Meditazioni sulla felicità

Pietro Verri
MEDITAZIONI SULLA FELICITÀ[a] [1763]

Testo critico stabilito da Gianni Francioni (Como-Pavia, Ibis, 1996; revisione: Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, I, 2014, pp. 734-762)

Victrix fortuna sapientia.
Juv. Saty. XIII

L’eccesso de’ desiderj sopra il potere è la misura della infelicità: le operazioni dunque da farsi per accostarci allo stato di un essere felice sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme.

La somma de’ desiderj dipende dalla primitiva sensibilità e dall’ordine delle idee, la somma del potere dipende dalle leggi fisiche e dalla volontà degli esseri pensanti.

I desiderj hanno per fine d’evitare i mali e di procurarci i beni: la immaginazione di ogni uomo è sempre disposta ad ingrandire sì gli uni che gli altri; ciò si vede poiché realizandosi essi agiscono sull’uomo con minore efficacia di quello che s’aspettava. Un esame imparziale della natura de’ desiderj nostri tende dunque a formarci un nuovo ordine d’idee per cui si diminuisce la somma de’ desiderj medesimi.

Il potere dipendente dall’azione fisica de’ corpi esterni talvolta si dilata coll’industria, e quello che dipende dalla organizzazione del no­stro corpo con un determinato regime. I suffragj poi degli esseri pen­santi o si comprano, o si conquistano, o si rendono indifferenti con una vita oscura ma conforme alle leggi. Da questi elementi dipende l’accrescimento del potere.

Esaminiamo questi principj, e cominciamo dai desiderj. Le ricchez­ze sono lo scopo d’uno de’ più comuni desiderj, e certamente essendo elleno un pegno delle azioni che gli uomini hanno sulle cose, chi le possede sembra dilatare la propria esistenza ed interessare una più gran parte della natura ne’ suoi piaceri. Il desiderio di esse non può essere diminuito dalla ragione sin tanto che si circoscrive all’adempimento de’ bisogni fisici e civili; l’arte di godere delle ricchezze è molto più rara dell’arte d’acquistarle: chiunque sia giunto a possedere un mode­rato patrimonio moltiplica i suoi desiderj, sia che per una mancanza di previdenza preferisca i capricci presenti ai bisogni a venire, sia che con mal ragionata distribuzione posponga i bisogni presenti ai futuri capricci; l’errore del calcolo sì del prodigo che dell’avaro consiste nel preferire i bisogni chimerici ai reali. L’attento esame sulla natura delle ricchezze e la sperienza ci convincono che qualora eccedino i confini del bisogno, portano seco la sete di accrescerle, la sollecitudine di cu­stodirle, il sospetto, l’inquietudine, la vista degli eredi, un fascio in somma di sensazioni sventurate che moltiplicano la somma de’ nostri desiderj più assai di quello che non moltiplichino il potere.

L’ambizione è forse la passione più funesta insieme e benemerita di tutte: a lei dobbiamo tutte le grandi imprese, e v’è questo di nobile nell’ambizione, ch’ella tende a vendicare il merito oppresso dai stolidi potenti, ed a provare che la distanza posta dalla fortuna fra un uomo e l’altro non è sempre uno spazio insuperabile. La mancanza d’ambizione e l’eccesso allontanano egualmente dal ricercare gli onori: nel primo caso non si cercano per indolenza, nel secondo non si cercano perchè quello che gli uomini credon grande è un piccolo oggetto per noi.

Chiamo ambiziosi quei che ricercano gli onori come mezzi di ac­crescere il loro potere, chiamo vani coloro che ricercano negli onori quel testimonio del proprio merito che non trovano nella loro co­scienza: camminano entrambi alla loro felicità qualora vincano i gradi di probabilità per riuscirne. Quando la distribuzione degli onori di­pende o da uno o da pochi, l’incertezza dell’esito diminuisce quanto s’accresce il merito dei distributori. La vanità più facilmente conduce agli onori che l’ambizione, poiché l’animo del vano è più incerto di se medesimo, e perciò versatile e pieghevole alle diverse circostanze. Rifletta chi è mosso da una di queste passioni, che è legge di natura di stimare sempre meno i beni che si possedono de’ beni che si ambi­scono, e cerchi coll’esame di sottrarre dall’idea de’ beni ambiti quella porzione di stima che verrebbe ad essi tolta dal possedimento, dal che diminuirassi la somma de’ desiderj.

Questo principio medesimo può diminuire in parte i desiderj no­stri delle sensazioni voluttuose, le quali pure passando dalla immagi­nazione alla realità perdono costantemente. La maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizazione o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esagerazione che ne fa la nostra fantasia. Un attento esame può diminuire di molto quella forza produttrice d’inadempiuti desiderj, figli realmente d’una nostra ignoranza, e può farci preferire la vigorosa allacrità de’ moderati alla svogliata indolenza di chi logorando gli organi animatori della vita si priva del più squisito d’ogni altro senso, cioè de’ spontanei fisici bisogni.

