Idee politiche da non pubblicarsi

Pietro Verri
IDEE POLITICHE DA NON PUBBLICARSI [1790]

Testo critico stabilito da Carlo Capra (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, VI, 2010, pp. 389-520)

 Prefazione

Malgrado il Dispotismo sotto del quale sono nato e cresciuto, le mie idee non sono quelle d’uno schiavo, e i miei sentimenti sono quelli d’un uomo che sente la dignità propria. Paragonandomi co’ miei con­cittadini conosco che agli occhi loro debbo comparire stravagante, pericoloso e imprudente. Se fossi nato nell’Inghilterra, o nella Fran­cia, io sarei un uomo come gli altri; nato nell’Italia, e singolarmente nel Milanese, io non posso sfogare i miei pensieri se non collo scri­verli, e per non turbare la placidezza della mia vita rinunziare alla idea di pubblicare un libro che non conciterebbe che paura e odio contro del suo Autore. Ombre sacre dei Bruti a qual depressione son giunti i vostri eredi! L’unica medicina che potrebbe tentarsi sulla massa avvilita d’una nazione ingegnosa, e un tempo sede della virtù, sarebbe la vergogna della propria abiezione. Forse la rivoluzione francese s’estenderà negli Svizzeri, e avremo vicino un paragone che apra gli occhi ai figli nostri. Lo voglia il buon destino; amo la mia Patria, compiango i suoi mali, e morirò prima che ne disperi il risor­gimento.

PENSIERI SULLO STATO POLITICO DEL MILANESE NEL 1790

vel duo, vel nemo

Non ho parte alcuna ne’ pubblici avvenimenti, nè alcuno mi ha invi­tato a occuparmene. Vedo molti che se ne sono assunto l’impegno, e sono persuasi di saperne quanto basta. Bramo che vengano ricom­pensati colle benedizioni a venire. Frattanto io forestiere alla mia Patria, avendo una maniera di ragionare Europea e non Milanese, per genio scrivo in questo libriccino quello che avrei detto e scritto a nome pubblico, se vi avessi avuta parte. Cardano abbandonò la patria; Corio, Calchi, Giulini vennero a morire senza alcun pubblico onore. Cavalieri ignoto a noi fu ammirato dagli esteri. Frisi fu tra­scurato e contraddetto; Donna Maria Agnesi passa la sua vecchiaja in un Ospedale. Beccaria non ha ricevuto applauso che dai forestieri; è glorioso per me di trovarmi in così buona compagnia. Faccia il buon destino che i Signori Delegati pensino e scrivano meglio di quello che ho fatto io unicamente per dare sfogo alle mie idee sulla felicità pubblica, argomento prediletto delle mie azioni e de’ miei pensieri.

Governo Spagnuolo.

Dappoiché colla morte di Francesco Secondo Sforza il Ducato di Milano passò allo stato di Provincia della Monarchia di Spagna, e venne a presedervi un Governatore in nome del Sovrano, il governo di questo paese fu un vero mostro politico. Un governatore scelto fra i più illustri soggetti della Corona veniva a risedervi per tre anni, e talvolta era prolungata la sua commissione. Egli aveva il sommo comando dell’Armata ed era Luogotenente del Monarca. Ma un forestiere, per lo più militare; ignorando la lingua, le leggi, i sistemi; alla testa d’un governo che era un vero intricatissimo labirinto, nel quale i nazionali medesimi più volte trovavansi nella incertezza; avendo da un lato il corpo rispettabilissimo del Clero che faceva valere i privi­legi, le imunità, la giurisdizione propria; dall’altro, il corpo potente del Senato e de’ Togati padroni della vita, delle fortune private e pub­bliche, e degli affari; con a fronte il corpo non meno poderoso de’ nobili che possedeva il secreto del catastro de’ carichi delle terre, reg­geva la vittovaglia della Città, aveva ligie tutte le arti, i mestieri, la mercatura, e i cittadini tutti; un Governatore in tal sistema politico ritornava nella Spagna tanto ignorante delle cose Milanesi quanto allor che vi era venuto.

Il Clero era immune dalle gravezze sulle terre, pretendeva qualunque ecclesiastico di non dover contribuire punto al tributo; e que­sta pretensione si estendeva persino ai coloni de’ loro fondi ed ai generi di loro consumazione. Le loro persone erano sacre e inviola­bili, nè mai avrebbe osato la forza del Sovrano di arrestare un eccle­siastico per qualunque più atroce misfatto. Le loro case erano d’asilo a chiunque vi si ricoverasse, per modo che vivevano nella loro patria indipendenti affatto dal loro Sovrano. Le carceri dell’Arcivescovo e della Inquisizione, gli sbirri da essi dipendenti servivano alla forza e giurisdizione ecclesiastica adoperata anche su i cittadini laici; si videro scommunicati il Governatore, il Presidente del Senato, il Gran Cancelliere ecc. allorchè vollero fare ostacolo all’esercizio di tale giurisdizione. L’Arcivescovo teneva affezionati i primarj della Toga e del corpo nobile collocando ne’ beneficj migliori i loro fratelli, figli, o bene affetti.

Il Senato, corredato nella sua instituzione di somma autorità e operando immediatamente in nome della Maestà del Monarca, si repu­tava maggiore del Governatore istesso; la vita, la libertà, le fortune d’ogni cittadino erano abbandonate al potere illimitato di questo corpo terribile, che si credeva sciolto dai rigidi principj di ragione e osava dire che giudicava tamquam Deus. Oltre gli affari di Giustizia molto s’ingeriva anche nelle cose politiche, registrandosi presso del Senato tutti i rescritti Sovrani. Questa somma dignità collocata in un corpo di Giurisperiti venne talvolta umiliata dalla potenza militare dei Governatori; i togati però d’ordinario andavano concordi col ceto ecclesiastico, e reciprocamente giovavansi e avevan comune interes­se di allontanare il Governatore dall’immischiarsi ne’ loro affari. L’azienda della Camera era abbandonata ai Togati, e difficilmente giugneva il Governatore a penetrare i misteri del bilancio Camerale. Frattanto in pochi anni alcuni Togati ammassavano un patrimonio cospicuo, e bastino i due soli Presidenti Arese e Clerici per giustificazione. Il corpo de’ Patrizj diriggeva il Banco S.t Ambrogio, rego­lava la vettovaglia e le strade, diriggeva tutte le maestranze delle Arti, gli Ospedali, Orfanotrofii e tutte le pie fondazioni, distribuiva le doti e le lemosine. Qualunque Cittadino cercasse d’essere Sindaco, Can­celliere, Cassiere, Agente, Medico, Chirurgo, Ingegnere ecc. di que­ste pie fondazioni doveva procurarsi la protezione d’un Patrizio, e con questi mezzi i nobili favorendo i protetti o dall’Arcivescovo o dai Togati si appoggiavano a questi due corpi. Così era formato real­mente un governo, in cui tre corpi si dividevano il dispotismo, la­sciando la rappresentanza del Sovrano al Governatore, e al vero Mo­narca non rimanendo se non la nomina alle cariche, l’imagine sulle monete, e il nome alla testa degli editti.[1]

 Carlo VI.

Terminata la dominazione della Spagna è subentrato l’Imperatore Carlo VI; innamorato del sistema spagnuolo, lasciò sin che visse la forma di Governo che era nel Milanese, e forse ebbe anche in ciò l’avvedutezza di tenersi ben affetti i nuovi sudditi; giacchè l’abitu­dine può nella massa degli uomini assai più che la ragione, e in un paese illanguidito e oppresso da più secoli di cattivo governo ogni novità fatta dal Principe trova la ripugnanza del pubblico. Anche la luce è penosa agli occhi infermi e conviene per gradi rinforzar prima l’occhio, al che non si è poi voluto por mente. Sotto di questo Prin­cipe i Corpi pubblici vennero onorati; la Città ebbe il trattamento de’ Grandi di Spagna. Alcune famiglie distinte per la nascita e le ric­chezze le ascrisse al Grandado di Spagna; decorò del Toson d’oro alcuni Milanesi. Due Milanesi vennero collocati Vice Re nel Regno di Napoli, altri vennero adoperati nel ministero delle Corti. Nelle sue armate alcuni Milanesi giunsero alle prime dignità. La carica luminosa di Castellano di Milano venne affidata al Maresciallo Mar­chese Visconti, cosa che non so essere mai per l’addietro accaduta di collocarvi un nazionale. I Governatori sotto di Carlo VI furono moderatissimi, e lasciarono il regolar corso agli affari il Principe Eugenio di Savoja, il Principe di Lewenstein, il Conte Colloredo, il Conte di Daun, e il Conte Traun. I Tributi arbitrarj e rovinosi sulle terre si radunarono nella sola massa chiamata Diaria, e quindi si respirò sotto il governo di Carlo VI quanto lo comportava la condi­zione de’ tempi e le invasioni, alle quali il paese venne esposto. I peg­giori tempi per un governo dispotico sono quando il Sovrano vuol far tutto, o quando indolentemente s’annoja degli affari. Nel primo caso tutto si sconvolge dalla smania di crear nuove cose: nel secondo tutto si calpesta e divora dai potenti Ministri. Carlo VI si tenne a un punto di mezzo conservando le antiche pratiche municipali e vegliando per­chè non venisse oltraggiata la provincia. Ma tale felicità è sempre pre­caria quando a un popolo manchi una costituzione.

Maria Teresa.

Maria Teresa Imperatrice Regina, che credeva un male tutto ciò che era spagnolismo, e che se n’era annojata vivendo e regnando suo Padre, appena rimase tranquilla sul Trono ascoltò i progetti del Con­te Pallavicini, genovese ambizioso e attivo che aveva in mente di co­mandare in questa Provincia. Ottenne prima il carattere di Pleni­potenziario, indi fu Governatore. Costui nato cittadino libero d’una libera Patria non ebbe animo elevato a segno di conoscere la dignità propria, e per vanità di comandare si fece servo; e avrebbe pur vo­luto degradare gli uomini allo stato di schiavitù per far egli la parte d’un Despota. Nel suo soggiorno alla Corte di Vienna egli fomentò la nazionale prevenzione degli Austriaci contro degl’Italiani, e trava­gliò a imprimere nell’animo di Maria Teresa una pessima opinione contro de’ Lombardi, acciocché qualunque lamenta nostra fosse screditata e di nessun effetto contro il volere di lui. Una Principessa ama­bile e sensibile si irritò facilmente contro d’un popolo che le si fece credere sleale e avverso d’animo. Ella formossi una idea esagerata della scostumatezza de’ Milanesi, presso de’ quali ella credette che la Religione si riducesse a feste e processioni e scioccherie di streghe, senza alcun principio di virtù; credeva che le donne fossero prosti­tuite a una dissolutezza generale, e una Principessa gelosa ne freme­va; credeva querula, insidiosa, infida, falsa in corpo tutta la nostra generazione; e con tali funeste prevenzioni radicate in una Sovrana amabile, pia, costumatissima si alzò quel muro inespugnabile che ci separò per sempre da lei e lasciò libero il campo ai Ministri di deprimere e vilipendere il nostro Paese. Pallavicini, è vero, conobbe le Finanze e vi pose ordine; conobbe il bilancio Camerale e assicurò il pagamento ai creditori della Camera, abolì gli abusi, rettificò i meto­di, portò ordine e luce. Promosse la perfezione del Censo sulle terre, pose argine all’autorità de’ Senatori, ciascuno de’ quali da sua casa osava spedire ordini in nome del Sovrano; ma in vece di sgombrare il dispotismo, in vece di creare una norma stabile e fissa di governo, ossia una costituzione, egli lasciò la Provincia nella abjezione, s’ap­propriò il dispotismo e colla riunione rese sempre più funesta la prepotenza Ministeriale. Dapprima molti potevano far del male, ma molti ancora potevano preservare dal male un cittadino; poi, radu­nata la forza in un solo, non rimase più riparo contro l’ira, l’odio e la vendetta di lui. Pallavicini odiava il conte Biancani, lo minacciò di volerlo far impiccare, Biancani fuggissene verso degli Spagnuoli, i quali allora avevano invasa parte del Milanese. Venne poi arrestato. Pallavicini deviò dalla forma regolare e si formò una Commissione per giudicarlo. Maria Teresa l’autorizò. Questa Commissione lo condannò a perdere la testa come desertore e fellone. Vi fu un uomo dabbene nella Commissione che rimase solo del parere che non fosse provato sufficientemente il delitto, e merita d’essere nominato, il Vi­cario di Giustizia Bazzetta, che poi non fece più fortuna. Sulle trac­ce del Pallavicini camminarono i successori, quindi al Senato si tolse ogni ingerenza nell’Università di Pavia, si levò ogni autorità per le cose dell’economato ecclesiastico, si levò dalla dipendenza del Sena­to il Protofisico, si spogliò il Presidente del Senato del dritto di sup­plire alle assenze del Gran Cancelliere. Si ridusse il Senato allo stato di mero Tribunale di Giustizia, e il Governo si rese padrone del­l’Università di Pavia, delle cose ecclesiastiche e della facoltà Medica e sue dipendenze.[2] Il Ceto ecclesiastico sotto Maria Teresa venne sot­tomesso a pagare il tributo come ogni altro cittadino, gli asili furono aboliti, abolita l’Inquisizione e tutte le carceri de’ Frati, assoggettati i sacerdoti per i delitti al Tribunale come ogni altro, tolta la censura de’ libri agli ecclesiastici, e il Governo s’impadronì della censura. Il corpo de’ Nobili vide comparire un Regio Ministro a presedere al Banco S.t Ambrogio, un Regio Delegato a tutte le Civiche adunanze; colla pubblicazione del Censo perdette l’antico dritto di ripartire il carico; colla abolizione delle Università perdette la giurisdizione su i corpi delle Arti e mestieri, e tutta questa massa di autorità tolta a que­sti tre corpi sotto Maria Teresa venne collocata nel suo Ministro Ple­nipotenziario, che non intendendo gli affari, geloso della autorità, s’era abbandonato ad alcuni Secretarj, dai quali ostilmente era villaneggiata la nazione. Così il Governo dal 1760 al 1770 potè a ragione paragonarsi a quello della Vallacchia, mentre un Ospodaro rivestito del Sovrano potere, colla sua unica volontà anzi coll’unica volontà de’ suoi scrivani dispoticamente dispone. Povero popolo! Nel tempo in cui la Sovrana delusa ci credeva avversi alla dominazione di Lei, avess’ella almen vedute le chiese ripiene de’ Milanesi palpitanti, al­lorch’ella venne attaccata dal vajuolo, impetrando dal cielo la sua guarigione colle lagrime! Frattanto ci teneva depressi un Ministro invisibile e rintanato fra una galleria di cattivi quadri, fra una libre­ria di volumi conosciuti pel solo frontispizio, segnando comoda­mente senza leggere i decreti che gli presentavano i suoi scrivani favoriti. Una sola parola incautamente proferita dal Nobile Vitali fu cagione per cui di notte venisse circondata la sua casa, la sbirraglia portasse la desolazione alla Dama sua cognata e agli altri parenti, ed egli venisse come un malfattore incarcerato e per più mesi privato della libertà. Una sola vivacità senza conseguenza del Marchese Gorini cagionò una simile violenza, e un uomo di settant’anni di probità conosciuta e colto venne posto in Castello. Durante la notte gi­ravano per la Città de’ Commissarj e leggevano le carte che si trovavano nelle tasche de’ Cittadini. Di giorno gli sbirri sparsi per le strade gettavano le stanghe ne’ raggi delle ruote di quelle carrozze che a loro giudizio correvano, e la Contessa Brebbia nata Lonati fu la prima a trovarsi così sorpresa. I Fermieri Generali collegati cogli scrivani erano frattanto gli arbitri del Paese, e non venivano promos­si alle cariche se non i loro fautori e dipendenti, nè dal Trono emana­vano onorifici diplomi che su tal genia; tanto arditamente era delusa da’ suoi Ministri l’Imperatrice Regina.[3] Se taluno avesse ardito di re­carsi alla Corte e rappresentare a pie’ del Trono i danni, correva gran rischio.[4] Se si presentava al Ministro doveva tentare talvolta per più settimane prima di poterlo vedere, indi mediante uno zecchino al Ca­meriere Sig.r Diletti veniva introdotto, e si trovava un corpulento e timido uomo che sospettava che si avesse un pugnale nascosto, ascoltava con impazienza, nulla comprendeva, si conosceva prevenuto che tutto fosse cabala o raggiro, e questo fu il governo veramente tirannico che soffrimmo durante il ministero del Conte di Firmian; il quale, morendo nella state del 1782, lasciò una schiera di poveri creditori che non saranno pagati. Così un Ministro scelto per impedire ogni pre­potenza esercitava il suo ufficio, e riduceva gli uomini benestanti alla scelta o di aver nemico un uomo armato del sommo potere, ovvero di cedergli la somma del denaro ch’ei chiedeva colla sicurezza di non mai più riaverla. Così Maria Teresa fu servita nel Milanese!

Venne finalmente il Reale Arciduca Ferdinando, pieno di attività, di facile penetrazione, levò immediatamente dalle mani de’ subalterni la verga di ferro colla quale eravamo percossi. Da quel punto sino al 1786 non v’è stato uomo al quale sia stata fatta sorpresa o soverchie­ria, la libertà individuale fu rispettata, ognuno potè accostarsi al Governatore e presentargli la sua ragione. Accadde quello che sem­pre succede ne’ paesi soggetti al dispotismo, cioè che avendo il potere un principe illuminato e buono, cessarono i mali pubblici e privati. Ma la condizione d’un popolo è sempre miserabile e precaria quand’ella non è appoggiata ad alcuna costituzione, ma semplicemente dipende dalla casuale volontà di chi è posto a governarlo.

Giuseppe II.

Giuseppe Secondo conobbe che il sistema era viziato; ma non conobbe che una contemporanea e universale distruzione delle leggi e delle pratiche d’un Paese è un rimedio peggiore del male. Non fece alcun caso della opinione, che pure è la Regina del mondo, e fece sentire agli uomini tutta la illimitata potenza d’un Monarca, che non conosce altra norma fuori che il suo volere. Senato, Toga, Magistrato Camerale, Tribunale di Provvisione, Vicario di Provvisione, Podestà, Giudici al Gallo, Cavallo, Vicario Pretorio, Congregazione dello Stato, Seminarj Vescovili, altari sulle strade, Confraternite, monache, frati, Collegiate, tumulazione de’ cadaveri, amministrazione di pie fonda­zioni, tutto venne in un sol colpo distrutto. Si videro i Senatori senza alcuna distinzione e mutato titolo andare avviliti al nuovo Tribunale. Scacciati i seminaristi elvetici dal loro Palazzo ed ivi innalberata l’Ac­quila, e collocatovi un nuovo Consiglio di Governo. Tolta al Gover­natore Arciduca ogni ingerenza, e condensata la somma potenza nel solo capo di quel Consiglio, dal quale dipendeva il destino d’ogni Ministro inferiore, incerto sempre d’essere congedato da un giorno all’altro. Chi volle farsi sacerdote o ottenere carica ecclesiastica non ebbe più che il solo Ministro; chi bramava impiego civico dovette impetrarlo dal solo Ministro; chi bramò nelle pie fondazioni impiego dovette prostrarsi al solo Ministro; il quale come arbitro della nuova Police ebbe la facoltà di carcerare e condannare persino a un deter­minato genere di pene afflittive e disonoranti senza trafila giudizia­ria qualunque Cittadino. Ciascuno rimase sbigottito a tale spettacolo d’uno smascherato dispotismo. Nuova forma, metodo, vocaboli eb­bero i Tribunali di Giustizia. Comparvero nuovi Magistrati col titolo d’Intendenti Politici signoreggiando i Consigli Municipali delle Città, alle quali non fu più lecito di opinare o impetrare se non per bocca di rappresentanti scelti dal Governo e coll’approvazione di questi commessi dal Governo. Le Monache scacciate dai loro ritiri diven­nero un oggetto di derisione per alcuni, e di compassione per molti. Un giardino pubblico formato dove risedeva il silenzio e il ritiro delle Celestine; le case della Città numerizate, le lampadi della illumina­zione poste nelle strade; le guardie della Police venute a Milano dalla Germania col pretesto di tenere in ordine la Città marciando armate dapprincipio di bastone, che a loro talento esercitavano sulla pa­zienza degli avviliti cittadini,[5] nè di ciò solo contente di tempo in tempo per tenere la Città in ordine costoro lasciarono correre de’ colpi di fucile sulle strade, e uccisero qualche cittadino.[6] Degli uomini benemeriti si videro scartati e dimessi; de’ favoriti che non avevano reso alcun servigio al Principe si videro innalzati; nuovi supplizi inventati, si bollarono sulla faccia i rei, si pensò a dare una lenta morte opprimento la respirazione con pesanti masse di ferro e impe­dendo il moto delle membra, e limitando persino l’acqua ai condan­nati, senza che tali crudeltà servissero nemmeno d’esempio, perché esercitavansi nelle secrete carceri. Si creò una capricciosa divisione ne’ delitti formando una classe di delitti politici, e con questo voca­bolo si stabilì che il Capo del Consiglio Governativo senza formalità di giudizio, di solo suo ordine, potesse condannare anche a pene afflittive e disonoranti senza altra difesa o processo.[7] Il Corpo eccle­siastico venne contenuto non solo, ma in faccia del popolo degra­dato. I Commissari entrarono in molti monasteri e scacciaronvi le monache, molti conventi di frati vennero distrutti; tutte le Confra­ternite in un punto vennero abolite, molte chiese distrutte, vendute e profanate; annientate molte festività, proibite le processioni, tolte ai parrochi le loro parrocchie, e istituito nuovo riparto. Tolta a Roma ogni nomina ai beneficj, appropriatesi al Governo le nomine, obbli­gati i Regolari a staccarsi dai loro Generali, proibite le solennità ai Santi Patroni delle Chiese, piantata una Teologia sola nell’università di Pavia, la quale riduce a mera parola la primazia del Pontefice Romano, e insegna una crudele e ingiusta dottrina su i bambini morti prima del Battesimo, sulla predestinazione e sulla grazia. Queste rapide operazioni eseguite senza preparare la pubblica opinione, e con violenza avvilirono il corpo de’ Ministri della Religione, e anneb­biarono nel volgo istesso le opinioni religiose, e con esse la moralità. Il Corpo de’ Nobili perdette tutto, poiché il Ministro Regio nominò alcuni che rappresentassero le nuove Congregazioni Municipali, avvocò a se medesimo tutte le pie fondazioni, incorporò nel Monte Regio il Banco S.t Ambrogio, e quindi il Presidente del Consiglio di Governo riunì nella sua persona tutta la podestà legislativa, esecu­trice giudiziaria e dittatoria; nessuno potè più sperare alcun impiego o nella cariera ecclesiastica, o nella municipale, senza il favore del Ministro. Si videro persino tutti i mendicanti della Città improvvisa­mente e con universale sbigottimento posti in carcere; indi poichè troppo costava il pane che consumavano vennero rilasciati con giu­ramento di non più mendicare, giuramento che venne deluso al momento stesso dalla necessità. Venne distrutta la Congregazione delle Stato acciocchè non vi fosse più alcuno che avesse diritto di rap­presentare al Monarca i mali che affliggessero la Provincia. I Mini­stri nazionali arbitrariamente e senza nemmeno che apparisse un Dispaccio Sovrano vennero esposti ad essere dimessi, ciascuno do­vette tremare e una onorata fermezza d’animo invisa al Despota venne condannata alla inazione e allo scarto senza riguardo alcuno ai servigi prestati. Due Toscani furono posti a presedere ai primi Tri­bunali di Giustizia, un suddito Veneto fu posto Capitano di Giustizia e Capo della Police, e i Milanesi che per lo passato avevano coperto sempre tai cariche vennero anche in ciò avviliti. L’asprezza delle maniere e l’insulto resero ancora più amara una tale rivoluzione, la quale realmente ha ulcerati gli animi di tutti.

Di tante mutazioni seguite alcune poche sono in bene, ma le più sono in male. Dalla serie delle cose accennate ne risulta una verità con evidenza, e questa verità è che il Milanese da più secoli geme sotto del dispotismo, non essendovi alcuna costituzione che valga a porre alcun limite a qualunque volere del Monarca o del Ministro rivestito del potere di Lui. Ciascuno de’ primarj fra i corpi dispotici sotto dello Spagnuolismo era padrone di togliere la libertà a qua­lunque cittadino per innocente ch’ei fosse, e per mancanza d’ogni altro titolo si faceva per soddisfazione. Fu tolto questo ingiusto po­tere ai Corpi, ma in vece di eliminarlo se lo appropriò il Ministro; il qual cambiamento rese bensì più facile il rimedio col tempo succes­sivo, avendo a un punto solo condensato il male, ma non liberò gli uomini da quello stato di abbiezione, che è l’obbrobrio della specie umana. Anzi ridotto l’assoluto potere a un sol punto, più versatile e attivo si mostrò con cambiamenti di sistemi innalzati, diroccati suc­cessivamente con inquietudine continua del popolo e con nessuna gloria del Principe, il quale colle frequenti novità fa conoscere al po­polo di avere avventurate le leggi senza prima averle esaminate;[8] e tanta è la voglia che ciascun Ministro o subalterno ha di fabbricare sulle sue idee un sistema che persino ai vocaboli si volle far subire un poco giudizioso cambiamento[9] e senza riguardo alcuno ai rispet­tivi diritti e alle reciproche azioni de’ corpi morali si pensò a taglia­re in nuova forma le provincie dello Stato, il che si eseguì in parte, e non si potè compassare in tutto come sarebbesi voluto, poiché i si­stemi automatici e regolari al primo aspetto talvolta riescono ineseguibili.[10]

Epoca del 1790.

Ora la Maestà di Leopoldo Secondo ultroneamente invita i sud­diti a pensare a’ loro bisogni, a rappresentargli i mali loro, a recarsi alla Corte per potere a viva voce suggerire quanto giovi a schiarire gli oggetti. Non si poteva desiderare un’epoca più fausta di questa. Da più secoli non è accaduto a questa provincia un sì felice avveni­mento. Appena erano tollerate le rimostranze pubbliche, conveniva che sopportasse la macchia d’intrigante, d’importuno, di fanatico chi le promoveva. Ora s’invitano, si animano i figli a presentarsi al Padre, gli uomini all’uomo Sovrano, gli esseri che soffrono al Monarca sen­sibile e virtuoso. Se non esporremo tutto, la colpa sarà nostra. Se colle domande indiscrete e inopportune screditeremo la causa pub­blica, nostra sarà la colpa. Se meschinamente ignorando i principj cercheremo un sistema precario e la reviviscenza de’ pregiudizj anti­chi, anzi che il regno stabile della ragione, la colpa sarà tutta nostra.

No, non è vero che la lunga oppressione delle generazioni passate, e la presente generazione sbigottita da una serie di arbitrarj atti del poter ministeriale abbiano ridotti gli animi alla nullità e degradati al punto di considerare una chimera la virtù, e un delirio l’amore della Patria. Eccoci al momento o di coprire i nostri nomi d’infamia presso della Storia, o di onorare per sempre noi stessi e i figli nostri in faccia de’ secoli venturi. Siamo al punto d’un’epoca che sarà memora­bile sempre o perchè principio d’una stabile costituzione, sotto cui finalmente la proprietà sia salva; o perchè colla scioperatezza si sarà perduta la più bella occasione, sull’esempio di quanto fecero i nostri maggiori costretti a impetrare alla metà del secolo decimo quinto un Padrone che li governasse, dopo d’avere sofferti i disordini del comando d’alcuni imbecilli, che allontanarono ogni uomo di senno dal reggimento della Città; di che ci fa testimonio la storia, e il detto famoso di Messer Nicolò Macchiavello al proposito nostro ne ha assicurato la ricordanza. Le passate vicende altro sentimento non lasciarono negli animi comuni fuori che il timore, nè altri precetti ricevemmo da’ nostri Padri che la sommissione e l’avvilimento coo­nestato coll’onorevole nome di Prudenza. La veracità ingenua, la carità verso della Patria, l’amore del Giusto, l’entusiasmo nobile del vero, ogni slancio d’un cuore buono ed energico scomparvero; il fuoco sacro in somma della virtù appena si conservò presso di alcune anime privilegiate, la di cui vista offende gli occhi deboli e infermi che dolorosamente soffrono la luce. Ognuno si riconcentrò a pensare alla sua famiglia e col nome di Patria si promossero obliquamente i vantaggi di alcuni piccoli ceti esclusivi, e si considerò nemico della Patria chi suggerì di sollevare i Cittadini dall’oppressione di alcuni ceti. Gli uomini volgari allevati in tai principj, sproveduti di ogni idea pubblica, altro non cercano che la repristinazione del sistema che abolì Giuseppe Secondo. Ma chiunque esamina la salute della Patria colla attenzione che merita un oggetto sì prezioso non pensa così. Egli dice così: se una volta è caduta al primo impeto che venne dato, dunque non rifabbrichiamola più col medesimo centine. Un foglio di carta, nemmeno firmato dal Monarca, ha in un momento anni­chilata la Congregazione dello Stato, tutti i Ceti Municipali, tutte le amministrazioni che la pietà de’ nostri Maggiori aveva instituite per soccorso della indigenza. Dunque tutto il sistema antico era preca­rio, non aveva per base una Costituzione, nè potevasi allegare osta­colo di legge contro la volontà del Ministro. Il peggio che possa accadere adunque è di ritornare a tal precaria condizione. Il Mila­nese fu soggetto al Dispotismo dal momento in cui cessarono i suoi naturali Principi. Questo Dispotismo si esercitava da alcuni corpi po­tenti sotto del governo spagnuolo; poi ne furono gradatamente spo­gliati, e venne tutto collocato nell’arbitrio d’un uomo solo. Sarebbe un problema accademico il disputare qual dei due sia il più funesto; quello che fa al proposito per ora si è che conviene uscire dallo stato d’abiezione sotto cui si geme, e da schiavi malcontenti diventare sud­diti ragionevoli e fedeli al nuovo Monarca, che ci vuole uomini e che è degno di comandare agli uomini. Una costituzione finalmente convien cercare, cioè una legge inviolabile anche ne’ tempi a venire, la quale assicuri ai successori la fedeltà nostra da buoni e leali sudditi e assicuri ai nostri cittadini una inviolabile proprietà, essendo questo il fine unico di ogni governo. Conviene che tal costituzione venga garantita e difesa da un corpo permanente interessato a custodirla, e di cui le voci possano liberamente e in ogni tempo avvisare il Monarca degli attentati che il Ministero coll’andare del tempo potesse mai promovere per invaderla. La facilità del riclamo farà che rare volte si dovrà riclamare, come la libertà del divorzio produce maggiori ri­guardi nella famiglia, e rarissimi seguono i divorzi laddove le leggi lasciano aperto lo scioglimento del contratto nuziale. Guai se i Dele­gati avessero la vista miope a segno di non avere avanti degli occhi se non la repristinazione dell’antico sistema!

Principio della riforma.

Non ascoltisi una pusillanime prudenza; il Monarca c’invita ad esporgli i mali nostri; che timore vi può mai essere nel presentarglie­li tutti con ingenuità e candore? Qual maggior male può mai avere un paese di quello di vivere sotto di un despotismo che a suo arbi­trio opera sulla massa degli uomini? Perchè non lo esporremo noi adunque, perchè non impetreremo da un Monarca giusto e illumi­nato la estinzione di tal mostro e un governo moderato e monarchico? Questo dispotismo in una piccola provincia rimota dalla Corte, centro di più Regni e Stati Ereditarj, questo provinciale dispotismo non può essere mai di utilità al Monarca, nè mai esercitabile da lui immediatamente, e ogni principio d’un avveduto Sovrano lo induce a stabilire un governo composto in modo che l’autorità de’ Ministri libera e pronta possa agire sin tanto che non offende o danneggia la Provincia, ma venga rafrenata e contenuta al momento in cui ne voglia abusare. Non è dell’interesse del Monarca di lasciare esposta a un potere arbitrario una Provincia rimota, confinante con paesi li­beri, con Repubbliche e altri Stati, provincia di facile emigrazione, e che depauperata e oppressa per la ingiustizia del Ministero ricaderebbe a danno del Monarca. Quindi chiedendo noi una costituzione civile cercheremo l’interesse del Sovrano medesimo, non che il no­stro, cercheremo quello che saremmo vilmente colpevoli se nol chie­dessimo, e cercheremo in fine un rimedio che, quand’anche non ci venisse per sciagura de’ tempi accordato, sempre onorerà la virtù di chi incaricato ad esporre i pubblici bisogni lo ha chiesto. Come mai giustificherebbero altrimenti la loro condotta coloro che accettarono di parlare per tutti, e che a tutti sono responsali d’avere esegui­ta onoratamente la importantissima commissione, se lasciassero mar­cire sotto un potere arbitrario la Patria signoreggiata anche in aveni­re non dalle leggi, ma dal volere degli uomini potenti? No, Cittadini, salvate il nome vostro da tale infamia, o rinunziate alla commissione se mancate di lumi e d’animo.

Cardine di tutto.

Sicurezza della proprietà. Ecco lo scopo unico che debbesi avere di vista, a cui tutto deve diriggersi, e da cui emaneranno come corollari tutte le riforme che sono da proporsi. L’uomo deve vivere sicuro sotto la protezione della legge e senza bisogno di abbassarsi a impetrare la protezione d’alcun altro uomo; rinforziamo la riverenza e il poter delle Leggi, annientiamo il capriccioso potere de’ Ministri, e non avrà più luogo il rimprovero che si fa agli Italiani d’essere insidiosamente officiosi, ipocriti, e simulati. Uomini inconseguenti e ingiusti! Voi ci opprimete sotto un governo arbitrario, non ci permettete di cono­scere altra virtù che l’obbedienza, non ricompensate se non i più indifferenti e docili a qualunque opinione, e ci rimproverate d’avere i vizi della schiavitù, voi che ci tenete schiavi! Si facciano gli uomini tutti soggetti alla legge e liberati dal pericolo de’ mali d’un arbitrario potere, e si vedrà comparire qualche nobile energia negli animi, la ingenuità modesta ma non tremante, il candore prudente bensì ma non deriso, la probità dilatata nelle azioni civili non solo ma collocata negl’impieghi e non perseguitata, la virtù in somma oserà comparire e ritornare dal lungo esiglio e la nazione s’alzerà dalla pozzanghera in cui infracidisce da secoli. Sicurezza della proprietà, cioè ogni uomo sia in avenire sicuro sotto la protezion della legge e nella persona e ne’ beni. Nessuno tema più che gli sia tolta la libertà altrimenti che per una legale ordinazione del potere giudiziario, nessuno sia o bandito o posto in arresto o in carcere se non per ordine legale del potere giu­diziario. Sia fissato un termine per detenere un uomo sospetto di un delitto, ogni sentenza sia proferita da un Collegio di uomini di pro­bità e lumi conosciuti, prima d’ogni sentenza sia il reo abilitato a dire tutte le sue ragioni. In una parola sia fissato anche da noi un sistema criminale degno di Leopoldo Secondo, degno della luce di questo secolo. Non vi sarà da insistere minutamente su tal proposito avendo noi da supplicare un Monarca, che ha già fatto ammirare la sublimità della sua politica in tal proposito. Ma sia eliminata per sempre la chi­merica divisione di delitti politici, ogni delitto è crimen ed è crimi­nale; e al potere politico non può mai essere permesso il togliere nè la libertà, nè l’onore ad alcuno. La libertà, l’onore, la vita d’ogni cit­tadino anche l’ultimo e il più vile debbon essere all’ombra sacra delle leggi, sicuri da ogni attentato. Non sotto pretesto di correzione, di ragione di famiglia, o di ragione di Stato, o di spediente economico, o sotto qualsivoglia pretesto la facoltà politica deve attentare alla per­sonale sicurezza del cittadino; e se talvolta la circostanza esiggesse che la forza politica arrestasse, la ragione comanda che immediatamente venga ciò denunziato al Tribunal giudiziario competente, acciocchè abbia suo corso la giustizia senza che il governo politico v’abbia ulte­riore ingerenza. Sotto di una Monarchia giusta ogni uomo può dire d’essere sicuro di conservare la libertà personale sin tanto che ei non abbia offesa una legge scritta e proclamata.

