tal proposito fatte nel secolo passato, tutte dimenticate. La popolazione trovata nel 1462 serviva anche al principio di questo secolo per norma di distribuire il tributo, come di sopra si è detto; erano le Comunità abbandonate al dispotismo de’ potenti Possessori; i Pubblici ciecamente nella tutela degli Amministratori, arcana la scienza della distribuzione, arbitrario ogni metodo, spopolate, deserte e incolte molte Terre. Il Conte Prass presentò alla maestà di Carlo VI nel 1709 un Progetto d’un nuovo sistema di taglia da praticarsi nello Stato di Milano: l’oggetto era di ridurre a semplicità la distribuzione de’ carichi e sollevare i Popoli dalle estorsioni degli Amministratori. Piacque al Sovrano il progetto, e l’accompagnò con dispaccio d’intera sua approvazione. Ma il sistema già corrotto del nostro Paese si oppose con tutte le arti a questa beneficenza. Per lo spazio di ben nove anni seppero i Pubblici deludere questa provida determinazione: «Nulla novitas absque injuria, nam præsentia convellit».176 Leggendo le scritture stampate in quella occasione a nome della Congregazione dello Stato fa veramente sdegno la somma ignoranza e l’impudenza somma con cui si avventavano gl’interes
sati nel disordine contro il Conte Prass accusandolo di novatore, di progettista, rimproverandogli di non esser suddito della Casa d’Austria, deridendolo, perchè leggesse libri francesi ed avesse preso il suo progetto «a quodam libello Gallice conscripto, cui titulus: La Dixme Royale». Queste scritture piene di fiele e animosità scolastica, vuote affatto di senso comune e di ogni principio di pubblica economia, sospesero l’effetto del Reale Dispaccio sino all’anno 1718. Malgrado gli sforzi che si facevano dai pubblici Amministratori per sostenere gli ereditarj disordini su i quali era fondato l’arbitrio loro, la evidenza dell’ingiustizia nel ripartire il tributo era tale che furono costretti essi medesimi a implorare concordemente una generale estimazione de’ fondi per servire di norma alla divisione dei carichi. Così fu deluso il progetto del Conte Prass, che pure interinalmente avrebbe portato qualche maggior proporzione nella divisione del carico e coll’apparenza di cercar il meglio si ottenne frattanto di scan
sare il bene. Tutt’i più ricchi Terrieri, i rappresentanti pubblici e i Ministri dovevano essere contrarj ad ogni riforma e a tal proposito conviene perfettamente quanto dice l’autore delle Œconomies Politiques: «Le Clergé, la Noblesse et les riches, accoutumés à faire rétomber sur le Peuple les charges publiques, s’indignèrent de voir la proportion un peu rétablie. Ce qui est remarquable, les pauvres mê
mes en faveur desquels on travailloit, séduits par les déclamations ordinaires, en pareil cas reclamoient des privilèges, dont l’usage n’avoit jamais été connu d’eux». L’Imperatore Carlo VI accondiscese alla supplica e stabilì una Giunta del Censo la quale, attraverso
alle obiezioni incessanti de’ pubblici che disputavano il terreno palmo a palmo, per quindeci anni travagliando alla misura e stima de’ fondi ed agli oggetti del suo Instituto, pure non potè perfezionare l’opera e rimase interrotta dalla invasione de’ Gallo Sardi nel 1733, sussistendo frattanto sempre l’arbitrio degli Amministratori pubblici e l’ingiustizia del riparto. Era riserbato al glorioso Regno dell’AUGUSTA MARIA TERESA il porre fine a questi mali con una legge censuaria per cui con equità si distribuiscono i pesi pubblici a misura delle forze d’ogn’uno; s’è resa chiara l’amministrazione delle pubbliche imposte e s’è annientato il dispotismo dei potenti su i deboli, dando alle Comunità un Governo democratico dipendente da un Tribunale custode della legge. Il numero delle terre incolte è diminuito notabilmente con questa salutare riforma; e il Popolo massimamente della campagna comincia a vedere che le buone leggi proteggono il Suddito, che i più ricchi son membri dello Stato come i più poveri, che il Sovrano difende i deboli dai potenti: idee tutte felicissime, le quali conducono per gradi un popolo dalla cecità alla luce, da questa alla bontà e da essa alla felicità pubblica.

Abbandono per poco il filo della storia. Il rimproverare ad una sì vasta operazione alcuni errori parziali nelle stime è lo stesso che ignorare la massima che «la perfection des choses humaines consiste à s’éloigner davantage des abus».177 Io non entrerò ad esaminare profondamente l’attuale legislazione del Censo: ella è certamente ottima e provvidissima per la maggior parte. I difetti che vi sono a parer mio si riducono a quattro. Il primo l’aver concesso agli Ecclesiastici nel concordato troppo al di là del giusto, per il che non hanno i Popoli quel soglievo che potevano sperare. Il secondo si è l’aver voluto far contribuire al carico anche la testa de’ Coloni colla tassa personale. Questa tassa è odiosissima al povero Contadino, i finitimi ne profittano, poichè molti de’ nostri vanno espatriando per esentuarsi da questo sborso annuo e per essa si va diminuendo la popolazione della Provincia superiore di Cremona, di Casal Maggiore, di Pavia e di parte del Lodigiano; non è sperabile che il misero Contadino risparmj dai continui bisogni e giornalmente accumuli anche una piccola porzion di danaro effettivo lasciandola intatta per il pagamento del tributo; i giornalieri bisogni lo spingono a prevalersi di quel poco peculio che sta nelle sue mani e alla scadenza poi si trova in preda a un Esattore armato d’una azion fiscale.178 Il terzo difetto è l’Estimo del Mercimonio, cioè un tributo imposto direttamente sul commercio, che si è voluto ritenere per farlo concorrere al censo. La Città di Milano e quella di Como fecero sempre le più valide istanze perchè si abolisse. Il Tridi sino dal 1640 scrisse su quest’argomento; la Giunta del Censimento nel 1732 7 giugno fece un’ampia consulta
al Sovrano su di ciò; il Questore Forti scrisse pure la compendiosa relazione sul mercimonio su questo argomento: con tuttociò quest’Estimo sussiste. La industria non è un fondo censibile, i tributi imposti immediatamente sopra di lei la estinguono; il Popolo paga i tributi sul sale, sul tabacco, sulla Mercanzia senza avvedersene, perchè restano confusi col prezzo della merce; un tributo scoperto e
che importa meramente sborso di denaro senza equivalente acquisto
è sempre odioso e cattivo e, poichè è indispensabile a sostenere il peso del Principato che in qualche parte il tributo sia scoperto, me
glio è che tale lo sia sul minor numero del popolo, che sono i posses
sori e che i consumatori che formano il maggior numero paghino senza quasi avvedersene; e come sulla mercanzia il Mercante anticipa il tributo a nome dei Compratori su i quali nel vendere si risarcisce, così il Terriere lo anticipa a nome dei Consumatori che sempre poi sul prezzo dei generi compensano la porzione corrispondente del carico. Io credo evidente che sarebbe ottima operazione il rifondere la tassa personale e l’Estimo del Mercimonio sull’imposta dei beni stabili. L’Estimo del Mercimonio è un piccolo oggetto e porterebbe un insensibile aumento. La tassa personale è di maggior importanza, ma se è vero che il contadino deve ricavare dal suo Padrone oltre il vitto e vestito anche il tributo della tassa, facendo pagare al Padrone la tassa immediatamente non se gli fa nuovo sopracarico che in apparenza. I fondi sono sempre quelli, in uno stato agricoltore, che portano i pesi pubblici, qualunque sia la forma colla quale il tributo s’impone, e a tal proposito parla assai chiaro l’illustre Gio. Locke: «En tout pays dont la plus grand fonts sera en terres on prétendera en vain faire supporter le fardeau des charges publiques du Governement à toute autre chose et ce sera enfin là qu’il devra nécessairement aboutir en entier».179 Il quarto difetto finalmente del sistema attuale del censo è a parer mio quello di rendere dipendenti dagli Estimati delle Comunità nella percezione de’ loro soldi i Regj Cancellieri, destinati a difendere le Comunità medesime dalle usurpazioni degli Estimati; converrebbe fissare ad essi soldi dalla Cassa del Censo immediatamente e assistergli meglio che ora non lo sono. A me basta per ora l’avere accennate queste idee; richiede l’opera ch’io scorra sugli altri oggetti che mi rimangono.

