Il vero dispotismo - tomo II



Giuseppe Gorani
IL VERO DISPOTISMO (1769)
Testo critico stabilito da Gianni Francioni sulla prima edizione (in Londra, 1770 [ma: Genève, 1769])
Tomo secondo

I. Introduzione
II. Vera politica
III. Necessità delle negoziazioni
IV. Oggetto delle negoziazioni
V. Importanza della scelta de’ negoziatori
VI. Doti, talenti e condotta de’ ministri
VII. Modo di formar negoziatori. Condotta del principe cogli esteri ministri
VIII. Cagioni personali per far la guerra. Se ne mostra l’illegitimità
IX. Guerre per principio di religione o di gloria
X. La guerra è naturale. Come possa esser giusta
XI. Conquiste non proporzionate alle forze
XII. Amor del principe pe’ suoi sudditi nelle guerre
XIII. Eserciti
XIV. Soldati antichi più valorosi de’ moderni
XV. Gli eserciti debbano esser ben mantenuti
XVI. Valore ed amor del travaglio. Come si debban eccitare
XVII. Invalidi
XVIII. Dignità militari
XIX. Venalità ne’ gradi. Funeste conseguenze
XX. Arbitrio de’ comandanti nel conferire i gradi. Quanto sia nocivo
XXI. Passioni
XXII. Legioni
XXIII. Importanza della disciplina
XXIV. Lusso negli eserciti
XXV. Mezzi di distrugger il lusso
XXVI. Spirito di disciplina
XXVII. Importanza della subordinazione
XXVIII. Spirito di subordinazione
XXIX. Tattica
XXX. Cavalleria
XXXI. Artiglieria
XXXII. Vestiti ed armi
XXXIII. Occupazioni dei legionarj
XXXIV. Delitti e pene militari
XXXV. Virtù e premj
XXXVI. Aringhe
XXXVII. Onore
XXXVIII. Divertimenti
XXXIX. Buoni costumi
XL. Economico regolamento delle legioni
XLI. Popolazione militare
XLII. Educazion militare
XLIII. Religione. Vano stimolo di valore
XLIV. Marina
XLV. Saggio sulla direzion delle guerre
XLVI. Stratagemi
XLVII. Umanità e prudenza
XLVIII. Pace
XLIX. Conquiste
L. Colonie
LI. Conclusioni
Réflexions sur une lettre de Mr. Linguet à Monsieur le Marquis Beccaria

I. Introduzione.
Funesta combinazione delle umane sventure! Reso colla virtù assoluto il potere di un regnante sopra di un popolo affettuoso e felice, dovrò ancora pensare a prevenire gli effetti dell’orgogliosa ambizione d’ogni vicino geloso ed ingiusto? Se può essere inutile la fede dei trattati, se possono divenir infruttuose le negoziazioni colle estere potenze, dovrò dunque metter in sistema le carnificine e tutti quegli orrori che tanti genj maligni seppero inventare, benchè impiegati per la sola difesa, oggetto troppo importante, per cui gli uomini rinunciarono alcune porzioni di libertà naturale per formarne i sociali contratti?

O infelice genere umano, in cui il diritto di proprietà produce l’avarizia ed un continuo tumulto delle più distruttive passioni, qual abbominio non devi tu avere per un diritto che, confondendo colle sensazioni anche la stessa ragione, ha saputo dare il nome di bella gloria alle morti ed alle straggi, colle quali ad occhio asciuto ti accostumi a vedere seminati i campi di viscere ancor palpitanti, rovinate le provincie, saccheggiate le città, formar ruscelli di sangue che scorrono a gonfiare i fiumi ed a tingerne lo stesso mare!



Perdonami, filosofia, se anch’io mi accingo a parlar degli odj e delle vendette che sempre apportano le guerre. Anch’io fremetti al vedere un prodotto di amore sagrificato fra le braccia di una tenera madre, sforzata pria ad accondescendere alla brutalità del soldato, un padre amoroso tradito da un figlio che lo uccide perchè non lo conosce, i più sacri vincoli del sangue negletti e vilipesi, e la crudele gioja di ritrovarsi fra mille cadaveri, vittime di una furia rabbiosa che sorpassa quella delle belve le più feroci. Se il mio soggetto richiede che parli di belliche imprese, farò almeno che si accopino con quella moderazione che suggerisce la compassione in un cuor sensibile a’ tratti di una vera clemenza. Condurrò dunque il mio despota nei campi di Marte, non già stimolato da un genio furibondo di coglier allori sì funesti all’umanità, ma astretto dalla necessità della difesa e sempre scortato dalla virtù che non lo abbandona. Se da eroe forte e magnanimo lo vedrà il leggitore invitto ne’ periglj, infaticabile e pronto nelle sue gesta, sempre padre affettuoso de’ popoli ed amico dell’umanità, vedrà altresì in esso lui prove le più chiare di una benefica generosità nel sostener le provincie, nell’impedire i saccheggj, nel prevenire le frodi e nello stendere generoso il braccio per sollevare il vinto e l’oppresso; facile a deppor la fierezza perchè giusto ed umano, amante della vera gloria, sarà oggetto di ammirazione nel nemico, di amore ne’ suoi popoli; volerà il di lui nome nelle più recondite terre ad acquistarsi il titolo di grande ma più di virtuoso,[1] anche fra gli strepiti delle più terribili guerre.


E giacchè la verità diresse fin ora ogni mio sentimento e che, sbandita l’adulazione, lasciai libero il corso alle più sincere massime, farò che la medesima sia la motrice di tutti gli altri miei pensieri. O divina verità, lume benefico, accendi il mio cuore, affinchè io seguiti a sviluppare i veri avvantaggj dei regnanti ed i giusti interessi delle nazioni! Fa che animando ogni mio detto possa ispirare al mio eroe l’applicazione continua di que’ principj sopra i quali riposa la felicità di uno stato! Si dissipino pure le mostruose larve di una falsa e seducente politica!

Sfuggan gl’inganni e le frodi messe in uso contro le estere genti, svanisca la chimerica gelosia, e la rivalità della virtù riprenda il luogo della diffidenza. Accostumandosi gli uomini a considerarsi amici e fratelli, ricuperi la buona fede dei trattati l’impero sopra una litiggiosa ragione. Eccitate le passioni, veri strumenti delle umane felicità, la buona direzione delle medesime sia l’unico segreto della militar disciplina. S’ispiri alle soldatesche l’amore del travaglio ed il valore, che fanno riportar le vittorie ed erger trofei, multiplicando le generose intraprese. In fine, quella verità che additò al mio eroe i mezzi per conseguire il vero potere gli mostri altresì quelli di rendersi formidabile presso le estere nazioni, e di perpetuare col vero dispotismo la prosperità e la gloria di un popolo sommesso ed amorevole. 


II. Vera politica.

Ciechi ammiratori della falsa gloria, stolti promotori delle ingiustizie, cessate di assediare i cuori de’ regnanti con tanti perniciosi sistemi che scemano in loro il vero potere e che fabbricano le sventure dell’umanità! Non si è nell’usurpare gli altrui dominj; non in versare il puro sangue de’ suoi cittadini per togliere alle nazioni le più generose il prezioso dono della libertà naturale; nell’assistere la crudeltà dei tiranni contro magnanimi eroi invitti difensori de’ giusti diritti della patria; non nel disporre della vita de’ popoli affin di nascondere sotto il mendicato pretesto di un immaginario equilibrio una ambiziosa rapacità; non nell’ingannare gli altri governi con finti trattati che si propone di non mantenere; non nell’opprimere il commercio delle altre nazioni; non nell’obbligar i principi i più deboli a mancare alla buona fede; non si è perfine nel suscitare ne’ tempi di pace la divisione e la discordia negli altri imperj, che consiste la vera politica di un illuminato governo.


A che servon i trionfi dei vittoriosi eserciti, a che le conquiste di molte vaste provincie, se si porta scolpita in fronte la macchia di un manco di fede, se si spopolano le Regioni, se disertan le genti; se periscon gli agricoltori, se diminuisce nell’interno dello stato la circolazione, e se geme il popolo nelle angustie che seco apporta le guerre? Dunque la vera politica di uno stato bene organizzato, se ha da produrre la prosperità del sovrano, dovrà esser calcolata dall’utile del suddito, che da lui si aspetta sicurezza, abbondanza e prosperità.



Se mi si addimanda quale debba esser la politica di un vero despota, dirò la virtù, che non ammette nel suo metodo quelle contraddizioni fra le quali son soliti a vacillare gli ingiusti speculatori dei funesti sistemi; non la virtù e la fede di pura apparenza che sfugge dall’animo, più nociva della palese ingiustizia, ma quella che, scolpita nel cuore, si fa superiore ad ogni privato avvantaggio[2] e rende celebre la memoria di un sovrano presso de’ posteri.


O imperioso potere della virtù, che rende formidabile la forza di un principe che la siegue presso tutti i popoli che la conoscono! Persuadendo il pubblico della giustizia di una causa, essa rallentisce l’ardor dei nemici per animar chi la difende col più invitto coraggio. Aprite, o promotori delle straggi e delle frodi, i fasti delle storie, e vedendo i seguaci della medesima padroni dei sufraggj e dell’amor dei vicini, sbandita la perfidia imparate a conoscere il suo ascendente sopra le azioni degli uomini.[3] Osservate, fra il potere di tanti sovrani che la coltivarono, quello di un Numa Pompilio, che, riformati i costumi di un popolo guerriero, gli fa gustare la pace sebben circondato da popoli bellicosi, che cessando d’invidiar la sua opulenza, frutto delle passate vittorie di Romolo, non finiscon di onorare le pacifiche virtù del successore, e sciegliendolo qual arbitro ne’ loro litiggj, sottomettersi alle di lui decisioni come agli oracoli di una parlante divinità.[4]

Non tema il mio eroe, sordo alle insidiose lusinghe de’ nemici della sua vera prosperità, scelga pur la virtù per unica base della sua politica colle estere genti! Tacerà in fine l’invidia, sarà confuso l’orgoglio, s’acquisterà la fiducia dei vicini ed avrà la bella gloria di essere il conservator della fede, il pacificator delle potenze ed il benefattore del genere umano.

III. Necessità delle negoziazioni.

Gli spiriti mediocri, dice un gran ministro,[5] limitano i loro pensieri colla estensione de’ stati ove sono nati, ma gl’ingegni sublimi nulla dimenticano per fortificarsi, anche da lontano, affin di prevenire qualunque pericolo. Guai alle potenze che, troppo riposandosi sopra la virtù o la propria grandezza, isdegnano la cura di osservar la condotta degli altri sovrani!

Il seguire le massime orgogliose dell’ottomano impero ed il credersi sicuri sotto l’ombra dei trofei eretti dal valore di una lunga serie di eroi, è lo stesso che l’abbandonare al caso il governo dei popoli che implorano soccorso e difesa. Un principe che non si confida che nelle proprie forze e che non getta uno sguardo sopra i circonvicini sarà qual nocchiero che, dispreggiando i primi soffj di certi aquiloni, nunzj delle più fiere tempeste, sciolta ogni vela riposa tranquillo finchè, cresciuta la violenza de’ venti, più non essendo a tempo d’impedirne l’impeto furioso, viene sommerso negli abissi profondi di un mar tempestoso o spinto a naufragare contro un non preveduto o inevitabile scoglio.

Se i molti sovrani vinti e soggiogati dai fondatori degl’imperj assirj e babilonesi avessero a tempo vegliato ai nascenti progressi di que’ conquistatori, formate non si sarebbero le superbe monarchie, alle quali la troppo estesa vastezza avendo ispirato un’ugual fiducia, non si avviddero delle fatali catene che nella Grecia accorta e frugale preparavansi alla loro opulenza. Se i successori dello stesso Macedone mostrata avessero minor indifferenza per le ardite intraprese dei Romani, l’Egitto, la Macedonia, il Ponto, la Grecia, la Siria e tante altre vaste regioni divenute non sarebbero provincie di quell’impero, nè, con ludibrio ed isdecoro delle nazioni, tante sacre fronti, cinte di diademi, ornati non avrebbero i maravigliosi cocchj di trionfo di quei superbi debellatori che destinati si credevano a reger l’universo.

Ma a che le recondite storie, a che i multiplicati esempj che ci somministra la sempre feconda antichità, se un’uguale indolenza ne’ secoli a noi più vicini fece scender dal trono molti monarchi ed altri resi avviliti; e se anco nel presente arrivò ad indebolire la forza di alcuni possenti sovrani, che non sortirono dal lettargo che per vedersi le vittime delle leghe fatali che non seppero prevenire?

IV. Oggetto delle negoziazioni.

Se, come ho detto, la virtù e l’amore verso de’ popoli devono essere i cardini del vero dispotismo, le sue negoziazioni si estenderanno soltanto sopra quegli oggetti che interessano l’utile e la conservazione de’ medesimi.


Se vuol essere informato dell’estension del commercio, dell’agricoltura, della popolazione, del numero e disciplina delle truppe e delle ricchezze di ogni nazione, non sarà già per sorprender chi, troppo debole, può esser vittima sicura delle sue forze, nè, proffittando dell’indolenza di qualche vicino, non susciterà molte nazioni per dividerne le spoglie, ma piuttosto affin di procurare ad ogni popolo un perfetto godimento delle sue pacifiche cure.


Nell’esaminar le leggi di ogni stato i buoni o perniciosi effetti della virtù o dei vizj, nel calcolare le differenti passioni presso gli altri popoli, conoscendo allora fino a qual grado di potenza ognun di questi può arrivare, avendone avanti gli occhi nel più esatto dettaglio le forze motrici, con qual facilità non potrà andar all’origine dello spirito dei diversi sistemi con cui si regolano le altre potenze?



Volete, o principi, stabilire la fortuna sopra un fondamento solido e durevole, cioè esser giusti e benefici e non mai vittime dell’ambizione? Siate attenti ad abbracciare ogni occasione di unirvi co’ vincoli i più forti ed i più sicuri cogli stati le di cui forze non vi sono sospette, e che siete interessati a proteggere. Se volete però ingrandirvi e rendere la fortuna più considerevole, non farete con questa politica che precipitare la vostra decadenza; imperciocchè essendo sovente obbligati di violare gl’impegni e di rompere le alleanze, vi rendereste sospetti ed odiosi, ed accrescereste così il numero de’ nemici.[6]


V. Importanza della scelta de’ negoziatori.

Se il non vegliare sopra la condotta delle estere potenze può essere la cagione della decadenza di uno stato, l’affidarne la cura a chi altro merito non vanta che l’onor degli avoli,[7] il preggio delle ricchezze, sarà lo stesso che metterne la sicurezza in mano di chi ignora i principj per conservarlo. Il pesar gli affari e fra le più ingegnose combinazioni scoprire le mire del sovrano ove risiede, il guadagnarsi la stima e la fiducia dei ministerj e delle nazioni, il far conoscere la virtù del suo regnante ed il procurare i veri avvantaggj del medesimo senza compromettere il proprio onore e decoro, sono oggetti sì difficili ed estesi che richiedono i lumi della più vasta politica e vogliono ingegni felici e sublimi, veri conoscitori delle umane passioni.

Se i grandi che uniscono ad un’opulente fortuna la prudenza, i talenti e le doti di un buon negoziatore sono da prefferirsi in tal sorta d’impieghi, perchè sgravano l’erario, non è men vero che la sola idea di una mal calcolata economia giammai escluder non deve chi, seguendo gli esempj d’illustri antenati con l’amenità del genio, la profondità dei lumi ed una multiplicata estensione delle più utili cognizioni, può esser capace di rendere allo stato que’ serviggi che ne procurano la vera felicità.


Una esatta ponderazione, un esame imparziale delle immense utilità che si procurarono i principi accorti ed illuminati nella grand’arte di regnare col mezzo de’ trattati condotti a buon fine dalla abilità di alcuni profondi negoziatori, faranno conoscere quanto sia importante la buona scelta d’illustri soggetti, giacchè in buona parte da loro dipende l’opulenza del commercio e la conservazion della pace.

VI. Doti, talenti e condotta de’ ministri.

Se la scienza di ben dirigger le passioni alla felicità dello stato ed alla grandezza del regnante, se la perfetta cognizione dei complicati principj sopra i quali si aggira la vasta mole di un ben organizzato governo, se il saper impiegare ognuno secondo i talenti ed il vederne con una rapida occhiata le vere qualità devono far la scienza di chi governa l’interno di uno stato, chi sarà impiegato ad esserne un negoziatore presso le esteri genti non basterà, come già dissi poc’anzi, che unisca ad un gran nome ed opulenza le grazie di un esterior seducente o di un’eloquenza ricercata, periodica ed armoniosa.

Compiuti gli studi, dimenticate le regole, la vera facondia di un abile negoziatore che ha da trattare gli interessi delle nazioni deve consistere in uno stile nobile e naturale, che interessi il candor di chi parla, che interessi l’attenzion di chi ascolta e che palesi la virtù di chi lo dirigge. La geografia, la storia, i trattati, le diverse forme di governo, lo spirito delle leggi, gl’interessi e pretese della sua e delle altre corti, i climi e caratteri delle nazioni, i diritti pubblici e le altre scienze di simil natura dovranno esser scolpite nella sua mente. Il commercio studiato ne’ suoi principj, giacchè è l’origine di tutti gli odierni trattati, sarà per lui una scienza non men necessaria, se ha da conoscere le vere forze del suo signore e quelle delle altre potenze, e se ha da protegger i negozianti sudditi del suo regnante ed impedirne qualunque lesione.

Sebbene un simil ministro debba aver l’abilità di scegliere i felici momenti di debolezza e di colera per scoprir le altrui menti, sebbene dissimulando le proprie intenzioni abbia d’uopo di posseder l’arte difficile di leggere negli altrui cuori, nulladimeno sii pure la verità la base della sua condotta; se il dissimular senza viltà è una politica virtù, il mentire è un abbominio che scuopre un’anima volgare, uno spirito senza espedienti ed un carattere dispreggievole. Se può essere utile il mentire in qualche occasione, conosciuto un negoziator per menzognero, le stesse verità non essendo in esso lui più credute, perde la stima delle corti, inutili divengono i suoi serviggj ed anzi perniciosi al principe che serve, a cui non si manca d’imputare la taccia dei delitti di un tal negoziatore.


Che debba guardarsi d’inoltrar le pretese sopra le vane ceremonie che hanno ritardati molti trattati, arenati non pochi conciglj, impediti infiniti congressi senza aumentar la forza reale di un sovrano; che sii necessario al medesimo l’esser magnifico, illare, avvenente, pieghevole al genio di chi può esser utile al suo sovrano senza esporne l’onore; che abbia ad esser splendido e generoso, principalmente con quelli la cui fortuna con­viene interessare per ben riuscire in un trattato, sono verità chiare e rilucenti, delle quali a me non si aspetta il fare un apparato, quando molti illustri autori già ne dimostrarono co’ più eloquenti dettaglj l’evidente importanza.

VII. Modo di formar negoziatori. Condotta del principe cogli esteri ministri.

Per guarentire il mio eroe da qualunque disavvantaggioso trattato e per assicurarlo della buona scelta di abili negoziatori, converrà dirigger di buon’ora chi ne dimostra i veri talenti coll’eccitarne l’emulazione, sovrana direttrice degli uomini. Conosciute coll’educazione da’ magistrati le qualità dei medesimi, stabilirei un’academia di nobile gioventù del più esimio ingegno, che già avesse a mente gli elementi delle scienze e delle più utili cognizioni e che dimostrasse naturali disposizioni per i politici affari. Tale istituzione, diretta da qualche gran ministro, dovrà essere fornita dei più abili maestri, che in qualità di segretarj, agenti o incarricati di affari avranno con successo ben servito il loro principe nelle diverse corti. Che ivi questa nobile gioventù, oltre quelle arti e quei divertimenti che formano l’agilità e l’avvenenza di corpo, sia istruita nelle lingue ed in quelle scienze che già mostrai esser necessarie per formar l’esperienza e l’abilità di un negoziatore. Si accostumino questi nobili allunni a guardar di buon’ora il segreto, ad esser sempre veridici ed a parlare con una graziosa dolcezza senza rossore alla presenza tal volta del sovrano, assiduo osservatore dei loro progressi. Che si encomino i più coraggiosi e si premino i più virtuosi, si avvalorino pur le loro passioni per diriggerle al ben dell’impero.


Finito il corso dei politici studj in una tale academia, dovrebbero viaggiare nelle diverse corti dell’Europa per acquistarne l’esperienza, raccomandando la cura d’informarli agli ambasciadori, inviati e ministri che risiedono presso le medesime.


Per animarli vieppiù a scorrere i regni e le provincie con profitto dello stato, perchè non obbligarli a distinte relazioni dei caratteri dei sovrani e ministri, dell’agricoltura e delle manifatture, del commercio, dei costumi, delle leggi e dello stato in fine di ogni nazione? Finiti i viaggj, esaminate le ricerche ed i progressi di ciascheduno, si dovrebbero allora impiegare nelle cancellerie dello stato e principalmente in quella degli affari esteri, ove, leggendo i dispaccj d’ogni incarricato presso le estere corti e quelli che loro si spediscono, possono, abbracciandone lo spirito, formarne lo stile, per venire spediti già colmi di esperienza in qualità di secretarj d’imbasciata e poi d’inviati, plenipotenziarj ed ambasciadori, per esser indi al ritorno premiati cogli onori i più lusinghieri e decorati delle primarie dignità della patria. Vedrebbonsi allora al timon del governo veri calcolatori delle passioni, illuminati investigatori de’ cuori umani, e non già ingegni tardi e limitati che, ignorando gli interessi delle altre nazioni, incapaci si trovano di gerir quelle prime carriche che richiedono le idee le più vaste e le cognizioni le più profunde.

Accogliere con ogni bontà, osservare in tutto il sacro diritto delle genti, testimoniare quella stima di cui ne diedero i più chiari esempj tutti i popoli della terra: ecco i metodi i più sicuri di agire co’ ministri degli altri principi nella corte del mio regnante, ove mantenendo le inalterabili leggi loro prescritte dallo stesso diritto delle genti, nulla innovando contro la tranquillità ed il buon ordine, vanno distinti con quegli onori co’ quali i regnanti debbono negli altri rispettare i sempre indelebili caratteri della sovranità.


VIII. Cagioni personali per far la guerra. Se ne mostra l’illegitimità.

Giacchè le guerre sono cagioni di straggi e di rovine, lo sfuggirle sarà dunque il sacro dovere di ogni benefico conservatore della pubblica prosperità. In fatti, a che servirebbe ad un regnante, coll’incoraggimento dato alla coltura delle terre, alle arti ed al commercio, di aver accresciuto il numero de’ suoi popoli, e resi ricchi e felici, se poi qualche ostacolo a un imeneo, la semplice dimenticanza della sua dignità in certe inutili e vane cerimonie, un puro insulto a qualche imbasciadore o qualunque altra privata offesa dovrà esser bastevole ad armar i suoi popoli, ad animar la sua vendetta ed a esporre alla rapacità delle nemiche schiere i tardi frutti di tante fatiche! Ecco come tal volta le cure le più salutari alla felicità delle nazioni e le pene laboriose di varj lustri, impiegate da certi principi allo stabilimento delle più provide leggi, e delle più sagaci istituzioni, vengono distrutte dai sentimenti sì mal calcolati de’ loro privati odj e da’ contrasti di certe passioni, pel cui urto impetuoso loro riesce impossibile il distinguer la vera gloria dalla quale si credono diretti, ma che da loro si allontana in proporzion dei replicati sforzi che in quelle tumultuose occasioni cercano di fare per conseguirla.

Il mettere in pericolo le vite preziose de’ cittadini per sol fine di vendicare una personale offesa, il movere una guerra per soddisfar qualche passione, saranno azioni sol degne di un tiranno.[8] Principi sì crudeli meriterebbero di trovare ne’ loro sudditi il coraggio degli antichi popoli della Gallia, che sforzavan i monarchi a sfidarsi fra loro in presenza degli eserciti che li osservavano, allorchè le offese non interessavano la pubblica utilità.

E che dirò poi di que’ sovrani in cui il puro genio d’ingrandirsi o di acquistar provincie, ove l’ambizione fa loro credere di aver giuste pretese, li porta alle guerre? Ebrj di queste speranze, dimenticano l’incostanza della fortuna ed il peso della miseria sotto cui gemono i vincitori al par de’ vinti. Non vedono che il bene de’ sudditi serve di pretesto al loro bellico furore, mentre il solo orgoglio fabbrica le loro armi e ne inalbera gli stendardi, non fissando lo sguardo che sopra l’orrida pompa de’ trionfi. Ma scrivendo io per un principe benefico, a che serve il far menzione di quei barbari mostri a cui confidate essendo le porzioni di libertà naturale, in vece d’impiegar queste forze per la pubblica difesa, soli indifferenti ed illari fra i pianti delle nazioni, perduti nelle delizie delle piacevoli adulazioni dei vili cortiggiani, calcolano i copiosi torrenti del sangue de’ più virtuosi cittadini in proporzion del numero di certi inutili sufraggj che ne riscuotono o degli apparenti vantaggj che ne ritraggono?

IX. Guerre per principio di religione o di gloria.

Sfugga per lungi dal vero dispotismo la barbara superstizione nemica degli uomini, che, rilegata fra gli oscuri antri d’Averno, più non venga ad animar le risoluzioni dei dolci ed illuminati successori di quei regnanti che, acciecati dal falso zelo di religione, credevan sicuro il cammino verso le celesti prosperità nell’irrigar di sangue europeo le funeste contrade dell’Egitto e dell’Oriente. Nell’eccitare la compassione nel cuor del mio despota, per lo stuolo copioso di tante numerose schiere che con gioja e contento vi prodigarono le vite, si empia di orrore per quegli insidiatori della sociale tranquillità, che, mai satolli di rapine, in ogni tempo ebbero ricorso al fanatismo per animar le genti ad offrirsi vittime volontarie di un Dio di giustizia che, colla beneficenza delle sue leggi, ci anima soltanto alla pace ed alla tolleranza.


Se affin di prevenire le guerre di religione, che sempre sono le più atroci e le più sanguinose,[9] ho già accennati nella prima parte diversi spedienti, l’amor dell’umanità nuovamente obbligami di insistere sopra la riforma de’ regolari e di quell’Ordine in specie che degli altri suol essere il più industrioso nell’accender la face di tal sorta di guerre, che ne’ secoli a noi i più vicini fecero sagrificar le vite de’ più invitti monarchi, che con tante eminenti virtù formata avrebbero la felicità de’ loro popoli se, ispirati da questi insidiatori dell’innocenza, non si fossero immolati al falso zelo di una mal intesa religione.[10] Quanto ingiusto sia il violentar colle armi le altrui coscienze, quanto sia crudele il seguir l’esempio di Carlo Magno e di altri barbari monarchi, avanti e doppo di lui persecutori del libero arbitrio degli uomini, e quanto inumano sia l’obbligar colla forza le estere genti a sottometter la loro credenza, ce lo dice il Vangelo, ce lo ispirano i principj di una soda morale e ce lo confermano sempre più i saggj ragionamenti di una sana politica.

Se il desiderio di propagar la fede, che costò al genere umano fiumi di sangue, non armerà il braccio del mio regnante, non mai lo farà il solo diletto della gloria che, ad imitazion del Macedone, accese le vive passioni di un sovrano de’ tempi a noi prossimi a dimenticare i vantaggi de’ proprj sudditi per il funesto piacere di togliere e di donar corone. Non essendovi oggidì sopra i soglj che principi benevoli, e non già Busirj, Diomedi ed altri simili mostri di crudeltà, l’onor di distruggerli come facevan gl’Ercoli ed i Tesei non animerà già il cuor del mio principe, troppo saggio per lasciarsi trasportar da un falso entusiasmo di vendicar le altrui ingiurie, ripararne i torti, punirne i delitti, come dice Agostino,[11] giusta il costume degli imaginarj eroi, di cui ne vanno arrichiti tanti romanzi; sarà troppo amante della vera fama per far tentativi che non interessano la conservazione de’ suoi popoli, e dove vi è sempre maggior onta nel soccombere che gloria nel riuscire.

X. La guerra è naturale. Come possa esser giusta.

Che che ne dicano diversi filosofi, la guerra è lo stato della natura.[12] Combattevano gli uomini prima di unirsi in società da forsenati, senza metodo e senza ragioni, perchè la brama di cercare il piacere e di evitare il dolore agitando le passioni, non credevano di poterne ottener l’intento che sfogandole fra i tumulti e le gare confuse. I bruti, privi di quella riflessione che ci unì colle leggi, non ascoltando che quelle della natura, non vivon forse in una continua guerriera situazione? Non son forse armati i lor corpi per l’attacco e per la difesa?

È formidabile il caracolo, ha figura del lince men dolce ed il natural più feroce. Fa strazio, famelico, di molti animali; ma la pantera, più grande, più forte e più crudele, benchè sazia di altri cibi, pur lo attacca e lo divora.

Spande, il furioso becingua,[13] il terrore e lo spavento negli uomini (che morde ed uccide co’ suoi denti cannini ed il più mortifero veleno) ed in una infinità di animali che assale con veemenza e fanne pascolo; ma il porco marone ne va in traccia e lo divora colla stessa avidità.

Ha lo struzzo penne dure ed acute, giacchè per volar non gli servon le ali, lo ajutan nella corsa. Hanno gli uccelli il becco, questi le artiglie, altri le griffe, e tutti in proporzione sono armati. Alcuni veloci per sfuggir lungi dal nemico, altri con volo obliquo sanno evitarlo. S’inalzano molti nelle vaste aeree regioni quando temon periglj. Si uniscono altri in squadroni numerosi, ed in più e più maniere sempre mantengon fra di loro guerra crudele.

Cerca la mostruosa balena d’inghiottir molti pesci, alcuni nella lor picciolezza trovano scampo, i più celeri se lo procuran colla fuga; e lo spadone, che più sovente troverebbesi esposto a’ colpi fatali della di lei coda, è armato d’un lungo ed acuto acciajo, non sol per schermirsi dagli assalti ma anche per vincerla ed ucciderla, vendicando così la causa commune degli abitatori de’ mari.


Le api industriose, a cui debitori siamo della cera e del miele, son fornite di un aculeo velenoso, che se non serve loro d’armi possenti contro gli uccelli, i topi de’ campi, le lucertole, rane, rospi ed altri nemici di una forza troppo superiore, le difende almeno in parte dalle vespe e da tanti insetti perniciosi che ne farebbero la più deliziosa pastura.



Le incomode zenzale hanno anch’esse un aculeo, non è meno mordente ed assai più complicato, è formato di un fascio di sei lame, taglienti alcune ed altre acute, con cui posson aver difesa, e succhiando anco l’umano sangue procurarsi il sostentamento. Questi stessi animali, prima della metamorfosi, son vermi deformi armati di uncini che loro servon ad aggrappar gl’insetti i più impercettibili con cui si cibano.



Armati sono i bruchi pria di esser crisalidi, sortiti da’ bocchj e divenuti farfalle: se sorprendon gli osservatori colla bella varietà di colori, la leggerezza, il brio e l’eleganza de’ loro ornamenti, oggetti son pur di ammirazione le proboscidi e corna per difendersi fra loro, e le quattro ale con cui, facendo voli sì irregolari, si schermiscon da quello degli uccelli che in diritta linea lo diriggon per sorprenderle.



Ad imitazion de’ quadrupedi, degli uccelli, de’ pesci, dei rettili, testaccei e degli altri animali, sono gli insetti parimente zoofagi, mangiansi l’un l’altro o si distruggono in più modi, in istato essendo di mantener ognor viva la guerra. Denti, aculei, dardi, scudi, ale, corazze, griffe e corna, tutti han armi, tutti san tendere insidie[14]


Se tale è lo stato in cui pose Natura il regno animale, suscettibile di piacere e di do­lore, come non conchiuderne esser naturale la guerra? Se i bruti la fanno per l’istinto di saziare i loro bisogni o per il desio di distrugger le altre specie, e tal volta la loro medesima, vediam come la ragione possa diriger l’uomo in questo critico ed oscuro labirinto.


La guerra, che senza contrasto è il sommo de’ mallori, sarà necessaria per la propria difesa. Diro di più che il ceder provincie ove un ingiusto aggressore non ha alcun diritto, per il solo scopo di evitarla e per il timore dell’altrui valore, sarebbe una azione indegna di un buon regnante. Il lasciar da un sovrano ad un ingiusto nemico devastar le campagne, rovinar le provincie, abbrucciar le città, e l’abbandonare i popoli privi di difesa, è un attentato che scioglie fra il principe ed il suddito ogni sociale contratto. Il difendersi non solo è un obbligo, come abbiano veduto, ma una legge scolpita nel cuor dell’uomo della legislatrice natura, legge non solo scritta ed a noi trasmessa da’ primi uomini, ma nata, come si esprime un illustre antico,[15] con noi, che colla stessa succhiati ne abbiamo i primi doveri.


La difesa di una nazione non solo si estende nel guarentir ogni provincia, ma lo stesso suo governo. E che non faranno i sudditi del mio buon regnante, se giammai per una funesta combinazione si trovasse la sua vita ed il suo diadema esposto agli altrui attentati? Allor che avranno un vasto commercio a mantenere, una florida agricoltura che li arricchisce, le più belle leggi che li sottraggono alla prepotenza dei forti, quali non saranno i loro sforzi per sostenerlo? La vista di un nemico fiero ed isdegnoso, le fatiche indefesse ed ardue delle più sanguinose campagne, una morte imminente, qualunque orrore e qualunque tema non sarà loro giammai per ispirare la codardia di abbandonarlo nelle più difficili intraprese; giacchè la di lui conservazione sarà quella della pubblica felicità, per la cui difesa corrono veloci i più virtuosi cittadini a versare il lor sangue, mentre con un simil sagrificio, a guisa dei Decj, credono d’immolarsi alla salute della stessa patria che amano.

XI. Conquiste non proporzionate alle forze.

Sebbene sia nel diritto di natura il riprender colla forza le provincie usurpate da un ingiusto aggressore ed il conquistar quelle che sono di nostra ragione, pure una simil guerra può divenire ingiusta quando, consultate le proprie forze, si conosca più evidente il pericolo di succombere che la speranza di riuscire, giacchè maggiore è l’onta a perder quel che si possiede, che a non averlo giammai posseduto.[16]

Il prevedere di dover essere sforzato a rovinare il suo popolo o esposto a quasi sicure sconfitte saranno cagioni troppo possenti per disarmare il braccio di un benefico sovrano.

Luigi XII Re di Francia, vero padre de’ suoi popoli, avendo sopra di ogni altro sovrano le più forti ragioni per far la conquista della Lombardia, informatosi delle spese a cui indotto lo avrebbe una tal guerra e richiesti i direttori delle proprie finanze di quanto esser vi poteva nell’erario, non ritrovandovi il bisognevole, consigliato da’ ministri ad accrescer le imposte, loro rispose: Voglio piuttosto rinunciare ad una giusta pretesa che carricar i miei sudditi per una guerra che non risguarda se non il mio proprio interesse.

Dunque la ragione evidente sopra uno stato, le più legitime pretese non saranno valevoli ad animare il mio eroe per entrare nei funesti campi di Marte. Imperciocchè, se la sola rettitudine bastasse per vincere, tante nazioni state non sarebbero soggiogate, distrutti tanti regni da’ più ingiusti usurpatori, tante vittime innocenti vedute non si sarebbero immolate all’ira funesta del più forte. Così se il mio regnante troppo si confidasse alle proprie ragioni ad intraprender guerre senza la forza per riuscirvi, esponendo ad una quasi sicura rovina un popolo che l’ama, il suo delitto sarebbe allora in ragione dell’amor che portar gli dovrebbe.

XII. Amor del principe pe’ suoi sudditi nelle guerre.

La somma principale dei bisogni che ebbero le genti di mantenere l’unità di azioni nelle guerriere intraprese le portò ne’ secoli da noi i più remoti ad eleggere principi; verità sì conchiudente che ben pochi furono i popoli i più liberi fra i quali la libertà non sia stata preceduta dai dominj di un solo. Dunque lo stato di guerra o la cagione di darle un esito felice sarà una delle primarie origini de’ monarchici governi.

Se è incontrastabile un tal principio, chi potrà non convincersi essere un inalienabile dovero della sovranità il guidar le proprie schiere contro i nemici della patria?

Col lasciare ad altri il comando supremo de’ loro eserciti, chi potrà descrivere i guai di cui vanno in traccia i regnanti? Le lente operazioni di un gabinetto che, non trovandosi presente alla continua rivoluzion delle circostanze, ritarda i movimenti delle soldatesche; le funeste gelosie de’ comandanti, alle quali pur troppo sagrificano il loro onore, la gloria della corona e la difesa de’ popoli; l’avara cupidiggia di coloro che, in vece di diriggere al ben dello stato le belliche intraprese, metton a contribuzione l’industria de’ sudditi i più fedeli e tal volta per fine gli stessi bisogni delle milizie; non sono queste sventure che interessar devono il paterno amore de’ sovrani?

E che dirò degli esempj di felonia a cui si espongono con un tal metodo? Lo dicano pure le storie di tutti i secoli, quanto grande sia il numero di que’ regnanti ai quali col diadema furon rapite le vite da chi, seducendo con una interessata beneficenza le soldatesche, le seppe render infedeli alla sola legitima autorità!

Col comandar le proprie truppe, non solo conserverà il mio regnante l’unità di azioni ed un vero assoluto potere, eviterà le cabale e renderà inutile l’infedeltà degli uomini corrotti, ma saprà altresì risvegliar le passioni dei guerrieri, ai quali la di lui presenza ne’ pericoli non solo è un beneficio, ma un vero stimolo a disprezzarli ed a farli aspirare a quelle eminenti virtù che destano la maraviglia de’ leggitori per le greche e romane milizie. In fatti qual sarà quel soldato che, vedendo il di lui sovrano abbandonar gli aggj e le delizie di una splendida corte per ripartir le pene ed i travagli, che animar non si senta a coglier allori? Esempj sì magnanimi seppero in ogni tempo avvincolare a’ principi i cuori delle milizie.