Ho definita la infelicità l’eccesso de’ desiderj sul potere; ma il sen­timento della felicità s’accresce accrescendosi la somma degli uni e dell’altro. È dunque nostro interesse il non risanarci da quegli errori che ci somministrano i desiderj sin che pareggiano il costante potere. Se potessimo dunque dilatar sempre il potere sin che pareggiasse i desiderj, opereremmo più saggiamente per sentire la felicità di quello che sarebbe diminuendo i desiderj. La prima operazione è meno in nostra mano dell’altra.

L’industria ha dilatato il potere dell’uomo in molte guise: egli è giunto a contemplare distintamente molti oggetti che la loro picco­lezza o distanza rendeva insensibili; egli è giunto a poter conversare con persone distanti le miliaja di leghe; egli è giunto a viaggiare sicu­ramente sulla instabile superficie dell’acque, a traversar mari immensi per quella strada che sembrava riservata ai soli pesci, e chi sa che un giorno…;[b] ma tai progressi si fanno con estrema lentezza, nè un uomo solo, nè un secolo può aspirarvi.

Il potere, o sia la robustezza del corpo nostro, molto può accrescersi con una ragionata cura di noi medesimi, lontana egualmente e dalla superstiziosa cautela e dal totale abbandono agli attuali capriccj. Le cognizioni delle cose naturali possono molto contribuirvi, se non al­tro a distinguere i buoni dagl’ignoranti medici. L’arte di conservare e di migliorare la sanità non è certamente meno pregievole di quella di ricuperar la perduta, e colla robustezza delle membra s’accresce la forza dell’animo, onde siamo più disposti ad agire ed a rispingere le forze altrui: sentimento che forma il vero coraggio e che accresce la somma del nostro potere.

S’accresce il poter nostro quando conspiri con esso il potere degli altri uomini. Può ottenersi questa cospirazione primieramente com­perando i loro suffragj, e questa compera fassi col denaro o cogli uffi­cj. Converrebbe avere una sorgente perenne di ricchezze per interes­sare per lungo tempo una moltitudine di uomini ad agire stipendiati per noi.

I denari presso il popolo non servono che per comperarsi un suf­fragio di breve periodo, e sono ben impiegati qualora entro di questo periodo possiamo innalzarci a segno d’esserne per sempre superiori. L’azione degli ufficj è lunga, e tende più ad impedire il male che si può temere dagli uomini che a moverli ad agire per noi. Gli uomini sono attaccati a noi per un bisogno quando lo sono co’ denari, e sono attaccati a noi colla sola opinione quando lo sono per gli ufficj: ora, di questa opinione arbitri sono l’azardo e la combinazione di tante circostanze, cosicchè ella è una possessione instabilissima per natura, la quale porta sempre seco maggior probabilità per il cambiamento. Chiunque non avendo un animo comune si propone di comperar cogli ufficj i suffragj degli uomini deve disporsi ad un intero e lungo sacrificio col modellare ogni parola ed ogni atto esterno sull’opinione e su i pregiudizj della moltitudine, per modo che rinunziando (dirò così) alla propria esistenza deve addossarsene una posticcia, e ciò per comperarsi una chimera pronta a fuggirgli dalle mani ad ogni mo­mento. L’assurdità di questo contratto è sì evidente ch’io non so che alcun uomo non volgare l’abbia mai fatto.

Si rendono gli uomini conspiranti con noi conquistando i loro suffragj, o sia prevalendoci accortamente della umana imbecillità e facendo in essi nascere un timido sentimento della debolezza loro in paragone nostro: così si legano a noi gli uomini col vincolo più forte di tutti che è il timore. Ciò si fa immediatamente o interessando le intelligenze sovraumane nella nostra azione, ovvero manifestando una decisa superiorità di coraggio, virtù che sola in ogni secolo e pres­so ogni nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi degli uomini. Il pericolo di questa conquista cresce a misura della violen­za con cui si tenta, ma insieme col pericolo cresce la forza della impressione. Si conquistano mediatamente i suffragj della moltitudine laddove il destino della moltitudine dipenda da pochi, ottenendo da essi una carica per cui gli uomini aspettino bene o male dalle nostre azioni. Per interessar questi pochi a darci l’impiego conviene conosce­re il loro vero carattere; in molti può il danaro, in molti può la fiducia di dilatare il proprio potere riponendo in carica de’ meri stromenti de’ loro fini; alcuni pochi cedono all’opinione dell’abilità; pochissimi sono poi che non temino la superiorità de’ lumi o di forza d’animo: queste qualità vedute producono l’avversione, sentite producono il timore, esercitate producono o l’esterminio di chi le possede o l’ubbi­dienza degli uomini.

Finalmente si toglie agli uomini l’occasione di ristringere il nostro potere sottraendoci a’ loro sguardi con una vita oscura e rigorosamen­te conforme alle leggi: questa rigorosa conformità colle leggi è indi­spensabile per contraporre al sentimento di superiorità che gli uomini socievoli hanno per i solitarj quello dell’aperta ingiustizia se ne fanno uso. Questo è il partito meno pericoloso di ogni altro e meno soggetto ai capricci altrui, ed è quello appunto che è stato ordinariamente pre­scelto dai saggi.