Tutto il Regno dell’Augusto Carlo VI fu anche per il Milanese un Governo di paternità e di clemenza. Stimolava continuamente quel benefico Monarca i Ministri e Rappresentanti pubblici a sollevare lo Stato, a rianimarvi l’industria, a togliere i disordini passati.180 Ordinava di sollevare i dazj in favore delle manifatture anche con perdita dell’Erario Regio. Nel Cesareo Real Dispaccio 1713 28 giugno181 comandò che si togliesse il pernicioso dazio sulla introduzione della seta greggia in Città e questo dazio, che faceva un ostacolo importantissimo alle manifatture di seta, come può vedersi dalla consulta della Real Giunta del Censimento,182 non cessò che nel 1739, cioè 26 anni dopo che il Sovrano l’aveva comandato. Comandò nel 1739 che 220 si riducesse alla sola quarta parte la rovinosa gabella che pagavano le manifatture nazionali all’uscita;183 questa provvidenza era più d’un secolo che inutilmente la imploravano le suppliche dei pubblici, ma anche quest’ordine salutare non si eseguì che nel 1754, cioè 15 anni dopo. Nel Cesareo Real Dispaccio del 1711 29 ottobre leggonsi que221 ste parole: «Aunque para ello sea necessario disminuir alcunos dacios de los que se pagan por los materiales de que se componen estas Fabricas, pues en mi Real animo preponderar mas el bien y consuelo
de mis fideles Vassallos, que el presentaneo augmento de mi Real Patrimonio» e non contento Cesare di averlo ordinato una volta dovette ripettere inutilmente questi ordini salutari nel 1712 7 giugno,184 nel 1716 19 febbraro ed altre volte. Eresse nel 1717 una Giunta 222 di Ministri destinata a proteggere il commercio.185 Ordinò al Cancelliere di Corte e Stato Conte Sitzendorff di formare un piano per ridare la vita al commercio della Lombardia; lo fece il Ministro e fu di allontanare dagli Stati Ereditarj i drappi di Francia e di accordarvi libero accesso a quelli fabbricati nel Milanese e di ricevere noi in compenso dai Stati Ereditarj rame, cera, tele, ferro e panni comuni, così con una libera circolazione fra sudditi dello stesso Monarca si apriva l’adito a provvedere colle nostre manifatture una gran parte della Germania. Venne questo rispettabile progetto segnato nel 1723 a 10 marzo e corredato dalla approvazione Sovrana in questi termini: «Io approvo questo progetto e voglio che sia messo in esecuzione senza dilazione alcuna. Firmat. Carlo». Sei mesi passarono prima che questo progetto fosse comunicato al Senato. Quattro mesi restò in Senato prima che quel Tribunale eccitasse la Città. Quattro altri mesi passarono prima che la Città riferisse al Senato d’avere su di ciò eccitato la Camera de’ Mercanti. Ancora cinque mesi trascorsero, poi il Governo stimolò il Senato a rispondere. Rispose il Senato che aspettava il parere del Magistrato Ordinario, il Magistrato dopo un mese ancora espose il suo parere, circa un altro mese v’impiegò il Fisco per dire anch’esso le sue occorrenze, finalmente l’anno 1725 24 febbraro il Senato fece la sua consulta, cioè quasi due anni dopo. Dove terminasse questa consulta non si sa, poichè nel 1731 10 luglio il Governo fece nuova istanza al Senato perchè rispondesse sul progetto del Conte Sitzendorff. Così dopo otto anni era non solamente ineseguito, ma dimenticato un ordine de’ più benigni d’un provido Monarca. Tale fu l’esecuzione che si diede ad un Reale Dispaccio corredato con un «Voglio senza dilazione alcuna»;186 e questa ben augurata proposizione, ordinata per la seconda volta dalla Sovrana Augustissima nel 1749 11 ottobre con Cesareo Reale Dispaccio, si è finalmente eseguita in quest’anno 1768 ribassandosi reciprocamente i dazj fra gli Stati Ereditarj e noi a beneficio delle manifatture; il che quanto fa torto ai trapassati altrettanto è glorioso per l’illuminato e attivo Ministro che ha ottenuta una beneficenza tanto cospicua per le nostre fabbriche attraverso alle difficoltà e pregiudizj. Ogni onesto Cittadino benedirà il di lui nome e sarà un monumento di lui il risorgimento della industria nel nostro Stato.

Questi fatti provano bastantemente per loro stessi quanto siano benefiche le massime della Imperial Corte di Vienna e quanta lentezza e opposizione trovisi nel Milanese a secondarle ed eseguirle. Molto possono gl’interessi privati certamente, ma più assai vi contribuisce la viziosa indole del sistema corrotto. Quel dispotismo intermedio fra il Sovrano e i Sudditi che l’Augustissima Casa d’Austria ha ritrovato nel nostro Paese è stato bensì diminuito, ma tolto affatto non lo è. La felicità pubblica e la benefica verità mi fanno desiderare
che cessi finalmente il governo degli uomini e cominci il governo delle leggi, e che la sacra facoltà di far leggi sia gelosamente custodita presso del Trono dell’Augusta Sovrana. Conosco quanta difficoltà vi sia nell’intrapprendere questa riforma; forse non è sì grande quanto appare di primo slancio e fatta una volta si avrebbe un sistema chiaro e placido. L’uomo è un animale imitatore; il primo Dicasterio, cioè il Senato, è per legge sistema dispotico; dispotici sono divenuti gli altri Dicasterj, i Giusdicenti, i Corpi Pubblici, i Rappresentanti, le Comunità, gli Amministratori e uomini in carica d’ogni specie. Si è formato così un corpo opaco ed elastico fra il Sovrano e il Popolo. In questo secolo molti rami del dispotismo si sono tolti a beneficio pubblico e con somme grida e difficoltà, ma il tronco di quest’albero è tuttora intatto. Non dirò di più per ora su di questo argomento, richiamandomi la storia a riprendere il filo dei fatti.

Verso il principio del secolo presente era il commercio in uno stato di somma decadenza. La Camera de’ Mercanti era composta appena di 130 individui,187 laddove nel 1750 il loro numero ascendeva a 643;188 così le officine di Battiloro le quali anticamente erano 40, nel 1716 erano terminate tutte restandone una sola.189 Laddove nel 1750 undici botteghe di Battiloro esistevano in Milano, ora se ne contano sei. Al principio del secolo eranvi non più di 130 telari che lavoravano la seta in Milano e nel 1722 sino al numero di 744 ascesero;190 appena tre o quattro anni si sostenne questa manifattura, poichè nel 1726 erano già diminuiti dugento quaranta quattro telari, contandosene in Milano soli 500.191 Di presente i telari di seta sono 619.192 Sono dunque accresciuti in paragone del principio del secolo telari 489.

Fa maraviglia il vigore che presero improvisamente le nostre manifatture di seta verso il 1720. Alcuni dappoi ne attribuirono la cagione alla grida del 1720 11 giugno, con cui si bandirono le stoffe forastiere; di consimili gride anteriori 22 ne ho lette, nè mi lusingo d’averle conosciute tutte, eppure non si è mai veduta per esse rianimata l’industria nazionale. La cagione vera si è che nel 1720 fu la pe
ste in Marsiglia e che ogni commercio fra la Francia e noi restò interrotto. Di più gli affari interni della Francia erano nell’universale scompiglio che produsse l’abuso del sistema del Law, per il che mancandoci le stoffe francesi s’accrebbe la manifattura nostrale.193 Cessati questi disastri della Francia e riaperta la comunicazione ritornammo alla primiera dipendenza. Questi fatti dimostrano che, sebbene in questo secolo per particolari circostanze l’industria nazionale sia stata più animata in alcuni anni che ora non lo è, attualmente però siamo assai risorti, paragonandoci collo Stato in cui ci trovò il felice governo dell’Augustis.ma Casa d’Austria di Germania.