E quanto poi sia grato il raccogliere i frutti dell’amor de’ soldati, già lo provarono i più illustri capitani. Al loro esempio andrà sconosciuto il mio eroe negli accampamenti, e volgendo i di lui passi di tenda in tenda, sentirà da rozzi guerrieri che non san mentire decantati i suoi vanti. Udirà da alcuni vantato il di lui coraggio nel sopportare i disaggj, dagli altri l’affabilità con cui visita i soldati e dimanda a veder le ferite, ne vanta le prodezze e li consola, l’un colla speranza, l’altro coll’onore; da questi il di lui viso sereno allor che si prepara ad azzuffare il nemico ed in tutti gl’incontri i più difficili e decisivi; da quelli la generosità con cui li soccorre ne’ bisogni e fa loro dimenticar le più triste vicende co’ segni di quella liberalità che sa accompagnar con modi ancor più grati e più insinuanti. Tutti a gara lodando le di lui sublimi virtù, ebrj tutti del più eroico entusiasmo, parmi già di udirli esclamar in tali accenti: Cada il nemico e si moltiplichino i trionfi del nostro duce, ci conduca contr’esso mille e mille fiate, e li darem sempre nuovi contrassegni del nostro amore ognor fervido della nostra sempre viva riconoscenza. La conquista de’ cuori delle milizie è sì necessaria che non fu mai negligentata dagli stessi tiranni.

Per mostrare il di lui paterno amore verso gli eserciti, non solo dovrà il mio eroe condurli egli medesimo alla guerra, ma reprimerne gl’impeti generosi che li portano a sagrificarne senza vantaggio dello stato le vite preziose. Nemico del sangue, il magnanimo mio condottiero non esporrà le proprie soldatesche alle zuffe se non nelle favorevoli circostanze di ergere con sicurezza trofei alla patria.

Non mai dimentico che ogni suddito merita i suoi teneri sguardi anche fra gli orrori della guerra, volgerà l’occhio pietoso verso le provincie. I negletti e frugali agricoltori, gli industri artiggiani e gli affettuosi cittadini formeranno anche fra le belligere cure l’oggetto delle sue attenzioni; cercando di respingere lungi da’ suoi stati il furibondo nemico, vi farà fiorire il più dovizioso commercio, veglierà che in ogni luogo ove le nemiche schiere non vi penetrarono, coll’apportarvi i delitti, le morti e le rapine, siano osservate le leggi, costretti a’ loro doveri i magistrati ed adempiuta ogni cura della più saggia amministrazione, come se i popoli godessero di una pacifica tranquillità. E non riusciranno inutili gli sforzi e le invasioni di un nemico se una tal nazione, che ubbedisce al più illuminato ed al più benefico de’ sovrani, disciplinata e pronta ognor si trova a difendere le proprie frontiere.

Se nella guerra diverrà necessario qualche sussidio, se, doppo di avere coll’esempio del virtuoso Marc’Aurelio impiegati tutti mezzi del proprio erario e le ricche supellettili della sua corte, avesse pur d’uopo di qualche soccorso, guardisi dalla funesta alterazion delle monete e dalle estorsioni, e si confidi del tutto nell’amore del popolo che lo adora. Qual sarà quel cittadino sì privo di riconoscenza che pronto non si trovi ad offrir con piacere ad un essere sì benevolo in un colle sostanze anche la vita? Si vedrebbero in un simil governo i sudditi a guisa del popolo romano, che, ricevendone l’esempio dal senato e dai principali cittadini, va a deporre nelle mani de’ questori ogni ricchezza, animati dal più nobile entusiasmo, non vedendo nella conservazione e nella prosperità del lor regnante se non quella della patria, dar gli esempj i più memorabili alla posterità di quanto sia capace una nazione che ama il suo principe. Vedrebbesi infine allora se non sia illimitato ed assoluto il poter di chi governa colla virtù e di ogni sovrano che nella pubblica felicità ricerca il vero dispotismo.


XIII. Eserciti.

Le schiere forti e valorose sempre furono risguardate dai buoni come dai cattivi principi quali mezzi i più efficaci di pervenire al più assoluto potere. Questi se ne servirono per mantenere i proprj sudditi fra i dolorosi gemiti della più crudele oppressione, acciocchè, vinti dal timore, più non resistessero quando a loro piaceva immolar vittime ad ogni barbaro capriccio e, per empire tutte le estere genti di terrore e di spavento, saccheggiarne le città e debellarne le provincie. E quelli, amanti de’ sudditi, ne facevan il fondamento del vero dispotismo, conoscendo esser un esercito d’intrepidi soldati il sostegno del principato, per difenderli contro gli esteri tiranni e mantenere nell’interno la tranquillità ed il buon ordine.

Quantunque il mio popolo sia diretto da un spirito guerriero e che i principj della più utile disciplina siino introdotti con tutte quelle illuminate providenze che facilitano i movimenti degli eserciti ed il trasporto de’ magazeni, sicuro vantaggio sopra i vicini, nulladimeno non mancherò di sviluppare que’ principj che tendono a formare soldatesche invincibili. Mostrerò al leggitor sagace non esser già il numero delle medesime, ma la scelta, il buon ordine e la disciplina che costituiscono quella forza che chiamerò conservatrice della prosperità degli imperj; farò vedere in fine qual sia il metodo il più sicuro per formar un esercito formidabile e come, ecittandone i cuori sensibili, si elevan anime generose a difendere il più felice governo.


XIV. Soldati antichi più valorosi de’ moderni.

Prescindendo dall’educazione, di cui servivansi in altri tempi i legislatori per destare ne’ cuori degli uomini i più elevati sentimenti verso la gloria, dirò che il solo interesse che avevano i popoli antichi nelle vittorie bastava a formare guerrieri magnanimi e coraggiosi. Se i Greci ed i Romani, se tutte le altre libere nazioni diedero celebri esempj di valore, non avremo per questo luogo ad istupirci; mentre nel calcolare le utilità che ne ritraevano ne’ trionfi, le pubbliche e private perdite nelle sconfitte, ne vedremo quelle vere cagioni animatrici alle più sorprendenti imprese, che da gran parte de’ leggitori vengono credute favolose, oppure un effetto dell’eccessivo entusiasmo degli autori che ne trasmisero a’ posteri la degna memoria.


Quando i Milziadi, gli Epaminondi, i Camilli, gli Annibali e gli altri duci di popoli liberi volevano accendere il coraggio negli eserciti, per animarli alle più segnalate vittorie, loro parlavano in tali accenti: Generosi compagni nel bel cammino della gloria, vi siano presenti le memorabili gesta con cui empieste il mondo de’ vostri nomi. Ricordatevi, o forti cittadini, che combattete per la conservazion delle più provide leggi e della libertà. Le caste spose, i figli amati, le fertili campagne, i patrj tetti, i Dei Penati, i tempj in fine aspettano da voi una intrepida resistenza, acciocchè, ripartite le dovizie dell’orgoglioso nemico, accrescer vediate col frutto del dimostrato valore le vostre ricchezze e la prosperità della patria. Se Ciro, Alessandro, Pirro, Eumene e gli altri capitani delle assoggettate nazioni nell’animar le schiere non parlavan di leggi e di libertà, eccitavan nulladimeno ne’ cuori l’onor della difesa di un monarca, generoso rimunerator del valore, colli sempre parlanti stimoli delle fastose spoglie di un nimico sconfitto ed abbattuto.


Se erano seducenti i mezzi con cui si animavano i sentimenti degli antichi soldati, come potranno gli odierni generali spingerli alle eroiche azioni se spento trovasi ogni interesse alle vittorie? Ecco come un capitano potrà parlare oggidì alle sue truppe, se la verità ha da diriggerne i sensi e se nella filosofia cavar ne vuole le vere massime: Dimostrate, o soldati, il più invitto coraggio per un principe che, immerso indolente nel fasto e ne’ divertimenti della sua splendida corte, di voi non si cura ed appena degna applaudire agli sforzi con cui versate a ruscelli il vostro sangue per l’onor della sua corona. Battetevi, magnanimi campioni, con un nobile ardire, giacchè il frutto de’ vostri sudori potrà forse essere la conquista di una provincia, della quale non ne godrete alcuna porzione; una pace gloriosa, che multiplicherà le pene ed i disaggj di una disciplina sempre più fastidiosa sebbene inutile;[17] un aumento di potenza nel vostro sovrano, che, obbligato ad accrescere il numero de’ suoi eserciti, ne cercherà il mantenimento nell’odiosa diminuzione di quel poco che ora avete. Se offesi verrete dalle armi nemiche, quelle di malesperti chirurghi finiranno di squarciar le già lacere membra. Se le ferite le più perigliose v’impediranno di proseguire il peso della milizia, quando mendichi non scorriate le provincie, non sarete per questo meno infelici. Se poi sarete sconfitti, perderete un vestito che non vi guarentisce dall’intemperie de’ tempi e dal rigor delle stagioni, troverete un tozzo di pane nero ed affumicato presso il nemico, che vi sforzerà di seguire i suoi vittoriosi stendardi. Sì vinti che vincitori, quasi sempre sarete lo scopo della brutalità di chi vi commanda, taceranno per voi i dolci sentimenti di umanità ed i sacri diritti della natura. Intrepidi o codardi, sempre sarete la feccia del genere umano.

Se i generali volessero oggidì colle loro parole ne’ freddi petti de’ soldati risvegliare per poco il coraggio, non potrebbero esporre che menzogne; le verità sono sì fatali che produrebbero l’effetto contrario. Perciò si tace a ragione.

Ecco dunque come la sicurezza di ritrovar nelle vittorie un aumento non di una apparente ma sicura felicità sa render intrepidi gli uomini ne’ pericoli, che divengono alla loro riscaldata imaginazione più o meno grandi in ragione del desiderio più o men vivo che si ha di possedere un oggetto reale a cui si aspira. Il coraggio dunque essendo l’effetto dei bisogni, facile sarà il comprendere come gli eserciti dell’antichità, sicuri di pervenire al bramato fine colla vittoria, dovevano agli odierni esser superiori in forza ed in valore.

Se non erano allora composti che di guerrieri coraggiosi e magnanimi, che a guisa di lioni uscivan da’ loro covili per sbranare le fiere, oggi saranno mandre di pecore avvilite, mosse dalla cecità e dalla subordinazione, ma che nulladimeno, altrimente diretti ed interessati nelle vittorie, si potranno co’ principj che andrò dimostrando diriggere anch’essi alla vera gloria.

XV. Gli eserciti debbano esser ben mantenuti.

Affin di provare al mio eroe che per formare un esercito di soldati valorosi il mezzo il più efficace sia di loro fornire un tal mantenimento che ne nudrisca il vigore e la fedeltà, non avrò già d’uopo di ricorrere a’ celebri esempj che ci presenta la storia di tanti capitani che pervennero con simili mezzi alla sovrana autorità, nè tampoco quelli di molti monarchi che, guadagnati i cuori delle soldatesche, arrivarono a roversciare imperj sì possenti che eccitano la meraviglia e lo stupore soltanto in chi non conosce i veri principj motori dell’umana natura. Inutili sarebbero al mio giusto regnante tali eccitamenti a dettarne la più affettuosa clemenza, giacchè, passando con essi ne’ campi di Marte, li avrà per la sua difesa veduti far prodiggj di valore.

E chi potrà dubitare che i di lui sensi i più compassionevoli non debban esser rivolti alle valorose milizie, se tal volta ne’ fieri rigori del più rigido verno li avrà veduti, raggricciate le membra di un mortifero gelo, camminar fra le nevi, ne’ tempi di pioggie indefesse sdrucciolarsi nell’acqua e nel fango, per trattener lungi dai patrj lidi le armate ostili, e tal volta semimorti dall’orrida sete, percossi dai vivi e penetrantissimi raggj di un sol cocente, soffocati dalla polve e dalla sabbia, che smossa dal calpestio degli affaticati destrieri loro offusca la vista, marciar senza temer gli ostacoli della stessa natura, fra le aride ed apriche campagne nella state, per assalire ora un corpo, or l’altro dell’esercito nemico, per sorprender le città, attaccarne le rocche, azzuffarsi senza temer le orride larve della morte? Egli in fine che ne’ tempi della stessa pace sarà testimonio del rigor della lor disciplina e, presente a’ reiterati sforzi della più difficile tattica, potrà forse soffrire di vedere simili generosi difensori della pubblica quiete non aver con che satollar la livida fame, che smonti li rende ed abbatuti, fra que’ stessi prosperosi cittadini che devono le dovizie alla bravura con cui ne prodigarono le vite?

XVI. Valore ed amor del travaglio. Come si debban eccitare.

A che servono a’ sovrani le tante numerose schiere di soldati scoraggiti e sforzati a seguirne gli stendardi, a che gli infiniti regimenti di uomini ne’ quali il tenue soldo, i cattivi nudrimenti e gli incomodi e ributanti alloggj non possono destare il zelo ed il valore? Introdotto lo spirito marziale, distribuiti in battaglioni e compagnie di milizie i sudditi cogli elementi della militar disciplina, acciocchè ne’ bisogni possan complettar le armate di soggetti accostumati al travaglio, poche legioni e regimenti di soldati agguerriti e ben mantenuti basteranno allora ad imprimer ne’ vicini quel rispetto e quella stima che conservano la pace, senza aver d’uopo di un numero eccessivo di truppe malassette che privano le campagne di agricoltori, che desolano le provincie e che tanti danni arrecano alla popolazione ed alla vera opolenza dello stato.

Che molti odierni metodi di mantener le truppe sieno opposti alla ragione ed al desiderio di formare uomini intrepidi ben lo sanno i veri conoscitori dell’arte della guerra, che segretamente gemono di non poter migliorarli. Ma a che mi servirebbe il declamar contro gli abusi conosciuti da chi ne volle analizzar i principj, se non si additano altri mezzi affin di proporne la riforma? Dirò dunque, col solito mio zelo di sollevare l’opressa umanità, di far amare e temere la potenza del mio eroe, che ne’ tempi di guerra gl’infelici soldati, soffocati nel calor della state in tende anguste, mancanti di paglia e mal coperti nell’orrido verno, se ne scema la forza ed il valore. Diminuiscasi dunque il numero delle genti ne’ padiglioni,[18] e questi, resi più solidi, servan pure di continuo allogio in ogni stagione alle truppe, che, più non ammollendosi nelle case de’ cittadini, si renderebbero sì incallite nel travaglio quanto esser lo potevano gl’infaticabili Romani.[19] Restin pure durante la pace nelle caserme, ma, tolte alle medesime la laidezza ed il fettore, se ne muti l’ordine e la struttura, se v’ha da regnare la nettezza e la comodità, vere conservatrici della salute. Il dare alle medesime la forma de’ chiostri sarebbe il miglior metodo, poichè distribuendo uno o due soldati in ognuna di quelle picciole stanze, sempre aperte affinchè i superiori d’ispezione far vi possano le debite visite, si renderebbero più liberi senza alterarne la disciplina. Sieno in ugual modo distribuiti gli spedali delle legioni, non contenga ogni letto che un sol ammalato; abboliscansi quelle tiranniche economie che inpediscon di ristituire a’ corpi illanguiditi il pristino vigore. Abbrucinsi le monture de’ morti di certe malatie: comunicando queste il contaggio agli altri che se ne vestono, li fanno perire. Puniscansi in fine i barbari attentati di coloro che, insensibili alle altrui sventure, osano con simili monopolj arrichirsi dei gemiti della derelitta umanità.

Si esigge dall’oficialità dell’onore una cieca ammirazione per la nobile carriera delle armi, e si lascia languire nella penuria. O funeste contraddizioni! Sappian i reggitori degli uomini che, con accordar tenui soldi, non s’avran per oficiali che uomini estremamente ricchi o miserabili, di un coraggio abbatuto e languenti: sono i primi atti a resistere alle durezze di un tal mestiero, e saran gli altri ambiziosi a segno di operar meraviglie?

Se si pretende dai semplici soldati una continua applicazione al travaglio, perchè lasciarli perire nella miseria, che, rendendoli intorpiditi, ne distrugge il vero amor della fatica? Oltre un maggior soldo[20] esattamente pagato,[21] abbian un miglior mantenimento; diasi ad ognun non solo una certa quantità di cibi salutevoli, ma picciol misura di vino ne’ paesi caldi e di acquavita ne’ climi freddi. Stabiliscansi per ciò in ogni legione vivandieri contro i cui monopolj[22] si vegli pure da chi le comanda. Perchè non accostumarli nel tempo di guerra al biscotto o al puro grano in pasta, affinchè, mancando in certe occasioni il pane, non si trovino desolati e mossi ad abbandonare gli stendardi? Il biscotto potendosi conservare per molti mesi, non si vedrebbero gli eserciti scemar per la penuria. Siccome grande è il numero di que’ soldati che periscono nelle marcie per la crudezza delle acque che bevono quando trovansi assettati, l’aceto ne sarà la miglior precauzione. Ne abbia dunque ognuno una certa porzione, mentre con ciò non solo si impedirebbero i funesti effetti della crudezza delle medesime, ma l’inconveniente che apportano alla salute le continue mutazioni dei climi. Che sieno necessarie simili disposizioni, ce lo insegnano i più rinomati capitani fra i Cartaginesi[23] ed i Romani,[24] che davano somma attenzione a tutti quegli oggetti che potevano contribuire alla buona direzion delle guerre.

Guardisi di attaccare il nemico, se i proprj soldati non sono nudriti avanti la marcia,[25] poichè non sempre cedon i guerrieri per mancanza di valore, ma il più delle volte per quella delle forze fisiche. Non furono in fatti alla Trebbia battuti i Romani perchè, trasportato Sempronio da un furioso coraggio, s’azzuffò col nemico pria che i proprj[26] soldati si avessero col cibo procurato il vigore? Non temo già con questi dettaglj di aver avvilito l’importante soggetto che proposto mi sono di trattare, mentre sarà sempre elevato ogni sentimento che tende a dimostrare i veri elementi, che eccitano il valore e che interessano nelle gloriose intraprese.

XVII. Invalidi.

Funesta conbinazion di sventure! Prodigano i regnanti a larga mano le ricompense su i celati traditori della patria, premiano gli attentati contro la sicurezza dello stato, arrichiscono i discendenti di coloro che apportarono i colpi i più fatali alla pubblica felicità, ma lasciano poi languir nell’indigenza que’ uomini laboriosi ed illustri che con tanta gloria sostennero l’onor della nazione e, dimentichi dei veri serviggj, rimirano con disprezzo gli squallidi avanzi di quegli intrepidi guerrieri che intrisi di sangue, carrichi di vittorie e di ferite, vengono con tanta ingratitudine destinati a passar la vecchiaja nella miseria e nell’oblio.

In vano cercansi altrunde le cagioni della decadenza de’ più nobili sentimenti. E come mai si possono pretendere magnanime gesta da quelle soldatesche ove il solo timore mantien semplici soldati nell’ordine e nel dovere, e dove gli officiali non vengono stimolati alla gloria se non da un punto chimerico di onore, incompatibile colle tante altre diramate passioni che cooperano alla formazione della virtù, e che non ha altra base che un entusiastico fanatismo, il qual sempre cede alla ragione, se ne prende l’impero? La livida meschinità, che intorpidisce gli uomini in tutti gli altri stati della società, avrà forse la forza d’insinuar elevati sentimenti, principalmente a quelle anime nobili, nudrite nel tumulto delle armi e destinate a comandar col volger dei lustri legioni ed eserciti? Se hanno ad ispirare zelo alle truppe ed ad infiammare coll’esempio i cuori de’ soldati, perchè non assicurarli di una vita più agiata e tranquilla allorchè, sorpresi dalla caduca età o dagli acuti strali dell’ostile acciajo, più non ne posson seguire le orme onorevoli?

La sicurezza di godere gli avanzi di una vita affaticata e gloriosa fra le pacifiche cure deve esser mantenuta ad ogni guerriero sempre in proporzione delle prove date di virtù e di valore. Tolgasi da questi luoghi destinati al sostentamento delle milizie una inutile pompa di edificj e di grandezza. Tutte s’impieghino le somme destinatevi alla comodità della vita, se ne accrescano pure i fundi, affinchè più non si vedano mendichi per le provincie quei generosi campioni che con tanta intrepidezza difesero la repubblica. Questo sarebbe un altro mezzo per formare uomini intrepidi, mentre, sapendo di non esser più abbandonati da un crudele destino, a passare gli ultimi giorni in una famelica indigenza, sempre più s’interesserebbero nelle vittorie.

XVIII. Dignità militari.

La speranza di procacciarsi la maggior somma possibile di piaceri e di evitar le afflizioni scuotendo l’inerzia, ben si vede quanto debba esser grande la cura di un regnante che sa pensare a non defraudar le milizie nelle idee che si propongono, allor che, scacciando ogni panico terrore, con tanta prodigalità si espongono a’ pericoli. La sicurezza di aumentar in credito, in onorifiche distinzioni ed in mezzi di procurarsi una vita più agiata non ha da esser tolta ad alcun de’ guerrieri, che devono essere promossi a maggiori dignità, giusta l’anzianità de’ serviggj e più ancora in proporzione delle azioni con cui si distinsero.


Se allor quando si tratta della scelta di coloro dalla cui intelligenza dipendono i nostri divertimenti i voti si uniscono in favor de’ più abili, perchè dovransi transgredire le stesse regole produttrici del merito per la pubblica difesa? Svaniscano pur dunque le vane preferenze, che i figlj degli stessi eroi non si credan già sicuri di aspirare con certezza alle più eminenti dignità sotto l’ombra degli allori de’ genitori, se co’ proprj meriti non si rendono immitatori delle loro esimie gesta.


Che i nobili siano i più atti ad occupare le carriche marziali ce lo dimostra l’esperienza e la storia di alcune nazioni, ove si viddero più volte il sostegno della monarchia. Certi vanti sebben chimerici e certi stimoli di onore che sembran distrugger l’uguaglianza fra i cittadini, eccitati vieppiù dalla cieca abitudine, dall’educazione e dal timor della privazion dei suffragj, destano fra di loro in vero alcune utili passioni. Un tal riguardo però alla nascita deve esser sempre diretto dalla ragione, affinchè questa considerazione non acciechi lo spirito regolatore del mio benefico governo a dimenticare alcune anime grandi, che, nate nella mediocrità o condannate all’oscurità dalle più assurde leggi, san però rendere fruttuosi i loro serviggj alla patria che li implora. Così dunque gli avanzamenti, se hanno da nudrire il valore, sieno calcolati dal merito, che giammai potrà mancare di essere conosciuto ove un Consiglio di sagaci investigatori del cuore umano presiederà in tutte le belliche disposizioni, che allora non possono se non che esser dirette verso il vero ed unico scopo di pubblica utilità.


XIX. Venalità ne’ gradi. Funeste conseguenze.

Che dirò di quegli eserciti ove le carriche militari si vendono a peso d’oro ed ove si trafficano le centurie e le legioni, non come genti unite dall’onore e dalla disciplina per difendere il sovrano, ma bensì quali mandre di pecore avvilite che passano a vicenda sotto diversi condottieri, nei quali la capacità non può esser se non l’effetto del puro caso? E chi potrà mai dare alla fosca imagine di un tal sconvolgimento que’ veri colori di orrore che merita una tal dimenticanza degli eccitamenti alle nobili azioni? Sotto un simil governo si vedono giovani menteccati ed orgogliosi elevarsi a carriche eminenti e vendicarsi con ignominia di chi osò corregerli quando erano subordinati. Così avvien poi che le soldatesche perdon l’amore ed il rispetto a’ lor comandanti, ne’ quali non ravvisano altra virtù che le ricchezze. Gli oficiali valorosi che diedero le prove maggiori di zelo, vedendosi sottomessi a’ voleri ed all’insufficienza dei meno capaci, più non rimirando colla stessa nobiltà di pensieri il penoso mestier delle armi, dispreggiando chi non imparò ad ubbedire per saper comandare, lascian introdurre ne’ loro cuori gli odj e le vendette, gli oltraggj ed i rancori. Disgustansi i più esperti del servizio, lo abbandonano e corrono ad aumentar le forze reali del nemico, ove, apportando lo spirito di una giusta vendetta, conoscendo i diffetti del partito che lasciarono, possono essere i più utili a quello che abbracciano. Lo stesso furore ch’eccita l’uomo alla passion della vendetta, obbligandolo allo studio fa crescere i suoi lumi, animando in tal modo il valore, che se pria era forte, fiera diviene che ruge allorquando non le vien concesso di lacerare chi osò irritarla ed offenderla.[27]

Sotto alcuni imperadori che accordavano le dignità militari all’oro, si viddero i soldati romani, dimentichi dell’antica disciplina, esser sconfitti dai Parti, dai Germani e da altre nazioni, quali vinte indi furono da alcuni de’ loro successori che le resero di nuovo invincibili coll’abolir un sì ludibrioso commercio. Ditelo voi, conquistatori, che con poca mano di ben armate schiere soggiogaste tante nazioni, se erano le ricchezze o le lodevoli azioni che conducevan i vostri guerrieri agli onori! Ditelo, o ambiziosi, che coll’amor delle milizie sapeste avvincolar molti popoli sotto il vostro rigido potere, e voi, esseri benevoli che, distruggendo i più confusi governi, colla scorta dell’umanità e le truppe le più invitte arrivaste all’impero!

Giacchè il mio eroe si propone di aver un esercito di uomini magnanimi, giammai non sarà per soffrire che simili commercj d’impieghi empian le milizie di soggetti incapaci a sostenerne l’impegno, metodo soltanto possente a rovinar la disciplina e che, scemando ne’ cuori le più nobili sensazioni, produce soltanto spiriti codardi ed oscuri, incapaci di resister agli sforzj di quelle anime grandi che cercano ogni fortuna fra le stragi de’ nemici estinti.

XX. Arbitrio de’ comandanti nel conferire i gradi. Quanto sia nocivo.

Guai a quel sovrano che, obbligato dalla necessità della difesa a mantenere copiose schiere, ne lascia la cura degli impieghi a’ comandanti! Troppo rari essendo in tutti gli stati della società i principi di Liechtestein, unicamente animati dall’amor del sovrano, che si danno la benefica cura, soggiogando quelle passioni sì facili ad impadronirsi de cuori de’ potenti, di empier le legioni di soggetti valenti; vedrebbonsi bandita la virtù, trionfar ogni vizio e dirette le legioni da alcuni indolenti ed orgogliosi e da altri vili e scoraggiti. 


Le cabale, i partiti e le fazioni tengono allora luogo di disciplina. Cede il merito allor che si presentan le preferenze di nome, la parentela o le arti di saziar le altrui cupidigie per atterrarlo.

I caratteri di perfidia di un corrotto comandante s’imprimon ne’ cuori de’ subordinati, che nulla ommettono per acquistarne le grazie. I falsi rapporti e le menzogne divengon i più sublimi meriti, e lasciando i favoriti libero lo sfogo alle passioni, i capriccj feminili servon di norma a chi è tenuto di spinger le soldatesche alle azioni utili e lodevoli. Gli officiali, avendo per i superiori troppo timore, spogliansi di quel nobile ardire che tanto anima il coraggio de’ militanti, ne abbandonano la gloriosa carriera, oppur si rendono incapaci di magnanimi pensieri, soffocati e depressi da coloro che si fanno un dovere di perseguitare la capacità ed il merito, che loro servono di un continuo e parlante rimprovero.

Accostumati i subalterni a trovare ne’ comandanti l’origine della loro fortuna, divengono le legioni una mostruosa unione di molti confusi dispotismi opposti a quello del regnante, giacchè in esso lui più non ravisano quella fonte inesausta di premj e di grazie che tanto vivificano i cuori de’ guerrieri.

Corrompono allora gli avari tutti gli stimoli alle vittorie, ed il credito ceder dovendo il passo al merito, impadronendosi gli adulatori degli animi di chi comanda, le legioni le più valorose si trasformano in una turba di schiavi, che più animate non vengono dall’onore e dall’ambizione. Un esercito in fine ove viene adottato un simil sistema non formerà Aristidi e Pausanj, Scipioni e Sertorj, Ezzj e Belisarj, nè tampoco que’ stuoli d’invitti guerrieri che, dispreggiando la morte, osarono sostenere i reiterati sforzi delle squadre le più numerose e soggiogar gl’imperj i più opulenti.

XXI. Passioni.

Vincitori dei Lidj e degli Assirj, voi debellatori dei Persiani e degl’Indi, voi Greci condottieri di libere genti, che osaste opporre ad innumerabili nemici poche schiere valorose, voi eroi del Tebro che roversciaste tante vaste monarchie, dirigete per poco la mia penna ed i miei pensieri, affin d’istruire il mio regnante nell’arte la più sublime di formar intrepidi guerrieri, veri disprezzatori di ogni pericolo. Svaniscan pure i vostri perniciosi disegni, intolleranti teologi, che inimici delle genti loro presentate le più funeste larve per renderle timide e ciecamente sottomesse a’ vostri voleri. Non si oppongan gl’inesorabili dogmatici, corruttori de’ costumi, che con tante dispute sottili e ridicole, soffocando il coraggio, cercan di trasformare gli uomini in mostri. Tacete, sofistici moralisti, che colle più patetiche declamazioni cercate di scemare ogni inclinazione alla gloria; attentato barbaro ed iniquo con cui ridur vorreste gli uomini a divenir automati; e voi pure, rigorosisti, animati del terrore che v’ispira l’idea non di un vero Dio, ma di un nume orribile, vendicativo e sanguinario, che sta in aguato a tender insidie per tormentar i deboli mortali, più non logorate i vostri corpi per distrugger le passioni, più non seminate il contaggio del proprio annichilamento e, per voler piacere all’Esser Supremo, più non l’oltraggiate con sì grave delitto;[28] e coloro infine che non conoscono i più cupi seni del cuore umano, restino in silenzio e sentano con una filosofica attenzione i consiglj di un buon cittadino che, occupato dalla gloria de’ regnanti, loro mostra la via di render le milizie invincibili.

Possente entusiasmo delle forti passioni, vere sorgenti delle più magnanime intraprese, tu fosti quel desso che al sempre curioso nocchiero ispirasti l’ardire di correre i fluidi infiniti di un pelago immenso ed infido. Tu lo facesti trionfare del mortifero terrore che fa nascere questo insidiatore elemento quando viene agitato dalla furia de’ più impetuosi aquiloni. Reso invincibile un tal navigatore dall’avidità delle ricchezze o dalla gloria delle scoperte, ovunque aggira lo sguardo, non vede che continenti, spiaggie e porti, laddove un timido e tranquillo mercadante non scorge che naufraggj, morti, periglj e sciagure. Tu animasti il valor dell’ambizioso che, abbandonando il naturale lettargo che suol inculcare il dolore, si portò a cercare il piacere fra le stragi e le rovine. Solo occupato delle conquiste che meditava, delle leggi che impor voleva a’ popoli vinti, dei cocchj trionfali che condur lo dovevano fra gli applausi delle genti, sgorgar vidde l’altrui ed il proprio sangue con un sensibile diletto, proporzionato ognora a’ trofei che vedeva imminenti. Vivamente animati dalle passioni, gli spiriti grandi e straordinarj giammai non ravvisarono ostacoli nelle rocche scoscese, ne’ vasti deserti, nelle imprendibili fortezze, negli innumerabili eserciti nemici, che sempre ributarono il coraggio di uomini arditi ma assai meno appassionati. Lo dican pure i Cortesi, i Coitigni, gli Albucherqui e que’ famosi capitani che resero attoniti i popoli dell’India, che tutt’ora appena osano crederlo.

E di qual cosa mai non può esser capace l’entusiasmo delle passioni? Tutte conducono a fondare ed a distrugger monarchie, ed a formare repubbliche. Il piacere di trionfare segnò le traccie grandiose di Ciro e di Alessandro, di Temistocle e di Milziade. L’ambizion di dominare e di dettar leggi ad un popolo libero, quelle di Silla e di Cesare. Accese la vendetta il cuor di Alcibiade, di Coriolano e di Eugenio; l’odio animò il genio guerriero di Annibale, ed ambidue quelle passioni eccitarono i su lodati duci a far stupire i posteri, che appena sanno dar fede a quel che leggono. Condusse l’avarizia i forsennati che seguirono il furibondo Catilina e le turbe spietate de’ Marj, dei Cinna e degli altri che acquistarono un illegitimo potere fra le proscrizioni ed i saccheggj de’ loro concittadini. La virtù nudrita nella frugalità e nell’ubbedienza alle leggi eresse trofei nelle repubbliche ove l’amor della patria seppe produrre i Pericli, gli Agesilai, i Pelopidi, gli Scipioni, i Paoli Emilj ed i Catoni.

Se i conquistatori, se i gran capitani e se i legislatori erano gli uomini i più appassionati de’ loro tempi, non poterono certamente pervenire a compiere sì gloriosi disegni senza animare anche le passioni di coloro che ne seguivan la fortuna, che ne imitavan gli esempj e ne eseguivano i comandi.

Le leggi di Licurgo, che di un popolo pria corrotto e vizioso ne formò uomini magnanimi, ne fanno aperta testimonianza. Vedasi come le passioni, ivi stimolate e ben dirette dalla più tenera infanzia, formavan fin nei petti feminili quei cuori sorprendenti e forti, ebrj di piacere allorchè i prodotti del loro amore, i teneri sposi ed i fratelli grondanti di sangue ritornavan vittoriosi, o che trucidati rimanevano sul suolo per amor della patria. Que’ stessi cuori gemivano poi colmi d’onta, allorchè vinti i cittadini se ne tornavan ne’ patrj tetti, deplorabile oggetto del pubblico vilipendio. Deh! potessero qui parlare non solo i primi re di Roma, ma i consoli ed i senatori di quella repubblica nascente e virtuosa, potessero qui diriggere i miei ragionamenti e mostrare al leggitore tutti i segreti mezzi di cui servironsi per accendere ed alimentare le passioni, mezzi con cui arrivarono a formare il popolo il più orgoglioso ed invincibile: vedrebbesi allora palesata quella scienza ne’ suoi principj, ridotta alle più facili dimostrazioni quella carriera conosciuta dagli eroi che sola ci insegna il bel cammino alla gloria.

Scienza benefica e sovra grande delle passioni,[29] diriggi pure il cuore del mio despota, affinchè possa calcolare ad ogni momento quelle vere sensazioni che movono ogni azione. Sebben alcuni timidi ingegni ti dicano di assopirle e di distruggerle, apprendi pur da chi ti ama e non ti seduce, da chi, libero nel suo pensare, non vede che la vera gloria, che giammai sussister non può la forza di un impero nell’annichilamento delle medesime, ma bensì nel diriggerle verso l’unico scopo della tanto lodata unità di azioni. L’amor della patria e di un sovrano giusto e benevolo, sentimento il più delizioso per operar cose grandi, l’onore, l’ambizione, la collera,[30] la gloria,[31] tutte le passioni si accendano e si interessino nelle vittorie. Che il prezzo di queste sii pure la sodisfazione delle medesime, ed allora più non saranno le soldatesche genti avvilite e ciecamente dirette dal caso, ma intrepidi lioni, le cui insegne si vedranno volar trionfanti, empier di terrore e di spavento gli attoniti eserciti ostili. Si alimentino dunque tutte le inclinazioni dei guerrieri, non si dimentichi lo stesso amore, e trovin pure in esso un compenso di quel che soffrono per il ben dello stato.

Non vorrei che si credesse voler io qui stabilire un sistema di empietà. Unicamente diretto dalla virtù, che mi stimola a scrivere, dirò che, sebben sieno le passioni i veri strumenti della umana felicità, non devon però servir di ostacolo, ma di alimento alla virtù la più sublime di tutte, ed alla quale sottomesse esser devono tutte le umane intraprese;[32] fondamento in fine senza di cui inutili riescirebbero tutti i consiglj di saviezza a formar un esercito intraprendente ed invincibile.

Pria di parlare dei mezzi di accender il fuoco vivificante delle passioni nelle milizie anche ne’ tempi di pace, affin di prepararle alle guerre, esporrò il sistema con cui vorrei che fossero composte e divise le soldatesche del mio eroe, per render più facile la disciplina, maggiore l’emulazione e sempre più cocenti le stesse passioni.

XXII. Legioni.

Sedotti molti principi da varj apparenti vantaggj, si portarono a riformar l’antico uso delle legioni, o sia di que’ corpi perfetti di milizia ne’ quali l’entusiasmo della vera emulazione operava cose sorprendenti. Temendo in quelle turbe numerose di soldatesche il terribile spirito di unione, le vicissitudini e le sedizioni, credendo di poter rimediare a sì fatali inconvenienti col formar corpi meno numerosi, non si avviddero delle perniciose conseguenze. Separata la cavalleria dalla fanteria, e tutte disunite le diverse specie di combattenti, forse pensarono di più facilmente sottometterli e di render più facile la stessa disciplina, affin di sostrarsi a quel panico spavento che loro pria temer faceva l’unione delle proprie forze. Ecco come un falso ragionamento abolì quelle forme di truppe che, a mio senso, sono le più difficili a vincere e le più facili a condurre nel cammino della gloria.