Colla applicazione di questi elementi e con un intimo esame giun­ger potrebbon gli uomini a migliorare la loro condizione diminuendo l’eccesso de’ desiderj sul potere; ma poche sono le anime privilegiate che resistino ad un tranquillo esame di lor medesime. Sono per la maggior parte gli uomini come deboli ammalati che temono la vista delle proprie ulceri. I selvaggi soddisfatti che abbino i bisogni fisici rientrano nello stato di perfetta tranquillità; ma a misura che gli uo­mini s’allontanano da quello stato acquistano una folla d’idee civili, dal disordine delle quali nasce quel mordace sentimento della propria bassezza che si chiama noja; quindi cercano gli uomini di slanciarsi a vivere lontani da loro medesimi, quindi l’aborrimento della solitudine e il bisogno perenne d’una conversazione qualunque o del sonno. Così la vita dei più si risolve in una costante obbedienza alle sensazioni degli oggetti attuali, alle quali rarissime volte la riflessione contrapone l’immagine degli oggetti lontani; onde mutandosi pel moto universale della natura o la distanza o l’apparenza degli oggetti, gallegiano le umane menti su questo fluttuante appoggio e passano dall’odio all’a­more, dal disprezzo alla stima, con una che sembra contraddizione a primo aspetto, ma che poi conosciuta si risolve in una legge costante d’un essere meramente passivo.

Con queste cognizioni sostituiamo al penoso sentimento dell’odio il più giusto e più umano, che è la compassione degli errori della moltitudine. Da queste cognizioni nasce di più una vera e ragionata compiacenza di noi medesimi, poiché sentiamo la reale distanza che passa fra noi ed i volgari e la non fattizia superiorità nostra in ciò, che noi potiamo essere con noi medesimi e sentire in una sorte d’amicizia con noi stessi il bene d’esistere, laddove essi portano sempre il loro nemico ovunque vadino, cioè i rimorsi, la disistima e il tedio della propria esistenza.

Per conservarci questi massimi vantaggi conviene far molto uso della riflessione in tutti gli atti importanti della vita, per il che o non commetteremo azioni delle quali abbiamo poscia a pentirci, ovvero, quando ciò accada, non faremo a noi stessi il rimprovero d’avere scel­to male per propria imbecillità, e riflettendo ai confini che ha sempre il potere e lo spirito umano guarderemo come un inevitabile tributo i nostri errori. La buona coscienza è dunque il premio della riflessione.

Conviene colla riflessione formarci una chiara idea della giustizia, voce spesso ripetuta e rare volte intesa. La buona coscienza è un senti­mento della conformità delle azioni nostre colla giustizia. La giustizia è la conformità delle azioni nostre colle leggi. Le leggi fissate nell’u­niverso fisico dall’autore della natura sono, per quanto ne sappiamo, semplici e invariabili; ma nell’universo morale tanta parte hanno avu­to gli uomini nello stabilimento delle leggi, le debolezze, gli errori, le private mire vi hanno sì fattamente contribuito, che ad ogni passo s’incontrano i dubbj e fa bisogno d’aver la mente illuminata per di­stricarsene.

L’unica legge universale e sempre obbedita dagli esseri sensibili è l’amor del piacere. Gli uomini che meno fanno uso della riflessione sono mossi dalle mere sensazioni degli oggetti presenti, e comprano bene spesso un piacer attuale a prezzo d’un dispiacere molto maggiore a venire: più la mente è illuminata e più s’accosta all’esattezza del cal­colo di preferire la somma de’ beni maggiore alla minore.

Una beatitudine eterna e infinita è maggiore di qualunque bene attuale finito, una infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque male attuale finito: se l’uomo dunque fosse perfettamente illuminato non cercherebbe mai i piaceri che sono vietati dalla legge divina; ed a misura che s’accosterà a questa perfezione di lumi sarà nella strada della giustizia religiosa, ed in conseguenza lontano da’ rimorsi della propria coscienza.

Benché l’onestà sia la base umana della religione, cosicché chi of­fende le leggi dell’una offenda altresì quelle dell’altra, pure anche da sé sola deve osservarsi dall’uomo illuminato. Qualunque piacere è mi­nore della somma de’ dispiaceri che si ricevono dagli uomini qualora si ha il concetto d’essere malonesto: il disprezzo, la fuga, gl’insulti, l’insensibilità ai nostri bisogni sono gli effetti che vede scritti in faccia degli uomini chi si allontana dalla virtù, ed è più facile essere onesto che il portarne continuamente la maschera. Di più, offendendo le leggi dell’onestà nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi stessi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza per cui si scema il nostro potere; quindi freddamente concludo che l’amor del piacere mi porta ad obbedire alle leggi dell’onestà, mi mantiene nella strada della giustizia morale e mi preserva dai rimorsi della coscienza. Felici quelle anime che nell’amore della virtù ricusano un freddo ragionamento, e che trasportate da una vincitrice fiamma per il bello e il grande lo onorano e lo praticano per una voluttà vivissima che trova­no immediatamente nell’onorarlo e nel seguirlo!