Carico censuario.

Sicurezza della proprietà oltre la persona e l’onore riguarda anche il tributo. Se il carico delle terre possa accrescersi col solo volere del So­vrano la proprietà del terriere sarà incerta nella quantità perchè ca­dente su quanto rimane di netto prodotto; quindi il terriere vedrà sce­marsi il valore delle terre nella vendita, quindi l’agricoltura verrà disanimata, quindi la proprietà dei fondi non sarà sicura. Questa ve­rità è stata sentita e da Carlo VI e da Maria Teresa nella serie de’ Di­spacci relativi al Censo, ne’ quali venne solennemente assicurata la Provincia che il carico sarebbe inalterabile. In fatti il Carico Regio lo è: ma sotto titolo di spese del Censo, spese degli Uffici, spese de’ Can­cellieri ecc. si sono sovrimposte somme sempre crescenti allo Stato, per modo che un quarto di più si paga per tale titolo nell’anno cor­rente 1790. È abbandonata quindi alla volontà del Consiglio di Go­verno, anzi del solo Ministro Presidente, la proprietà d’ogni terriere.

Convien dare una rapida occhiata al sistema tenuto sin’ora nella di­rezione delle cose censuarie. Per rimediare agli abusi e alla possibile prepotenza d’un terriere che obbligasse i compadroni d’una Comu­nità a spese inutili al bene della Comunità si è formato un sistema che urta nel vizio opposto, assoggettando all’approvazione del Tri­bunale Censuario ogni spesa prima che si faccia. Il Tribunale fece cambiar natura ai Cancellieri Comunitativi, i quali da servitori che erano delle Comunità si resero indipendenti non solo, ma rivestiti di autorità Regia, e gradatamente giunsero a non essere più eletti dalla Comunità, e nemmeno ad essere da quella stipendiati. Così tutto si volle governare nel maggiore dettaglio. Se rompevasi un forno in una terra posta all’estremità del Cremonese, prima d’intrapprendere la riparazione del valore anche d’uno Scudo conveniva stendere una supplica al Tribunal Censuario, farla sottoscrivere dai Deputati del­l’estimo talvolta rimoti d’abitazione; poi legalizarla dal Cancelliere locale. Affidare alla posta la supplica indirizzata al Tribunale, il Pre­sidente del quale la diriggeva a un Consigliere col suo decreto. Il Consigliere aveva la casa piena di carte simili, talvolta rimaneva se­polta per anni la domanda e dovevasi replicare nuovo ricorso. Se per ventura la decretava, egli suoleva eccitare il Deputato de’ riparti co­munali, il quale, oppresso dalla faragine delle carte di simili ricorsi di mille Comunità, quando poteva faceva il suo voto opinando perchè si esaudisse la supplica. Questo parere del Deputato de’ riparti poteva nuovamente rimanere dimenticato frall’ammasso del Consiglie­re relatore; ma s’egli emergeva se gli faceva il decreto che concedeva la richiesta riparazione del forno, acciocchè avessero i terrieri il co­modo di far cuocere il loro pane. Nè per ciò era pure terminato il pe­ricolo; perchè tal decreto passava alla affollatissima Secreteria, dove dovevasi stendere la lettera del Tribunale diretta al Cancelliere della Comunità contenente la permissione di riparare il forno pubblico, e poteva tardare qualche mese. Finalmente la lettera era portata alla firma del Presidente e del Relatore, e veniva spedita. A tale dipen­denza si vollero umiliati i possessori delle terre prima di spendere il denaro non Regio, ma loro. Essi vedevano inespediti e dimenticati i loro ricorsi, trovavansi inabilitati a provedere alle istanti premure delle Comunità, e generalmente gridavano, sebbene dai Ministri (che ave­vano la smania e l’interesse di governar tutto e farsi obbedire in tutto, non già di veder le cose in ordine stabile e ragionevole) tai grida ve­nivano incolpate di sediziose per sovvertire la grand’opera del Censo.

Questa organizazione, opera più d’un pedante di scuola o di un guar­diano di convento che d’un Legislatore, questa organizazione pro­dusse costantemente l’effetto di vedere una somma lentezza nel corso dell’azienda del Censo, e quindi dal 1760 a questa parte la direzione del Censo soffrì continue mutazioni sempre inutilmente perchè non si pensò a rimediare alla cagione del disordine. Dalla Giunta del Censo si trasferì prima a una Regia Deputazione. Si sciolse la Depu­tazione e si trasferì al Magistrato Togato, si levò al Magistrato e si col­locò nel Supremo Consiglio di Economia, si levò dal Consiglio e si appoggiò al Magistrato Camerale non Togato; ivi sofferse varj cam­biamenti, finalmente si levò dal Magistrato Camerale e si trasportò al Consiglio Governativo; nè le modificazioni che si fecero giunsero mai a rendere pronto e celere il corso degli affari. Conviene gover­nare quello che non può camminar bene se non si governa; conviene lasciare un moto spontaneo a tutto ciò che per la naturale combina­zione degli interessi cammina a buon fine. Esaminiamo rapida­mente alcuni principj, giacchè nello scritto presente io intendo di dare appena i cenni, essendo troppo grande il numero degli oggetti, su i quali non si potrebbe esaurire la materia se non compilando non uno scritto, ma un volume.

Due oggetti soli interessano particolarmente il Sovrano per la materia del nostro Censo: conservazione del Catastro de’ fondi censibili, acciocchè sotto nessun pretesto non venga mai abusivamente sottratto alcuno dal contribuire ai pesi dello Stato, e quindi rendersi troppo gravoso il carico ripartito su minori contribuenti. Ecco il primo oggetto, conservare l’economia delle Comunità e delle Pro­vincie per modo che non s’aggravino inopportunamente di debiti, e non si rendano per tal modo incapaci ne’ tempi venturi a contribuire quanto debbono all’Erario. Ecco il secondo oggetto. Ogni formalità, ogni soggezione che non sia necessaria per questi due fini è una mera angustia, una oppressione, e non val la pena di sopracaricare lo Stato colle spese di tanti Intendenti, Vice Intendenti, Concepisti, Cancellisti, destinati a rendere lenta, difficile e pedantesca l’amministrazione. Ecco la legge colla quale sarebbero fissati i due oggetti. Non sarà mai sottratta all’estimo censibile o per corrosione di fiumi, o per qualunque altro motivo parte alcuna, se non previo l’assenso della Provincia cui appartiene, previa l’adesione dello Stato e con succes­siva annuenza e ordine del Tribunale del Censo; nè si potrà mai vali­damente contrarre un debito da Comunità, Provincia o Stato se non colla annuenza e ordine del Tribunale del Censo. Chiunque poi intrapprenderà una lite a nome d’una Comunità soccomberà del pro­prio, a meno che non siavi preceduto il decreto permittente del Tribunal Censuario. Con questa legge resta cautelato e l’uno e l’altro de’ due oggetti, e ogni spesa Comunitativa venendo a pagarsi nel­l’anno in cui s’intrapprende da quei medesimi che la determinano l’economia è raccomandata abbastanza dall’interesse di ciascuno. I modi co’ quali si fanno le elezioni, la durata degli uffici, il modo per fare legalmente le determinazioni sono determinati dalla Riforma Censuaria, e qualora nascesse querela perchè da essa irregolarmente si fosse allontanato alcun prepotente disponendo di cosa comune, il giudice locale provvederebbe al ricorso sulla legge della Riforma, non essendovi ragione alcuna per tenere un giudice separato per tali materie. Su questi semplici principj sarebbe da organizarsi il Censo, e il Tribunal Censuario allora potrebbe badare meglio che non ha fatto sinora alla stabile economia d’ogni pubblico piantando registro de’ fondi e crediti e debiti di ciascuno, e facilitando così i vicende­voli soccorsi. Il Tribunale del Censo occupato e oppresso da un minuto mecanismo non potè giammai sin’ora dare alcuna occhiata generale, onde con delegazioni staccate si dovette intrapprendere la operazione su i debiti comunitativi, e su quanto v’è d’interessante. Allorchè s’accrebbe l’estimo censibile abolendo i privilegi del Clero, pochissima parte v’ebbe il Tribunale del Censo nella novità che do­veva recare un tal cambiamento. Questi sono i veri oggetti che meri­tano d’occupare un ceto di Ministri Regj. Riassumendo adunque si dichiari nullo qualunque debito contrattto dai Corpi pubblici e dalle Comunità se non venga legittimato con uno speciale permesso del Principe, come è già per legge e per pratica. Posto ciò non vi può essere più attento amministratore di quello che sopporta l’incomodo della spesa. L’economia delle Comunità si regoli dai deputati del­l’Estimo e dal Convocato giusta la riforma Censuaria. L’economia delle Provincie si regoli dagli Estimati deputati e scelti dalla Provin­cia. L’economia generale delle spese dello Stato si regoli dai Deputati che formano la Congregazione dello Stato. Le strade, i ponti, le spese tutte generali Provinciali e Comunitative si amministrino con questa legalità, e sia riservata al Governo la facoltà di reprimere bensì, e censurare gli abusi, non mai quella di ordinare una spesa. Proibito il contrarre debiti, proibito il far liti, tengansi fermi questi due cardini, e nel rimanente si sciolgano i ceppi della schiavitù. I Cancellieri delle Comunità si scelgano dalle Comunità, e servino a quelle come porta la Riforma Censuaria. Cessino d’essere i Com­messi del Governo, e d’inquietare la società comunitativa, che è la vera padrona delle spese, ch’ella fa col proprio. Gli esattori si scel­gano dalle Comunità, come è giusto, dovendo esse soccombere del proprio al caso della loro impotenza. Tutte le spese si appaltino solennemente. Si osservino i regolamenti sulle strade. Se nasce con­troversia sulla regolarità d’un Convocato si ricorra al giudice, il quale sulla legge della Riforma Censuaria decida. Non siavi un Tri­bunale distinto per giudicare le dispute sul Censo. Si restituisca il loro patrimonio alle Città. L’Ufficio del Censo si occupi degli oggetti che interessano il pagamento de’ debiti Comunitativi e Provinciali e dello Stato, vegli sull’impiego de’ Capitali, conosca della conve­nienza d’intrapprendere liti, consulti il Governo sul permesso ai Corpi pubblici di contrarre debiti, vegli alla conservazione del fondo censito, alla regolarità del riparto de’ pesi pubblici, e lascisi alla cura dei pubblici tutto il rimanente. Sia presso la Congregazione di Stato la composizione dell’Imposta generale e sia per costituzione stabi­lito che mai non possa accrescersi il carico se non previo l’assenso dello Stato.

Tariffe de’ dazj.

La sicurezza della proprietà viene tolta colle arbitrarie addizioni di aggravio alla tariffa de’ dazj, il che anche ultimamente si è fatto a segno così enorme da opprimere i mercanti singolarmente delle Città vicine al confine, come Cremona, Pavia, e Como, dove l’eccessivo carico de’ dazj porta i cittadini a provvedersi al Bosco parmigiano, al Gravellone, a Chiasso, luoghi mercantili distanti un breve passaggio.

Certamente le tariffe daziarie colla mutazione delle circostanze esiggono de’ cambiamenti secondo la variabilità del commercio; ma tai circostanze lentamente e una per volta si presentano. Quindi per la sicurezza de’ mercanti è necessario che si fissi una tariffa con carico discreto e durevole, e che siavi prima l’adesione dello Stato avanti che facciasi successiva novità.

Sicurezza della proprietà importa adunque: primo un sistema cri­minale stabile, constituzionale, all’ombra del quale ogni uomo viva sicuro della sua proprietà personale. Secondo una stabile e costitu­zionale misura di tributo, che non possa variarsi o eccedere senza l’adesione dello Stato. Le prove singolarissime di obbedienza e di do­cilità che questa Provincia ha date sempre dimostrano che con tal metodo il Re non perderà verun sussidio straordinario opportuno alle urgenze della Monarchia, e che unicamente si assicurerà che il Ministero non abuserà mai più del potere confidatogli a scapito e ro­vina della Provincia. Nel vizioso sistema spagnuolo almeno ciò v’era di buona politica, che il potere de’ Corpi bilanciando il poter gover­nativo veniva contenuta una autorità dall’altra; lo stesso è da farsi ora, collocando due poteri che reciprocamente veglino sugli abusi l’uno dell’altro, il Governo perchè i Rappresentanti non si arroghino parte di Sovranità sul Popolo, i Rappresentanti perchè la Sovranità non se l’arroghi il Governo, e così la Provincia rimanga ordinata sotto una felice costituzione e la Sovranità resti tutta illesa presso d’un be­nefico Monarca. Quando dovevasi distruggere il dispotismo spagnuolo radicato in tre corpi poderosissimi doveva affrontarsi gl’inte­ressi di ciascun individuo di essi, e scontentare pericolosamente una massa di prepotenti cittadini che sostenevano dritto loro la loro ere­ditata autorità. Ora si tratta di distruggere il potere riunito al mo­mento nelle mani d’un solo Ministro, che tutto tiene temporariamente dalla eventuale nomina del Monarca, quindi la riforma altro non può produrre che bene. Si solleverà anche l’Erario del Principe da una viziosa schiera d’inutilissimi salariati, essendo il Ruolo Ca­merale oggidì maggiore del triplo di quello che venne fissato sotto del Governatore Pallavicini, onde in quattro mesi oggi paga il So­vrano tanti stipendj quanti dovrebbe pagarne ogni anno; il che è ac­caduto per vizio di voler tutto governare anche quanto va da sè assai meglio che non per moto forzato dal Governo.

Privative.

Merita però la materia della Finanza che qualche altro cenno si dica su alcune novità fattesi sotto Giuseppe Secondo, le quali meri­tano immediata attenzione. Per esempio il tributo nuovamente imposto, la tassa degli assenti, punisce ogni possessor terriero che si rechi in paese estero. La natura di questo nuovo carico è odiosa; la percezione, difficile; il provento assai tenue; l’effetto tende a diminuire i compratori delle terre, e così a scemarne il valore. Questo tri­buto non ha altra base che l’arbitraria volontà del defunto Sovrano. Dovrebbe abolirsi. Il contributo ecclesiastico dovrebbe rimanere sta­bile a soglievo universale; il Corpo ecclesiastico nella luce de’ tempi presenti non vorrà obbligare i laici a sostenere soli tutt’i pesi, poichè al paro de’ laici il Corpo ecclesiastico ne gode i frutti; parte anch’esso dalla società, è giusto che contribuisca alla di lei conservazione. La tariffa della mercanzia nella sua forma e per la semplicità della co­struzione merita d’essere conservata. La sovrimposta eccessiva fatta nel 1788 alle manifatture di seta e di lana non può durare senza rovi­na de’ mercanti. Sarebbe da abolire immediatamente, e frattanto tornare al limite della nuova tariffa. Merita però esame anche la tariffa sì per l’esuberanza del tributo su di alcuni capi, quant’anche perchè non sembrasi avuto di vista che la Finanza, dimenticando la costanza della riproduzione annua, la quale sola può dare alimento durevole alla Fi­nanza istessa. Sulle privative è stata notabilmente aggravata la mano sul popolo, e lo è stato con tale disinvoltura, che si può apparente­mente contraddire questa asserzione da chi è interessato nella Regia Finanza. I prezzi singolarmente al minuto de’ tabacchi di minor con­sumo si sono abbassati; ma la foglia Carrada che è del maggior con­sumo nel Paese è stata portata dai soldi 45 ai soldi 55. L’accortezza consiste nell’avere immaginato il nuovo vocabolo Tabacco di lusso al quale è posto il prezzo di soldi 55, ed è lo stesso che pochi anni fa si chiamava Carrada a Pila, e si vendeva soldi 45. Si vende poi un tabacco di scarto di foglia d’Ungheria a soldi 45, e se gli dà il nome di Carra­da a Pila. La privativa anni sono introitava più di cento mila zecchini nel solo Stato di Milano, ed è bastantemente gravato il pubblico po­nendola in tutto al prezzo e qualità che durarono sino al 1780. Non sa­rebbe inverosimile l’asserire che tutte le mutazioni fatte nel decennio di tal Regalia con disgusto e sopracarico del pubblico non sono punto ridondate in utilità della Regia Camera attese le spese accresciute nella fabbrica, e la perdita fatta del provento de’ postari nelle terre.

L’uniformità introdotta nel peso e prezzo del sale è una operazione opportunamente fatta. La qualità però di questo genere di prima necessità, e dal quale dipende la riuscita della fabbrica de’ Caci con­verrebbe che ritornasse quale era nel 1780; e che non si ascoltassero più querele; seguendo in avenire un metodo costituzionale e costante col distribuire sempre la stessa qualità e proporzionata mischia de’ sali Tripoli e Trapani per l’interno dello Stato.

A tutela quindi della proprietà Reale è necessario che non sola­mente si rimedino i moltiplicati colpi fatti nel Tributo; ma che la bontà e sapienza del Monarca fissi per costituzione il limite d’ogni tri­buto, e per fare ne’ tempi venturi addizione o cambiamento vi si richieda la adesione del Corpo rappresentativo dello Stato, unico mezzo che può assicurare al popolo tutta la proprietà del suo, e per assicurare il Monarca medesimo dalle insidie colle quali potesse mai il ministero continuare a pagliare nuovi aggravj, giacché per mas­sima quanto più è depressa una Provincia, tanto più l’orgoglio mini­steriale liberamente vi campeggia, e il Popolo non trova fra chi gli comanda altro amico che il Sovrano, e questi fra chi lo ama ed ha zelo per lui non trova altri che il suo Popolo.

Giudiziaria.

Il Regolamento Giudiziario pubblicato sotto Giuseppe Secondo ha stabilito certi principj e metodi certi in guisa che l’arbitrio de’ Giudici in buona parte è tolto. Molto vi è di buono e che in pratica rie­sce felicemente, onde nel suo tutto convien conservarlo. Due soli ritocchi basterebbero per rendere compita in questa parte una buona legislazione, e questi sono primieramente una addizione ancora più vincolante ed espressa per contenere l’immoralità de’ Curiali e la impudenza colla quale per mestiere impugnano la manifesta verità e moltiplicano i litigi a rovina de’ clienti, e a carico sommo de’ Giudici oppressi dalla congerie delle liti, e quindi nasce non potersi dare sempre la conveniente attenzione a tutte, e non potersi rapidamente tenere in corso il Tribunale. Secondariamente dare una più breve e semplice forma ai processi de’ debitori di fitti, ed altri chiari titoli. Fatto ciò nulla vi sarebbe da ritoccare al Regolamento. Ma non con­fondiamo il Regolamento Giudiziario colle Istruzioni e organizazione data ai Tribunali. Quanto pensato e ragionevole riesce il primo, tanto assurde e barbare sono le seconde. Il dispotismo del Presidente, la podestà di scindere in aule il Tribunale, di scegliere il relatore, il con­tradditorio principio di tenere occulto il Relatore in Città, mentre ne’ Borghi lo stesso è Preside e Relatore notissimo, questi sono inconve­nienti che meritano la mano emendatrice del Legislatore. La libertà civile, il corso regolare e imparziale della giustizia suggeriscono doversi dare al Presidente tutta l’autorità per l’ordine, regolarità, e di­sbrigo del Tribunale, e nessuna diretta o indiretta autorità sulla libertà delle opinioni o sul risultato delle Sentenze. Il Relatore è bene che sia noto, anzi nominato di consenso delle parti, come facevasi per lo passato. La giurisdizione de’ Podestà de’ Borghi è conveniente che sia limitata al grado in cui lo era prima del nuovo sistema. Siccome poi i Curiali sono realmente una massa corrotta e che fa professione infame d’intrico senza moralità, e che trattasi di rigenerare e correggere una generale putredine; così sarà opportuno che l’occhio Paterno del Monarca vegli sulla esecuzione de’ Regolamenti, spedendo anche di tempo in tempo visitatori accorti, fermi e zelanti, che abbiano facoltà di conoscere il modo col quale viene amministrata la giustizia, l’opi­nione pubblica degli impiegati, e con qualche opportuna dimissione giustificata contenere poi coll’esempio ciascuno in officio.

L’istesso Tribunale di giustizia che giudica nelle cause civili, sem­bra che potrebbe essere incaricato anche de’ giudizj criminali, sicco­me fu prima dell’interinale Regolamento; ma in ciò null’altro rimane da proporre dai Pubblici se non la proprietà personale d’ogni indi­viduo, un collegio di giudici probi che proceda con leggi fisse, e dal quale unicamente dipenda ogni azione criminale e fuori del quale nessuna ingerenza governativa possa mai attentare alla libertà, sicu­rezza e onore d’un Cittadino.

Sicurezza della proprietà esigge adunque: prima di tutto che col mi­nistero unicamente della legge possa un uomo venire arrestato, e che soltanto dopo un regolare processo e regolare difesa e regolare sen­tenza d’un collegio di uomini di conosciuta probità possa dichiararsi colpevole un uomo, e soggetto alla pena prescritta dalla Legge. Sicu­rezza della proprietà richiede che il tributo sia proporzionato, fisso e invariabile, e che ogni addizione o cambiamento venga esaminato pre­ventivamente dal Corpo rappresentativo dello Stato. Sicurezza della proprietà per conseguenza vuole uno stabile metodo giudiziario, che togliendo l’arbitrio al Giusdicente assicuri un imparziale e fisso rego­lamento per chiunque veda disputata la sua proprietà. Di ciò sinora ho rapidamente trattato. Due oggetti rimangono ancora da toccare, i tronchi maestri dell’albero, e sono la legislazione e la pubblica rap­presentanza. Non sarebbe mai più sicura la proprietà, malgrado i sug­geriti regolamenti, se il poter ministeriale da solo potesse proclamare leggi nuove, come sin ora ha fatto; giacchè una legge può essere o cru­dele, o attentatoria della civile libertà, o ineseguibile, o inopportuna, e quindi chi ha facoltà di proclamare tai leggi può creare nuovi delitti e immaginar nuovi supplizj, e conseguentemente il più onesto citta­dino può trovarsi tirannicamente in preda agli sgherri. La pubblica rappresentanza è pure inerente alla sicurezza della proprietà, poichè vana e illusoria sarebbe ogni constituzione scritta, libro di mera curio­sità ed erudizione riuscirebbe qualora non esistesse un corpo desti­nato e interessato a mantenerla. Di questi due oggetti mi resta a trattare prima ch’io chiuda il discorso.

Legislazione.

Abbiamo vedute pubblicarsi sotto il governo del Conte Firmian alcune leggi che sole bastavano a turbare la sicurezza della proprietà. Alcune prescrivevano che i padri dovessero essere tenuti per i figli, e i padroni per i servitori per i contrabbandi di tabacco. Questa legge fece tal senso che il popolo per più settimane abbandonò l’uso del tabacco, onde si dovette moderare poi la legge con poca dignità del Legislatore. Sotto lo stesso Governo per altra legge s’imposero cau­tele e obblighi tali ai filatori di seta, che resa difficile e quasi impos­sibile l’osservanza di tanti vincoli venne scoraggiato questo ramo di nazionale industria. Gli sgherri e gl’inquisitori ebbero facoltà di visi­tare entro le case, nelle officine, e in qualunque ora a perquirere sale, tabacco, e quindi ostilmente si trattarono i popoli. Tai sorprese non si farebbero alla religione del rimoto Monarca, se prima d’essere pub­blicate nuove leggi venissero proposte al Corpo rappresentante lo Stato, al quale fosse permesso di esporre al Trono i mali, che per ven­tura possono da quella derivare; sicurezza della proprietà esigge adunque che il Monarca venga preventivamente schiarito dal Corpo rappresentante lo Stato, avanti che una legge sia proclamata.

Corpo dello Stato.

La politica del Despotismo e della capricciosa cecità ebbe in orrore ogni Corpo rappresentante la Nazione, poiché questo Corpo è il solo che fa argine all’abuso del potere ministeriale, ed è l’organo solo per mezzo del quale la verità dalla capanna passa al Trono e il Monarca è istrutto del male e del bene che fanno le persone impiegate ne’ governi. Quindi si cercano tutt’i pretesti o per estinguerli, ovvero per formarli, in modo che riescano una mera illusione da scena per appagare i semplici. Ma la vera e stabile politica d’un Monarca illuminato, buono, previdente, considera sotto un aspetto opposto una tale isti­tuzione come il solo e imprescindibile mezzo per regnare con gloria, per evitare le insidie de’ Cortigiani, per accostare se stesso al Popolo e rendersi forte colla adesione degl’interessi comuni. Cerca di for­mare un Corpo che sia al sicuro da ogni oppressione Ministeriale, composto di tanti, quanti bastano per rendere difficile la suborna­zione e dibattere gl’interessi pubblici, e scelto dal popolo che rap­presenta e dal quale unicamente può ricevere il mandato per avere una rappresentanza legittima. La Maestà di Leopoldo Secondo non ci vuole schiavi, ci vuole sudditi. Le massime del suo Governo sono già pubblicate coll’invito che ha fatto ai Belgi, de’ quali la Costitu­zione ben lungi d’essergli invisa, la propose anzi per modello degli altri Regni e Provincie dell’Augusta sua Casa. Nelle tenebre de’ secoli passati, mentre i pochi uomini che coltivavano la loro ragione, tutti s’occupavano o nell’erudizione, o nella matematica, o nelle cose naturali trascurando la scienza della società, e i diritti che la fanno sussistere, nella ignoranza di quell’oscura notte una insidiosa politica bastava per tenere atterrita e sommessa la massa degli uomini, sì che non si accorgesse nè della lesione de’ suoi diritti, nè de’ mezzi per rianimarli. Ma la notte ha fatto luogo a nuovo giorno; le opinioni rapidamente si cambiano, e l’opinione è la Regina del mondo a cui si piega la forza istessa. Se il potere intermedio ministeriale perseve­rasse negli antichi principj verrebbero col tempo esposti anche i migliori Principi, anche i popoli della indole più placida, a tutti i mali che accompagnano un rapido cambiamento d’ordine. Nella chiara luce de’ tempi presenti è necessario un Corpo rappresentante lo Stato, che liberamente possa informare il Monarca de’ mali e de’ disordini, e che sia organizzato per modo da ottener questo fine, e ottenerlo stabilmente. Abbiamo il Catastro Censuario. Dividansi i possessori in tante masse prossimamente uguali; ogni Comunità com­presa in quella massa scelga i suoi Deputati, e gli eletti raduninsi nel borgo che sia centro di essa, e nominino il pubblico rappresentante.

I nominati formino il Corpo dello Stato. Conviene che il loro numero sia tale da impedire la seduzione ministeriale e rendere utile al suo fine la rappresentanza. Convien pure che il loro ufficio sia per sei anni e che ogni tre se ne cambi la metà. Questa assemblea, come tutte le altre Municipalità, potrà radunarsi quando voglia, e trattare senza angustia o predominio di alcun Ministro gli affari. Ella potrà diret­tamente umiliare al Trono le sue occorrenze, e sarà il vero tubo optico per cui il Monarca saprà la verità, annebbiata in prima dagl’interessi de’ Ministri, i quali sono la cattaratta all’occhio del Monarca. Ella sceglierà il suo Presidente che durerà sei mesi. Conoscerà delle nuove leggi. Veglierà alla conservazione della Costituzione. Tutte le spese generali incumbenti allo Stato dovranno essere decretate da questo Corpo di Rappresentanti e dipendenti dalla loro determinazione, trattone il tributo fisso sulle terre, il quale sarà perpetuo e determi­nato nella quantità. Non si potrà intrapprendere fabbrica alcuna, strada, canale, edificio o impegno qualunque che porti carico allo Stato, o a una Città, Provincia o Comunità senza il previo decreto del Corpo rappresentativo. Tutti i conti saranno subordinati alla ispezione del Governo, al quale rimane la facoltà di impedire ogni abuso del denaro pubblico. Nell’imposta annuale preventiva si porrà sempre una partita d’approssimazione delle spese eventuali, e dentro i limiti di questa sarà facoltativo a tutt’i Corpi pubblici, giusta la loro asse­gnazione, di fare le spese. Il riparto de’ pesi pubblici si farà sempre sul Catastro Censuario. Ogni individuo all’atto che prende possesso della sua carica giurerà fedeltà inviolabile al Monarca, e di non acconsen­tire giammai a partire dal suo posto, e ritirarsi se non quando sia rim­piazzato dal suo successore legittimamente eletto. Ogni controversia che nascesse fra Città e Città verrà decisa dal Corpo rappresentante lo Stato, dal quale dipenderanno le strade che non sono Comunitative nè Provinciali; ma guidando da una città all’altra e servendo all’uso generale incumbono sin d’ora alla generalità dello Stato per la manutenzione. Avrà in somma tutta l’economia appartenente all’azienda generale dello Stato. Sulle massime istesse si organizzi ogni Consiglio Municipale, e in tal modo saranno formati i Corpi pubblici perma­nenti, e con individui successivi e temporanei, e inerendo alla Riforma Censuaria riceverà una forma legale e stabile la Provincia suddita d’un Monarca illuminato e umano, che l’avrà per sempre assicurata contro il funesto dispotismo Provinciale, che l’ha degradata e oppressa.

Conclusione.

Riasumendo le cose sin qui dette tutto si riduce a pochi principj e chiari. Siamo noi radunati per esporre al nuovo Monarca, che ce lo ordina, i gravami e i mali della Provincia? Sì. Siamo noi sottoposti per sistema a un governo arbitraro e dispotico? Sì. Un tal governo è egli un male per chi vi è soggetto? Egli è il sommo, il primo de’ mali che possa soffrire uno Stato, egli è la origine di tutti i mali. Possiamo noi occultare adunque la sincera esposizione di tal sommo male nella rimostranza che stiamo per fare? No, se non vogliamo meritarci il ti­tolo di traditori della Patria, e se non vogliamo essere reputati i più inetti degli uomini. Possiamo noi temere alcun rimprovero esponen­do questo gravame? No, sotto d’un Monarca che ha dichiarato in faccia dell’Europa di amare la Costituzione Belgica, e di bramare che servisse di modello agli altri suoi Stati, non è possibile che sia discara la supplica di darci una simile Costituzione. Sotto un Monarca che è giusto, e vuole il ben essere e la contentezza de’ suoi popoli, non è possibile che sia mal ricevuta la proposizione, che ha per base la giu­stizia e per fine il ben essere e la contentezza de’ suoi popoli. Il So­vrano comanda al Ministero di non immischiarsi nelle nostre delibe­razioni, comanda a noi di fargli conoscere i bisogni del suo popolo, e dubiteremo noi se ci sia permesso di fargli conoscere il bisogno massimo, cioè il bisogno d’ottenere una volta la sicurezza della pro­prietà! Chi è pusillanime, chi è imbecille non stenda la mano al timone degli affari. E che? Avete voi dunque accettata la sublime ca­rica di parlare per tutti i vostri Concittadini, vi siete voi indossato l’augusto ministero di reggere la causa pubblica in questa importan­tissima occasione senza consultare i lumi nostri, senza consultare il vostro animo! Se aveste impallidito, se aveste diffidato in quel mo­mento, se aveste richiesto soccorso, assistenza ne’ lumi d’altri istrut­ti Concittadini, la timidezza vostra sarebbe stata virtuosa. Ma ora posti in ufficio a vegliare sulla salvezza della Patria, mostrerete voi un’anima da schiavi, palpitante per il pericolo dello sdegno ministe­riale, che forza è pur d’affrontare per essere fedeli al vostro Re e alla vostra Patria! Così non operarono i nostri Maggiori quando nel 1185 il 25 Giugno stabilirono in Costanza la Costituzione che sta nel Corpo delle leggi,[11] o quando nel 1450 il giorno 3 Marzo altra Costituzione sti­pularono con Francesco Sforza.[12]

Non v’è sicurezza della proprietà se non dove vi sia una Costituzione. Non v’è Costituzione se non dove siavi un Corpo interessato a difenderla e capace di farlo. Io non ho esposto quanto richiedesi per questa grand’opera, unicamente ho dato i tocchi principali. No­bili aprite gli occhi: maturate i vostri consigli, nulla precipitate. Mi­rate intorno l’Europa, leggete almeno i fogli pubblici, esaminate la pubblica opinione, svegliatevi. Non è più tempo di arrogarvi soli la rappresentanza delle Città. Ogni Cittadino possidente al paro di voi ha dritto di eleggere ed essere eletto in servigio della Patria. Nel­l’oscurità de’ passati secoli potevate concentrare la municipalità nel vostro Ceto, e sostenere una Oligarchia; ma la ragione ha fatto progresso, ora fa ribrezzo e sdegno ciò che è gotico e deforme, vi vuol giustizia nella pienezza della luce odierna che rischiara l’Europa.

Avete voluto, o Nobili, degradare i vostri Concittadini, e il Ministe­ro Provinciale ha degradati voi stessi, e tornerà a degradarvi ben tosto che le circostanze favorevoli glielo permetteranno se persistete. La rappresentanza che esercitate, o Decurioni, è illegale ed abusiva; voi siete eletti dai Ministri Regi e non dalla Città: voi, Decurioni, siete parte della Città, e non la Città! Milano nemmeno vi conosce per i suoi rappresentanti; e se non vi dichiara impetuosamente il disenso pubblico, esaminate se gli applausi vi mostrino alcuna pubblica confidenza. Se voi insisteste sulla pratica, la pratica medesima autoriz­zerebbe il Governo a operare dispoticamente su di voi. Se vi accon­tentate d’essere schiavi, purché abbiate de’ schiavi sottoposti a voi, sarete voi i nemici della Patria. Se scegliete questo partito, vi annun­zio in breve la rovina. I principj sociali sono sviluppati nel centro del­l’Europa, la luce si dilata rapidamente, il popolo milanese sarà fra pochi anni illuminato, vi chiamerà vilissimi traditori del pubblico, vi chiamerà… La mia penna non anticiperà d’annunziarvi le qualifica­zioni che infallibilmente otterrete se insistete per una Oligarchia odiosa e ingiusta. Siate uomini, e se volete comparire nobili, siate no­bili ne’ pensieri e generosi nelle azioni, siate nobili seguendo disin­teressatamente la ragione e la giustizia. Date al Monarca l’esempio di sacrificare i pregiudizj e le pratiche all’interesse pubblico della Pro­vincia. Spogliatevi d’ogni idea di Ceto, il ceto d’un uomo dabbene è il genere umano. La felicità pubblica sia la vostra mira, la ragione e la virtù vi guidino. Mostrate di conoscere i principj dell’immortale Autore dello Spirito delle Leggi e d’essere degni Cittadini contem­poranei dell’autore de’ Delitti e delle Pene. Cittadini scelti per par­lare a nome di tutti, parlate colla verità e colla dignità conveniente al Popolo che rappresentate, e per bene del quale è instituito il Gover­no. L’esito non è in vostra mano, lo so, le circostanze potrebbero ren­dere vane per ora le vostre cure. Ma starà sempre il vestigio di quanto ora farete. I semi delle verità annunziate dalla autorevole vostra voce germoglieranno, e i nomi vostri saranno ricordati con gloria insino che duri la memoria degli uomini, e la storia ne passerà il rac­conto a’ più tardi nipoti. Che se per imperizia, per dappocaggine, per obliquità travviaste tradendo la Patria, e perdendo una sì bella occasione… se lasciaste fuggire infruttuoso un momento sì fausto che da secoli non s’è veduto. se trascuraste di procurare una Costitu­zione custodita da un corpo indistruttibile, per cui sia assicurata la proprietà, costituzione modellata sull’esempio di quella de’ Paesi Bassi già lodata e conosciuta degna di servir di modello ad altri Stati dal Re Leopoldo Secondo medesimo, che c’invita a proporgli le no­stre brame. Voi stessi sarete gli autori di tutt’i mali che continuerà a fare in avenire il poter ministeriale. Voi stessi sarete autori d’una ri­voluzione funesta e della carnificina de’ vostri Cittadini; giacché il di­spotismo così va sempre a terminare, e chiunque ha occhi ne scorge l’epoca non rimota. Voi stessi avreste tradito e la Patria e un Re che si fida di voi, e vi cerca consiglio.