Chi dicesse che il nostro Paese non sia mai stato più ricco, popolato e industrioso di quello che lo è presentemente direbbe una proposizione che viene smentita da tutt’i fatti della storia e da tutt’i documenti degli archivj. Chi dicesse che il nostro Paese non è stato mai
nè più povero, nè più spopolato di quello che è presentemente direbbe pure un’altra proposizione che si prova falsa ad ogni tratto. Se paragoniamo l’attuale popolazione con quella del 1631 certamente allora era minore assai, ma conviene riflettere che l’anno precedente vi
fu in Lombardia una fierissima pestilenza che uccise nella Città di Milano 150mila anime per lo meno come si è veduto, e paragonare la popolazione dell’anno dopo la peste coll’attuale non conduce alla verità. Io sono entrato il primo negli archivj a disterrare i fatti che ho cavati dalla oscurità. Vi sono entrato con quell’amore imparziale per
la verità che è la scorta più sicura di scoprirla. La opinione è nata in
me dai fatti ed ho sempre avuto presente il detto di Baccone: «Quemadmodum interveniunt agyrtæ qui corpori naturali mederi profitentur, sic et corpori politico non desunt homines qui curationes
vel difficillimas suscipient … Sed cum scientiæ principia non gustarint sæpius excidunt».194

§ OTTAVO
Breve disamina di alcuni principj radicati, i quali hanno diminuito l’effetto delle beneficenze sovrane anche prima della metà di questo secolo.

Il primo corpo della Nazione arbitrario per legge è una insegna alzata agli occhi degli altri corpi, i quali tendono ad essere parimente arbitrarj nella giurisdizione loro. Dal Senato discendendo sino agli Abati della Camera de’ Mercanti trovasi che arbitrariamente gli Abati de’ Cambisti e Mercanti all’ingrosso si sono arrogato un diritto esclusivo di nominarsi l’un l’altro e rendere perpetua e personale la Magistratura che statutariamente doveva crearsi ogni anno per i voti de’ Comizj della Camera. Gli Abati della Camera di seta nel 1714 pretesero di fare altrettanto perpetuandosi il loro officio, per il che dovette la Camera far lite ed ottenere sentenza dal Senato.195 Ogni arte, mercatura e mestiere s’eresse sotto la Dominazione spagnuola in Corpo con statuti parziali, lo spirito de’ quali è di fare un monopolio dell’arte e rendere difficile agli aspiranti d’esservi inclusi per il tirocinio, le formalità e la spesa che importa la patente di Matricolato in moltissimi di questi Corpi chiamati Camere, Università, Scuole o Badie. Liti perenni, espilazione e pompe sacre hanno dappoi rovinata l’economia di queste separate Società a scapito della mercatura e questo spirito di scisma e monopolio è sempre stato funestissimo all’industria.


Un altro male è stato quello spirito di mistero e di cautela con cui 
si sono sempre voluti custodire i fatti della pubblica economia. La popolazione, la carta topografica, la natura del tributo, la fertilità del terreno, le importazioni ed esportazioni sono stati oggetti o ignorati o custoditi gelosamente e appena noti a chi aveva parte agli affari. Questa nebbia presentemente di molto è diminuita. Ma perchè il Sovrano trovi dei Cittadini illuminati da riporre nelle cariche sarebbe bene che sulle materie di pubblica economia s’introducesse maggiore libertà di stampare e non si riguardassero gli oggetti pubblici come una materia sacra e da trattarsi soltanto dagli uomini autorizati. Minori lamenti farebbero i Sudditi del Governo se fossero
più illuminati. Maggiore stimolo avrebbero i Ministri di accertar bene le operazioni, poichè l’occhio del pubblico è sempre più inevitabile di quello del Sovrano. Maggiori soccorsi e lumi troverebbero i Ministri nelle materie dibattute. Il mistero ad altro non giova che a coprire l’arbitrio degli Amministratori ed a lasciare il pubblico colla cecità: «Il faut avouer que rien n’est plus propre à former des sujets
à l’État et n’abrège plus les difficultés du travail que l’usage de traiter en public des matières économiques».196 Qualunque scritto sull’annona, sulle monete, sul ripartimento d’un tributo, sulle tariffe delle mercanzie e simili oggetti d’economia dovrebbe lasciarsi stampare, purchè o non sianvi principj di fanatismo o personalità. La Francia così ne usa senza inconveniente alcuno. Anche un errore stampato è un bene in questa materia, poichè colla libertà sorge chi sa confutarlo e nella disputa si schiudono le verità, le quali sono una sorta d’eletricismo della mente che non si sprigiona se non coll’urto
e coll’atritto; e queste verità si spandono nella Nazione e l’impostura va a gradi cedendo il passo alla ragione. I giovani particolarmente dotati di quello spirito patriotico illuminato, che è il più prezioso germe delle virtù d’un Ministro e d’un Cittadino, hanno allora cam
po di farsi conoscere. Il vero merito massimamente ne’ primi anni dell’età è timido e modesto; un sentimento di nobile orgoglio allontana dal battere la strada degli ossequj, onde difficilmente possono essere conosciuti talvolta gli uomini del maggior merito da chi deve distribuire le cariche; la sola strada di conoscerli è di permettere che possino pensare a lasciar conoscere i loro pensieri e subire la fortuna
del giudizio pubblico. Le massime radicate presso di noi sono perfettamente le opposte.

Ognuno dice, ognuno ripete la massima che l’«anima del commercio è la libertà» eppure ogni volta che s’è trattato di fare qualche operazione pubblica s’è imposto un nuovo vincolo con intenzione di rianimare il commercio. In vece d’imporre una maggior gabella su i panni e stoffe forastiere in concorrenza delle nazionali, col che senza attentare alla libertà si sarebbero vedute posposte per quel principio d’interesse che è il solo che determina gli uomini al commercio, si bandivano periodicamente senza effetto veruno ed accrescendo il numero delle leggi innosservate. In vece di protezione e soccorso, ai nuovi fabbricatori si concedevano i privilegj esclusivi per molti anni, togliendo così la libertà universale e liberando il fabbricatore dalla concorrenza che è lo sprone più attivo dell’emulazione e dell’industria. Leggi proibitive d’esportazione si suggerivano su i prodotti interni dello Stato197 e, col pretesto della pubblica abbondanza, la quale non nasce mai che dal commercio in fiore, s’è sempre pensato a vincolare ogni cosa. Siamo in un Paese abbondante di buttirro e la metà dell’anno abbiamo delle inquietudini per averne, siamo in un Paese copioso di grani e ci troviamo talvolta in angustie, abbiamo grandioso raccolto di sete e filugelli e i tessitori di filugello mojono di fame per non trovare la materia prima.198 In somma senza eccezione veruna noi scarsegiamo di tutt’i generi su i quali è proibita l’esportazione, benchè di essi sia naturalmente abbondante lo Stato. Questo apparente paradosso l’ho più diffusamente trattato nel mio scritto sull’annona, ed è secondo me una verità dimostrata in politica che le leggi vincolanti sono funeste all’industria. Il valore d’un genere proibito ad esportarsi decade, sorgono gl’incettatori e monopolisti, ne fanno grandiosi ammassi, corrompono i custodi della legge ed esce di quel genere dallo Stato più che non ne uscirebbe colla naturale libertà del commercio. Dice l’illuminato Sig.r di Forbonnais, che «Les personnes qui négligent ces connoissances sont toujours dans l’inquiétude et entrourées de soupçons; ce qui les porte à établir des gênes contraires à leur ob
jets, et à favoriser les monopoles qui présentent toûjours une fausse idée de Police spéculative».199 D’olio d’ulivo, di vino lo Stato non ne produce il bisogno; il commercio ne è libero, nè mai manca al Popolo a un prezzo discreto l’olio e il vino. Noi abbondiamo di butirro e di filugello; il commercio ne è vincolato, manca all’uso del popolo l’uno e l’altro. La falsa idea di police speculative ostinatamente regge in vista dell’interna sperienza che abbiamo sott’occhi, e questo spirito vincolante e che geometricamente vorrebbe compassare e diriggere l’industria d’un Popolo co’ domestici principj della economia d’una famiglia è un altro errore di massima universalmente radicato, il quale impedisce gli effetti delle più benefiche determinazioni sovrane.200 «Solent homines – dice il gran Cancelliere Bacone – de rebus novis ad exemplum veterum et secundum phantasiam ex iis præconceptam hariolari, quod genus opinandi fallacissimum est».201

§ NONO
Conclusione.