Se le legioni furono funeste ad Eliogabalo, a Massimino ed a tanti altri principi e capitani che ignoravan l’arte della guerra, e che crudeli ed ingiusti lasciavansi trasportare a’ delitti, quali meraviglie di valore non operarono sotto Cesare, Vespasiano, Severo ed altri illustri condottieri? Si è alla forma delle legioni[33] ed al loro spirito di corpo che in parte possonsi attribuire i più in­signi trofei della repubblica romana. Se le sedizioni che arrivarono in quelle legioni forse possono alienare lo spirito del mio regnante dall’ammetterne il sistema, volga pure lo sguardo sopra le tante armate di ogni nazione composte di regimenti che nelle guerre di Fiandra, d’Allemagna e d’Italia osarono alzar con furore lo stendardo di felonia, perchè mal osservate le capitulazioni, non pagati i soldati o comandati da generali codardi ed inesperti, non ne seppero reprimer i primi impeti o preve­nirne le conseguenze. Ecco per tanto come vorrei che fossero composte le mie legioni.

Quattro battaglioni di Fucilieri a 5 compagnie di 136 uomini per battaglione,

sono                                                                                                                        N°. 2720

Una compagnia di Granadieri di 155 per battaglione, formeranno Granadieri             620

6 compagnie Franche di 114 l’una, formanti un battaglione di                                     684

2 compagnie di Cacciatori di 107 l’una, compresi gli oficiali, la musica,

due tamburri e due trombette per cadauna                                                                     214

Una compagnia di Minieri                                                                                               50

2 compagnie di Pionieri a 75                                                                                         150

Una compagnia di Artiglieria di riserva di pezzi di differenti calibri                            125

Artiglieri per i battaglioni di truppa regolare a 2 pezzi di 3 libre di palla

per battaglione, 4 uomini per pezzo e loro oficiali                                                          43

Artiglieri per le amusette o sia pezzi di ferro portatili da caricarsi alla parte

estrema, uno per compagnia nelle Truppe Franche, e ne’ Cacciatori 2 uomini

per pezzo ed un basso oficiale per dirigerli                                                                     17

4 compagnie di Corazze di 60, formanti 2 squadroni                                                    240

4 compagnie di Dragoni di 80, formanti anch’essi 2 squadroni                                    320

Una compagnia di Carabinieri                                                                                         64

Una compagnia di Granadieri a cavallo                                                                           56

Una compagnia di Cavalli Leggieri                                                                                 74

4 compagnie di Usseri di 74, formanti 2 squadroni                                                       296

Guastadori                                                                                                                      100

Operaj per tutti i mestieri necessarj in una legione                                                        100

Musica consistente in 6 trombe, 6 pifferi, 6 strumenti turchi e 6 altri stromenti

diversi di fiato, ed un capo per diriggerli                                                                         25

________

N°. 5898

Nel novero qui esposto, avviso che sono compresi i necessarj oficiali e bassi oficiali, cioè un capitano, due luogotenenti ed un alfiere, un sergente, 6 caporali, 10 sotto caporali in ogni compagnia di Fanteria, ed in proporzione nella Cavalleria, come altresì due tamburri ed un piffaro nelle compagnie d’Infanteria, e sua musica particolare alla Cavalleria. Tutte le compagnie, che chiamerò centurie, devono avere le loro bandiere e stendardi, e per fin gli stessi Granadieri, per render facile il riunirsi al soldato e per conoscere altresì quelli che si distinguono in valore o in codardia. Ma passiamo al dettaglio di chi le dovrà comandare.

General commandante della legione                                                                             N. 1

Brigadieri col titolo di Generali magiori, uno per la Cavalleria e l’altro

per la Fanteria                                                                                                                    2

2 Colonelli di Fucilieri, uno de’ Granadieri, uno per le Truppe Franche,

uno per le Corazze, Dragoni, Carabinieri e Granadieri a cavallo, ed un altro

per gli Usseri e Cavalli Leggieri                                                                                        6

Altre tanti Luogo Tenenti Colonelli per gli stessi, uno per i Cacciatori

ed un altro per i Guastadori, Pionieri e Minieri                                                                 8

2 Magiori per battaglione in tutta la Fanteria                                                                   12

1 Magiore per l’Artiglieria, uno per le Corazze, uno per i Dragoni,

uno per i Carabinieri, Cavalli Leggieri e Granadieri a cavallo, ed un

altro per gli Usseri                                                                                                              5

6 ajutanti per la Cavalleria e 12 per la Fanteria con rango di Primo

Luogo Tenente                                                                                                                 18

_______

N°. 52

Oltre i combattenti, vi devono esser per ogni legione capellani                                        2

1 quartiermastro e dodici forieri                                                                                      26

1 mastro di proviande ed 8 forieri                                                                                      9

1 capo chirurgo, 2 sotto capi e 24 altri chirurghi                                                             27

Mastri di scherma, giostra ed altri giochi e forze                                                               6

Mastri di maneggio                                                                                                            3

Detti di scuola                                                                                                                    4

_______

Uomini                                                                                                                       N°. 64

Così tutta la legione sarà                                                                                      N°. 60914

Questo sarà il totale di una legione, oltre le altre persone per l’attiraglio dei bagaglj, artiglieria e proviande, il di cui numero dipenderà piuttosto dalle circostanze e dai giornalieri bisogni ne’ quali si possa trovare un esercito durante le diverse operazioni della campagna.

Così composte le legioni, più non avverrà che un comandante distaccato per qualche difficile intrapresa, perchè accostumato ad un sol genere di milizia, ignori la capacità de’ suoi subordinati. Non potrà errare nel ben distribuir i suoi posti, nel servirsi a tempo dei cavalli, dei fanti e dell’artiglieria. Avezzo a vedere i continui movimenti di ogni genere di combattenti, i diversi esercizj e voluzioni, con qual facilità non potrà mai inviluppare un nemico inesperto? Leggansi pure i seguenti capitoli, ove cercherò di mostrare come possansi iniziar le soldatesche, colla via dei sentimenti del cuore, alla disciplina ed al valore.

XXIII. Importanza della disciplina.

Platone diceva che il più esperto capitano diviene inutile se il di lui esercito non è ben disciplinato ed ubbidiente. In fatti, se l’esatezza della disciplina fece conquistar provincie, fondò imperj e repubbliche, l’inosservanza della stessa le seppe distruggere ed abbattere. A che servirono a’ superbi monarchi della Persia le innumerabili schiere, colla cui ostentazione sembravano voler domare fiumi, mari, monti e tutta la natura, se la loro orgogliosa potenza non era capace di superare le poche ben disciplinate greche soldatesche, dalle quali sempre furono vinte, rimanendo indi lo stesso impero preda del gran Macedone, che con poche ben regolate schiere, empiendo tutto l’Oriente del suo nome e della sua gloria, ne formò quella formidabile potenza che, acciecata da tanti allori,lasciando in non cale la disciplina e poco osservando la condotta del popolo romano, succomber poi dovette agli sforzi di quegli uomini invincibili? Se la buona disciplina fece trovar facile a Senofonte la di lui famosa ritirata ed ad Annibale il terribile passaggio delle Alpi fra tante nazioni guerriere, se fece trionfare questo capitano de’ mal condotti Romani, l’abbandono della medesima fra le piacevoli delizie di Capua[34] non fu meno la cagione delle reiterate vittorie dell’istancabile Marcello, degl’insigni trofei del gran Scipione che domò la superba Cartagine. Questa fece trionfar Cesare, elevar il dissimulato Augusto sopra il trono e sbalzar dal medesimo doppo varia serie di lustri Treboniano Gallo e Gallo Volusiano, le cui milizie ammollite in Roma non poterono resistere a quelle di Emiliano, accostumate nella Pannonia a sconfigger gli Sciti ed a superare le più bellicose nazioni. Il negligentar la disciplina rese Decio vittorioso e tolse a Filippo in un coll’impero anche la vita!

Se il trasportar che fece Costantino da Roma a Bizanzo la sede imperiale e la barbara tassa della capitazione furono forti cagioni della decadenza di quell’impero, non è men certo che, degenerata in licenza l’antica disciplina delle legioni, vi abbia apportato il colpo il più fatale ed il più decisivo. E non si viddero forse, doppo la division dell’impero ed il trasporto della sua sede, regnar con splendore il gran Giuliano ed altri imperadori, che l’oggetto si resero dell’ammirazione e dello spavento delle genti le più bellicose, perchè, ben regolati, gli eserciti capaci si trovarono di tutto intraprendere? Non cadde l’impero se non allorchè sorpresi gl’imperadori da un sonnifero letargo, vero nuncio di morte, lasciata in abbandono la militar disciplina, vollero piuttosto sottomettersi a pagar tributi ai barbari che loro opporre una valorosa resistenza. Ecco come ebbero principio quelle fatali sedizioni che l’origine furono di tanti nuovi regni, repubbliche e principati. Prepotenti i governatori nelle provincie, chiunque fra di loro guadagnar sapeva i cuori dei soldati, tema imprimeva agli imperadori e sostravasi alla legitima autorità dei medesimi. I Franchi, i Gotti, gli Unni, i Vandali e tanti altri popoli avvezzi alle guerre ed accostumati ad un severo regolamento, qual impetuoso torrente che, infranti argini e ripari, scorre ruinoso fra campi e prati, seco portando cogli armenti l’ovile ed i pastori; inondando le provincie romane formarono le tante sovranità, delle quali tuttora si vedono gli squalidi monumenti.

La disciplina animata dalle ben dirette passioni è la vera debellatrice e conservatrice delle nazioni. Si è questa che sa pur bene cangiar ogni uomo in valoroso soldato. Que’ stessi Romani sconfitti da Giugurta, perchè comandati da Aulo che ne ignorava i principj, trionfan sotto Metello di quel medesimo nemico. Chi può resister alle maraviglie che sa operare? E non viddesi nel secolo presente quasi roversciata la possente russiana monarchia da pochi Svedesi comandati da un re valoroso ed appassionato? Introdotta ed osservata negli eserciti di Pietro il Grande la disciplina, rendendoli sempre più proprj alla guerra, li seppe a poco a poco far trionfar del superbo nemico creduto invincibile; disciplina che, sempre osservata dai successori, ne formò schiere formidabili, che empiono sotto la benefica sovrana che li governa le più recondite genti del suono armonioso e magnifico delle più eccelse vittorie. Questa si è pure che fondò il terribile prussiano impero, e con cui il gran monarca che ora vi regna con tanto splendore oppor seppe a tanti possenti nemici contro di lui riuniti una sì vigorosa resistenza che attonita ne rese l’Europa.

Quando un esercito è ben disciplinato, il capitan sagace che lo comanda non teme già gl’innumerabili nemici. Si rideva Alessandro d’un million di Persiani, non si informavan i Cincinnati, i Silla, i Pompej ed i Sertorj del numero delle squadre ostili. Vien riferito a Pelopida, che con poche schiere tebane marciava contro il tiranno di Feresia, esser quello di molto a lui superiore in forze, ma egli risponde: meglio, ne combatteremo un numero maggiore. Cesare, Belisario, Gustavo Adolfo unqua non dimandavano quanti fossero i nemici, ma ove si trovassero.

Se osano alcuni filosofi paragonar le soldatesche alle machine, facili a dirigere da condottieri abili ed esperti, non è men vero però che la facilità della direzione tutta dipende dagli ordigni che il movimento ne procurano e la condotta. La disciplina essendo quegli ordigni segreti che ne diriggono le operazioni, non potranno dunque mancar di persuadersi esser questa, assai più se animata si trova dalle passioni, quell’incanto sorprendente che le conduce a coglier allori. Ecco ad evidenza dimostrato quanto sia necessaria la disciplina alla conservazione degli stati.


XXIV. Lusso negli eserciti.


Come si potranno animar le passioni, stimolare il coraggio de’ guerrieri, condurli con audacia ne’ campi di Marte, se, resi effeminati dal lusso, non possono resister al rigor delle stagioni, al furor de’ nemici ed a quelle giornaliere e casuali penurie alle quali pur troppo viene esposta un’armata ove maggiore si ritrova il numero degli uomini inutili di quello dei combattenti? E chi mai coruppe l’antica militar disciplina de’ Persiani se non il fasto, se non l’ostentazione delle ricchezze, che sì facili li rese ad esser sconfitti dalla greca frugalità? Chi fece ergere a’ Parti tanti trofei sopra le schiere romane, delle loro assai più valorose, se non corpi incalliti alle fatiche ed uomini accostumati a sprezzar le pacifiche delizie delle città ne’ marziali accampamenti? E chi ritardò le conquiste de’ Romani nelle terre germane se non il lusso, che sempre rallentisce le operazioni di chi lo cultiva? Ma come addurre tutti gli esempj dei popoli vinti più dal lusso che dal valore ostile, se nel legger le storie di tutti i secoli si vedono gli eserciti sobrj e frugali, ad onta degli stessi elementi adirati, superare ogni ostacolo, e per fino il coraggio delle più intrepide genti, che col lungo viver nella mollezza perdon le forze e la disciplina? Sì in ogni tempo si vidde il soldato ozioso emanciparsi, divenir querulo, ascoltar le lingue perverse, prender inclinazione al riposo ed a’ piaceri, isdegnar l’ordine ed il travaglio.[35] Punto non giova ramentarmi le molte vittorie riportate dalle armate ove il lusso è tollerato dal legislatore: oltre che maggiori son quelle de’ popoli frugali, dirò che se il nemico battuto fa affaticare un tal vincitore, le lentezze delle operazioni, le continue diserzioni e le frequenti penurie che li sa procurare con facilità, a lui presenta occasioni di vincerlo e di avvilirlo.


Venga pur sbandito dall’esercito del mio regnante questo mostro distruttivo del vero fuoco di Marte, e che, rilegato fra i suoi nemici, ne corrompa pure i cuori, ne alteri i costumi, ne rovini la disciplina, affinchè, resi effeminati, preda divengano de’ suoi valorosi e frugali guerrieri.


XXV. Mezzi di distrugger il lusso.

Ma come mai distruggere il lusso in una armata ove grande è il numero de’ grandi di nascita eminente, accostumati alle mollezze, quantunque corrano la carriera illustre degli eroi? Sbandirlo, dice un insigne autore[36] in una bell’opera, dalla tenda di chi comanda e condannarlo all’onta ed al disprezzo. Non era solo Belisario che, alla testa di eserciti numerosi, dava celebratissimi esempj di sobrietà e di virtù per obbligare i subordinati a sbandire il fasto e l’ostentazione, ma molti altri capitani prima di lui e quelli per fine che erano accostumati alla pompa. Lucullo e Marco Antonio, i più dediti alla voluttà, ove si trattava di animar la disciplina, i primi erano a tacciarne il lusso; ed il vedere da’ soldati quegli uomini sontuosi accontentarsi di un nero pane affumicato, incontravan con diletto ogni fatica e le più difficili spedizioni senza punto vederne i periglj.[37] Se le legioni si ribellarono contro il primo e se i soldati si corruppero sotto l’altro, non fu che l’effetto del fasto e della mollezza che indi permisero, e che giammai accopiar non si possono con una severa disciplina.

I frugali Macedoni viaggiavano intrepidi vasti deserti dell’Asia a riportar palme finchè il loro monarca fu sobrio e virtuoso, ma, presi da esso lui gli effeminati costumi dei vinti, già minacciavan di abbandonarlo. Scorrevano i re lacedemoni di vittoria in vittoria. Empivano i Trajani, i Marc’Aureli, gli Alessandri Severi ed i Giuliani il mondo intiero de’ loro nomi; riformarono la disciplina negli eserciti[38] ed atti li resero alle più perniciose spedizioni, perchè, aperte e sciolte le tende, volevano che le milizie fossero testimonj della loro frugalità. Precedendo a piedi le armate, vestendosi con semplicità ed esponendosi i primi al rigor delle stagioni, rendevano i soldati insensibili alle fatiche ed istancabili al più indefesso travaglio.

Se l’esempio de’ monarchi e di chi comanda ha tanta forza sopra gli animi di chi ubbidisce, qual impressione non farà la virtù del mio regnante? Già parmi di vederlo nei campi di Marte sprezzar le comodità della vita, consolar le soldatesche ne’ tempi difficili, riguardar con torvo ciglio i cortigiani ammolliti dal lusso, ripartir le cure le più penose con ogni intrepido guerriero e, studiando ogni arte per animar le altrui passioni, ispirare le proprie doti alle sue milizie, che altro non desiderano che di pagarlo di riconoscenza e di portare i di lui gloriosi stendardi nelle più recondite terre, per far ivi risuonar la clemenza, l’umanità e la moderazione che lo guidano. Non creda già il leggitore ch’io pretenda qui far menzione di un essere imaginario o di quegli illustri capitani che la rugine dell’antichità ha quasi scancellati dalla memoria degli uomini; giacchè vive nell’Europa un gran principe cinto dell’imperiale diadema, che con simil esempj sarà sempre l’oggetto dello stupore delle genti.

Condannato il lusso al disprezzo, potrà il mio regnante passare a’ più benefici provedimenti affin di limitare il numero de’ cavalli e servi necessarj in un’esercito. A che giovan i tanti generali? A che gl’infiniti commissarj e gl’innnumerabili vivandieri che, affollando nelle armate le persone inutili e perniciose, imbarazzano le marcie e procurano la penuria a’ combattenti? Ammassati a privata economia del sovrano i magazeni, e questi ampiamente forniti di viveri e di foraggj, perchè mai non si dovranno sbandire que’ mercadanti di merci sontuose ed inutili che ad altro non servono che a multiplicar i bisogni ne’ fervidi guerrieri? Proibiti i giuochi, scacciate le cortiggiane che corrompon la salute e la disciplina, sbandite le persone inutili, i miei soldati non hanno da attendere che agli esercizj ed a que’ divertimenti che formano il valore e l’esperienza. Si limitino agli uficiali i bagaglj. Sei cavalli per le tende dei soldati, due per l’equipaggio ed uno per montare al capitano, uno per ogni subalterno e due fra tutti tre i medesimi per il loro bagaglio, altri tre per le necessarie picciole monture ed utensiglj, 17 cavalli basteranno allora per ogni centuria. Che a proporzione lo stato magiore ed i generali non eccedino il numero prefisso dalle leggi.

Non si abbia già riguardo alla nascita di chi serve, ma bensì al rango che ciascheduno occupa nella milizia. Che i ricchi col fasto non possan offuscare lo sguardo de’ più poveri, che si avviliscono o che ricorrono a’ mezzi i più indegni per uguagliarsi. Si limiti anche la mensa secondo il rango, questa frugale per tutti,[39] e non venga permesso ad alcuno di sorpassare il suo uguale in dignità con una maggior quantità di delicate vivande. Si ricordino i guerrieri che il valore, l’intrepidezza, l’attenzione al servizio e le belle azioni sole condur li devono nel cammino della gloria.

Doppo aver pensato al trasporto de’ viveri e delle munizioni, ridotto un esercito alle pure necessarie persone, i ricchi addobbi, le pompose supellettili, i magnifici serviggj di laute mense ed i fastosi equipaggj non inviteranno gl’impeti del nemico, nè la speranza di un dovizioso bottino più non lo animerà (principalmente se è composto di nazioni barbare)[40] alle prove di valore.

Potrà allora calcolare il mio regnante i veri bisogni delle di lui soldatesche e prende­re le giuste misure affinchè giammai non possano mancare viveri e foraggj, senza aver d’uopo di sacheggiar le provincie, di abbrucciar le case degli impoveriti agricoltori, di empiere i paesi nemici ed alleati di orrore e di rapine e far odiare la memoria di chi comanda. Avrà in vece l’amor degli abitanti, che tanto frutto suol apportar ad un esercito, e d’uopo non avendo di far divisioni per foraggiare e sostener chi foraggia, sempre unite essendo le proprie legioni, più agevole riuscirà la disciplina, più pronte le operazioni e sempre più facili le sconfitte di quel nemico che non saprà immitar gli esempj di tanta saviezza. Ecco come eran regolati gli eserciti degli Scipioni, dei Sertorj e di tutti que’ capitani che si distinsero ne’ fasti della storia.

XXVI. Spirito di disciplina.

Diviso l’esercito in legioni, sbanditone il lusso e la mollezza, vediamo qual debba essere lo spirito della disciplina di sì valorose soldatesche. Sarà forse il timore[41] delle pene le più atroci e la mano inumana sempre pronta a colpire chi manca ad ogni picciol dovere? No, perchè abborrendo il vero despota di aver per difensori una unione di schiavi tremanti alle minaccie di mannaje e di catene, sostituisce ad un bastone che logora l’onta ed il disprezzo, e se nell’eccittar le passioni animar li vuole al valore, nelle stesse passioni brama di trovar que’ castighi che posson convenire a’ mancamenti di chi corre la nobil carriera degli eroi. Dunque il disprezzo, inimico micidiale dell’amor proprio, sarà il principio animatore della disciplina de’ suoi invitti guerrieri.

Volontarj essendo i soldati delle legioni, e non già un composto di gente sforzata al più bel degl’impieghi, di difender la patria, nè un vile aggregato di uomini perversi che cercan nella milizia un ricovero alle pene meritate per i commessi delitti,[42] ma una unione di frugali cittadini ed onorati agricoltori già avvezzi all’ordine, ben si può dire che un simile esercito più facile sarà a stimolare alla fatica, debellatrice dell’ozio, vero corruttore della disciplina. Dunque le continue voluzioni, le marcie, i falsi alle armi, gl’indefessi movimenti, i frequenti esercizj, i finti attacchi, battaglie ed assedj, la costruzion di ridotti, trincere, pubblici cammini, fosse, canali ed altri travaglj di simil natura e di commune utilità, che manterranno la forza di corpo e che serviranno di magnifico compenso allo stato per le paghe più generose[43] colle quali vanno mantenute queste invincibili soldatesche composte di uomini liberi, saranno le ordinarie operazioni; di modo che le città non essendo più fortificate,[44] poche le piazze d’armi[45] che con tanti presidj diminuiscono il numero delle armate, queste truppe saranno il vero sostegno, sempre pronte ad ogni cenno alle frontiere le renderebbero insurmontabili.

Inquartierate ne’ tempi di pace le legioni e cangiate ogn’anno le guarnigioni, allogiate in comode, sane e ben distribuite caserme, il grosso corpo delle medesime sempre essendo unito per facilitar la disciplina, s’invieranno distacamenti nei diversi distretti per guardare i cittadini contro le insidie degli uomini perniciosi e mallevoli o per difenderli contro gl’inaspettati pericoli che tal volta la dura sorte fa provar alle nazioni, anche nel seno della pace e fra le cure di un giusto governo. Che ogni mese, rilevati questi comandi da altri, si dia così il tempo ad ogni soldato di accostumarsi a’ diversi climi, cibi e costumi e ad osservar le varie situazioni de’ paesi del suo sovrano, affinchè, venendo una guerra, più non sian imbarazzati a tender strattagemi al nemico ed a coprire le proprie marcie. Nelle buone stagioni ogni anno accampate, le truppe marcino pure per la provincia assegnata come se fossero contro il nemico, ma osservando una severa ordinanza, affinchè non venga incomodato il fervido agricoltore ne’ suoi travaglj che ci nudriscono e l’attento cittadino nel suo commercio che ci arricchisce.

Ne’ disordini, assai più pronte siano le punizioni per chi comanda che per chi ubbidisce, mentre rare volte manca il soldato al suo dovere se l’oficiale è attento agli obblighi del suo impiego. Composte le legioni di tante sorte di milizia, per meglio animar la disciplina, frequenti esser dovrebbero le mutazioni nei soldati ed oficiali: da Fucilieri a Granadieri, da Dragoni alle Franche partite, da questi agli Usseri, indi all’Artiglieria, alle Corazze, da una specie all’altra di serviggio, acciochè chi comanda possa poi fissare ognuno in quel genere d’impiego ove mostrerà maggior affezione e capacità. I comandanti dei rispettivi battaglioni, squadroni e corpi pronte aver devono esatte tabelle,[46] ove con rettitudine notati saranno i mancamenti o le prove di esperienza e di valore communicati al General della legione, esaminate dal Consiglio legionario, spedite al Gran Consiglio di guerra, esatto calcolator delle passioni, affin di presentarle al sovrano. Serviranno di regola ad un saggio comandante per sapere con qual genere di castigo punir si debbano i diversi soggetti.

Dirigeranno il regnante negli avanzamenti e nello scegliere per ogni intrapresa chi è più proprio a dirigerla. Sapendo ogni guerriero esser notati i di lui mancamenti e conosciute dal sovrano le virtù, quali non saranno i suoi sforzi verso le azioni lodevoli che lo incamminano agli onori? Metodo lusinghiero e sublime per formare una scuola di eroi! Qual nemico potrà mai resistere a sì magnanimi guerrieri?

Per ridur la disciplina ad un sistema più facile, chiaro e preciso esser deve un superiore ne’ suoi comandi, istruttivo negli ordini giornalieri, non mai multiplicare i doveri, ameno e facile con chi si distingue nelle nobili azioni e severo nel riprendere, ma mite nel castigare. Sbanditi gli odj e le vendette, i rancori e le predilezioni, dovrà riguardar i subordinati, non già con ciglio torvo e sprezzante, ma da padre amorevole, come uno stuolo di figlj e di amici riuniti dall’onore ed animati dalla virtù, mostrarsi glorioso della fortuna e del merito che lo favorì di pervenir a guidare non uomini avviliti, ma esseri pensanti ed appassionati della brama di coglier allori.

XXVII. Importanza della subordinazione.

La subordinazione è quel ordigno segreto per cui esistono le società. Si è un effetto essenziale d’ogni rinuncia di libertà naturale, e quell’ordine benefico che sottomette i varj ingegni tumultuosi alle decisioni della ragione o a quelle della pubblica forza riunita in più persone o in un solo, sebbene alcune volte usurpata o mal diretta. Gli urti violenti dell’ambizioso, i colpi minaccianti dell’ardito ed i furiosi attentati dell’orgoglioso vengono da questa impediti di roversciar que’ contratti che mantengono le sociali unioni, e diretti verso quello scopo di unità di azioni e di commune tranquillità che costituiscono i governi.

Se le repubbliche, se i più vasti imperj non saprebbero sussister senza la subordinazione, unica conservatrice del diritto di proprietà, come potrebbero poi regolarsi gli eserciti ed ivi far mantener la disciplina senza la stessa? Le truppe, volontaria unione di uomini corraggiosi, già avvezzi alle straggi, alle rovine, conoscendo le proprie forze, trovandosi armate, agiterebbero le nazioni per la cui difesa sono mantenute, rovinerebbero il travaglio del provido agricoltore, rapirebbero i frutti della penosa industria del mercatante, seminerebbero nelle pacifiche famiglie le scelleragini ed i delitti, e farebbero riviver la memoria tanto lodata da alcuni malevoli autori di que’ tempi anteriori alle formazioni delle società; tempi di furore e di barbarie, di orride confusioni, perchè di guerre sempre atroci e continue: stato infelice ove tenderebbero le ribellate passioni dell’uomo, se non vi fossero leggi e pubbliche convenzioni tacite o palesi che costituiscono le sovranità.


Dell’importanza della subordinazione parlarono i Senofonti ed i Platoni, gli Aristotili e gli altri filosofi e capitani; tutti i legislatori se ne avviddero, di modo che la collegarono colla religione per renderla più sacra e più autorevole. Gli ambiziosi conquistatori, i fervidi difensori della patria la mantennero, quelli per conservarsi pacifici possessori della pubblica autorità e gli altri per mantenere illibata la libertà delle nazioni che loro ne confidavano la difesa. Vediamo tutti gli stati crescere in grandezza in ragion del rigore con cui era mantenuta negli eserciti, che erano più o meno disciplinati, vinti o vincitori sempre in ragion della subordinazione che vi regnava. Tacevano fra di loro i serviggj resi al pubblico, i ranghi distinti di nascita, i medesimi stimoli della parlante natura[47] erano suffocati nei cuori, animati dell’amor della patria, di tutti i più virtuosi capitani, quando si agiva di punir le mancanze per le quali era stabilita la pena di morte fin da’ popoli i più umani.

Eletto un capitano per comandar le soldatesche, ubbidivan i più grandi con sommissione, perchè ne vedevan dipender le vittorie. Reprime la sua funesta collera ed i sensi della più cocente vendetta il furibondo Achille, soffoca gli impeti rabbiosi contro di Agammenone in favor dell’esempio che deve all’esercito greco. Si acheta l’audace Mario finchè finito sia il tempo di ubbidire a Silla, e tanti altri ambiziosi romani, ne’ tempi più corrotti della repubblica, aspettan di esser sciolti dal prestato giuramento per ordir trame o per vendicarsi di qualche offesa. Da qui ne venne che, persuasi indi alcuni imperadori e capitani del naturale rispetto che imprime il supremo comando in chi deve ubbidire per chi sa comandare, non temendo le sedizioni, parlando con vigore alle schiere sollevate, ne reprimon gl’impeti e la baldanza,[48] rendonsi l’oggetto di tema e di amore di quelle medesime milizie che pochi momenti pria osavan minacciarli. Negletta la subordinazione dagli stessi Romani, impuniti gli attentati contro la medesima e per conseguenza abbandonata la disciplina, più non si trovaron sicuri i monarchi sul trono e, smembrato l’impero, fu reso la preda degli audaci che lo comprarono dalle insolenti milizie che poi sapevan depporli. Ecco come, col volger degli anni, divenne l’impero la preda de’ barbari.

XXVIII. Spirito di subordinazione.

Nel primo volume dissi che, se legittima esser potesse la pena di morte, infliger si dovrebbe a’ soli magistrati che, calpestati i sacri vincoli delle leggi, si ridon dell’oppresso innocente che invano ne implora il soccorso; dirò quivi che se tal pena potesse esser giusta, la decreterei per reprimer i sacrileghi sforzi di quegli audaci, quali, alzando la voce o il braccio ardimentoso contro chi li comanda, osano, se non palesemente, tacitamente almeno, alla presenza di un esercito intiero che attentamente li osserva, tenere il seguente raziocinio: Cosa è questa subordinazione, in nome di cui tanti superiori ci comandano azioni ributanti e travaglj indefessi che non conoscono? Un magico inviluppo di parole non mai definite, col cui segreto potere imaginario i pochi ambiziosi arrivarono a sottommetter la forza reale dei molti e farla servire a’ loro disegni. Rompiamo questo incanto, facciam vedere che ogni forza di opinione è una chimera.


Ogni atto contro la subordinazione è un rinovamento di un tal discorso ed un avviso fatale, dirò così, che si dà alla moltitudine naturalmente tumultuosa che la di lei forza è sì reale che può distrugger a suo piacimento quella dell’opinione. Se questi atti dunque son funesti e possono recare conseguenze ancor più funeste, una infamia perpetua, unita a certe altre pene afflittive e sovente ripettute, sarà troppo necessaria per reprimerne, giacchè chi manca alla subordinazione manca intrinsecamente alle sociali convenzioni.


Al Ciel non piaccia però che si confondano i diversi delitti di subordinazione. Il sommo rigore deve esser riservato per le mancanze di chi comanda i corpi e le legioni. Serva pure di un perpetuo monumento di ludibrio chi fra di loro, oltraggiando l’ordine di un superiore ed i sacri diritti dell’umanità, osa versare il sangue de’ cittadini per la sola brama di riportar palme. Dimentico il mio principe dei principj di una clemenza ingiusta, imprima pure lo spavento ed il terrore in quelle anime infide che espongono alla rovina la prosperità dello stato.[49]

Se, cieco nell’ubbidire, il subordinato deve correr veloce all’ordine di chi comanda ad affrontar i periglj, un comandante virtuoso toglier non gli deve il merito delle belle azioni.[50] Lungi dal far sentire il peso dell’autorità che opprime, perchè non istruirà gli oficiali e soldati con bontà ed amorevolezza, seguendo le orme di un famoso capitano latino[51] che adoperar sapeva a tempo lodi, ricompense e pene? Non si porti a lusingare nè troppo accarezzare il soldato, a lui procuri ogni bene, ma non mai si serva di quella rea condescendenza con cui tanti romani cittadini corrompevano la subordinazione e la disciplina per montar sopra un trono sempre vacillante, perchè non mai fondato sopra la virtù. Se la viltà e la bassezza disdicono in chi commanda, quale ne sarà la miglior regolatrice se non l’umanità?

Affin di render la subordinazione sempre più facile, dirigga il mio regnante il suo militar regolamento in modo che i comandanti siano piuttosto padri amorevoli delle loro milizie che tiranni; la principal cura sia d’ispirare non già il timore, che avvilisce, ma un affettuoso rispetto. I delitti de’ superiori non vadan impuniti, e si ricompensin pure i virtuosi guerrieri che, mossi dagli stimoli della gloria, hanno il nobile ardire di accusar un superiore reo di oppressione.

Questo metodo di mantener la subordinazione e la disciplina non è già una chimera, ma un vero raziocinio di chi, seguito avendo le insegne di Marte, osservò i sentimenti avviliti che sa ispirare quel genere di ubbidienza formato dal terrore di pene continue e sempre pronte a colpire fin le immaginarie mancanze.

La virtù sarà dunque lo spirito di una vera subordinazione. Se con un tal sistema hanno riuscito tanti capitani dell’antichità a formar guerrieri intrepidi, perchè non lo potrà il mio regnante con milizie che, in vece di essere composte di abbatuti mercenarj, saranno un’unione de’ più fervidi cittadini?

XXIX. Tattica.

L’arte della guerra, dice Follard, se è un mestiero per gl’ignoranti, è una scienza estesa e difficile per quelli che han talento.[52] La tattica, che insegna ad un gran capitano a coprir le proprie debolezze, mostrar le forze e fingerle minori, è il sublime di questa scienza, giacchè suggerisce le maniere profonde e disastrose d’ingannare il nemico, ora col cangiar gli ordini di battaglia, ed ora con sorprenderlo colla novità delle voluzioni. Non pretenda il leggitore che gli voglia presentare un sistema perfetto delle infinite operazioni di cui è suscettibile una scienza sì sublime e complicata. Ammirator della stessa, altro non voglio che arrischiare alcuni pensieri, che mi sembrano interessanti per facilitar i movimenti delle legioni. Chi brama approfondir tutti i secreti di quell’arte, chi seguace di Marte vuole imparare a cogliere allori innocenti nel difender la patria, oltre le antiche storie, leggendo i fatti delle ultime guerre, studj le traccie gloriose dei più valenti capitani del secol nostro, che uguagliarono i Fabj nel campare, gli Annibali nel marciare, ed imparerà allora quali sieno le più sicure vie di eriggere trofei.[53]

Sebbene coll’invenzion della polve, che rese inutili le balliste, le elepole,[54] le catapulte, le freccie ed altre simili macchine ed armi, dovette il sistema della guerra sottomettersi a diversi cangiamenti, nulladimeno la tattica, direttrice suprema delle guerriere azioni, si conservò inalterabile ne’ suoi principj di utilità, di sorte che quelle operazioni, marcie e figure, che erano avvantaggiose presso gli antichi, tuttavia conservano le medesime utilità, non in tutte le occasioni, ma bensì in molte giornaliere circostanze. Se le falangi,[55] i stretti battaglioni dei Tebani, la profondità con cui marciavano e combattevano gli antichi[56] sono forme dannose per chi adottar le volesse oggidì contro il fuoco terribile e micidiale dell’artiglieria, un buon generale che se ne servisse a fronte della cavalleria non solo non potrebbe esser vinto, ma ne farebbe orrido macello. Sarebbe impossibile che fosse disfatto, se costantemente chinate tenesse le prime file con picche o fucili armati di lunghe e ben acute bajonette per sostener gl’impeti sforzosi e dar ansa alle altre a far scarriche sicure e continue, ed armati i fianchi di artiglieria, donde perpetuo ne fosse il fuoco, così distrugger potrebbe infiniti squadroni. Uguale sarebbe l’utilità delle colonne del Cavaliere Follard quando si tratta di molte schiere di fanti a fronte di molti squadroni di cavalli: sistema però impratticabile, e più sanguinoso di quelli degli antichi, se viene eseguito in tutte le occasioni.[57]

Non volendo descrivere un dettaglio di belliche operazioni, dirò che negli esercizj facile esser deve e naturale il maneggio delle armi, costante il suo sistema, e tendendo soltanto alla prestezza delle scarriche.[58] Reso semplice il medesimo, le marcie e le voluzioni siano pure frequenti, reiterate e varie. Seducono il nemico, decidono delle battaglie, dirigono le campagne e formano la vera tattica. Se i battaglioni quadrati,[59] conversioni, quarti delle medesime, masse, colonne e tutte le altre figure eseguir non si possono con somma celerità nelle giornagliere intraprese della guerra, non si dovranno neppur insegnar negli esercizj, ove convien istruire le truppe come se moversi dovessero avanti il nemico il più ardito ed impetuoso. Se ha da esser utile un movimento, non solo deve esser unito, semplice ed eseguito in una sola maniera col modo il più breve, ma aver deve, oltre la celerità, una coerenza fra le divisioni, un reciproco sostegno ed una forza che aumenti in ragione dell’avanzarsi che fa la truppa contro il nemico. Preceda ogni compagnia legionaria, come già dissi, una notata co’ numeri e colorita bandiera, indizio sicuro per scorgere i primi a fuggire o a sforzare il nemico, sistema che produrebbe una lusinghiera emulazione a far belle intraprese ed una indicibil onta ad esser codardo.

Per render tutte le marcie e voluzioni più facili e più pronte in faccia al nemico, abbisognerebbe ridurle a principj più agevoli e di una maggiore semplicità. A che serve la voce dei comandanti che spesso non può esser udita? Lasciati alle centurie i tamburri ed i timpani a’ Cavalieri, e gli altri indicati musicali strumenti che sono necessarj per far marciar con cadenza, anima della tattica sì bene intesa dagli antichi,[60] dovrebbero i comandanti servirsi di trombe chiare e suonore, ridurle alla medesima flessibilità di una lingua e farle parlare, per così dire, con tutta la possibile energia. Venga pure ogni voluzione e movimento espresso con suoni sì chiari che d’uopo non si abbia della voce, ma soltanto dell’ordine di chi comanda per poterlo annunciare. Siccome lo studio maggiore della tattica è la marcia, perchè non si potrebbero stabilire otto, dieci o dodici sorte di passi differenti, più o meno veloci, più o meno lunghi, de’ quali se ne potesse spiegare alle milizie il comando co’ differenti suoni di quel parlante sonoro strumento? Per non confonder i movimenti fra la Cavalleria e la Fanteria, e le diverse forme di truppe di cui è composta una legione, dovrebbesi fissare che un tal suono, il qual significa il passo A per i Fanti, fosse quello di B, C ecc. per le altre specie di milizie.


