Estratto del tomo quinto dei Mélanges di d’Alembert

Cesare Beccaria
ESTRATTO DEL QUINTO TOMO DEI «MÉLANGES» DI D’ALEMBERT

Testo critico stabilito da Gianmarco Gaspari (Edizione Nazionale delle opere di Cesare Beccaria, II, 1984, pp. 313-346)

MÉLANGES DE LITTÉRATURE etc., cioè Miscellanee di letteratura, di storia e di filosofia. Tomo 5°, in 8°, pagg. 608.

Il signor d’Alembert non è meno conosciuto nella repubblica letteraria come sublime mattematico di quello che lo sia per l’estensione delle cognizioni sue in tutte le parti della letteratura. I quattro tomi di Miscel­lanee già da esso pubblicati e molti articoli dell’Enciclopedia ne sono una sicura prova. Il quinto tomo delle Miscellanee, di cui ora ne intraprendia­mo l’estratto, ne è un nuovo indubitabile argomento.

Le materie delle quali tratta sono tutte interessanti. Si estende a lungo sul calcolo delle probabilità e sull’inoculazione del vaiuolo. Vi sono delle riflessioni sulla poesia, sulla storia, e sulle differenti maniere di scriverla. V’è un’apologia dello studio, un discorso sull’armonia delle lingue e sulla latinità de’ moderni, v’è una giustificazione dell’articolo Genève dell’Enciclopedia. Ma sopra tutti vi sono de’ lunghi schiarimenti sugli Elementi di filosofia. Occupano tali schiarimenti la prima metà del tomo.

Gli Elementi di filosofia del signor d’Alembert, già molti anni sono pubblicati nel 4° tomo delle Miscellanee, aveano eccitato in tutt’i dotti il desiderio di vedere eseguita l’opera, in tutta l’estensione della quale è capace, secondo il piano da esso ideato. La speranza che questo grand’uo­mo data avea di forse volerne intrapprendere l’esecuzione faceva travvedere un’opera alla quale nissuna delle conosciute in questo genere sarebbesi potuta paragonare. Ma, occupato egli delle parti più sublimi della fisica e del calcolo, che va sempre con nuove scoperte avvanzando, come le molte di lui opere in questo genere pubblicate lo provano, e trattenuto dall’Enciclopedia, non ha avuto luogo a fermarsi ne’ dettagli elementari, né ad ordinare un corso completo di filosofia. In luogo di questo però egli ci presenta degli importanti schiarimenti e delle aggiunte a’ diversi luoghi degli Elementi di filosofia, ch’egli non ha creduti abba­stanza esaminati, e ne fa sperare in breve de’ nuovi.

§ I. Schiarimento su ciò ch’è stato detto del difetto di concatenazione tra le verità.

Due inconvenienti arrestano o ritardano il progresso delle cognizioni umane: il poco numero di verità che possiamo scoprire ed il difetto di concatenazione e vicendevole dipendenza tra le verità conosciute. Questi due inconvenienti si fanno più o meno sentire secondo la natura degli oggetti su’ quali le verità s’aggirano. Nella metafisica, per esempio, il numero delle verità che conosciamo è piccolissimo: ma questo poco che noi conosciamo è molto bene conca­tenato, almeno in quella parte che riguarda lo sviluppo e la generazione delle idee. È la storia de’ nostri pensieri, che conosciuti, come lo sono, non abbisognano che d’un poco d’attenzione per vederne la serie e la concatenazione. Tutto il resto della metafisica poche verità chiaramente conosciute ci presenta. V’è da ogni parte oscurità, e molte volte una con­traddizione tra le stesse verità che crediamo di chiaramente conoscere, la quale, quantunque apparente, pure non lascia d’essere forte a’ nostri occhi.

In fisica l’esperienza e l’osservazione ci fanno conoscere tutto dì assai verità, delle quali molte lasciano scorgere l’unione che tra esse v’è. Noi conosciamo per esempio il rapporto tra la gravità de’ corpi e la forza che trattiene i pianeti nelle loro orbite. Ma in altri casi noi non vediamo l’unione delle verità che d’una maniera imperfetta. Tale è l’analogia tra la gravità e l’attrazione de’ tubi capillari. Forse l’una e l’altra da uno stesso principio derivano: ma come chiarirsene? Di molte verità ne vediamo l’unione senza poterne dubitare ma senza scorgerne i principii, come del rapporto tra la voce, la barba e le parti della generazione; e delle diverse proprietà della calamita, in apparenza così poco analoghe, ma pure in uno stesso corpo riunite e capaci d’alterazione. Questi e mille altri esempi bastano per dimostrare il difetto di concatenazione, che pur troppo è frequente nelle verità fisiche.