Dalla serie de’ fatti che rapidamente ho accennati se ne deduce che il Milanese fu un tempo uno Stato industriosissimo e ricchissimo, che fu desolato sotto il Governo della Spagna e che è risorto alquanto sotto l’Augusto Governo della Imperial Casa d’Austria. Delle operazioni fatte in quest’ultimi tempi io non ne ho voluto scrivere; i fatti sono a comune notizia e il ragionare dei contemporanei è sempre cosa odiosa e aliena dall’indole mia.

Sotto il Regno glorioso dell’Augusta Sovrana Nostra si è fatta una serie di sagge e clementissime operazioni per rianimare l’industria e promuovere la felicità di questo Stato. S’è posto un sistema alla Camera, circonscritto il numero de’ Stipendiati, stabilito un metodo per regolare le Regie Entrate per modo che è allontanato per sistema il pericolo di ulteriore sopracarico al Popolo. S’è perfezionata la grand’opera del Censo Generale, che può servire di modello agli altri Stati, per cui distribuito il tributo a proporzione delle forze d’ogn’uno, data una forma al governo delle Comunità, stabilito un tribunale custode di questa benefica legge, ogni suddito più debole è difeso dalle oppressioni del potente e tutti concorrono indistintamente ai pesi della Repubblica. Si è ordinata una rifusione de’ capitoli, gride e tariffe della Ferma generale per togliere gli ostacoli all’industria. Si sono protette nella nuova tariffa le interne manifatture, quasi tutte esenti da ogni tributo nell’uscita; si sono parimenti esentuate quasi tutte le materie prime da ogni tributo nell’entrata; si sono dal Regio fondo distribuite somme di denaro in ajuto ai nuovi introduttori di fabbriche; s’è eretto per fine un Supremo Consiglio destinato a proteggere l’industria nazionale, a regolar le monete, dare un sistema all’annona, proporre un nuovo codice benefico di leggi commerciali, pensare in somma e diriggere tutti gli oggetti della economia pubblica di questo Stato. Non poteva immaginare di più il più zelante Patriota, nè beneficare di più l’illuminata Clemenza dell’Adorabile Sovrana. In mezzo a tutte queste cospicue e materne beneficenze, l’industria languisce e la popolazione dello Stato va scemando.

Queste tristi verità appajono la prima dal bilancio delle importazioni ed esportazioni. Il primo spoglio fatto per ordine superiore su
i libri della Mercanzia del 1762 dà il commercio passivo in quell’anno di più d’un milione e mezzo. Lo spoglio che or ora si è terminato sotto altra direzione su i libri del 1766 fa accrescere il passivo commercio di più di due milioni al di là della prima operazione, il
che farebbe passivo il commercio nostro nel 1766 di tre milioni e mezzo.202 Questa è una dimostrazione pur troppo forte del deperimento attuale. La seconda verità appare dallo stato delle anime dell’Ufficio del Censo, ove vedesi che dal 1763 al 1767, cioè in questi ultimi cinque anni, la popolazione delle terre è diminuita di più di nove mila anime, il qual fatto autentico si conferma anche dalle osservazioni che il Consigliere Visitator generale Conte di Wilzek ha rimesse al Supremo Consiglio unitamente agli atti della sua visita per lo stato dell’anno scorso 1767.

V’è fra di noi l’ereditato fermento che corrompe le più sante benaugurate determinazioni della Corte. Sta questo nelle leggi municipali, nella tradizione delle massime trasmessa dai nostri padri nati e cresciuti sotto un governo arbitrario, nè si potrà togliere sin tanto che il sovrano non stenda la sua benefica destra sulle cagioni. A me basta per ora d’avere indicati alcuni punti di vista, quali i fatti della storia me gli hanno presentato: «Les désordres accumulés pendant des siècles ne laissent au zèle des vrais Citoyens et des hommes d’État qu’un sentier glissant environné de précipices».203

 

NOTE

1 De Ærario, lib. 2, cap. 36, n. 2, pag. 598, ædit. Norimberg, 1671.

2 Il titolo è: Informazione del danno proceduto a Sua Maestà ed alle Città dello Stato dall’imposizione dell’Estimo della Mercanzia e dall’accrescimento del terzo del dazio e dall’introduzione delli panni di lana ed altre merci forastiere ed all’incontro dell’utile che ne risulterebbe a levarli. Rappresentata da Giovanni Maria Tridi cittadino comasco stampato prima della metà del secolo scorso; è libro ragionato e raro al dì d’oggi.

3 Alleggiamento dello Stato, pag. 695.

4 Pag. 157.

5 Rerum italicarum scriptores, tom. VI, pag. 711. 


6 Morì Ottone Visconti nel 1295.



7 Pag. 339.

8 Merula, Antiquit. Vicecomit., pag. 5.

9 Rerum italicar. scriptor., tom. XII, pag. 1034.

10 Veggasi il Corio nell’anno 1389.

11 Corio, fog.o 212 tergo.

12 Corio, fog.o 214 tergo.

13 Rerum Ital. Scrip., tom. XXII, pag. 946.

14 Rerum ital. scrip., tom. 19, pag. 105.


15 Andrea Billii Rerum ital. scrip., tom. 19, pag. 29.


16 Cioè dell’anno 1492, nel quale il Corio aveva trentadue anni, come si raccoglie dalla di lui Storia.

17 Ediz. seconda Milano del 1619, pag. 30.

18 Su di che veggasi l’Essai sur les monnaies ou réflexions sur le rapport entre l’argent et les derrées, à Paris, 1746, in 4°, pag. 60.

19 Veggansi il Discours preliminaire de l’Histoire de Paris par Félibien et revûe par le P. Lobineau: ivi dice a pag. 10: «Les habitans y passent le nombre de sept cents mille et on y compte plus de vingt un mille sept cents maisons». Secondo quest’autore sarebbero più di trentadue anime per ogni casa, il che pare troppo. Il S.r La Caille ha stampata la Description de Paris nel 1714; e dettagliatam.te marcandoci il numero delle case per ogni strada ci fa vedere che le case della città e sobborghi sono in tutto n° 21.800.

20 Tom. X, pag. 41.


21 Rer. ital. script., tom. 22, pag. 959.

22 De Bello Gothico, lib. 4, cap. 17.

23 Tom 2, disert. 25, pag. 400.


24 Pag. 33.


25 Rer. ital., tom. 22, pag. 954.

26 Esprit des Loix, liv. XXI, chap. XVII.

27 Bembo, Rerum venetarum historiæ. Liber VI, pp. 189, 197.

28 Fol. 234. 


29 Fol. 249.


30 Fol. 224 t.o.

31 Fol. 228.


32 Fol. 238.


33 Fol. 239.

34 Eodem.


35 Fol. 208 t.o.

36 Fol. 144.

37 Fol. 145.

38 Documento segnato n° 3 unito alla consulta della Real Giunta del Censimento a Sua Maestà del 1732 7 giugno.

39 Statuti de’ lavoranti di seta, stampati nel 1591, pag. 43.

40 Documento n° 3 annesso alla consulta del Censimento 1732 7 giugno.

41 1732 7 giugno, documento n° 3.

42 Documento n.° 3 1732 7 giug.o.

43 Consulta del Sen.o 1668 15 m.zo.

44 Voltaire, Hist. gen., tom. 3, pag. 43.



45 Remarques sur le commerce et la navigation, pag. 5.



46 Remarques sur plusieurs branches de commerce et de navigation, pag. 139. 


47 Annali d’Italia, tom. 10, pag. 117. 


48 Descrizione di Missier Ludovico Guicciardini fiorentino di tutti i Paesi bassi, altrimenti detti Germania inferiore, in Anversa, 1567, pag. 120.

49 Historia dell’antichità di Milano del Morigia, stampata in Venezia, 1592, pag. 200.

50 Stamp. in Mil.o, 1587, pag. 147.

51 Non credo esatto il notificato de’ Macellari; anzi da alcune notizie avute da chi ebbe l’impresa civica della Macina vedo che per adequato si calcolano più di 5.000 bovi e indici mila vitelli di consumo in Milano. È vero che oltreciò vi è il contrabbando da calcolarsi ed i bovi e vitelli che i particolari Cittadini, conventi, monast.i ecc. amazzano, i quali sono soggetti alla notificaz.e e dazio, ma q.sto non vi sarà stato meno al tempo di Barnaba Piliasco. Nei calcoli di economia pubblica non si può mai pretendere la rigorosa dimostrazione; si deve stare alla probabilità che è la sola certezza politica. Basta cercare imparzialmente la verità e annunziarla quale scaturisce dalle ricerche fatte.