I suoni dunque dovrebbero essere gli stessi per tutti, ma diretti soltanto in modo che, quando i Fucilieri, Granadieri, Partite Franche formano alcuni movimenti, la Cavalleria e gli altri corpi ne formassero altri adattati a’ medesimi, sebbene alcune volte assai differenti nell’eseguirli. Accostumate le diverse specie di militanti a formar corpo ed unione sì negli esercizj che nel combattere, sostenuti i cavalli da’ fanti,[61] questi dall’Artiglieria, tutti dandosi un continuo soccorso, vicini simili trombettieri al comandante della legione, quanto facili ne sarebbero le operazioni? Addestrati i soldati nei differenti passi e nel suono dello strumento, intendendo senza voce le voluzioni e le marcie che devono formare e la qualità dei passi con cui si devono eseguire, di quali sorprendenti intraprese non sarebbe mai capace una legione, che sempre dovrebbe esser comandata da un capo esperto ed erudito negli elementi di geometria e di calcolo, scienze necessarie senza le quali, non potendo coll’occhio misurare un terreno, infinite sarebbero le confusioni e quasi impraticabili i movimenti!


Per sempre più perfezionare la tattica o l’arte della guerra, non sii mai schiavo il mio despota dei proprj costumi e modi di combattere, ma, imitando gli esempj dei più valenti duci dell’antichità, cangi pur gli usi, le armi[62] e le voluzioni, modo più sicuro di vincere e senza di cui molte soldatesche resistito non avrebbero agli sforzi de’ loro nemici. Metodo in fine per camminar con prudenza nelle vie della gloria.

XXX. Cavalleria.

Per quanto ne dicono contro la Cavalleria il signore di Follard, il maresciallo di Montluc ed il principe di Anhalt, giammai non arriveranno a distruggere l’importanza della stessa in qualunque esercito. Alcuni regimenti mal disciplinati e peggio comandati nelle azioni saranno forse un sufficiente argomento che ne provi l’inutilità? Se tanti capitani sì negli antichi che ne’ moderni secoli avessero così ragionato, troppo lontano non avrebbero portate le loro speculazioni nell’arte della guerra. Dunque ben lungi di attenerci all’esito infelice o mal diretto di alcuni combattimenti, ove squadroni numerosi di Cavalli resister non seppero ad alcuni ben comandati battaglioni di Fanti, atteniamoci soltanto alle prove che ci somministrano i giornaglieri bisogni delle guerre.

Non mi prenderò a disputare se sia più utile la Cavalleria o l’Infanteria, per la cui decisione nulla ci può far preponderare che la situazion locale dei diversi terreni, ma dirò bensì che, generalmente discorrendo, l’una non può sussistere senza l’altra e che non è se non nel reciproco loro soccorso che le campali azioni possono divenire fruttuose. In fatti, come potrebbe un comandante senza Cavalleria levare con sicurezza le contribuzioni ne’ paesi ostili e discosti, sorprender con vigore ora l’uno ora l’altro posto, prevenire un nemico colle più celeri ed inaspettate spedizioni, impedire che un picciol corpo d’Infanteria non venga inviluppato da un numero molto superiore, celare le marcie, sostenere un foraggio, far continue scorrerie, guarentirli delle sorprese ed eseguir l’ordine obliquo, tanto lodato da Vegezio e da altri illustri scrittori; ordine che fece guadagnar ad Epaminonda le battaglie di Leuctra e di Mantinea, che più volte fece trionfar Alessandro, con cui il monarca prussiano vinse a Praga, a Leuthen, a Zorndorf, a Torgav, ordine in fine che favorì più volte le grandi intraprese degli Enrichi, dei Ferdinandi e dei Laudon, senza una intrepida Cavalleria e ben disciplinata? Dunque buoni squadroni di cavalli saranno necessarj in un esercito, giacchè l’importanza ne fu conosciuta dai più esperti condottieri,[63] che, abilmente sostenendo colla medesima le schiere ugualmente sperimentate de’ fanti, eressero i più segnalati trofei.

Cessino adunque le declamazioni contro la Cavalleria, inutile soltanto allorchè si lascia inesperta ed indisciplinata. Ma come formarla veramente formidabile? Eccone gli evidenti principj. Non confidarne il comando se non a chi diede molte prove di ardire e di esperienza in tutte quelle scienze che formar devono un buon cavaliero; non ammetter nella medesima per oficiale se non chi, già a sufficienza istrutto nei differenti doveri, sarà capace di formare i soldati e gli stessi cavalli; non mutar questi troppo sovente, giacchè i più vecchj, che però sono ancor vigorosi, sono i migliori; dar ricompense a’ conoscitori delle malatie a cui sono soggetti;[64] cangiare le armi dei cavalieri, toglier le carabine, dar moschettoni per non servirsene se non a piedi ed in sentinella, dando loro longhe e larghe spade, i di cui colpi vengono diretti al viso e mettono l’avversario fuor di stato di combattere;[65] tenere i cavalli ed i cavalieri in un continuo esercizio, coprir questi di ferro e guarentire con lastre dello stesso metallo le teste ed il petto di quelli;[66] ridurre le voluzioni ad una più celere esecuzione, mutare l’ordine di battaglia spezzato, facile ad essere inviluppato da un nemico attivo. Questi, oltre gli altri che andrò additando, saranno gli elementi primarj per formare una buona Cavalleria: i premj, le lodi e tutti gl’indicati stimoli lusinghieri per animare il valore e agitar le passioni renderanno simili guerrieri sempre più fervidi ed arditi nelle zuffe ed incontri.

XXXI. Artiglieria.

Decide dalla celerità di un assedio, procura ad una fortezza attaccata una valida difesa, contribuisce nelle campali azioni, come ce lo indica la giornaliera sperienza. Chiara è dunque la necessità di procurarne al mio eroe una che possa sorpassare o almeno uguagliare in numero, ma assai più in bontà, quella delle altre nazioni. Additatemi i mezzi, dirammi il leggitore, di formarne una veramente possente.Ho trattati molti soggetti, proposti varj spedienti, animate le passioni, riformati gli abusi ed esaminati i mezzi più acconcj per la felicità dell’uman genere nel breve corso di quest’opera; ma non saprei in conto alcuno suggerir metodi e sistemi sopra un oggetto in cui un illustre principe e capitano seppe riscuoter gli eloggj sinceri del re filosofo,[67] il miglior giudice delle scienze guerriere, eloggj ripettuti da tutta l’Europa, che ne ammira altresì la sagacità nel sapere apprezzare i talenti e la magnanima generosità con cui sa stimolarli e dirigerli al ben dello stato.

XXXII. Vestiti ed armi.

Scelto un solo color generale per l’esercito, variati i secondi colori nelle diverse legioni, ma un solo per legione, le vere speculazioni estender allora si devono a procurare al soldato un abito decente e comodo e che lo guarentisca dal rigor delle diverse stagioni. Il bello, l’apparente non deve già sedurre chi comanda, ma l’utile. A che servon i vestiti stretti ed angusti se non ad impedir nelle vene la benefica libertà della circolazione del sangue, ed alla tenera gioventù di poter crescere e fortificarsi, oltre che, azzupandosi tal vestito ne’ tempi piovosi ed asciugandosi indi al dorso, penetrandone l’umido fino alla pelle, si empiono gli spedali di ammalati e si finge poi di tai morbi d’ignorar le cagioni?



E non è forse un vestito angusto contrario alla tattica? Non potendo con libertà il guerriero mover le membra, non solo difficili riescon le marcie e sforzosi tutti i movimenti del maneggio delle armi, ma perde anche assai tempo nel vestirsi, perdite funeste ne’ frequenti all’arme delle campagne. Le calze di lana accagionano mali infiniti, di cui pur troppo ne fui testimonio. I cappelli, che facilmente si lugurano inzuppandosi anch’essi, non guarentiscono i soldati da quell’umido fatale che suol produrre i continui raffreddori, che ne rendono una buona parte incapace di seguir le operazioni della guerra. Agile e corto sii l’abito, ma largo e comodo, coperto il d’avanti[68] da una leggiera corazza che li difenda dai colpi di fucile portati da una certa distanza e da quelli di bajonetta, scimitarra e da altre simili armi. Abbia ogni guerriero nelle fredde stagioni un mantello con un capuccio che gli mantenga calda la testa, ed in vece di un cappello un caschetto, ma coperto da una lastra di ferro per difenderlo da’ colpi di scimitarra, e fatto in guisa che, sciolto, lo guarentisca dai raggj del sole e dalle pioggie. Coturni di cuojo ben ingrassati e calzati al nudo gli manterebbero asciute le gambe ed i piedi. Mi perdoni il leggitore coteste particolarità, l’umanità e la compassione per i mallori che soffrono i difensori della patria e l’avvantaggio de’ principi me li ispirano. Sì ben vestita, la Fanteria non sarà più soggetta a’ tanti mali che pur troppo desolano i più numerosi eserciti.


Nel vestir i cavalieri, si osservino i medesimi principj di vera utilità colle necessarie differenze. Loro si rendano le armature di ferro.[69] Una comodità male imaginata loro non tolga un riparo a’ colpi di spada, di bajonetta e scimitarra, per la cui difesa aver dovrebbero un elmetto. E siccome si perdono con facilità i foraggj nelle marcie, abbia ogni cavaliero un sacco[70] per riporlo con sicurezza e per seco portare altri utensili e cose necessarie e vantaggiose.

Le lancie, dice un grand’uomo,[71] servono molto alla Cavalleria, che aver deve altra sorta di armi secondo i diversi bisogni. Nella stessa Fanteria, che deve esser avvezza a formarsi secondo le circostanze in 4 e più file, le due prime servendosi del fucile le altre farebbero colle picche un riparo contro il nemico,[72] oppur queste dando un fuoco incessante, le prime le difenderebbero contro i rapidi sforzi de’ cavalieri, come ho già spiegato. Lo stesso Montecuculi osserva essere necessarj gli scudi nella Fanteria. Di qual utilità in fatti non sarebbero se, uniti e passati di mano in mano nelle prime file, facendo parapetto e barriera contro i colpi di fucile che vengono da una lontana distanza o che sono mal caricati, lasciassero tempo agli altri di far fuoco senza temere? Siano le picciole spade le armi corte della medesima. I cannoni di ferro da caricarsi alla parte estrema con maggior celerità dell’altra Artiglieria, leggieri di una libra di calibro, ben montati e facili a trasportarsi sopra le più scoscese montagne, carrichi a sacchetti farebbero stragi sanguinose dell’inimico quando sorte da un bosco e si forma ed in tutti que’ luoghi di stretto passaggio, e sempre più utili in que’ paesi ove, a cagion dei terreni difficoltosi, si è obbligato a far la picciola guerra.

Armati i Cacciatori di moschettoni, avvezzi a mirar da lontano ed a colpire, essendo una legione fornita di artiglieria grossa di riserva, seco conducendo il numero necessario di Minieri e Bombardieri, perchè mai non potrà assediare una picciola cittadella ed anche una grande, se le circostanze le sono favorevoli? Accostumati tutti i legionarj ad ogni sorta di servizio, accrescendo un saggio comandante al caso il numero di Fanti co’ Dragoni ed Usseri, accostumati a servir anche a piedi, e quello dei Cavalieri, facendo montare alcuni fantacini che già servirono a cavallo, vedendosi i soldati istruiti nelle differenti arti di guerreggiare, poco esposti al fuoco della moschetteria, quasi invulnerabili dalle spade e scimitarre nemiche, sì ben riparati contro il rigor delle stagioni, pieni di coraggio e di ardimento, simili guerrieri buoni sarebbero per conquistar l’universo.

XXXIII. Occupazioni dei legionarj.

Addestrati gli uomini ed i cavalli ne’ frequenti esercizj, esser vi dovrebbero nelle legioni istruttori di cavallerizza e mastri di scherma, quelli per insegnare a ben guidare un destriero e gli altri per indicare a’ guerrieri l’arte difficile di prender l’avvantaggio sopra il nemico allorchè si viene a segno di azzuffarsi colle spade, e per mantenere altresì i loro corpi agili, pronti e sempre più facili alle voluzioni.

Siccome l’attenzion maggiore di chi governa deve esser quella di formare buoni oficiali, affinchè sia l’esercito sempre fornito di esperti comandanti per eseguire le più scabrose intraprese, è tempo che mostri al mio despota quali sieno quelle occupazioni che possono nelle sue schiere formare una continua scuola di eroi.

Sieno impiegate da’ comandanti delle legioni le ore di ozio nell’interrogar i loro subordinati ne’ doveri e punti di servigio,[73] nel proporre dubbj e questioni, corregendo con bontà chi è nell’errore e lodando le risposte pronte ed adattate. Prenderà alle volte alcuni oficiali all’avventura per formar ogni sorta delle insegnate voluzioni, marcie, forme e movimenti ad alcuni battaglioni ed alla intiera legione. Comanderà a tal uno di prendere una certa quantità di Artiglieria, Fucilieri, Cavalli e Granadieri, all’altro di far lo stesso; a quelli di attaccare un colle, un ponte o altro posto, a questi di difenderlo. Ordinerà ad alcun di loro di costruire un forte, un ridotto edifenderlo, ad un altro di attacarlo. Spedirà questi a riconoscere un terreno e darne un esatto rapporto o ad occupare un bosco e passo, ed altri a scacciarli; a questi di ordinare un accampamento ed a quello un foraggio; indi all’uno una sortita e ad altri un assedio. Alle volte li avvertirà alcuni giorni avanti l’esecuzione, ed altre fiate li prenderà all’improviso, indi noterà nelle tabelle i diversi talenti, sagacità o incapacità, acciò sappia il sovrano chi merita di salire ad impieghi superiori e gl’ingegni capaci di cose grandi, o di restare in carriche ove non si richiedono lumi sì estesi. Sieno però tali rapporti pria esaminati dal Consiglio della legione, affinchè un comandante non possa far di quei torti che siano fatali agli altrui avanzamenti. Prevengansi in queste continue prove di esperienza le confusioni ed impediscasi che i soldati dei diversi corpi, mossi da una mal intesa emulazione, s’inducano a spargere indarno il sangue. Uniscansi poi dal sovrano nelle buone stagioni più legioni, si faccian marciare e travagliare, pongansi ad un rigido esame i talenti di chi le comanda e scopransi pure così le sublimità degli ingegni, calcolando il sapere e l’esperienza di ognuno.

Ecco, o vero despota, l’arte di distinguer l’abilità de’ vostri generali, affin di non dare mal’a proposito al capitano ardito e veloce la cura di riflettere sopra un progetto ed al tardo troppo sagace e ponderante quella di eseguir con prestezza un’azion ardita, poichè ambi uomini magnanimi ed esperti succomberebbero, perchè impiegati contra il lor dominante talento. Saprà egli allora conoscere con sagacità a chi va confidata una fortezza, dato il comando di un corpo, oppure adoperato in altre carriche.

Stabilita nella capitale un’academia di scienze militari sotto gl’illuminati auspicj del regnante e la direzion del Consiglio di guerra, all’uso delle scientifiche e letterarie fissar si dovrebbero ogni anno alcune questioni e premj per chi vince. Siano queste spedite alle legioni, acciochè, libera la carriera a’ varj ingegni dei militanti, ciaschedun possa scrivere. Chi meritò per tre volte il premio ne sia pur membro e pensionato dal principe,[74] senza però obbligar tutti gli academici ad una continua residenza, che priverebbe le legioni dei migliori oficiali, ma solo ogni dato tempo ed alle occasioni delle annuali decisioni delle questioni.[75] Siccome sufficienti non sarebbero le paghe, sebben maggiori di quelle delle altre truppe, a fornire agli oficiali i mezzi per istruirsi nelle scienze guerriere, abbia ogni legione una biblioteca mantenuta dal sovrano, composta di tutte le opere concernenti il mestier delle armi e di altri libri che insegnino le traccie dei più valenti capitani, le altre scienze e belle lettere che ornano lo spirito di chi le coltiva ed estesa rendono l’imaginazione ed il sapere, con tutti gli strumenti, piani e machine per formare ogni utile travaglio; una tal libreria sia nel quartier del comandante, ed affidata la conservazione al Consiglio legionario. Sia nelle sale pronto ogni cosa per la comodità di chi vuol studiare, e durante le campagne non si portino che le opere le più necessarie, per non troppo ingrossare il bagaglio delle legioni. Chi è più esperto nelle fortificazioni abbia un picciol aumento di soldo e serva d’istruttor a chi, zelante per le militari cognizioni, cerca d’imparare il disegno.

Ricompensati i più fervidi al servizio e quelli che si distinguono nelle scienze militari, pubblicamente lodati i coltivatori delle altre scienze, qual utile non ne avrebbe lo stato, anche per avere soggetti profondi nell’arte di ben governare?

XXXIV. Delitti e pene militari.

Il diritto di punire i delitti che si commettono dai guerrieri è una conseguenza di qualsivoglia rinuncia delle porzioni di libertà naturale, e di una maggiore necessità che di rimunerar la virtù.[76] Se ingiuste e crudeli sono le ruote, le scurri e le mannaje che privano i cittadini della vita allorchè divengano colpevoli di qualche reato, non sarà meno crudele la pena di morte per le soldatesche, che venne creduta legitima da quei barbari legislatori che osarono trasmetterla a’ posteri qual terribile monumento de’ loro ingegni sanguinarj ed atroci.

Se nella natura de’ contratti sociali è provato essere ingiusta la pena di morte, lo sarà sempre più quando stabilita per punire un delitto imaginario ed una azione che ci è insegnata dal sentimento interno della nostra libertà. Le leggi non vanno messe in contradizione coll’interesse di trasgredirle. Perchè condannare alla morte il disertore, se trova maggior vantaggio nel morire che nel continuare una vita che è divenuta assai più infelice di quella delle più infime belve? Nelle communi società il cittadino malintenzionato, prima di decidersi ad un reato, può almeno tacitamente formare il seguente raziocinio: Se mi lascio trasportare dalla cattiva inclinazione ad intorbidare la pubblica e privata tranquillità, commetto una colpa che irrita contro di me la divinità, che arma la giustizia umana a separarmi per sempre della società con una morte infame. E se impunito resta il mio reato, mille rimorsi, inquietudini e pene mi avvelenano la vita. Se vinco me stesso e se arrivo a reprimere gli stimoli che m’inducono al male, avrò una sicura ricompensa dal Cielo, un perfetto contento nell’animo mio, la prottezion delle leggi; a forza di travaglio, acquisterò maggiori gradi d’industria e mi potrò procurare col volger degli anni una vita più agiata e più felice.


Ma il soldato che si prepara ad abbandonare i suoi stendardi, che vuol sostrarsi alla vita la più infelice a cui venne sforzato, oppure indotto ed ingannato da quegli insidiatori che collo stravizzo, le milantazioni, i falsi prodigj seducono l’incauta gioventù, pensa altrimente e può così ragionare: La ragion mi dice che son nato libero, la religion mi assicura che il giuramento a cui fui costretto dalla prepotenza o dalla inconsideratezza non è valido; posso dunque fugire senza peccare, nè mancare a’ doveri dell’onestà. Se felicemente ottengo il mio intento, quand’anche non possa ritornare sotto i patrj tetti, qualunque professione, arte, mestiere e fatica mi porrà in istato di menare una vita meno sventurata perchè libera. Se la fuga non mi riesce, la legge che mi condanna allora alla morte, di cui son minacciato con modi più crudeli nelle zuffe, termina i disaggj, le batitture, i guai ed i mallori che mi assoggettavano ad una condizione assai peggiore di quella delle belve. Dunque in qualunque modo che mi riesca l’intrapresa, la fuga è sempre il miglior partito. 


Che dirò di quei giudizi subitanei e tumultuosi co’ quali, in men di due ore, vengono esaminate e punite colla morte le colpe imaginarie di coloro che cercarono di procurarsi la natural libertà in faccia il nemico?[77]

Chi non inorridisce alla tirannia con cui si condannano i soldati alla morte per molte altre azioni pur troppo naturali, che sempre avrò il coraggio di chiamarle delitti di paura di opinione? Uomini sciagurati, tigri e pantere furiose, principi inumani, che i primi dettaste leggi sì crudeli, ove fundaste i vostri diritti per abusar con tanto orgoglio di una autorità che esser non poteva se non un aggregato delle riunite private autorità de’ cittadini contrattanti? Da chi riceveste un poter sì esteso di sprezzar quegli uomini che per arbitri vi elessero ne’ loro dissidj, quasi creati fossero per servir di trastullo alle sfrenate passioni dalle quali venivate animati? Non crediate già che la scusa di mantener la disciplina possa render legitima la vostra barbarie, quando nella vera natura dell’uomo credo di aver ritrovati sodi principj su’ quali fondar si può un altro sistema di pene, più atto a mantenerla ed a prevenire gli altri delitti di quel codice odioso di leggi insoffribili compilate da un tribunal di antropofaghi. I sacri diritti della oltraggiata umanità, che sempre sosterrò con una stoica fermezza, mi animerebbero a maggiori declamazioni in favor della debole innocenza che tace e soffre, se, raddolciti gli odierni costumi, i benefici sovrani che siedon sui troni d’Europa non cominciassero a temperare anche il rigore delle leggi militari ed a inoltrare gli esempj i più insigni di clemenza e di virtù.


Volontarie essendo le milizie del mio eroe, sarà pena per loro lo scacciarli dalle legioni ed un segno di un commesso delitto. Prescindendo dalle mancanze di subordinazione, di cui feci menzione, e da quei delitti che si commettono da’ comandanti col tradire il sovrano e collo spargere per capriccio il sangue prezioso de’ soldati, delitti atroci che inorridiscono a pronunciare; diamo una rapida occhiata a quei generi di reati più nocivi allo stato militare, consideriamo quale ne sia lo spirito e quali le pene adattate alla loro natura.


Lo stravizzo, che è il più commune, si presenta il primo alla mia imaginazione. Perchè punirlo con battiture, quando le astinenze e ritiri meglio otterebbero l’intento? Perchè ricorrere ad altre pene per reprimer le milantazioni dannose e gli stessi oltraggj che al disprezzo, accompagnato dalla privazione ma precaria de’ suffragj, la prigione e l’onta?


Il furto, che sovente esercita la feroce crudeltà di chi si compiace a multiplicare il numero degli infelici destinati a’ supplicj, viene dalla miseria estrema in cui geme la milizia, messo in uso per estendere i mezzi di conservazione il diritto di proprietà, sebben mantenuta in una continua privazion del medesimo. Tormentato un povero soldato dalla fame che lo logora, oppure invitato da quella di una misera sposa e di innocenti pargoletti, se rubbando di che nutrirli non fece che seguir gli stimoli della natura, è forse colpevole? L’imagine di un ben presente pur troppo cuopre di un fosco velo il simulacro della pena, che non vede se non in una confusa lontananza e che spera di evitare. Ma tacerò, giacchè troppo affetta il mio cuore l’idea di un supplicio pronto ed ignominioso a cui vien strascinato un soldato sorpreso predar in un campo un frutto o legume, nello stesso tempo in cui si arricchisce dei gemiti de’ squalidi agricoltori quella barbara fiera che lo condanna.


Vedo in seguito un nembo di delitti di opinione sortire dalla negligenza al servizio. Chi seguì questa carriera m’intenderà senza che abbia d’uopo farne una distinta enumerazione. La trascuratezza sarà delitto in ragione dell’interessamento che avranno i guerrieri di adempiere i loro doveri. Liberi essendo i soldati delle legioni, e stimolati colla via de’ premj e de’ sentimenti, vedremmo ridotto ad una assai picciol somma il numero infinito di tali delitti, che presso altre milizie va sempre aumentando in ragione del feroce rigore con cui si cerca di sminuirlo.


Sembra indi che la fuga da davanti il nemico sia il più forte dei delitti; ma per veder la pena che merita un tal mancamento, riflettasi avanti ogni cosa essere il valore e la codardia due passioni che procedono dal temperamento. Se non si saprebbe contrastare una tal verità, cosa vi sarà mai di più assurdo e di più inconseguente che il punirla colla morte, principalmente fra quelle milizie ove, sforzato l’uomo al penoso mestier delle armi, non merita alcuna pena se non sente quel fuoco di passione che lo accieca nell’annichilamento di sè medesimo?


I soldati del mio eroe, che volontariamente si dedicano a seguire le belliche insegne, non sono per quello indegni di compassione, poichè non meritano pene severe se non le colpe che provengono dalla malizia, e non già quelle che hanno origine nelle umane debolezze, essendo allora condannabile la sola natura per averci lasciate simili imperfezioni, se tali si vogliono chiamare.


Devesi dunque lasciare impunito un tal delitto? mi domandarà taluno. No, degno è di pena se si vuol mantenere la disciplina, ma non già della morte, per la cui decisione in vano mi citerebbero gli esempj dei Romani[78] e di altri popoli, che con uguale crudeltà si portarono a stabilire pene sì ingiuste. L’infamia è il sol castigo che si merita un codardo, ci dice un greco, illuminatissimo legislatore e conoscitore del cuore umano;[79] pena che prende origine nella natura dello stesso delitto, ed alla quale sarebbero ognor più sensibili dei soldati i generali ed altri oficiali, sempre però misurata in proporzion del danno che può aver recato allo stato che lo punisce. Non sii perpetua, se non in que’ casi estremi che si dispera della sensibilità di onore in un reo, per non obbligare un amico scacciato con igno­minia e diffamato a divenire un nemico acerbo ed a cercar di ricuperare la propria gloria con gesta grandiose sotto le bandiere ostili.

Le procedure delle legioni non dovrebbero esser arbitrarie; non basta che l’auditore dica che un reo ha meritato una tal pena in vigor di una legge crudele di qualche tiranno principe imbecille, ma fa d’uopo che il delitto venga ben esaminato e provato dagli uomini i più sagaci che formano il Consiglio legionario. Sebbene esser debba composto di guerrieri di ogni rango, ammetter non si deve per membro se non chi si distinse contro il nemico, illustrò la sua vita con qualche azion rilucente o diè prove chiare di virtù, per non confidare il diritto di punire ad uomini insensibili al benefico fuoco delle passioni, giacchè da’ medesimi si devono ascoltar e decidere tutti gli altri bisogni dei soldati.


Abbia ogni legione un avvocato degli innocenti, e per ogni accusato di cui gli riesca di far veduta la falsità del reato abbia dal sovrano un premio, dovendo meritar un ugual guidardone ognun che impedisca di dar una pena ingiusta ad un innocente perseguitato. Che i comandanti delle legioni non abbian altro potere che di allegerir le pene, e che ne’ casi dubbj o di troppa importanza si trasmettano i processi al Gran Consiglio di guerra, tribunal superiore e che da altri non dipende se non dal sovrano.


E che dirò di cotesto Consiglio superiore a cui è confidata la somma delle cure degli eserciti? Dovrà forse essere composto di uomini occupati di inutili dettaglj sopra cose di poco momento, insensibili all’attrattiva incantatrice della gloria, ed a’ quali il linguaggio possente delle passioni è una scienza sconosciuta o indifferente? No certamente. E come potrebbe giudicar delle gesta virtuose o colpevoli de’ legionarj, come distribuire i premj ed i castighi in nome del sovrano? Dunque non vi si dovranno ammetter dal vero despota che eroi, uomini straordinarj, ugualmente profondi ed ornati dei più esimj talenti. Bisognerebbe aver rispinti gli inimici dalla patria, guadagnate battaglie o fatti stupire popoli diversi di azioni sorprendenti e magnanime. Il capitano il più valente dell’esercito ed il più esperimentato, quello che riportò più vittorie, che colse più allori, che più volte trionfò de’ nemici o diè prove maggiori di virtù, in somma il più appassionato per la gloria, ne sia il presidente. Più non essendo il Consiglio di guerra una unione di persone insensibili, ma di esseri veramente pensanti e diretti dalla forza dell’entusiasmo della virtù e dell’onore, conoscendo lo spirito animator del valore, le passioni dominanti delle legioni e di chi le compone, calcolatori esatti di tutte le azioni dei guerrieri, sapranno nelle stesse passioni trovar le vere sorgenti delle pene con cui vanno puniti i delitti dei seguaci di Marte, repressi gli urti impetuosi de’ vizj medesimi e diretti a quel punto di forza e di fervescenza che opera cose meravigliose fin negli animi corrotti e mallevoli.


XXXV. Virtù e premj.

Non parlerò già di quelle vane ostentazioni di profusioni che distrussero la libertà nelle repubbliche, non di que’ donativi con cui alcuni capitani corruppero i veri germi di valore nelle soldatesche, donativi che costan doglie allo stato,[80] nè tampoco di quelle prodigalità che a piena mano versarono alcuni usurpatori sopra le legioni per comprare l’impero o per sostenersi. Doni sì mal calcolati, roversciando i principj della disciplina e della subordinazione, resero quei guerrieri sì audaci e baldanzosi che ardirono portar le loro sacrileghe mani sopra alcuni buoni regnanti e trucidare que’ stessi capitani che pochi momenti avanti comprati ne aveano i suffragj.[81]

Essendo le legioni una unione di uomini appassionati, i premj che ricompensano le azioni straordinarie dovransi ricercare nelle stesse passioni che producono nell’amor pro­prio un movimento impetuoso verso il valore. Isicrate volea che i soldati fossero avidi di ricchezze e voluttuosi, affinchè combattessero con maggior audacia per indi satollar l’avarizia e la voluttà che li animava.[82] Non parlo dell’idea di Platone, chi crede alla forza de’ sensi depravati lo consulti. Licurgo diresse il codice delle sue leggi e premj militari sopra i medesimi principj; Maometto, oltre l’entusiasmo della sua nuova religione, con qual forza non impiegò mai l’amore per far de’ suoi seguaci un popolo di conquistatori? E non guidò forse l’amore tanti eroi portughesi e spagnuoli a scacciare i Mori da molte provincie ed empiere le più recondite terre del suono de’ nomi gloriosi delle loro favorite?[83]

Sebbene i lumi sublimi del Vangelo ed i costumi ricevuti vietino certi stabilimenti, nulladimeno perchè non si potrà mai servire il mio eroe dell’amore per ricompensar i più intrepidi guerrieri? Da esso lui dipendendo di animar le passioni nel sesso incantatore, perchè non istillarli aversion per i codardi ed entusiasmo per i valorosi, giacchè l’amore elevando l’animo degli uomini formò tanti valenti capitani, e trasformarebbe le sue legioni in tante falangi e battaglioni tebani? Ma come roversciar le idee fattizie da cui le odierne nazioni vengono dirette? La volontà del sovrano e l’esempio parlarono in ogni tempo con troppa efficacia per dubitarne dell’esito.
Quidquid delirant Reges plectuntur Achivi.[84]

Vi è un’altra specie di amore, quasi uguale in forza, che convien stimolare co’ premj i più lusinghieri. Questo si è l’amor della patria, o sia del sovrano giusto e benefico, in cui riunite si trovano tutte quelle idee che producevano le più dolci sensazioni in chi difendeva nelle repubbliche le proprie utilità. Di qual vantaggio potransi vantare i più liberi cittadini sopra sudditi sì felici? I Romani sotto Vespasiano, Tito, Antonino Pio ed Alessandro avendo date le stesse prove di patriotico zelo di quelle dei tempi dei Camilli e dei Cincinnati, i trasporti virtuosi di valore dei popoli del vero despota non sa­ranno al certo men vigorosi. Giacchè un tale amore stimola l’amor proprio al desio impetuoso della vera gloria, si preparano dunque dal mio regnante quelle ricompense che lo nudriscono. Se Pietro il Grande trionfò, trionfi egli pure, ma che i di lui generali vittoriosi privati non sieno della pompa trionfale; che al scender dal cocchio glorioso, corra il sovrano, presente un popolo infinito ebrio di gioja, ad abbracciare il vincitore e darli un pubblico pegno di ammirazione e di amore, pegno che avrebbe l’attrativa di formar anime grandi. Al seguito del vincitore marcin i soldati che seco lui colsero allori, che ogni oficiale e guerriero vada in questa pompa militare in proporzion delle prove che diè di intrepidezza e di sperienza. Notati quelli che più si distinsero, i nomi esposti alle pubbliche lodi faccian piangere di contento le attonite famiglie fastose di aver nudrito un eroe. La magnificenza dei trionfi sia proporzionata allo splendor della vittoria, e che tutti gli avvantaggi che riportano i comandanti siano celebrati con cerimonie più o meno vaghe secondo l’utilità che ne avrà il sovrano. Metodo sorprendente, che formò i più invitti eroi! Ditelo, guerrieri appassionati, chi potrà mai reprimer gli impeti del vostro valore a roversciar le schiere nemiche? Quale sarà quel cittadino infelice sì privo di amor proprio che non corra ad arrolarsi, affin di aspirar a tanti onori?


Per sempre più allettar i soldati alla virtù ed al valore, si dovrebbero nelle legioni formar storie ed annali,[85] ove scritte esser devono le belle azioni e detti sorprendenti dei guerrieri, senza aver riguardo al rango ed alla nascita.[86] Abbia ogni legione una picciola galeria, ove vi siano in minuto i ritratti dei più valenti e virtuosi, e scritte al disotto le cagioni che loro meritarono distinzioni sì lusinghiere, ma si scancelli la memoria di coloro che con azioni vituperevoli offuscarono la meritata gloria. Se si desidera di perfezionar anco la tattica, stabiliscasi che il più esperto de’ comuni legionari e bassi oficiali, per ogni centuria, nell’eseguir i diversi movimenti, abbia una certa distinzione di onore e di lucro, finchè però, superato da un altro, a questo nuovo meritante ne passi il premio e l’onore. Qual agilità non avrebbero negli esercizj e qual altra truppa potrebbe uguagliar la loro prestezza? Nello spedire al Gran Consiglio di guerra la relazione delle azioni valorose de’ legionarj per essere ricompensate dal sovrano, si raccolgano pria i voti di tutti i soldati, per veder se son veri o supposti i meriti, condannando a perpetua ignominia chi osò corromperli per usurpare un premio che la verità e la giustizia loro ricusa. Ecco, o vero despota, come si ricompensano le azioni, come si formano truppe invincibili senza aver d’uopo di ricorrere alla prodigalità delle nocive profusioni.


Più rifletto sui veri principj di formar guerrieri straordinarj, più veggo la necessità di premiar le altre virtù. La gratitudine, l’amicizia, l’amor pe’ genitori, per le tenere spose, pe’ figliuoli, per gli altri congiunti, e tutte le altre virtù rimunerate e nudrite ne’ cuori dei soldati, quanti bei sentimenti non detterebbero ne’ loro petti, quanti sublimi pensieri non risveglierebbero ed a quanti tratti infine non li animerebbero della più invitta magnanimità? Le virtù, come le scienze, formano una catena mirabile, queste a quelle si avvincolano, potendo i principj animatori di questa servir di cammino a quella, sebben agli occhj del volgo ignaro sembreran paradossi queste lucide verità.

Ma ove e come ritrovar tanti premj, se gli esempj di virtù diveranno frequenti? L’onore, la pubblica stima, ecco l’erario inesausto delle ricompense. Fortunati quei sovrani che, avendone il deposito, lo seppero accrescere e render ognor più prezioso in ragion della felice multiplica delle nobili azioni. I mezzi di render i premj efficaci e di saperli proporzionare ai meriti gl’indicano le stesse virtù, che tutte portano seco loro i germi rimuneratori, mezzi che dovranno però esser calcolati dai gradi di sensibilità di tali milizie, la cui esatezza nel misurarli verrà indicata dalla stessa quantità delle lodevoli azioni.


Se nelle tabelle ove scritte esser devono le prove di capacità di ognuno de’ guerrieri si notassero con maggior esatezza le belle gesta; se negli ordini e dispaccj che vengono dalle corti alle legioni pubblicamente si lodassero i tratti nobili e generosi, e si biasimassero quelli che scaturiscono da’ vizj; se questo metodo da’ comandanti giornalmente venisse pratticato; se le azioni magnanime infine entrassero nelle decisioni degli avanzamenti, vedrebbesi diminuire l’attrattiva de’ vizj e rari più non sarebbero gli esempj di virtù. Gli uomini vili si corregerebbero o abbandonerebbero con un tal sistema gli stendardi, e le anime generose popolerebbero le legioni. Nell’articolo dei divertimenti indicherò altri premj con cui ricompensar si possono le virtù. Felice se, con queste brevi riflessioni, posso persuadere i sovrani della necessità di tali stabilimenti, e se arrivo a destar una nobile emulazione in chi si dedica alla loro difesa a meritarli.