La morale è forse la più completa di tutte le scienze, quanto alle verità che ne sono i principii e quanto alla concatenazione d’esse. Tutto vi è fondato su una sola verità di fatto, ma incontestabile, sul vicendevole bisogno che gli uomini hanno gli uni degli altri, e su i doveri reciproci che questo bisogno loro impone. Tutte da questa verità se ne derivano con una necessaria conca­tenazione le regole della morale, ed ogni questione ritrova in noi una sicura risoluzione, malgrado la difficoltà di rinvenirla sovvente dall’in­treccio delle diverse passioni tra di loro formata. Il nostro interesse ben inteso è sempre l’unico principio di tutt’i doveri morali. Le verità sono nella morale molto più concatenate che nella fisica, né vi regna l’oscurità che quasi tutta involge la metafisica.

V’ha un genere di verità che il signor d’Alembert chiama isolate e galleggianti, perché d’esse non si vede il rapporto colle altre conosciute, che anzi sovvente formano delle contraddizioni colle verità più generali, contraddizioni che però devono essere apparenti dove tutto si crede fatto secondo leggi le più generali e le più semplici. Tali sono le qualità delle piante dette sensitive, la moltiplicazione di certi animali senza che s’accopino, la riproduzione delle gambe tagliate de’ granchi, la maggiore accortezza ed industria di certi animali ed insetti sugli altri ecc.

Noi di tali verità poco uso possiamo fare per l’avvanzamento delle cognizioni. Ma non devono però trascurarsi quando s’incontrano. Forse da una di loro o dalla combinazione d’esse può venirci qualche lume che ci aiuti a discoprire i più intimi principii e le eterne leggi del sistema universale.

§ II. Su ciò che detto si è sulle idee semplici, e sulle definizioni.

Entra il signor d’Alembert in una dettagliata analisi sull’origine delle idee astratte, ed osserva essere ogni lingua abbondantissima di idee astratte. Osserva che le idee semplici, che definire non si possono, sono quelle che non si possono decomporre in altre, che però possono gene­ralizzarsi. Così idee semplici, attaccate alle parole vedere, intendere, toccare ecc., producono l’idea più generale di sensazione. S’estende egli a lungo sulle definizioni e ne dà de’ precetti molto utili, considerandone sotto un nuovo aspetto la formazione. Con questa occasione egli fa sentire l’imperfezione delle nostre lingue, nelle quali adoperiamo delle espressioni figurate per esprimere e comunicare agli altri le nostre idee. Ma come sbandire dalle lingue una sì fatta maniera di parlare? Egli bisognerebbe rifonderle affatto, bisognerebbe potersi mantenere sempre ad un’uguale distanza dagli oggetti, bisognerebbe trovare in tutti gli uomini un’uguale sensibilità; infine bisognerebbe che gli uomini tutti fossero colle uguali disposizioni, ed affatto simili. Il signor d’Alembert ha per questo ragione di consigliare almeno nelle scienze la più grande attenzione, perché lo stile sia il meno che si può figurato. Ché se questo sia malagevole, s’adoperino prima i termini ricevuti, poi lentamente si prepari e se ne faccia la riforma.

§ III. Su ciò che è stato detto sulle verità chiamate principii.

Forse quelle verità, che noi riguardiamo come basi di altre, non sono esse pure che conseguenze lontanissime d’altri principii più generali, e forse troppo sublimi per esser scorti da’ nostri deboli sguardi. Tutte le proprietà de’ corpi sono ciò che noi scopriamo nella materia. Ma cosa è l’essenza intima della materia? Questo lo ignoriamo. Conosciamo molte cose, nella metafisica, che riguardano la maniera della quale la nostra anima si fa conoscere. Ma ne ignoriamo perfettamente la natura. La stessa oscurità è nella morale. Noi non sappiamo né il perché né il come di niente: pure, fino a qual punto dovrebbero rimontare le nostre cogni­zioni per elevarsi fino a’ veri principii di tutte le verità, o pratiche o speculative? Forse tutto nell’universo ha un vicendevole rapporto ed un solo principio conosciuto; forse tutta ci aprirebbe la scena dell’universo; forse allora la nostra fatica nell’esame della natura si ridurrebbe ad un solo sviluppo, ed in luogo di conoscere qualche isolata verità, come ora facciamo, tutto chiaramente vedremmo. Noi siamo in una profonda ignoranza, e ci lusinghiamo di poterne sortire. Ci rivolgiamo inutil­mente da tutte le parti sulla speranza che qualche passaggera e debole luce ci fa concepire.