52 Annali d’Italia, tom. X, pag. 220, 222, 291 e 316.


53 Nov. Constituz., tit. De Senat., pag. 5.


54 Nov. Constituz., titul. De oficio et iurisdictione diversorum Iudicum, pag. 51.

55 Esprit des Loix, liv. XI, cap. 6.


56 Cioè nel 1534 e nel 1545, come dal Somaglia, Alleggiamento dello Stato, p. 699.

57 Somaglia, pag. 699.


58 Somaglia, pag. 700.


59 Su questo carico ha stampata la sua scrittura Gian Maria Tridi nel 1640 col titolo: Informazione del danno proceduto a S. M. ed alle Città dello Stato dall’imposizione dell’Estimo della Mercanzia e dell’utile che ne risulterebbe a levarlo. V’è stampata nel 1595 la Relazione del riparto dell’Estimo della Mercanzia della Città di Milano fralle Camere, Università ecc. Ivi il valor capitale del commercio di Milano si fa ascendere a £ 21.316.145.12 e l’estimo imposto è scudi 27.958 sol. 79. Dal 1580 al 1595 vedesi diminuito il valor capitale del commercio di Milano di £ 8.196.337 non so se per i ribassi seguiti nelle tasse ovvero per reale deperimento del fondo in que’ 15 anni. Dal confronto che ho fatto della somma totale e delle parziali trovo che, posto lo scudo d’allora come si deve a soldi 110, l’imposizione fu di soldi 14 per ogni lire 100, ossia £ 7.4.2 per ogni £ 1.000. Da ciò ho conosciuta la falsità delle opposizioni presentate al Senato nel 1662 dagli Orefici e dai Ricammatori, i quali asseriscono che l’imposizione dell’Estimo del Mercimonio fosse fatta in ragione d’uno per mille esagerando con questa massima il loro antico traffico; gli Orefici di zecchini 450.000; e i Ricammatori di zecchini 60.000; quando dalla citata relazione autentica consta che gli Orefici e Giojellieri trafficavano per £ 134.271 e furono tassati in scudi 176 e soldi 12; ed i Ricammatori nemmeno si vedono nominati, tanto poco era allora in uso la loro arte. Errò pure il Tridi asserendo che scudi 25mila fossero allora imposti alla Città di Milano: furono realmente scudi 27.958, come appare da quella relazione stampata contemporaneamente per servire di norma al tributo. L’Estimo del Mercimonio fu la sesta parte del carico mensuale, cioè scudi annui 50mila addossati al Mercimonio, il che si riscontra dal m. s. antico che è intitolato: «Valor Capitale dell’Estimo generale delle merci dello Stato di Milano, conforme risulta dal Conto di Barnaba Pigliasco Ragionato dell’Estimo 1594». Contraddizioni e inviluppi spinosissimi ho moltissime volte incontrato confrontando i molti documenti, Autori e carte, d’onde ho cavate le cognizioni della passata amministrazione di questo Stato. I fini privati hanno offuscato molto, ma la indolenza e la facilità di ricopiare indistintamente hanno accresciuta la confusione; molti sono gli uomini dei quali si può dire: «cum indagare vera pigeat ignorantiæ pudore mentiri non piget». Quest’Estimo del Mercimonio occupò i Prefetti dell’Estimo per ben 50 anni a organizzarlo. Vedasi nella relazione de’ Prefetti dell’Estimo al Duca di Terra nova nel 1590: «che questo Estimo era cosa difficilissima per natura e per difetto del soggetto, poi per essere quest’Estimo cosa nuova, non più fattane una simile a questa per il passato che si sappia, dalla quale se ne potesse pigliar esempio alcuno e come cosa nuova aveva parimenti bisogno di nuova invenzione». Dopo i cinquant’anni di fatica a formarlo, quattro anni ancora si diferì a porlo in esecuzione, come vedesi dal Piazzoli nel Discorso sopra l’origine delle gravezze dello Stato di Milano, stampato nel 1614, pag. 10; e nella Relazione del Censimento, pag. 13. Il fonte dal quale si trasse il valor capitale dell’annuo commercio d’allora fu lo spoglio de’ libri della Mercanzia.

60 Dati e Tasse diverse, stampate nel 1686, pag. 157, e Relazione de’ Fabbricatori di panno al Senato 1662.

61 Théorie de l’impôt, pag. 119.

62 Risposta della Congregazione dello Stato al progetto del Conte Prass, dove si accennano i reali dispacci degli anni 1573 e 1574 che ordinano la reintegrazione di questi sussidj non mai stata eseguita.

63 L’ordine venne nel 1547 10 settembre come si vede dal Piazzoli, pag. 8; e dal Somaglia, pag. 157. Il Mensuale fu imposto dal Duca Francesco Primo, ma lo fu per una volta sola. Il Somaglia asserisce che questo carico allora fosse di scudi quattro cento mila da pagarsi in sedici mesi, ma il Piazzoli, che ha stampato circa quarant’anni prima del Somaglia, assicura che fu di scudi 300mila; così pure attesta il Tridi, che stampò 13 anni prima del Somaglia. Si distribuirono questi 300mila scudi di nuovo tributo a norma della popolazione di 85 anni prima, cioè dal tempo in cui il Duca Francesco Primo impose la regalia del sal forzoso nel 1462 come si vede e dal Somaglia, pag. 87, e da un antico m. s. presso i Ragionati Generali dello Stato. Questo metodo di ripartire il carico si trovò ingiusto per i cambiamenti avvenuti nella popolazione; si pensò a ripartirlo su i fondi stabili dei quali con somma precipitazione si fece la stima su principj fallacissimi, del che veggasi Piazzoli, pag. 9 e Relazione del Censimento, pag. 14.

64 Questo tributo fu di due scudi il mese per ogni Cavalleggero e scudi 4 e soldi 91 per ogni uomo d’armi imposto nel 1560, come dal Piazzoli, pag. 14, e Somaglia, pag. 211.

65 Nel 1563 come dal Piazzoli, pag. 15. Finalmente s’accrebbe un altro tributo allo Stato col nome Quattordici Reali nel 1575. Piazzoli, pag. 11.

66 Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, chap. 18. 


67 Pag. 29 et 145.

68 Al tempo della pubblicazione de’ statuti s’è veduto nel capo antecedente che erano espressam.te proibite le Università e preventivamente cassate e dichiarate nulle tutte le leggi che potessero farsi per vincolare o ridurre a corpo. Posso oltre di ciò asserire d’avere io stesso anni sono esaminato la maggior parte de’ statuti di questi Corpi con molta pazienza e tedio e d’avere ritrovato che quasi tutti ebbero origine nel secolo XVI. Di alcuni ne conservo la memoria e sono i Statuti de’ mercanti d’oro, argento e seta stampati: essi sono del 1504 approvati dal Senato ai 29 aprile, al capo 8 contengono il monopolio esclusivo d’ogni altro Cittadino. I Statuti dei Tessitori d’oro, argento e seta, approvati dal Senato nel 1509 20 decembre e stampati, allo statuto 44 contengono il monopolio. I Statuti dei Mercanti Merzari Cordari, approvati dal Senato nel 1560 e stampati; essi Mercanti Merzari si lagnavano nel loro memoriale stampato pure nel libro di essi statuti che non erasi «provisto de’ ordini et statuti a sufficienza» e che si ammetteva nella loro arte «ogni uno senza distinzione», perciò supplicarono ed ottennero statuti e monopolio. I librai e stampatori formarono i loro statuti nel 1589 ed ebbero l’approvazione del Senato a 25 ottobre, sono stampati ed al capo 15 contengono il monopolio. I Battifoglj formarono i loro statuti nel 1591, approvati dal Senato ai 25 feb.o, ed erano liberi in prima come vedesi nella supplica di essi: «Cussores auri et argenti istius Alme Civitatis Mediolani hætenus ratione eorum exercitii sine lege et sine statutis». Questi statuti gli ho veduti manoscritti e al capo 23 contengono il monopolio. Persino i venditori dei polli si sono eretti in Università nel 1601 ed hanno i loro statuti approvati dal Senato a 1 marzo contenenti al cap. 15 il monopolio e sono stampati. Altri molti statuti ho riconosciuti dei quali non conservo le memorie, bensì posso asseverantemente assicurare che quasi tutti questi corpi d’università ebbero privativa, statuti proprj e origine legale nel secolo XVI.