Appendice: Dispaccio di Sua Maestà Apostolica per la convocazione de’ rappresentanti pubblici a fine di esporre i bisogni del Milanese.

Leopoldus &.

Dacchè abbiamo prese le redini del governo dei Regni e Stati a noi devo­luti per ereditaria successione, la prima nostra cura è stata di pensare ai mezzi di procurare possibilmente il ben essere e la contentezza de’ Popoli ora a noi soggetti, fra i quali chiamano a sè un’eguale sollecitudine anche quelli della nostra Lombardia. A questo fine essendo necessario di cono­scere i loro bisogni non meno che il bene generale dello Stato, per poter provvedervi in quanto da noi dipenda, e nella fiducia di veder corrisposto questo nostro desiderio dai Pubblici della Lombardia coll’impegno di vero zelo per il comune vantaggio, abbiamo stimato bene di sentire direttamente dai medesimi ciò che dopo matura e riunita deliberazione crederanno dover farci presente all’effetto di ottenere da noi quella providenza, che conduca alla prosperità generale dello Stato non che particolare delle singole Pro­vincie.

Quindi colla presente Reale Carta ordiniamo e comettiamo al nostro Governo generale della Lombardia Austriaca, perchè vengano da esso auto­rizzati quanto prima i Consigli Generali delle Città dello Stato di Milano, cioè di Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, e Casalmaggiore, i quali de­vono considerarsi come i Rappresentanti le Provincie relative ad esse sei Città per rapporto agli effetti della presente nostra determinazione, a sce­gliere e nominare ciascuno dei suddetti Consigli due individui, siano poi del Corpo di essi medesimi o altri delle rispettive Città, i quali si rendano quanto prima in qualità di Deputati Provinciali alla Città di Milano, e riuniti sotto la direzione e presidenza del Conte Luigi Trotti, delegato Regio e Prefetto della Congregazione Municipale di detta Città, si facciano a deliberare in comune sopra tutti gli oggetti che crederanno poter esigere e meritare un Sovrano provvedimento, e specialmente sul bisogno a noi già stato esposto dal Consiglio Generale della Città di Milano di una Rappresentanza Per­manente della Società Generale dello Stato, sul modo di costituirla e sulla forma da darsi alla medesima. Le proposizioni di essi Deputati, ridotte che saranno in un protocollo comune, dovrà questo presentarsi al Governo, e da lui innoltrarsi a noi col proprio suo parere per sentirne la Sovrana deter­minazione.

Affinchè noi possiamo avere dai Pubblici stessi gli schiarimenti della loro esposizione e di quanto ragionevolmente desidereranno, è nostra mente e volontà che i sud.ti Deputati Provinciali scelgano fra loro due o tre soggetti, i quali si trasferiscano in questa nostra Città di Vienna non solo per esporre anche direttamente a noi le petizioni de’ loro Pubblici compilate come sopra, ed i gravami se ne avranno, ma anche per poter rischiarire a voce ed in iscritto tutto ciò che sarà loro chiesto per il maggior accerto delle Sovrane nostre risoluzioni.

Per ciò che riguarda la Città ed il Ducato di Mantova, avendo noi veduto da diversi ricorsi a noi pervenuti che lo stato attuale di quella Provincia può abbisognare di una particolare e separata considerazione e providenza, è perciò nostra intenzione che vengano pure scelti dalla Congregazione Muni­cipale di Mantova due Deputati, i quali bene instruiti delle occorrenze di detto Ducato si rendano qui per il sopraccennato fine. Desideriamo però che per il primo di essi Deputati sia destinato il Presidente Marchese Za­netti, le di cui ottime qualità di mente e di cuore abbiamo avuto occasione di conoscere particolarmente.

Del resto siccome ci teniamo certi che gli amati nostri sudditi ed abitanti della Lombardia si dimostreranno animati non solo dall’amore della loro Patria, ma egualmente da un sincero zelo per il servigio del loro Sovrano, tanto più che non desidera che il loro bene comune, così confidiamo pure che il Serenissimo Arciduca si farà premura di secondare colla pronta inti­mazione a chi spetta, e in ogni altra maniera, il più sollecito adempimento delle sovra esposte nostre intenzioni ecc.

Vienna 6 Maggio 1790.

ORAZIONE FUNEBRE PER GIUSEPPE SECONDO IMPERATORE E RE

Si disputava sulla possibilità di fare un encomio a Giuseppe Secondo senza offendere la verità e colla dignità che conviene a un Sacerdote che parla in una Chiesa. Per prova ne ho fatto questo breve saggio. Un pittore che sappia bene la sua arte coglie il bello anche dalle fisonomie deformi, fa cadere destramente le ombre sulle parti più sconcie, e forma una bella faccia che è il ritratto d’un viso odioso.

Ministro d’una Religione di verità, nel tempio dell’Ottimo Massi­mo Iddio scrutatore de’ cuori e Monarca onnipossente dell’univer­so, in mezzo alla pompa ferale che ci annunzia il nulla delle umane grandezze, mentre la pietosa cura degli Augusti Congiunti associa la riconoscenza de’ Ministri, la fedeltà de’ Nobili e la generale osse­quiosa cura de’ sudditi per impetrare riposo e pace all’anima di Giu­seppe Secondo Pio Felice Augusto, da immatura morte rapito, ardua e difficile impresa mi si commette di pronunziare il funebre elogio fra il sacrifizio d’espiazione e le solenni preghiere della Chiesa. Un Prin­cipe che nel breve regno di nove anni prese a svellere tutt’ad un trat­to i disordini radicati per secoli ne’ varj Stati della vasta Monarchia Austriaca; che da un canto tentò di annientare ogni superstizione nel popolo e ogni orgoglio ne’ Sacerdoti; che restrinse ne’ limiti di una mera esecuzione tutta la autorità de’ suoi Ministri e de’ Tribunali spo­gliandoli d’ogni corredo di fasto o d’arbitrio; che ai Nobili tolse di mano lo scettro feudale per sollevare la suddita umanità travagliatri­ce; che a fine di consolidare la potenza, e con essa la sicurezza pub­blica, venne a impegnare una guerra disastrosa pel sangue versato e pesante ad ogni ceto di sudditi; un Principe che annientò le patrie Leggi e i Patrii Magistrati e i Patrii costumi, per assimilare ad una sola norma il reggimento delle Provincie, tutte varie di costume, di clima, di linguaggio; un Principe in somma che prevenuto dalla morte prima che avesse condotto a termine le sue idee lascia la Monarchia appoggiata a interinali e non ancora consolidati nuovi sistemi invisi alla moltitudine, è un argomento delicatissimo a trattarsi coll’elogio da questa Catedra di verità. Comunemente gli uomini potenti furo­no i fautori de’ disordini pubblici, e chiunque volle procurar il bene della massa del genere umano offese i Magnati, i quali per essere fedeli e affezionati al Monarca amano di possedere una frazione di So­vranità, colla quale piombano sul popolo infelice ignaro della vera cagione della infelicità che soffre. Quindi i riformatori ebbero sem­pre a soffrire l’odio dei pochi potenti, e non furono mai ricompen­sati dai molti popolari che beneficarono, o che avevan in cuore di be­neficare. I pochi uomini privilegiati, quei che esaminano prima di stabilire i loro giudizj; quei che in mezzo al faticoso sovvertimento del terreno sanno antivedere la futura messe; quei che insensibili ai cla­mori della moltitudine, che inconsideratamente eccheggia o le lodi o i biasimi intuonati dai grandi, pesano il merito morale dalla inten­zione, come il merito civile dalla sagacità de’ mezzi e non dal solo esito, talvolta indipendente dalla umana limitata prudenza; que’ pochi, dico io, sono i soli che degnamente e con imparzialità possono anticipatamente giudicare del destino che avrà la memoria di Giu­seppe Secondo ne’ fasti del cadente secolo. Frattanto brevemente ac­cennerò i principali oggetti che a parer mio debbono determinare l’opinione de’ Saggi, e rispettando la Maestà del Trono, ma più an­cora rispettando la augusta immortale verità, senza fiele e senza adu­lazione, senza timore e senza speranza presenterò un epilogo del­l’operosissimo suo regno.

Il fasto, la mollezza, la voluttà, le insidiatrici lusinghiere arti che s’affollano intorno ai Troni, che vi attraggono tutto il sugo vitale smunto dalle vene de’ sudditi; che spargono una impenetrabile nebbia in­torno al Regnante nascondendogli la pubblica miseria de’ popoli, e dalla opulenza de’ Cortigiani ingannevolmente gli fanno argomen­tare la felicità del suo regno; che allontana dal Monarca l’uomo vir­tuoso e l’uomo illuminato, rendendogli sospetta d’insubordinazione la virtù, e ridicola e vana la scienza de’ libri; che formando della Corte un centro massimo di riunione della avidità, dell’orgoglio, della frode, della simulazione e di tutta la disastrosa schiera de’ vizj mascherati con ipocrita e ingentilita forma, corrompe ogni genere di bontà, e sparge la corruzione gradatamente sulla massa medesima della nazione; tutte queste larve scacciò lontane da sè Giuseppe Impe­ratore. Semplicissimo nel vestito, senza corredo di Cortigiani, senza formalità veruna, col solo necessario mezzo del quale ogni privato fa uso, ei scorre tutte le Provincie, visita e riconosce i Tribunali, gli uomini e persino gl’Ospedali e le Carceri; esamina lo stato della più infelice parte della umanità; entra nella povera capanna del Conta­dino, e come uomo parla all’uomo suo simile; di tutto s’informa, tutto conosce cogli occhi proprj nella Lombardia, nella Boemia, nelle Fian­dre, nell’Ungheria, nel Bannato; in ogni più rimota parte il Sovrano si presenta qual padre, accessibile a ciascuno, paziente, attivo, instancabile. Abolisce le prosternazioni e le asiatiche adorazioni de’ popoli verso del Monarca. Non è possibile il rinunziare al fasto più di quanto fece il defunto Sovrano. Non le mense d’Apicio, ma la sobria e non di raro trascurata mensa di Pittagora servivangli di norma. Par­chissimo nelle spese di Sua Augusta Persona, si considerava sempre come amministratore dell’Erario pubblico, non come padrone, ed aveva sempre fissa nel pensiero la grande verità che ogni spesa superflua del Sovrano è una sottrazione al bisogno di qualche suddito. Tale fu costantemente il tenore della sua vita e prima che ascendesse al Trono, e poi che vi sedette. Non amori, non geniali predilezioni, non affetto alcuno privato di benevolenza o d’odio, nulla in somma di quanto seduce la umana gracilità, nulla potè accostarsi all’anima di Giuseppe, che tutta elevata e consacratasi all’augusto destino pre­scrittole dalla Divinità, tutta staccata da ogni debolezza, si mostrò sempre indipendente e imparziale Monarca, di cui la vita pubblica annientò quasi quella del suo individuo.

Trovò il genere umano tormentato dagli errori, dalla ingiustizia e dalla prepotenza. Mali grandi, molti e dilatati; conobbe non essere possibile il tentare la loro guarigione se non con impeto, con arditis­simo sforzo, con perseveranza e affrontando gli urli della stessa mol­titudine e i pericoli d’una rivoluzione. L’esempio di Pietro Czar di Moscovia, al quale (non so se la ragione lo approvi) si dà il nome di Grande, lampeggiò alla mente di Giuseppe Secondo; non mancogli vicino chi continuamente sin dalla gioventù gl’ispirasse nel cuore le massime del Governo della Russia; sedotto dall’amore della gloria, lusingato di far bene alla generazione vivente e a molta serie di ven­ture, persuaso che basta al Monarca il volere costantemente perché gli uomini a tutto si pieghino; nessuno vi fu che ricordasse al buon Principe ch’egli non era più padrone degli uomini di quello che lo fosse dell’Erario; e ch’egli era amministratore come dell’Erario così delle Leggi, de’ riti e delle opinioni de’ Sudditi; nessuno vi fu che gli ricordasse che è bensì vero che degli uomini se ne può far molto quando il Legislatore sapientemente combini i mezzi e disponga le opinioni; ma falso che se ne faccia quanto se ne vuole col semplice comando e colla forza, la quale non die’ mai la coltura, o la felicità a verun popolo, ma o fece deserti i Regni, o fece i sudditi ribelli o schiavi quai mandre di bruti; e quindi non mai produsse a verun Principe una durevole gloria. Le circostanze non furono bastantemente favorevoli perchè alcuno potesse indurre tai pensieri nel­l’animo di quel Principe, e così gli venisse dubbio sulla opportunità della politica del Czar Pietro singolarmente esercitata su contrade meno agresti. Quindi amando fervidamente il bene, impaziente di superare gli ostacoli, animato dalla nobile passione d’essere il libera­tore de’ mali che affliggono gli uomini, avendo la seducente pro­spettiva di collocare il suo nome nel tempio della immortalità accanto ai gloriosi Principi che intieramente si consacrarono a utilità pub­blica, nulla lo trattenne dall’affrontare tutti gli stenti, le cure, le dif­ficoltà, i pericoli d’una generale immensa riforma. Sin tanto che gli uomini appoggiavano i loro errori alle antiche loro costumanze, inu­tilmente si sarebbero staccati i rami sempre ripullulanti dalla vasta e poderosa radice; tutto conviene distruggere dove regni un morbo contagioso, conviene ridurre l’uomo alla nudità, e coprirlo poi con abbigliamenti nuovi e illibati. Conviene ridurre gli uomini al pironismo di ogni opinione per liberarli dai vecchi pregiudizi, e sulle rovine gottiche distrutte innalzare un regolare edifizio della Società. Questi pare che fossero i principi che diressero le operazioni del suo regno; principi che non credo doversi adottare perchè estremi, ma non deformi in vista della nobiltà del fine che si proponeva; felice dispo­tismo quello che scuotendo la umanità giacente nel letargo la desta a conoscere la dignità propria, a fuggire dalla miseria per abbracciare la ragione e la virtù! Nazioni corrotte, forza è pure che giugniate all’ultimo grado d’annientamento per rinvenire l’unico mezzo che vi rimane per risorgere! Quella spinta che non è più possibile che diate a voi medesime, il solo padrone ve la può dare. La Potenza ecclesiastica contenuta; innocenti vittime gementi per incaute promesse fatte per seduzione nella inesperta età richiamate alla vita; sostanze de’poveri distribuite con sapienza e imparzialità sulla classe più indi­gente; Alberghi destinati a soglievo della infelice umanità, riordinati; le pene ai delitti proporzionate; abolita la tortura; resa quasi obsoleta la pena di morte; prescritto un metodo invariabile al corso della giu­stizia; aperto l’adito all’appellazione; obbligati i Tribunali a dare i motivi delle Sentenze; reso libero l’esercizio di ogni utile industria; atterrati gli ostacoli per la circolazione delle merci; aperto un facile adito pel ricorso al Trono: ecco in breve i punti principali del maestoso edificio che disegnò Giuseppe Secondo. Ma come eseguirlo contemporaneamente nelle vaste e rimote Provincie? Forza era pure adoperar l’opera di chi vi presideva. Gli uni non osando d’affrontare i clamori, da tanta sovversione inseparabili, rimostravano ostacoli moltiplicati ed esagerati non di rado, e talvolta sognati; sia che pre­ferissero un placido e regolare ad un faticoso e incerto comando; sia che, come sogliono le anime volgari, nulla credessero buono, anzi nemmeno possibile, trattone quanto erano soliti veder accadere; e queste difficoltà sempre più irritavano l’Imperatore a superarle, colla solita energia delle anime grandi, che più credon degne di loro le imprese quanto son elle più difficili. Altri Presidj delle Provincie cie­camente adottando l’impetuoso spirito del Monarca, aggiugnendovi l’asprezza dell’orgoglio, devastarono, insultarono quanto di munici­pale rimaneva o ne’ Magistrati o nelle Leggi o ne’ riti de’ popoli, e così gli afflissero nella più cara e veneranda cosa aggiugnendo il di­sprezzo all’offesa: tanto poco conobbero gli uomini e la politica! Tanto poco s’occuparono di servir bene il Monarca e lo Stato! Ma se in vece le mani esecutrici dirette da un vero zelo e da migliore sapienza, celeri a spianar la strada del bene voluto da Giuseppe, arre­state si fossero a consultarlo e contraddire pe’ soli ostacoli che la ragione opponeva per l’indole particolare di ogni Provincia! Se nella esecuzione avessero mostrato ai popoli il fine retto e benefico delle operazioni! Se con dolcezza e umanità avessero temperati i parziali danni che recar deve ogni rivoluzione di sistema sebbene la più fe­lice! Ah se tali fossero stati tutti quali essere dovevano, no, che non si sarebbero ridotte le novità al punto… Ma volgasi il pensiero a men disgustoso oggetto: e bastino questi cenni perchè non s’incolpino al Monarca que’ danni che furono dipendenti non dalla sua, ma dal­l’altrui volontà; giacché per eseguire con celerità i nuovi sistemi era pure indispensabile il lasciare il più illimitato potere ai Capi, e in una estesa Monarchia non era fattibile l’accertar sempre alla scelta.

La guerra, nella quale le circostanze impiegarono l’Augusto Re fu un male, egli non può disimularsi; ma l’Ungheria senza un libero sfogo alle sue derrate gode d’una viziosa abbondanza, e rimane oppressa dalla superfluità de’ suoi prodotti, mancandole i mezzi per procurarsi le produzioni di altri climi. La navigazione del Danubio sgombra da ogni ostacolo può sola rianimare quel vasto e poderoso regno, al quale doveva Giuseppe la sua corona conservata in fronte dall’Augusta Sua Madre. Gli avvenimenti delle armi, le combina­zioni de’ Gabinetti possono antivedersi prossimamente bensì, ma non giammai con dati sicuri. L’esito non sempre prova il merito del progetto; e la Campagna ultima, in cui i nemici furono da ogni parte fugati e sconfitti, dimostra che la superiorità delle armate europee a fronte delle asiatiche fu una opinione ragionevolmente stabilita. Ah perchè mai un lento e irreparabile malore, frutto delle eccessive fati­che e del totale sacrificio che aveva fatto della propria esistenza per consacrarsi allo Stato, perchè mai nel pieno vigore degli anni venne a depravare gli umori vitali dell’Imperatore, e gradatamente strasci­narlo alla tomba prima che fossero condotte a fine le sue viste! Resi­stè egli bensì al languore del corpo, e vigoroso e attivo nell’animo parve che quest’ultimo fosse independente da quello; ma convenne cedere al comune destino. Cristiano illuminato e fermo, con rassegnazione e senza debolezza onorò la Religione sino all’ultimo respiro; tutti i sacri riti riverentemente bramò ed ottenne; morì da figlio fedele della Chiesa, quale lo riconobbe il Sommo Pontefice comunicandolo colle sue mani in Vienna e preconizandolo con encomio della sua Religione. Basta ciò a sgombrare ogni sospetto sulla di lui credenza e amore per la Religione, la quale appunto perchè gli era carissima cercò di mondare dalla superstizione e da quelle pratiche aggiuntele poi dalla cupidigia de’ suoi Ministri e dall’ignoranza de’ secoli pas­sati; superstizione che opportunamente proscritta ridurrebbe la santa religione Cattolica inacessibile ai tratti che i Protestanti slanciano contro di Lei. Poco rimane di compito ed eretto sotto il regno di Giu­seppe, poichè la morte prevenne l’esecuzione; rimane però abba­stanza per aspettarcene il bene, giacchè il Successore al Trono non incontrerà più antichi pregiudizj da affrontare, e le parti sconnesse della amministrazione non occorrerà più di svellere per collocarle sopra un regolare disegno. La ipocrisia non serve più di maschera al vizio, perchè è derisa; e la sapienza del nuovo Re potrà ricondurre la calma e la felicità su i popoli affaticati dalla sofferta rivoluzione e bra­mosi di pace e di riposo.

DIALOGUE DES MORTS. LE ROI FREDERIC, ET VOLTAIRE

Fr. Oh, oh Patriarche!… Voltaire! Tudieu, je vous trouve une bonne fois… Que diable faites vous ici bas, on vous cherche partout, on ne vous rencontre jamais.

Vol. Ah Sire!… C’est bien vous!… l’indefinissable Frederic que je vois! Je vous ai cherché de même: mais la-haut nous etions uniques en notre espèce, ici nous ne sommes que du peuple.

Fr. Rien n’est plus vrai. Ici nous sommes contemporains de tous les grands hommes qui ont successivement honoré la terre. Toutefois il me paroit qu’après avoir un peu satisfait ma curiositè par la connaissance de nos ancetres, on trouve plus de simpatie de s’aprocher de ceux qui vivoient de notre tems, ce sont pour ainsi dire nos compatriotes.

Vol. Ne seroit-ce pas l’esperance d’obtenir encore les homages de ceux qui etoient acoutumés à vous en rendre; car les Ombres, tout Ombres que nous sommes, conservent toujours quelque reste de leurs habitudes. Toutefois vous n’avez plus de quoi flatter leur amour propre, ni nous aucun moyen de relever votre gloire; ainsi ce qui cimentoit notre union n’est plus.

Fr. Pas cela, cher Patriarche; c’est que les evenemens qui nous interessent sont tres indiferens pour les autres. Par exemple Cesar, avec qui j’ai eu une longue conversation, d’où j’en viens, m’a baillé vint fois en face au recit que je lui fis de la revolu­tion qui vient d’arriver en France; il regarde toujours les Gaules comme un petit objet.

Vol. Il n’a pas tort, tout est relatif. Eh bien, Sire, avouez que vous vous êtes mocqué un peu mal à propos des geometres, et vous étiez prophete malgré vous, lorsque vous croyez de dire une absurdité, scavoir que les Geometres devoient changer la constitution Française et la rendre Republicaine. L’esprit géometrique a reussi.

Fr. Avoüez aussi, Patriarche, que vous vous etes moqué un peu mal à propos de M.r le Franc de Pompignan, sa vertu, son patriotisme viennent de l’éléver President de l’assemblée nationale.

Vol. Eh bien, c’est ce qui arrive dans le monde; on se trompe. Vous avez cru que les Geometres ne vous estimoient pas beaucoup; vous ne leur pardonniez pas de debiter que les Conquerans étoient de monstres qui à la tète de bourreaux mercenaires exercoient impunement tous les crimes. Je ne pardonnois non plus à l’Evecque le Franc de Pompignan d’avoir osé rélever mes travers. Nous avons été égarés dans nos jugemens par notre amour propre, nous n’avons rien à nous reprocher la dessus.

Fr. Mais en concience, cher Patriarche, croyez vous que les infinis du premier ordre, les abscisses, les ordonées, la raison directe ou inverse ayent causée la revolution! Sottises que tout cela.

Volt. En concience, Sire, je crois que l’esprit géometrique repandu sur la masse de la nation lui a donné l’habitude de raisonner, et que appliquant la raison aux objets du gouvernement la nation s’est éclairée. Elle a connu d’abord que c’etoit par pure illusion que le Gouvernement la fouloit aux pieds; qu’elle est plus forte que lui; que la force de tout gouvernement n’est qu’une portion de la force nationale. Elle a vu que tout gouvernement doit etre fait pour le bien-être de la Nation, et que c’est une prevarication absurde de rendre la nation le jouet du caprice du gouvernement: cette Majesté magique et imposante que la figure, le ton, l’air de grandeur de Louis XIV repandoient autour du Trone; l’éclat des exploits de ses armes; la Holande humiliée, le Palatinat anneanti, l’Espagne reduite en Province, le Teatre Français enrichi de chefs d’oeuvre sous sa protection; l’eloquence animée; tous les beaux arts embelissant son trone; la langue francaise devenue la langue de l’Europe, toute cette pompe, cette magnificence reunies avoient inspiré aux François un entousiasme d’adoration, ils ne sentoient plus leurs chaines, glorieux de la gloire de leur Monarque. Mais, Sire, peu à peu la fortune a changé, le successeur n’avoit pas cet ascendent personel, la gloire des armées françaises s’est eclipsée. Vous savez, Sire, quel traitement vous leur fites à Rosbac. Une dette immense toujours plus pesante par la dissipation d’une cour où la prodigalité étoit au rang des qualités Royales, des maitresses tirées de la lie du peuple qui pilloyent le tresor de la Nation, et qui faisoyent sauter les Ministres au gré de leur caprices; tout cela enfin a fait disparoitre le prestige.

Fred. Ecoutez, mon cher Philosophe, si j’avois été à la place de Louis XVI on ne se seroit pas ainsi mocqué de moi, et surement je n’aurois pas l’honneur d’etre le Restaurateur de la liberté Fran­çoise.

Volt. Je le crois; mais vous auriez laissé ce titre à votre successeur. Toute puissance civile ou militaire n’est fondée que sur l’opinion, Sire, et dès que l’opinion nationale est changée, la révolution est inevitable. Un grand homme peut prolonger ce terme, il est vrai, mais il ne changera pas pour cela l’ordre des choses.

Fr. L’opinion, dites vous, l’opinion! Je m’en mocque, et je m’en suis toujours mocqué, mon cher Patriarche. Lorsqu’on est à la tête d’un centaine de milliers de soldats bien agueris, qu’on a de quoi les nourrir, et qu’on sait mouvoir la machine, on se fiche de l’opinion.

Volt. À vous entendre, on s’apercoit que vous avez été Roi, car malgré votre esprit, vous en avez conservé les travers. Mais ces Soldats sur les quels vous comtez, Sire, sont-ils autre chose que des hommes! Tant que leur abrutissement leur rend supporta­le leur esclavage vous faites tout ce que vous voulez avec ces automates; mais dans un païs ou la raison ait fait de progrès, vos soldats mal nourris, mal payés, mal traités, au lieu de combattre l’insurection du peuple, s’accordent avec lui pour briser leurs chaines, comme il est arrivé à point nommé; ainsi l’opinion se mocque des Rois s’ils osent l’affronter lorsqu’elle est assez repandue.

Fred. Eh mon cher Monsieur, c’est que la discipline militaire étoit negligée en France, voila le vrai de la defection de la troupe.

Volt. C’est que, à mesure qu’un peuple sort de la barbarie et que la masse des connaissances s’aggrandit, il faut que la discipline militaire se relache. À mesure que votre discipline est plus ri­gide on a plus de dificulté à faire des recrues; à mesure que cela devient plus difficile il faut multiplier les avanies, les injustices et la violence pour recruter. Ainsi on rend toujours plus apparente la Tirannie et plus haïssable le gouvernement. C’est de la crasse de la nature humaine qu’il faut tirer vos heros, un citoyen bien né ne voit que la honte de devenir le support de la Tirannie s’il endosse l’uniforme, ainsi vous n’avez pour des Officiers que le rebut de la societé. L’honneur est un mot vuide de sens chez une telle milice; la seule organisation mecanique la soutient; chaque individu ne cherche qu’à s’echapper s’il peut; les peuples detestent la forme militaire du gouvernement: un moment de relache, une faute seule fait sauter en l’air le Despote, et renverse le Trone.

Fred. Eh bien, Monsieur le Docteur, qu’auriez vous donc fait de mieux, si vous étiez né sur le trone?

Volt. Si j’etois né Roi, j’aurois été bercé dans mon enfance tout comme un autre, les flatteurs m’auroient gatté, il est si doux de se persuader que nous valons mieu que tous les hommes, que toute une generation est faite pour obeir à nos volontés; il est si seduisant d’être un Dieu adoré, que la fatuité se seroit emparé de mon être, et j’aurois cru de bonne fois que le despotisme est l’état naturel de l’homme; jusqu’à ce que mon peuple levant enfin sa tête me fit sentir ses forces et me réveillat de mon reve.

Fred. De la fatuité! Cela est un peu fort, mon cher Voltaire. Eh pour la vulgaire des Rois passe encore; mais Frédéric, celui que vous apelliez le Salomon du Nord, celui qui attira à sa cour Vol­taire, qui étoit l’ami du Marquis D’Argens, celui qui fonda une Accademie des Sciences et y placa Maupertuis et Euler, Frederic qui entretenoit une correspondance amicale avec d’Alambert, l’ami de Algarotti, le protecteur de Denina, du moins Frederic sera une exception de la regle. J’ai honoré toujour le merite.

Vol. Sire, le tems de l’illusion est passé; nous sommes des ombres. Vous étiez ambitieux, vous sentiez le besoin de vous attacher les gens de lettres pour embellir vos ouvrages et vous rendre ce­lebre, les bons ecrivains sont les seuls conducteurs qui unissent un grand homme avec la posteritè. Mais dans le fond vous étiez tout comme les autres, vous n’aimiez les gens d’esprit qu’autant qu’ils en avoient assez pour priser la votre; dès que vous supçoniez qu’ils en avoient assez pour vous connaître et vous juger, vous les auriez ecrasés. Jordain étoit votre fait. Pour moi vous estimiez mes connaissances en me detestant, car vous aviez deviné que je vous avois defini. D’Alambert étoit assez peu philosophe pour adorer votre faveur, malgré les coups de patte un peu rudes que lui donnoit votre correspondance; cela a duré de loin; mais dès qu’il vous a aproché, il a pretexté sa santé pour faire retraite au plus vitte. Vous le regardiez comme le chef de la cabale philosophique de Paris, et le flattiez par intervalle sans l’aimer. Les autres hommes de lettres ont tous decampés, et à la fin vous aviez fait banqueroute tout de bon; à la place des Philosophes vous aviez un Lucchesini! Accoutumés à distr buer les rangs les Monarques s’indignent qu’un homme de genie se fasse un nom par lui meme indépendamment d’eux; et cela non pas seulement dans la Philosophie mais même à la guerre.

Fred. Mais vous monsieur de Voltaire, vous l’ennemi acharné de Jean Baptiste Rousseau à cause qu’il etoit meilleur Poete Lirique que vous; vous l’ennemi implacable de Maupertuis à cause qu’il etoit plus matematicien que vous. Vous qui aviez tant d’aversion contre Jean Jacques Rousseau à cause qu’il etoit plus éloquent et plus profond philosophe que vous. Etiez vous tout de bon l’ami du merite? Au diable l’Hipocrisie, vous vous accointez des Rois, vous leur prodiguez l’encens par pure ambition sans les aimer; tromperie de deux parts; pur commerce de vanité reciproque: nous n’avons point de reproche à nous faire non plus sur cet article. Rancune à part. Et que dit il votre grand Choiseuil de cette révolution? L’avez vous vu?

Vol. Que voulez vous qu’il dise? Que peut il dire de bon? Vous vous êtes mocqué de lui, Sire, et vous aviez raison. C’etoit un petit homme sans principes, glorieux, vain, hardi, remuant, qui à force de repeter je suis un grand Ministre est parvenu à le faire croire aux autres, et à la croire lui meme tout de bon. Il sera persuadé que tout cela n’est que la punition du renvoy qu’on lui a donné, et que si on lui laissoit le tems d’achever ses projets le Trone seroit affermi. Choiseuil etoit un homme d’État fanfaron, aussi c’etoit assez la mode des notre tems. Il n’y avoit que vous, Sire, qui n’etiez pas regenté; les autres pais etoient gouvernés par des charlatans qui en imposoient aux Monarques par le ton, par l’encoulure, par le maintien misterieux, par le don de la parole; ils se croyoient perdus sans leur secour. Les vrais hommes d’État ne peuvent avoir part à l’administration que dans un gouvernement ou la vertu preside. Les princes faibles sont gouvernés par de courtisans ou des empiriques; les despotes sont servis par des esclaves sans meurs; les bons princes, qui respectent la dignité de l’homme, sont aidés par des hommes vertueux, amis de la liberté.

Fred. Mais enfin je suis curieux d’apprendre ce que la France va de­venir. Jusqu’à present je n’y vois qu’une révolution. Pour le Roi mon confrere il sera dans l’heureuse impuissance de ne pouvoir nuire à personne non plus que celui d’Angleterre. Mais vos beaux esprits, votre Bailli, votre Neker, votre Mirabeau reussiront-ils à former une constitution, à la faire agréer à l’Assemblée Nationale? L’amour propre d’auteur y entrera-t-il à contrarier, à produire des débats? Le Français reussira-t-il à fixer une assemblée nationale, à établir la forme de son élection…

Vol. Et pourquoi non, Sire, dès que des hommes de genie s’en melent, dès qu’on est sensible à la gloire d’être le bienfaiteur de sa Patrie!

Fred. Mais que deviendra l’Europe, cher Voltaire, et l’equilibre tant vanté, et toutes les menées sourdes des cabinets que deviendront-ils ?

Vol. Ils deviendront ce qu’ils pourront; mais quand même la Politique changeroit de face, le gendre humain auroit-il de quoi se pleindre? La France jusqu’-à-present a donné des pompons, des danseurs, des friseurs et des cuisiniers au reste de l’Europe: son tour est venu pour lui donner le sentiment de la liberté. Tant que les principes du droit du citoyen ont été naturels à la Grande Brettagne, ils etoient détachez du continent, la vulgaire regardoit les Anglais comme de bizares heretiques qui avoyent une morale feroce: maintenant, Sire, c’est dans le ventre du continent que les verités lumineuses ont paru au grand jour; elles sont repetées, et le seront, dans de livres qui passent par les mains de tout le monde, on sera temoin de la gloire et du bonheur enfantés par la nouvelle Legislation, on sera à même de comparer le dispotisme qu’on souffre avec la liberté qu’on voit regner à deux pas; l’abus du pouvoir deviendra insupportable, le peuple sentira ses forces, et suivra tôt ou tard l’exemple de la France.