Quando la trasgressione delle leggi civili importi la violazione delle divine o delle morali, è già provato che l’uomo rischiarato non la commette; ma quando la legge civile comandi di più di quello che le accennate due legislazioni prescrivono, la privazione della libertà, l’esiglio e i supplicj sono mali di tal natura che cercando ragionevol­mente il piacer nostro non è possibile che vi andiamo incontro.

Il bollore delle passioni impedisce all’uomo di ragionare per alcuni brevi periodi, e allora è in pericolo di divergere dal cammino della giu­stizia; ma ogni uomo che a sangue freddo vi travvia dà la più evidente di tutte le dimostrazioni d’avere un vizio nella facoltà ragionatrice, poiché le due voci interesse e dovere si distinguono in ciò soltanto, che la prima rappresenta il genere, l’altra la specie; cioè che il dovere è un interesse molto conforme alla legge, ma non ogn’interesse è dovere, poichè vi sono delle azioni che la legge ha lasciate in libertà: interesse poi contrario alla legge non è possibile che si dia, poichè è una con­traddizione il dire che sia nostro interesse comperare un piacer minore con un male maggiore.

Un’altra legge presiede al mondo, ed è quell’opinione universale degli uomini che chiamasi onore: essa per una parte è molto effica­ce per sospingere gli uomini alle azioni utili alla patria, ma talvolta s’oppone alla legge della religione, talvolta alla legge civile; talvolta la legge civile s’oppone alla religione ed alla onestà. Come sceglieremo fra queste contraddizioni?

Ho ricevuto un’offesa, la religione mi ordina di perdonare, la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice, l’o­nore ordina ch’io me ne vendichi col mio braccio: sono fra l’infamia, la prigionia e il peccato!

La legge civile mi offre una ricompensa e m’invita con un pubblico editto a tradire o ad uccidere un tale, la religione e la onestà gridano non tradire, non uccidere. Come condurommi in quest’orribile labi­rinto?

L’uso della ragione mi fa conoscere che la prima fra tutte le leggi è la divina e che è mio dovere sacrificar tutto alla obbedienza d’un Essere maggiore di tutti. Devo in seguito formarmi idee chiare e precise della virtù: non parlo di quella che ha la sua sorgente nella teologia, ma soltanto di quella che è comune a tutte le società d’uomini, a tutti i secoli e a tutte le sette. Un atto utile in generale agli uomini si chiama virtù, e l’animo virtuoso è quello che ha desiderio di far cose utili in generale agli uomini.

Non so se la religione permetta di obbedire ai proclami del Prin­cipe quando invitano a tradire o ad uccidere un malfattore, ma se la religione lo permettesse, convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica, ovvero se sia maggiore il male di autorizzare col proprio esempio un freddo tradimento ed un legitimo assassinio. A misura che avremo più lumi, a misura che combineremo le idee con miglior metodo, saremo più sicuri della nostra virtù.

Per avere una limpida nozione de’ rapporti che abbiamo cogli uomini, convien rimontare all’origine delle cose e portarci col pen­siero a quella rimota infanzia del genere umano in cui ogni uomo, occupato dalle semplici sensazioni degli oggetti, senza l’eredità delle idee complesse, che per una lunga tradizione accumulate possediamo noi presentemente, esercitava la legge primigenia dell’amor del piace­re soltanto sugli oggetti che attualmente ferivano i suoi sensi. Erano gli uomini allora indipendenti, nè si conosceva altro rapporto d’un uomo all’altro che quello della robustezza diversa, nè altro vincolo era conosciuto che quello della forza. Sia la brama di sottrarsi da un male, sia il desiderio di provare un bene, egli è certo che l’amore del piacere ha fatto uscire gli uomini dal primitivo stato d’indipendenza e gli ha radunati in società. Il patto sociale abolì il feroce muscolare dispotismo, e colla industriosa riunione di molte forze cospiranti si venne a stabilire l’equilibrio fra gli uomini. Per far questo era indispensabile circonscrivere l’uso della naturale libertà d’ogni uomo con certe leggi fattizie, le quali sono uno sproprio di parte della libertà per sicurezza del resto.

Il fine dunque del patto sociale è il ben essere di ciascuno che con­corre a formare la società, il che si risolve nella felicità pubblica o sia la maggiore felicità possibile divisa colla maggiore uguaglianza possibile. Tutte le leggi fattizie devono dunque avere per iscopo la pubblica felicità, ed essendo interesse di ogni membro di mantenere sì fatta unione, è interesse pure di ogni membro che si osservino le leggi per le quali sussiste, giacchè violandole ecciterebbe gli altri a rimettere contro lui unitamente in vigore la primigenia legge della forza.

La legislazione più perfetta di tutte è quella in cui i doveri e i diritti d’ogni uomo sieno chiari e sicuri, e dove sia distribuita la felicità colla più eguale misura possibile su tutti i membri. La legislazione peggiore di tutte è quella dove i doveri e i diritti di ogni uomo sono incerti e confusi, e la felicità condensata in pochi, lasciando nella miseria i molti. Quanto più si accosta uno Stato ad uno di questi due estremi, tanto la legislazione è più o meno conforme al patto sociale.