XXXVI. Aringhe.

Fuoco benefico dell’eloquenza, di che non sei capace? Tu fosti sempre il despota nelle repubbliche, ove animasti i popoli ora alla pace ed ora allo sdegno contro de’ rei, ed ora al perdono. Dettator delle leggi e dei trattati, sempre ne diriggesti le azioni. Se nella bocca di uomini giusti e virtuosi formasti la libertà delle nazioni, e se in quelle dei cittadini cattivi e perniciosi la roversciasti per fondarvi l’usurpazione e la tirannia, perchè non avrai da accendere le vive passioni de’ miei seguaci di Marte ed animarli a coglier allori, che loro producono premj e trionfi sì lusinghieri? Felici gli esperti capitani che, conoscendo le tue possenti attrative, a tempo ti impiegarono per rillevare il coraggio abbattuto[87] o per meglio nudrirne il valore! Da essi loro così si appianavano i monti inaccessibili, si varcavano i fiumi i più rapidi e si sprezzavano tutti gli ostacoli che la natura e l’altrui coraggio opponevano alle nobili gesta.[88]

Arringavano gli eroi di Omero i soldati pria di combattere. Allo strepito fastoso della celere marcia di Creso con potentissimo esercito, scoraggite le truppe persiane, già vinte credendosi e fugate, un discorso eloquente di Ciro loro restituisce l’ardire. La poca disciplina de’ Lidj, il lusso, lo stravizzo e più le ricchezze di que’ popoli ammolliti sono i luoghi retorici che assai più delle armi rendono vittorioso il persiano conquistatore.[89] Stanchi ed intimoriti i Cartaginesi per le zuffe sanguinose e continue, imaginandosi di esser in braccio alla morte, perchè minacciati dalla stessa natura al passaggio delle Alpi; col mostrare loro le amene campagne d’Italia, le spoglie doviziose di quelle ricche regioni pre­da della loro intrepidezza, i premj in fine ed i trionfi nella patria, Annibale fa loro dimenticar ogni disaggio e li rende ognor piu arditi a proseguir la cominciata intrapresa. Costernati e sorpresi da un panico terrore i Romani al veder le schiere di Ariovisto e quei Germani che loro sembravan sì formidabili, già si preparavano alla fuga, ma Cesare loro parlando con forza e vigore[90] ne dissipa ogni timore e gli obbliga a cercar di combattere. Ribellate le milizie romane nella Germania contro Tiberio, uccidon indomite i lor centurioni e tribuni; i deputati del senato non son sicuri contro il loro impeto furioso, ma Germanico con una nobile eloquenza raveder li fa de’ loro delitti, pentir de’ commessi disordini e rientrar nella pristina obedienza. Non vi fu greco e romano condottiero che, aringando con dignità e persuasiva le proprie milizie, non ne facesse uomini straordinarj che altro non cercavan che i perigli e la morte.

Animate le legioni del mio eroe da mille eccitamenti, quali effetti portentosi non produrranno in essi i discorsi di un regnante che adorano, giacchè, come dice l’imperador Leone,[91] un generale che alla prudenza sa aggiungere l’eloquenza è capace di tutto. Ma siccome, cogli odierni ordini di battaglie, possibile non è che la voce di chi comanda possa esser sentita da ogni soldato se tempo non v’è di formarli in massa, diretto allora sia il discorso del vero despota a’ primarj oficiali e comandanti, per farne indi passare l’aringa nelle legioni col mezzo degli ajutanti. Brevi siano e maestose, ed in linguaggio eroico, come le celebri parole di un gran monarca,[92] se vuole che producano i medesimi effetti e la stessa sensibilità ne’ suoi bravi legionari, che già parmi di vedere pieni di entusiasmo scorrere i campi marziali di vittoria in vittoria, indi di trionfo in trionfo.

XXXVII. Onore.

Qual vaga parola non è mai l’onore presso degli uomini? Ogni corpo, cioè ogni società di persone tendenti a qualunque fine prefisso da quelle leggi che li unisce, dà il nome di onore allo spirito che lo dirigge. Attila, Gengis-Kan, Tamerlano, Tamas-Kouli-Kan parlavan dell’onore alle proprie soldatesche per eccitarle ad empier la terra di stragi e di rovine. Alcuni sacerdoti ambiziosi ed inumani, impadronendosi del poter legislativo negli affari di religione, si compiacquero anch’essi di chiamare ONOR DELLA CHIESA la prostituzion del Vangelo, il commercio delle grazie del Cielo, l’avvilimento de’ monarchi ed il dispreggio di tutte le sovranità e legami sociali. In fine, con un’infinita varietà di definizioni, parlarono dell’onore tutte le nazioni, sempre regolandolo a norma della diversità dei costumi, delle leggi e dei governi di ciascheduna.

Per intendere le tante differenze nel deffinir l’onore presso i diversi popoli, esaminiamone l’origine. Cosa è l’onore, se non il desiderio della altrui ammirazione e di possedere il maggior numero possibile di suffragj dei nostri concittadini e di que’ uomini co’ quali abbiamo continue relazioni, affin di godere tutti quei piaceri che ci procura la pubblica stima? Ora l’onore altro non è che una fisica sensazione ed un amore celato dello stesso piacere. Variando i piaceri delle nazioni e le deffinizioni delle idee di bene e di male, che non sono prodotte che dalla utilità vera o apparente, ecco per conseguenza come varie esser devono le sensazioni delle nazioni sopra l’onore.


Ove maggiore è la sensibilità pe’ piaceri, maggiori dovendo essere gli sforzi per acquistar la pubblica stima che li procura, l’onore sempre vi sarà più forte e per conseguenza più frequenti le azioni che tendono a meritarla. Il principal scopo del legislatore dovendo esser di dirigger le azioni degli uomini verso l’utile ed il ben essere de’ cittadini, perchè non indirizzare i pubblici suffragj verso quel punto di utilità ove tender devono le stesse leggi, e fare in modo che le azioni proibite dalle leggi civili e divine siano nello stesso tempo contrarie a quelle opinioni che li governano; o per meglio dire, trasmutare e diriggere le opinioni secondo che lo richiede l’interesse della nazione? Le azioni perniciose ed offensive trovandosi allora abborrite dai cittadini, condannate dalle leggi e contrarie alla religione, troppo rari essendo quegli uomini che poco apprezzano la pubblica stima, più rari sarebbero i delinquenti. Le contraddizioni dunque fra queste tre idee di legislazione se non si tolgono, le definizioni dell’onore sempre incontreranno ostacoli infiniti.


Ho ricevuto per conseguenza un’offesa, per servirmi delle stesse parole di un illuminatissimo scrittore,[93] la religione mi ordina di perdonare; la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice; l’onore ordina che io me ne vendichi col mio braccio: sono fra l’infamia, la prigionia[94] ed il peccato!

La legge civile, prosiegue il già lodato autore, mi offre una ricompensa, e m’invita con pubblico editto a tradire o ad uccidere un tale; la religione e la onestà gridano non tradire, non uccidere. Come condurommi in quest’orribile labirinto?

Mutate le opinioni, e riunite alla religione ed alle leggi civili, per introdurre il vero onore nelle soldatesche si puniscano piuttosto col pubblico disprezzo quelle azioni che tendono a provocar l’altrui ira, e non sii lodevole il valore se non contro i nemici del sovrano. Perchè dovrà imbrandire il ferro l’oltraggiato contro l’aggressore ingiusto se, non avendo il giusto e l’offeso alcun avvantaggio di forza sopra l’uomo cattivo che lo provoca, oltre l’offesa ricevuta può perder la vita? Essendo reo d’infamia chi offende, l’offeso più non si batterebbe, per non incorrere nella stessa pena e per non perder i suffragj della legione che lo scaccia.


Che lo stato militare venga onorato dagli altri cittadini, egli è troppo giusto. Nel lusingarli con preminenze e distinzioni, se ne eccita la generosità e l’amor proprio e se ne rilevano le passioni, giacchè una società di uomini che si dedica al pericolo ed al genere di vita il più penoso per l’onore, e che tutto rinuncia fuorchè al diritto di difender la patria, ha le più legitime pretese sopra l’erario inesausto della pubblica stima. Ma che questa però non generi ne’ cuori de militanti disprezzo per i magistrati[95] ed altri cittadini; disprezzo abbominevole ed ingiusto, che va prevenuto colle più provide leggi dal mio regnante, se vuole che i suoi soldati non abbiano orgoglio che contro i soli nemici dello stato.

Siccome l’onore nelle truppe vien nudrito dalla bravura ne’ travaglj e pericoli della guerra, apprenda il buon guerriero che questa virtù vizio diviene quando non ha altra vista che i proprj interessi[96] e non la giustizia ed il pubblico bene. Se la vera gloria getta profonde radici, e come la fama cresce nel suo corso, la finta, qual un fiore leggere che non conserva il vago suo colorito se non col soccorso dei caldi raggi del sole, langue e svanisce.[97] Giammai non contenta un eroe, ma rende languidi que’ stessi pensieri che animar lo devono all’entusiasmo del valore.

XXXVIII. Divertimenti.

Misera condizione de’ vostri soldati, dirammi il leggitore! Occupati alle difficili voluzioni e movimenti della tattica, sottomessi alla più penosa disciplina, sempre affaticati ora allo studio ed ora a’ continui esercizj, fra essi chi potrà continuare una sì disastrosa carriera? Si dissipi pure il timore dal cuor di chi legge, e nel veder i più nobili divertimenti che preparo a miei guerrieri si empia di desio di seguirne le traccie.


I piaceri delle legioni non saranno già i giuochi vili che i Francesi chiamano de hazard, sebbene adottati da molte antiche nazioni,[98] divertimenti perniciosi che soffocano i più utili sentimenti per far tal volta luogo a quelli di turpitudine. Se furono sbanditi dai valorosi Spartani colle pene le più severe, negli stati del mio sovrano non solo verranno proibiti nei campi di Marte, ma anche fra gli stessi pacifici cittadini.[99] Le ricreazioni dei legionarj non saran già di quelle che tendono a corromper i costumi, scemar il coraggio ed a spegnere le belle sensazioni della virtù, ma bensì ad animar l’emulazione ed i più elevati pensieri.

Si seguano adunque gli esempj degli antichi providi legislatori, che giammai non cessarono di stimolarli perfino ne’ pubblici giuochi e spettacoli consacrati alle glorie de’ numi[100] ed alla libertà delle nazioni,[101] ora per onorar le funebri cerimonie[102] degli illustri cittadini ed eroi ed ora per celebrar le più insigni vittorie.[103] Non entrerò già in un pomposo apparato di una inutile erudizione nel descrivere tutte le feste degli antichi, ove venivano distribuiti i premj i più onorevoli a’ più forti o a’ più colti. Che gli antichi se ne siano serviti per animar le passioni e per conservar sempre fervente il genio alle glorie militari e scientifiche, ce lo dicono le Olimpiadi e tutte quelle illustri radunanze ove i diversi talenti erano messi a prove ugualmente dilettevoli che difficoltose; invenzioni sublimi, che mantennero per sì longa serie di secoli cocente l’emulazione per l’amor della patria.

Ma quali saranno dunque quei giuochi che dovransi stabilire nelle legioni? Le giostre, i combattimenti eseguiti con armi che non posson ferire, il nuotare,[104] le lotte, le corse di uomini e di destrieri, il colpir con pistole, fucili e cannoni alle più lontane distanze, le gare academiche di militari composizioni, e tutti quegli altri divertimenti che conservano le forze dello spirito e del corpo e che rendono gli uomini sempre più esperti ed agili. Gli sforzi di chi si distingue sieno ricompensati con uguali premj e distinzioni, prese nell’erario inesausto dell’onore per gli oficiali e lucrose soltanto per i semplici soldati e bassi oficiali, notate queste sì nelle tabelle che negli annali legionarj. Celebrinsi queste feste guerriere negli anniversarj di qualche vittoria o all’occasion della morte di qualche legionario illustre, affinchè simili famose memorie si scolpiscano ne’ cuori di chi vi assiste.

Abbia ogni legione ne’ tempi di pace un teatro, per la cui perfezione dovrebbero essere stimolati cogli onori i più affezionati alle lettere affinchè ne procurino le continue sceniche rappresentazioni, ove deve esser recato a lode ad ognun de’ militanti l’agire, giacchè si tratta di parlar a’ cuori e d’eccitar le passioni. Non si rappresentino fra le tragedie se non quelle che son atte a destare i sentimenti d’intrepidezza e di fervore. Cerchinsi gli eroi nella propria nazione, e sebben oppongano le leggi teatrali, rappresentisi pur con entusiasmo le azioni straordinarie de’ proprj comandanti e degli stessi legionarj, il di cui linguaggio sia ardito e forte. Nelle commedie si deridano que’ vizi che sono nocivi ad un guerriero. La vanità, l’ostentazion di questi, il mal fondato orgoglio di quelli, il funesto disprezzo che si ha per gli altri impieghi sì necessarj alla patria, l’onor mal inteso e brutale di versar per cagioni ridicole quel sangue sì caro alla pubblica causa, vengano pur derise con una efficace eloquenza che muova e che persuada. Sì nelle comiche che nelle tragiche rappresentazioni distruggansi con libertà le malefiche sensazioni, senza aver riguardo al rango ed alla dignità di chi le ascolta. Si ecciti l’emulazione, s’infiammino i cuori, se hanno da servir i divertimenti ad accender gli animi del fuoco della virtù. E non son forse quelli i più sensibili piaceri per chi, avido della vera gloria, non misura gli onori che in ragion degli sforzi per rendersi degno degli altrui suffragj? Affin di divenire il soggetto della pubblica rappresentazione, che non farebbe per distinguersi?


XXXIX. Buoni costumi.

Negli articoli della disciplina, divertimenti, premi, onore ed in altri, ho esposto diverse idee che tendono a render morigerati i costumi nelle milizie. So che uomini corrotti dalle odierne costituzioni rideranno nel legger tali pensieri. Il filosofo, il conoscitore del cuore umano ed assai più quei militari profundi che dell’arte della guerra non ne fanno una occupazioni superficiale ma uno studio riflesso e metodico, vedranno con piacere le mie nobili intenzioni, ed applaudendo a’ miei deboli sforzi, solcheranno un terreno che sembra per ora incolto con proporre un necessario sistema, sistema di cui il limitato mio talento dar non ne puote che un brevissimo sbozzo.



È una chimera, grideranno gli spiriti volgari e forse anche molte persone letterate, il proporre costumi morigerati ad uomini avvezzi ad una vita tumultuosa, fra le rapine, i saccheggj, i violamenti, le stragi, gl’incendj e le rovine.[105] O confusione, o cecità! Saranno dunque ideali gli esempj de’ Tebani, dei Lacedemoni, de’ Romani, che durante alcuni secoli, anche fra gli orrori di guerre continue, diedero esempj della più pura e più sublime virtù? Se ameni erano i loro costumi, se l’onore, l’amicizia e l’urbanità erano le leggi con cui vivevano anche i soldati macedoni e quelli di molti altri eserciti sommessi e comandati da monarchi, perchè non potranno tali qualità esser la norma de’ miei guerrieri?


Quanto superiori non sarebbero le nostre milizie a quelle delle altre nazioni, se introdurre vi si potesse la sullodata morigeratezza ne’ costumi! Produce il delizioso sentimento dell’amicizia e della urbanità, che seco loro sempre sogliono avere mille altre virtù, che vezzosamente d’intorno festeggiano; sentimenti sì forti e sì espressivi che anche nelle moderne armate, ove vengono ignorati i veri principj di disciplina col sostituirvi altri del tutto corrotti ed opposti, ho sempre veduto i regimenti fare minori o maggiori sforzi di valore in proporzione dell’amicizia più o meno forte che legava co’ comandanti gli oficiali, e con questi i semplici soldati.



O virtù, o purità di costumi, tu non sei dunque un nome vano nè un essere puramente chimerico![106] Se la dolcezza sarà lo spirito di chi comanda nelle mie legioni, l’amore e la riconoscenza quello di chi ubbidisce, chi potrà dubitare essere l’urbanità l’immediata conseguenza del mio sistema? Attenti i comandanti a procurare a’ subordinati ogni soglievo, a rimirarli con viso sereno e giojale, a dar loro continui pegni di stima e d’amore, questi dal canto loro, sensibili a sì buoni trattamenti, penetrati più non essendo di quell’odio che suol ispirare una fisica atroce severità, si porterebbero da loro stessi ad eseguirne gli ordini, senza altro stimolo che il timore di offendere chi li guida con tanta clemenza. Un contrasto sì sensibile di generosità, di cui, al par di ogni altro genere di persone, sono sempre suscettibili quelli che corrono la carriera onorata di Marte quando si san ben dirigere, mancar non potrebbe di produrre una perpetua circolazione di magnanimi pensieri, che soli nutriscono colla forza ed il valore le più intrinseche affezioni, le prove continue di stima e gli attestati sempre ripettuti di amicizia, che costituiscono la vera morigeratezza de’ costumi.


XL. Economico regolamento delle legioni.

Se la disciplina di una legione e la suprema direzione delle sue belliche intraprese va intieramente affidata a chi la comanda, non sarà già cosi dell’economia, che troppo facilmente corrompe l’animo di chi, reggendola, resister non sa all’attrativa dell’oro, potente seduttore della stessa virtù. Potessi qui almeno descrivere i tristi eccessi che ognora si osservarono fra quelle soldatesche ove i comandanti a cui era confidato l’economico regolamento lasciaronsi trasportare. Quanti ne osservai con dolore scuotere quel vivo fremito che aver deve ogni anima sensibile e che ispirano le sventure dello stato de’ militanti abbandonati, per l’abjetto desio di saziar le proprie cupidigie, avere il coraggio brutale di approfittar sopra il nero pane affumicato ed altri alimenti del povero soldato, che appena sostiene un resto di vita, e nello stesso tempo in cui si osa condurlo al supplicio per ogni picciol furto,[107] negargli per fino con che guarentirsi dal rigor delle stagioni; profitti sempre più ludibriosi, perchè fatti contro i membri i più infelici dell’umanità, sebben ne siano i difensori.

Se confidata venisse l’economia delle legioni a chi le comanda, ne formerebbe tiranni e malefici despoti, non già eroi e spiriti sublimi. Come potrebbesi allora coltivar la virtù ed il valore, se, questi oppressi e l’altro oppressore, non vi regnerebbero che odj e che vendette? Avviliti tutti gli animi dei militanti, a che servirebbero i premj e le lusinghe per formar esseri magnanimi? Quando anche fossero eroi chi li comanda ed insensibili alle turpi inclinazioni, come potrebbero pensare ad animare le altrui passioni se, continuamente occupati negli infiniti dettaglj dell’economia, loro mancherebbe per fine il tempo di dare alla stessa disciplina una rapida occhiata?

Fissato dal sovrano il mantenimento de’ suoi guerrieri, l’economico governo delle legioni esser dovrebbe di una forma democratica e popolare. Oltre il Consiglio legionario di guerra, che ne comporebbe un senato, esser vi dovrebbe in ogni legione un Gran Consiglio, composto dei deputati di tutte le centurie o compagnie. Ognuna inviar ve ne dovrebbe tre, quattro o sei, secondo la forza della stessa, e nominati dalla pluralità dei voti delle soldatesche, che obbligate sarebbero dalle leggi a scieglier sempre oficiali o bassi oficiali, quelli però in cui si riunirono i pubblici suffragj, figli dell’amore prodotto dal merito. In questa dieta presentati esser dovrebbero i bisogni, proveduto alle indigenze e regolata l’economia. Gli atti esser dovrebbero registrati ne’ protocoli, ma pria approvati dal Consiglio legionario che ne tempera l’autorità, indi spediti al Gran Consiglio di guerra, a cui dal sovrano verranno affidate le cure della suprema direzione dell’economico regolamento di tutti gli eserciti. Sieno i supremi consiglieri frequenti a visitar nelle provincie le legioni, affin di vedere se oltre la disciplina vengano osservate le altre leggi. Non più impiegati i comandanti negli infiniti ordini dell’economia, libere sarebbero le loro menti per riflettere sopra gli oggetti più interessanti del militar regolamento. Privati del diritto funesto di nuocere all’economia dei soldati o di corrompere gli animi, sarebbero sforzati alla ricerca dei mezzi di acquistarsene l’amore e la fiducia; più non tremando i subordinati per timore del danneggiato interesse, vile non sarebbe il rispetto per chi lo comanda, ma fondato sopra l’amore e la virtù. Qual popolo potrebbe mai superare queste mie coraggiose milizie in valore ed in disciplina?


XLI. Popolazione militare.

E perchè mai privare i difensori della patria del più giusto diritto, diritto incontestabile, cui vengono chiamati tutti gli esseri animati dalla ridente natura? Lo stato militare, dicesi da ogni politico, è uno dei forti ostacoli alla popolazione; e perchè non lo dovrà essere oggidì, fra le diverse nazioni, che delle soldatesche si forma uno stuolo di sforzati celibatarj! Se mi si oppone che un guerriero ammogliato non ha più la stessa affezione pella nobile carriera delle armi, che occupato alle continue cure d’una indigente famiglia diviene codardo, dirò che nell’analisi de’ principj produttori delle azioni facilmente potrassi trovare un sistema con cui l’umanità ed il vero utile de’ principi vengano meglio calcolati.


Qual maraviglia che i soldati ammogliati sieno i più negligenti al serviggio e tal volta ancora i più timidi nelle azioni, se vedono crescere la loro miseria in ragion dei prodotti di un amor innocente? Uomini inconseguenti, consultate una volta il cuore umano, indi prescrivetene meglio le leggi. E come pretendere che mostrinsi più fervidi per chi li fa languir fra lo squallore della livida fame che pe’ sacri doveri della sempre parlante natura? Umanità, dolce stimolo della beneficenza, presiedi a’ miei pensieri ed addittami i mezzi di render le milizie sempre più zelanti nel difender la patria, sebbene occupate dall’oggetto di multiplicarne i virtuosi cittadini.

Accresciuta loro la sussistenza, atterrati que’ mostri che tanto si oppongono alla umana felicità, cerchiamo di togliere ancora l’unico ostacolo che impedirebbe nelle legioni lo spirito di popolazione. Eccolo. Chi penserà al mantenimento dei prodotti del nostro amore innocente? direbbero in tal caso tutti i soldati ragionando del loro benesser futuro, quando anche avessero i mezzi di mantenerne le spose. Più non fremete, invitti compagni di Marte, i figli vostri non saranno minacciati dalla meschinità che sempre fa tanto ribrezzo, nè per farli sussistere ricorso aver dovrete alla frode; seguite pure gli stimoli del vostro piacere e quelli della natura che in voi li desta, giacchè la pubblica stima s’accrescerà in vostro favore secondo il maggior numero de’ cittadini che darete alla patria. Se le spose vi sopraviveranno, saranno mantenute in proporzion dei servigj resi al sovrano, che ne priverà soltanto quelle di coloro che fuggiron d’avanti il nemico o contaminati si saranno di altri delitti. Si dileguino in fine i dubbj: i vostri figlj, figli saran dello stato. Il dolce despota, il padre commune de’ suoi popoli, ne provede alla sussistenza ed all’educazione; avrete l’inesprimibile diletto di essere padri, ma non già la sciagura di non saper con che nutrir la prole, nè le difficili cure di una educazion incompatibile colle tumultuose occupazioni del vostro stato. Il mio regnante allora mantenendo in luoghi sicuri dalle corse del nemico i figlj e le spose de’ suoi soldati durante le campagne, sarebbero le famiglie l’ostaggio della loro fedeltà. Si avvezzino le spose a ricever con doglia e disprezzo chi vincer si lasciò oppur fuggì in faccia al nemico. Permettendo ne’ quartieri d’inverno alle spose di veder i mariti, privar si dovrebbero di un tal favore i negligenti al servigio ed i poco meritevoli.[108] Così i soldati, nel popolar la patria, acquistarebbero nuovi stimoli di emulazione al valore, e diverebbero le legioni altrettante città spartane, cioè scuole di virtù, d’intrepidezza e di eroismo.

Se il mio regnante è vincitore de’ suoi nemici, se possiede provincie vaste e spopolate,[109] perchè non accordar terreni alle stesse legioni?

Qual utile non sarebbe, in fatti, se in ogni distretto ove restar deve inquartierata una legione durante il tempo di pace, se le desse una quantità di terreno? Passando le legioni da un distretto all’altro, uguali essendo in numero, troverebbero allora in tutti i numeri de’ presidj la medesima quantità de’ terreni, sebben variati, sempre spettanti al sovrano, la coltura esser dovrebbe confidata alle spose de’ soldati e le rendite regolate dal Consiglio legionario, che le impiegherebbe a gratificarne i maritati ed in parte al mantenimento delle numerose figliolanze, che vieppiù si moltiplicherebbero, giacchè tutti quei mezzi che possono stimolare i pacifici cittadini alla popolazione non dovranno dimenticarsi nelle legioni, che darebbero messi copiose di valenti guerrieri e di sudditi intieramente sommessi.

XLII. Educazion militare.

Felice gioventù, prole fortunata di eroi sì cari alla patria, qual non fornisci vastissimo campo di sublimi speculazioni ad un vero ragionatore, per formar uomini intrepidi ed invincibili! Priva del funesto diritto di proprietà, la cui nozione produce ne’ cuori nascenti mille variate inclinazioni che, vicendevolmente urtandosi, scuotono i germi della virtù, di che non saresti mai capace se, diretta da qualche profondo conoscitore dei segreti recinti del cuore umano, le tue passioni venissero di buon’ora dirette verso quella incantatrice armonia che meglio compiaceromi chiamare pubblica felicità!


Sarà forse difficile il formar di queste figliuolanze uomini magnanimi e forti, ben diversi da quegli esseri communi a cui la virtù sembra uno strano linguaggio? No certamente, giacchè non lo fu a tutti quei legislatori che per riformar i costumi delle nazioni cominciarono dall’educazione, che supplì per diverse società al difetto di provide leggi. Vediamo per tanto qual sia il genere di educazione che possa loro meglio convenire.


Nati simili pargoletti, si espongan tosto all’aere, acciochè provin di buon’ora le più forti impressioni di questo fluido attivo. Non sieno suffocati gli elastici calori,[110] giacchè i soliti inviluppi impediscono la salutare circolazione del sangue e servon d’ostacolo all’estendersi e fortificarsi delle tenere membra. Allatati per alcuni mesi dalle lor madri,[111] vanno accostumati dalla più tenera infanzia a nuotare ed a soffrir tutte le intemperie de’ tempi ed il rigor delle stagioni, a guisa de’ Germani di cui parla Tacito e di altri popoli settentrionali, involti nella neve, immersi ne’ fiumi ed acque freddissime,[112] corricati sul ghiaccio ed esposti ad altri disaggj che induriscono i corpi e che forti ed atti li rendono ad ogni fatica; si avvezzino dall’infanzia a sofrire, giacchè l’idea del dolore s’indebolisce nella nostra imaginazione a forza di divenirci sempre più famigliare; si multiplichino dunque in essi loro le sensazioni di dolore, ma gradatamente nè mai per castigo.[113] Accostumati a penosi esercizj, sarebbero un giorno capaci di affrontare gli orridi precipizj, di varcar senza tema i fiumi i più rapidi e di vincere con una fredda indifferenza gli altri elementi che tante volte si sottomisero a chi ne seppe sprezzare il pericolo. Si presentino pure ad affettare i lor sensi gli oggetti i più spaventevoli ed i romori più terribili.

Studinsi da chi li governa gli stimoli delle nascenti passioni, vadasi in traccia delle loro differenti inclinazioni, non si guidin col timore che li avvilisce ed insensibili li rende all’onore, ma per mezzo dei sentimenti. E facciasi delle loro occupazioni e doveri un soggetto di giuochi e di piaceri.[114] Il maggior castigo di un’azion malfatta sii la stessa azione e la privazion degli altrui suffragj. Ma che dico azion mal fatta, ne saranno forse capaci questi Emilj e veri figli della natura?

Sebben di tali alunni formar se ne deggian guerrieri, pure, se si arrivano a scoprire fra di loro alcuni precozj talenti ed ingegni sublimi, perchè non applicarli alle scienze? Non intendo già di spedire questi sorprendenti sforzi della natura a’ pubblici studj, ove non s’insegnano che scienze scolastiche, imaginarie e puerili, piene di questioni cavillose e ridicole,[115] che tuttavia si risentono dei tempi ferrei e ruginosi, in un secolo di luce, aurora della verità; ma di confidarli alla cura di precettori veramente dotti ed animati dallo spirito filosofico, che sappiano, dissipando la noja, eccitar fra di loro quella emulazione che non si risenta di pedantismo. Ma di bel nuovo il ridico, che non vanno elevati nelle scienze se non gl’ingegni straordinarj che prometton progressi sublimi.

Per meglio destar ne’ cuori di questi giovani sentimenti magnanimi, vanno di buon’ora accostumati a cantar le gesta gloriose de’ legionarj lor genitori, a dettestar gli esempj di timore e di vizio ed a esaltar quelli di valore e d’intrepidezza. I sensi di affetto e di riconoscenza verso il lor sovrano siano le prime affezioni, e le altre consistano in tutte quelle virtù che formar possono un guerriero invincibile, virtù che meritano la principal stima di questi figlj di Marte. Affinchè le lor menti siano pure, i loro corpi agili, sani e robusti, si rinovino le saggie istituzioni di Licurgo, facciansi finti combattimenti ove le vaghe figlie legionarie sieno presenti, per empier di onta chi si lascia vincer da vile e per render ebrj i vincitori di gioja e di emulazione.

Le giostre, i tornei, il tirare a segno ed alcune militari voluzioni ne sian i principali divertimenti. Impari ognuno a suo grado a sonar qualche stromento, ma non sia la lor musica di quel genere che troppo intenerisce, ma che rilleva il coraggio e l’entusiasmo alla gloria.[116] Per animarli vieppiù a questi utili divertimenti, stabiliscansi premj che non sian venali, ma che lusinghin piuttosto l’amor proprio e le innocenti passioni. Impari ciascuno qualch’arte o mestiero confacente a diversi giornalieri bisogni delle legioni, e persin gli elementi della agricoltura. Accostumati a viver sobrj e frugali, imparino a vincer tal volta gli ostacoli i più forti della natura. Cresciuta una tal figliuolanza, divenuta capace di portar le armi, s’invii alle legioni a dar prove del più raro coraggio, e che nel premiarla allora si ricorra all’onore. La più vaga fra le figlie della legione accordata al più forte, al più valoroso, produrebbe gli stessi effetti che un metodo sì sublime seppe destare ne’ virtuosi Sanniti.[117] Sciolti da certe abjette istituzioni che avviliscono gli uomini communi, uguaglierete, veri figlj di Marte, in magnanimità i Tebani, i Lacedemoni, i Romani ed i popoli i più rinomati della terra, e sarete nello stesso tempo come que’ uomini innocenti della bella età dell’oro di cui parla Ovidio,[118] che osservavan i dettami della giustizia senza esser costretti dalla forza, tempo in cui non v’era pena, timore, leggi scolpite sui bronzi, nè rei sventurati che tremassero al cospetto de’ giudici.

Felice gioventù, nuovamente il ridico, ma più felice il sovrano che vi comanda e che ne possiede i cuori riconoscenti, qual nemico vi potrà combattere senza esser vinto, qual nazione provocarvi a sdegno senza sentire che siete invincibili?

XLIII. Religione. Vano stimolo di valore.

Chi potrà mai spiegare il giusto grado di calore che sa ispirare il fanatismo ne’ cuori superstiziosi? Chi potrà descrivere il furore con cui le persone agitate dalle opinioni religiose fanno versare il sangue de’ loro fratelli, chi potrà in fine numerare le vittorie e le conquiste dei popoli animati dal zelo di far proseliti e di empier le più vaste provincie del suono di un Dio e di una legge che tal volta non conoscono? La passione, a simili mortali in vertigine, tenendo luogo di disciplina, di tattica e di direzione, li portò in ogni tempo ad operar cose sì sorprendenti che appena osano esser credute da quelle anime che sempre son tranquille e pacifiche. E qual meraviglia che gli uomini i più fanatici siano i più coraggiosi, se, perdendo la vita contro de’ miscredenti, le loro anime purificate le credono salire senza ostacolo alle celesti beatitudini, ove godono maggiore o minor gloria in proporzione del sangue che pria avran versato de’ loro nemici, dei delitti che avran commessi o delle prove che avran date di crudeltà e dell’oltraggiata natura? Creduta la morte la maggior ricompensa e la più desiderevole, quasi inutili le ricchezze ed i premj, simili soldatesche urteranno intrepide il nemico e saranno invincibili senza essere troppo gravose all’erario di chi le comanda. Al lor valore cedono i monti scoscesi, si asciugano i fiumi ed i mari, tutto cede di fronte ad uomini per cui la morte è un ben supremo, e chi, senza essere agitato da uguali passioni, osa combatterle, preda diviene della lor ira, della loro vendetta. Ditelo, voi ambiziosi, che con nuove credenze fondaste imperj, voi che saliste sui troni ad onta della fedeltà giurata a’ legitimi principi, dite se, senza impadronirvi delle coscienze di chi vi seguiva, se senza animarli al fanatismo, sareste arrivati a formar simili colossi di potenza oppure a roversciare le fondamentali costituzioni delle vostre patrie?

Poter sorprendente di un religioso fanatismo! Se alcune volte alberasti lo stendardo della tirannide, se ajutasti usurpatori a fabbricar catene a molti popoli avviliti, quante altre fiate non fosti il sostegno dell’oppressa innocenza e quante quello della libertà delle nazioni! Parlino gli eroj dell’Elvezia e delle Unite Provincie, che accesi del nobile desio, quelli di mantener lontana la tirannia che avevan già atterrata, questi di abbatterla e di stabilire i più felici governi, lo intrapresero sotto gli auspicj della stessa fede. Sebbene uomini illuminati, e talvolta indifferenti per l’una o l’altra credenza, pur sapendo quanto sia forte il valor di chi si prefigge una religione che si persuade sol grata all’Esser Supremo, con qual abilità non se ne servirono per accender le passioni di que’ popoli, per renderli vieppiù arditi ed impetuosi, se avevan da resister alle soldatesche appassionate che li attacavano, da superarne il numero e la vetusta disciplina e vincerne il noto valore?


I greci condottieri di eserciti, gente a cui era noto il poter delle passioni, ben sapevan essere la religione un forte stimolo per le guerriere intraprese. Quindi, sebben uomini insigni in sapere ed occulti adoratori della DIVINITÀ, pur fingendo di consultar le vittime, di creder ai voli degli uccelli e ad altre simili ridicole cose, mostravan di farne un gran caso per saper i decreti del cielo adirato o favorevole; modo con cui seducevano i cittadini nelle politiche intraprese[119] e le milizie nelle guerre, che, credendo sicura la vittoria, urtavan senza tema le squadre ostili. Estasi, apparizioni, finte rivelazioni,[120] tutto facevano per aumentar l’impeto del marzial furore de’ popoli.

Più abili in questa grand’arte i Romani, che non fecero i lor capitani per far credere a’ cittadini ed alle soldatesche simili menzogne, sì per renderli ubbidienti alle leggi che pronti alle guerre? Questi fingevan aver cerve quali messaggeri delle tutelari divinità,[121] alcuni indovine,[122] altri supponevan comandi e rivelazioni. Il volo degli uccelli,[123] il loro appetito favorevole suppliva tal volta agli altri stimoli di valore,[124] le decisioni degli auruspicj indicavan conflitti e molte altre risoluzioni nella repubblica, acciochè, resi tranquilli gli animi delle soldatesche credendosi particolarmente favoriti dai numi immortali, con fiducia marciassero ad azzuffare il nemico, che ceder doveva agli sforzi di uomini troppo appassionati per non dover alla fine trionfar di ogni nazione. Metodo seguito dai primi imperadori che abbracciarono il Vangelo, fra i quali viddesi Costantino ugualmente burlandosi degli uomini e di Dio col finger essergli comparsa una croce, ed altri ridicoli miracoli infiammar le di lui superstiziose milizie.

Dovrà forse il vero despota seguirne le traccie per formare un popolo furibondo ed intrepido? Inoridisca al pensarlo il leggitore; se utile esser poteva il fanatismo in que’ secoli, giacchè tutte le nazioni essendone agitate, chi più sapeva stimolarlo era vincitore, di quante vergognose sconfitte non fu la cagione?[125] Ma ora che, cessate le persecuzioni, rischiarite le menti, le massime di umanità hanno ripreso l’impero ne’ cuori, svanisca la barbara superstizione, passione abbominevole e sanguinaria che, se rese vittoriosi molti sovrani, altri ne fece vacillar sui troni, dei quali pur troppo arbitri ne divenivano gli usurpatori dei secreti delle altrui coscienze, che affascinando lo sguardo ad un popolo ignaro, rendendolo idolatro ed imbecille, infranger gli facevano le più sacre leggi per porlo sotto un giogo assai più insoportabile di quello degli antichi Druidi e Sennoni, per saziar l’avidità delle ricchezze e del comando. Parlo di quell’ORDINE in specie che seppe rendersi sì terribile a’ monarchi, che in men di un secolo ammassò più dovizie di quelle che trovar si possono in tutti i tesori dell’Europa, che insegnò le vie le più secrete e più metodiche di processare, distronare ed uccider sovrani,[126] che sparse sopra la terra il più mortifero veleno con dottrine scandalose, empie e piene di quegli errori che fermentano il fanatismo e che producono ribellioni, rovine e delitti. Così, lungi, o vero despota, dal vostro impero, cogl’impostori che la eccitano, la superstizione; libere sieno le coscienze dei vostri guerrieri,[127] giacchè il corraggio che suol destare quella passione sempre svanisce col fosco incantesimo che lo produce. Augusta tolleranza, perchè non ti rendi signora de’ cuori degli uomini, affinche più non si odino a cagion di certe differenze sottili, oscure ed incomprensibili, mentre non esistono se non nella imaginazione riscaldata dal calaginoso fanatismo?[128] Avranno forse d’uopo i miei invitti guerrieri di essere animati dal falso zelo della religione per divenir valorosi, essi che verranno stimolati dai premj e dai sentimenti e dal bell’entusiasmo della gloria?