69 Lib. VIII, fra Paolo Sarpi.

70 Storia d’Italia di Missier Francesco Guicciardini, lib. 17, pag. 504, edit. Venet., 1565.

71 Annali d’Italia, tom. X, pag. 484.

72 Quintilian., lib. 3.

73 David Hume, Hystoire de la Majson Stuard sur le Trône d’Angleterre, tom. I pag. 10. 


74 Histor., lib. III.



75 De Ærario, lib. 1, cap. 6, n. 17, p. 159, ædit. Norimberg. 


76 Epist. XXIII, lib. VI.


77 Recherches sur les finances de France.

78 Annali d’Italia, tom. XI.

79 Nel 1604 14 gennaro come dai Capitoli stampati di esso dazio.


80 Ciò fu nel 1613 come vedesi dal Bilancio generale della Città di Milano, stampato nel 1631.


81 Piazzoli, pag. 6.

82 Veggasi il citato Bilancio generale che asserisce essere stata la Città costretta a questa imposizione per somministrare al Sovrano £ 334.000.


83 Istruzione del Marchese Cesare Visconti destinato Ambasciadore della Città di Milano alla Maestà del Re N.ro Sig.e de’ 31 ottobre 1727 dal quale m. s. vedesi che l’instituzione del Bollino fu fatta nel 1626.

84 Nel 1637 come dai Capitoli stampati dell’Impresa de’ denari 6 dell’olio, dalla consulta del Sen.o 1725 14 feb.o, e consulta della R. Giunta del Censimento 1732 7 giugno.

85 Somaglia, pag. 699 et 700, e Capitoli dell’impresa della Macina.

86 Nel 1737 come dalla consulta del Censimento 1732 7 giug.o § 73; Somaglia, pag. 11 e pag. 689. Rappresentanza de’ Mercanti della università mag.e di Crem.a alla Giunta del Censimento.

87 La sola Città di Cremona dal 1600 al 1612 di straordinarj sussidj sborsò scudi 162.818, come si vede da una scrittura stampata nel 1613 che s’intitola: Stato della Città di Cremona.

88 Ciò fu nel 1613 come dal Bilancio generale della città di Mil.o stamp.o nel 1631.

89 Nel 1621, come dal Somaglia, pag. 13 ivi vedesi che l’annata regia fu di lire 900.000.

90 Cominciati ad imporsi nel 1622 non essendovi per l’addietro che un perticato solo. Somaglia, pag. 364 e 366.

91 Oltre le istruzioni del Marchese Visconti lo attesta anche il Somaglia a pag. 13.

92 Nel 1600 a 24 luglio come dai Capitoli stampati per l’affitto della Mercanzia del triennio 1607, 1608 e 1609, al cap. 99.

93 Nel 1600 a 17 lug.o come dal libro Dati e tasse stampato nel 1686 a pag. 152.

94 Nel 1684 si fecero queste due imposte come dalla consulta del Censimento 1732 7 giugno § 73 e dalla rappresentanza della Università Mag.re de’ Mercanti di Cremona alla Giunta del Censimento.

95 Piazzoli, che ha stampato nel 1614, dice che in quell’anno si fece l’aumento del terzo de’ dazj: autore è dunque contemporaneo, veggasi a pag. 32; ma Somaglia lo vuole fatto nel 1613, così a pag. 7 e pag. 684. Il Tridi lo vuole fatto nel 1616 e porta gli affitti dell’Impresa della Mercanzia del 1604 sino al 1637. Il libro Dati e tasse, stampato nel 1686, a pag. 73 vuole che quest’aumento del terzo sia stato fatto in Cremona nel 1613 e a pag. 157 lo vuole nello stesso anno posto in Melegnano. Il Negri nella dissertazione storico legale che ha per titolo Della vera instituzione de’ dazj, stampata in Cremona nel 1750, riferisce a pag. 16 il decreto del Magistrato del 6 ottobre 1613, che per Cremona ordina questo accrescimento del terzo. Pare dunque l’errore del Tridi evidente, e a conciliare gli altri basta il supporre che appunto l’ordine sia stato dato alla fine del 1613 e siasi posto in esecuzione al principio dell’anno seguente, il che è naturale. Il Tridi altronde su questo proposito s’è evidentemente ingannato anche nella tavola ch’egli stampa degli affitti della Mercanzia dall’anno 1604 sino al 1637. Vedesi in essa la tavola che la regalia nel triennio 1606, 1607 e 1608 sia stata affittata a £ 1.481.213. Ma dai Capitoli stampati di quel triennio medesimo appare che è stata affittata realmente a Hieronimo Mazenta per lire 1.500.000, il che porta l’errore del Tridi di lire dieciotto mila settecento ottanta sette di meno; tanto più dunque cresce la ragione per istabilire l’epoca di questo accrescimento del terzo de’ dazj all’anno 1614, benchè il Tridi la fissi due anni dopo. So che questo punto interessa poco per sè, ma dopo la fatica di anni che ho dovuta impiegare per informarmi della storia economica del mio Paese, non vorrei che coll’appoggio di un qualche scritto antico si ponesse in dubbio l’esattezza de’ fatti, poichè nelle epoche e nelle minute circostanze pochi sono i fatti ne’ quali ho trovate le testimonianze tutte d’accordo.

96 Il che si vede dalla rappresentazione di Don Luigi di Castiglia stampata al principio del libro Dati e tasse del 1686.

97 Capitoli stampati per l’affitto della Mercanzia del triennio 1607 e 1608 e 1609 ai capitoli 55 e 56.

98 Théorie et pratique du commerce et de la marine, edit. d’Hambourg, pag. 500. 


99 Nov. organ. scient.

100 Relazione del presentaneo stato del Ducato del Fossati al Senatore Picenardi 
1631 11 agosto e Somaglia, pag. 186. 


101 Parole del Capredoni nella scrittura intitolata: «Cause e rimedj del mal stato del Contado di Cremona 1631».

102 Cap. 22.


103 Statuti, stampati nel 1480, foglio 161 tergo.


104 Annali d’Italia, tom. XI.

105 Moltissime scritture contemporanee lo attestano, fralle quali la Supplica de’ Cremonesi a S. M. stampata nel 1631; le istruzioni manoscritte date dalla Città di Milano sotto il giorno 31 ottobre 1627 al Marchese Cesare Visconti destinato Ambasciatore a Madrid; la relazione del Sindico del Principato di Pavia Fran.co Beccaria de’ 20 ottobre 1631; la consulta della Città di Milano 4 febbraro 1633 ed il Somaglia, pag. 2.

106 Esprit des Loix, livr. 23, ch. 21.

107 La giustificazione di questa somma trovasi nelle seguenti scritture presentate allora al Senato e sono: Relazione del presentaneo Stato del Ducato del Fossati al Senatore Picenardi 1631 11 agosto; Raguaglio del bilancio generale della Città di Milano dei debiti ch’ella tiene di presente e delle cause onde sono provenuti, stampato 1631; Stato della Città di Cremona; Relazione dello Stato di Pavia trasmessa al Senato dall’oratore Luigi Belcredi 1731 20 giugno; Supplica dei Cremonesi a Sua Maestà, stampata 1631; Relazione del Sindaco del Principato di Pavia Fran.co Beccaria 1631 20 ottobre; Nota de’ danari spesi dalla Città di Lodi di Basilio Mancini, Ragionato, 1631; Nota de’ danari spesi dal Contado di Lodi di Bassano Vago, Ragionato, 1631 27 giugno; Lettera di Tiberio Azzato, Oratore di Lodi, al Senato 1631 23 giugno; Relazione della Città di Como del Ragionato Maggio 1631 19 novembre. Appare che i debiti erano: 


Il Ducato                                                     £  5.780.959
Di Cremona scudi n° 1.693.986 a £ 5.10     £ 10.801.923
Di Pavia scudi 800.000
                                £   4.400.000
Di Lodi
                                                       £   6.130.553
Del Contado di Lodi
                                   £     622.442
Di Como                                                    £   1.804.194
In tutto                                                      £  29.540.071

Oltre ciò la Città di Milano sbilanciava ogni anno per lire 676.883 e il Principato di Pavia non dice la somma dei debiti, ma soltanto asserisce che i carichi sorpassavano le rendite.