Non so se indipendentemente dal giudice inevitabile possa darsi fra gli uomini obbligazione morale: so che in una nazione dove il patto sociale non sia lacerato, l’interesse di ciascuno fa l’officio della obbligazione morale, in quanto lo porta all’osservanza del patto; e nella nazione dove sia offesa la natura del patto, il medesimo interesse fa l’officio della obbligazione morale, in quanto che porta l’uomo a dissimulare un male quando opponendovi si vede incontro un mal maggiore.

Le leggi positive d’una società fedele al patto sociale non possono mai essere in contraddizione colle leggi dell’onestà, perchè dove le leggi hanno per iscopo la maggiore felicità possibile divisa colla mag­giore eguaglianza possibile, non potrebbero esse comandare un’azione opposta alla felicità comune, il che significa malonesta.

Questa contraddizione adunque non può ritrovarsi che in una società traviata dal primitivo patto sociale; in una società viziosa, di cui in tanto non vedesi lo scioglimento in quanto che per un artificioso scisma vengono separati i di lei membri, nè possono riunirsi a di­struggerla; in una società in somma in cui la maggiore parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma soltanto a non essere autore della dissoluzione.

Ciò posto, è interesse nostro positivo la conservazione della pubblica opinione della nostra onestà, non è interesse nostro positivo la conservazione della società traviata dal patto sociale; vuol dunque l’amor del piacere che preferiamo l’obbedienza alla onestà ed all’onore, posponendo le leggi civili sin tanto che il male d’aver trasgredita la legge civile non sia maggiore del male d’aver trasgredite le leggi dell’o­nestà e dell’onore.

Tali sono i veri principj del diritto, e il saggio colla scorta di essi ha il metodo per risolvere qualunque problema nelle contraddizioni che incontra fralle diverse leggi. Tali sono i rapporti di convenzione che trovansi fra un uomo e l’altro. Ma altri rapporti vi sono fra un uomo e l’altro indipendenti da convenzione veruna e fondati sulla sensibilità nostra, cioè su quella dolorosa sensazione che nasce in noi qualora vediamo soffrire un essere sensibile, e sull’attrattiva di quella deliziosa sensazione che proviamo vedendoci superiori agli uomini: sono que­ste le sorgenti più copiose dell’umana beneficenza.

Qualunque volta a un uomo cui sia noto che sia dolore si presenti la vista d’un essere sensibile addolorato, per quella secreta connessione che passa fra l’azione degli oggetti esterni e le sensazioni nostre, sia per un interno fremito delle intime fibre, sia in qualunque altro modo, fatto sta che l’animo nostro sente parte di quel dolore, e più lo risente e più è spinto a procurare la cessazione della miseria in quell’oggetto: ed ecco come la beneficenza puramente umana sia una emanazione dell’amore del piacere. Questo è il sentimento morale, che nasce non già da un senso a parte, come hanno taluni pensato, ma bensì da una associazione d’idee semplici che per analogia chiamerei moto curvili­neo della umana sensibilità.

Questa beneficenza è minore generalmente dove o l’eccesso d’una passione assorbisca l’animo in un solo oggetto, ovvero dove per di­fetto di elasticità negli organi resti l’animo intorpidito e bisognoso di passioni. Di più, poca beneficenza trovasi sì in coloro che hanno avute poche occasioni di soffrire, quanto in quegli che forti e frequenti ne ebbero, poichè le fibre sensibili s’inaspriscono egualmente o nel letar­go o nell’abuso delle ripetute sensazioni, e s’incalliscono e perdono quella squisita sensibilità che produce il sentimento.

Per fissare fra noi e gli uomini le migliori relazioni possibili per la nostra felicità conviene conoscerci e conoscer gli uomini. Per conoscer noi stessi non cercheremo il voto degli altri, ma il nostro: le passioni e l’imbecillità degli uomini ora cercano di deprimerci, ora d’innalzarci. Nessuno meglio di noi sa se intendiamo le opere di que’ primi genj che onorano l’ingegno umano, nè v’è termometro più sicuro di questo per decidere del nostro ingegno. Nessuno meglio di noi sa se ci sentiamo a scuotere al racconto d’un’azione generosa e se ci sdegnamo in vista d’un’azione vile e viziosa, nè v’è termometro più sicuro di questo per decidere della elevazione del nostro cuore; le nostre azioni a nessuno sono più note che a noi stessi: se la certezza non comincia in noi non è possibile che siamo mai fermi o sicuri di veruna dimostrazione.

Per conoscere esattamente gli uomini conviene star prevenuti acciocchè il luogo che un uomo occupa non ci seduca: potremo fidarci de’ nostri giudicj quando saremo giunti a segno di non mutare opi­nione sia per una fortuna, sia per una disgrazia che sopravenga, come era quel Francese, a cui essendo recata la nuova dell’inaspettata fortuna d’un tale Abate, freddamente rispose: non ho mai dubitato che il Re potesse fare di colui un Cardinale; quello che mi farebbe meraviglia sarebbe se ne facesse un uomo di merito.