XLIV. Marina.

Parlando nella prima parte del trasporto, terzo punto del commercio, ne feci l’eloggio e ne dimostrai la necessità. Se ora devo investigare i mezzi di renderla valente, formidabile e capace di proteggere il proprio commercio, nuovamente dirò che bisogna eccitar le passioni di chi si dedica ad una sì penosa carriera. L’onore, le distinzioni, i mezzi di arrichirsi col bottino delle navi ostili[129] saranno i più efficaci per aver una flotta possente; una continua cura per animarli al travaglio, premj distribuiti al scioglimento delle diverse questioni, corse frequenti, un gran numero di vascelli mantenuti anche nel tempo di pace, le belle azioni lodate e ricompensate, gli avanzamenti concessi al sol merito ed il comando alla scienza ed alla capacità produranno i medesimi effetti che nelle truppe di terra, cioè di rendere una marina invincibile, senza di cui rinunciar converrebbe al commercio maritimo, che tanto arricchisce le nazioni che vi si dedicano, al possesso delle isole, penisole, colonie e provincie lontane dal proprio continente.

L’amiralità che presieder deve alle di lei spedizioni sia un aggregato d’uomini i più illustri; non siedano in tal Consiglio se non quelli che fecero stupir le genti per il loro valore e virtù. Siano anch’essi esatti calcolatori delle passioni e dei meriti, affinchè, conoscendo l’abilità dei diversi oggetti, le varie inclinazioni di chi ubbidisce, sappiano colla via dell’educazione e dei sentimenti come diriggerli all’ingrandimento della nazione.

XLV. Saggio sulla direzion delle guerre.

Sarò forse ardito a segno di dare un sistema con cui far si debba la guerra? Non supponga il leggitore in me tanta audacia; se il mio soggetto richiede che ne parli e che conduca il mio eroe in fronte al nemico, seguirà le massime e le traccie dei più esperti capitani di ogni età. Gli serviran di guida nell’aspro cammin della gloria.

Giacchè coll’esercito anche il più invitto varj son gli avvenimenti nelle guerre, scacci pure da sè l’orgoglio ne’ felici successi[130] ed abbatter non si lasci dalle triste vicende. Conoscendo ogni dovero di capitano e di regnante, con bontà e senza ritardo ascolti gli avvisi di ognuno. Sempre attivo e vigilante,[131] sappia che le di lui veglie assicuran agli altri il sonno,[132] il di lui travaglio l’altrui riposo, le di lui cure gli altrui piaceri, e che la di lui applicazione in fìne loro permette di pensar a far ciò che devono.[133] Lungi da sè sbandisca la gelosia,[134] nè osi toglier ad altri la gloria delle lodevoli azioni.[135] Domator delle proprie passioni, conosca quanto può esser funesto lo sfogo delle medesime in un sovrano. Si rappresenti all’imaginazione, per vincerne gl’impeti, le rivoluzioni che due volte cangiarono in Roma le costituzioni del governo. Fitte le restin nel cuore le dolorose memorie della rovina e dello ristabilimento della monarchia spagnuola[136] e la confusione in fine di tanti monarchi precipitati dal trono per aver attentato all’onore o alla vita de’ proprj sudditi. Coll’imitar i celebri esempj di Alessandro e dei più virtuosi capitani di Sparta e di Roma, che vollero piuttosto resister alle lusinghe incantatrici del proprio piacere che di esporsi alle più dure vicissitudini, inalzi il di lui nome glorioso e degno lo renda di esser celebrato da’ posteri ammiratori delle vere virtù.

Abborrendo gli adulatori, ami la verità e la schietezza. Con qual facilità in vero non si governerebbero i più vasti imperi ed i più numerosi eserciti se tali nemici del pubblico bene si scacciassero dal sen del proprio stato, acciochè, ricoverati ed accolti dal nemico, corrompessero i costumi e la virtù! Quanto facili non sarebbero allor le vittorie?

Se verrà obbligato il mio regnante ad aver più eserciti, non ne confidi il comando a vecchj indolenti troppo ebrj de’ proprj meriti, nè a giovani temerarj che aman la falsa gloria, ma ad uomini noti per la loro virtù, saggi nel preveder i disegni del nemico ed insensibili all’attrattiva dell’oro che seduce.[137] Si allontanino dal comando coloro che celando le belle azioni de’ subordinati studiano di scemarne il coraggio e che colle loro durezze e maniere insupportabili fanno odiar a chi la segue la nobile carriera delle armi, che viene allora abbandonata dalle anime le più generose, le quali non vogliono esser guidate se non colla via onorata dei sentimenti.[138] Attivi ed appassionati, i generali del mio eroe, giacchè le passioni e l’attività[139] nelle intraprese servono di scienza, inimici del lusso, odiando la superfluità degli equipaggj, non si distinguano che in armi e cavalli eccellenti, utili nelle azioni. Esiggasi in fine da loro una perfetta cognizione dei costumi, sistemi, disciplina, tattica, forze, mezzi e situazioni de’ paesi nemici, ma assai più del carattere, de’ vizj e delle virtù del sovrano, dei ministri e di tutti quei comandanti contro i quali diriger devono le azioni loro guerriere; cognizioni sublimi, in vero, giacchè senza esse tentar non si possono grandi intraprese. Ma a che serve parlar della qualità de’ generali del mio despota in un secolo ove vi sono tanti illustri capitani da immitare? E mancheranno forse in un esercito di uomini sì appassionati veri eroi?

Sebben sieno vostri nemici gli infrattori dei trattati, non attenetevi per questo alla sola difesa, essendo le guerre offensive assai meno dispendiose delle difensive. In fatti, mantenendo le proprie terre illese dalle incursioni, con facilità si possono riparare le perdite. Chi difende, se non perde non si fa grande avvantaggio, laddove chi offende, facendo viver le sue truppe ne’ paesi nimici, toglie a’ medesimi il modo di sussistere. Cesare diceva che coll’attaccare s’ispira coraggio nelle proprie soldatesche. Si sconcertano così i disegni del nemico, che credendovi superiore cede a’ vostri sforzi. Celeri sieno però le irruzioni nelle provincie ostili, giacchè non riescono se non in ragione dell’impeto con cui si eseguiscono;[140] e se inoltrato si trova co’ di lui eserciti il mio regnante nelle estere regioni, frequenti sieno le azioni di strepito e di gloria, mezzo sicuro per mantenervisi, per rinovar incessantemente la speme negli alleati e l’ardire nelle proprie schiere.

Non si accinga senza ragione a dar battaglie se non allora che la sicurezza di vincer lo invita.[141] Non aspetti il nimico nelle trinciere, che, superate in qualche parte, metterebbero in dirotta le sue legioni, ma sorta pure, e doppo un breve fuoco faccia urtar le schiere nemiche dalle sue truppe sì ben armate e difese.[142] Non regoli l’ordine di battaglia con quel del nemico, ma secondo le proprietà del terreno, affin di situar ogni truppa in modo che ritirar se ne possa la maggior utilità, e distribuiti i cacciatori nelle linee, loro si comandi di sconvolgere il nemico coll’uccider i suoi condottieri.

Se marcia per sorprendere, scelga le ore le più convenienti, lasci nel abbandonato accampamento i soldati i meno esperti, soltanto per mantenere i fuochi delle compagnie e dar i segni accostumati, come fece il maresciallo conte di Daun, quando si accinse alla sorpresa di Hockirken, sorpresa che finita avrebbe la guerra se ogni ordine supremo fosse stato eseguito. Cingasi pria l’esercito di soldati affidati, affinchè i disertori non avvisino il nemico dei vostri disegni, come si fece in quell’occasione con un cordone di Croati. Ma a che tali precauzioni in un esercito di uomini invitti e generosi? Esisterà forse un’anima sì abjetta capace di abbandonare gli stendardi?

Sia cauto nel marciare, nè si faccia da’ suoi soldati alcun cammino se coperti non son gli andamenti e conosciute le diverse situazioni, come fu il costume del gran Zenofonte, per non cader, come il generale Finck a Maxen, in lacci che lo copran di obbrobrio e di rossore.

XLVI. Stratagemi.

Vincer volevano i Romani ne’ primi secoli da forti e magnanimi; lungi di usare le greche e puniche finte, isdegnavan la vittoria se dovuta non era al valore. Ristituivan a’ Fallischi il lor maestro, Pirro avvisavano di guardarsi dal medico traditore. O virtù, o eroismo! Che dovrà fare il mio regnante in tali cimenti? Glielo insegna natura.

Supplisce questa madre commune nel pacifico castore con una industria studiosa per difenderlo dalle belve più forti. Co’ suoi raggiri la lepre si schermisce da’ cani, si uniscono in greggi i giumenti ed altri animali per congiunger le lor forze contro il nemico.

Benché ben armato, il formicalione pur delinea molti solchi circolari, e gettando colle sue corna la sabbia sull’orlo per indietro camminando in linea spirale, forma concavi profundi e così rintannato al secco sa tender insidie. Guai a quell’insetto che passa sull’orlo di un tal precipizio: s’è debole, tosto rotolando sen cade fra gli artiglj, e s’è agile, contro di lui scarica il nostro cacciatore una tal quantità di grani sabbiosi che precipitar lo fa nella sua tanna.

La pina marina per non esser divorata dal polipo a otto gambe allogia nella di lei conchiglia un picciol granchio nudo, che avendo ochj vivaci scorre cercando il vitto, e se vede il nemico grida per avvertir l’amico, che si rinchiude.

L’emerobo, viver dovendo fra pesci suoi crudeli nemici, cuopre il suo corpo d’atomi sabbiosi e di foglie che ingannano la lor voracità. Si nascondono le picciole cicale sotto la propria schiuma. Il cimice di grugno acuto, per meglio contrafarsi, cammina ora in un modo ora in un altro, ed a forza di fingere, di un bel insetto che era, divien più turpe del ragno.

Alcuni animali son celeri nella fuga, altri han la cura di rintannarsi con arte. Tutti hanno i lor stratagemi, tutti han finte o per difendersi da’ più forti o per sorprender i più deboli.

Con ciò vo’ dimostare che, detestando la vera perfidia e la frode,[143] per questo mancar non deve un duce di supplir coll’arte ove manca la forza.[144] Metta pure a profitto non solo il terreno, ma l’acqua, l’aere, il fuoco ed i disaggj delle stagioni, ad immitazion de’ più valenti capitani.[145] Casaubone, volendo far l’eloggio del grande Enrico IV re di Francia, non manca di lodar l’abilità di quel monarca nelle belliche vicende, ove sapeva far combattere in di lui favore il sole, il vento e la polve.

Ben dirette le finanze, doni a larga mano a chi lo avvisa delle intraprese del nemico, compri se può la vittoria col denaro, ma giammai questo colla vittoria. Tali persone siano tenute secrete, non conoscan questi gli altri; e se mai si accorge di aver nel proprio esercito qualche scopritore delle sue mire pagato dal nemico, ne celi l’arcano, ma lo metta a profitto nel farli pervenire quelle nuove che possano ingannare l’inimico e renderlo incauto nelle di lui intraprese. Misterioso ne’ suoi progetti, attivo nell’eseguirli, possieda così il gran secreto di vincere. L’oro non si risparmi nell’espugnar le fortezze, nel corromper l’avversario o nel procurarsi qualunque soccorso.[146] Nel riconoscere il terreno, guardisi di espor con temerità una vita sì preziosa alla conservazione dell’esercito; errori funesti, che pur troppo costaron doglie e pianti, e che ingolfar possono le nazioni in un pelago di guai e di sciagure.

XLVII. Umanità e prudenza.

È incontrastabile che il primo dover di un capitano consiste nel non cimentar senza ragione le vite de’ cittadini, assai più care dell’eccidio de’ nemici. Perchè ricercar dunque quelle vittorie che posson costare il sangue ad un numero troppo grande de’ proprj guerrieri? Rallegransi con Pirro i cortigiani per aver egli vinto i Romani in una azione con gran strage però de’ proprj soldati, ma egli se ne duole, nè giojoso si mostra pel suo trionfo. È importante di aver sempre unite le proprie truppe e, se le circostanze esiggono di aver molti corpi, di non lasciarne veruno privo di communicazione e soccorso, affinchè sappia ogni combattente di esser sostenuto; metodo per scoraggire il nemico e per empier di ardire le nostre milizie. Se riesce dunque al mio sovrano di vincere, non si lasci trasportare da certi impeti troppo generosi nell’inseguire. Ricordisi delle molte battaglie ove, dividendosi i vincitori, diedero tempo a’ vinti di ravvedersi e, riprendendo coraggio, riattaccarlo e sconfiggerlo.[147] Se permette il saccheggio di qualche ribelle città a’ soldati, o di qualche campo nemico, mantenga la metà del suo esercito sotto le armi e nella più esatta disciplina, affinchè sorprese non vengano le proprie soldatesche, ed abbia la cura che ognun de’ combattenti profitti delle spoglie de’ vinti, coll’impedir che le altre genti non si arricchiscano de’ frutti dei sudori e del sangue di chi si procurò tali vantaggi col valore e coll’intrepidezza. Non si fidi della fede del nemico, ma mantenga dal suo canto i trattati che seco lui conchiude anche ne’ tempi di guerra. Non abbandoni l’osservazion della fede che avrà data ad una città alla licenza di un esercito vittorioso, ma col rigor delle più provide leggi e della più esatta disciplina prenda ogni precauzione affinchè agli abitanti d’una città che si è resa non arrivi alcun mallore. Se occupa piazze o provincie ostili, non ne aggravi i popoli con soverchie imposte, che mover li possono, per sostrarsi ad un giogo penoso, a ricorrer a quelle armi che loro somministra il furore, immolando i vincitori sull’altar sempre crudele di un’aspra vendetta. Per conservarli tranquilli ne’ tempi tumultuosi delle guerre, ne sia la dolcezza e l’umanità l’unico sostegno, mentre nell’acquistar i cuori coll’attrattiva della beneficenza fra le stesse nazioni nemiche farà ammiratori delle sue virtù. Testimonj i trionfi di Corbulone e le vaste provincie che con tanta facilità ricevon le leggi della Gran Catterina, che colla via della clemenza forma sopra i cuori de’ nuovi popoli un altro genere di conquista, assai più stabile e sicura di quella che le posson procurare le sue valorose ed invitte milizie.

Se per formare qualche grande intrapresa o per soccorrere i suoi popoli minacciati da qualche isventura o dalle incursioni del nemico d’uopo avrà di passare per qualche estera provincia neutrale, ne avverta il sovrano, ed un illecito rifiuto non rallenti il suo ardore,[148] ma, osservando nel passaggio il sacro diritto delle genti, non offendendo la libertà delle nazioni, corra pur veloce ove Marte gli prepara i più gloriosi trionfi, oppur ove l’umanità da lui implora soccorso, prevenga i tradimenti de’ suoi proprj guerrieri ed alleati con una amorevolezza sempre benefica,[149] che fa riveder i cuori i più incalliti nelle colpe e gli animi i più insensibili; e se già commessi furono tali enormi delitti, si puniscan sempre in proporzion del danno che arrecarono allo stato. Accolga con bontà chi, deposte le armi, ricorre alla sua clemenza. Non contamini doppo la vittoria la gloria sua coll’imbrattare il braccio di sangue, come crudelmente fece Jeftè con un sacrificio inumano giustificato dagli ordini segreti del DIO DI CLEMENZA, ordini che con molt’altri di simil tempra ci fan sospettare la voce di chi parlò e la penna di chi scrisse, ordini de’ quali i dotti nella mitologia ne conoscono la vera sorgente. Non privi della raccolta gli afflitti agricoltori, se non vuol che il proprio esercito manchi del bisognevole, e non avendo per nemici se non chi porta armi contro di lui, protegga i pacifici cittadini. Le leggi ed i diritti della guerra, dice Polibio,[150] esiggono di prender al nemico munizioni, porti, vascelli, frutti ed altre simili cose che posson diminuir le di lui forze ed aumentarne le nostre; ma il distrugger ciò che non può esser utile nè a noi nè al nemico, il rovinar i tempj, le statue ed altri simili ornamenti, chi potrà contradire esser l’opera di un uomo scostumato e privo di ragione, o reso forsennato dalla colera o da una eccessiva vendetta? Perchè dunque attentar a’ monumenti degli eroi e degli uomini insigni, e andar in traccia di quei rimproveri che facevan gli ambasciadori di Rodi a Demetrio?[151] Formando conquiste, dovrà forse desiderar un regnante di posseder rovine? Pieno di umanità anche fra gli orrori delle guerre, sia pur la clemenza nel mio eroe più forte delle armi; giacchè quella sublime virtù seppe sottommetter a’ Romani maggior numero di popoli che il sangue e le rapine, che l’esperienza ed il valore, che l’intrepidezza in fine ed il fuoco cocente delle più nobili, più fervide passioni.

XLVIII. Pace.

Punto geloso del titolo vano sebben lusinghiero di conquistatore, disprezzator di quegli allori che colgonsi fra i pianti delle desolate famiglie, i campi irrigati del sangue umano, quantunque terribile il mio eroe alle schiere ostili colla scorta dei più magnanimi guerrieri, se abbatte l’orgoglio ad un superbo aggressore, pronto accoglie un invito di pace, nè mai isdegna un trattato, quand’anche, doppo di aver scorso di vittoria in vittoria le altrui vaste provincie, si vede sicuro di domar colla forza delle armi un nemico avvilito e pieghevole. Preferisce al piacer di vincere ed alle palme tumultuose di Marte il vedere i laboriosi agricoltori arricchirsi tranquilli dei frutti copiosi delle loro fatiche, render opulento colla sua industria l’attivo negoziante, lo stato e popolarsi le provincie non più intimorite dai bellici rumori di liberi cittadini i più prosperosi e felici. Presenti alla memoria gli esempj di ogni nazione, sa che non hanno i favori della fortuna nulla di solido, di permanente. Diffidandosi delle maggiori prosperità, conosce che un sol momento basta ad umiliare un vincitore e che gli imperi che parvero a’ mortali acciecati i più formidabili furono debellati con una celerità che sorprende soltanto chi, ammirator della apparente grandezza, non analizza i complicati ordigni delle umane sventure.

Diasi alla storia una rapida occhiata, vedasi il Lidio superbo perdere un soglio che credeva il più stabile; osservisi l’impero opulente fondato da Ciro, se forma un gran contrasto al valoroso Macedone che lo distrugge; si esamini se quello di Macedonia stabilito con tante vittorie costò gran fatica al Romano condottiero che lo sottomise; se il famoso Mitridate che tante fiate trionfò dei Romani, pottè longa pezza resistere al gran Pompeo; se questo capitano creduto invincibile doppo tanti allori, sebben di truppe avesse un numero assai superiore, da Cesare non vien sconfitto e fugato. Vedasi il destino dell’infelice Bajazet e di tanti altri illustri sovrani e vincitori, e conchiudasi indi se son costanti le prosperità della sorte e se preferir può un vincitore ad un trattato avvantaggioso l’intiera rovina del nemico, a cui la stessa disperazione fermentando le passioni, può talvolta suggerir quegli spedienti che ad altri concede il valore e l’esperienza.

O fatal incostanza della fortuna, quanto instabili i tuoi favori! Già ti provarono tanti audaci guerrieri che, credendosi sicuri d’inghiottire quasi tutte le genti, ne divennero in vece l’onta ed il trastullo. Ditelo voi, o mani onorate dell’intrepido Svedese, se doppo aver sforzato il Danese alla pace, ristabilito ne’ suoi diritti il duca di Holstein, fatto scender dal trono di Polonia il bravo Sassone ed a quello inalzato il buon Stanislao, se doppo di aver umiliato il Germano impero, sconfitti in ogni incontro i Russi, fatto tremar tutta l’Europa, avesti perfine del czar e degli altri regnanti accolte benignamente le proposizioni, non saresti divenuto il più ricco ed il più possente de’ sovrani europei, l’arbitro de’ medesimi ed il domator d’ogni nazione, evitata così la dolorosa sconfitta di Pultavia, la schiavitù fra gli Ottomani, tant’onta e tante pene, il tuo nome ognor più glorioso scancellato forse non avrebbe la fama immortale degli Alessandri o dei Cesari?

Assai più delle conquiste, nell’accordar la pace al nemico avrà riguardo il mio principe al soglievo delle estere genti ed a’ gemiti dell’umanità che lo implora. Qual lusinghiero trattato, se all’esempio del gran Gelone può abolir qualche legge barbara ed ingiusta, liberar qualche nazione dalla crudeltà di un tiranno, metter limiti alla licenza di un mal composto governo o colmare in altri modi di beneficj popoli che, sebben soggetti ad altri governi, sommessi però i loro cuori riconoscenti alla sua clemenza, a lui fanno acquistar sopra di essi un vero e legitimo dispostismo fondato sopra la virtù?

XLIX. Conquiste.

Siccome non fu il solo terror delle armi che rese il vero desposta vincitor de’ suoi nemici e che aggiunse al suo impero nuovi dominj, ma la clemenza debellatrice di ogni forza, sii pur quella la conservatrice delle conquiste.[152] Perdonabile allor diviene l’ambizione in un regnante di sottommetter altri popoli alle proprie leggi, quando, a guisa di Ciro, delle genti schiave desia di farne uomini liberi e quando, nato per la felicità dell’umano genere, nemico alle catene con cui vengono avvincolate le estere nazioni, si propone come quel gran conquistatore di divenirne il padre commune e di trovar nell’amor dei medesimi quel solo genere di vera voluttà che render può formidabile e felice un sovrano.

E non fu forse alla clemenza verso de’ vinti che dovette la repubblica romana il suo ingrandimento? Non esigendo che tenui tributi ed un lieve soccorso ne’ tempi calamitosi delle guerre, loro lasciando le patrie leggi e magistrati, mandandovi colonie e trasportando parte di quei cittadini ad accrescer il numero dei vincitori, qual zelo non ispiravano a questi per difender la nuova patria e qual fedeltà agli altri per un sì benefico governo? E chi può stupirsi leggendo quelle storie nell’osservar la rapidità delle conquiste di quel popolo invitto, nel veder le cure dei capitani vincitori, che pria di trionfare occupavansi della felicità delle nazioni che avean sottomesse colle armi. Si ammirano fra gli altri un Tito Quinzio Flaminio ed un Paolo Emilio, come questo solleva la Macedonia dalle gravose imposte e dalle più barbare leggi a cui veniva assoggettata dalla tirannide del già debellato monarca; e come il primo, facendosi una gloria assai più sensibile nel riformar gli abusi di un popolo da lui reso libero, che nell’aver vinto Filippo scorre le provincie della Grecia, a questi togliendo il giogo di una crudele aristocrazia, ad altri quello del potere arbitrario dei tiranni, con stabilire ovunque volgeva le sue cure generose non un confuso oligarchico potere, ma un dolce e popolare governo calcolato da una vera ed illuminata saviezza.

Modificando in qualche modo un metodo che le complicate teorie dell’odierna politica più non permettono di seguire, qual mezzo più sicuro di conservar le conquiste della clemenza,[153] che in ogni tempo ebbe il potere di raddolcir i costumi degli uomini i più corrotti e render colte le più barbare nazioni? Assicurato colla pace il tranquillo possesso di qualche nuova regione, riformate le cattive leggi che possono servir di ostacolo alla prosperità, nulla si dimentichi per unir gli animi e gli interessi de’ nuovi sudditi con quelli degli abitanti delle possedute provincie, affinchè, provando soglievo da’ già sofferti disaggj, più non formino in avvenire che un sol popolo libero e felice.

Le intrepide milizie, che con esporre le loro vite per la difesa dello stato tanto avran contribuito alle conquiste, non saranno forse a parte di quegli avvantaggi che procurarono al sovrano col loro valore? Riconoscente il mio regnante per i ricevuti servigj, distribuisce a’ più meritevoli le terre del fisco, forma in quelle graziosi stabilimenti per gli invalidi che incapaci appien non son di travaglio e pe’ veterani, dando a ciascuno in proporzione del rango che occupa e delle prove che diè d’intrepidezza. Non più languenti allora nell’indigenza e nell’ozio, trattenuti in certi giorni nell’esercizio, con qual prontezza non correranno simili guerrieri a difender un sovrano che li arrichisce e che di altro non s’occupa che della pubblica felicità!

L. Colonie.

Stabilirono colonie gli Egizj ed i Fenicj, i Greci ed i Romani, e non vi fu popolo sopra la terra che non volesse trasmettere in altri climi il suo nome e la sua gloria colle proprie leggi. Ma che importerebbe al mio soggetto d’indagarne l’origine colle più erudite e le più rimote nozioni?

Altro qui non intendo per colonie se non quel genere di conquiste che i sanguinarj Europei fecero sopra gli attoniti abitanti del nuovo continente. Non parlisi della giustizia di tali intraprese; il zelo di propagare il Vangelo, la decision de’ teologi,[154] l’idea vaga e bizarra di civilizzar popoli daranno forse un diritto incontestabile di sottometter una nazione che non ci ha provocati nè offesi? Non invochino dunque un Dio di pace, non vantinsi di religione e di aver possedute virtù que’ barbari usurpatori che distrussero quelle dei vinti, e che altro scopo non ebbero se non di arricchirsi colle spoglie doviziose di que’ sventurati e di saziar la rapace avidità dell’oro, che arrivò pur troppo ad indurir i cuori viziosi di chi trionfava contro gli stimoli i più dolci ed i più sensibili della benefica natura.

Ed oblierò di parlare della barbarie con cui, per farle valere, si spopolano le contrade dell’Africa di abitanti, ne’ quali il cuore eccellente, i germi di tutte le virtù vengono alterati dai trattamenti i più odiosi che l’avidità del guadagno ispira alla brutalità di chi li sottopone ad una servitù che fa fremer l’umanità, non potendo intenerir sopra il loro stato i legislatori, i quali, mantenendoli in un travaglio più penoso di quello delle belve, isdegnano di annoverarli fra gli uomini?

Ah! potessi io almeno scancellar dalla memoria dei viventi i tristi annali del nuovo continente, che più non si vergognerebbero certe nazioni di aver fra’ loro antecessori avuti mostri assai più inumani degli antropofagi e delle stesse fiere abitatrici dei vasti deserti, fra le quali il desio di sangue, non essendo che il prodotto in una famelica rapacità, alle volte tace almeno al cessar dei bisogni che la produce. Ma siccome ridur non si possono in oblivione i tanti milioni d’innocenti trucidati, sebben supplichevoli implorassero il perdono dei vincitori, le stragi, le rapine con cui segnalarono quei barbari conquistatori le loro gesta valorose, perchè non abolire oggidì l’atroce rigore con cui vengono governate quelle infelici contrade, a cui la tirannide che soffrono ed il piacer di una giusta vendetta possono ancora somministrar la forza ed il coraggio per scuoter un giogo sì orribile? Acciecati dall’avarizia, alcuni governi non vedono le perdite reali della popolazione delle europee nazioni, lo sforzo de’ popoli americani nel vivere assoggetati, la disproporzione del numero di chi ubbedisce a quello di chi comanda, le passioni non già estinte ma suffocate di quelle genti che, conoscendo ormai l’uso delle armi che le soggiogarono, possono tentare tragiche rivoluzioni. Il primo felice avvenimento, la prima vittoria facendo loro conoscere le proprie forze, forse li animerebbero a coprire i mari di flotte numerose, che ardirebbero perfino, se venissero dirette da qualche genio appassionato ed ardito, attaccare il tiranno nelle proprie regioni, portandovi quelle stesse rovine, quelle armi e quelle sciagure che per tanto tempo li mantennero negli orrori della schiavitù.

Per conservar le colonie, qual più seducente attrativa della clemenza! Se ingiusti furono, o vero despota, i vostri antecessori nel privar quei popoli dei privilegi a cui li chiamavano i sacri diritti dell’umanità, nel rilegarne il maggior numero negli orridi antri e nelle oscure caverne a viver fra le belve, richiamati oggidì dalla giustizia, perchè non popolarne i campi inarriditi che fertili renderebbero col loro travaglio, affinchè, così governati con buone leggi, più non formino i veri possessori di quelle terre uno stuolo d’infelici vagabondi, ma bensì un’unione di ubbidienti ed industriosi cittadini? Trasportando parte di quegli abitanti nelle vostre terre di Europa, ivi non spedite la feccia della società nè un aggregato di assassini e di uomini abituati a’ delitti. Distruggendo i monopolj, divengano alla fine le colonie un immenso magazeno, non di estere merci, ma dei prodotti dell’industria laboriosa de’ proprj sudditi.

LI. Conclusione.

Qual poter sarà più assoluto di quello del mio regnante, che, avendo un esercito di uomini appassionati, uno stuolo infinito di sudditi riconoscenti, d’altra politica non si serve che della beneficenza? Sebben con sì terribili guerrieri possa trionfar di ogni possente impero, pur, non facendo la guerra che per opporsi alle altrui ingiuste intraprese, antepone al titolo ambizioso di conquistatore il tenero nome di padre affezionato. Lungi dal lasciarsi prevenire dai funesti pregiudizj di un falso splendore, non prova piacer più lusinghiero del pacifico possesso de’ cuori de’ popoli fedeli. Non lo affanna il timore che il di lui nome celebrato non venga ne’ fasti delle storie, poichè non crede esser accessibile il tempio della gloria soltanto a chi seppe rendersi illustre nei campi di Marte. Sa che la fama ammiratrice dei veri meriti degli eroi seppe pubblicar con maggior entusiasmo i beneficj e le esimie virtù del grande Enrico che le palme e gli allori co’ quali atterrò i suoi superbi ed ingiusti nemici, e che trasmise a’ secoli futuri con superior efficacia i caratteri indelebili di umanità del romano dittatore che le conquiste, le vittorie e le altre sue gesta marziali.

Stupidi adoratori di un onor mal calcolato! Ammirinsi pure dagli animi corrotti i barbari trofei degli Attila, dei Gengis-Kan, dei Tamerlani; sazinsi le vostre imaginazioni col giocondo spettacolo delle stragi e delle rapine con cui empier seppero tutte le regioni, e lasciate a’ filantropi la cura di esaltar le glorie sublimi degli Antonini, dei Marc’Aurelj, vere delizie dell’umano genere, che colla via della beneficenza avvincolando i cuori delle genti, sottoposte le resero all’assoluto potere della virtù, che loro continuò il più sodo dispotismo anche presso de’ posteri. Vantinsi per fine da’ fautori dell’ingiusto le innumerabili vittorie del Macedone, e che, fremendo di orrore per i torrenti copiosi di sangue versati dall’ambizioso uccisor di Clito, pianga meco ogni buon cittadino di gioja e di contento al dir del grande Tito: Amici, perduta abbiam giornata.

Non creda già il leggitore che, esaltando le pacifiche doti dei regnanti, pretenda di offuscar i raggj luminosi della gloria che si acquistarono tanti eroi il brando alla mano, nell’ammirarle non detestando se non quelle palme che riportate furono ad onta dell’umanità che geme, e prive di quelle virtù che sole render le possono care a’ diffensori dei sacri diritti della natura.

Forza sorprendente della virtù! Troverasi sotto l’abitato emisfero un uomo sciagurato a segno di non conoscerne l’incanto? Sola può ergere al colmo delle umane grandezze, sola può fare acquisir ad un principe un assoluto potere e sola lo può mantenere inalterabile contro i fenomeni inopinati e gli inaspettati prodigj della natura. Tranquillo il sovrano che la porta scolpita nel cuore, non teme congiure e rivoluzioni; e se qualche scellerato attenta a’ suoi giorni, abborisce di versarne il sangue, isdegna di saperne i complici e vive in un beato riposo che la virtù sola ispira. Vien detto al buon Trajano che Licinio Sura cospirar voleva contro di lui, ma non lo teme ed a lui sempre più si affida.[155] Si arresta negli appartamenti di un gran principe uno sciagurato che con armi celate corre alle reggie stanze: ma l’incomparabile monarca, lungi di farlo perire fra i più atroci e studiati tormenti, gli perdona, ed isdegnando un odioso esame, lo crede impazzito.[156] Non fece la virtù prosperar le libere genti finchè l’ebbero per scorta, e che i popoli al merito accordaron gli onori ed il comando, ed oppressi dalle più fiere sventure ricader nel sen degli infortuni allorchè richiamati i vizi la lasciarono in abbandono? Despoti rese tutti i monarchi che seder la fecero sul trono e che di beneficj colmarono i popoli assoggettati. Obbligò il gran Zun a dichiarar suo compagno all’impero ed indi successore l’incomparabile Yu. Chi elevò al trono di Svezia il valente Gustavo Vasa? A chi deve in fine la casa di Oldenburgo il poter assoluto se non alla virtù di Federico III, virtù non mai smentita dagli augusti successori che seppero render cara a’ popoli la rinuncia della natural libertà in una famiglia di eroj, di padri della patria? Ombre mai sempre venerate dei Ciri, degli Atali e dei Geloni, fossevi almen permesso il sortir dal centro delle celesti beatitudini per sugellare i miei detti e dire a’ sovrani quanto sia forte l’attrativa della virtù anche sopra i cuori i più corrotti![157]

Ma qual istupore che la virtù abbia innalzato al vero dispotismo chi un diritto incontestabile ha già risposto o almeno avvicinato al soglio, se rese despota in Atene il giusto Aristide, in Tebe Epaminonda, Camillo in Roma; se elevò alla sovranità di Firenze la casa Medici, sovranità fondata dalle esimie doti di Cosimo e di Giovanni suo padre, e se fece più volte offrir dai Gotti la corona a Belisario? O virtù, virtù, essenza divina, lume benefico, dono incomparabile del Cielo pietoso alle umane sventure, fonte di dovizia e d’ogni vero piacere, conservatrice degli stati, tu rendi ogni tuo seguace oggetto di amore e di ammirazione![158] Quanto adorabile non è il tuo giogo, giogo soave, che solo rende appieno felice chi sottomesso non desia altra legge! Perchè non t’insinui nel cuor di ogni principe e non lo animi a governare? Qual felicità non godrebbero i popoli se presieder la fecessero ne’ loro Consiglj, risplender ne’ tribunali ed animar i cuori di coloro che li avvicinano!

Svaniscan dunque i disegni di que’ barbari conturbatori dell’umana felicità che non vantan altro potere per conservare uno stato che il timor delle pene e quella forza che costringe ad ubbidir con orrore. Osservisi piuttosto quanto sia sicura quella della virtù sugli animi sensibili a’ beneficj, che crescendo coll’amore non può esser distrutta dai tempi i più calamitosi e che non paventa i periodi funesti di decadenza a cui sono sottoposti i sanguinarj governi perchè non trovan sostegno che nel braccio sempre armato e pronto a toglier la vita a chi può far resistenza, ove il cuor dell’uomo crudele che governa mover non si lascia dalle altrui angustie, come il bellar dell’agnello non ritiene la mano barbara di colui che lo svena. Governi mostruosi, ove il soglio è sovente intriso del sangue de’ sovrani, ove i cittadini sempre tremanti sono pronti alla ribellione perchè accostumati a non conoscer altra giustizia che la forza, governi in fine ove se il popolo dura fatica a risolversi alla vendetta, se comincia una volta, non finisce poi se non colla morte del tiranno.

 

Avis.

J’ai trouvé dans le premier volume du Mercure de France du mois de juillet l’extrait d’une lettre de Mr. Linguet à Mr. le Marquis Beccaria. J’ai tâché de répondre aux différens articles de sa critique. Comme ces réflexions paroissent analogues à quelques sujets de mon ouvrage, j’ai pensé qu’on ne seroit pas fâché de les trouver à la suite. Elles ont été traduites en François afin que les mêmes lecteurs qui ont vû ses objections, puissent dans la même langue en lire la solution.

Réflexions sur une lettre de Mr. Linguet a Monsieur le Marquis Beccaria

Hanc veniam petimusque damusque vicissim.
Horace, De Arte Poëtica.

Il n’appartient qu’aux philosophes de réclamer la sévérité des peines pour détruire les crimes en punissant les coupables. Ils ne sauroient jamais inspirer aux hommes assez d’horreur pour les délits. C’est, selon moi, le dessein de Mr. Linguet dans sa lettre au célèbre Marquis Beccaria, où il se déclare partisan zélé de la peine de mort contre le sistême de l’auteur des Délits et des peines. Mais comme malgré ses lumières et le louable désir de se rendre utile à la société, il arrive que le sage se trompe entraîné par le feu qu’inspire l’amour du bonheur public, ou victime de quelques préjugés invétérés, d’autant plus respectés, que leur origine se perd dans les ténèbres de l’antiquité; chaque citoyen est dans le devoir indispensable, lorsqu’il croit voir les objets sous leur véritable aspect, de communiquer ses réflexions et ses pensées aux adversaires, afin que du contraste des opinions on voye ressortir la vérité dans son plus grand jour. Je n’ignore pas que je m’adresse à un homme sçavant, à un philosophe. Bien loin donc de craindre les traits envenimés, dont les génies médiocres et les petits esprits se servent pour répondre à des critiques raisonnées, je suis sûr que le moyen d’obtenir son amitié est de réfuter par des raisons solides ses objections contre le Traité des délits et des peines. Trop heureux si mes idées peuvent réveiller dans les lecteurs le doux frémissement que sçut exciter cet immortel ouvrage, et si je puis augmenter le nombre des raisons, avec lesquelles mon illustre concitoyen a fait connoître aux gouvernemens que la peine de mort est non seulement injuste, mais même inutile pour arrêter les désordres qui troublent sans cesse l’harmonie publique.


Si j’empruntois mes raisons des affreux gémissemens d’un grand nombre d’innocens entrainés au supplice, ou des prétendus criminels exécutés pour s’être appropriées quelques pièces d’argent ou quelque meuble de bas prix dans la maison d’un maître avare et hargneux; si je rappellois les cris effrayants et les tourmens insupportables des infortunés, qu’on fait languir sur des rouës, et qui implorent la vengeance céleste sur leurs juges qui semblent à braver; un sistême plus raisonné, des peines moins dures, une mort moins douloureuse, des procédures plus raisonnables et plus promptes, seroient assez pour les détruire et pour me réfuter.