Fred. Ecoutéz, Patriarche, entre nous, je n’en serois pas faché: que mes successeurs y pensent; c’est leur affaire. Pour le Roi mon neveux, illuminé, il joue le role de Louis XV; celui qui lui succedera pourra à son tour être le restaurateur de la liberté du Brandebourg; car Guillhaume Frederic est à l’abri de la gloire de mon regne, qui n’est pas si tot oublié. Si les rois mes voisins n’avoient pas été de despotes, s’ils ne m’avoient pas insulté, croyez-vous que j’aurois quitté mon cabinet, ma musique, la societé aimable de gens de gout et d’esprit, pour les horreurs et le carnage de la vie militaire? À Vienne on se mocquoit de moi; on me ravalloit comme un parvenu à la royauté, la hauteur autrichienne me forca, malgré moi, de devenir un conquerant. Les cabales des Cours, les intrigues, les menées des cabinets me forçerent à cabaler, à intriguer, à surprendre à mon tour, et à faire voir que meme dans ce metier j’etois aussi habile qu’un autre. L’acharnement de mes ennemis, qui dans le fond haissoient l’usage que je faisois de ma raison, et ne me pardonnoient pas d’avoir foulé aux pieds les prejugés dont ils étoient les esclaves, leur acharnement dis-je me forca à devenir soldat. Si l’Europe de mon tems eut été gouvernée par de Monarques limités dans leur pouvoir, si les autres nations de l’Europe auroient vecu sous une constitution libre, je me serois contenté de vivre en paix, de jouir des plaisirs des beaux arts, de les voir éclore et fleurir autour de moi; de rendre heureux mes Patriotes. Ainsi loin de m’opposer à votre presage, cher Voltaire, je regrette qu’il n’ait pas été averé un siecle plus-tôt.

Volt. Je ne sais pas si vous etes sincere dans ce moment; je sais bien que vous prenez votre parti, même ici bas, en homme d’esprit comme vous avez toujours fait. Toutefois ne craignez pas pour vos successeurs. L’Allemagne ne se hattera pas d’imiter. Il faut que les Espagnols et les Italiens aient auparavant leur tour. Malgré leur superstition, malgré la corruption des meurs, ils ont plus d’étoffe que vos Allemans.

Fred. Addieu, Voltaire, je vais chercher Marie Therese, je suis curieux de voir la sensation qu’elle aura reçue par les nouvelles du jour, car elle ne l’ignorera pas surement; ce gros Foullon en arrivant ici a fait tant de tapage! Addieu Patriarche.

Vol. Addieu, Sire; et moi je m’en vais chercher ma bonne Marquise de Chatellet; il y a toute apparence que ma conversation sera plus amicale.

DIALOGO FRA L’IMPERATORE GIUSEPPE SECONDO E UN FILOSOFO

Quantunque sia contro la verità della Storia questo dialogo fra due esseri che non si accostarono mai, ho creduto che tal finzione fosse opportuna per illuminare alcuni principj di Politica.

Giuseppe Secondo, e un filosofo.

Gius. Ho viaggiato più volte per le mie provincie; ho attentamente esaminato lo stato loro, e il risultato concorde di tutte le mie osservazioni mi ha fatto vedere che il Clero, i Ministri, e i No­bili sono i tre corpi che opprimono l’umanità e legano le mani ai Monarchi, e che non era sperabile una felice rivoluzione se non rimediando a questi abusi. Ho veduto che il Clero è un vero Status in Statu, che l’orgoglio e l’interesse sono i soli principj che animano gli ecclesiastici, e la religione è un mezzo, non già un fine; essi cercano sempre l’indipendenza, vorrebbero es­sere liberi da ogni giurisdizione; le loro abitazioni, i beni loro, le loro persone, tutto vorrebbero sottrarre dall’autorità del Principe, e in qualità di maestri degli altri uomini, anzi di me­diatori fra gli uomini e la Divinità tentano di erigersi in arbitri fra il Monarca e il suo popolo: per poco che si lascino fare, terrebbero il Sovrano come uno scolare nella loro tutela. Pronti a commovere l’incauta moltitudine contro la legittima autorità, tosto ch’ella mostri vigore, sappiamo a che siano giunti sotto un principe debole e col favore della ignoranza. Il ceto de’ Mini­stri scelti uno ad uno dal Sovrano è pure per abuso diventato un corpo resistente al Sovrano medesimo, non colla aperta op­posizione di cui è capace il Clero, ma sempre sotto l’apparenza di servigio. L’usanza di rendere perpetue le cariche e di non rimovere gl’individui nominati senza un delitto e un processo ha fatto sì che i Ministri sedenti ne’ Collegi e Tribunali poco dopo della loro elezione dimenticandosi del beneficio s’acco­stumino alla carica, quasi fosse ereditaria di famiglia e quasi la autorità loro fosse una parte della Sovranità inerente al loro ufficio. Quindi gli ordini i più benefici emanati dal Trono in­direttamente si eludevano o temporeggiando colle formalità, ovvero rimostrando gl’inconvenienti della esecuzione o imma­ginati o esaggerati. Da ciò ne nasceva che i Ministri, in vece di essere esecutori degli ordini Sovrani e servitori dello Stato, erano degenerati in una classe di uomini che limitava la Sovra­nità e s’arrogava in utilità personale una parte degli omaggi del popolo, forse la migliore. La classe de’ Nobili poi, allevata nel pregiudizio e nell’ignorante orgoglio del gius feudale, avviliva impunemente la più utile e laboriosa porzione de’ miei suddi­ti sino alla schiavitù; e co’ pretesi privilegi suoi emanati dai se­coli più tenebrosi presentava un obice ostinato a qualunque utile riforma. Tanto più terribili erano questi abusi quanto che il Clero, i Ministri e i Nobili si riunivano nel comune interesse di attraversare la potenza del Monarca e reciprocamente si so­stenevano contro del nemico comune. Questo fu il risultato che ricavai da’ miei viaggi e dalle mie osservazioni.

Prima di ascendere al trono ebbi tutto il tempo per prepararmi a rappresentare sul teatro d’Europa la mia parte. Dovetti scegliere o d’essere un Sovrano dozzinale destinato alla serie cronologica, ovvero di sbrigarmi da questi nemici. La mia ani­ma attiva e sensibile alla gloria prese la seconda determinazio­ne. Pensai al modo per riuscirne, e non ancora l’aveva io ben fissato quando ricevetti il sommo potere. Quindi dapprincipio camminai con qualche incertezza. Se fossi stato sicuro di vivere un pajo di secoli e conservare per sì lungo spazio di tempo le forze della mente, forse per giugnere al mio fine avrei preso gli uomini dalla parte della opinione, e colla pubblica educa­zione, preservando la generazione crescente dai pregiudizj e illuminandola su i veri suoi interessi, avrei ridotti al discredito e alla detestazione i corpi ecclesiastici, ministeriali e nobili a meno che non avessero cangiato lo spirito; ma la vita d’un So­vrano non è più lunga di quella d’ogni altro uomo, e tentando un tal mezzo placido e naturale, o avrei lasciata tutta la gloria del fatto a’ miei successori senza parteciparne, ovvero avreb­bero questi incautamente rotti i fili d’ogni mia operazione.

Conveniva venire a una scossa, a un generale terremoto, espor­si all’odio, alla maldicenza, incutere spavento e timore, e innalberare avanti gli occhi attoniti de’ sudditi una volontà so­vrana irresistibile, che rovesciando le leggi, i sistemi, le opinioni sin a quel punto rispettate riducesse gli uomini in uno stato di stordimento e d’indifferenza. Questo fu il mio vero progetto, e credo che fosse il solo mezzo per ottenere il fine.

Fil. Ma quando avete così ridotto il Clero senza autorità, i Ministri senza condecorazione, i Nobili senza potere e il popolo senza leggi e sbalordito, avete voi pensato se la morale pubblica po­tesse reggere col Clero ridotto in tale stato, se potevate aspet­tare zelo e affetto da’ Ministri degradati, se nelle vostre arma­te avreste conservata la buona volontà senza l’ajuto de’ Nobili?

Gius. La morale l’insegnerà il Clero quando disperando dei fini mon­dani predicherà coll’esempio e col cuore la semplicità della Re­ligione. Sono bastantemente disingannato del preteso zelo de’ Ministri, con questa parola gabbando il Principe non cercava­no che l’interesse loro. Ho sostituito a ciò una organizazione di registri che gli obbliga a camminar dritto. Per le Armate tanto mi serve un generale nobile quanto di fortuna. Sono opinioni ridicole.

Fil. Dubito assai di ciò. Il Clero è un ceto d’uomini soggetti alle stesse passioni che agitano ogni altro uomo o ceto d’uomini. Colla violenza, col disprezzo, col sovvertimento d’un sistema non si produrrà mai l’effetto di rendere quegli uomini vestiti di nero più illibatamente affezionati al loro sacro ministero. Cia­scun ecclesiastico considererà l’epoca in cui vive come quella d’un disastro; si distaccherà coll’affetto da quello spirito di corpo che forma l’uniformità, perchè s’ama quella classe a cui si è ascritto sin tanto ch’ella è onorata, e quando cessi d’esserlo quasi si sdegna l’uomo di trovarvisi. Quindi l’ecclesiastico perde ogni cura della Religione, volge in tal frangente tutt’i pensieri a sè medesimo, alla fortuna propria disgiunta affatto dalla disperata fortuna del suo corpo politico, diventa, se oc­corre, dissoluto, scostumato, imbroglione, senza ritegno si ab­bandona al proprio genio, perchè gli avviliti suoi superiori mancano di mezzi per contenere la disciplina. Da tutto ciò ne­cessariamente deve nascere che la morale pubblica affatto sva­pori, colla degradazione di quei che ne sono gli unici maestri; e per conseguenza il popolo dovrà corrompersi sempre più sino al segno di non avere altro limite della improbità fuori che i giudici criminali, i quali saranno essi pure corrotti colla massa di tutta la nazione.

Gius. Veramente il Clero ne’ miei Stati promoveva una gran bella morale! Appena aveva l’insegna d’una sfacciata ipocrisia, e questo era l’unico omaggio che rendeva alla virtù; moltipli­cate le superstizioni, fomentate, promosse; ridotto a fasto e pompa de’ preti lo stesso culto della Divinità; ammassate ric­chezze a spese della credulità pubblica… questi sono gli og­getti che occupavano il Clero, al quale realmente era indiffe­rentissima cosa che il costume pubblico fosse buono o cattivo, purchè si portasse denaro al convento e alimento all’orgoglio sacerdotale.

Fil. Chi vede l’oggetto dal solo canto diffettoso non lo vede con esattezza. Niente v’è di perfetto nel mondo, e un Monarca non deve mai immaginarsi di togliere i mali dal mondo, ma soltan­to di ridursi al manco male. La questione è se il Clero sia di­ventato più utile, ossia meno nocivo allo Stato colla seguita de­gradazione e rivoluzione di cose. Altra questione può farsi, cioè se vi fosse altro mezzo per migliorare lo stato del Clero, come a me sembra.

Gius. Vediamo di grazia cosa avreste fatto voi.

Fil. Eccolo: avrei promosso ai Vescovadi uomini di vita illibata non solo, ma disinteressati, limosinieri, nemici del fasto, apostolici e capaci di parlare al popolo il linguaggio paterno e amorevo­le della religione. Avrei badato perchè nelle cariche distinte della Chiesa fossero promossi soggetti di indole corrisponden­te e colti e innamorati del culto divino. Sopra tutto avrei avuto attenzione di escludere i caratteri austeri o violenti, e dare l’au­torità ai prudenti, miti e toleranti che rendessero amabili i do­veri di religione. A questi superiori ecclesiastici avrei lasciata pienissima facoltà di punire con pene canoniche i loro subal­terni, non carcere, non multe pecuniarie; ammonizioni, mi­nacce, sospensione, interdetto, espulsione dal ceto, ecco i cinque gradi di castigo che avrei lasciati in libero potere de’ su­periori. Avrei però organizate le cose per modo che il capric­cio o l’opinione d’un uomo solo non potesse mai infliggere nemmeno tai pene, ma che sempre fosse una congregazione ec­clesiastica che conoscesse le cause di tal natura. I Parrochi gli avrei resi tutti ammovibili e non mai fissi a perpetuità, cono­scendosi che la loro innamovibilità li rende inerti, orgogliosi, e non di rado scostumati. I Seminarj sopra tutto poi sarebbero stati oggetto di mia cura, essendo impossibile la correzione degli uomini e facile la docilità della gioventù; avrei posta ogni attenzione nella scelta de’ giovani da collocarsi nel Seminario, dovendo l’indole placida, l’ingegno pronto, l’inclinazione allo studio e certa nobile disposizione di natura intervenire per pri­mordiale disposizione, acciocché un giovine venga giudicato abile alla educazione del Seminario, da cui devono uscire i maestri, i direttori, gli esemplari degli altri Cittadini. Ne’ studj del Seminario avrei disposto che nulla v’entrasse la controver­sia, che la storia ecclesiastica insegnata con imparzialità, e con essa le diverse opinioni nate nella Chiesa fossero la principale occupazione de’ studj, e che la teoria e la pratica della vera mo­rale fosse l’atto principale della Religione dopo il culto della Divinità. Decenza, toleranza, prudenza, fraterna benevolenza, probità dovrebbero essere le doti da coltivarsi, disinteresse, alienazione dal fanatismo dovrebbero incessantemente ricor­darsi ai giovani leviti. Questo è quello che avrebbe potuto cam­biare l’aspetto del Clero e renderlo più rispettabile e più utile. Io non avrei rotto con Roma per altro che per ottenere la li­bertà di far questo, e di porre moderatamente limite a tante vit­time, monache e frati, che meritavano riforma, ma con mino­re violenza.

Gius. Io era sdegnato dalla prepotenza ecclesiastica, che voleva non solamente l’indipendenza, ma il comando ne’ miei Stati, e che da pari a pari intendeva di contenderla e garrir meco. Con un colpo ardito ho fatto in polvere quel colosso.

Fil. E avete fatto in polvere il costume de’ vostri popoli rendendoli incerti come lo vanno diventando sulla religione. Un Monarca non deve operare mai perchè sdegnato. Ogni atto di sua vo­lontà porta influenza su molti milioni d’uomini. Dopo maturo consiglio devesi operare, antivedendo colla fredda ragione le conseguenze d’ogni novità. Le grandi intrapprese vogliono bensì impeto nella esecuzione: ma debbon essere precedute dal dubbio e dall’esame tranquillo. I popoli perderanno il costu­me; diventeranno indifferenti per la religione; non avranno altra connessione col Sovrano che la forza, e se i Ministri e il Militare acquistino questi gradi sarà in pericolo la Sovranità de’ vostri successori.

Gius. Per questo poi toccherà ad essi il pensarvi; quanto a me non ne ho punto inquietudine, e sono certo che come il Clero non osa più credersi indipendente, così nemmeno i Ministri ardiscono più di considerarsi correggenti meco, ma si conoscono meri esecutori de’ miei comandi.

Fil. È vero che i Ministri sono avviliti, che il loro ufficio è diventa­to precario e incerto, che tutti tremano quando ricevono lo sti­pendio che ciò non sia per l’ultima volta, e che prima di espor­re la loro opinione badan bene per minuto alla fisonomia de’ loro Presidenti per non dispiacer loro, poichè da essi dipende il destino di ciascuno. Ma nessuno ha impegno perchè riesca­no felicemente i nuovi regolamenti; a nessuno preme nel se­creto del suo cuore la gloria e la felicità del vostro regno; cia­scuno opera unicamente quanto basta per continuare nello stipendio.

Gius. Aggiugnete opera dritto, opera senza arbitrio, dà corso agli affari, serve in somma e non comanda.

Fil. Cioè tutte le carte sono segnate con numeri progressivi, e non se ne fa dispersione; tutte le proposizioni sono scritte e si man­dano alla Censura. Ma non sono sincere le proposizioni, nè sin­cere le spedizioni, tutto è servilmente larvato, e la ingenua opi­nione nessuno osa più di palesarla dipendendo il tutto dal dispotismo illimitato de’ vostri Presidenti, i quali tanto più a man salva operano a capriccio quanto meglio s’ammantano col forzato parere de’ loro Consigli. L’organizazione d’un Dicaste­ro è un bene sicuramente; ma è un bene secondario, essendo il primario bene la buona volontà, la rettitudine, e i lumi de’ Mi­nistri, le quali proprietà vogliono necessariamente una non pe­ricolosa indipendenza nelle opinioni. Se il Presidente voglia una ingiustizia, il Consigliere o deve sacrificare la sua morale ovve­ro la sua carica; e non è buon sistema il costituire gli uomini in questa alternativa, nella quale la morale sarà sempre sacrificata.

Gius. Ho conosciuto gli uomini abbastanza, non v’è altro commer­cio fra il Sovrano e i sudditi che falsità. Ne’ dispacci sempre il Monarca parla de’ suoi amatissimi popoli, sempre del suo pa­terno amore; nelle loro rimostranze i sudditi impiegati sempre parlano del loro zelo, pronti a sacrificar tutto pel loro padro­ne. Più ridicola commedia di questa non v’è. Uno comanda, gli altri obbediscono; uno pensa, eseguiscono gli altri. Ecco i veri e genuini rapporti che unicamente si debbon trovare fra il So­vrano e i Ministri; se questi ultimi s’ingeriscono nel comando, se vien loro voglia di pensare è sempre a spese del Sovrano, e il loro zelo è veramente di fare il privato loro interesse.

Fil. La virtù dicesi sta riposta fra due estremi, e fra due estremi pa­rimenti stanno le verità morali. Errore è il credere facilmente ai sentimenti che ci vanta chi ha bisogno di noi. Errore è il cre­dere che nessuno da noi dipendente possa avere sentimenti per noi. Nessuna organizazione automatica produrrà mai un effet­to paragonabile al servigio reso col cuore e con sincero e inge­nuo interessamento; ed è men male l’essere qualche volta de­lusi da un mentito e ipocrito zelo di quello che sia lo spegnere ogni sentimento d’affetto ne’ nostri servitori. Non è possibile che un Monarca pensi solo a tutto nella vasta sua Monarchia, conviene che i suoi ministri pensino pure sì per suggerirgli quanto presenta l’aspetto locale, quanto per modificare o so­spendere anco gli ordini emanati dal trono sulle non prevedu­te circostanze.

Gius. Certamente così debbon fare, e peggio per essi se non lo fanno, me ne sbrigo da un momento all’altro, levo ad essi la carica, il soldo, e servon d’esempio.

Fil. Esempio che incute timore bensì, ma zelo e affetto non mai.

Gius. E il timore è appunto il solo canto per cui si trova la strada di andare al cuore d’ogni uomo. Tutti sono sensibili al timore, po­chissimi all’eroismo che omai è confinato ne’ libri de’ romanzi e ne’ poemi. I Don Chisciotte sono rari.

Fil. Il timore fa che un Ministro operi il meno che può e ponga in veduta quanto opera il più che può; e serva senza alcun interessamento, per avarizia o per bisogno. Certamente da una mandra di schiavi non v’è pericolo che il Monarca trovi con­traddizione a’ suoi voleri. Comandi egli pure di mettere il fuoco alla Città che s’armano di fiaccole e la inceneriscono. Ma que­sta cieca obbedienza è rovinosa per la gloria del Monarca e per i suoi interessi. L’abuso del potere ne’ Ministri meritava rifor­ma, i Tribunali giudiziarj che ad arbitrio disponevano della vita e delle sostanze dovevano essere contenuti e limitati ad ammi­nistrare giustizia regolarmente coll’appoggio delle leggi; dove­vano essere ridotti a servire allo Stato, non a signoreggiarlo. I medici sono fatti per gli ammalati, e non gli ammalati per i me­dici. Ma degradandoli, spogliandoli d’ogni esteriore condeco­razione, riducendoli al semplice mecanismo, rendendo preca­ria la loro situazione e dipendente da un mero capriccio, le cose sono state portate all’estremo opposto vizioso. Non si farà nè il bene del Principe, nè il bene dello Stato, poiché alla lunga tutte due queste cose sono una sola cosa.

Gius. Un buon piede formidabile militare renderà sempre rispettata la potenza, e sarà garante della esecuzione de’ piani.

Fil. Resterà a vedere qual caso col tempo si potrà fare di questa mi­lizia. Il popolo nascente non è più contenuto nè dall’imponente corredo della religione, nè dalla maestà de’ Ministri e Tribu­nali, nè dalla dignità de’ Nobili, nè dalla pompa stessa del Mo­narca, che non ha voluto nemmeno essere debitore ai popoli di quella ereditaria illusione. Uomini plebei allevati così senza principj e senza contegno s’arruoleranno soldati o per forza o per volontà. Naturalmente formeranno la opinione che un uomo vale un altro uomo e che il fantacino e il Monarca sono due uomini. Con questa idea chiara in mente dovranno essi esporsi alla miseria, ai disagi, alla mutilazione, alla morte per obbedire a un altro uomo che gli dà un nero pezzo di pane e un pezzo di bue al giorno per mercede, e li bastona e incatena senza risparmio. Avranno per loro condottieri uomini plebei innalzati per gradi nella milizia, i quali commettendo una viltà, qualora vengano anche scacciati nulla perdono ritornando alla primiera loro condizione. In verità che una tal milizia non sarà tanto sicura quanto quella che unita col giuramento; cimenta­ta dai doveri di fedeltà imposti dalla Religione; animata dagli ufficiali nobili, che soffrendo insieme co’ soldati gl’incomodi e i pericoli col loro esempio autorevole loro rendono i mali più leggeri; gloriosa di servire a un Monarca, la grandezza di cui si comprende coll’apparato e colle insegne inseparabili dalla Sacra persona di esso, non ardisce nemmeno di paragonare se stessa colla potenza quasi divina a cui obbedisce.

Gius. Andate a viaggiare la Moscovia, esaminate quegli eserciti che hanno posto in pericolo imminente il Re Federico Secondo e l’Impero Turco, e vedrete se le vostre idee sieno verità, ovve­ro speculazioni d’un filosofo che non conosce gli uomini.

Fil. Conosco la Moscovia. So che ivi più d’una rivoluzione anche in questo secolo ha sparso il sangue del legittimo Monarca per collocare sul trono nuovo padrone. So che quell’impero pre­senta sterminati deserti, somma miseria e schiavi abrutiti. So che quell’impero è una vera decorazione da teatro, che da lontano fa comparsa e veduta da vicino è un meschino mobile. Chi prende per modello quella Autocrazia deve temerne gli effet­ti. L’imitazione è sempre dannosa, Montesquieu ha dimostra­to che i regolamenti debbon essere diversi sotto climi diversi. Pietro, che chiamavasi a torto il Grande, e tale non è che per i vizj grandi e imponenti, si propose capricciosamente per mo­dello l’Olanda, paese mancante di terra e repubblicano. Chi si proponga Pietro e la Moscovia per modello rischierà di anda­re in rovina, spopolare lo Stato, e lasciare un nome infausto dopo di sè.

Gius. Basta. Ho fatto un colpo ardito. Ho rovesciato tutti gli antichi sistemi. Erano fabbriche vecchie, senza buon disegno. Se i nuovi edifici cadranno, avrò sempre fatto il bene di aver tolta dagli uomini l’adorazione succhiata col latte per le ereditate chimere, avrò sempre spianata la strada per le utili riforme, una crisi violenta era il solo mezzo per liberare i corpi politici dalle antiche malattie.

Fil. Forse da questo disordine ne potrà venir un bene. Londra è debitrice al funesto incendio del 1766 d’essere una Città ben fabbricata. Lisbona è abbellita dopo il terremoto del 1755. Ma non per questo un incendio e un terremoto sono un beneficio. Forse le generazioni venture ne staranno meglio; ma con que­sto forse la generazione attuale tutta, senza alcun forse, ne sof­fre il danno.

DIALOGO FRA PIO VI E GIUSEPPE SECONDO IN VIENNA

L’immaginazione d’uno Scrittore rappresenta gli uomini quali po­trebbero essere, e purchè non offenda la verosimiglianza abbandona la realtà. Il Papa l’ho rappresentato ragionevole, umano e capace di grandi pensieri quanto essere lo può un uomo di spirito che non è uscito mai dalla Romagna. L’Imperatore illuminato, attivo e fermo si prepara a creare un’epoca gloriosa.

Dialogo fra il Papa, e l’Imperatore.

Pap. Vorrei potere esattamente esprimere colle parole la ricono­scenza che provo per tanti atti di bontà, co’ quali Vostra Mae­stà mi ha onorato e mi onora.

Imp. Il successore di San Pietro, il Capo visibile della Chiesa esiggevano da me tutte le dimostrazioni di ossequio, e da che ho l’onore di conoscere la degna Persona della Santità Vostra que­sto debito lo soddisfo volentieri. Vorrei ch’Ella trovasse ne’ miei Stati di che rimaner contenta del viaggio intrappreso.

Pap. Questo interamente dipende dalla Maestà Vostra, eccomi nelle sue mani, s’ella vuole mi rimanda glorioso in Roma, e s’ella pure lo vuole imprime al nome di Pio Sesto la macchia indele­bile d’avere prostituita la dignità del Sommo Pontefice.

Imp. Padre Santo, il primo fra i miei doveri è quello di far il bene del mio popolo; sarò cortese, umano, compassionevole quanto è compatibile. La mia lettera che deve esserle stata presentata dal Cardinale Hertzan lo aveva prevenuto su di ciò, nè mai potrà la Santità Vostra imputare a me se la negoziazione che ha voluto con tanta solennità intrapprendere comparirà al­l’Europa terminata con esito poco felice per lei. Ma non par­liamo di affari.

Pap. Anzi parliamone a questa condizione soltanto, che se in que­sta prima conversazione ci riesce di andare d’accordo ne’ principj, proseguiremo; se mai non ci riescisse, non ne parleremo mai più. Io ne do la mia parola alla Maestà Vostra Cesarea, le domando un solo quarto d’ora di pazienza, e a così buon patto ella acquista la sicurezza di non essere ulteriormente importu­nata.

Imp. È discreta la proposizione e l’accetto. Ma Vostra Santità tenga per fermo che quanto mi è cara la Religione, che tende a ren­dere gli uomini fedeli ai loro doveri, discreti, umani, altrettan­to detesto la superstizione e il fanatismo, che con scimiotterie esterne covano il vizio, fomentano le più funeste passioni e de­turpano la nostra specie. Non più oziosi a salmeggiare e a promulgare le superstizioni. Non più gemiti ne’ monasterj di tante vittime sepellite vive. Non più impertinenza de’ preti indipen­denti dal legittimo Sovrano. Ordine, attività, ragione, industria, queste siano le disposizioni che mi pongano in grado di alleg­gerire il peso de’ tributi sul mio popolo. Ma gl’interessi di Roma non sono i medesimi.

Pap. Crede dunque la Maestà Vostra che io sia venuto a Vienna per impetrare la rivocazione di alcuna delle leggi che ha sin’ora promulgate? Non è così. L’Editto della Toleranza è conforme al vero spirito del Cristianesimo. Se Gesù Cristo visse pacifi­camente co’ Giudei, co’ Samaritani; se gli Apostoli vissero pacificamente co’ Gentili; se in Roma vivono pacificamente gli Ebrei che credono Cristo un impostore; non può mai essere ri­provabile altro che la persecuzione. Vostra Maestà mi ascolta non senza sorpresa a ragionare diverso da quello che feci ne’ miei brevi scritti nel Palazzo Vaticano, ove mi conveniva tene­re il linguaggio della Curia; ma ora espongo i miei genuini sen­timenti. Questa animosità di partito fra i Cristiani; questo fa­natico zelo opposto allo spirito consolatore e conciliatore di Cristo, questa atroce pazzia della persecuzione si è sistemata col nascere de’ Domenicani. Sono talmente persuaso che la toleranza è conforme alla Religione e al bene dello Stato, che il mio progetto è d’impetrare dalla Maestà Vostra i mezzi per in­trodurla nello Stato Pontificio, dove il Papa è troppo debole per affrontare gli errori volgari.

Imp. Se avessi mai dubitato della infallibilità della Santità Vostra sarei sul punto di rinvenirne. Mi fa sorpresa e ammirazione quanto ella mi dice. Se la nobile Verità fosse personizata par­lerebbe questo linguaggio.

Pap. I frati (diciamola liberamente) erano le milizie pontificie ac­quartierate negli altrui Stati, indipendenti da ogni giurisdizio­ne locale e col di loro mezzo sin tanto che si lusingarono i Sommi Pontefici di conservare e accrescere la Sovranità par­ziale in tutta l’Europa, tennero sommessi i Vescovi, vennero in­formati di ogni avvenimento, diressero le coscienze de’ suddi­ti, promulgarono le favorevoli dottrine, conservarono la giurisdizione sulle persone e beni di chiunque col mezzo della Inquisizione, e infine operarono quanto pareva impossibile di fare colla mera opinione per soggiogare la forza. Ulisse accecò Polifemo. I tempi sono cambiati. Ora il giuoco è scoperto e la macchina screditata diventa inutile. I frati sono oggidì una col­lezione di uomini sottratti alla civile società e viventi a puro di lei carico, e sotto la corteccia della pietà sono infelici forzati a vivere sotto un domestico dispotismo, maledicendo il momen­to in cui nella tenera età incautamente pronunziarono i voti per insidiosa seduzione d’un frate che per darsi credito nel con­vento procurava le reclute. La vita de’ frati nemmeno è utile per l’esemplarità. Se la Maestà Vostra, come non ne dubito, converte i loro beni in soccorso degli ospedali, degli orfanotrofj e di simili benefiche instituzioni, e se colla sua paterna umanità provede ai frati individui sottraendoli dalla inquietu­dine della loro sussistenza, l’abolizione de’ conventi è un’ope­ra durevole e cristiana.

Imp. E per la dispensa de’ voti monastici i rispettivi vescovi…

Pap. Nè Vescovi, nè Papa nè alcuno vi occorre per dispensare da una obbligazione estinta. I voti non debbonsi dilatare, ma si li­mitano alla intenzione e alle parole pronunziate da chi li fece. Questi sono obbligatorj relativamente all’instituto. Si promet­te obbedienza al Superiore dell’instituto; cessa d’esservi l’instituto, e cessa l’obbligo di obbedire. La povertà s’appoggiava all’instituto che nodriva gl’individui addetti, cessato questo ogni individuo possede la pensione assegnatagli e può acqui­stare. La Castità era promessa vivendo colle tali austerità, colla tale disciplina, nella tale solitudine, queste cose vengono distrutte e non è più obbligato l’individuo a fare sforzi non su­perabili dalle sue facoltà per soggiacere a peso non preveduto.

I voti sono sciolti colla distruzione della Casa religiosa, come colla morte d’un conjugato resta libero il superstite.

Imp. Comincio a ritrattarmi, Santo Padre, non ecciterò più i Vescovi a dispensare dai voti monastici; quando la buona fede e la ra­gione s’annunziano in questo modo, Giuseppe si crede più glo­rioso seguendole anzi che insistere sulle prime orme. Il mio regno sia quello della Verità e della Virtù. Virtute et exemplo, questa è la mia divisa, e questi saranno i mezzi che adoprerò per migliorare la condizione degli uomini de’ miei Stati.

Pap. Quelle infelici poi che condannate a perpetuo carcere gemono nel chiostro straziate dal bisogno della natura che le invita ad essere feconde, e più straziate ancora dalle disensioni nelle quali si esercita l’attività femminile mancante d’altro sfogo, quelle null’altro servigio rendendo alla Chiesa Romana se non quello di affezionare a’ di lei riti le famiglie opulenti e insensi­bili, che scaricano nel di lei seno le sorelle e le figlie conservando pel fasto domestico la dote che doveva essere in pro­prietà di esse. Il porre un termine a questi sacrifici di vittime umane, il disciogliere queste catene e liberare le vittime è legge degna d’un ottimo Principe, ed è interamente conforme allo spirito libero e soave della vera Religione di Cristo. Su questi punti, tanto sono lontano dal perorare contro l’umanità e la ra­gione che il fine che mi sono prefisso nel mio viaggio è d’im­plorare l’assistenza della Maestà Vostra per togliere da tutta la Chiesa di Dio questi abusi, e cominciare a darne io stesso l’esempio nella Romagna.

Imp. Padre Santo, tanta è la mia gioja, tanta è la venerazione mia verso della Santa Persona di lei che non posso esprimerlo. Vero Padre de’ fedeli, vero Capo della Religione di Cristo! Se i di Lei antecessori avessero pensato così bene; se il vero amore disin­teressato della religione avesse dettate le loro massime, la Chie­sa sarebbe ancora una sola vivente in concordia, il Papa sa­rebbe il Padre comune, e tanto sangue sparso, tante miserie sofferte non deturperebbero la storia di questi ultimi secoli!

Pap. Ebbene, Augusto Monarca. Termini a questo punto la storia delle nostre pazzie. Sia quest’anno 1782 l’epoca gloriosa in cui, abolito l’odioso nome di eretico, ogni Cristiano riguardi ogni Cristiano come suo fratello, e il Sommo Pontefice risguardi come suoi veri figli i Cristiani tutti adoratori di Cristo, profes­santi il Vangelo qualunque sia il loro rito, qualunque sia la loro opinione Teologica. Io non posso considerare i Protestanti come Cristiani nella via della salute; la mia credenza è che sieno nella strada della perdizione. Essi sono Cristiani peccatori; ma sebbene io non approvi il loro peccato, son disposto a consi­derarli come Cristiani componenti una sola religione, di cui è capo Gesù Cristo. Posso accordar loro il matrimonio de’ Pre­ti. Posso accordar loro la comunione sotto le due specie, la sepoltura in luogo sacro, benedire le loro nozze, battezzare i loro figli. Tutto questo posso fare e son pronto a farlo. Tocca all’Augusto Cesare, al Trajano redivivo, tocca a lui a concerta­re questa riunione. Ecco il fine unico per cui sono venuto a Vienna.

Imp. Il progetto è grande e bello, può lusingare la mia gloria non meno che quella della Santità Vostra. Ella ritornando in Roma se vi riconduce l’Inghilterra, la Svezia, la Danimarca, la Sasso­nia, il Brandemburghese, l’Olanda e gl’immensi Stati della Rus­sia dipendenti in certo qual modo, la perdita che le cagiono io diventa bene ricompensata se non per parte della Finanza per quella dello splendore che più ne impone. Ma vi sarebbero grandi difficoltà da superare, e tali che sgomentano.

Pap. Da notizie veridiche e moltiplicate a me consta che le comu­nioni staccate dalla Chiesa nel secolo decimosesto ora non con­servano più nè quell’odio che allora avevano per le recenti per­secuzioni sofferte; nè quell’entusiasmo che le animava per i dogmi della riforma; stanchi e malcontenti di essere individui d’una piccola società incerta ne’ suoi principj, bramerebbero la riunione per poco che si volesse loro accondiscendere. Co’ Russi poi la differenza è di semplici parole.

Imp. Va bene tutto ciò; ma perchè Vostra Santità pacificamente possa riconoscere per suoi figli gli Acatolici, bisogna che tutti gli Stati Catolici sieno disposti a riguardarli come fratelli. La Francia che sostiene la rivocazione dell’Editto di Nantes sarà forse la prima a ricusarlo, e se mai la Francia aprisse gli occhi e consentisse a riavere nel di lei seno le famiglie rifugiate, la Spagna sicuramente non vi aderirebbe. Non saprei se nel Pie­monte Vostra Santità troverebbe maggiore facilità. Il Regno di Napoli e la Romagna Ella vede cosa penserebbero, e Vostra Santità correrebbe rischio di perdere la sublime sua dignità per una deposizione prima che il progetto fosse interamente spie­gato.

Pap. Non mi aspettava nè sì forti, nè sì numerose difficoltà.

Imp. Ella mi ha parlato con buona fede; e con altrettanta le corri­spondo; la cosa a me pare di riuscita difficilissima e pericolosa per Vostra Santità a tentarsi.