108 Alleggiamento dello Stato, pag. 186 e 187.


109 Appajono dalle scritture intitolate: Nota de’ debiti del Contado di Lodi 1662 e Relazione del Contado di Como, stampato 1662.

110 Tom. Culpepper.


111 Recherches et considérations sur les finances de Franc., tom. I, pag. 96.


112 Fra gli altri la Supplica de’ Cremonesi a S. M. stampata nel 1631.


113 Statut. stampati nel 1502 Foglio 50 tergo.

114 Somaglia gli fa ascendere a 180mila pag. 500. Dalla relazione di Casal Mag.re al Senato del 1663 3 aprile si vede che più di 10mila persone perirono di peste in Casal Maggiore, dove nell’anno scorso 1767 si contavano anime non più di 7.415. In Milano in un giorno solo si contarono morti 1.300 abitanti, Somaglia, pag. 453. E il Ripamonti, cronista della città di Mil.o, che stampò il suo libro De Peste nel 1640 assicurandoci: «ego nihil compositum ad ostentationem scenæ gaudentis incredibilibus, sed spectata cuncta hisce oculis et sæpe defleta narraturus sum», ci avvanza intorno la popolazione di Mil.o che: «trecenta millia capitum aliquando censa fuerunt, ducenta habitavere ante Cladem».

115 Lib. 8, cap. 12, decad. 1, ædit. Paris, 1735, tom. 1, pag. 848.



116 Ioseph Ripamontii De peste, pag. 84.



117 Memorie delle cose notabili successe in Milano intorno il mal contagioso l’anno 1630, stampato in Milano da Giuseppe Maganza, pag. 49.

118 Cicero, De divinat., lib. 2. 


119 Memoires pour servir à l’histoire des finances, pag. 88.

120 Tridi scrive che dal 1616 al 1624 erano scemati 24mila lavoratori. Le Istruzioni citate al Marchese Visconti del 1627 dicono mancato un terzo dei Trafficanti. La consulta del Censimento del 1732 7 giugno dice di que’ tempi che «fu avvertito che nella sola Citta di Milano mancavano 24mila persone che lavoravano». Il Duca di Feria Governatore eccitò il Senato a consultare i rimedj per impedire l’evasione de’ sudditi nel 1631 10 Aprile e da essa pure si vede di quanta entità fosse.

121 Grida del Duca di Mantova Carlo I 1632 9 dicembre promette esenzione di carichi per 15 anni a chi verrà a stabilirsi ne’ suoi Stati. Editto di Aloise Zorzi Proveditor Gen.le di Terra ferma dato in Verona 1632 30 ottobre di simile invito.

122 Tridi aut.e contempor.eo poichè stampò nel 1640.

123 Politic.

124 Annali d’Italia, tom. II.


125 Somaglia, pag. 2.


126 Dal 1620 al 1631 vi fu quasi continua guerra in Lombardia. Nel 1635 ricominciò la guerra, la quale durò poi sino al 1659 cioè alla pace de’ Pirenei.

127 Dispaccio di Filippo IV 20 marzo 1631.

128 Fralle le principali vi sono quelle citate a pag. 55 nota (a)
[nota 107].

129 Appare ciò dalla consulta della Città 1633 4 feb.o.

130 Dispaccio reale del 1634 22 lug.o al Cardinale Infante.


131 La Sicilia nel 1646 ed i Napolitani nel 1647 colla famosa sollevazione di Tommaso Agnello detto Masaniello.


132 Dispaccio del 1660 30 novembre citato nella scrittura stampata col titolo: Riflessioni sopra un nuovo sistema di taglia ecc.

133 Dispaccio del 1662 19 maggio.

134 Così leggesi nella scrittura intitolata: «Humilis responsio Sindicorum Civitatis Laude» ecc.

135 Lettera del Senatore Luca Pertusati Pretore di Crem.a al Senato 1674 15 mag.o.

136 Relazione dello Stato di Tortona al Senato 1666 28 dicembre.


137 Consulta del Senato 1662 8 giugno.


138 Pag. 2 e pag. 3.

139 Veggasi David Hume, Discours politiques sur l’argent e Ustariz, Théorie et pratique du commerce, pag. 26, edit. d’Hambourg.

140 I Confettori di corame, i Calzolari, i Pellatari, i Prestinari di mistura, gli Speziali, gli Scarpinelli, i Macellari sono attualm.te i più carichi di debito.

141 Veggasi la scrittura stampata col titolo: Breve informazione di fatto in ordine al Rimplazzo. E l’ordine governativo al Magistrato Ord.o del 1762 21 luglio segnato dal Secret.io Pedro de Orazio.

142 Veggasi il libro Dati e tasse diverse stampato nel 1686.

143 Del 1664 18 marzo.

144 Dispaccio del 1671 citato nella Risposta della Congregazione dello Stato al progetto del Co. Prass. Di altri simili si vedono citati nelle istruzioni del M.se Cesare Visconti del 1627 e sono sotto le date 1611 10 marzo, 1612 20 ottobre, 1616 12 giugno, 1618 18 feb.o e 1620 11 giugno, nei quali dispacci o si ordina o si promette la reintegrazione allo Stato.

145 Dispaccio del 1671 11 luglio.


146 Consulta del Senato 1713 8 giugno.


147 Consulta del Senato 1688 15 m.zo.


148 Veggasi il citato dispaccio 1671 11 luglio.

149 Fra le molte scritture che ho vedute accennerò soltanto la sentenza del Sen.o 1674 12 lug.o contro i Reddituarj di Como, la relaz.e al Sen.o del Podestà di Como D. Gius.e Galvez de Valenzuela 1674 15 maggio; la relazione al Senato del Pretore di Cremona Sen.re Luca Pertusati 1674 15 maggio e molte altre ecc. 


150 Dalla Consulta del Senato 1713 17 giugno vedesi che circa nel 1679 30 edificj di seta erano scomparsi da Milano. 


151 Dispaccio reale del 1679 4 gennajo.



152 Montesqu., Espr. des Loix, liv. XX, chap. IV.



153 Recherches et considérations sur les finances de France, tom. I, pag. 101. 


154 Théorie de l’impôt, pag. 191, edit. du 1760.

155 Chap. IX, pag. 105.


156 1 lug.o 1679

157 Consulta del Sen.o 1681 14 gen.o.

158 Nell’anno 1679 due volte si pubblicò questo bando colle gride del 24 gennajo e 25 settembre.

159 Grida del 1679 15 marzo.


160 Baccon, Impetus Philosophici.

161 Questo si abolì nel 1681; come dal libro stampato Dati e tasse del 1686 a pag. 40 ed era stato creato nel 1654.

162 Si vede in seguito dalle consulte del Senato 1713 17 giugno e 1725 24 febbrajo; l’anno in cui si eseguì fu nel 1739.

163 Annali d’Italia, tom. XI, pag. 324.

164 Risulta dalla scrittura stampata nel 1631 col titolo Ragguaglio del bilancio generale della città di Milano, dei debiti, ch’ella tiene di presente e delle cause onde sono proceduti. 


165 Regole del Banco, stampate nel 1698, pag. 50 e seg.ti.

166 Relazione del Censim.to, stamp.a, pag. 59.

167 Relazione del Censim.o, pag. 65.

168 Raccordi della Città di Lodi al suo oratore 1662 2 agosto.

169 Dispaccio del 1682 21 mag.o e consulta del Censimento 1732 7 giug.o.


170 Convocato de’ Filatori di seta stamp.o nel 1698 7 ap.le e consulta della Città al Sen.o 1699 31 gen.o.

171 Davenant. Vid. Considérations sur les finances d’Espagne, pag. 72.

172 Cornel. Nepot., In vita Hannibalis.

173 De legibus, lib. 3. 


174 Annali d’Italia, tom. 12, pag. 48.

175 Veggasi la stampa: Regolamento fatto nello Stato di Mil.o da Sua Al.za Ser.ma Il Sig.r Principe Eugenio di Savoja ecc. per l’anno 1707 a 28 gennaro e l’altra Breve informazione di fatto intorno il Rimplazzo.