J’entreprendrois bien moins de pallier l’atrocité d’un assassinat. Je frémis en pensant à l’effroi qui saisit soudain un homme qu’on attaque, je me figure sa terreur mortelle, je vois le bras qui le frappe, le sang qui coule, la pâleur qui le couvre, sa chûte, sa mort. Hélas! des biens qu’il croyoit sûrs et qu’on lui ravit, la misère à laquelle on expose ses enfans infortunés, qui élèvent leurs foibles mains, pour implorer le secours d’une mère éplorée qui n’a plus de quoi les nourrir, ayant perdu dans son époux le soutien de sa famille, ce sont là des images effrayantes qui me pénètrent, m’alarment et m’irritent. Le même danger qui pourroit menacer mes amis, mes proches, moi même rend à mes yeux l’agresseur toujours plus haïssable, et mon indignation va jusqu’à lui refuser le droit à la compassion publique. Condition malheureuse des hommes! Dissipons pourtant ce voile qui nous offusque, que les passions se taisent pour entendre les droits de la raison. On ne sauroit assez détester le crime, toutefois les criminels en proie aux tourmens excitent souvent nôtre pitié. Analysons cette espèce de contradiction, et voyons si l’humanité peut, en diminuant l’atrocité des peines, rendre les crimes moins fréquens.

Mr. Linguet est dans le sentiment que le droit de punir de mort les criminels est puisé dans la nature même, que c’est en un mot le droit de sa propre défense. Je connois l’origine, je mesure la force et vois tout l’étendue de ce droit, mais je ne saurois comprendre comment la peine de mort soit le résultat de ce droit. On n’inflige cette peine qu’après un long intervalle de tems, rempli par un nombre infini de procédures mal calculées et d’une confession souvent arrachée de vive force aux malheureux, qui ne sont pas assez robustes pour résister aux tourmens de la torture. Le meurtre qu’on commet pour sa propre défense, suppose nécessairement un danger imminent pour sa propre vie. Or si le crime est déjà commis depuis quelque tems, on ne me prouvera jamais en bonne logique que pour la défense d’un individu déjà privé de vie un gouvernement doive l’ôter à un autre citoyen. C’est, dira-t-on, pour se soustraire à ses attentats ultérieurs qu’il faut le punir? Je l’accorde, pourvû que ce soit sans lui ôter la vie. Car qui peut le craindre désormais? Le mort? Je rappellerois la réponse de Diogène dans sa parabole. Les juges et ses concitoyens? Chargé de chaînes, sans armes et presque sans forces, environné et garrotté par de robustes archers, qui le suivent et l’entrainent, comment seroit-il à craindre? Si donc la peine de mort ne résulte pas du droit de sa propre défense, comment justifier cette peine dans quelques gouvernemens, où le supplice des criminels, bien loin d’être l’effet immédiat d’un danger présent et inévitable, n’est que le simple résultat d’un sistême réfléchi, d’un examen trop long et trop raisonné de juges quelquefois peu éclairés, et souvent mal informés, toujours infligée avec des formalités et un appareil qui exigent du tems et des circonstances variées?


L’antagoniste du systême du Marquis de Beccaria avance que si la peine de mort paroit injuste à l’auteur des Délits et des peines, parce que les hommes n’ayant renoncé qu’à la moindre portion possible de leur liberté naturelle, ne pouvoient accorder le droit de leur propre destruction; la prison, les travaux continuels et les autres peines, par la même raison, devroient paroître injustes. Cette induction est vicieuse. Puisons-en la preuve dans la nature même du contract social.



Dans le renoncement à quelques portions de liberté naturelle, les hommes ont cru se donner des garants assurés pour la conservation de leur vie et la possession de leurs biens. Ces conventions entre le peuple et le souverain, ces pactes de défense mutuelle n’ont pû se fixer, sans que les parties contractantes se soient obligée de contribuer à cet objet par une certaine somme d’actes et des forces nécessaires à cette garantie. Par ce contract on a prétendu que le fort, le foible, l’homme hardi et le timide, le riche et le pauvre, tous jouissent du même degré de sureté et de repos politique, voulant détruire par la supercherie des uns la paresse et l’indolence des autres, et arrêter les effets funestes de l’audace et de la fureur des hommes. En confiant à un individu où à plusieurs le dépôt sacré des portions de leur liberté, les hommes semblent avoir dit: Observez religieusement les loix que nous venons d’établir, si des vicissitudes malheureuses et non prévuës vous obligent de les changer ou de les innover, faites en sorte qu’elles soyent toujours l’expression de la volonté publique. L’autorité que nous déposons dans vos mains doit être employée à réprimer les violences. Malheur à celui qui attentera à votre vie ou à celle des individus qui composent la société, il éprouvera les effets puissants de notre indignation; il en sera puni de sorte que, privé de la liberté, il ne pourra plus répéter les même actes. Punissez l’audace criminelle de ceux qui oseront vivre aux dépens de l’industrie et du travail des autres. Mettez un frein aux passions tumultueuses des membres de la société en les dirigeant au bien universel, tâchez d’en réprimer l’abus. Que ceux enfin qui osent contrevenir à ces pactes exprimés ou tacites servent d’exemple, réparant par de travaux pénibles et publics le mal fait à la société, à son chef ou à ses individus.[159] Voilà, ce me semble, le langage expressif des premiers hommes dans la formation des sociétés, voilà comment on a accordé au souverain l’autorité de punir les crimes.


Si telle est la nature du contract social, comment peut-on en tirer des conséquences tel que le droit de punir de mort les scélérats? D’après ce raisonnement, mais plus encore d’après ceux dont l’ouvrage de mon illustre concitoyen fourmille de toutes parts, je peux hazarder la proposition suivante.


On doit l’institution de la peine de mort à la crainte des premiers usurpateurs, qui ne se crurent assurés dans leurs possessions qu’en dressant des buchers multipliés, où ils firent périr tous ceux qui eurent le courage destitué de force de prétendre leur portion sur le total.[160] La sévérité des peines est toujours rigoureusement proportionnée à la grandeur de la crainte, et la douceur toujours en raison inverse.

La difficulté de nourrir et de garder un si grand nombre de scélérats paroit faire une des plus fortes objections de Mr. Linguet. Examinons par les pures lumières naturelles si cette raison peut avoir un degré de force suffisant pour déterminer un législateur en faveur d’un assassinat public et réfléchi, préférant un sordide intérêt à la conservation de tant d’hommes.


Une supposition s’offre d’abord à mon examen. Je dis: si tous les criminels, dont les délits par la législation présente sont punis de mort, n’avoient commis que des crimes moins atroces, pour lesquels on décerne des peines moins cruelles, les galères, la prison et les travaux public, le législateur pourroit-il se dispenser de pourvoir à leur entretien? La difficulté que propose Mr. Linguet, si en doit les nourrir par entreprise ou par régie,[161] est trop foible pour ralentir jamais l’activité des princes, qui aidés d’un esprit philosophique savent respecter constamment l’humanité, même dans les citoyens méchans et pernicieux. Si la seule supposition d’un moindre crime fournit le moyen de faire subsister tant de malheureux, comment l’esprit économique pourra-t-il jamais porter un législateur à ôter publiquement la vie à un grand nombre de citoyens?

Quand même on leur accorderoit un entretien tel qu’il puisse satisfaire aux véritables besoins physiques, on auroit tort de s’imaginer que les fraix seroient excessivement à charge à l’état. On soutient que le moindre travail est suffisant pour procurer à l’homme de quoi subsister. Mon plan m’interdit les détails, et pour répondre à ceux qui mettront en doute cette vérité économique, j’en appellerai à l’autorité des plus respectables écrivains et aux preuves réitérées que nous fournit l’expérience journalière.

Je vois un expédient qui diminueroit de beaucoup la difficulté de l’entretien de ces malheureux dans le retranchement du nombre prodigieux de ceux qui, par des crimes d’opinion ou de légers forfaits, sont renfermés dans de profonds cachots, ou gémissent sous les coups redoublés de ces hommes dénaturés qui président aux travaux des galériens. On trouveroit aisément par la progression graduelle dans la diminution des peines de quoi fournir à la nourriture des vrais criminels.

En effet, pourquoi condamner avec tant de sévérités un pauvre négociant, qui d’un côté n’ayant pas des fonds assez considérables pour effectuer des spéculations de quelque importance, et voyant de l’autre l’insuffisance de son gain pour soutenir une épouse chérie et une famille nombreuse, tache de surprendre l’adresse des gabeliers dans l’exportation ou l’importation de quelque marchandise taxée par des fermiers avares à un prix qui outrage également le souverain et la nation, en nuisant considérablement au commerce? Je veux qu’un homme qui s’est enrichi pour avoir fraudé impudemment tous les droits du souverain soit puni; mais quelle raison ou quel droit puisé dans la nature du contract social pourra condamner l’indigent qui porte sous ses haillons quelques onces de sel, de poudre, de tabac, ou d’eau-de-vie? Je frémis de penser qu’un tel homme est souvent appliqué à la torture, dont les tourmens aigus, par la dislocation de quelque membre, le mettent hors d’état de se procurer de quoi vivre, et le contraignent de délaisser une famille qu’il soutenoit par son industrie. Comment peut-on voir d’un œil indifférent punir avec une rigueur excessive des actions qui ne méritent pas même le nom de crime? Si je voulois les peser ici à la balance de la philosophie, le seul critère de la moralité des actions, que d’exemples s’offriroient à mes regards! Exemples qui fairoient la honte de quelques modernes législations, dont le bût paroit être la multiplication du nombre de ces citoyens qu’on voudroit exposer au mépris public! C’est ici que les réflexions sur les Fermes s’offrent en foule à mon esprit.[162] Heureuse la nation, dont le souverain commence à s’éclairer sur cet objet![163] Les divers gouvernemens cesseront-ils jamais, dans la perception des deniers publics, d’employer la méthode qui tend à multiplier le nombre des citoyens malintentionnés, à faire naître des nouveaux crimes et augmenter les malheurs de l’humanité?

La tolérance seroit aussi un moyen efficace pour diminuer la somme des crimes. Partout où cette vertu philosophique fait sentir ses heureuses influences, les peuples sont moins grossiers, et à l’aide des lumières plus répanduës dans la totalité, on voit les mœurs plus pures et les hommes plus humains. La tolérance dans une nation fait qu’on méconnoît certains délits d’opinion, ou s’ils sont connus on les regarde avec une indifférence philosophique. L’imagination n’est pas échauffée par le fanatisme, qui offusque les idées et produit un nombre considérable d’actions en elles-mêmes indifférentes, qu’un législateur éclairé doit pourtant punir quelquefois malgré lui, dans la crainte de diminuer la somme de la confiance publique. La tolérance ne se borne point à ces seuls effets, elle fait aussi faire naître les grands hommes et les talens supérieurs. J’en appelle en témoignage ma patrie, et le nombre considérable de bons esprits qui comme des nouvelles comètes brillent sur son horizon. MILAN est aujourd’hui le pays des lettres, qui doivent leur origine et leurs progrès au grand ministre le Comte de Firmian. Rempli de vénération pour les dogmes de la religion, cet illustre mécène a sû la rendre encore plus respectable en la dépouillant des pratiques superstitieuses, et par sa tolérance, effet immédiat des arts et des sciences, qu’il cultive et protège, il a sû briser l’idole du fanatisme, préparant ainsi l’aurore fortunée d’un jour pur et serein qui fera revivre l’ancienne gloire des Lombards.

Mais comme il pourroit paroître impossible à quelques lecteurs de trouver un systême suivi de peines proportionnées à l’atrocité des crimes, si on retranche absolument la peine de mort; voyons sous quel aspect on pourroit présenter à un législateur l’idée claire d’un code raisonné de punitions calculées par l’intérêt de l’humanité, et reglées par le seul bût moral d’assurer le repos politique, d’inspirer l’horreur des crimes, de faire réparer de quelque façon le dommage fait à la nation par le scélérat qui enfreint les conventions sociales.

Il est hors de doute, que comme il y a une grande différence entre les crimes, il faut aussi que dans les punitions on observe la même différence du plus au moins. Cette vérité a été sentie et évidemment démontrée par mon illustre concitoyen; vérité qui lui a attiré l’approbation des souverains et la reconnoissance des êtres pensans.

Un systême qui en abolissant la peine de mort sauroit admettre une proportion bien calculée de peine, seroit sans doute le plus louablé et le plus nécessaire. Un homme prêt à commettre un meurtre, me dira-t-on, dans la ferme assurance qu’il ne sera point condamné à perdre la vie, mais seulement puni par des travaux publics et continuels, peut se décider à l’exécuter d’une manière plus cruelle, et préparer de loin les circonstances les plus atroces et les plus aggravantes. Il en seroit de même d’un homme qui ôteroit la vie à plusieurs de ses semblables, on souilleroit ses mains du sang de son bienfaiteur, de son frere, hélas! dirois-je de ceux, de qui il tient le jour?

Je ne vois d’abord aucun obstacle à ce qu’on établisse des différences graduelles et progressives pour les coupables, même en réduisant toutes les peines à des travaux publics. Si l’on condamne simplement un meurtrier à des travaux perpétuels, ne pourra- t-on pas augmenter les degrés de peine et de douleur qui accompagnent d’ordinaire un travail forcé, par des marques d’infamie et de publicité, qui en imposent même aux hommes les plus corrompus? Si l’assassinat a été commis avec des circonstances aggravantes, la peine doit être infligée avec plus d’appareil, de sorte que ces travaux pénibles et douloureux inspirent au peuple, qui en est témoin, l’horreur pour les crimes et l’indignation pour les criminels: qu’on oblige les plus coupables à des actions qui peuvent augmenter dans la multitude assemblée, des sentimens d’aversion pour le délit qui a mérité une telle peine; qu’on les contraigne dans des jours solemnels à avouer publiquement leurs crimes, et à déplorer leur sort par devant le peuple avec des démonstrations pathétiques, toûjours proportionnées à l’atrocité des forfaits. Ce systême seroit sans doute salutaire. Qui seroit alors assez malheureux, assez dépourvu d’amour propre, (l’âme de toutes les actions) pour ne pas frémir à la seule pensée du crime? Qui auroit assez de mépris pour l’estime publique, pour se laisser aller à des actions avilissantes, qui le réduiroient à une condition pire encore que celle des brutes? Je prie les lecteurs qui voudront me faire des objections, de consulter le cœur humain, d’en fouiller les replis, et après en avoir approfondi la nature qu’ils les présentent. Le philosophe, j’aurois dû dire l’homme, qui en connoît la théorie, sentira vivement, que tout être pensant et sentant s’exposeroit à mille morts, avant que de se soumettre à des peines si sensibles, si longues, et si répétées.

Si ces établissemens étoient dirigés par quelque magistrat grave, respectable et d’une probité reconnue, la crainte que la corruption ne s’insinuât dans l’âme des personnes établies pour garder les criminels, seroit nulle. Les coupables loin d’étendre leur contagion, sous la direction d’un vrai connoisseur du cœur humain, deviendroient bientôt des instrumens propres à donner des exemples de vertu. Le soin de leurs travaux, dont l’unique but seroit toujours la réparation du tort fait à la société, seroit aussi du ressort de ce magistrat.

La difficulté sur laquelle Mr. Linguet parôit insister davantage, et qui doit en effet faire la plus forte impression, roule sur la noblesse. Les délits des grands, des hommes puissans, qui ont recû une meilleure éducation, les exemples lumineux de leurs ancêtres pour aiguillons de leur vertu, sont sans doute les crimes les plus odieux et par conséquent les plus punissable. Mais si l’impunité augmente les malheurs de la nation, la peine de mort n’est pas assurément le moyen de les prévenir.

Je n’ignore pas que ce seroit un systême également injuste et impraticable, que d’infliger à la noblesse la même peine qu’on décerne pour des criminels du bas ordre. Ce n’est pas assez de garder une proportion bien calculée pour les divers délits; il faut aussi avoir égard aux divers états de la société. Heureux le législateur qui connoissant les hommes et les sources des passions, sans emploïer la sévérité physique saura établir une méthode suivie de peines, dont la seule image, la pensée seule fasse naître dans l’esprit des personnes de condition l’horreur la plus marquée pour toute sorte de crimes! Mais plus heureux encore le souverain qui sait d’une main puissante ébranler le simulacre du préjugé funeste, qui paroit vouloir enlever le droit à l’estime publique aux illustres familles, dont quelque membre a osé se laisser aller dans la carrière ténébreuse des crimes.

Mr. Linguet craint avec raison qu’un illustre criminel, lié à des personnes qui occupent des places remarquables dans l’état et qui tiennent quelquefois les rênes du gouvernement, ne puisse, par leur moyen, se soustraire aux poursuites de la justice et aux peines méritées, et outrager ensuite par des nouveaux excès, la société dont il avoit déjà violé les droits. Mais cette difficulté n’auroit aucune force si on décernoit des peines pour ceux même, qui oseroient implorer en faveur du criminel la clémence du souverain: dans ce cas les instances réitérées seroient un véritable attentat contre les conventions faites entre le peuple et le prince. Je ne sais pas même, si ce dernier auroit le droit de se servir du dépôt des autorités, pour faire grâce à un criminel qui a sû exciter sa pitié, après avoir offensé la nation, qui l’a établi son vengeur. Le législateur devroit donc regarder comme de véritables crimes, les instances qu’on fait pour la liberté d’un noble audacieux, qui a pû enfreindre le pacte social.

Qu’on ne m’objecte point que je me déclare ainsi contre les plus doux sentimens de la nature, qui nous portent à nous attendrir sur le sort des malheureux, et plus encore de ceux auxquels nous sommes unis par les liens du sang. Le crime est fait pour mettre une distance infinie entre l’innocent et le coupable, qui en violant les conventions a perdu tous les droits à l’estime publique. Si on lui laisse la vie, si l’on respecte en lui l’humanité qu’il a outragée, comment un souverain ne seroit-il pas en droit de punir ceux, qui par des instances trop pressantes tachent d’obtenir sa liberté? Je vois aussi un autre moyen pour prévenir cet inconvénient, c’est de marquer les criminels de quelque signe infamant; dans ce cas il n’y auroit assurément personne qui voulut solliciter leur liberté, bien moins les parens; les coupables eux-mêmes se refuseroient peut-être à la grâce que le souverain voudroit leur faire.

Plus j’avance et plus je suis touché des cris de la nature. L’erreur, l’injustice, le crime, l’infortune, l’ambition, et la misère s’offrent tour à tour à mes regards sous un aspect effrayant. Je crois entendre la nature elle-même, me présentant le tableau des malheurs qui accablent l’humanité, me parler ainsi: On verra toujours les crimes se multiplier, et augmenter sans-cesse les désordres dans la société, jusqu’à que la philosophie enseigne aux hommes la science difficile de bien diriger les passions dès la tendre enfance. Il faut fournir aux hommes une douce pente à la vertu, c’est l’unique moyen pour rendre les peuples heureux. Les souverains éclairés qui sauront intéresser leurs sujets dans l’exercice de la vertu dès l’âge où toutes les impressions sont aisées, auront trouvé le moyen le plus sûr pour la réforme des nations. Ces princes auront le droit exclusif d’aspirer à la gloire, de voir leurs noms chéris consacrés dans le temple de Mémoire, pour avoir sû établir le gouvernement le plus heureux et le plus propre à prévenir les crimes.

Si c’est là véritablement la marche de la nature, comment le sage et ceux qui s’adonnent à l’étude du cœur humain, pourront-ils élever leur voix contre le philosophe qui employe ses veilles à inspirer aux souverains les maximes consolantes de l’humanité, et à leur prouver que l’on doit adoucir la sévérité physique des peines? Loin de chercher à détruire le sistême de l’auteur éclairé des Délits et des peines, on devroit tâcher d’en former un propre à perfectionner l’éducation. Ce seroit le plus utile des sistêmes, et le seul qui put satisfaire aux besoins de toutes les nations. Dans le cours de mon ouvrage j’expose hardiment plusieurs idées qui tendent à empêcher les crimes. Connoissant la foiblesse de mes lumières, j’ose exhorter les vrais philosophes à suivre les traces du célèbre ex-citoyen de Genève. Dans l’examen de ses pensées on trouvera des matériaux propres à la construction de ce bel édifice. J’y travaillerai de toutes mes forces sans me laisser rebuter par mon insuffisance sachant que

In magnis voluisse sat est.

De la solution de ces problêmes politiques ajoutés aux raisonnemens solides de mon illustre ami, je crois être en droit d’en tirer le corolaire suivant, puisé dans la nature de l’homme.

La PEINE DE MORT est injuste; elle s’oppose au plus grand de tous les avantages, c’est-à-dire à la population. Elle aigrit les hommes sans diminuer la somme des crimes et le nombre des scélérats, et choque les conventions primitives. Les TRAVAUX PUBLICS, sans rien ôter à la population, inspirent une véritable horreur pour les crimes. Cette peine étant plus souvent répétée est incomparablement plus salutaire. Elle dédommage en quelque sorte les particuliers et la nation du mal fait par les criminels; enfin elle peut être infligée sans rompre les conventions tacites ou expresses, qui forment les liens de la société.

[1] Quelli che, corrompendo la nostra lingua, danno insensatamente questo titolo a persone che appena meritano il nome d’uomo, saran sempre viziosi, perchè sostituiscono alla vera virtù il possesso di un debol talento.

[2] Giovanni re di Francia, essendo stato prigioniero del re Edoardo III ed avendo dovuto sottoscrivere un trattato disavvantagioso per ricuperare la propria libertà, reso libero, i di lui cortigiani gli dissero che non era tenuto a eseguirlo, ma egli rispose queste memorabili parole: se la buona fede fosse sbandita dal resto della terra, dovrebbe sempre mantenere la di lei abitazione nel cuore de’ principi.

[3] Quanti popoli volontariamente si diedero a principi giusti! Quaranta quattro regni stranieri si sottomisero al virtuoso Ven Vam, imperador della China.

[4] Non viddesi forse nell’era nostra volgare la fama d’integrità render arbitri alcuni principi? Questa, assai più del valor guerriero di Enrico II re d’Inghilterra, persuase Sanchez ed Alfonso, l’uno re di Navarra e l’altro di Castiglia, facendolo giudice nelle loro contese, d’abbandonarsi alle di lui decisioni.

[5] Il cardinale di Richelieu.

[6] Vedi Droit public de Mr. l’Abbé de Mably, tom. I.

[7] A questi applicar si potrebbe l’invettiva del romano oratore contro Pisone: Obrepsisti ad honores errore populi, commendatione fumosarum imaginum, quarum simile habes nihil praeter colorem. Cicer. in Pisonem.

[8] Il buon Vespasiano era sì persuaso che non conveniva ad un principe il dichiarar una guerra per una privata offesa, che, quantunque fosse un buon capitano, voleva in simili casi dissimulare. Una volta Vologejo re dei Parti, avendogli scritta una lettera che avea per titolo Arsace Re dei Re a Vespasiano, il savio imperatore si contentò di rispondere: ad Arsace Re dei Re, Vespasiano.

[9] Il filosofo ne conosce la ragione. Gl’istorici senza saperla ce l’hanno trasmessa.

[10] Fra i tanti esempj, il più funesto è quello del re D. Sebastiano, che successe a Giovanni III nell’età di soli anni 3. Ne fu confidata l’educazione a’ Gesuiti, che da gran tempo avean formata l’idea di sottomettere il Portogallo alla corona spagnuola. Per arrivare a’ loro fini, elevarono il giovine monarca nelle massime le più superstiziose, affin di animarlo alla guerra contro de’ Mori. Succhiati tali principj dalla più tenera infanzia, allorchè si vidde nelle mani le redini del governo, si lasciò talmente persuadere che, malgrado le amorevoli rappresentanze di varj grandi del regno, veri padri della patria ed amici del suo scettro, passò accompagnato di quasi tutta la nobiltà con 20000 fanti e 1500 cavalli nel regno di Fez, in ajuto di Muley-Mehemet, contro il vecchio sovrano di Marocco, Malucco, dal quale fu vinto. Checchè ne sia della sua morte, i Gesuiti posero sopra il trono il cardinale Enrico, il qual non regnò due anni. Non solo impedirono che il vecchio re cardinale disponesse con suo testamento in favor di qualche parente della casa reale, ma facendo dare i governi a persone contaminate, corrompendone i prelati e la maggior parte dei grandi, tanto operarono che, morto quel re, opponendosi alle giuste intraprese del prior di Crato, ajutarono il Duca d’Alba, acciochè Filippo II vi fosse riconosciuto per legitimo sovrano. Ciò che è più rimarcabile si è l’ingratitudine con cui agirono quei padri contro una famiglia che era stata la prima ad accoglierli ed a loro permettere di fabbricarsi un collegio in Lisbona, avanti che l’ordine fosse approvato dal Pontefice. Tantum Religio potuit suadere malorum: Luc. Lib. I, V. 112.

[11] In cujus (Coeli) velut clarissimo senatu ac splendissima curia opinantur scelera facienda decerni; qualia si aliqua terrena civitas decrevisset, genere humano decernente fuerat evertenda. De Civ. Dei, lib. V, cap. I.

[12] Hobbes assicura che il nostro stato naturale è lo stato di guerra di tutti gli uomini contro tutti gli uomini, e che nulla vi è di più ragionevole che d’assoggettare colla forza o co’ strattagemi il più gran numero che sia possibile de’ nostri simili, finchè più non si trovi persona che recar ci possa qualche nocumento.

[13] Serpente a campanelli.

[14] Sarei troppo prolisso se qui volessi far menzione di tutte le armi degli animali, segno più che evidente della loro guerriera propensione. Leggasi Buffon, Bomare e sopra tutto la Contemplazione della Natura, libro che può capirsi da tutti, dato in luce dal celebre naturalista Carlo Bonnet (autore del Saggio analitico), filosofo in cui le sublimi scienze speculative e le morali pratiche virtù fanno un aggradevol contrasto.

[15] Est igitur haec, judices, non scripta, sed nata lex; quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex Natura ipsa adripuimus, hausimus, expressimus; ad quam non docti sed facti, non instituti sed imbuti sumus; ut, si vita vostra in aliquas insidias, si in vim, si in tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis. Cic. pro Milone.

[16] Atque eo vehementius, quo majus dedecus est parta amittere, quam omnino non paravisse. Salust. De. Bel. Jug.

[17] Non pretendo già di dire che la disciplina sia inutile, ma soltanto il rigore eccessivo dei continui esercizj, che loro fanno sembrar la pace più insupportabile della guerra.

[18] Nella cavalleria vi dovrebbero essere tende anche per i cavalli, ove, potendo dormire al secco, non si avrebbe più d’uopo di tanta paglia e fieno che, inzuppandosi colla pioggia, impediscono a quest’utile quadrupedo il potersi corricare, ciò che, facendone perir molti, rende buona parte della cavalleria incapace di poter servire.

[19] I soldati romani abitavano anche ne’ quartieri d’inverno sotto le tende che erano di pelle. Caracalla l’ultimo anno del suo impero ed il 217 dell’era nostra, trovandosi in Edessa mutò in vero un tal ordine facendoli allogiar presso dei cittadini, cambiamento che fu loro troppo funesto, perchè, snervando il coraggio, si resero più facili ad esser attaccati e vinti da’ Parti e da molti altri nemici.

[20] L’accrescere il soldo alle truppe è sì giusto che, se si riflette a quanto ascendevano le paghe delle antiche milizie, si conoscerà non averne le moderne un terzo di quelle che si pagavano altre volte presso di ogni nazione. Le derrate sono più care, i segni rappresentativi più abbondanti, la moneta men alta; i soldati debbono vivere, ma come, se le loro paghe sono sempre sì tenui?

[21] Quanti eserciti non si ribellarono per questa cagione. Molti re ed imperadori perdettero la corona, e l’inesatezza con cui venivano pagati gli Spagnuoli nelle Fiandre non poco contribuì alle vittorie degli Olandesi.

[22] Distruggono gli eserciti. La cattiva qualità dei viveri spediti nell’Africa all’armata spagnuola sotto il comando del Marchese di Lede non accagionò quelle malatie che la fecero perire? E qual altra origine avranno i pochi progressi di questa nazione contro il Portogallo in quest’ultima guerra?

[23] I Cartaginesi davano dell’aceto a’ soldati, come si può veder dalla discesa delle Alpi di Annibale.

[24] Il grande imperador Giuliano, parlando della sua spedizione contro i Persiani, così scrive nella sua epistola 28 a Libanio: Si empiano i vascelli di fromento o piuttosto di biscotto e di aceto.

[25] Ulisse diceva ad Achille: non conducete le vostre truppe a digiuno ad attaccare il nemico, il pane ed il vino fanno la forza del soldato. Illiad. libro 19. L’imperador Leone voleva che i soldati portassero una fiasca di cuojo per beverne quando sono stanchi nelle zuffe.

[26] Sebbene molti errori di tattica abbiano contribuito ad una tale sconfitta, non è men vero che i corpi estenuati dalla fame non poterono resistere lunga pezza ai vigorosi ed allora ben nutriti Cartaginesi.

[27] In qualunque modo che un buon oficiale si disgusti di un partito e della patria che lo provoca a sdegno, può divenir un nemico terribile. Cosa non operò Tarquinio l’antico contro l’Etruria? Che non fecero gli Alcibiadi, i Coriolani, gli Eugenj, i Bervick ed i Bonneval?

[28] Non parlo già di que’ devoti che osservano una vita penitente sì, ma non tanto severa: questi si riscaldan le imagini e si irritano talmente i sensi che par che si propongano un contrario scopo, cioè di multiplicare la somma de’ loro desiderj con quella de’ gradi di voluttà per sodisfarli. Prendo di mira coloro che menano una vita sventurata, cinti di cilicj e fra le astinenze le più rivoltanti, e che, con gioja sopportando i loro propri e volontarj mallori, così se la discorono: La via del Cielo non è accessibile se non a chi sa distrugger le proprie passioni e domar tutti que’ desiderj che possono condurre al peccato. Tormentiamo dunque i nostri corpi con batitture, digiuni e preghiere continue, indeboliamo i muscoli, le fibre ed i nervi che formano il giuoco de’ nostri sensi; ci renderemo in tal guisa sì estenuati che non avremo più la forza di poter contentare i desideri a’ quali ci invitano i sensi. Passeremo una vita infelice ma breve, ed avremo in ricompensa una eternità di piaceri. Non indirizzerò le mie riflessioni a chi vien stimolato verso una tal vita da una stupida imbecillità, ma bensì a que’ sublimi epicurei delle celesti beatitudini che non vi si dedicano se non mossi dal sopra esposto raziocinio. Giacchè l’umanità da me lo esigge, dimostriamo l’assurdità di un sistema che tanto amareggia una vita già troppo infelice. Ragioniamo. Il merito delle azioni è sempre in ragione del potere che abbiamo di determinarci sì alle buone che alle cattive. La penitenza troppo austera scema le forze che son necessarie a contentare i desiderj de’ sensi, la mancanza di forze distrugge il potere di sodisfare i piaceri sensuali e peccaminosi, dunque la penitenza troppo austera diminuisce ed anzi annichila il merito delle buone azioni. Ma vo’ dir di più. L’attentare a’ nostri giorni è un peccato, secondo il loro sentimento, più grave di quello di togliere la vita altrui; colui che eseguisce un omicidio con atti tirannici commette un delitto contro le convenzioni della società, il qual è più forte come il peccato è più grave in ragione che gli atti tirannici son più sovente ripettuti: or chi vive con penitenze troppo austere e passa i giorni suoi in macerazioni, digiuni ed altri simili patimenti, si accorcia la vita; dunque chi, col menare una vita troppo austera, si avvicina alla morte, commette un suicidio, tanto più grave quanto più crudeli e più ripettuti saranno i mezzi di eseguirlo. Direi di più se il soggetto mel permettesse, ma dissi forse troppo in questo caso.

[29] Le passioni, dice un filosofo, fanno e distruggono ogni cosa. Se la sola ragione dominasse sopra la terra, nulla vi arriverebbe di rimarchevole. Si dice che i piloti temono all’estremo i mari pacifici ove non si può navigare, che vogliono venti sebben col pericolo di esser sottoposti a tempeste. Le passioni, prosiegue l’accennato scrittore, sono i venti necessarj a porre ogni cosa in movimento, quantunque accagionino frequenti tempeste. Fontenelle, Pensées sur l’homme.

[30] Chi seppe render colleriche le proprie truppe contro quelle del nemico, le rese invincibili: An non animadvertisti inexpugnabilem esse iram? qua presente anima omnis intrepida ad omnia est, et invicta. Plat. De Republ. D. 2.

[31] Infelice chi la sprezza! Tale mostrasi il sentimento di Tacito allorchè dice: Nam contemptu famae contemni virtutes

[32] Quae homines arant, navigant, aeedificant, virtuti omnnia parent. Salust. de bel. Cat.

[33] Certamente fu qualche nume favorevole, esclama Vegezio, che ispirò a’ Romani il formar legioni. Per me, non so qual astro benefico suggerì a’ romani pontefici l’istituzione degli Ordini regolari. Deh, quai possenti legioni!

[34] E fu poi Capua lui | Quel che fu Canne agli avversarj sui. Poesie di Monsignor Della Casa.

[35] Eo principio lascivire miles, discordare, pessimi cujusque sermonibus praebere aures denique luxum et otium cupere, disciplinam et laborem aspernari. Tacit. lib. I.

[36] Il signor di Marmontel nel suo Belisario, capit. 13.

[37] Doppo la battaglia di Piacenza, Marco Antonio, vinto e fuggitivo, col dare l’esempio della maggior frugalità, si fece tanto amare da suoi soldati che, arrivati avanti il campo di Lepido, questo capitano fu da essi loro obbligato a riceverlo ed a ripartire con lui il supremo commando. Tanto può la virtù nel sen delle persone anco le più corrotte.

[38] Quando Paolo Emilio fu inviato contro Perseo, che trionfato avea degli altri capitani romani, conoscendo che la mancanza di disciplina avea prodotti simili effetti, riformò tutti gli abusi introdotti dal lusso e tolse le bocche inutili. Ambi gli Scipioni, per riformar la disciplina, cominciarono a sbandir gli equipaggj superflui; ed il console Metello contro Giugurta, per render valorosi i suoi soldati, tolse tutto ciò che servir poteva ad ammollirle.

[39] Chi vuol resistere alle fatiche delle guerre, non ha da impinguarsi nelle tenebre e contaminare così lo spirito ed il corpo. Abbandonandosi alle dissolutezze ed allo stravizzo, che poscia richiedono lungo sonno, riposo e continui rimedj come le vere malatie, vengono impediti gli oficiali ad agire nelle azioni ed attacchi.

[40] I barbari hanno sempre ne’ loro eserciti un gran numero di volontarj: se si privano della speranza di bottinare se ne ritornano alle loro case, come si vede fra i Turchi, i Marochini e tanti altri popoli. Farasmene, per animare i suoi soldati contro i Parti, fra le altre cose loro disse: Vedo i nostri battaglioni irsuti di ferro, le truppe de’ Medi tutte risplendenti di oro; qui uomini coraggiosi, e là il bottino. Simul horridam suorum aciem, picta auro Medorum agmina; hinc viros, inde praedam ostendere. Tac. Ann. lib. VI.

[41] Il fine d’ogni militare regolamento è di animare il coraggio, e pure, chi lo direbbe! lo spirito di quasi tutti i regolamenti è il timore. Nuova prova da aggiungersi alla tese delle umane contraddizioni.

[42] Non vi è idea più falsa di quella che un uomo cattivo per gli altri stati della società sia un buon soldato. I sovrani che empiono le milizie di simil gente più non si stupiscano de’ pochi progressi. Massime sì vili e ridicole giammai diressero i veri eroi.

[43] Se maggiore sarà la spesa della legione, infiniti anche gli utili. 12 legioni sarebbero assai più di cento milla altri combattenti sforzati al mestier delle armi, facili alle continue diserzioni ed assai più difficili ad animar alla gloria, perchè composte di gente avvilita in cui i sentimenti non possono aver forza, essendo difficile con 5 soldi di formar Romani.

[44] Una città fortificata non può resister ad un lungo assedio, a cagione di tante bocche inutili. Lasciar perir i cittadini, risponderà taluno, e non pensar che al presidio; ma sudditi essendo i primi dello stesso sovrano, e uomini anch’essi, potrebbero sforzar chi comanda a capitolare.

[45] Passando un capitan spartano col di lui esercito avanti la forte cittadella di Tebe, dimandò quali erano le donne che la abitavano. Licurgo diceva: Non immaginatevi che un paese sia senza mura, quando in luogo di mattoni ha all’intorno uomini valenti per difenderla.

[46] Libro di memoria che i Francesi chiamano coll’energica voce tablettes o souvenir.

[47] Gli esempi dei Bruti e dei Manlj sono troppo celebri nella storia romana. Non saprei approvarli; il leggitore ne vidde di già la ragione.

[48] Quanti generali romani non fecero decimare le legioni? Alessandro Severo, ben lungi di temer i sollevati, loro così parlò: Al mio cospetto non insolentite, o soldati, le armi vostre han da essere contro i nemici di Roma, nè vi avvisaste mai di farmi timore. Quand’anche uccideste un par mio, alla repubblica non mancherà un nuovo Augusto per governarla e per punirvi. Essendo ammutinato l’esercito romano sotto Avidio Cassio, perchè erano stati condannati alla croce alcuni centurioni che combattuto aveano contro suo ordine, spogliato sortì dalla tenda e loro disse: Uccidetemi, se avete tanto ardire, ed aggiungete questo delitto all’altro della disciplina e subordinazione da voi trasgredita. Tacquero allora e si sottomisero le milizie.

[49] Se alcuni principi avessero con severità puniti i tradimenti, la somma de’ loro affari non avrebbe periclitato nelle guerre, le quali terminate si sarebbero con loro gloria e profitto.