§ IV. Su ciò ch’è stato detto su i principii del secondo ordine.

Le verità hanno una vicendevole dipendenza tra loro. La cognizione d’una suppone spesso la precedente cognizione di altre, ed una spesso conduce alla conoscenza di molte. Le verità necessarie alla cognizione d’ogni altra addimandansi verità del primo ordine; quelle che dipendono da altre, ma che ne hanno di quelle che da loro dipendono parimente, sono verità del secondo, terzo ecc., ordine, relativamente alle precedenti con cui si paragonano.

§ V. Vi fa vedere il signor d’Alembert che l’arte del ragionare si riduce al solo paragone delle idee.

Sovvente il grande apparato de’ sillogismi non è che una maniera di coprire la propria debolezza.

§ VI. Schiarimento su ciò ch’è stato detto sull’arte di conghietturare.

Nell’arte di conghietturare se ne possono distinguere tre parti. La prima è l’analisi delle probabilità ne’ giuochi d’azzardo, che è sottoposta alle certe regole del calcolo. La seconda è l’estensione che della analisi detta si fa a diverse questioni relative alla vita comune, come sono quelle delle assicurazioni marittime, della durata della vita d’un uomo, de’ vita­lizi, ecc. La differenza sola che passa tra il primo genere di conghiettura ed il secondo si è che le combinazioni matematiche nel primo bastano, e nel secondo si richiedono le osservazioni e delle lunghe sperienze per conoscere il numero de’ casi, e per conseguenza fissarne la probabilità. In questa seconda maniera di conghietturare è applicabile il calcolo, e solo ne’ fatti che servono di principio può cadere difficoltà. La terza parte dell’arte di conghietturare ha per oggetto le scienze, sulle quali è impos­sibile di giungere alla dimostrazione, e che d’altra parte necessariamente abbisognano dell’arte stessa di conghietturare, quali sono la fisica, l’istoria, la medicina, la giurisprudenza e la scienza del mondo, per la quale il signor d’Alembert intende l’arte di condursi con gli uomini, di modo d’averne nel loro commercio il maggiore avvantaggio possibile senza offendere la morale. Questa terza parte del conghietturare è l’oggetto del presente schiarimento.

«In fisica l’arte di conghietturare può avere per fine o di trovare la cagione de’ fatti che l’esperienze e le osservazioni ci scuoprono, o di condurci alla scoperta di nuovi fatti che aggiungano qualche grado di perfezione alle cognizioni che noi abbiamo su’ fenomeni della natura». Di questa seconda maniera si adopera più utilmente, e se fortunatamente qualche nuova analogia fra i fenomeni si scorga, grandissimo avvantaggio se ne ha per avvanzare nelle cognizioni.

Ma perché mai sono così lenti i progressi nella fisica, dove pare che l’arte di congetturare debba condurre a de’ rapidi progressi’ Questa è una fatalità attaccata quasi a tutte le cose umane, che o le scoperte utili o le verità o i piaceri sono tra di loro separati e divisi, e de’ secoli vi sono di mezzo tra le cose che sembrano avere la più stretta analogia.

La maniera di profittare il più che è possibile delle cognizioni che abbiamo per acquistarne delle nuove si è di paragonare il maggior numero di fatti che si può, esaminarne i rapporti, e da essa, secondo le cognizioni chiare che precedentemente si hanno, partire per ispiegare degli altri fatti, e per scoprirne de’ nuovi, ciò che si chiama ragionare per analogia. Questa maniera è utilissima, ciò non pertanto di difficile applicazione, giacché di leggieri su delle apparenze o delle superficiali differenze è facile il concludere e l’ingannarsi: per esempio, l’esser opachi i pianeti ed analoghi alla terra ci fa credere che siano abitati. Sarà ella legittima questa conseguenza fondata sulla sola opacità? Si disputa ancora se la luna, tanto a noi vicina, abbia atmosfera, se l’abbia simile alla nostra. Questo sol punto di diversità farebbe mancare tutte le conseguenze, che su una supposta universale analogia sono fondate. Se si suppongano i pianeti abitati, perché non saranno abitate le comete? Ma come concepire che la cometa del 1680, per non parlare delle altre, possa esser abitata? Se questa cometa dunque non è abitata, perché lo saranno le altre? E se le comete non sono abitate, perché lo saranno i pianeti? Ma se i pianeti e le comete non sono abitati, perché sono elleno corpi opachi, e non astri luminosi da se stessi? Non cerchiamo dunque d’indovinare ciò che succede negli immensi globi che tanto sono distanti dalla nostra immensa terra. Contentiamoci dunque d’ignorare quasi interamente ciò che succede attorno a noi nel nostro piccolo globo, e proporzioniamo i nostri studi e la nostra applicazione a’ bisogni nostri.