Pap. Ma qual partito posso prendere io? Vostra Maestà è Patroci­natore della Santa Chiesa, vostra Maestà è figlio illustre della medesima, Vostra Maestà colla sua grazia e virtù m’incoragisce a confidare in Lei, ad abbandonarmi nelle sue braccia implo­rando soccorso e consiglio.

Imp. Il caso, Santissimo Padre, è a mio credere senza rimedio. Ogni cosa in questo mondo ha principio, mezzo e fine. Questo pe­riodo viene prescritto dal moto universale morale e politico. Cosa sono gli antichi Imperi de’ Medi e de’ Persi? Cosa è la Grecia? Che è diventata la Potenza de’ Quiriti e l’Impero de’ Cesari? Se io non avessi i miei Stati ereditati, che cosa sarei se non un uomo col titolo d’Imperatore senza un palmo di paese a’ miei comandi? Tutti gli Stati dapprincipio rozzi e feroci pas­sano a divenir colti e dalla coltura passano alla corruzione. Roma è a quest’ultimo periodo da molto tempo, ivi non vi si trovano bene che gli occhi soli, pitture, statue, magnifiche ar­chitetture, pompe frequenti, cerimoniale sommo, lusso di pa­rata, gli occhi sono nel loro paradiso; ma la mente e il cuore d’un forestiere vi si trovano male, ogni idea di ordine è smar­rita, la società è all’ultima corrutela, e un paese tale, quand’an­che avesse un Solone per Sovrano, deve perdere. I lumi del se­colo hanno fatti rapidissimi progressi prima che nemmeno se ne accorgessero in Roma, e si persiste a sostenere massime scre­ditatissime senza avvedersene. I corrazzieri erano cavalieri mi­rabili quando le battaglie si vincevano a colpi di fucile, ora che l’artiglieria vi ha tanto giuoco i corrazzieri sono i più inutili e i più costosi cavalieri. Mi perdoni, Santo Padre, se al Sommo Sacerdote parlo con similitudini militari, lor signori Romani hanno voluto ostinatamente mettere in campo corrazzieri per la ragione che così vennero difesi ne’ tempi passati. Ora non ri­mane che a tolerare pacatamente l’inevitabile destino.

Pap. Vostra Maestà mi stringe il cuore. Queste parole mi condan­nano a un vergognoso ritorno in Roma senza verun profitto del mio viaggio senza esempio.

Imp. Padre Santissimo, ella mi renderà giustizia d’aver io fatto quan­to era da me per sconsigliarlo da questa inopportuna dimo­strazione. Per gli affari de’ miei Stati io ho il mio sistema già maturato, e la esecuzione gradatamente si farà. Supplico la San­tità Vostra di aggradire che adorni colla Collana del Toson d’Oro il Sig.r Braschi Onesti di lei Nipote, e faccia annovera­re fra i Principi dell’Impero il suo Casato. Santo Padre, il no­stro quarto d’ora è passato, oggi pranzeremo a Chonbrunn, ed avrò l’ardimento di far vedere a chi è Sovrano di Roma la rac­colta delle mie pitture.

DIALOGO FRA SIMPLICIO E FRONIMO SULL’ABOLIZIONE DEL BOLLINO E SOSTITUZIONE D’UN ACCRESCIMENTO DI TRIBUTO ALL’INGRESSO DEL VINO

Quest’operazione l’ho consigliata io, e sono glorioso e contento del mio consiglio. Siccome poi la malignità di alcuni pochi ha fatto ciar­lare l’imbecillità dei più; così per mio divertimento ho scritto questo Dialogo, che nessuno ha veduto.

Simplicio, e Fronimo.

Simp. Avete udita la novità sul bollino? Si vuole fare in Pavia, Lodi e Cremona la stessa novità che si è fatta in Milano di aggravare di dodici soldi di più il dazio all’ingresso del vino nelle città. In verità io venero tutto quello che ordinano i superiori; ma non posso capacitarmi sulla giustizia di una tale operazione, e sono certo che se fossero state esposte le ragioni in contrario sotto il vero punto di vista si sarebbe rifiutato un tal progetto.

Fron. Io ascolterei volentieri le vostre ragioni, perchè amo d’instruirmi, e gli oggetti che risguardano la felicità pubblica sin­golarmente mi pare che meritino l’attenzione di ogni uomo.

Simp. La cosa è chiara. Sollevare gli osti, i forastieri e i viziosi per ag­gravare gli altri cittadini mi pare una idea che non è plausibi­le. Porre un aggravio nuovo sul vino, caricarne i possessori, moltiplicare le bettole e i bagordi per la città, tutte queste sono cose poco buone.

Fron. Vi prego, illuminatemi, cosa è questo bollino?

Simp. Il Bollino è una gabella, per cui si fa pagare un soldo per ogni boccale di vino che si venda al minuto.

Fron. E quando questa gabella è stata imposta?

Simp. L’anno 1626 mentre la Camera per la infelicità de’ tempi trovavasi in angustia si pensò alla creazione di questo nuovo tri­buto.

Fron. Ma perchè volendo imporre allora un nuovo tributo non pen­sarono a dividerlo egualmente su tutto il popolo? Pare che un tributo sia come un peso, che da quanto maggior numero di persone è sopportato, tanto meno aggrava ciascheduno, pare che anche sia più giusto che i membri tutti d’una società con­corrano a sopportarne i pesi.

Simp. La massima è vera, ma è anche vero che un tributo spontaneo e che si paghi dagli esteri è preferibile.

Fron. Come trovate voi che sia spontaneo il bollino?

Simp. Perchè basta comprare una data misura di vino, conservarselo a proprio uso, e non si paga il tributo.

Fron. Ma ciascuno del popolo ha egli il denaro per comprare la mi­sura che dite, i recipienti per riporvela e il sotterraneo per con­servarla?

Simp. I più poveri forse non ne avranno, ma nemmeno vi è necessità che essi bevano vino.

Fron. I più poveri mancano di carni, e per essi è necessario anzi qual­che uso di vino per non perdere la forza, che è il loro capitale. Temo adunque che questo tributo non fosse spontaneo, e che piombasse sulla più meschina plebe, che lo sopportava a pre­ferenza. Se questo fosse, l’operazione fatta cento cinquantatre anni sono sarebbe stata ingiusta.

Simp. Credo che alcune cose che in origine anche possono essere state mal fatte, col passare dei secoli s’incassano, per dir così, nel sistema d’un paese, e non si possono smovere senza una scossa dannosa al tutto. La nostra plebe era avvezza a questo tributo e non ne soffriva inconveniente.

Fron. Ditemi come si facesse a costringere il popolo, acciocchè nes­suno potesse vendere un bicchiero di vino se non pagava per questo contratto il tributo. Pare assai difficile la riscossione di un tal carico, ammeno che di avere spie in ogni angolo, in ogni camera, e di castigare con pene chiunque vendesse una misu­ra di vino, per quanto onesto e probo cittadino egli si fosse.

Simp. In fatti così bisognava di fare, v’era una pena pecuniaria, e il carcere in supplemento, e si vegliava acciocchè non si vendes­se vino se non da chi era soggetto alla bollinazione.

Fron. Questa generale inquisizione non può a meno che non portas­se una serie d’insidie: degli esploratori partecipi delle multe, una inquietudine rovinosa nelle abitazioni de’ più deboli e po­veri cittadini, sedotti dal facile lucro di questo piccolo negozio fatto sopra di un genere tanto comune. La scena sarà stata funesta a vedersi, ed io ho udito alcuno a sostenere che più ves­sazione soffriva la plebe per questo bollino che per tutti gli altri tributi del sale, tabacco, mercanzia, ecc.

Simp. Voi considerate che il peso lo portasse la sola plebe; e gli osti, e i viziosi del bagordo non lo pagavano essi, e i forestieri non ne erano i principali contribuenti? Ora essi si sollevano, e se ne carica il possessore.

Fron. Gli osti credo che non pagassero mai il Bollino. Nel 1772 quando si pose in Milano il metodo di esiggere questo tributo col rigore della instituzione, il fatto è pubblico che in quel giorno medesimo gli osti accrebbero di un soldo il prezzo d’ogni boccale. Dunque i consumatori hanno pagato il bollino, e non gli osti. Forestieri poi in Milano non sono mai un oggetto, ed è una minima parte del vino delle osterie quella che da essi si consuma. Il popolo mendico, che non ha in sua casa i mezzi da custodire il vino, è quello che lo va a comprare al minuto. Credete voi che il tabacco si compri al minuto dai viziosi? Al minuto si vende il 50 per 100 più caro, il povero ha cinque soldi per comprarne un’oncia, e non quaranta per provvedersene una libbra, e così paga in fin d’anno più libbre a sessanta soldi, e credo che quasi la metà della vendita in Milano si faccia al minuto. Ciò dimostra che il povero artigiano avrà dieci soldi per comprare una volta o due la settimana un boccale di vino, e non avrà mai due scudi per comprarne una misura più grande, nè luogo ove riporla. Parmi adunque vero che il Bollino nella sua instituzione sia stato un tributo male imaginato e ingiusta­mente collocato. Se ciò è vero, perchè disapproveremo noi l’operazione che rimedia, che abolisce le insidiose perquisizio­ni e ripartisce uniformemente sopra tutti i cittadini il peso senza eccezione o parzialità?

Simp. Questo è il punto. Ora questo tributo lo paga il solo possesso­re che fa entrare il vino in città. Ogni brenta deve portare il nuovo tributo di dodici soldi.

Fron. Mi pare che la vostra proposizione sia vera per quei possesso­ri che introducono il solo vino che consumano nelle loro case; ma quei che lo rivendono naturalmente si risarciranno nel prezzo. Supponete che un uomo consumi ogni anno cinque bren­te di vino. Per questo tributo avrà dunque sborsate tre lire ogni anno. Si tratta di cinque soldi al mese; ditemi chi è quell’indi­viduo di una famiglia che non farebbe volentieri questo sbor­so per liberare i suoi concittadini più infelici dalle perquisizio­ni domestiche e dalla rovina nella quale alcuni sono precipitati? A me pare che sia men male questo tributo che il bollino.

Simp. Sempre però si tratta d’avere imposto un nuovo carico.

Fron. A me pare di no, non è un nuovo carico, è una forma più pla­cida e giusta che si è sostituita a un vecchio carico rovinosa­mente collocato. I possessori lo anticipano, i consumatori lo pagano come in ogni altra esazione, e così viene a ripartirsi im­parzialmente e a percepirsi senza ostilità. Il valore poi di dodi­ci soldi per brenta non giugne al quattro per cento del valore del vino, laddove un soldo per boccale era più del dodici per cento sul valore della cosa.

Simp. Già il vino aveva un altro ben sensibile tributo alle porte, e que­sti dodici soldi sono una addizione.

Fron. Sempre è vera la sproporzione, e il povero pagava maggior tri­buto. Ma credete voi che veramente il ricco non dovesse portare il peso di quanto pagava il povero! Dal niente non si cava niente; o col maggior prezzo delle sue opere, o col minor con­sumo di altri generi, o colla rapina, il povero carpisce sempre dal ricco i mezzi per vivere e pagare; i tributi si pagano col de­naro, il povero l’acquista dal ricco colla fatica e colla industria, la guerra è sulla quantità della fatica e della industria; ma il de­naro parte sempre dalle mani del ricco.

Simp. Pretendete voi di provarmi che sia un bene pagare dodici soldi di più di tributo sul vino che entra in città?

Fron. No, non dico tanto, dico che è un male pagare il tributo, che se la società potesse sussistere senza contributo sarebbe me­glio; ma questo era il progetto di Nerone, d’un principe senza lumi. La questione mi pare che sia il vedere se sia men male pagare dodici soldi di più per ogni brenta, e fare poi quell’uso che piace nella contrattazione del vino, ovvero ritornare al­l’antico sistema di vessazione e spionaggio.

Simp. Ma il possessore qual compenso ne trae da questo tributo?

Fron. Non vedo che abbia ragione di ricercarlo, gli basterebbe di es­serne stato ingiustamente preservato per un secolo e mezzo mentre il povero gemeva sotto questo aggravio. Però il posses­sore ha acquistata la libertà di vendere anche al minuto, e così risarcirsi del tributo anche per la propria consumazione.

Simp. Appunto si sono aperte le bettole per ogni angolo, e questo mi pare un disordine.

Fron. Se entrate a parlare per la pulizia civica, io non vi farò riflette­re altro se non che sono molti anni che non ho veduto il paese tanto libero dai delitti come adesso, rari i furti, rari gli omicidj e le risse.

Simp. Però il prezzo del vino anche al minuto non è scemato.

Fron. In parte sì, lo è, l’annata è stata scarsa di vino, ed è evidente che colla generale libertà della vendita i prezzi debbonsi ribassare al possibile.

Simp. Voi mi fate vedere questa cosa sotto aspetti nuovi.

Fron. Esaminatela, datevi la pena di pensarvi, e vedrete che la giu­stizia, la beneficenza e l’amore dell’ordine hanno suggerita que­sta operazione, posto che non permettevano le circostanze di abolire questo ramo delle entrate camerali.

Simpl. Avete bel dire, ma questo povero paese oggi paga più del dop­pio sul bollino di quello che non pagava per lo passato.

Fron. Come provate voi questa asserzione?

Simpl. Io! L’ho intesa dire, è cosa sicurissima.

Fron. Quante Brente di vino entrano ogni anno in Milano? Lo sape­te voi?

Simpl. E voi lo sapete?

Fron. Signor sì. Ho veduti gli stralci fatti di più anni, e posso asseri­re e dimostrare che entrano in Milano un anno per l’altro Bren­te ducentotrentaseimilletreccentonovantadue, preso il medio dal 1771 al 1776 ambo inclusi, e brente ducentodicinovemila e ducentotrentaquattro, preso il medio dal 1765 al 1769 ambo in­clusi; quindi fissando ducentotrentamila brente all’anno avre­mo un verosimile. Ora a soldi dodici ogni brenta questo ascen­de a £ 138mila.

Simpl. Benissimo. E centotrentotto mila lire le prendete voi per un zero?

Fron. Io no; ma sebbene 138mila lire sieno un oggetto per ogni ri­guardo, la questione è se sieno il doppio di quello che si paga­va prima, come voi avete asserito. Sapete voi quanto in prima si ricavasse da Milano per il bollino?

Simpl. Ditemelo.

Fron. Ebbene. Sappiate adunque che il ricavo del bollino fu come segue.

Anno   1772 £   191.733.16. 7

1973              ”   164.327.14.10

1774              ”    177.514.19. 6

1775              ”     147.593.12.11

1776              ”     158.926. 8. 2

Quindi sotto l’antica forma dalla Città di Milano si ricavarono annue lire 168mila. A meno dunque che non mi proviate che 138mila sieno il doppio di 168mila…

Simp. Bisogna poi vedere se questi conti che voi dite sieno veri.

Fron. Quando un balordo o un invidioso vi spaccia delle visioni senza prova, le quali tendono a rendere odioso un cittadino, che in tutta la sua vita ha travagliato per rendersi benemerito della patria, non v’è ripugnanza alcuna in voi per darvi fede. Quan­do un uomo dabbene, che ha veduti i fatti, cerca di farvi co­noscere la verità, allora temete d’essere ingannato! Povero Paese, sintanto che il numero dei più adorerà i suoi veri nemi­ci e calunnierà i suoi veri benefattori!

Simp. E voi chiamate benefattore del paese colui che ha suggerito di farci pagare dodici soldi di più di quello che non pagavamo per ogni brenta di vino!

Fron. Chiamo benefattore del paese colui che coll’esempio e con tutt’i mezzi ch’erano in sua mano ha procurato sempre di pro­movere i lumi e la coltura del paese. Chiamo benefattore del paese colui che impiegato dal Principe nelle Finanze ha for­mato il progetto di liberare la Patria dal giogo de’ Fermieri, ha generosamente affrontato i pericoli immensi che gli si affac­ciavano, s’è concitato l’odio de’ Ministri che profittavano sulle Ferme, ha preferito il pericolo di perdere la sua fortuna al co­modo e guadagno che avrebbe potuto ottenere unendosi co’ Fermieri. Chiamo benefattore della Patria colui che seppe ricusare una carica luminosa e un soldo maggiore, al quale era unita la degradazione del Vicario di Provisione che volevasi as­soggettare a lui. Chiamo benefattore della Patria colui ch’eb­be la nobile fermezza di restar solo in voto, e contrastare la co­mune determinazione presa nel 1771 di spogliare tutt’in un colpo i possessori delle Regalie, riducendoli a provare in se­guito il loro credito verso della R.a Camera, e contrastò contro Firmian, Pecci, Cristiani, Sperges, Lottinger e Castelli tutti concordi, e tal nobile franchezza fu cagione per cui il colpo non cadesse. Chiamo benefattore della Patria quell’uomo di­sinteressato, attivo, umano che opinò sempre in favore della equità e della giustizia, e che non fece mai torto a nessuno nella borrascosa carriera che fece. Chiamo finalmente benefattore della Patria colui che suggerì di liberare una volta dalla perse­cuzione crudele la più povera parte del popolo, da lasciar vi­vere in pace i miserabili cittadini; da non considerar più un de­litto il vendere o comprare un boccale di vino, di non autorizar più il tradimento de’ seduttori che inducevano a vendere per avere il premio dello spionaggio, di non rovinar più delle fa­miglie, nè confinare più in carcere o nell’ergastolo degli inno­centi cittadini, com’era accaduto per la vendita del vino al mi­nuto, e in vece risarcirsi con una sovraimposta all’ingresso in città placidamente. Questa operazione merita encomio e non maldicenza.

Simp. Voi mi dite cento cose che mi sorprendono. Se fossero vere, certamente avrei torto; ma come volete voi che la voce pubbli­ca sia tale senza un fondamento.

Fron. Il fondamento vi è, ed è una inesausta sorgente. La maggior parte de’ Milanesi ricevono le prime impressioni senza esami­narle. Alcuni pochi invidiosi e imbroglioni spargono le dicerie contro l’uomo che li umilia o attraversa i loro guadagni; ed essi fan ciarlare tutta la città e la fanno urlare a loro talento. I Mi­lanesi hanno sempre parlato con timore e rispetto de’ loro ne­mici; ed hanno sempre tormentati colle ingiustizie i buoni e gli amici del Paese. Per essere virtuoso da noi un uomo posto in carica, non basta che abbia la forza della virtù, conviene che abbia l’energia dell’Eroismo, poiché niente invita in Milano colle nobili azioni. Il male è senza rimedio, e se siamo maltrat­tati e disprezzati non dobbiamo incolpare che noi stessi.

Simp. Voi parlate da nemico de’ Milanesi, e già siete conosciuto per tale.

Fron. Nemico è colui che protegge la stupidità e l’accecamento pub­blico, non già chi cerca di riscuotere dal letargo, e far cono­scere ai cittadini i loro interessi, foss’anco a costo di invettive.

Simp. E ci riuscirete voi a riscuoterli e cambiarli?

Fron. Omai ne dispero.

Simp. Dunque state zitto, e lasciate che il mondo vada come può.

Fron. Il precetto non è generoso, ma è comodo. Addio.

ALCUNI PENSIERI SULLA RIVOLUZIONE ACCADUTA IN FRANCIA

L’opinione de’ Milanesi nello spazio di un mese è cambiata, ed un avvenimento che dapprincipio fu accolto con ammirazione e con giu­bilo, poco dopo si risguardò quasi con dilegio come una pubblica sciagura. Una nazione che arditamente rompe le sue catene, e co­stringe alla fuga i suoi tiranni, comparve come la protetrice delle altre preservate col suo esempio dai temuti progressi del dispotismo; quindi nacque l’applauso e la gioja. Poi le deboli pupille non reggendo alla piena luce, gli animi presero avversione per alcuni incon­venienti accaduti, sebbene inevitabili qualora un popolo colla forza propria dalla servitù passi alla libertà. Alcune vittime sacrificate al furor popolare, l’interrompimento del commercio, la temporaria anarchia, quella ubbriachezza che ha sempre il popolo nel momento in cui sente la propria forza dopo di un lungo letargo, momento in cui non si sente dominato dalle leggi: questi disordini abbagliarono gli uomini volgari e gli disposero a giudicar male d’un avvenimento del quale prima erano contenti. La diversità delle opinioni, che divise mai sempre tutte le grandi adunanze, agli occhi comuni sembra un ostacolo insuperabile acciocchè l’assemblea nazionale non giunga mai a un fine felice. I Nobili, gli Ecclesiastici, vedendo il popolo di Francia intento a togliere tutte le distinzioni a quei ceti, giudicano meglio la servitù condecorata della libertà che non ammette altra distinzione che il merito, e quindi fomentano l’opinione contraria ai Francesi e si fanno profeti della total distruzione di quel vasto regno. I principj più essenziali e palpabili sul governo, sopra i diritti dell’uomo, sulla natura del principato; principj tanto grossolani, che sono la norma dei popoli selvaggi, si chiamano da noi principj meta­fisici. Tanto una lunga corruzione ha depressi e incalliti gli animi!

Un popolo non passerà mai dal despotismo alla libertà se non per una delle due maniere seguenti. Qualora il Despota medesimo giun­ga a tal grado di virtù da voler render libero il suo paese, formi una costituzione, indi rinunzi al despotismo; questo è il primo modo che io non so se sia accaduto giammai, sebbene raccontisi che Marc’Aurelio ne avesse il progetto. Il secondo modo è quando la moltitudi­ne del popolo stanca di soffrire riunisce le sue forze, richiama a sè medesima la naturale sovranità, forma una costituzione e fabbrica le leggi custodi della libertà; e questo è il modo col quale i Romani si liberarono dal giogo dei Re, gli Svizzeri dall’oppressione della Casa d’Austria, gli Olandesi dalla tirannia della Spagna, e gl’inglesi dalla schiavitù della Casa Stuard. Non potrebbe una nazione passare pla­cidamente dalla servitù alla libertà se non per opera del Despota me­desimo; ma ogni qualvolta la moltitudine coll’uso della sua forza intrapprende a scacciare la servitù, necessariamente non essendovi una mente sola che ne dirigga il moto, ma sfrenatamente cozzando gl’in­teressi e le opinioni d’una gran massa d’uomini posta in fermento, sono inevitabili i disordini; e la Francia è fortunatissima d’averne così pochi in paragone di quei ch’ebber a soffrire per simile cagione i Romani, gli Svizzeri, i Belgi e gl’inglesi. Ma senza entrare nell’erudizio­ne della Storia, i fatti presenti potrebbero bastare per ottenere dagli uomini un giudizio più ragionevole di quello che pronunziano. Si sa da ognuno quante miliaja di vittime umane sieno sacrificate attual­mente nel Sirmio (1789) e nel Banato. Si pongano al paragone im­parzialmente i mali attuali della Francia, si calcoli poi qual profitto ne possa sperar l’uman genere da tali sacrificj. Il prezzo de’ primi de­v’essere la sicurezza di non fare i secondi.

Dalla libertà alla tirannia si può camminare senza tumulto, perchè una mente sola ne dirigge il moto; e giunta ch’ella sia ad improntar nell’animo dei popoli il terrore, tutto diventa stupido, un silenzio generale impone l’obbedienza, le querele persino sono interdette e la nazione prende un aspetto d’ordine e di pace. Quando per lo con­trario dalla tirannia si passa alla libertà, il solo tumulto popolare può cagionar questo moto. Forza è passar a traverso dell’anarchia e del disordine, acciocchè il popolo stesso acconsenta di rinunziare alla indipendenza per la libertà.

Io vedo le cose di Francia ridotte a un segno che non può mancargli il premio della libertà. La Francia ha fatti i due passi più dif­ficili: primo, ha potuto formar un’assemblea nazionale che legitti­mamente rappresenti la nazione; secondo, quest’assemblea nazionale ha rivendicato di già il poter legislativo. Quel che gli rimane a fare dopo ciò è facile e piano. I dispareri dell’assemblea potranno prolungare i suoi lavori, ma la pluralità de’ suffragi deciderà tutto. L’in­vasione d’una potenza straniera non potrà rendere certamente sog­getta al dispotismo la nazione valorosa e animata dalla libertà. La sola rovina che potrebbe aver la Francia accaderebbe se la nazione pro­testasse contro de’ suoi rappresentanti; ma questo caso non mi par possibile.

Se il mio vaticinio si verifica, se la Francia acquista una costituzione, la vedremo in pochi anni diventar la nazione più ricca, forte e felice d’Europa. Le idee francesi servono di modello agli altri popoli. Sin tanto che i diritti dell’uomo s’erano stabiliti fra le montagne delle Alpi, fralle paludi dei Paesi Bassi e nell’Isola della Gran Brettagna, questi sistemi poca influenza avevano nelle opinioni della moltitu­dine di altri regni. Ora la luce sta riposta nel cuor dell’Europa; non può a meno ch’ella non influisca sugli altri governi.

Il Re di Francia Luigi XVI sembra che non abbia altra colpa che la debolezza, la quale però è quella che più facilmente viene punita nei depositari del poter assoluto.

Cosa accaderà dell’Italia? Siamo immaturi, e non ancor degni di vivere sotto il regno della virtù. A forza di voler essere furbi siamo al paro de’ Greci il rifiuto d’Europa dopo d’essere stati i maestri. Se non s’illumina prima la plebe, s’ella non costringe poi i nobili a pie­garsi, una rivoluzione da noi non può cagionare che rapine e sac­cheggi, rinnovando le sciagure de’ Guelfi e Gibellini.

PENSIERI POLITICI SULLA CORTE DI ROMA E SUL GOVERNO VENETO

La decadenza rovinosa del Papato sarà un’epoca nella storia del nostro secolo. Il destino di ogni cosa è d’avere il suo periodo, e con­seguentemente doveva questa potenza pure annientarsi come il Calif­fato e come lo stesso Impero Romano. Ma la rovina del Papato accadde con moto più violento di quello che suole condurre alla estinzione per vecchiezza le instituzioni umane. Credo per ciò che oltre la legge universale vi sia intervenuta della colpa in chi reggeva questa Monarchia potentissima, che aveva per fondamento la igno­ranza de’ sudditi e per anima la furberia degli ecclesiastici. La po­tenza papale nacque coll’avere distaccato dalla società universale i Ministri dell’altare, averne formato un corpo distinto, averlo reso potente e dato a questo corpo la costituzione monarchica la più attiva e la più intrapprendente di ogni altra. La storia de’ secoli bassi ci fa vedere come siasi operata questa progressione. In Roma pagana e libera non v’erano se non che due classi di uomini, Nobili e Plebei, le quali nemmeno impedivano la promiscuità. Un Romano vestiva il sago e andava a combattere; vestiva la toga e sedeva in Senato, o pero­rava pe’ clienti, o intercedeva ne’ comizj presso del popolo; prendeva il lituo e offeriva le vittime ne’ tempj. Cicerone, Cesare, Pompeo ecc. erano sacerdoti, comandanti, consoli, tribuni della plebe ecc. senza essere privativamente incorporati a verun ceto.

Da noi in vece gli ecclesiastici fanno un corpo separato affatto dalla società; i Militari parimenti, i Giureperiti pure lo fanno quan­to è loro possibile mancando de’ due potentissimi mezzi, timore delle pene eterne e timore delle armi, co’ quali i due altri ceti acquistaro­no consistenza. Così discendendo per grado questo spirito di corpo invase tutte le professioni a segno che persino i maestri di ballo in qualche città ottennero di radunarsi e formare un corpo colla facol­tà di proibire ad ogni uomo che non vi fosse d’insegnar a ballare. Tutti i mestieri così si formarono in tanti corpi isolati, aventi i loro statuti, la loro giurisdizione, i loro privilegi esclusivi ecc. Un cittadino è una minima frazione della città, un artigiano ecc. è una maggior fra­zione del suo ceto. Conseguentemente ogni uomo s’avvide che era più importante la sua influenza nel ceto che non nella città. Conse­guentemente si affezionò al ceto più che alla città, e gl’interessi del corpo a cui si trovava ascritto immediatamente appartenendogli più da vicino, si rese indifferente al cittadino l’interesse universale della città. Quindi le città divennero una associazione non più di uomini, ma di corpi, i quali in masse più o meno grandi urtandosi per varie direzioni e ora apertamente, ora con industria covando i loro pro­getti, mantennero una sorda guerra civile a danno del tutto. Quindi gli ecclesiastici si considerarono come altrettanti forestieri indiffe­renti pel ben essere della città e occupati della propria indipenden­za e autorità. I Militari pronti a opprimere e scannare i loro concittadini e a porre il fuoco alla patria non furono meno indifferenti. I Curiali impadronendosi delle pubbliche amministrazioni e delle ca­riche civili, poco curanti del ben essere della città vegliarono per am­mucchiare prerogative e onori e ricchezze a quel ceto, a cui si cono­scevano debitori della imponente persona che rappresentavano come arbitri della vita e delle fortune. L’Ecclesiastico ricusò d’obbedire ai tribunali, ricusò di concorrere ai tributi. Il Militare ebbe la sua distinta giurisdizione e i suoi privilegi. La città divenne un ammasso di piccole altre città indipendenti e rivali. Tale fu lo spirito creato e cre­sciuto ne’ secoli tenebrosi, e continuato sino al secolo presente. Roma grande e felice non conobbe, come dissi, sì fatta organizzazione: ogni cittadino serviva indistintamente la Patria alle armate, nel Senato, ne’ sacrifizj, e perciò gl’imperatori volendo consegnare la somma po­tenza nelle loro mani s’intitolarono Pontefici Massimi, Consoli, Tri­buni della Plebe e Comandanti Generali, ossia Imperatori. In Roma allora ogni cittadino amava sopra tutto i vantaggi immediati della sua famiglia, e in secondo luogo i vantaggi della Patria. Oggidì tutto l’entusiasmo che era collocato per la Patria lo sfogano verso del corpo a cui sono immediatamente ascritti; ed io credo che per ritornare alla felicità e alla gloria convenga ritornare agli antichi principj, e di­struggere affatto queste associazioni di mestiere. Il Ceto Ecclesiasti­co crolla, e a quanto ha già perduto prevedo che finirà coll’essere o annientato, o reso di nessuna importanza. Resta il Ceto Militare, contro di cui sinora nessuno ha osato di combattere. Veramente a esaminarlo bene questo è il più vile corpo che stia nella società, poiché se consideriamo il soldato comune, conosceremo che un’armata è composta dalla feccia della nazione, o da canaglia cavata dalle carceri, o da’ schiavi a forza ascritti, o da oziosi e spensierati, che nella cra­pula ubriacati furono condotti avanti ad un commissario per ascriversi alla milizia. Gli ufficiali poi comunemente sono cadetti poveri, mancanti di educazione e di talento, i quali per vivere indossano l’abi­to militare. La parola magica dell’onore è quella che indora questa putredine: ma niente è meno sensato che l’uso di questa parola colla milizia de’ tempi nostri. Ognuno comprende essere generosa, nobi­le, e onorata azione l’esporsi coraggiosamente ai pericoli per salvez­za della Patria, per difesa del proprio Principe, per servigio dello Stato. Ma il vendersi sgherro prezzolato pronto a uccidere chiunque senza discernimento alcuno; il sottomettere se stesso alle catene, alle bastonate; il fare in una parola il mestiere del mercenario, assassino e carnefice non ha connessione veruna colla idea di onore. I soldati sono veri schiavi forzati, il rifiuto della società, sostegno della tiran­nia e obbrobrio dell’uman genere per il loro mestiere e costume. I Fi­losofi hanno fatta sgombrare la nebbia che attorniava il Santuario, e non hanno sinora intrappreso ad aprire gli occhi del pubblico sul preteso onore dell’attuale Milizia. Se lo faranno, anche questo ceto s’annienterà; perchè la forza condensata nelle armate ha per cemen­to la magica parola di onore, tolta la quale e diventati i soldati un og­getto di ribrezzo agli altri uomini, non vi sarà più alcun uomo che sia sedotto ad abbracciare un tal mestiere, dovranno i Principi abban­donare l’idea di mantenere in tempo di pace tanti sicarj al loro sti­pendio, e spargendosi generalmente su tutta la nazione una educa­zione più generosa e libera, ogniqualvolta per la difesa dello Stato occorra di dare di piglio alle armi ogni cittadino si presenterà con vero sentimento di gloria, e così si risparmieranno alla umanità gli orrori di tante guerre di mero capriccio, che formano la miseranda storia d’Europa da varj secoli, e non essendo la forza machinalmente e automaticamente collocata in una classe d’uomini ciechi esecu­tori del comando d’un tiranno, la ragione e la virtù diverranno il cemento che unirà il Sovrano col suo Popolo. Ma appena giova d’aver accennate queste idee, unicamente rifletterò che la distruzione de’ corpi sembra inerente allo spirito che la filosofia ha sparso general­mente, il che si vede e nelle operazioni che i Principi intrapprendono sopra del Ceto ecclesiastico, e in quelle che in alcuni paesi si sono fatte coll’abolizione de’ corpi mercantili, unicamente sin’ora rima­nendo intatto il ceto militare, forse per mancanza di coraggio di pa­lesare su di esso pure la verità.