[50] È assai commune ne’ generali di poco merito, e non negli eroi. Questi, non lasciandosi vincer dall’invidia, credono acquistarsi la vera gloria allorchè rendon palesi i meriti e la virtù di chi ubbidisce. Perchè non stabilire un premio di onore per chi scuopre le altrui belle intraprese?

[51] Catone di Utica.

[52] Jugez de sa grandeur, et de son importance, | On ne peut l’acquérir que par l’expérience; | Malheur aux apprentifs dont les sens égarés | Veulent sans s’appliquer franchir tous les degrés. Philosophe sans souci, Arte della guerra, canto primo.

[53] Si vous voulez passer sous un arc triomphal | Campez en Fabius, marchez en Annibal. Philosophe sans souci, Arte della guerra, canto secondo.

[54] Macchine inventate da Demetrio Poliorcetes re di Syria, con cui si espugnavan le città. Questo principe inventò molte altre macchine ed armi.

[55] Prescindendo dalle passioni animate, che rendevano la falange macedonica sì terribile che, vinto, Perseo volle piuttosto farsi tagliare in pezzi che cedere, la di lei forma avea moltissime utilità. Le falangi sarebbero corpi utili anche oggidì, se non fossero forme permanenti e sempre rinserrate. Essendo prive d’intervalli, come possono riposarsi i soldati e riunirsi se per avventura si sconvolgono? E potranno inoltre inseguir il nemico e trovare in ogni parte quei terreni solidi, uniti e piani di cui hanno d’uopo per formarsi e per combatter con avvantaggio.

[56] Quasi tutti i popoli dell’antichità combattevano con 16, 20, 40, 50 e più file di profondità. Facendo fronte più stretta, ogni situazione era buona per battersi.

[57] In fatti, qual avvantaggio avrebbe mai la sua colonna doppo che avrà rotta la linea del nemico? Lo potrà prendere allora in fianco e dissipar col suo fuoco tutto ciò che le si trova d’intorno; ma avanti che sia arrivato a questo punto, deve presentargli il proprio fianco, il quale, esposto alla moschetteria ed al cannone, può facilmente esser roversciato. Contuttociò, di quale infinita utilità non sarebbero le colonne coll’impetuosità ed il peso del loro urto, se queste masse venissero multiplicate dalla prestezza e dalla facilità di unirle e di spezzarle?

[58] Le scarriche sono buone avanzando in una certa lontananza, ma vedendosi assai di vicino il nemico sarà meglio attaccarlo velocemente colle bajonette alberate, alle quali non si può resister col solo fuoco.

[59] Queste sono figure inutili se sono vuoti, come si prattica oggidì in molti servizj; poichè, rotti in qualche parte, tutta la truppa è perduta, nè più può esser rimessa in ordine.

[60] I Romani facevano 24 miglia in 5 ore. Oh quante saranno in stato di farne le truppe di certe odierne nazioni, le cui marcie faticose, gravi e penose, nelle quali il soldato appoggia il piede pesantemente ad ogni passo, ne rendono eterne le voluzioni ed ineseguibili contro un nemico attivo e vigilante?

[61] Tutti i passaggj di linee d’Infanteria e di Cavalleria meritano la maggiore attenzione, affinchè la reciproca prottezione sia sicura. Non più separati sulle ale i Cavalli, ma in situazione di socorrer i Fanti, crescerebbe in ambidue queste truppe la fiducia: verità sentita dall’esperto Maresciallo de Puysegur.

[62] Annibale doppo la prima battaglia abbandonò l’armatura cartaginese per prender quella de’ Romani. Pirro non solo fece prender a’ suoi le armature romane, ma per vincerli prese al proprio servizio molti italiani avvezzi a combatter co’ medesimi, framischiando questi colle sue truppe. Polibio, libro 17 della sua storia. Quando Camillo ebbe provato a guerreggiar contro i Galli e che conobbe consistere nelle loro longhissime spade, maneggiate all’uso dei barbari, la loro forza, colla quale abbattevano teste e spalle, fece dare alla maggior parte delle sue truppe caschetti di acciajo ben pulito, affinchè le spade si rompessero o che non facessero che sdrucciolare. Fece in oltre bordare i scudi di una lastra di ferro, non potendo il sol legno resister a’ colpi, ed insegnò a servirsi di lunghe picche, colle quali, insinuandosi sotto le spade dei barbari, potevano pervenir i colpi che si scarricavano da alto in basso. Chiascheduno si ramenta del cambiamento fatto da Mario nelle picche in occasione di una battaglia che guadagnò contro i Teutoni.

[63] Che non fece Annibale colla Cavalleria, e perchè conchiuse Scipione alleanza con Massinissa, se non per averne una capace ad opporsi a quella dei Cartaginesi? Come avrebbe potuto Giugurta senza la stessa, malgrado le di lui diverse sconfitte, tener sospeso l’attivo e valoroso Marcello, e ritardar così la sventurata sua fine?

[64] Si dovrebbero stabilire premj per lo scioglimento di tutte le questioni che risguardano l’anatomia e medicina de’ cavalli, e tutti gli elementi della Ypiatrica.

[65] Cesare a Farsaglia, vedendo che la Cavalleria nemica era composta della più bella e più nobile gioventù, ordinò a’ suoi cavalieri di mirare i loro colpi al viso. Pel timore di ricever ferite che li sfigurassero, quelli di Pompeo voltarono faccia.

[66] Qual superiorità non avrà mai una Cavalleria sì ben armata sopra quella di nemici impicciati di armi inutili ed armati di scimitarre e spadoni, che non possono ferire i suoi soldati ferrati nè i cavalli e che devon perire perchè feriti con colpi forti e sicuri?

[67] Il re di Prussia, in una lettera sopra la battaglia di Colin, confessa tutto dovere l’artiglieria austriaca al principe Vinceslao di Liechtenstein.

[68] Dico il d’avanti, mentre voglio che loro si tolga ogni speranza se fuggono.

[69] Si usavan ancora nel tempo di Enrico IV re di Francia.

[70] Vedi Réveries du Maréchal de Saxe.

[71] Il generale Montecuculi, il quale vorrebbe che avessero i bastoni vuoti e che fossero della longhezza di dodici piedi, acciocchè potessero servire per inalberare le tende. Che le lancie sieno utili nel ritirarsi lo mostrarono gli antichi Parti, che fecero molte stragi nell’esercito di Crasso e di altri capitani romani. Nell’ultima guerra prussiana i Cosacchi ed Ulani, maneggiandole con destrezza, mi persuasero dell’utilità almeno per la Cavalleria leggiere.

[72] Migliori ancora saranno i fucili gradatamente longhi secondo le file, e le bajonette in proporzione, ben assicurate alla canna dei medesimi. Una simil truppa in quattro file, due facendo un ramparo e le altre due un fuoco incessante nell’avanzare, avrebbe una forza grande di urto. Ogni fila allora farebbe il suo sforzo, laddove il nemico, che mantien le tre file colle armi consuete, non potrebbe opporli in controcambio che la forza dell’urto della sua prima fila, restando inutili le altre due: vizio funesto, giacchè l’avvantaggio di una tattica consiste nel non lasciare verun combattente nella inazione.

[73] Lo stesso far dovrebbero i capitani ed oficiali nelle centurie.

[74] Se ho parlato delle occupazioni che convengono a’ combattenti, dimenticherò forse gli studj e le prove di quelli a’ quali vien confidata la cura della salute delle milizie? Qual è quel buon cittadino che non frema di orrore nel riflettere alle barbare vicende a cui viene assoggettato lo stato dei difensori della patria, le cui vite preziose sono sagrificate ne’ spedali da un sordido interesse? Ben pagati i chirurghi, ma pria approvati con rigore, e dottorati nelle università dello stato, dovrebbero fra di loro avere academie di anatomia, medicina e chimica, ricompensandone i più abili ed esperti, affinchè colla loro funesta ignoranza non uccidano o non rendano invalidi tanti valorosi soldati che esser potrebbero ancora utili alla patria ed esterminar molti nemici.

[75] Quegli academici però le cui legioni saranno inquartierate nella capitale potranno tenere una perpetua residenza.

[76] Se la virtù senza premio divien men diligente, la malvagità impunita si fa più insolente e più nociva. Col punire i delitti s’impediscono i nuovi attentati, ed allorchè si toglie il timore dell’altrui ingiustizia, si diminuisce il bisogno dell’altrui soccorso per viver sicuro, come assai bene si spiega Salustio, de Bell. jug.: Bonus tantummodo segnior fit, ubi neglegas, at malus improbior. Ad hoc, si injuriae non sint, haud saepe auxilii egeas.

[77] Questi modi sommarj di punire vengono chiamati nella lingua tedesca Stand-recht, cioè giustizia subitanea. Se ne servono i comandanti de’ regimenti, non solo per punire la diserzione contro il nemico, ma per reprimerla talvolta ne’ presidj ed anche in varie altre occasioni.

[78] Condannavano a morte quelli per fino che perdevano in una zuffa le proprie armi.

[79] Carondas è quel d’esso. Abolì le leggi anteriori della Grecia, che condannavano a morte chi era fuggito in faccia il nemico. Ordinò che un codardo, vestito delle spoglie feminili, fosse esposto per tre giorni nella pubblica piazza della città, affin di animarlo a riparare una tal infamia con azioni forti e magnanime. Si potrebbero citare gl’infiniti capitani che obbligarono le soldatesche a scancellar la codardia colle azioni le più sorprendenti. Quanti guerrieri non si viddero fugir in una azione e far prodezze in altre occasioni? Belle eran anche le leggi e costumi de’ Germani citate da Corn. Tac.

[80] Marc’Aurelio rispose a’ suoi soldati che gli ricercavano doppio soldo che il di più del solito bisognerebbe cavarlo dal sangue dei loro parenti. Dione, libro 71.

[81] Galba e Pertinace furono uccisi per non aver tosto potuto pagare quanto aveano promesso a’ pretoriani. Didio Severo Giuliano fu parimente tradito per la stessa cagione. Il buon Macrino perdette la vita coll’impero perchè le legioni furono corrotte dai ricchi donativi di Giulia Soemia. Molti anni prima Avidio Cassio, avendo dispensate varie somme a’ suoi soldati, li portò à ribellarsi contro il virtuoso Marc’Aurelio, che nulladimeno ne trionfò per l’amore de’ popoli. Anche ne’ secoli nostri, quanti orrori non ci somministrano le storie dei Gianizzeri e dei Strelitz, corrotti dalle continue profusioni?

[82] Oggidì negli eserciti l’ordine delle cose è roversciato, poichè il bottino appartiene quasi sempre a’ più codardi. Chi ne approfitta? Qualche truppa leggiere che non si trovò alla battaglia ed alcuni vivandieri. Perchè defraudarne chi se lo procurò col proprio sangue? Dovrebbe dunque esser distribuito a’ combattenti in proporzion delle prove che diedero di valore.

[83] Ciaschedun sa le massime di Cavalleria che diriggevano quelle due nazioni, le quali oggidì ne conservano qualche scintilla. Questo spirito animava tutti gli altri popoli dell’Europa. E quante gesta sorprendenti non ci mostrano que’ secoli ne’ quali era una vera dominante vertigine!

[84] L’exemple des monarques impose et se fait suivre. | Lorsqu’Aguste buvait, la Pologne étoit ivre; | Lorsque le grand Louïs brûla d’un tendre amour, | Paris devînt Cythère, et tout suivit la Cour. | Lorsqu’il se fit dêvot, ardent à la prière | Le lache courtisan marmota son breviaire. Philosophe sans souci.

[85] Il Gran Condé voleva che in ogni regimento si registrassero le belle azioni ed i detti memorabili.

[86] Le croci ed altre simili distinzioni meglio dirette avrebbero i loro principj di vera utilità, ben differenti da quegli altri ordini che gonfiano l’orgoglio, erretti per distinguer la nascita e le ricchezze. E non avran ragion di rider i filosofi nel vedere a gara i grandi di una corte formar intrighi, interessar estere potenze, minacciar divisioni, inimicizie e per fino stragi e guerre per imbrattare i lor vestiti con qualche stella radiante o per aver il privileggio di portar nastri coloriti, assai più ridicoli invero de’ fanciulli, che se combattono per qualche confittura lo fanno almeno per sodisfare i reali piaceri del palato. Turpe est difficiles habere nugas | Et stultus labor est ineptiarum.

[87] Il re di Sardegna, che a’ meriti sublimi di saggio regnante riunisce quelli di gran capitano, con una marziale eloquenza che detta agli eroi la presenza di spirito talmente animò i Francesi che fuggivano a Guastalla che seppe cangiar i vinti in vincitori.

[88] Avrebbero forse i Normandi battute le truppe vittoriose di Haroldo re d’Inghilterra se Guglielmo il Conquistatore, vedendoli disanimati, non ne avesse riscaldate le imaginazioni e l’avarizia che ne animava il coraggio colle più eloquenti persuasive? Edoardo 3° re d’Inghilterra con poca mano de’ suoi non sconfisse i Francesi, assai superiori in numero, commandati da Filippo loro monarca alla battaglia di Cressy, per aver pria con enfasi e coi più vivi discorsi preparate le proprie truppe? Come avrebbe il Maresciallo di Tessé scacciati gli alleati dal porto di Santa Caterina e liberato Tolone dall’assedio, se con energia non avesse animati i suoi che avevan da combattere il più famoso capitano del secolo?

[89] Plutarch. in vita Cyri.

[90] De Bello Gallic. libro primo.

[91] Imperator qui eloquentiam cum prudentia conjunxerit, quid in exercitu praestare non potest? De apparatu bellico.

[92] Enrico IV alla battaglia d’Ivry disse a’ suoi soldati: Siete Francesi, là si trova l’inimico; sono il vostro re: formatevi ognora alla mia piuma bianca, voi la vedrete sempre nel cammino dell’onore e della gloria.

[93] Il conte Pietro Verri, Meditazioni sulla felicità.

[94] Poteva dir anche la morte.

[95] Qual duro contrasto di opinioni regna fra gli uomini occupati a vicendevolmente deridersi e disprezzarsi. Ben si esprime sopra di ciò Mr. de la Bruyère ne’ suoi Caratteri. I sentimenti di un sì avveduto autore mi pajono sì giusti che non stimo fuor di proposito il rapportarne le proprie parole: La noblesse, dice, expose sa vie pour le salut de l’Etat et pour la gloire du souverain; le magistrat décharge le prince d’une partie du soin de juger les peuples; voilà de part et d’autre des fonctions biens sublimes et d’une merveilleuse utilité; les hommes ne sont guère capables de plus grandes choses, et je ne sçais d’où la robe et l’épée ont puisé de quoi se mépriser réciproquement. Chap. 9.

[96] Sed ea animi elatio, quae cernitur in periculis et laboribus, si justitia vacat pugnatque non pro salute communi, sed pro suis commodis, in vitio est. Cicer. de Offic. libro primo, cap. 29.

[97] Vera gloria radices agit atque etiam propagatur, ficta omnia celeriter tamquam flosculi decidunt nec simulatum potest quicquam esse diuturum. Cicer. ibidem, libro secondo, cap. 12.

[98] Durante l’assedio di Troja, i Greci per riposarsi delle fatiche si ricreavano con simili giuochi. I Germani, rapporta Cornelio Tacito, erano sì dediti a’ medesimi, che doppo di aver tutto perduto giuocavano la loro libertà.

[99] Vedi quello che dice Barbeyrac, Traité des jeux, publié à Amsterdam, 1709.

[100] I Giuochi Carniani, che si celebravano in Sparta in onor di Apolline, Pausan. libro tertio c. 12.

[101] Sebbene gli Apollinarj, secolari, i giuochi grandi, piccioli e massimi, compitali, circensi ecc. fossero in onore dei Dei, pure non mancavano i Romani co’ medesimi di rammemorare il trionfo della libertà.

[102] Tali furono per esempio i giuochi, di cui parla Omero, inventati per i funerali di Patroclo; e quelli, cantati da Virgilio, dati da Enea in onor di Anchise di lui padre. Quelli di Luciano in onore di Adonide.

[103] Quelli istituiti da Aristide nella 75ma Olimpiade, o sia l’anno 275 di Roma, in Platea per celebrar l’anniversario degli uomini valenti uccisi alla battaglia data vicino a quella città.

[104] I Romani per indicare un uomo rozzo ed incapace di nobili sentimenti dicevano: Nec litteras didicit nec natare.

[105] Silent enim leges inter arma. Cic.

[106] Una riforma di costumi sarebbe necessaria principalmente in tutti gli stati dell’Italia; ma è possibile senza quella del clero e de’ regolari? No. Perchè? Eccone la ragione. La facilità di una riforma è in ragione del numero di quelli che sono interessati ad introdurla ed a mantenerla. I regolari e gli ecclesiastici, che fanno il sesto della nazione, avendo formati voti contrarj alla natura dell’uomo, senza perdere per questo la legitimità dei diritti che hanno di romperli, sono le tante persone interessate nella rilasciatezza, sempre più irritate dalla brama di vendicarsi dell’oltraggio fatto loro della crudeltà delle leggi, ed ognor più terribili perchè più venerate dalla cieca moltitudine, possiedono molte armi e arti segrete ed esclusive per corrompere. Dunque la riforma de’ costumi è impossibile senza la previa riforma de’ regolari e senza limitare il clero a quel picciol numero di persone necessarie, che costrette non sieno al celibato sforzato, ingiusto, perchè non è prescritto dal Vangelo. Se i costumi de’ protestanti sono più puri, se le famiglie sono più tranquille, meglio educate e più felici, se la virtù vi è più conosciuta e coltivata, se in fine le loro città sono cangiate in veri monasterj, sicuro rifugio dell’onestà, se ne trova nel picciol numero degli interessati alla corruzione la vera cagione. So che qualche leggitore mi capirà. Non soltanto i costumi si dovrebbero riformare in Italia, ma il lusso delle chiese. Quanto è vituperevole veder predicar la carità in que’ stessi luoghi ove non si osservano che tesori, magnificenze ed una pomposa ostentazione dei segni rappresentativi dell’opulenza, che, non circolanti, mantengono la nazione fra i gemiti e la miseria. Funeste contraddizioni! S’offrono aromati preziosi, ricche oblazioni, abiti sfarzosi e le più vane profusioni sopra quegli altari ove si commemora il sagrificio del Figliuolo dell’Uomo, che nacque, visse e morì da povero, e che, lungi di riunire le genti in magnifici e ben addobbati tempj, inculcava energicamente la semplicità con patetiche orazioni in aperte campagne o su i monti. Si predica la carità, lo ripeto, e poi, per non so qual fatale inconseguenza, per festeggiare la commemorazione di un cadavere spolpato, ma canonizzato, e di una vana cerimonia, si prodigan in apparati, cera, musica, fuochi artificiali ed altre simili vanità più d’oro che non abbisognerebbe per saziar mille e mille indigenti. E si è questa la religione di carità! Sì; ma è tanto degenerata che appena si può ravvisare. Mi si perdoni questa troppo longa digressione, è l’effetto naturale del troppo commosso mio cuore.

[107] Nel veder sostenere la legitimità della pena di morte pel furto, mentre che i grandi ed i principi non si fanno alcun scrupolo di sempre sminuire il misero mantenimento de’ soldati, parmi di udire gli uomini, nel formarsi delle società, gridar ad alta voce a quegli che raccolse le porzioni di libertà naturale: Vi accordiamo il poter di rubbare e di far ciò che v’aggrada, ma se noi ci lasciamo andare al menomo furto, toglieteci pur non solo la libertà ma anche la vita. Tali sarebbero allora le savie condizioni del contratto sociale.

[108] Questa pena può sembrar ridicola, ma se si riflette alla cagione, alla derision degli altri soldati contro chi l’ha meritata, se ne vedrà l’utilità. Quando si tratta di animar i principj di coraggio ne’ soldati, tutto divien sublime. Felice, il ripetterò, chi sa ben dirigger le passioni!

[109] Le idee sopra la popolazion militare ne risvegliano in me molte sopra quella degli altri stati della società. Più rifletto agli infiniti ostacoli oppostivi dal clero, più gemo della stupida imbecillità de’ nostri padri e fremer mi sento di orrore ne’ continui attentati del sacerdozio contro il principato e la felicità delle nazioni che volle intieramente assoggettare. Ben audace invero fu quel primo prete che osò dire: Uomini, vi proibisco i legami innocenti dell’imeneo co’ vostri congiunti. Guai a quel sciagurato che ardirà trasgredir questa mia legge. Armerò contro di lui non solo il braccio civile di cui mi veggo l’arbitrio, ma in nome di quel Dio che non li visita e che alcune volte li comanda, gli annuncio che il fosco velo della morte lo involgerà, e che sarà precipitato al sortir di questa vita nel baratro profundo ed orrendo di una eternità di tormenti. Se però mi indirizzerà le più umili preci, se contribuirà con somme rilevanti a sostenere il mio fasto, ad aumentar il mio orgoglio e ad accrescer le mie finanze, gli prometto di placar quell’ira celeste che non provocò, verserò sopra di lui a larga mano le grazie del cielo, delle quali, lungi di poter disporre, neppur le so meritare, e diveranno in fine tali vincoli allora non solo legitimi, ma una vera sorgente di prosperità. Sventurato genere umano! Queste sciagure che soffri, queste catene che ancor baci, questo braccio che ti colpisce, il dirò, non ha altra origine che qualche passaggio delle sacre carte assai oscuro, mal tradotto e peggio interpretato! Ma che dico mal interpretato? Non fu che troppo ben inteso da chi armar si volle dell’impostura per dominare.

[110] Vedi Emile.

[111] Le madri dovrebbero esser dirette da chi presiede all’educazione dei figliuoli, affinchè per mancanza d’istruzione prender non lascino a’ fanciulli viziose inclinazioni.

[112] Molti popoli del Settentrione mantengono tuttavia questo costume, come altresì gl’Indiani dell’istmo dell’America.

[113] Di rado i figliuoli castigati con rigore divengono uomini onesti. Locke Educ. cap. III.

[114] Credo, dice Locke, che la grand’arte della educazione consiste a fare a’ fanciulli di tutti i loro doveri un soggetto di piaceri e divertimenti. Educ. cap. IV.

[115] M’inganno! Potrei temerlo nel gettare uno rapido sguardo sui libri scolastici, tutti ripieni di giudiziose sentenze, morali precetti e questioni in un istruttive ed utili, degne invero de’ classici autori che gravemente le scrissero. Tali sono per esempio: Utrum chimera bombinans in vacuo possit comedere secundas intentiones? An ad hoc ut scientia subalternata sit scientia, debeas in eodem intellectu esse scientia subalternans?

[116] Gli Egiziani, i Greci ed i popoli i più noti per il loro valore invitavano la gioventù a questo divertimento, che credevano necessario ad animare il coraggio.

[117] Montesquieu.

[118] … Quae vindice nullo, | Sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat, | Poena metusque aberant nec verba minantia fixo | Aere legebantur, nec supplex turba timebat | Judicis ora sui, sed erant sine vindice tuti. Fab. V Metam.

[119] Licurgo fingeva di consultare Apolline. Quando Alcibiade volle persuader agli Ateniesi la guerra di Sicilia, come gli oracoli erano contrarj, guadagnando i sacerdoti ne fece sostituire altri a suo piacimento. Facendo parlare i sacerdoti giusta il suo desiderio, fingendo oracoli e visioni, Temistocle arrivò a far abbandonar agli Ateniesi la città per farli ritirare sopra le navi, colle quali riportarono la vittoria. Allorchè Lisandro tentò di roversciar il governo di Sparta, anche egli comminciò col finger oracoli e profezie.

[120] Ciascheduno sa le finzioni di Pericle, di Epaminonda e di altri capitani. Pirro fingeva sovente visioni. Alessandro faceva lo stesso, e non fu forse che per animar l’esercito che si fece creder figlio di Giove?

[121] Scipione l’Africano e Sertorio persuadevano alle milizie che le loro cerve li avvertivano delle operazioni con cui dirigger dovevano le loro intraprese.

[122] La celebra maga o profetessa siriana chiamata Marca di Mario, che lo avvisava di tutti i pensieri del nemico.

[123] Otto aquile volando con velocità si perdettero in una foresta. Marciate, legioni, grida allora Germanico, seguite le divinità tutelari e quegli uccelli arbitri della fortuna de’ Romani. Parla il principe, s’avanzano i di lui soldati, versano a gran copia il sangue e fan orrida strage di quelli di Antonio che, più resister non potendo a tanto valore, dopo di aver fate utili prodezze cerca lo scampo nella fuga. Tac. An.

[124] Il dire da un generale inesperto Se le ocche non voglion mangiare, che bevano, si sa come disanimò un esercito romano, che rimase sconfitto.

[125] Cambise, volendo vincer Sammenito alla battaglia di Pelusa, fece circondare il di lui esercito da certi uccelli chiamati ibis, assai venerati nell’Egitto. Gli Egizj vollero piuttosto fugire che tirare il loro dardi contro tali ridicole divinità. Quante volte non furono attacati e vinti gli Ebrej ne’ giorni di sabbato!

[126] Tali sempre furono i Gesuiti, non so se per lo spirito delle loro costituzioni o per una non mai interotta tradizione orale; la verità si è che in ogni parte della terra inalberarono lo stendardo di Felonia, oggetto su cui i principi trovato avrebbero materie più che sufficienti per condannarli, senza ricorrere ad accuse che, quando anche abbiano ogni apparenza di verità, sono di prova troppo difficile. Non imprenderò a provare se veramente abbiano uccisi monarchi; quel che è sicuro si è che la loro teologia è piena di massime contrarie alla sicurezza de’ sovrani, come lo dimostrano i scritti de’ loro dottori e per sino di quelli di cui si sollecita con tanto ardore la canonizzazione. E chi non fremerà in fatti, fra le molte che si presentano in ogni parte, nel leggere la sentenza pronunciata dal cardinal di Belarmino sopra l’assassinio di Enrico III? Eccola, è rimarchevole e degna di servirgli d’antifona nel suo officio, se giammai si ottiene di esporlo alla pubblica venerazione sugli altari: Non pertinet ad monachos cedes facere… Executio ad alios pertinet. Si osservi che i Padri della Compagnia vengono da me sempre chiamati Gesuiti, senza circonlocuzione o perifrasi, per non incorrere nelle scomuniche fulminate da’ santi Pontefici e dal sacro Concilio di Trento contro quelli che sono arditi a segno di loro contrastar un sì bel titolo. Tanto è il mio rispetto per le infallibili decisioni del Vaticano.

[127] Non pretendo con ciò di sostenere che non vi debba esser religione nelle mie truppe. Vi sarà osservata la dominante, e predicata da capellani dotti ed illuminati, capaci di farla amare, che, collegandola col ben del servigio, accenderanno i cuori alla virtù ed al valore.

[128] Se si desidera metter seriosamente un freno all’impostura, se si vogliono formar generazioni rischiarite e tolleranti, se si brama infine render felici le nazioni, tolgasi dalle mani del clero e de’ regolari l’educazione. Uomini orgogliosi, insultanti, persecutori, uniti in società per assoggettar le coscienze, che credano il loro istituto e le convenzioni che li avvincolano più sacre delle leggi de’ regni ove vivono, che hanno un capo residente in una corte estera a cui sottomettono le voglie ed i pensieri, che infiammano i teneri cuori della gioventù con confraternite, conventicoli, congregazioni e mille prattiche puerili e superstiziose, saranno forse capaci di formar magistrati, militari, utili e virtuosi cittadini, e sudditi fedeli?

[129] Le prede non dovrebbero esser divise col principe, ma accordate a chi le fa. Una tal ripartizione disonora il sovrano e disanima chi serve. Dirò di più che l’intiero possesso di ciò che si prende sopra il nemico è una delle cagioni della gran superiorità degli Inglesi sopra tutte le altre nazioni.

[130] Le prosperità acciecano la mente a chi non ha la forza di osservarle con una perfetta serenità di animo, imperciocchè tolgono il vigore allo spirito di pensare a’ mezzi di conservarle.

[131] La mollezza ed il riposo possono essere troppo funesti in chi comanda. Un momento perduto più non ritorna. In fatti, come avrebbe mai potuto Prospero Colonna passare il fiume Adda, se più vigliante Lautrec, in vece di comandare che non lo svegliassero, profittato avesse degli avvisi di Ugo Pepoli? Portacchi, note sopra Guicciardini.

[132] Omnium somnum illius vigilantia defendit, omnium otium illius labor, omnium delicias illius industria, omnium vacationem illius occupatio. Seneca de Consol. ad Polyb.

[133] Ciascun sa quanto stata sia nociva agli Spartani la gelosia del re Agesilao per Lisandro.

[134] Pirro doppo una vittoria, essendogli dato dal proprio esercito il titolo di grande ed invincibile, Lo son col soccorso delle vostre braccia, rispose, e del vostro valore.

[135] Lo stabilimento de’ consoli scacciati i re e quello dei tribuni militari scosso il giogo dei decemviri.

[136] L’azione di D. Rodrigo colla figlia del conte Giuliano rese i Mori padroni delle Spagne, e la violenza di Monusa contro della sorella di D. Pellaggio ristabilì la monarchia.

[137] Temistocle dicendo una volta che la più bella dote di un capitano era di saper presentire e prevedere i disegni del nemico, Aristide gli soggionse esser quella una dote necessaria, ma esservene un’altra di cui non ne parlava non meno importante e più luminosa, cioè di aver le mani libere e di non lasciarsi vincere dall’oro.

[138] Non posso intendere lo spirito dei sistemi di quei generali che sempre servonsi dei termini i più aspri con chi loro deve ubbidire. Qual piacere possono aver essi a commandar ad anime avvilite e tremanti? E sono forse gli ordini dei Laudon meno eseguiti di quelli di tanti comandanti che pur troppo conobbi, ma che non vo’ nominare, che con modi ributanti dispettan chi li ascolta? Le di lui vittorie lo provano.

[139] L’attività in ogni punto, di modo che dir si possa di loro ciò che Lucano scrisse di Cesare: Nihil actum credens quum quid superesset agendum. Lib. V, 637.

[140] Repentinae irruptiones vim omnem in impetu habent. Strada, de Bello Belgico.

[141] Il saggio Epitetto diceva: potete essere invincibile, se non intraprendete che combattimenti il cui successo non dipenda che da voi e la cui vittoria sia nelle vostre mani.

[142] Chi urta è quasi sicuro di roversciare, la ragion si è che un uomo in moto è assai più forte di quello che ne aspetta l’urto di piè fermo. La celerità della massa urtante diminuisce in proporzione della massa in riposo. Da questo principio ne viene che la profondità della nostra milizia per urtare dovrà esser in ragione di quella del nemico che ha da urtarsi. Una massa uguale ci manterà sempre in superiorità. Che se il nemico marcia per attaccarci, col multiplicare la nostra celerità devesi prevenire il di lui urto. Ardirei dire che tutte le operazioni militari ed i precetti della tattica dipendono in qualche sorta dall’urto, come appunto tutte le funzioni del corpo animale dipendono dal moto del cuore.

[143] Zenofonte ed il filosofo Crisippo stimavano esser cosa indegna il tender insidie fraudolenti al nemico.

[144] Lisandro, sprezzando il coraggio e l’eroismo eccessivo di coloro che vogliono dover tutto al valore, disse più volte che ovunque non può arrivare la pelle di lione, bisogna cucir quella della volpe.

[145] Tarquinio l’antico, vedendo un giorno che i nemici avevano il Teverone che ne separava il campo, ma che li univa un ponte di comunicazione, prese una gran quantità di battelli pieni di pece, solfo, legna secca ed altre materie combustibili, mise il fuoco, lasciandoli scorrere a seconda del fiume, ove, favorito il suo disegno dal vento, abbrucciò il ponte, e così dividendo il nemico lo sconfisse. Annibale dovette in parte la vittoria di Canne ad un vento impetuoso, e quella della Trebbia alla pioggia. Il console Lucio Cornelio Scipione disfece parimenti le truppe di Antioco armate di freccie col ajuto di un tempo piovoso che ammolliva le corde degli archi. Cesare, Sertorio ed i più esperti capitani fecero le stesse intraprese. Il principe Eugenio riportò le vittorie di Belgrado e di Malplaquet col favore di una nebbia. Carlo XII si servì del vento con gran felicità in un affare contro i Sassoni.

[146] Perseo re di Macedonia accellerò la perdita del proprio regno col riffiutare il soccorso de’ Bastarni e di altri popoli valorosi che si erano offerti a servirlo.

[147] Oltre le antiche battaglie di Ipsus e di Filippi, che di vinte divennero perdute per una simil cagione, le più famose fra le altre sono quelli di Levres e di Nazeby, la prima funesta ad Enrico III e la seconda pur troppo fatale a Carlo I, ambi re d’Inghilterra. Gli Spartani non inseguivano il nemico che quanto era necessario a render compiuta una vittoria, stimando una viltà il tagliar a pezzi chi fugge. Gl’inimici, sapendo che bastava non resistere per non essere ucciso, prefferivano ordinariamente la fuga ad una ostinata resistenza. Pochi squadroni bastan per inseguir una truppa fugata.

[148] Agesilao, dovendo passare per diversi paesi affin di ritornar nella Grecia, ne fece chieder il passaggio a’ rispettivi sovrani. I Tralli pretendendo cento talenti, il re disse a’ loro inviati: e perchè non sono eglino venuti per riceverli? Marciò in seguito contro di loro, li sconfisse e seguitò il suo cammino. Avendo chiesto il passaggio anche al re di Macedonia, avendoli quel principe fatto risponder che vedrebbe, il bravo Spartano soggionse: Ebben, che veda pure con suo comodo, e frattanto passeremo. Doppo la battaglia di Pultava, dovendo il general Crassau per ritornar nelle provincie svedesi passar per quelle del re di Prussia, lo fece malgrado il riffiuto, ma sempre però osservando la più esatta disciplina.

[149] Si sovvenga il leggitore dei celebri esempj di Fabbio Massimo e di Marcello, l’uno con un oficiale dei Marsi e l’altro con un di quelli di Noli.

[150] Hist. lib. V.

[151] Aul. Gell. Noct. Attic. libro XV, cap. 31.

[152] Avendo un cortigiano detto al re Antigono, che si preparava a prender Atene, che presa la guardasse con buon presidio, quel monarca rispose che non conosceva chiave migliore e più forte dell’amicizia de’ popoli.

[153] Non vantino gli uomini crudeli la durezza delle leggi a conservar le conquiste, servasi piuttosto il vero desposta della beneficenza che fece conservar a Teodorico re degli Ostrogoti l’Italia, la mantenne ricca e felice finchè regnò; e se sotto i di lui successori ricadde nel sen delle miserie e delle ribellioni, devonsi tali sconvolgimenti alla crudeltà con cui, rendendosi odiosi, facilitarono la loro sconfitta ed i trionfi di Giustiniano.

[154] Sopra di ciò mi ricordo di un bel passaggio di Fontenelle, che vo’ rapportare per far meglio sentire la stravaganza di quelle nazioni che si sono credute in diritto di far tali conquiste per la decisione de’ loro teologi; eccolo: Ah! Que n’avions-nous des vaisseaux pour aller découvrir vos terres, et que ne nous avisions-nous de decider qu’elles nous appartenoient! Nous eussions eu autant de droit de les conquerir que vous en eûtes de conquerir les nôtres. Dial. fra Fern. Cort. e Mont.

[155] In vece di prendere precauzioni, volle farsi medicare dal medico di Sura, farsi radere dal suo barbiere ed andar a pranzo senza guardie.

[156] Un tal fatto renderà la memoria di Carlo Emanuele re di Sardegna assai più gloriosa della di lui intrepidezza nelle battaglie, delle vittorie riportate e del più dolce e saggio governo con cui rende felici i suoi popoli. Accade l’anno 1758, il dì 24 novembre al far del giorno. Lo sventurato avea già passate le prime anticamere ed era arrivato a gran stento da un bravo gentiluomo delle guardie, Maurizio Vignet della provincia del Sciablete, discendente dall’illustre famiglia Vignati che fu sovrana di Lodi. Il re non volle che si esaminasse il reo, che fece rinchiudere nello spedale dei pazzi.

[157] Gli Inglesi non eran forse popoli feroci quando Enrico V salì al trono? Pure, addolciti al vedere nel giovane monarca tante virtù, giammai mostrato non avevano fino allora per verun altro lor re sensi più vivi di rispetto, di ammirazione e di amore.

[158] Nihil est enim amabalius virtute, nihil quod magis illiciat ad diligendum; quippe cum propter virtutem et probitatem eos etiam, quos nunquam vidimus, quodam modo diligamus. Cicero. de Amic. cap. 8.

[159] Il faudroit même que le produit du travail de l’assassin fut dévolu à la famille qui a le plus souffert de ses crimes. C’est le droit de la justice distributive. Vérité trop souvent répétée, mais trop peu sentie.

[160] Dans ces premiers tems il étoit plus facile de priver les hommes de la vie que de les priver de la liberté. Si la même somme de force dans la formation de la société avoit pû suffire pour ôter la liberté à ceux auxquels on ôtoit la vie, la peine de mort ne seroit peut-être jamais entrée dans aucun code. C’est donc la foiblesse qui a enfanté la cruauté, et c’est la crainte qui a armé le dépositaire de la justice d’un glaive destructeur de l’humanité.

Ces deux notes m’ont été suggérées par une dame qui joint aux agrémens de son sexe un esprit philosophique.

[161] Que les philosophes se gardent de jamais proposer de semblables difficultés. Dans les mains des tyrans, elles deviendroient des armes terribles. Mr. Linguet n’en a pas apparemment prévûes les conséquences affreuses.

[162] On les verra dans le chapitre XXXVIII du premier volume de cet ouvrage, qu’on prie le lecteur de parcourir de nouveau.

[163] Milan, dans tes flatteuses espérances, reconnois le cœur paternel de ton maître!