176 Baccon, De augm. scient.

177 Considérations sur les finances d’Espagne, pag. 176. 


178 Tutto ciò consta dagli atti della visita del Consig.e Conte Wilseck del 1767.

179 Locke, Considération ecc., pag. 95.

180 Veggasi la risposta degli Abbati e Consiglieri della Camera de’ Mercanti al Vicario di Provisione, stampata nel 1710 21 febbraro.

181 Vedi consulta del Senato 1725 24 febbraro.

182 Consulta a S. M. del 1732 7 giug.o § 81.


183 Capitoli stampati della Mercanzia affittata al Conte Biancano nel 1739.


184 Consulta del Senato 1712 14 novembre. Altra consulta del Senato 1713 7 giugno e consulta della Congrega.ne dello Stato al Magis.to Ord.io 1724 11 feb.o.


185 Fu composta da Don Giuseppe Araciel, Don Benedetto d’Adda e Marchese Gioanni Carlo Arbona; la più antica consulta che abbia veduta di questa Giunta è del 1717 18 giugno.

186 Per giustificare le asserzioni riscontrate da me sulle scritture originali apporrò le date esattamente: nel 1723 10 m.zo si formò il dispaccio; 1723 16 settembre il Governo lo propose al Sen.o; 1724 27 gen.o il Sen.o eccitò la Città; 1724 14 maggio rispose la Città al Sen.o d’avere eccitati i Mercanti; 1724 20 ottobre il Governo fece istanza al Sen.o per la risposta e il Sen.o eccitò il Fisco; 1724 10 novembre rispose il Fisco che aspettava la consulta del Magis.to Ord.io; 1724 16 novembre il Senato riferì la risposta del Fisco al Governo; 1724 2 dicembre il Governo sollecitò il Senato ed il Magistrato; 1724 15 dicembre il Magis.to fece la consulta; 1725 1 gennaro il Governo passò essa consulta al Senato; 1725 9 feb.o il Fisco disse il suo parere; 1725 24 feb.o il Sen.o fece la consulta; 1731 10 luglio il Governo stimolò il Senato a dare finalmente risposta al progetto. 


187 Consulta della Giunta Civica del Mercimonio al Governo 1749 31 ottobre, alla quale sta annesso un memoriale della Cam.a de’ Mercanti a S. M. del 1714.

188 Erano nel 1750 nella Cam.a de’ Mercanti:

Cambisti                        n° 230
Per le merci all’ingrosso   “ 400
Per le lane                        “   13
In tutto
                          n° 643

Il che appare dalla tabella esistente presso l’Uff.o de’ Riparti Comunali del Censo intitolata: Dimostrazione dello Stato attivo e passivo di ciascheduna Università de’ Mercanti ed Artefici della Città di Mil.o ragguagliato ad un anno Comune sop.a le risultanze del triennio 1747 1748 e 1749 e presentemente sono 568.

189 Questa portava tutto il peso dell’estimo di lire mille e duecento annue, come appare dalla consulta del Vicario di Provvisione e Delegati del Mercimonio.

190 Consulta della Real Giunta del Mercimonio 1723 14 giugno. Consulta del Vicario di Provisione e Conservatori del Patrimonio alla Giunta di Governo 1726 14 maggio e consulta del Senato 1730 2 giug.o.

191 Consulta del Patrimonio 1726 14 maggio. Attestato de’ Consoli, Abbati e Tessitori di seta del 1729 20 dicembre.

192 Dalla Relazione fatta dall’Inspettor generale delle fabbriche, Consigliere la Tour 12 maggio 1766, sono in Milano li telari di seta seg.ti:

Stoffe di seta, telari            n° 303
Calze di seta
                        “ 149
Galloni d’oro, arg.o e seta    “ 134
Galloni di seta                      “  18
Nastri di seta                        “  15
In tutto                              n° 619

193 La Giunta civica del mercimonio nella consulta del 1749 31 dicembre attribuisce il susseguente deperimento al tacito consenso dato dal governo per la introduzione de’ drappi di Francia affine di non deteriorare la impresa della Mercanzia che nel 1723 andava per economia della Camera.

194 Baccon, Sermones fideles.

195 Oblazione de’ Mercanti di seta, oro ed argento al Sen.o. Sentenza del Sen.o 1714 1 feb.o e consulta del Sen.o 1715 11 ap.le.

196 Réflexions sur la nécessité de comprendre l’étude du commerce et des finances dans celle de la politique, pag. 76.

197 Veggansi fra le altre la supplica della Cam.a de’ Mercanti al Sen.o del 1714, consulta del Trib.le di Provis.e 1714 22 giug.o e consulta del Sen.o 1714 17 settembre.

198 Veggasi su di ciò la relazione fatta al Supremo Consiglio dall’Inspettore Generale delle Fabbriche, Consigliere La Tour, 12 maggio 1766. Ivi parlando di esse così leggesi: «Niente in verità è più compassionevole che lo stato di questa manifattura, giacchè una gran parte de’ Padroni, nullameno che tutti gli operai, sono nell’estrema indigenza, talchè temo non anderà guarì che la vedremo disgraziatamente annientata, poichè va ogni giorno sempre più decadendo. Che ciò sia vero oltre quanto ho veduto e giornalmente vedo ne fa autentica prova la moltitudine d’operaj, quale eccede il numero di quaranta che non trovano presso de’ Fabbricatori dove hanno sempre travagliato, nè d’altri lavorerio di sorte alcuna anche a minor prezzo di quello han sempre accostumato per lo passato e ciò soltanto riducevansi a fare per non perire di fame conservando alla peggio il lor individuo. Il più spediente riparo che metter si potrebbe per ora, parmi sarebbe quello di procurare almeno che non uscisse dallo Stato il filugello ed allora è credibile che verrebbe riparata in parte l’imminente rovina di questa manifattura, poichè con quello verrebbero provveduti di lavorerio i Padroni e di pane gli operaj, fabbricando le stoffe o altre mercanzie che fabbricar si possono con un tal genere». Io non sono di parere d’impedire l’uscita del filugello. Prima del 1750 l’uscita era libera ed i filugellari provveduti. La loro decadenza è contemporanea alla proibiz.e dell’uscita.

199 Considérations sur les finances de France, tom. I, pag. 162.

200 La Giunta Civica eretta nel 1714 per decreto del 8 giugno sul commercio, composta di Patrizj, quattro dottori e quattro di spada, si occupò a prescrivere regolamenti sul filare, tingere e torcere le sete, partire i metalli ecc. Fece su di ciò la consulta al governo nel 1715 1 aprile. Ottima cosa è l’illuminare gli Artisti acciocchè perfezionino la manifattura; ottima cosa pure si è l’accordare immunità, privilegj e predilezione ne’ dazj, o nel tributo, o anche con premj ai manufatturieri che si conformeranno ai buoni metodi prescritti, ma l’obbligare ogni individuo a filare, torcere e tingere la propria seta in un tal modo più che in un altro non può essere mai un regolamento salutare. Il Re di Sardegna ne’ suoi Stati costringe i sudditi a filare la seta secondo un metodo prescritto; lo so, resta a vedersi se la coltivazione della seta dopo di ciò siasi mantenuta nel vigore di prima ne’ Stati Sardi. L’operazione di sua natura è odiosa, poichè è durissima cosa per un Cittadino il vedere la sbiraglia entrar nella sua casa a riconoscere se fila il frutto del proprio terreno a modo suo o a modo dell’editto; nè mai può l’uomo persuadersi che sia un delitto punibile il filar male la robba sua, la quale senza delitto alcuno potrebbe distruggere.

201 Bacon, Nov. organ. scient.

202 Tale somma però non sorte in effettivo dallo Stato. Questo è perchè le grandi possessioni de’ Milanesi e de’ Pavesi nelle terre cedute al Re di Sardegna impediscono in parte gli effetti del commercio passivo che fa questo Stato. La Lumellina quasi tutta, parte del Novarese, del Vigevanasco, Tortonese ed Alessandrino sono di ragione de’ sudditi di S. M., d’onde se ne ricavano delle grandi som.e di denaro.

Un’altra cagione che contribuisce a rendere più lenti gli effetti della nostra situazione quanto al commercio si è il numero di Negozianti milanesi stabiliti in molte Città dell’Impero, della Slesia, in Amsterdam, Cadice ec., i quali poi trasportano da noi le ricchezze che vi accumulano.

203Considerat. sur les finances d’Espagne, pag. 132.

TABELLE

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