Il corpo de’ Ministri dell’altare ne’ primi tempi del Cristianesimo non aveva nè leggi, nè vestiti, nè privilegi separati. Gli uomini ammo­gliati erano ammessi a celebrare i Misteri della religione, e per tal guisa il sacerdote che aveva moglie e figli era sempre un cittadino interessato nel bene e nel male della sua Patria. Il passo principale per formare un corpo indipendente dalla società universale fu la legge del celibato ecclesiastico, per cui non si ordinarono se non se uomini isolati e colle ricchezze ammassate dal corpo ecclesiastico si propose una fortuna agli ascritti, indipendente affatto dal destino degli altri cittadini. Formatosi così un tal ceto in ogni città, il Papa profittando della debolezza de’ Principi e della cecità de’ popoli s’eresse in Monarca di tutti gli ecclesiastici, distributore de’ Beneficj, fonte di ogni facoltà, e proteggendo i suoi nuovi sudditi collocati sotto Prin­cipi diversi, sostenendo le loro persone sacre e libere dalla ordinaria giurisdizione, difendendo le immunità loro da ogni pubblico aggra­vio si formò co’ reciproci interessi una Monarchia papale sparsa bensì in diversi Regni, ma indipendente dai Re, anzi terribile allo stesso trono pel potere che esercitava sull’animo de’ popoli e colla confes­sione, e colle prediche, e più d’ogni altro mezzo poi colle scomu­niche. Nacque allora il Gius Canonico; nacque una giurisdizione ecclesiastica collocata ne’ Stati de’ Sovrani; finalmente si piantò la Inquisizione, le carceri, i sgherri, le torture, s’imprigionarono i citta­dini senza saputa del loro Sovrano, si torturarono, si confiscarono i loro beni, vennero condannati al supplicio, si eseguirono le condanne da un ceto di cittadini che, senza mutare città cambiando vestito, si credettero non solamente indipendenti dal Sovrano naturale, ma armati di forza coattiva indipendentemente pure dal Sovrano mede­simo. Per conservare lungamente un sistema che aveva una assurdità intrinseca tanto evidente, era necessario che i popoli rimanessero nelle tenebre, col favor delle quali aveva potuto nascere. Per nome di popolo io intendo anche i Signori, i Ministri, i Sovrani, tutti coloro che non hanno per norma della loro vita che la opinione, e unica­mente escludo dalla classe popolare i pochi uomini che trassero na­scendo il bisogno d’istruirsi, e lo ebbero costante e forte a segno di superare ogni noja, ogni seduzione, ogni difficoltà. Questi uomini privilegiati, che hanno l’abitudine di pensare e il discernimento della verità, sono perseguitati per lo più mentre vivono; ma co’ scritti loro comandano al mondo assai più che non lo può un Sovrano. I Papi convien dire che conoscessero queste verità, poiché tutti gli uomini di qualche merito nelle scienze, nella erudizione, o nelle lettere fu­rono invitati alla loro Corte, beneficati, accarezzati, come fra gli altri lo fu Nicolò Macchiavello, il libro del quale sul Principe venne dedicato al Papa, e stampato in Roma. O fossero Cristiani o increduli, o costumati ovvero libertini, gli uomini che sapevano scrivere se li tene­vano amici i Papi, come quelli i quali aprendo gli occhi al pubblico, avrebbero potuto affrettare la rovina del gran colosso appoggiato alla opinione. Un errore però commisero i Papi, e fu quello di permet­tere che il corpo stesso Ecclesiastico venisse diviso in corpi: Frati Minori, Frati Domenicani, Frati Agostinaini ecc. In fatti costoro for­marono un corpo di opinioni delle private loro scuole, e pretendendo a forza che venissero adottate, costrinsero i Papi a incorporarle nel simbolo, e quindi nacque una sanguinaria odiosissima persecuzione nel secolo XIII, che senza compenso di veruna utilità alienò gli animi di molti dalla Corte Romana. Ma questa alienazione non poteva avere effetto sintanto che i popoli continuavano nella credenza che il Papa fosse un Vicedio in terra. L’urto de’ due corpi Dominicano e Ago­stiniano aprì la breccia fatale alla potenza Pontificia, che aveva già sofferto dalle opinioni di Gerolamo da Praga e Giovanni Huso incautamente perseguitati. Martino Luther Agostiniano, sostenuto dal suo corpo pel quale combatteva sul noto articolo delle indul­genze, fu cagione per cui gradatamente una sensibile parte d’Europa si sottrasse al dominio papale. Rimanevano però tuttavia fedeli alle antiche opinioni il Portogallo, la Spagna, la Francia, l’Austria e tutta Italia. Il Papa le circondò con un muro di separazione. Venne proi­bito il parlare di Religione, l’Inquisizione divenne attiva più che mai, si proibì la lettura de’ libri che in qualunque modo combattessero le opinioni romane, e con tal mezzo si conservò l’opinione de’ secoli precedenti ne’ paesi che rimasero obbedienti al Papato. Conveniva che la Corte di Roma sulle tracce antiche si tenesse amici gli uomini sovrani della pubblica opinione, cioè i pensatori e gli autori di merito; ma abbandonatasi Roma ciecamente a un nuovo corpo ecclesiastico che prometteva d’essere la guardia Pretoriana del Papato, cambiò di sistema, e colla persecuzione oppresse chi avrebbe dovuto accarezzare. I Gesuiti, que’ maravigliosi Giannizeri della Sede romana, ceto d’uomini entusiasti per la potenza e gloria della loro Compagnia, arrogatisi per cieco invanimento di prospera fortuna la sovranità delle lettere, spinsero Roma ad opprimere ogni Letterato che alzasse la testa alla gloria, a meno che non fosse ligio e alunno del loro ceto. Gallileo, Sarpi, Giannone, Muratori, i più illustri Italiani che sostennero l’onore della Patria furono animosamente e crudelmente per­seguitati da Roma. Muratori dovette la sua pace all’amicizia personale del buon Pontefice Lambertini. Lo stesso fecero i Gesuiti anche nella Francia prima col signor Fontenelle, poi più malignamente ancora col Presidente di Montesquieu, col signor di Voltaire ecc. L’Italia mancando d’un centro di riunione lascia gli uomini di lettere rari e isolati; Gallileo tremava solo nella Toscana; Giannone diffa­mato dai Pergami in Napoli fuggivasene solo dalla sua Patria. Sarpi stilletato in Venezia solo passeggiava col giacco sotto la tonaca. Muratori solo nella Lombardia11 invocava Benedetto XIV. I Francesi in Parigi si radunano e conoscono vicendevolmente. La persecuzione che a man salva esercitarono i Gesuiti sopra de’ poveri Italiani non fu loro possibile impunemente di esercitarla nella Francia. Gli uomini di lettere ivi si collegarono e formarono una società animata per la difesa comune. Si posero a combattere con forze riunite quella super­stizione istessa della quale si prevalevano i Gesuiti per difamare come atei, cattivi cittadini e sudditi ribelli gli uomini che pel loro ingegno e sapere formavano la gloria della lor Patria. Da ogni parte si videro verso la metà di questo secolo uscire libri, scritti, poesie, storie, com­medie, tragedie, romanzi esposti con uno stile chiaro, interessante, ameno, e lo scopo di questo nembo di amabili libretti fu lo smascherare in ogni modo possibile l’impostura. I fatti della storia che s’ignoravano, perchè affogati nel fondo d’immensi e nojosi volumi, vennero presentati con grazia e leggiadria; le persone di mondo colla piacevole lettura di tai scritti videro oggetti nuovi, interessanti, cu­riosi; l’amor proprio rese gloriosi i giovani d’avere meno errori de’ loro antenati. Nelle piacevoli società si andò spargendo il nuovo lume; il frizzante ridicolo si unì alla evidenza per dissipare il presti­gio, la rivoluzione delle opinioni si estese sino ai servi, che resi curiosi per qualche motto del padrone, nelle anticamere trovarono piacere di leggere e istruirsi; i Tribunali, i Ministri, i Re finalmente vennero circondati dal nuovo vortice. I Gesuiti vennero scacciati prima e poi distrutti, e Roma, il terrore un tempo d’Europa, smascherata, avvi­lita, è ormai l’oggetto della compassione d’Europa stessa. Se i Papi non avessero permesso che vi fosse verun corpo ecclesiastico sepa­rato, a mio credere sarebbe tuttora presso poco quella che fu, sol­tanto che avesse continuato ad essere la protettrice degli uomini d’ingegno. I libri sono quei che regolano il mondo cominciando dalla Biblia al Corano, venendo alle Pandette al Codice, e discendendo sino alla Pucelle d’Orleans. Io credo che il ceto degli Ecclesiastici di ciascun Paese sarebbe sempre stato dipendente piuttosto dal Papa che dal suo Sovrano naturale senza bisogno di alcun ceto di frati; per­chè meglio è obbedire a un Principe lontano, dal quale non si può temere oppressione, che ad uno nelle mani di cui viviamo e che ci può opprimere; meglio è vivere sotto l’obbedienza di colui che ci pre­serva da ogni tributo e che ci rende immuni e sacri, anzi che al Sovrano che ci uguaglia al restante del popolo. L’interesse dell’ec­clesiastico Francese, Spagnuolo, Tedesco ecc. era di mantenersi sud­dito della Monarchia Pontificia. I Sovrani, i Ministri, i Magistrati non vanno a scavare certamente negli archivj e nelle biblioteche le origini delle opinioni; nè hanno ozio o voglia per diventare filosofi; se Roma si teneva benevoli i filosofi; e i Re, e i Ministri, e i Magistrati e tutto il mondo avrebbe perseverato a portare la soggezione Pontificia e considerare la propria Sovranità dipendente da Roma, la quale poi era un asilo aperto a tutti gli uomini di qualunque nazione, i quali coll’ingegno potevano farvi una fortuna assai maggiore di quella che loro poteva dare il proprio Sovrano. La rovina di Roma è un danno per l’Italia, giacchè perdiamo con lei ogni influenza nell’Europa, e ciascuno di noi perde la patria comune, in cui ci era lecito il fare la nostra fortuna. Il fratismo è stata la cagione di questa rovina; e il fratismo è una unione di infelici che menano una vita meschina e schiava, radunati per seduzione, privi di ogni sentimento di Patria e di famiglia, che troverebbero la felicità se venissero liberati, e in ciò sono esattamente nel caso de’ soldati.

La massima che ho accennata rispetto ai corpi politici pare che i Sovrani la travvedano, almeno rispetto ai corpi militari. Per quanto sia vantaggioso il sistema delle legioni proposte da vari scrittori, osservo che perseverano i Principi a tenere le loro milizie divise in Reggimenti tutto al più di tremmila uomini ciascuno. Osservo in oltre che nemmeno sogliono tenere unito questo corpo, ma la terza parte, ossia un battaglione viene collocato distante dagli altri due per centinaja di miglia. Osservo che nelle promozioni si cerca di balzare da un reggimento all’altro l’ufficiale, in guisa che ciascuno come acci­dentalmente si trova in quel corpo. A me pare assai avveduto un tal metodo, e se mai si lasceranno sedurre i Sovrani a formare masse grandi di milizia e costantemente unite, sì che acquistino uno spirito di corpo, lo Stato dipenderà dalle legioni e non dal Monarca, il quale ha bensì mezzo per deprimere uno ad uno i piccoli corpi, qualora volessero usare mai della forza collocata nelle loro mani, ma non così l’avrebbe contro il determinato volere delle Legioni, le quali innal­zerebbero o deprimerebbero il Sovrano a loro talento.

In mezzo alle rivoluzioni degli Stati Venezia è una costituzione che merita l’esame di un Politico, poichè è il solo Stato che, poco più poco meno, si conserva da tredici secoli senza di aver sofferta veru­na interna rivoluzione, e senza che alcuna nazione forestiera sia mai venuta a sottometterla. Moltissimo deve attribuirsi alla situazione fi­sica. La costanza però del suo interiore governo io la attribuisco a ciò: che la vera Sovranità vi è ristretta in una cinquantina di famiglie, nelle quali vi è illegalmente ristretta. Ciò non lo scrivo per amore d’un paradosso, ma perchè mi sembra una verità, per modo che se a Venezia la Sovranità si esercitasse da chiunque vi ha dritto legittimo, Venezia rimarrebbe un ammasso disabitato di scogli; se tutti quei che hanno dritto legittimo alla Sovranità rinunziassero, e legalmente ne rivestissero quelle cinquanta famiglie che si passano il comando, Ve­nezia pure a mio credere sarebbe distrutta. Ecco come io ho cavata questa idea. La Sovranità di quella Aristocrazia è collocata nel ceto di tutti i Patrizj scritti nel Libro d’Oro. Suppongansi ottocento fa­miglie, seicento delle quali composte di nobili tormentati dalla ino­pia, e allevati senza sentimenti, senza principj, in guisa tale che se qualche porzione della forza pubblica venisse mai depositata nelle mani loro, le sostanze, l’onore, la vita stessa de’ cittadini verrebbero esposte al saccheggio, alla rapina, al vitupero; e converrebbe o che la Città rimanesse abbandonata, ovvero che i Cittadini opponendo forza a forza, sconvolgessero la costituzione e rovinasse la Repubblica. Ma come impedir mai che un sì gran numero di membra sovra­ne non eserciti mai alcuna delle Magistrature in cui sia collocata por­zione della forza pubblica? Non v’è che una aperta violenza che possa rendere per tal modo soccombente, e sempre soccombente il numero maggiore di un corpo aristocratico, e questa violenza aper­ta è quella appunto che si esercita dal terribile trionvirato degl’Inquisitori di Stato. Al momento in cui qualcuno de’ Nobili minori ardisca alzar la voce per rivendicare a sè o al ceto suo i dritti della Co­stituzione, a un cenno solo degl’Inquisitori di Stato scompare e passa a gemere la libertà perduta in un carcere separato per sempre dal commercio degli uomini. Quest’odiosissimo Tribunale dispotico, che non ammette difesa, che non palesa l’accusatore, che inappellabil­mente dispone della vita di ciascuno è l’unico mezzo per contenere col terrore la folla scostumatissima de’ poveri Nobili. Un partito solo potrebbe risparmiare una tale tirannia, e sarebbe quello con un sol colpo escludere per sempre dal corpo della Sovranità le membra indegne di rimanervi, e collocarle nella classe suddita; ma allora alle fa­miglie che veramente esercitano il potere mancherebbe il freno che ora le tiene obbedienti al comun bene. Se i Nobili potenti abusasse­ro del poter loro, oggidì il ceto de’ Nobili minori alzerebbe le grida e queste verrebbero accompagnate da quelle di tutta la Città; allora la Costituzione verrebbe innalberata come lo stendardo della pub­blica sicurezza e il ceto eletto sarebbe forzato a norma della origina­ria forma repubblicana di accomunare la condizione propria a quel­la di ciascun altro Nobile… Questo è il bene che fanno i Barnabotti: sono essi lo spauracchio de’ Nobili eletti, come gl’Inquisitori di Stato lo sono a’ Barnabotti singolarmente. Tale a mio parere è il modello di quel sistema che pare assurdo agli occhi di ciascuno per la tiran­nia della Inquisizione, ma che però produce un governo caro ai cit­tadini e d’una costante uniformità che non ha esempio. Credo adun­que che a questo vizio debba Venezia la sua longevità e la sua quiete e felicità interna, e che qualora si pensasse a limitare l’attività degli Inquisitori, la sfrenata libidine de’ Nobili poveri introdurrebbe im­mediatamente un disordine tanto generale e insopportabile, che gli abitatori abbandonerebbero le isolette e cercherebbero altrove un asilo migliore; e se la costituzione escludesse i Nobili poveri, il minor numero de’ Nobili ricchi munito della sicurezza d’un comando per­petuo aggraverebbe il peso della Sovranità sopra del popolo, e fini­rebbe lo Stato condensandosi ben tosto il potere nelle mani d’un solo.

D’onde vien mai che i costumi di noi Italiani sieno corrotti a segno che per tutta l’Europa omai sia una vergogna il dire sono Italiano? Veramente siamo screditati in guisa che non è possibile esserlo più di quello che siamo. Gl’Italiani nella Germania, Francia, Inghilterra ecc. hanno tante volte tradito, mancato di fede, ucciso, fatti debiti senza pagarli, in somma tante cattive azioni hanno fatte, che un one­sto Italiano che passi le Alpi arrosisce e freme per la macchia della Nazione. A Vienna io ho osservato che appunto era il paese fatto pe’ malvaggi Italiani, i quali sorridendo ascoltavano i rimproveri rozza­mente e stoltamente dati alla nazione, e frattanto colla superiorità del loro pervertito ingegno gabbavano il Tedesco; laddove l’Italiano d’onore appunto impegnandosi a mostrare candore e illibata onestà finiva d’essere gabbato dal Tedesco per sua naturale avidità e per rap­presaglia, credendosi esso di poterlo, non che impunemente, lodevolmente fare. I forestieri poi che vengono a girare l’Italia osservano che fra noi stessi siamo malissimo d’accordo. Ci raduniamo nelle con­versazioni e ciascuno v’interviene sommamente cauto, come fram­mezzo a’ nemici, temendo la interpretazione, la diceria, il ridicolo. Una compagnia di amici è una cosa non conosciuta. Le conversazio­ni sono una riunione di gente dove ciascuno interviene perchè vi si deve, ciascuno vi si trattiene con fastidio, ciascuno vi parte con noja e stanchezza, e questo è il frutto del costume cattivo, della invidia, del disonore, della indiscreta smania di primeggiare, in somma de’ vizj dell’animo. Le lettere giacciono nella Italia, e non tanto per l’imme­diata oppressione della Inquisizione, la quale si limita a parte soltanto d’Italia, quanto per la invidia letteraria, per cui alcuni giovani che danno un vivace contrasegno d’ingegno dalla fredda e maligna ac­coglienza de’ vecchi letterati vengono avviliti e distolti dalle lettere e dal buon sentiero; e finiscono poi coll’essere sfaccendati o stentati imitatori. I Francesi fanno l’opposto, e un giovine si trova ne’ vecchi illustri gli amici, i consiglieri, i fautori. Il letterato italiano teme che s’alzi alcuno più di lui; i letterati oltramontani amano sinceramente i progressi delle scienze, amano la gloria Nazionale e fanno agli altri quello che amerebbero che loro venisse fatto. Nelle nostre famiglie Italiane poi quanta miseria, quante gangrene celate per certa conve­nienza, lodevole almeno perchè sta in vece della virtù. Padri tiranni che per orgoglio e per avarizia opprimono i figli, sforzano le figlie in­direttamente al carcere perpetuo del Monastero, lasciano languire i figli nella inopia, temono che acquistino cognizioni onde poter valutare il valore paterno. Mogli indifferenti per la famiglia, occupate nell’addescare adoratori e nel coprire colla ipocrisia allo sguardo de’ ma­riti la loro prostituzione. Fratelli che al momento in cui si sciolga colla bramata morte del padre il governo domestico si scostano per sem­pre. Figli oziosi, giuocatori, libertini, indebitati, disposti a diventare padri tiranni. Ecco il miserabile prospetto vero e genuino della mag­gior parte delle nostre famiglie, dove invano cerchi un sentimento amoroso e consolante. Tali sono i corrotti nostri costumi, che un uomo d’onore, fermo, nobile, franco, deve sottrarsi alla società e vi­vere con pochissimi. La corruzione nasce dai primi principj. Un preticciuolo s’accosta a un fanciullo, e comincia a impadronirsi del­l’animo di lui. Cerca di prevenire la ragione quanto è possibile, e innestarli nella memoria delle parole prima che il fanciullo possa avere delle idee. Queste parole sono da credersi, da non intendersi mai, da non esaminarsi, e guai se il fanciullo ne dubita; s’impallidi­sce il prete, i parenti rimangono attoniti, il fanciullo si vede diventa­to un oggetto d’orrore. Fede, fede, fede fanaticamente gli si grida al­l’orecchio, e il fanciullo nelle cose più essenziali della vita a venire, della morale, della cognizione de’ proprj doveri, in vece d’essere in­vitato a ragionare, a formarsi de’ principj, a dedurne conseguenze pratiche, in vece di ciò sgommentato, stordito, impara a fuggire ogni esame con ribrezzo e a obbedire ciecamente al prete. Crescendo nell’età sempre più si va rinforzando questa schiavitù dell’intelletto. Il prete sopra di ogni cosa va ripetendo fede, e fede cieca, indi impone varj esterni esercizi di religione, ascoltar messe, recitar rosarj, visitar chiese, mangiar magro ecc. Se il fanciullo sia poi nelle sue azioni no­bile o vile, generoso o interessato, sincero o simulato, sensibile o cru­dele, questo niente si cura, purché si pieghi alle pratiche esterne. Così va vegetando lo schiavo. Giugne la pubertà, quel momento in cui per una rivoluzione maravigliosa cominciamo a ricevere la spinta a pro­durre i nostri simili; la natura da ogni lato inquietamente ci porta alla voluttà, l’idea d’una donna basta a darci un moto febbrile nel sangue, la ragione non basta a frenare il potente invito della fisica, e l’anima del giovane strascinata nella ricerca del piacere venereo rimane assor­ta da un delirio che la trasporta. Il prete insegna che una sola compiacenza in questi pensieri, un semplice desiderio rendono rei di eterna interminabile dannazione. Il giovine nel momento di calma s’inorridisce nel trovarsi colpevole dell’ira celeste, piange, si pente; ma la calma tosto cede all’impeto del sangue, nuovamente è sedotto dalla voluttà, un pensiero, un toccamento lo fanno ricadere, e di nuovo vedesi la spada divina pendente sul capo. Dopo varie alternative convinto alfine di non potere altrimenti vivere che come inimi­co di Dio, omai persuaso che dalle eterne pene niente altro lo può liberare che la vecchiaja, si dispera, e conoscendo che non può cam­minare nel sentiere della legge, si volge al partito di cercare almeno tutti i vantaggi che può senza alcun ritegno sinché dura la vita. Rubare, tradire, assassinare, aver un desiderio venereo, sono tutti pec­cati classificati nello medesimo ordine di mortali nella mente di quel giovine, onde poiché si trova nella necessità di essere peccatore nien­te v’è di assurdo nella scelta fra un peccato e l’altro. Ecco in qual modo l’Italiano viene allevato ai delitti. L’abuso della confessione poi, la fallace speranza nelle pratiche di culto esterno si uniscono a sempre più incamminare alla scelleratezza. È vero che nella Spagna, nella Francia, e in parte della Germania la religione è la medesima; ma nel­l’educazione anche popolare vi è unito qualche principio di virtù. Lo Spagnuolo e coll’esempio e colla voce impara a non macchiarsi con azioni codarde, a mantenere religiosamente la fede, a non violare l’amicizia, a esser grato e riconoscente ai beneficj; il Francese impa­ra la parola onore, e la legge a caratteri d’oro; un uomo senza onore è un vilissimo rifiuto della natura; chi si fida d’un uomo d’onore non deve mai pentirsene, impara a diventare cortese, gentile, amabile; il Tedesco dalla prima infanzia impara la fedeltà verso il Principe, il coraggio ne’ pericoli, acquista una inclinazione alla guerra. I preti spagnuoli, francesi, tedeschi sono educati con queste massime, onde im­primono nella mente de’ giovani contemporaneamente colle idee religiose le idee sociali. Quindi se l’impeto della gioventù conduce l’uomo alla libidine e rompe il freno della religione, gli rimane però il sentimento della virtù, sente d’essere un peccatore bensì, ma un uomo onesto, un uomo d’onore, un uomo che non ha violato i do­veri sociali, e custodisce con tanto più cura la innocenza morale, poichè è la sola che rimane dopo di avere perduta l’innocenza religiosa. Il mal costume adunque da noi si propaga nella ventura generazio­ne, perchè non abbiamo altro principio delle nostre azioni che la re­ligione, e i ministri della religione non hanno veramente nè virtù nè scienza. La riforma d’Italia potrebbe nascere dalle operazioni che va facendo l’Imperatore Giuseppe; conviene sottomettere alla podestà Sovrana i preti, abbassare l’orgoglio loro e aprire gli occhi al Popolo. Fatto ciò, tutta la cura dovrà rivolgersi a’ Seminarj, non ammet­tere alla educazione ecclesiastica se non giovani d’animo sensibile, delicato, riflessivo, di contenzione nello studio e di placidezza nel ca­rattere; dar loro una colta educazione, di cui la base sia la morale pra­tica e la cognizione della storia ecclesiastica. La generazione attuale non si muta, tutta la speranza sta nelle venture. Ma per cambiare l’in­dole d’un popolo un Principe solo è poco, ve ne vuole un seguito di Principi che camminino tutti sulle tracce medesime, perchè la gene­razione vivente opponendosi alle riforme della crescente, sempre le imprime buona parte de’ vizj suoi, e così vi vuole una gradata dimi­nuzione di vizio per quattro o cinque generazioni.

L’Imperatrice Maria Teresa aveva una pessima opinione degl’Ita­liani, e credeva che noi Milanesi fossimo avversi alla dominazione di lei, sempre disposti alle opposizioni a’ di lei ordini, ingrati, scostumati, tergiversatori, e in conseguenza alla aveva per principio di tenerci bassi. I Ministri fomentavano questa opinione, poiché tanto meno si dava retta alle pubbliche querele, e tanto maggiore autorità conveniva che il Monarca affidasse al Ministro Pretore di una tale Provincia. Un Sovrano accorto deve allontanare da sè quel Ministro che gl’insinua difidenza verso del suo Popolo. Il popolo naturalmente ama il proprio Sovrano, e gl’interessi sono scambievoli fra l’uno e l’altro. Il malvaggio Ministro semina la difidenza, rende odioso il Sovrano alla città e la città a lui, come il malvaggio domestico fa nascere e coltiva la discordia affine di pescare nell’acqua torbida. Quello che v’era di più curioso è che il Ministro che era alla testa del nostro paese, dopo dieci anni non lo conosceva, e credeva di buona fede uno spirito avverso nel popolo, che singhiozzando correva nelle Chiese per impetrar la vita di Maria Teresa minacciata dal vajuolo. Ciò accadeva perchè alcuni secretarj s’erano impadroniti degli affari, e impaurivano il Conte di Firmian supponendogli d’essere in mezzo ai serpenti; egli si appiattava nella sua biblioteca inaccessibile a tutti i ricorsi, e se talora v’era l’uomo fortunato al segno di parlargli col mezzo d’una moneta al Cameriere, il parlare era superfluo, perchè rare volte intendeva un affare pel suo verso, e quand’anche l’inten­desse, credeva illusione e cabala la evidenza medesima. La venuta a Milano del Reale Arciduca Ferdinando è stato il momento in cui ebbe fine un tal governo; ma l’opinione della Imperatrice non si cam­biò mai più sin ch’ella visse. Concludendo, io dico che se v’è in poli­tica una massima senza eccezione ella è questa, che chiunque aliena l’animo del Sovrano dal popolo, o quello del Popolo dal Sovrano è uomo da allontanarsi da ogni pubblico impiego, poichè ha certa­mente un fine perverso, se non è uno sciocco. Questa massima la vor­rei stampata in un quadretto nel Gabinetto d’ogni Sovrano e d’ogni Ministro, acciocchè egli pure possa distinguere i suoi subalterni ufficiali.

PENSIERI POLITICI SULLE OPERAZIONI FATTE IN MILANO NEL 1786

Un popolo robusto e stupido facilmente si assoggetta alla schiavitù militare; soffre e obbedisce, e chi comanda a un tal popolo facilmente si renderà padrone di nazioni colte.

Un popolo colto, che sente il pregio della libertà, difficilmente si arruola alla milizia, e, se pur vi si arruola, cerca di sottrarre quanto può alla disciplina, ragiona, esamina, giudica e o si ribella, o fugge abbandonando la bandiera; non vi è che l’entusiasmo della religione o della patria che possa farne de’ valorosi soldati.

Se una nazione naturalmente stupida si renderà padrona d’una nazione colta non sarà mai fra esse una vera concordia, perchè la dominante odierà la vinta vedendosi derisa, e la vinta odierà la domi­nante vedendosi odiata e disprezzata.

Facilmente un signore nato fralla nazione stupida per evitare la taccia di mancante d’ingegno ricorrerà alla furberia e simulazione, perchè fralle nazioni stupide non si valuta la pubblica opinione, nè si distinguono l’accortezza dal tradimento, la sagacità dalla mala fede; quindi avrà a soffrirsi per lo più un reggimento duro, umiliante e cor­rotto.

Se il Monarca di tal nazione dominante sarà pigro e abbandonerà il governo a’ suoi Ministri, il popolo soffrirà il loro orgoglio e l’ava­rizia loro; ma costretti a prevalersi de’ cittadini illuminati loro mal­grado, per rendere buon conto di loro amministrazione ne averrà che gli uomini di merito saranno adoperati, e si farà qualche bene. Lad­dove se il Monarca ivi è attivo non saranno adoperati se non degli automi esecutori indifferenti ed esatti di qualunque comando; per­chè la voglia di comandare è più comune che l’ambizione di ben comandare, e la vanità di operar tutto è più comune dell’amor della gloria e della fama presso la posterità, la quale s’ottiene conducendo la nazione alla felicità, cioè alla libertà civile, alla coltura e alla virtù.

Per guidare un popolo al bene e fargli abbandonare gli antichi pre­giudizi non sarà mai buon ripiego l’adoperare il comando. Ogni vio­lenza che si adoperi sarà sempre odiosa e renderà più affezionato il popolo all’oggetto che si voglia screditare. L’abuso del clero non si toglierà mai utilmente se non co’ libri e colla predicazione, e col collocare negli impieghi anche ecclesiastici uomini illuminati e buoni. Altrimenti volendo sradicare la superstizione si annienterà nel popolo anche la credenza della vita a venire, unica base della morale, e senza di cui l’uomo non ha più una intrinseca norma della giustizia e del dovere.

Un buon Principe vuole energicamente liberare dai mali il suo popolo, esamina cautamente i mezzi per ottenerlo, indi gli adopera dopo matura scelta. Si può talvolta rovesciare tutto il sistema politico d’un popolo unicamente per liberarsi da qualunque ostacolo che limiti la volontà d’un dispotico, e allora non si opera per liberare dai mali il popolo.

Se un principe sospetta sempre, e mostra di credere tutti gli uomini cattivi, sicuramente egli non è amico degli uomini. Sarà ei stesso infe­lice e renderà infelici gli altri uomini. Inutilmente cercherà colla organizazione di non aver bisogno de’ sentimenti. La tattica fa vincere anche senza il coraggio personale de’ combattenti; ma ne’ consigli e nell’amministrazione della giustizia la tattica politica non fa sugge­rire le cose utili nè vegliare alla sicurezza e felicità del popolo. È un errore funesto lo spegnere i sentimenti colla diffidenza e col mecanismo della organizazione de’ Consigli. Gli automi possono stare in linea e sparare il fucile, sin qui la mecanica giugne, ma gli automi non governano un popolo con onore e buon successo. La incertezza delle idee forma l’imbecille; la dubitazione e l’esame formano l’uomo pub­blico. La presunzione e la sicurezza ne’ soli nostri lumi forma un mediocre ingegno. Chi più vede più è cauto; ama a svolgere le pro­prie idee e rettificarle col contrasto e coll’esame; allora poi che così le ha scelte fermamente le promove.

A chi scrivo? A nessuno. Chi ne avrebbe bisogno non si cura di leggere, e chi legge non ne ha bisogno. Perciò finisco.

RICORDI DISINTERESSATI E SINCERI D’UN UOMO DABBENE

at fas non dicere … sed fas

Un libretto che svela i vizj di coloro che abusando della credulità e debolezza altrui trovano in quella la rendita e la considerazione, deve portare odio contro del suo Autore. Lo so che faccio un cattivo con­tratto, difendo chi non se accorgerà e offendo chi cercherà di nuo­cermi: ma pure, se posso scemare il numero delle innocenti vittime e obbligare almeno i malvaggi a qualche ritegno, sarò ricompensato. Potessi almeno col mio scritto accrescere qualche poco d’avvedu­tezza nel popolo, e dare qualche guida a quegli onesti cittadini che si trovano nella infelicità di dover affidare o la loro vita o le loro sostanze nelle mani altrui! Io presento agli onesti uomini miei colle­ghi il risultato non già delle mie speculazioni, ma d’una lunga e ripetuta sperienza. I fatti che racconterò potrei provarli co’ nomi degli autori e colle circostanze; pure benché i danni che ho veduti accadere e in parte sofferti possano darmi titolo bastante per farlo, credo più virtuoso partito il dimenticare ogni personalità e non avere in vista che il solo bene che posso fare alla Patria.

Dei medici.

Poco, pochissimo ajuto possiamo sperare dai medici, e assaissimo v’è da temere; eppure l’umana debolezza, allorchè siamo infermi, si accresce, e si vedono anche degli uomini ragionevoli abbandonarsi ai medici, ai ciarlatani, ai fatuchieri. Quel filosofo ammalato che ave­va sul letto talismani, amuleti, idoletti de’ numi, ebbe ragione di ri­spondere al suo collega che gli chiedeva di sua salute: voi lo vedete, sto male assai, e mostrogli i testimonj della propria debolezza. Vi sono però alcuni più illuminati, i quali avendo da vicino conosciuta la va­nità della medicina, nemmeno colla febbre perdono la evidenza che ne acquistarono; e di tal natura sono la maggior parte de’ medici, i quali allorchè s’ammalano o non ammettono alcun collega, ovvero se per onore dell’arte l’ammettono, non mai abbandonano se medesi­mi ai metodi usati. Trenta anni fa si raccomandavano bibite calde dai medici per dilatare i meati, per rilasciare le ostruzioni, per purgare blandamente. Ora i medici condannano le bibite calde, che inflosciscono i visceri, levano il tuono ai muscoli, e in vece prescrivono acque fredde, gelate, bagni freddi ecc. Trent’anni fa un ammalato di vajuolo si teneva chiuso, riparatissimo dall’aria; si teneva ben coperto per lasciare adito a presentarsi alla cute la materia morbosa. Ora si vuole aria, aria fresca, ventilata, nessun riparo sul corpo infermo, acciocché non si moltiplichi l’infradiciamento e la corruzione. Alla fine del secolo passato si facevano morire di arsura i febbricitanti, volendo che il calor febbrile consumasse gli umori peccanti; ora si voglion bibite e copiose per ammorzare il calore febbrile. Da qui a trent’anni pro­babilmente si faranno altre mutazioni. Poco buon senso basta per il­luminarci sulla ciarlataneria medica, la quale è stata l’oggetto della derisione e del disprezzo degli uomini di maggior ingegno, e persino abbandonata al ridicolo della scena comica. Io non prendo a scrivere un trattato sulla vanità della medicina; mi basta dare rapidamen­te alcuni cenni e invitare il mio lettore di buona fede a risolvere tre soli quesiti, e sono questi. Avete voi veduto in vita vostra un solo am­malato il quale sicuramente dovesse soccombere, e che per opera del medico sia guarito? Quando avete soltanto un legger mal di capo, credete voi che tutt’i medici uniti abbiano podestà di liberarvene? Quando vi duole un dente, trovate voi una sola droga fra gl’innumerabili vasi dello speziale che vi liberi e vi sottragga alla violenta operazione di svellerlo? La medicina è una vera meretrice con finti colori, con chiome finte, che ha finte lusinghe e finta sensibilità; ab­bandonati a quella, perdi tempo, denaro, e corrompi la massa del tuo sangue. Nella plebe la maggior parte delle malattie nascono dall’ec­cesso della fatica, e dalla troppo misera qualità del nutrimento; in noi la maggior parte delle malattie nascono dalla intemperanza e dalla ir­ragionevolezza. I contadini, gli artigiani poveri quasi sempre risane­ranno col riposo e con alimento sano e nutriente. I facoltosi risaneranno colla sobrietà, colla illarità e col moto. Queste sono le più sicure e benefiche preparazioni chimiche da presentarsi all’egra uma­nità. Ho conosciuti più onesti uomini che esercitavano la medicina, i quali pensavano così e ingenuamente me lo accordavano; ne ho co­nosciuti alcuni i quali, adattandosi alle volgari idee irriformabili e considerando la fiducia dell’ammalato come un buonissimo rimedio, sostenevano il loro magico personaggio e misteriosamente ordinava­no medicamenti insignificanti per tutt’altro oggetto se non quello della opinione. A Sorisole sul Bergamasco si sono veduti immensi prodigi operati per opinione. Mesmer e Cagliostro sono due tau­maturghi che hanno saputo porre in attività somma la fantasia degli ammalati, e si contano guarigioni maravigliose da essi operate. Io adunque non condanno punto chi fa il medico, avviso però il mio lettore a non abbandonar la sua vita in mano d’alcuno, a rassegnarsi alla condizione d’uomo che seco porta d’avere ora sanità ed ora ma­lattia, a persuadersi che tutto ciò che ha un principio deve avere un fine inevitabile; e a conoscere che per far grazia somma all’arte, al­meno tanti accelerano quanti prolungano il loro termine coll’abbandonarsi ai medici.