Voler ristringere in un libro tutti i possibili caratteri degli uomi­ni sarebbe come chi volesse disegnarvi tutte le fisonomie possibili. Un’occhiata tranquilla sulla umanità, o nelle storie o ne’ viventi, ci fa sentire qual piccolo essere sia l’uomo anche nelle cose che ei chiama affari importanti della vita. La politica europea sacrifica ogni anno molte migliaja di vittime umane per accrescere la massa dell’oro e rendere più incomodo il trasporto della rappresentazione del valor delle cose. La politica europea veste il soldato in modo che difficilmente marcia, difficilmente si move, nè è difeso dal nemico o dalla stagione. V’è ancora chi disputa se l’Europa sia di venti uomini ovvero degli Europei, e se un uomo appartenga alla nazione ovvero la nazione ad un uomo. Si perfeziona l’astronomia e non si pensa alla legislazione, si fanno le leggi colle quali un pianeta agisce su un altro e non si fanno le leggi che uniscono un uomo ad un altro; fra centomila volumi fatti dagli uomini non ve n’è un solo che assicuri ad ognuno la proprietà del suo: la giurisprudenza è l’arte di trovar ragioni pro e contro ogni caso, e i poveri volgari chiamano cittadini utili alla pa­tria coloro che lavorano per accrescere l’incertezza della vita e dei beni d’ognuno… Sarebbe troppo vasta la serie delle idee e poco consolante per la natura umana. La opinione è la sovrana degli uomini. Bene è l’intendere la dimostrazione, ma sentirla è ancor meglio, poiché non vi conformiamo la vita che quanto la sentiamo.

Un intimo sentimento di questa umiliante verità fa che scemi in noi la somma d’infiniti inutili desiderj, poichè cessiamo d’esigere da­gli uomini quella ragionevolezza che non trovandosi poi affligge, ma non disinganna: di più, s’accresce il nostro potere, poichè abbiamo una sentita dimostrazione della superiorità nostra su i volgari, i quali camminano ad occhi bendati mentre noi gli vediamo.

Per lo più qualora ci lagnamo dell’ingratitudine degli uomini sof­friamo il castigo d’un nostro errore. L’uomo opera in conseguenza dei principj che ha, non in conseguenza dei principj che gli attribuiamo noi a capriccio; conviene esaminarli, ed è sciocchezza il lagnarsi perchè un cocomero non produca le rose o perchè la talpa non voli. Chi benefica gli uomini perchè la religione lo comanda opera da saggio, poichè si procura il massimo fra tutti i beni; chi benefica gli uomini pel piacere che prova facendolo opera da saggio sintanto che la som­ma del piacere attuale non sia sorpassata dalla somma del dispiacere futuro. Chi benefica gli uomini aspettando la loro gratitudine get­ta per lo più il seme in un fondo sterile e sabbioso, e si prepara la tristezza al tempo della raccolta. Gli uomini insignemente beneficati sentono la propria umiliazione, e da questo sentimento per gradi pas­sano all’odio, se non vi si contrappone la speranza di nuovi beneficj, movimento dell’animo dolce e piacevole, che corregge quello della dipendenza da un creditore impagabile.

Queste verità ci distaccherebbero affatto dagli uomini e ci concen­trerebbero a vivere con noi medesimi se il bisogno che abbiamo dell’amicizia non vi si opponesse. Le infermità, le sciagure, le passioni, le debolezze in somma ordinarie all’uomo diversificano per modo i varj momenti della vita che se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli e chi per sino talvolta pensi in vece nostra, siamo abbandonati alla più crudele tristezza ed in pericolo di farci de’ mali irreparabili. La base dell’amicizia è la scambievole sicurezza di non ricever male; la sicurez­za di non ricever male è fondata nella cognizione dell’altrui probità; la probità d’un uomo che ragioni è fondata su principj; la probità d’un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola.

Chi diede il ferreo precetto di trattar coll’amico come se dovesse diventar inimico consigliò di non avere amicizia per alcuno; vero è che questa sarebbe la strada per vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vita può mai chiamarsi quella di chi si considera solo, attorniato da serpenti, sempre in guardia e in diffidenza da ogni lato! Men male è l’avventurarsi talvolta, anzi che comperare la sicurezza col sacrificio di quel sentimento che ci rende sopportabile la vita.

Il bisogno di erudirsi è meno universale del bisogno della amicizia. La maggiore parte di quei che maneggiano i libri se ne servono come stromenti per fare la propria fortuna. Le leggi ne sono la miniera; la circospezione, l’impostura e la disistima per le scienze ne sono le or­dinarie compagne; chi vi si consacra deve prendere per norma la pub­blica opinione. Altri maneggiano i libri per sottrarre alcune ore alla noja, e sono agli occhi loro le scienze alcune curiosità e passatempi, e niente più. Finalmente alcune poche menti felicemente disposte per la filosofia coltivano le scienze per migliorare internamente se medesi­me, per formarsi idee chiare e precise degli oggetti, accostumarsi a un metodo di giudicare più lontano dall’errore che sia possibile e incam­minarsi alla felicità rischiarando il sentiero che vi conduce. I primi per lo più odiano gli altri, i secondi poco credito fanno alle scienze, gli ultimi cercano il vero con imparzialità e con costanza, e talvolta lo pubblicano più per piacere d’illuminare gli uomini che per la briga d’ottenere i loro applausi.

Giammai, dacché gli avvenimenti storici sono giunti a noi, le uma­ne cognizioni non sono state innalzate al segno che lo sono in questo secolo: la stampa, l’ago magnetico e le poste sono tre fortissimi ajuti che ci hanno resi più illuminati degli antichi, nè mai si è veduto più sensibilmente di quello che ora si faccia qual connessione abbiano le scienze colla felicità delle nazioni. L’impostura freme, ma s’indeboli­sce per ogni verso; secreti più non vi sono; l’arte persino di governare i popoli, la quale per lo passato era confinante con la magia, ora sta in mano de’ libraj; gl’indotti ministri cominciano a conoscere se non la beneficenza almeno la circospezione, poiché devono fare le loro ope­razioni sotto gli occhi di alcuni illuminati che cominciano a mescolarsi fralla turba de’ ciechi adoratori. La natura de’ principati, le finanze e la milizia di ogni Stato, l’indole e il carattere di chi presiede, tutto è palese. Lo spirito filosofico va dilatandosi per ogni parte, e questo ruscello un tempo povero e disprezzato è vicino a diventar un fiume reale, il quale sormontando gli argini omai logori, sebben difesi tut­tora da chi trova rendite ne’ pubblici disordini, innaffierà colle acque sue fecondatrici la terra. La estrema decadenza obbligherà i paesi an­che più torpidi d’Europa a riscuotersi ed a vedere la luce universale.

Tutto è in moto nella natura. Se volgiamo il pensiero ai tempi pas­sati, vediamo in prima i Greci animati da un violento amore della glo­ria nazionale uscire da’ stretti confini del loro paese e rotolarsi come un torrente devastatore sull’Asia e sull’Affrica, soggiogando le genti attonite che stupidamente presentavano il collo al giogo del vincitore. Passato poscia questo vigoroso genio in Italia, vediamo le aquile ro­mane strascinarsi dietro al Campidoglio i re incatenati dell’ammollita Grecia, dell’Asia e di parte dell’Europa. Quindi, passata la robusta virilità dell’Italia, osserviamo le nazioni settentrionali scendere per la Germania e pel Mar Nero a distruggere le opere de’ Romani, sinché indeboliti poco dopo per la sicurezza i loro imperj, furono anch’essi rovesciati dagli Arabi e dai Franchi.

L’urto possente e ripetuto delle nazioni finalmente le sfrantumò e le divise in molte famiglie bilanciate nel reciproco potere, e gli Europei, ne’ quali il cambiamento sì tosto non tolse il bisogno d’occuparsi di grandi oggetti, corsero a milioni a cercarli persino nell’Asia Minore. Questa furiosa tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati sempre ne divennero i flutti, sin che per diverse generazioni indebolendosi e la memoria delle cose passate e l’educazione, compar­ve agli occhi degli Europei inciviliti barbaro lo stato de’ loro padri. Le forti passioni della gloria e della salvezza della nazione s’eclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul trono i tiranni e sulla faccia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono allora d’esistere per se stesse e diven­nero un mero patrimonio de’ principi, i quali col gius feudale ne re­galavano porzione agli amici. Le guerre allora si mossero per personali motivi de’ principi, i quali condussero al campo una mandra di pecore tutte coperte di ferro e mosse dalla subordinazione, spettacolo ben di­verso da quello che formavano in prima gli uomini a guisa di generosi leoni usciti dai loro covili, sebbene entrambi avessero il nome comu­ne di guerra. Le ricchezze dovettero decidere della vittoria fra armate di schiavi, contente di non mancare ai doveri imposti e non mosse da emulazione di oltrepassarli: piccole perciò erano in que’ tempi le armate e mantenute colle rapine che il tiranno faceva ai sudditi. Si venne al punto di trovare esausti i mezzi per radunar denari, e in con­seguenza per difendersi. La Spagna li trovò nelle miniere del Potosi; tutte le potenze si riscossero, si pensò alla marina, al commercio, alla popolazione come mezzi per accrescere le ricchezze relative. Si vide che la base di queste divinità è la pubblica sicurezza, quindi alcune nazioni l’adottarono, altre vi si avvicinarono; perciò o fu abolito o diminuissi il dispotismo e la tirannia. Da quel punto sino al dì d’oggi gli avantaggi de’ paesi liberi sono andati sempre crescendo in Euro­pa, e i principi sono nell’alternativa o di vedersi come tributari delle nazioni libere o di abolire ogni schiavitù nella loro nazione. Tale è il moto che in questo secolo ha l’Europa, che con fondamento prevede il saggio che la libertà delle nazioni sia per dilatarsi. Quando ciò sia fatto, rinascerà l’antico vigore degli animi, l’antica guerra di nazioni e non di principi, e per quest’anello in giro passeranno verisimilmente per sempre le nazioni europee, come le stagioni dell’anno sulla terra. In vista di ciò potiamo giudicare del grado di stima che meritano le scienze e prenderne quella porzione che giovi alla nostra felicità.