Premessa questa idea giusta di questa lusinghiera arte, ora con­viene riflettere che l’arte medesima in questi ultimi secoli ha deviato dal sentiero della retta ragione e s’è infelicemente ingolfata nel mare delle chimere e de’ sogni. I principj dell’arte medica sono e saranno sempre ignoti agli uomini, e non v’è che la ciarlataneria che possa vantarsi di conoscerli. Il mistero della generazione, il mistero della nutrizione, il primo mobile della nostra macchina, tutto si sottrae alle nostre ricerche e s’asconde in una nebbia impenetrabile. Cosa è feb­bre? Nessuno lo sa. Come si digerisce? Non lo sa alcuno. Come ope­rano i purganti, gli astringenti, i diaforetici, i narcotici ecc? Un im­postore spiegherà tutto, ma nè s’intenderà egli sè medesimo nè un uomo ragionevole potrà intenderlo. Un’arte adunque di cui s’ignorano e s’ignoreranno sempre i principj, non si può trattarla per principj se non fondando delle ipotesi, e quindi fabbricando su basi in­certissime che non reggono al peso e lasciano cadere tutto il lavoro colla sola sperienza de’ fatti. Si è creduto di conoscere per mezzo del­l’anatomia il mecanismo della nostra macchina e rimediare poscia ai disordini come a quei d’un orologio. Ma l’anatomia grossolanamen­te ci mostra i pezzi del corpo, e sfuggono i sensi quelle parti che co­stituiscono la vita e dal disordine delle quali nascono i sconcerti. L’anatomia mostra i visceri nello stato di morte, e dopo d’esserci ammorbati su i cadaveri ed aver caricata la memoria di tanti nomi greci che è piaciuto di dare alle budella, non siamo avanzati un apice nella scienza di procurar la guarigione a un ammalato; anzi queste cogni­zioni, utili per dirigere con minor pericolo il coltello d’un chirurgo, sono una miniera di sistemi aerei, ne’ quali vanno delirando colla loro immaginazione i medici sulla azione de’ solidi, reazione de’ fluidi, sulla ragione semplice, inversa o composta delle forze operanti in noi ecc. La chimica, le di lei affinità, fermentazioni ecc. hanno somministrato un altro campo di delirj e sogni medici che militarmente schie­rando acidi da una parte, alcali dall’altra, ideando combattimenti, re­gioni prese, minacciate, hanno moltiplicata la incertezza. Ora quando non si conoscono i principj delle cose non rimane altra scorta alla ra­gione se non se quella de’ fatti, la quale scorta fu appunto quella che andò seguendo Ipocrate epilogando e riducendo a afforismi i fatti osservati da diecinove generazioni precedenti e depositati ne’ registri d’Esculapio, e quindi si comprende perchè la medicina dal tempo d’Ipocrate a noi o non abbia fatto verun progresso, o forse anco sia retrograda, laddove tutte le altre scienze, o quasi tutte, mirabilmente si sono innalzate. Il nostro italiano Sentorico prese il metodo ipocratico, tentò la natura colla sperienza, e dai fatti di quarant’anni ben confermati ha potuto trarne alcuna utile teoria; onde francamente asserisco che i medici correranno sempre nel vortice de’ sogni e delle opinioni, seducendo gl’incauti e rovinandoli, sin tanto che animati da un sincero amore dell’umanità, illuminati abbastanza per cono­scere la vanità dell’arte, cautissimamente si limitino a imparar l’arte difficile di saper osservare e opereranno in que’ soli casi, ne’ quali colla guida ipocratica la sperienza dà un probabile risultato di poter giovare.

So ben io che un medico perfettamente sincero non otterrebbe alcun lucro o alcuna riputazione presso il popolo. Egli dovrebbe alla maggior parte de’ malati confessare di non intendere il loro male e di non saper che fare in loro vantaggio; e un medico simile verrebbe trascurato come un ignorante; ma se io accordo al medico la simula­zione di mostrare di conoscere quello che non intende, di aver mezzi di sollevare quando gli ignora; se accordo al medico d’usare della debolezza e ignoranza altrui in vantaggio del debole e ignorante, a consolare, rinvigorire e risanare il quale tal specie di ciarlataneria può moltissimo giovare; non posso però risguardare se non come un igno­rante pericoloso quello che non rendendosi conto esatto a se stesso delle cose che veramente sa, opera arditamente sulla vita altrui a caso. Il solo uomo ragionevole è colui che sa di sapere quello che sa, e sa d’ignorare quello che ignora.

Stabilita così la base della giusta opinione che debbesi avere della medicina e del molto da temere, e poco da sperare che v’è nell’assi­stenza del medico, è bene che siamo altresì avvisati delle male arti colle quali taluni abusano della nostra semplicità. Il poco che ho veduto io stesso mi autorizza a prevenire gl’incauti. Io ho conosciuta una donna stravagante, la quale per comparire in qualche modo donna maravigliosa, e per dominare meglio nella sua casa e rendere adorati i suoi capricci, si voleva far credere ammalata con febbre, e durò più di trenta anni a starsene a letto.11 Fors’anco ella giunse a persuaderlo a sè medesima. Il medico prima d’entrare a visitarla si trat­teneva colla cameriera e l’interrogava sugli accidenti della notte, sullo stato del giorno ecc.; indi entrava gravemente, toccavale il polso, e fatto silenzio l’interrogava: avrebbe ella mai sofferto doglia di capo? … Gran polsista! come indovina tutto! Signor sì l’ho sofferta … E sete? Arsura alle fauci? … Che demonio! Anche questo indovina! Ma dica, Sig. Dottore, giacchè vedo che sa tutto, dica d’onde mai proviene que­sto dolor di capo che sì di frequente mi tormenta? … Il medico china la testa in atto di profondo raccoglimento di pensieri; nuovamente prende a toccarle il polso; l’ammalata avidamente aspetta l’oracolo. Questa testa, dice il Dottore con molta pausa. Questa testa è restata distesa … come in una forma dolente; perciò sente il dolore nella parte che le duole … Grand’uomo! esclama l’ammalata, grand’uomo! Parla come un angiolo! Vi dice le cose con una chiarezza, con una precisione, con una verità, che sorprendono sempre. Il medico passa a farle il racconto delle novelle di città, delle avventure, di quanto di ridicolo e di singolare ha potuto osservare nelle case nelle quali è stato a far le visite: la discrezione e la carità del prossimo non brillavano certa­mente in que’ dialoghi. Suoleva il medico tenere quell’ammalata come un fondo stabile di buonissimo frutto, ed era l’ultima visita ch’ei faceva in fine della giornata. Non partiva però mai senza scrivergli tutte le sere la ricetta, e quello che è degno d’osservazione [è] che era sempre esattamente la stessa ricetta aqua cerasarum nigrarum, succinum, laudanum liquidum, confectio Alkermes, e tutto in dose che nulla significava; ma ogni sera si scriveva, acciocchè si credesse che il rimedio variava sapientemente secondo lo stato dell’ammalata. Questo medico era uno de’ più accreditati del nostro paese.

Ho veduto altro fatto, cioè un medico che fu richiesto per visitare un’ammalata che tendeva a morire di consunzione, e siccome si temeva che il metodo de’ purganti, sul quale insisteva il medico della cura, non fosse opportuno e che il male non nascesse altrimenti da supposte ostruzioni; così si procurò dai congiunti di farla visitare nascostamente da un altro medico familiare della casa paterna della inferma; e si tentò ciò sul dubbio che facendo un consulto non si adulassero vicendevolmente i medici, come il solito; ma il medico stra­ordinario richiesto, con intelligenza che non si sapesse, volle prima di tutto secretamente confidarlo al medico della cura, e nella sua visita adulò finissimamente il medico omicida suggerendo, come da sè, i rimedj medesimi che adoperava il medico della cura, colla quale con­dotta vennero ad accecarsi i parenti togliendo ogni dubbio sulla qua­lità del male conosciuto lo stesso da due creduti indipendenti professori. L’ammalata ne morì, ma i due medici vivono buoni amici.

Il medico comunemente è incallito d’animo. Soffra o moja l’in­fermo, ei mangia con buon appetito e dorme saporitamente i sonni. Sin qui non v’è da rimproverarlo, la natura umana è fatta così, che s’abitua e si rende col tempo insensibile, e per vivere lui, così deve essere l’uomo che fa il medico. Alcuni con troppa sincerità lasciano travvedere su questo articolo la loro indifferenza, e in ciò fanno un male perchè privano l’ammalato di quella consolazione che reca l’apparente amicizia del medico. Quello che è un mal maggiore si è quello di que’ non pochi Esculapj che ridicono le miserie, le debo­lezze, le piaghe delle famiglie nelle quali sono ammessi e se ne ser­vono per conversazione e trastullo. Il sommo abuso poi è quello di volersi arrogare la padronanza di casa e del corpo del povero in­fermo, operando e tormentando le ultime ore angosciose della vita. Dalla sanità all’agonia è un terribile viaggio per la audace ignoranza degli uomini d’ogni classe, che col pretesto di farci bene ci oppri­mono. Dall’agonia alla morte il passaggio è più consolante, perchè nulla v’è di mezzo fra l’uomo e l’Essere ottimo e eterno. Io tremo nella incertezza del mio avenire, se mai dovrò terminare i giorni con una malattia regolare, pensando che mi troverò debole e abbattuto, esposto alla maligna curiosità, alla indiscrezione, al fanatismo, alla ardita e potente ignoranza di molte classi di uomini, senza mezzi di difendermi. Credo che a misura che i lumi e i sentimenti d’umanità faranno progressi, questo male andrà scemando; ma io non posso sperare ancora tanti anni di vita per goderne il vantaggio. Sapessi almeno quando sia la mia ora, che mi ricovrerei prima in un villag­gio e leggerei in volto del parroco di campagna il dolore del mio male, sulla faccia degl’innocenti contadini vedrei qualche lacrima in ricom­pensa della umanità mia; la religione non mi presenterebbe che ajuti e conforto. Medici, chirurghi, speziali, parenti sarebbero in città, ed io attorniato da’ domestici placidamente pagherei il tributo alla na­tura… Ma l’avenire sta coperto da un velo impenetrabile. Cittadini, uomini che amate di vivere, non vi fidate ai medici; e se dovete chie­dere consiglio ad alcuno, scegliete un uomo che si fidi pochissimo della sua arte, che abbia studiato il mestiere e che sia d’indole mode­ratissima e placidissima.

De’ chirurghi.

Se un osso mi va fuori di luogo o mi si rompe, certamente io non posso far a meno di ricorrere o a un valente scultore o a un chirur­go, a meno ch’io non m’accontenti di rimanere deforme e storpio dopo molti pericoli e spasimi. Quindi è che della chirurgia abbiamo un reale bisogno, laddove della medicina ne possiamo ragionevol­mente fare senza. La chirurgia però dividiamola in due parti, giacchè sono due mestieri realmente diversissimi che fa il chirurgo. Un mestiero è dipendente dalla facoltà medica ed è falacissimo; l’altro mestiero è quello d’operatore, ed ha norma e principj sicuri. Il chirur­go per ciò che concerne i tumori, i mali cutanei, gli empiastri, i pronostici, i giudizj sull’origine e qualità e rimedj, per questa parte, dico, è ciurmatore al paro del medico. Ho osservato venire a supurazione quel tumore che il chirurgo aveva predetto doversi sciogliere da sè, e sciogliersi l’altro di cui aveva predetto dover venire a infallibile supurazione. Ho osservato incallirsi, e inveterare quelle piaghe co’ ceroti e altri empiastri, le quali coll’acqua tepida si risanavano. Ho veduto uccidere l’ammalato colla cura d’una cutanea eruzione. Questa è parte medica. Miglior consiglio è di lasciar fare il suo corso fisico e naturale a simili infermità, che d’ordinario s’innaspriscono e si prolungano co’ pretesi ajuti dell’arte. Il tumore comunemente supura da sè e si apre lo sfogo, ovvero da sè si scompone; l’acqua, i bagni, il vitto sobrio, l’ambiente opportuno e la pazienza sono i mi­gliori rimedj da adoperare, e se la malattia è sanabile più prestamen­te si parte, e se non è sanabile si more con minori tormenti; e l’arte in simili malattie non credo già che possa guarir mai quel male che sarebbe conducente alla morte abbandonato alla natura. L’altro mestiero che fa il chirurgo, cioè quello d’operatore colla mano, ha principj sicuri. Chi sa l’organizazione delle ossa e il mecanismo col quale sono congiunte, può colla mano ajutata da opportuni mezzi ricon­durre l’osso al suo luogo, e per la via più breve; può accomodare al suo posto un osso spezzato, sì che coll’ajuto della nutrizione venga a nuovamente congiungersi: un valente statuario potrebbe farlo quan­to un chirurgo, ma quest’ultimo ha l’uso degli stromenti e uno studio particolare onde più cautamente si ricorre a lui. Chi sa l’anato­mia, come saper la deve un chirurgo, può salvar la vita legando un’arteria squarciata da una ferita, può estrarre innocuamente un corpo estraneo intruso nel corpo umano; può restituire la vista libe­rando l’asse dell’occhio da un corpo opaco: qui non v’è dubbio al­cuno che l’arte del chirurgo non abbia principj sicuri e non sia di gio­vamento. Ma qual abuso non fanno gli uomini di tal mestiere! Abuso per ignoranza, abuso per la smania di farsi un nome, abuso persino per cavar lucro collo spasimo altrui! L’ignoranza del chirurgo porta con sè la precipitazione de’ suoi giudizj e la ostinazione irremovibi­le nelle cose giudicate. Chi è avvezzo a contemplar la natura, a eser­citare la sua mente nell’indagine della verità, è addestrato dalla sperienza a saper dubitare, a non determinarsi sulle prime apparenze degli oggetti, a esaminare le cose per tutti i lati possibili prima di sce­gliere una opinione, e scelta poi che l’abbia, sempre la tiene come una probabilità, non mai come una cosa sicura. Ma un ignorante chi­rurgo vede superficialmente un infermo, rapidamente lo esamina, de­cide che ha la pietra, lo induce a lasciarsi spaccare, e poichè gli ha fatta una enorme ferita, si trova che non vi è pietra alcuna; il fatto è accaduto, ed io conosco l’infelice che ha sofferto, vittima della igno­ranza del chirurgo. Un chirurgo ignorante al primo colpo d’occhio decide che una donna non può partorire; decide che il feto si pre­senta male, gli fa una evoluzione dolorosissima e lunga sin tanto che trova i piedi del bambino, e per essi lo estrae, ma lo estrae morto colla sommità del capo forata dal dito dell’ignorante chirurgo che la giudicò il dorso. So d’un chirurgo che s’ostinava a prendere un cor­done spermatico gonfiato per una discesa, e tormentò barbaramen­te un infelice per farla entrare dove non poteva. So d’un osso sloca­to a una spalla, che malgrado l’atrocità degli sforzi d’un chirurgo non giunse mai a riporre a luogo. So d’un chirurgo che amputò spietata­mente alle radici un pene che forse poteva guarire, o essere sanato con minore perdita, e so che l’ignoranza di colui giunse a segno di di­menticare il successivo bisogno di scaricar la vescica, perlocchè con­venne fare un taglio al perineo, e con una candeletta intrusavi ritro­vare l’uretra da forare al sito ove eravi la piaga del primo taglio. Ecco i rischj della sempre risolutissima ignoranza di costoro, alla quale si sacrificano vittime umane. Abuso si fa dell’arte per farsi un nome, una operazione difficile un giovine chirurgo la desidera, la cerca, la fa volentieri anche su chi non ne abbia vero bisogno. Conosco un po­vero uomo che il chirurgo assolutamente voleva castrare, e che guarì senza perdere la sua virilità. So di una giovine alla quale voleva il chi­rurgo quasi a forza cavare le glandole alla gola, e atterrita seppe re­sistere, e guarì senza questo. So di una partoriente dalla quale volevasi estrarre a brani il feto, e il cielo lo salvò essendo naturalmente uscito nel momento crudele in cui gli era imminente la morte. So d’un uomo di sommo merito al quale un ardito chirurgo persuase di lasciarsi tagliare una fistola al perineo, la quale appena gli dava in­comodo, e dalla ferita vasta e profonda l’uomo di sommo merito ne morì pochi giorni dopo per gangrena. Al collo de’ chirurghi io vor­rei che vi fosse appesa una medaglia con queste parole: Posso squar­ciare e non posso rimarginare; la cicatrice d’un taglio si fa non da’ ceroti, ma dal sangue, e se il sangue manchi di quella qualità, il taglio non si riparerà mai più, degenera in gangrena, e si muore. Ma al chirurgo poco ciò preme, bastandogli l’applauso d’avere fatta l’opera­zione con franchezza, con brevità, e disinvoltura, quasi un ballerino di corda. La insensibilità di costoro giugne a segno che essendo nata disputa fra due chirurghi se un certo frate vecchio avesse delle pia­ghe alla gamba perchè l’osso fosse cariato, e sostenendosi all’oppo­sto che l’osso era sano e il male fosse unicamente negli umori, i due professori si riscaldarono nella disputa e determinarono di tagliare la gamba per chiarirsene. Io so questo fatto dal giovine di chirurgia che operò sotto la loro direzione e che rimase solo nella stanza assai imbarazzato per frenare il sangue, poichè al momento che ebbero la gamba tutti gli altri con essa se ne partirono a fine di visitarla. Tutti i fatti che asserisco mi sono noti, e potrei citar le prove della verità. Se dopo ciò io diffido e de’ medici e de’ chirurghi, sebbene non l’ab­bia provato sopra di me, credo d’aver buona ragione. Uomini dab­bene non siate facili a fidarvi, risparmiate più che potete di mettere la vostra vita nelle altrui mani, sopportate i mali della umanità anzi che esporvi a soffrire di più i mali della ciarlataneria ancora più fu­nesti, e se dovete pure ricorrere a un chirurgo, scegliete un uomo modesto, umano, studioso, indi lasciatelo operare il meno che po­tete.

In una nazione illuminata la morale è il principale vincolo che uni­sce uomo a uomo, e l’impostura è conosciuta e screditata. A pro­porzione che si rischiara la mente degli uomini si vedono i medici prima abbandonare la grossolana ciarlataneria e assumerne una più colta, al che siamo giunti anche noi; poi sono costretti ad abbando­nare anche questa, e conservare la sola inerente al mestiere, che è confortar con parole l’ammalato, non mai palesare i secreti delle famiglie, rispettare la buona reputazione di chiunque siasi affidato alla loro cura, diffidare dell’arte, operar poche volte quando nol facendo siavi imminente pericolo, ed osservare fedelmente quel giu­ramento che Ipocrate esiggeva da chiunque volesse imparare l’arte. Frattanto che la nazione non giunga a questa coltura, onesto uomo, se vuoi vivere e soffrir minori mali, tienti lontani medici e chirurghi.

Degli Avvocati e Causidici.

Per dipingere al vivo, e con sinceri colori questa classe di uomini, o per dir meglio, questa mandra che è la feccia la più corrotta della società

Chi mi darà la voce e le parole!

sì che io possa prevenire gli uomini onesti a stare in guardia! Quello che ho io stesso veduto, quello che ho scoperto di questa genìa è tale che se volessi riferire tutto, si crederebbe il mio scritto una satira pas­sionata; tanto la verità è poco verisimile! Pure indagando i gradi per i quali passa l’uomo per giugnere a questa professione, chiaramente si scorge che non può riuscire diversamente da quello che riesce; e che la insensibilità alla ragione e alla virtù debbono essere il risultato della carriera legale quale ella è presso di noi. Un giovine dopo d’aver bene o male imparato il latino si determina al Foro. Passa in uno stu­dio d’avvocato o di causidico, ove comincia a impratichirsi d’alcuni nomi di autori; per comodo del suo maestro va a caccia delle auto­rità le quali corredano le allegazioni. Lo studio è facchinesco e di pazienza. Non v’è principio veruno. In ogni caso conviene ricercare l’opinione degli autori e non già il senso della ragione umana. Autori per il sì, autori per il no, ecco quello che si presenta in ogni caso; e se talvolta qualche autore vi stabilisce un principio chiaro, non ter­mina il trattato che non ve lo imbrogli a segno che limitando, am­pliando, distinguendo, sottodistinguendo, il risultato è sempre che tutto dipende dalle varie circostanze de’ singoli casi. Primo princi­pio adunque che si stampa nella testa dell’alunno curiale è che non si danno principj certi, che tutto è controvertibile, che l’autorità deve seguirsi e non la ragione, e che in ogni caso si può scrivere hinc inde. Questo principio comincia a eliminare l’uso della ragione e del sil­logismo, dal che ne deriva nessun senso di giusto o ingiusto: per lo che osservate che la faccia d’un curiale anche giovine non si muta mai, nè mai vi leggete ribrezzo alcuno al racconto di una manifesta ingiustizia, nè vi vedete balenare giammai quel fausto gaudio che al racconto d’una nobile e generosa azione si manifesta su la faccia d’un uomo sensibile. Estinti e oppressi dal peso della autorità i germi della ragione, resi problematici tutti gli oggetti, resi i nomi di giustizia e di virtù vani e ottenebrati, eccoti l’uomo che si presenta a far l’av­vocato o il procuratore. Quest’uomo così modificato sarebbe un apopletico, un imbecille stupido, se nella sua anima non rimanesse un principio di moto, il quale tutto per necessità deve rivolgersi al maneggio, alla cabala, all’intrigo per moltiplicare il profitto proprio. Nè dal correre questa tristissima carriera lo allontaneranno i principj della Religione, poichè quantunque sommo spavento abbiano i curiali del demonio e dell’inferno, pensano nondimeno che non esa­minando mai i dommi e dicendo di crederli fermamente, abbiano fatto il più, onde dal cielo aver la grazia di salvarsi, al qual fine aggiungono qualche stabile pratica di culto esteriore per proccacciarsi un Santo protettore nel quale confidare. Tale ordinariamente è la loro religione che lascia loro libero il campo quasi con tranquil­lità di coscienza d’offuscare ogni buon diritto, d’impedire che alcuno ottenga mai quello che gli è dovuto, vadane poi in rovina qualunque famiglia, nascane poi che sa nascere. Ma la Santa Messa ogni giorno, confessarsi con qualche frequenza, mai pronunziare uno scherzo amoroso, e tutto, secondo essi, il rimanente va bene. Alcuni più gio­vani alunni si sono alquanto dipartiti nell’apparenza da questo ori­ginario sistema, e la coltura introdotta e sparsa più generalmente gli ha obbligati a indossare un più elegante vestito, a usare di maniere meno rozze, a scrivere con minore barbarie di quella che adopera­vano i padri nostri; ma nel fondo essenziale sono i medesimi, poichè la medicina, per esempio, ha cambiato forma di studio, e dove prima era una mecanica pratica di ricettare, ora è un ingegnoso ammasso di opinioni e di sistemi; i medici erano Aristotelici, ora sono Carte­siani, ignoranti e in un caso e nell’altro, ma coltamente ignoranti oggidì: ma i curiali studiano la stessa dottrina, e il cambiamento è soltanto nella vernice.

L’avvocato e il causidico adunque non hanno comunemente idea o sentimento alcuno di vero e falso, di giusto o ingiusto; e credono che il vincere o il perdere una lite dipenda dal favore e dall’industria. Posta questa base, essi non rifiutano mai un cliente, tosto che sia in istato di pagarli; ed al cliente sempre si mostrano incerti sulla riuscita del suo affare per quanto possa essere evidente. Lo studio legale è nojosissimo e la natura vi ripugna; per ciò il curiale ordinariamente poco e superficialmente esamina le vostre carte. Il curiale è per lo più istupidito e affaticato, quindi ricorrete al vostro patrocinatore se siete appassionato, vi sbadiglia in faccia senza riguardo; parlategli ragione, parlategli sentimento, eccovi tante volte spalancata allo sbadiglio la bocca dottorale quante volte intuonate quelle corde. Il curiale uscirà con una scempiagine per troncare il filo del passionato vostro di­scorso. Almeno il medico finge di aver premura per voi, l’implacabile curiale con una faccia stupida vi lascia chiaramente vedere che se siete rovinato è l’ultimo de’ suoi fastidj. Regalatelo, vi ringrazia e non si muta; adulatelo, non fate nulla; rimproveratelo, si sdegna e vi ab­bandona.

Sin qui ho esposto i vizj di que’ curiali che non tradiscono il clien­te. Ma qual fondamento faremo noi della morale d’un uomo che ha incerte idee della giustizia e che crede con alcune esterne pratiche religiose d’aver soddisfatto a’ suoi doveri? I curiali sono colleghi, amici, parenti fra di loro, sono finalmente d’accordo, perchè reci­procamente s’ajutano a spese de’ spensierati che si abbandonano nelle loro mani. Non è raro il caso che concertino fra di loro i due avversarj causidici la scena che debbono rappresentare nel giudizio. Non è raro il caso che un causidico riceva doppia mercede avvisando l’avversario de’ disegni del suo cliente. Ho veduta una famiglia ricca e onorata involta in un rabbioso litigio per l’arte d’un curiale che animò la donna di casa al puntiglio. La lite era di nessuna utilità, ma di puro impegno. In questa famiglia ricca ed onorata si facevano i congressi con varj avvocati. Il causidico instigatore s’era fatto un merito presso ciascuno di questi avvocati facendogli avere un ricco e generoso cliente. Appena terminato il congresso, l’avversario era pontualmente avvisato di quanto si stava per fare. Lunghi affanni sof­frirono gli onorati padroni, che con buona fede e lealtà s’erano lasciati sedurre. Spesero qualche miliajo di zecchini. Perdettero la lite, e il procuratore ben pagato acquistò la benevolenza degli avvo­cati. In altra lite in cui si trattava d’un patrimonio, gli avvocati d’una pupilla ricusarono il giorno precedente alla sentenza d’accettare la metà del patrimonio offerto alla sua cliente. La sentenza gli tolse tutto. Il giorno medesimo gli avvocati avversarj, e gli avversarj causi­dici fecero insieme una partita a una villa; pranzarono allegramente; vuotarono del buon Borgogna; ed essendo portato un brindisi al­l’avvocato della pupilla, dicendogli alla vostra salute giacché avete perduta la causa… io perduta la causa? È la tale pupilla che l’ha per­duta… Così rispose; e fra gli evviva passarono il convitto e la gior­nata vaticinando e augurandosi l’un l’altro una larga ricompensa da’ clienti che avevano litigato. Se il giudice inclini a favore d’una parte, l’avvocato e il causidico che se ne accorgono (e ai quali preme assai più la benevolenza del giudice col quale hanno sempre a fare che non quella del cliente, che eventualmente cade loro nelle mani) in vece di promovere il buon dritto del povero cliente, che si è abbandonato nelle braccia loro, anzi lo atterriscono, lo avviliscono, cercano a dis­suaderlo dal promovere il suo diritto, e lo inducono a transiggere e sacrificare il suo interesse. Se con tali arti giungano ad acquistar favore presso de’ giudici, a proccacciarsi la benevolenza de’ dome­stici del giudice, del suo cancelliere, della sua amica, o del direttore spirituale, il curiale ha fatta la sua fortuna. I libri e le scritture poco più le guarda un curiale giunto alla celebrità. Franchezza e parole suppliscono alle cognizioni. Un tal curiale andava ad informare un giudice d’una causa ch’egli stesso non sapeva, e il timido cliente doveva interrompere e contraddire al suo stesso patrocinatore che sfigurava il fatto; pure la informazione si doveva pagare bene o mal fatta. Guai a cader nelle mani di uno di questi celebri curiali: ei, dal momento in cui v’affidate a lui, si considera padrone assoluto e dispotico delle cose vostre, e senza consultare la vostra volontà pro­mette, sottoscrive, impegna voi. Povera gente innocente e sconsi­gliata che cadete nelle mani di questa corrottissima feccia di uomini, de’ quali un paese starebbe pur bene se non ne avesse, e contasse tanto meno popolazione! L’Imperatore Giuseppe Secondo ha cre­duto di rimediarvi con un buon libro che è il Regolamento Giudi­ziario. Vi vuol altro che un libro per rimediare alla immoralità di costoro!

Uomo onesto, se la disgrazia ti riduce ad aver bisogno d’un chi­rurgo, ovvero d’un legale; se sei infermo, ovvero se sei costretto a liti­gare, guardati bene di non cercare mai il soccorso dei professori più celebri. Coloro hanno già formato il loro concetto; nulla preme ad essi l’esito: prendono l’uomo come un automa, lo maneggiano come loro torna conto; in essi non troverai se non un orgoglio e pigra insensibilità. Chiama in tuo soccorso un giovine che abbia ingegno, che abbia impegno di farsi un nome, ma che non se lo sia fatto, e sopra tutto che pratichi poco e il meno che può cogli altri di sua profes­sione. Se v’è speranza d’essere assistito bene, questo è l’unico filo per ottenerlo; ma bada bene di allontanarlo tosto che questo giovine cominci ad avere credito.

Degl’Ingegneri.

Io non tratto di quegl’ingegneri, che co’ studj felicemente seguiti hanno imparata la geometria e il calcolo; che istrutti della solidità e dell’eleganza dell’Architettura, delle leggi della Idraulica, dell’arte in somma sono una parte colta della città. Quando un uomo è passato per la traffila di una buona educazione, o riesce un cittadino dab­bene o almeno non è uno sfrontato e indiscreto impostore, poichè prova il rossore di comparirlo. Tratto di quegl’ingegneri ignoranti, i quali senza teoria alcuna essendo passati a far pratica sotto d’un inge­gnere ignorante, maneggiando lo squadro, la tavola pretoriana, e un livello a liquori, s’arrogano il titolo d’ingegneri e sono quelli appunto i più affacendati, i più ricercati per far le stime de’ fondi, per decidere sul prezzo de’ contratti di essi, per far le divisioni nelle fami­glie. Guardati uomo onesto da costoro, sono essi impostori facendieri che non la cedono nè ai medici, nè ai chirurghi, nè ai dottori; e non solamente esercitano una falacissima facoltà, ma non di rado la esercitano con mala fede e propendendo da un partito. Per convin­cerci della fallacia loro sulle stime esaminiamo rapidamente le stime delle terre e le stime delle case, e vedremo quanto siano arbitrarj e ideali i loro principj.

La stima d’un fondo di terra nasce come una conseguenza dalla attuale fecondità di essa, ovvero dalla ventura possibile fecondità sottraendovi le spese per ottenerla. Se vogliasi sapere la fecondità attuale d’un campo, questa è la notizia d’un fatto; sconsigliato è colui che domanda a un ingegnere quanto effettivamente produca un campo che l’ingegnere vede per la prima volta. Il colore della terra, l’aspetto delle piante e della vegetazione annua possono indicare bensì steri­lità o fecondità, ma non mai il grado preciso da cui si raccolga il vero e reale annuo prodotto. Il contadino che coltiva il campo, il castaldo che sopraintende ai poderi, essi lo sanno; i libri d’una regolata ammi­nistrazione lo indicano. Perchè dunque ricorrere a un ciarlatano per apprendere da esso quello ch’ei medesimo non può sapere se non interrogando il contadino? Perchè non l’interroghiamo noi mede­simi? In fatti l’ingegnere per esercitare questa grossolana arte magica si pone a rimirare il campo, col contadino da una parte, col castaido dall’altra, e interrogandogli scrive quello che da essi intende; indi come dal tripode pronunzia l’oracolo sul valore del fondo. L’arte umana non può a priori calcolare la fecondità d’una terra. Che se l’unica guida per avere il vero attuale prodotto d’un fondo è il fatto, cioè quanto grano, seta, vino ecc. se ne ricavi in una annata comune, evidentemente se ne deduce che tutta l’arte arcana dell’ingegnere si restringe a mendicare dal contadino quelle notizie che ciascuno può dal medesimo ottenere. Un solo istante di riflessione basta a far cono­scere che molto ancora più astrologica e ciarlatanesca sarà la stima dell’ingegnere se pretenda calcolare il prodotto possibile d’una terra, poichè sarà sempre incerto il dato della spesa da farsi per una nuova coltivazione, e incertissima l’eventuale fecondità nella ipotesi della nuova coltivazione. Quindi la scienza di stimare i fondi di terra è una solenne impostura, e per convincere ognuno provisi a far seguire la stima del fondo medesimo da due ingegneri, senza che l’uno sappia dell’altro, e col fatto si vedrà che pronunzieranno assai diversi risul­tati. Che se falacissima è la stima de’ fondi, ancora più ridicola è la stima che fanno gl’ingegneri delle case. Consideri ognuno che più case della stessa ampiezza [e] del disegno medesimo, poste in siti diversi, hanno valore diverso più del doppio e più del triplo. Sup­pongasi una casa in un villaggio, l’altra nel centro d’una città popo­losa, l’altra in un sobborgo della città; sieno esattissimamente simili; posto ciò ognuno vede che quelle tre case ugualissime debbono avere una stima disegualissima. E quale sarà la norma? L’opinione, il ca­priccio, il favore, e non di rado la subornazione in favore d’uno de’ contraenti. Io ho conosciuto un ingegnere scelto di comune accordo fra chi doveva comprare e chi doveva vendere una casa, il quale vesti­tosi della importante persona di padrone, accettando gli omaggi delle due parti, pesando il valore e l’ossequio si determinò a beneficare insignemente il venditore e stimò la casa al di più di quanto poco prima erasi venduto il più magnifico palazzo della città. Il modo poi di fare questa stima fu di passeggiare per tutte le stanze e dettare a uno scrivano a ogni stanza per esempio così: Sala di venti braccia di lunghezza e dieci di larghezza con soffitta a chiodi dorati ecc., di fitto annue £ 700; altra stanza ecc., £ 300; altra £ 250 e così assegnando un supposto capriccioso fitto ad ogni stanza ascese a circa dodici mila lire di pigione; e quindi calcolando al moderato prezzo del 4 per cento, e dedotte le riparazioni e i tributi, emerse il valor della casa al doppio di quello che pochi anni prima era stata pagata. La stupidità di questo metodo è evidente, perchè tutti i dati, e tutti gli elementi sono aerei quando realmente la casa non trovisi appigionata. Questo stesso ingegnere che per fatalità fu scelto a formar la stima e la divi­sione in una famiglia aveva assunto un tuono dispotico e da padrone, e s’era dimenticato d’essere un estraneo che vive col suo mestiere mercenariamente. Stimò i fondi esageratamente da una parte, li stimò con più giusta misura dall’altra parte. Così intendeva che a gara si dovesse dai contendenti impetrare la protezione sua per avere nella propria porzione delle terre che avessero un prodotto vero e non ideale. Una delle parti finalmente lo colse approposito mentre s’era arbitrato di sostituire a un piano già accordato un altro e giugneva a sostenere che non vi fosse mutazione, e resa così manifesta la sua pre­varicazione e mala fede potè con giustizia ricusarlo. Il fatto è tale quale lo espongo. L’ingegnere ebbe 450 zecchini in pagamento di sì bell’opera. So che vi sono degli uomini in questa professione che non operano così; ma so che più si opera col maneggio e colla briga che colla scienza, e che la massa vive a spese della ignoranza e della pigri­zia altrui con una impostura solenne. Nella consegna e riconsegna de’ fondi per lo più i fittajuoli guadagnano l’ingegnere, e dal tripode si pronunzia la sentenza di quanto gli si debba pagare dal proprieta­rio; dico dal tripode, poichè gl’ingegneri si vantano di non dover mai render ragione di quanto asseriscono, e quindi è che costoro si con­siderano e sono dispotici padroni del paese, come diceva il mio illu­stre amico Frisi.