Da alcuni anni a questa parte s’è risvegliata in Europa la disputa se siano più i beni o i mali di questa vita, cioè se l’uomo indipenden­temente dalla religione debba vivere oppure uccidersi. Ognuno è buon giudice delle proprie sensazioni, e i pochi sucidj che si contano sembra che debbano decidere della questione. L’errore sta nel computare la speranza fra i mali, quand’ella è uno dei principali beni; le sensazioni aggradevoli che per essa ci vengono non sono perciò meno reali perchè il principio riseda nella immaginazione.

Non è possibile definire qual sia il carattere d’un uomo che univer­salmente riesca in ogni società: non v’è uomo, per insensato che sia, che in qualche ceto non possa ottenere la stima; non v’è merito, per luminoso che sia, che in qualche ceto non possa essere disprezzato. È però vero che v’è un carattere che più comunemente deve condurre a viver bene in ogni secolo e presso qualunque nazione, e credo ch’egli consista in un felice temperamento di forza e di dolcezza d’animo, cosicchè nè l’una degeneri in asprezza, nè l’altra renda lo spirito debole e molle. Allora l’uomo resta egualmente distante dalla inurbanità come da quella servile compiacenza che lo dispone ad essere un mero stru­mento di chi ardisce di adoperarlo.

Fralle nazioni selvagge tutto è robusto e forte. Fralle nazioni corrot­te si vedono espresse su tutt’i volti la compiacenza ed il sorriso. Fralle nazioni illuminate si legge in fronte agli uomini il sentimento della loro sicurezza e l’amore per la osservanza delle leggi.

Il saggio giudica col suo giudizio; ha un carattere che è suo; con­forma talvolta alla comune opinione le sue maniere esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in tutto di giungere ai primi elementi delle idee per preservarsi dall’errore, e fra tutte le verità possibili sente che la più importante e dimostrata di tutte pel uomo è che deve cer­care la propria FELICITÀ.

 

NOTE

[a] Stampato in Livorno.

Non mi curo che sia letto in Milano, eccettuato il piccol numero de’ miei amici. Queste meditazioni sono molto belle e grandi: temo che la piccolezza del volume non le lasci nella oscurità. In ogni caso, siccome non sono capace di scrivere meglio, così sappia chi legge che questo è il mio sublime, ossia che questo è il confine della elevazione della mia mente; e di più che queste sono cose che io credo tutte vere.

Il Sig.r de Soria così ne scrisse al P. Frisi, 12 Febbraio 1764: Meditazioni sulla felicità, opuscolo millecuplo della sua mole. Egli ha data un’aria di novità e di brio al più antico e più serio di tutti gli argomenti. Il talento annalitico e le grazie della immaginazione vanno insieme di rado; nel Sig Conte si abbracciano caramente ecc.

Il Padre Venini Somasco ha scritto che meglio sarebbe convenuto questo titolo: Meditazioni sopra nessun soggetto, col motto Velut agri somnia, e che egli non sapeva cosa l’autore si fosse immaginato di dire.

Uno dei due ha torto.

Il Conte Radicati così ne scrisse al P. Frisi in data di Casale, 15 Settembre 1764:

Avant que de repondre à votre lettre, je dois vous remercier du jolipresant que vous m’avez fait du petit livre, mais excellant sur la felicité. Très-bien pensé, bien ecrit, solidement ecrit. L’auteur veut-il absolument garder l’anonime? Il a tort, et il n’a qu’un moyen de le reparer, c’est de travailler incessement de nous donner souvent de si grands modeles ne fut-ce quepour apprendre aux Italiens comment il faut ecrire etpenser.

Il Sig.r Agostino Lomellino in una lettera al P. Frisi de’ 4 Maggio 1765 così dice: Ho riletto anche con gran piacere la Felicità, libro piccol di mole ma grave di idee, e che ne indica e ne risveglia tante e poi tante. [Nota manoscritta di Pietro Verri]

[b] 1783, 24 dicembre: il P. Facchinei fece questa nota: Sembra che volesse scrivere che forse un qualche giorno l’uomo giungerà anche a poter volare; ma ha fatto bene a tacerlo, perchè avrebbe fatto giudicare della bontà della sua fisica come si giudica di quella della sua metafisica. Il Sig. Mongolfier lo ha fatto. Io ho avuta la debolezza di temere la critica, e nella edizione fattane in Milano dal Marelli nel 1781 omisi questo vaticinio che mi fa onore. Vedi l’edizione de’ miei Discorsi, pag. 156. Per quanto coraggio si abbia, questa schiatta di malnati abbajatori sempre snervano e trattengono. [Nota manoscritta di Pietro Verri]