Da questi brevi cenni che ho dati, i quali potrebbero servir di abozzo d’un vasto libro, ogni onesto uomo deve cavarne il suo profitto. Io ho raccontato fatti a me noti. Difidiamo de’ medici, de’ chirurghi, de’ legali e degli ingegneri, e in somma di tutti questi negozianti che non hanno per capitale che ciarle, e che vivono della debolezza e im­becillità del popolo. Se la ragione andrà facendo progressi nella na­zione dovranno costoro contenersi e accostarsi almeno in apparenza alla probità; ma sin’ora hanno bel giuoco. Io non nego già che anche in queste classi vi sia sparso qualche uomo dabbene; dico che la massa è corrottissima; dico che è cosa di sommo pericolo l’affidare la vita, la roba, la convenienza a costoro; dico che bisogna singolarmente star lontani da quelli che in queste classi parasite hanno mag­giore celebrità, perchè sicuri sul concetto pubblico a man salva sacrificano chiunque. Dico che sono classi parasite, perchè vivono e campano senza contribuire alla ricchezza o riproduzione, unicamen­te sottraendo e smungendo l’alimento dai creduli o disgraziati che cadono nelle loro mani. Questo ho scritto per bene de’ galantuomi­ni; ma prevedo che pochi apriranno gli occhi e saranno per profitta­re della mia sperienza; alcuni che avranno provati i mali che riferisco accorderanno che ho detto la pura verità senza esagerazione.

ALCUNE OSSERVAZIONI ECONOMICHE ATTINENTI AL MILANESE

Nel nostro Stato poco si coltiva il canape. Prendiamo dal Bolognese, dal Piemonte e in qualche parte del Mantovano le cose di cana­pe. La tela di canape per pagliacci, scene da teatro, platfonds e sacchi è un oggetto che costa l’annua uscita di ducento mila lire. La corda la paghiamo all’estero cinquantamila lire annue. Il canape ma­teria prima lo riceviamo dal forestiere per centocinquanta mila lire al­l’anno. L’oggetto importa da circa quattrocento mila lire di annua uscita. Resterà da esaminare se la coltivazione del canape fosse mai meno lucrativa delle altre. Forse il lino, di cui trasmettiamo all’este­ro una raguardevole partita, è più conveniente. Il problema si ridu­ce a conoscere quale dei due generi di coltura produca a eguali con­dizioni maggior somma di annuo valore.

Si dice che prima del rigidissimo inverno del 1709 la Riviera del Lago di Como fosse piena di ulivi, i quali allora perirono. Dubito che la fisica ci ponga nella dipendenza dalla Riviera di Genova per l’olio d’ulivo. L’articolo dell’olio cagiona allo Stato l’uscita di un milione. Abbiamo il seme di lino, abbiamo il noce e altri semi che ne danno. Si è tentato il colsat ma con poco effetto. Non so per qual motivo siasi abbandonata la coltivazione del Sesamo, che anni sono si era proposta. So che le cose utili non sono derelitte quando interessano la ricchezza, e gli uomini non s’ingannano nel loro giudizio su tale argomento. Fu abbracciata da noi nel secolo passato la coltivazione insolita del grano Turco, sebbene si avesse in orrore il moto della terra; perciò su questi due primi articoli ne faccio un cenno, sebbene poco io speri che si possa fare di reale per diminuire la nostra dipen­denza.

Molto si è detto sulla coltura delle api. Qualche cosa mi sembra che si possa fare. Credo che i calcoli fatti sulla carta da chi, trovando che un alveare produce il valore d’uno scudo, ne giganteggia l’en­trata moltiplicandoli, siano erronei perchè quelle mosche non vivono senza pascolo, e i fiori convenienti al loro cibo non sono infiniti. Per nodrire cento alveari converrebbe disporre un pezzo non piccolo di terreno ad una piantagione destinata per essi. Se però non spero molto, nemmeno dispero che possa promoversene la coltura, e infine si tratta niente meno che di diminuire la uscita annua di treccento mila lire in cera e di otto mila in mele.

Le viti del Milanese non bastano al nostro bisogno. Ne’ contorni di Varese se ne raccoglie abbastanza per farne un trasporto agli Sviz­zeri ed a Casal Maggiore se ne trasmette agli esteri; in tutto ne diamo ai forestieri da sessanta mila brente, ma queste vengono largamente sbilanciate da centoquaranta mila brente che riceviamo dal Piacen­tino, Oltrepo e Novarese. Siamo per ciò perdenti più di un milione all’anno. Sarebbe da esaminare se vi sia mezzo da moltiplicare le viti senza che le altre colture d’altrettanto si impoveriscano. Parimenti sarebbe da osservarsi se nella scelta delle viti non vi sia da migliorare, se il tempo da raccogliere l’uva, il modo da premerla, la usanza della fermentazione, il metodo da custodire il vino e simili oggetti possano essere migliorati con istruzioni, catechismi, e premj, giacché i nostri vini non sono paragonabili ad altri che si fanno in climi e più caldi e più freddi del nostro.

È vergogna nostra il non saper fare la colla da falegname e il vedere le botteghe di quasi tutti gli artigiani con questa materia che com­priamo dalla Germania. Costerebbe poco il fabbricarla da noi, e daremmo valore a de’ rifiuti di macello.

La carta da scrivere, malgrado le belle promesse de’ Frati Cisterciensi, non vale quella che si fa sul Bergamasco, ove si trasmettono i nostri stracci. Una città di lusso come Milano non manca di mate­ria prima per fare carta eccellente. Ma la smania di correre dietro alle cose maravigliose e difficili ci fa perdere tutto.

Noi compriamo dagli esteri per più di 50 mila lire biacca, cinabro, minio e verderame. Perchè non impieghiamo noi i nostri a cavar que­sti colori dai metalli?

Ci perdiamo in voler fabbricare stofe e panni fini e compriamo le coperte di lana tutte dal Bergamasco spendendo più di cento annue mila lire. Perchè non promovere almeno questa grossolana facile e necessaria manifattura!

I lavori di lana a maglia servono per le calze e berette de’ contadini. Si tratta d’un oggetto che oltrepassa dieci mila doppie d’annua uscita dallo Stato. In vece di mantenere con questo denaro tanti sud­diti Veneti e tanti Svizzeri, perchè non adopreremo i rinchiusi nelle case di correzione, perchè non renderemo operose le mani delle orfanelle? Questa manifattura è preferibile all’altra de’ merletti.

Si vuole incautamente il lusso, e la Fabbrica Guaita di Como, che è la sola, non ha mai potuto reggere da sè. Pensiamo al vestito del popolo. Per un signore coperto di panno fino vi sono cento poveri uomini vestiti di mezzelane e di grograni. Venti mila annui zecchini noi spediamo ogni anno nella Svizzera e nello Stato Veneto per averli. Quanto è più facile il piantar tali manifatture!

Lo stesso dico della saglia di lana che ci viene da Bergamo, dalla Germania, dalla Francia, e dall’Inghilterra. Questa è manifattura che non esigge che d’essere filata e tessuta. Si tratta di treccento cin­quanta mila lire che perdiamo ogni anno.

I panni grossolani di Bergamo, Bassano e del Nord sono assai più facili a lavorare che non i fini, e si tratta niente meno che di mezzo milione all’anno che esce dallo Stato di Milano per provedersene.

Anni sono si è tentato di fabbricar sapone.11 Ora languiscono o sono spenti i tentativi. Si tratta di ben quattrocento mila lire annue che paghiamo ai Genovesi per quest’oggetto. Perchè trascurarlo!

Quanti altri lavori d’uso popolare ignoriamo noi! Eccone un breve cattalogo.

Lapis nero e lapis rosso. Quest’oggetto è d’uso comune. Non se ne fa punto da noi.

Corde di cembalo, salterio ecc. d’uso comune non se ne fa.

Carta dorata, carta innargentata d’uso pure comune non se ne fa.

Oro e argento falso in libretti, tutto viene dall’estero.

Oro macinato serve per bronzare alcuni mobili, non se ne fa.

Non v’è da noi un orefice capace di fare una cassa d’oriuolo da tasca, tutto viene dall’estero.

Non v’è orefice capace di lavorare una tabacchiera d’oro a ciarniera, e abbiamo una strada di orefici!

I lavori di smalto anche i più grossolani nessuno sa farli, onde per­sino le croci degli ordini di cavalleria vengono dall’estero.

Gli aghi da cucire nessuno sa farli.

Le spille nemmeno vi è chi le fabbrichi da noi.

I bicchieri e lavori di vetro da noi sono grossolani in modo che a nessuna persona civile servono.

Le luci da specchio nemmeno le più piccole per uso popolare non si sanno fabbricare da noi.

Dopo questi cenni non dirà poi ogni uomo dabbene che non sanno quello che si peschino coloro che diriggono gli affari pubblici del nostro Paese, e si vantano de’ progressi della nostra industria! Essi nemmeno sanno i fatti scritti in questa carta; per saperli ho dovuto impiegarvi alcuni mesi ed anni; e gli avrei detti alla Società Patriotica se avessi veduto un filo di speranza almeno ch’ella diventasse utile. Ma l’ho veduta sino dapprincipio abbandonata a personalità, a intrico, a partiti, e me ne sono sottratto. Il governo cattivo rovina ogni germe d’industria, e riduce un popolo alla indifferenza del ben pub­blico, e la indifferenza pel ben pubblico difusa nel popolo perpetua un governo cattivo. Il male non ha rimedio.

MEMORIA SU NICOLA PECI

La sera del 6 maggio 1788 morì Nicola Peci commendatore dell’Ordine Militare di S.to Stefano. Quest’uomo significò molto nel Go­verno di Milano per lo spazio di ventidue anni. Egli era nativo di Siena, poverissimo gentiluomo; andossene a Roma e vi si trattenne nello studio d’un avvocato colla speranza di trovare collocamento. Non potendo continuare accettò d’essere canonico a Siena, dove avendo fatta conoscenza con Miladi Walpol, pel di lei mezzo acqui­stò il favore di Richecourt e un piccolo impiego in Firenze.

L’abate Giusti, che a Vienna era alla testa del Dipartimento d’Ita­lia, dopo di aver conosciuto da vicino per molti anni in Milano la tenacità e la prepotenza dell’aristocrazia lasciata dai Spagnuoli, il dispotismo del Senato e l’ostinata opposizione che s’incontrava per ogni utile stabilimento, pensò di sostituire alle cariche vacanti uomini educati diversamente, dai quali non aspettarsi renitenza per le riforme ch’ei divisava di recare. Chiese due Toscani per collocarli in Senato, e dal conte di Richecourt venne nominato il Sig. Nicola Peci per uno de’ due, e così venne fatto Senatore circa l’anno 1763.

Il Sig.r Nicola Peci era uomo d’una dolce e amabile società, di carattere molle e voluttuoso, di suo fondo alieno dall’ambizione e da ogni impeto, paziente ma non contenzioso nel lavoro, avente idee chiare ma non sublimi, uomo colto ma non dotto, di carattere soverchiamente timido, la quale ultima qualità contribuì principalmente alla sua fortuna rendendolo circospettissimo nel discorso e sommamente defferente a sostener quella opinione che fosse più piacevole a chi era armato del potere.

Egli in Senato nella causa fra i fratelli Conti Archetti era Relatore e restò solo in voto, sostenendo il partito che era stato favorito dalla Corte; e seppe simular tanto bene nelle informazioni che malgrado la scaltrezza de’ Curiali tutti lo credevano d’un parere opposto a quello ch’ei palesò. Questa era una proprietà sua veramente singo­lare ch’ei rappresentasse e riferisse le ragioni contrarie con tutta la lor propria evidenza, senza artificio veruno per diminuirne la forza; indi concludesse con opposto sentimento senza allegare motivi valevoli a distruggere le contrarie ragioni.

Era insolita la casualità nel Senato che un Relatore rimanesse solo, e che l’unanime parer contrario prevalesse, poiché cautamente i Relatori divisavano le opinioni prima di avventurarsi, e tacitamente eravi la convenzione di valutar sommamente l’opinione del Relatore, dalla qual reciproca defferenza nasceva il potere terribile di ciascuno indi­viduo del Senato. Questa mortificazione la diede il Senato al Senator Peci, non saprei se mosso più dalla giustizia che dalla brama di umi­liare questo nuovo Senatore che non aveva adottato quelle esteriorità di contegno Spagnuolo che gli altri riguardavano come sacre e invio­labili, e che lasciava conoscere d’aver collocata la sua speranza nell’aderire alla Corte e al Governo anzi che uniformandosi allo spirito di corpo, come aveva fatto un altro Toscano di lui collega. Dopo tal fatto il Signor Peci non poteva più vedersi in Senato, e la vita di Sena­tore che gli era dapprima gravosa per la lunga e nojosa sessione, per le lunghe udienze e per le ore che gl’impedivano la vita sociale, gli divenne insopportabile colla società di persone animate contro di lui. Si pose quindi con ogni assiduità a coltivar la benevolenza del Conte di Firmian e non dimenticò di guadagnarsi il suo cameriere Giuseppe Diletti Toscano, facendo la corte alla di lui moglie. Il secretario Castelli pure Toscano, che aveva sommo potere sull’animo del Conte di Firmian, era stretto seco lui d’amicizia. In quel tempo si pensava a impinguar l’Erario Regio togliendo dalle mani dei privati le regalie e restituendole alla Camera, che le aveva alienate o per donazione o per vendita ne’ secoli precedenti. Il Conte di Firmian secretamente incaricò il Signor Peci di stabilir le massime per dar rimborso ai pos­sessori; e le massime ch’ei stabilì furono le più favorevoli alla Camera, e talmente ingiuste a danno de’ privati che in buona parte la Corte medesima se ne dipartì. Quest’oggetto delle regalie stava molto a cuore ai Fermieri Generali e con essi a quanti avevan parte col go­verno di questo Stato, giacché speravasi di poter fare a spese de’ pos­sessori delle regalie un fondo bastante alla Camera di Milano per mantenervi il Reale Arciduca Ferdinando senza abolir la Ferma. Quindi le opinioni del Signor Peci colimavano cogl’ interessi di quei che avevano maggior parte nel destino del Milanese: alla utilità delle sue opinioni si accoppiava la placidezza delle sue maniere, decoro­samente officioso, e quindi ottenne d’esser liberato dalla vita Sena­toria eriggendo una nuova commissione e facendolo capo del Collegio Fiscale. E questo fu il primo passo ch’ei fece probabilmente senz’altro disegno fuori che quello di sottrarsi a una vita dura e inco­moda.

L’idea di questo Collegio Fiscale era aderente a quella della redenzione delle regalie. Pareva cosa ragionevole che il Fisco, ossia la Regia Camera dovessero esser diretti con principj stabili e uniformi, e non variabili secondo le opinioni di ciascun Avvocato Fiscale, i quali essendo più e cambiandosi, e operando ciascuno da sè e dipendendo dall’arbitrio de’ Presidenti il chiedere il suo voto più all’uno che all’altro di essi, ora opinavano in un modo, ora in un altro con una varia­bile giurisprudenza.

Si pensò quindi a formare un corpo di questi Fiscali e a dargli un Capo, da cui solo dipendesse commettere un affare e che avesse facoltà di correggere e cambiar le opinioni degli Avvocati Fiscali prima ch’esse fossero presentate ai Tribunali. Questa odiosa commissione che limitava l’arbitrio dei Presidenti e che degradava gli Avvocati Fiscali sottoponendoli nel loro ufficio alla censura, cercò il Signor Peci in qualche modo di compensarla facendo eleggere dalla Corte col titolo d’aggiunti al Collegio Fiscale varj giovani i quali lo assistessero, e del successivo collocamento de’ quali egli ebbe cura. Peci amò di collocar varj e riuscì a beneficare molti cittadini, il che formogli un partito di persone a lui affezionate ch’ei seppe conser­varsi colla pacatezza del suo naturale. Ma questa nuova istituzione non potè reggere, e quindi nel 1771 all’occasione che il Conte di Firmian lo condusse a Vienna qual uomo di sua confidenza per sistemar le cose per l’imminente residenza del Reale Arciduca in Milano, volendosi abolire il nuovo Collegio Fiscale, convenne far una pro­mozione di Peci, che fu fatto Consultore di Governo per gli affari di Giustizia. Era concertato che due consultori assistessero al Governo, quantunque i riguardi che l’Augusta Maria Teresa aveva per il vec­chio consultore Silva avessero posto nel piano tre consultori, Silva, Peci e Cristiani, da ridursi in due soli alla prima vacanza: Peci e Cri­stiani credevan certamente di rimaner soli, e il destino in vece gli ha gettati i primi nella tomba, vivendo attualmente il Consultor Silva colla sua mente vegeta all’età di 96 anni.

Dacché fu Consultore il Cavaliere Peci si guadagnò l’animo della Real Arciduchessa, non meno che del Reale Arciduca. Non ebbe più commissioni odiose, e colla sua placidezza e colle sue maniere gentilmente dignitose ei si acquistò la benevolenza di molti. Cambiò il nome della carica, e in uno di quei sistemi di corto periodo che si succedevano l’un all’altro fu chiamato Secretario di Stato. Quindi abolita tal carica fu Vice Presidente del Consiglio Governativo, nella qual carica morì.

Egli mancò d’ogni energia sì di mente che di animo. I nemici del Conte Verri avevano ordita la trama di perderlo sotto il piissimo Regno di Maria Teresa col farlo comparire autore d’un Lunario ch’ei non aveva fatto, e nel quale si volevan trovare delle empietà che non vi erano. Il Signor Peci secondò questa traccia, nella quale si voleva anche involgere Paolo Frisi e qualch’altro giovine di merito del paese. Non ebbe ripugnanza alcuna il Signor Peci di dar l’opera sua a tal raggiro, che terminò poi colla disapprovazion della Corte sulle procedure fatte dal Governo e colla derisione delle poche persone sensate, le quali facilmente colla semplice lettura del Lunario conobbero che non partiva dalla penna alla qual si voleva attribuire. Volevasi dal par­tito Gesuitico collocare il Padre Boscovich a Milano, dove insegnava la matematica nelle Scuole Palatine il Padre Frisi, che il Signor Peci aveva trattato e conosciuto in Toscana, e pure si prestò non senza simulazione ad eseguire un tal progetto, che dalla Corte fu poi rifiutato. Peci doveva la sua fortuna al Conte di Firmian, pure cedendo alle insinuazioni del Conte Cristiani egli sottoscrisse un progetto alla Corte per levare tutta l’autorità dalle mani del suo benefattore e dividersela con Cristiani. Queste sono macchie del suo carattere, il quale aveva, come dissi, la debolezza e timidità per base; quindi non aveva nè violenta ambizione, nè violenta cupidità di guadagno, nè violenta invidia o odio violento, nè opinione alcuna ch’ei fosse disposto a soste­nere con energia: ma occupato timidamente di viste private e perso­nali, ei beneficò alcuni perchè sentiva di aver bisogno di appoggi, ma non si avventurò mai per far bene. Non si lasciò corrompere o com­prare da alcuno, ma prendendo la Croce di S. Stefano si rese capace di aver pensioni ecclesiastiche, e ne ebbe; cosicché alla fine tutto com­preso soldo e pensioni, aveva da due mila zecchini annui da disporre. Egli però da uomo savio fu sempre misurato nelle spese e nel vestito e nell’equipaggio e nell’alloggio giunse appena ai limiti della decenza, e si crede ch’egli continuamente soccorresse i suoi parenti in Toscana, il che ridonda in elogio del suo cuore.

Considerando quest’uomo come un Ministro, egli merita d’essere riposto nel numero dei volgari senza grandi vizj e senza grandi virtù. Egli non aveva amore pel ben pubblico e per la giustizia e non conosceva la vera gloria; ma nemmeno era persecutore nè prepotente. Ei cercò di promovere i buoni studj nell’Università di Pavia e vi contri­buì; non so poi s’egli sia stato colpevole di dare alle dispute Teologi­che quella importanza che le fa primeggiare, e che prepara al secolo venturo una schiera di fanatici; inclinerei a discolparlo, poichè egli era sciolto dai vincoli della superstizione e superiore agli errori vol­gari in questa materia. Un anno prima di morire ei si guadagnò la benevolenza pubblica con pochissima fatica, e questo fatto prova piuttosto l’abiezione dei Milanesi che l’eroismo del Signor Peci. Era partito per Vienna il Signor Conte di Wilzech Ministro Plenipoten­ziario, rimaneva Peci alla testa del Governo del Milanese. Una squadra di soldati invalidi con un nuovo uniforme erasi collocata in Milano col titolo di Police per mantenere in pace e in ordine la città. Per primo esordio costoro avevano bastonato varj cittadini, volevano impedire che nessuno per le strade di notte potesse cantare. La città fremeva; i fogli pubblici raccontavano i tumulti che allora si svilup­pavano nelle Fiandre Austriache contro le novità. Peci comandò che la Police cessasse di fare insulti, e questo natural sentimento d’un uomo timido fu accolto come un tratto singolare di benevolenza. Non terminò però d’essere alla testa di questo paese che non commettesse una azione che non si saprebbe a qual principio attribuire. Una meretrice che stava nella contrada di S. Raffaello fu presa dalla Police, anzi prescelta essa sola fra sei altre domiciliate nella stessa via. Il Direttore della Police fu di parere di farla trasportar per un anno nel carcere di correzione. Peci approvò questa condanna, anzi la rese più ignominiosa, aggiugnendovi di sua privata autorità che fosse tra­dotta con appeso un cartello al collo, e radendogli il capo, e questa sentenza fu eseguita il giorno dopo della di lei carcerazione, senza che fosse stata difesa, e senza la cognizione d’alcun Tribunale. Fors’anco Peci s’imaginò d’indovinare il piacere del Sovrano. Tale è la memoria che ha lasciato dopo di sè il Signor Peci, ed è stata esposta su questo foglio senza amore e senz’odio, null’altro avendo in vista che la semplice verità.

IDÉES SUR LA SOCIETÉ

Si la nature avoit doué tous les hommes d’un même degré de force et d’adresse peut-etre n’y auroit-il point de societé; plus j’examine la nature de la societé, plus je suis persuadé que c’est le parti des faibles qui par la reunion de leurs forces ont voulu se garantir de la violence d’un seul. Il y a toute apparence de croire que le dispotisme ait donné naissance aux societés.

Pour peu qu’on raisonne sur les loix de la nature on trouvera qu’il n’y en a d’autre que la force. Le plus fort comande au plus faible; or comme le tout est plus fort que la partie, toute la nation comande à chaqu’un de ses membres.

C’est une chimere que la liberté primitive de l’homme, l’etendue des desirs est toujours plus vaste que celle du pouvoir, et pour être pleinement libre il faudroit pouvoir faire tout ce qu’on veut. La gravité nous empeche de voler, la construction de nos membres nous empeche de courrir comme des chevreuils, et des hommes ou d’autres animeaux plus forts que nous nous limiteront à leur gré notre li­berté. La societé n’est donc qu’une union de volontés pour conspirer de concert à se garantir des plus forts, elle est une correction de la distribution inegale des forces faite par la nature.

Pour que cette union de volontés subsiste, il faut qu’il y ait une regle generale et universelle qui empeche que chaque membre en suivant ses penchans ne detruise cette union; on a donné le nom de Loi à cette regle, quicomque en sort leze plus ou moins la societé qui rentre dans l’état de nature et traite le coupable avec la loi de la nature savoir la force.

On dit que la loi impose un devoir. Qu’est-ce que devoir? Si on entend par ce mot la necessité ou l’on est de choisir entre une telle action ou la vengeance publique scavoir la force, ce seroit comme si on disoit que l’on est puni en violant les loix.

Si on entend par le mot de devoir le remord ou l’infamie qui nous en resulte par l’infraction des loix, c’est encore une punition qui nous vient ou du juge eternel, ou de l’opinion des hommes, c’est comme si on disoit que la violation des loix est punie par un tel chatiment.

Si en entend par ce meme mot devoir un rapport qui est etabli par Dieu même entre nous et les loix, on revient toujours au meme, et on dira quicomque ose enfraindre la loi est puni par un Juge inevitable.

Le principe qui a formé toute societé c’est donc la crainte, le prin­cipe qui anime les diferens gouvernemens c’est la crainte.

Dans la republique la crainte qu’un ne s’eleve et qu’il n’ôte la liberté est le principe qui fait cherir les loix, et qui met tout citoyen en vedette sur les affaires de l’état.

Dans la Monarchie les sujets craignent le dispotisme, cherchent la Democratie et sont attachés par la aux Corps depositaires des loix qui doivent veiller à la conservation de l’état.

Dans le Dispotisme le peuple craint la mort, et le Souverain craint la revolte.

Les hommes ne sont donc liés que par une mefiance reciproque; mais cette mefiance plus ou moins grande est une sensation desagreable dont ils voudroient bien se défaire.

C’est une espece de servitude que de craindre continuellement qu’un autre ne puisse nous faire tort impunement. Le sentiment qui nous porte à la liberté s’il ne trouve point d’obstacle nous porte jusqu’à la Tirannie. Car notre defiance diminue à mesure que les autres sont dans notre dependance.

L’homme le plus entreprennant et le plus ambitieux est celui qui sent plus vivement la crainte du mal que les hommes peuvent faire; qu’on me dise qu’un tel est ambitieux; plus il l’est, plus je concluerai qu’il a souffert de la fierté et du mépris de quelqu’autre.

S’il y a quelque chose de bon dans l’ambition c’est qu’elle fait ressouvenir de tems en tems aux hommes qu’on ne doit point mépriser ses egaux: mais les hommes qui jugent par le succès s’obstinent à regarder l’ambitieux qui a reussi comme un homme extraordinaire qui ne tire pas à consequence pour les autres.

L’amour de la libertè dans le coeur de l’homme est un levain qui fermente sans cesse; il semble etouffé dans les païs Despotiques; c’est un feu pressé qui de tems en tems cause de tremblemens horribles.

Ainsi la crainte est le principe universel de toutte association. L’a­mour de la liberté, l’ambition méme, l’eroisme peut etre sont de production de la crainte. On apelle pusillanimité, lorsque la crainte n’a qu’un motif moindre que nos forces. On l’apelle terreur lorsque le motif est plus fort de nous. L’homme qui est mu par un seul objet est un lache, la crainte combinée des objets à venir donne la prevojance, l’amour de la liberté, la valeur et l’heroisme. On n’a pas osé analizer la crainte, du moins aucun que je sache ne s’en est occupè jusqu’à present. Cependant je la crois la mere de tout ce qu’il y a de perfection dans l’homme.

 

NOTE

[1] Sotto il dispotismo non si ardisce pensare, meno poi scrivere: quindi poche memorie abbiamo sul governo della Spagna nel secolo passato. Da un M.S. però che trovasi presso il Sig.r Principe Belgiojoso, opera del Senatore Gio. Batta Visconti, intitolato Stato della Repubblica Milanese l’anno 1610, vedesi in qual forma il Conte di Fuentes allora governasse lo Stato. Il Senatore era testimonio vivente, e ci lasciò memoria come il Fuentes da sè e senza saputa d’alcun Tribunale spediva chiunque in galera (così si visse in Milano dal 1600 al 1610). Il Senato fece alla Corte le rimo­stranze; la Corte riprovò il dispotismo del Governatore e comandò che la giustizia punitiva si reggesse dal Senato, di che se ne rise il Fuentes che perseverò a far incar­cerare e legare al remo a suo arbitrio. Fuentes senza darne nemmeno notizia alla Corte impose a suo capriccio de’ nuovi carichi, e siccome il Vicario e XII di Prov­visione ricusarono di concorrervi, Fuentes se ne sbrigò col farli tutti metter prigione. La manifattura delle armi era da noi un ricchissimo articolo d’industria, Fuentes per una ridicola politica di non dare armi ai vicini proibì l’esportazione, e rovinò così una cospicua manifattura nazionale (veggasi il M.S. fogl. 279 e 284 tergo). Nè qui col solo Fuentes termina la serie. Altro M.S. dello stesso Senatore Visconti conservasi dal Sig.r Principe che ha per titolo Governatori in cui a’ fogl. 350 tergo leggesi che Don Pietro de Toledo (Governatore dal 1616 al 1618) di sua dispotica autorità fece impiccare un uomo che serviva il Marchese del Maino senza partecipazione del Tribunale di Giustizia. E così poco riguardo il Toledo mostrò verso del Monarca che arbitrariamente levò la carica di Gran Cancelliere a D. Diego Salazar nominato dal Re, e conferì tale cospicua dignità a Don Giovanni Salamanca; il che saputosi dal Re, altamente disapprovò il fatto e comandò che il Salazar venisse repristinato; e se ne rise il Toledo, e Salazar non ebbe più carica, di che veggasi il M. S. suddetto fogl. 349. Nel libriccino stampato che ha per titolo Vita del Presidente Aresi a pag. 270 leggesi che D. Luigi de Guzman Ponze de Leon (che fu Governatore dal 1662 al 1668) di sua dispotica autorità fece impiccare un miserabile orbo che cantava can­zoni per le strade:11 si piantò secretamente la forca alla piazza de’ mercanti a porte chiuse e di notte venne strozzato e sepellito senza partecipazione di alcun Tribunale. I saccheggi che i Governatori poi facevano erano enormi: veggasi il libretto stam­pato intitolato Il Governo del Duca d’Ossuna nello Stato di Milano a pag. 38. Quel signore ammassò ben cinquecento mila once d’argento di regali. Non può negarsi che il governo fu assolutamente dispotico a rovina del Sovrano e del popolo, e la Città fiorentissima di Milano fu annichilata.

[2] Per conoscere l’abuso che il Senato faceva della sua autorità basti ricordare che alcuni cittadini, anche bennati, in uno stravizzo avendo mancato di rispettare un nano che era portinajo del Senatore Goldoni, vennero accusati di sedizione, processati, e impiccati, il che accadde sotto Carlo VI, e la memoria se ne conserva tuttora.

[3] Gli Avvocati de’ Fermieri Generali che gli protessero contro la Camera vennero uno dopo l’altro premiati e innalzati alla Cattedre Senatorie: così Lambertenghi, Muttoni e Fenaroli. I Fermieri dal paese trassero abbastanza per formare tre ric­chissime famiglie, e attribuendo a tutte e tre 24 milioni è una proposizione mo­derata. Aggiungasi la verosimile somma da essi distribuita per ricompensare le protezioni, e vedrassi che per un verosimile calcolo trentasei milioni avranno costoro smunto dal popolo più di quello che entrò nell’Erario, al quale pagavano cinque annui milioni, onde ne’ venti anni che continuarono nell’appalto per pagare tre al Sovrano essi saccheggiarono quattro sulla Provincia. Maria Teresa ne’ suoi dispacci li qualificava sempre Benemeriti; essi furono poi onorati di titoli, di ordini, di feudi, e furono i padroni di questo Paese.

[4] L’Avvocato Rosea per avere osato di rappresentare a Vienna alcuni abusi, al suo ritorno fu posto in arresto. Certo Redaelli per aver esposto a Vienna le perdite che faceva l’Erario ricusando annue £ 2jomila offerte per l’appalto dalle Ferme della Compagnia Pini, venne circondotto e posto in carcere, e si trovò un antiquato delitto di venditore di fumo, e infamato colla berlina passò poscia condannato all’Ergastolo.

[5] Un gentiluomo per essersi incautamente posto a gettar acqua vicino ad un nuovo quartiere di costoro venne bastonato sul fatto e non si parlò di riparazione.

[6] Al Laghetto fu ucciso un carbonajo, si fece il processo, vennero le guardie di Police condannate all’Ergastolo, ma si trovò modo di liberarle dalla pena.

[7] Una donna che abitava a S. Raffaello, forse prostituta, da un giorno all’altro presa senza formalità o difesa, coll’ordine del Capo del Consiglio Governativo venne rasata, con un cartello infamante al collo condotta attraverso la Città e condannata a un anno di carcere.

[8] Verso l’anno 1750 di più appalti se ne formò il solo della Ferma Generale. Di due antichi Magistrati Ordinario e Straordinario se ne formò un solo; una sola Can­celleria secreta si formò di due. S’eresse un monte di Creditori Camerali, si fece nuovo Ruolo di Salariati, si pose mano al regolamento delle Vettovaglie. Verso l’anno 1755 in vece d’un Governatore si pose l’Amministratore del Governo Generale, si levò al Presidente del Senato la facoltà di Vice Gran Cancelliere; si creò un Mini­stro Plenipotenziario, si abolì il Consiglio d’Italia in Vienna, e dappoi diventò sem­pre più lesto qualunque cambiamento. Verso l’anno 1760 si creò un Consultore di Governo, si pubblicò una nuova forma per il carico sulle terre; e venne spogliato lo Stato dal possesso di pubblicare l’imposta. Verso il 1765 s’eresse nuovo ordine di cose, un Consiglio d’Economia che spogliò il Senato e il Magistrato e la Città; una Ferma mista; una Giunta Economale, una Giunta de’ Studj, una Regia delegazione sul Monte S.t Ambrogio, la destruzione del Monte Civico, una nuova forma al Monte S.ta Teresa. Verso del 1770 abolizione dell’Antico Magistrato Camerale, e formazione d’un nuovo, divisione del Senato in due parti; creazione di tre Consultori di Governo. Verso del 1780 si cambiò forma al Magistrato, si creò un Secretario di Stato, si abolirono i Consultori; indi nel 1786 si fece tutta la rivoluzione del Paese.

[9] La smania di cambiare ogni cosa giunse a imbastardire persino la lingua sosti­tuendo espressioni barbare alle chiare e regolari. Per esempio prima dicevasi vuo’ dare un Ricorso al Tribunale, ora dicesi vuo’ dare un Exibito al Tribunale; prima dice­vasi il Consigliere ha fatta la relazione ora si dice il Consigliere ha fatto il referato; dicevasi prima il processo è chiuso, ora dicesi il processo è inrotulato. Noi avevamo ne’ Tribunali de’ Cancellieri e de’ Scrivani, ora si chiamano Concepisti e Cancellisti. Si volle far vedere il disprezzo d’ogni cosa nostra, ed esiggere la sommissione per­sino nella scelta de’ nomi.

[10] Per dividere in minori masse la Provincia del Ducato e formare il Milanese con maggiore regolarità si pensò prima se tutta l’estensione della Lombardia Austriaca potesse dividersi in uguali porzioni, ossia in sei parti uguali, Milano, Como, Lodi, Pavia, Cremona, e Mantova. La stima censuaria doveva servire di norma, e così dapprincipio venne ordinato. S’accinsero alla esecuzione, e si trovò fra i molti inconvenienti questo, che per completare la sua sesta parte a Pavia conveniva incor­porare a quella Città tutta Porta Ticinese di Milano sino al Ponte, e forse più. Onde siccome volevasi che ciascuna provincia concorresse alle spese locali della sua città, e dipendesse dalla giurisdizione in essa stabilita, avrebbero dovuto i proprietarj delle case di Cittadella pagare doppiamente e per le strade di Milano e per quelle di Pavia, e viaggiare a Pavia per far decidere le loro questioni in prima istanza. L’assurdo era talmente ridicolo che nemmeno si ardì di pubblicare questo ritrovato, che rimase escluso prima di pubblicarlo. Poi non saprei come si stabilì di scindere il Ducato e creare a Gallarate il centro d’una distinta Provincia, come un altro centro se ne formò in Bozzolo, e vi si posero i loro Intendenti Politici. Poi s’avvidero della impos­sibilità di sostenere questa divisione, atteso che la Provincia del Ducato ha i suoi debiti e i suoi crediti, e staccandone porzione per annetterla a Pavia non poteva mai quella essere pareggiata al rimanente del Pavese, perchè partecipava delle anteriori obbligazioni e dritti inerenti al Ducato. Quindi queste separazioni vennero abolite, e il Ducato si repristinò.

[11] Murat. Med. Aev. Dissert. xlviii.

[12] Veggasi nell’Archivio Pubblico agli Atti del Notajo Damiano Marliano.