La circospezione nell’usare della fisica per ispiegare de’ fatti e fenomeni conosciuti deve essere ancora più grande. Allora gli argomenti d’analogia sono più pericolosi, perché meno cautamente s’avvanza su delle sup­posizioni troppo spesso arbitrarie e su d’una apparente analogia di fenomeni. Eccone degli esempi. Allorché deve piovere, l’aria è più caricata di vapori: per conseguenza deve far alzare il barometro. L’inverno è la stagione nella quale deve cadere gragnuola in maggior quantità. Spiegazione. Latmosfera in inverno: egli è evidente che in questa stagione devono indurarsi di più le gocciole d’acqua attraversandola, e per conseguenza deve essere maggior gragnuola. Queste spiegazioni sono per disgrazia smentite dal fatto, e sono un avviso a’ fisici di quella moderazione che tanto dovrebbe essere necessaria anche nelle scienze e nel desiderio d’avvanzare.

Sono infiniti gli esempi che potrebbero addursi, e molti di fatto ne adduce il signor d’Alembert di questo genere; ma credo che possano gli ora citati bastare a convincere i filosofi ed i fisici ragionatori ch’è importante l’essere sempre attento e l’usare d’una certa modesta diffidenza su’ fatti che credono di spiegare, poiché sovente in luogo d’una dimostrazione si può dare una teoria assurda, come s’è veduto.

Quegli errori che non si fermano nelle sole speculazioni sono di molta maggiore conseguenza, come per esempio nella medicina. È la medicina sistematica un vero flagello del genere umano. Dovrebbe la medicina solo consistere in fatti bene avverati ed in osservazioni ben dettagliate. La medicina, ossia l’arte di guarire gli uomini dalle loro malattie, è molto difficile ed assai limitata. Forse s’ostina la natura a nasconderci i suoi secreti, forse non sappiamo abbastanza interrogarla. L’arte di conghietturare, in medicina tanto necessaria e tanto pericolosa, non deve certamente consistere in una serie di raziocini fondati su d’un vano sistema. È l’arte di paragonare una malattia che si vuol guarire con altre già conosciute. È l’arte di conoscerne i rapporti e le differenze, o vere od apparenti. Più s’avranno de’ fatti, più sicure e felici ne saranno le conghietture. Non è dunque migliore quel medico che ciecamente accumula una grande pratica, ma quello che bene ed attentamente osser­va, e che alle proprie osservazioni unisce quelle fatte in tutt’i secoli da uomini animati dallo stesso spirito, ch’esso lo è. Queste osservazioni sono la vera sperienza del medico; esse gli offrono mille volte fatti di più di quello che la propria pratica possa somministrargli, e per conseguenza esigono da lui, per essere studiate, un tempo che la propria pratica non deve interamente as­sorbire. Egli è bensì vero che alla pratica altrui deve essere unita anche la propria. Ma in ogni caso un medico che non abbia mai praticato, e che abbia impiegato il suo tempo a studiare ed a rendersi proprie le osserva­zioni de’ suoi predecessori, è preferibile ad uno che non abbia che la sua pratica o poco più. L’esempio di Lucullo, che colla sua lettura e medita­zione sulle opere altrui divenne nel tempo del viaggio un gran generale e sconfisse il tanto formidabile Mitridate, ne è una prova. De’ grandi medici sono essi pure di questo parere. Io preferirei, diceva Rhases, un medico dotto che non avesse mai veduti de’ malati a un pratico che ignorasse ciò che gli altri prima di lui insegnarono. Il primo avrebbe senza dubbio più materiali che il secondo per conghietturare felicemente, giacché la disgrazia del genere umano vuole che un medico non possa che conghietturare.

Se l’arte di conghietturare è quasi l’unica risorsa della medicina, è essa anche nella giurisprudenza sovente necessaria, per determinare se un tale caso cada sotto la legge. Il giudice può rincontrare due sorti di difficoltà in questo: 1°, l’insufficienza delle prove; 2°, la differenza, o reale o apparente, del caso proposto da quello espresso dalla legge. Alle volte queste due difficoltà si riuniscono e rendono più difficile ed imbar­razzata la decisione. Quando dunque il giudice è obbligato a ricorrere alle conghietture, ciò che spesso pur troppo accade, deve essere cauto e riservato, e deve tanto più esserlo quanto più le materie sono gravi ed importanti, e sopra tutto quando si tratta dell’onore e della vita degli uomini. Una cosa che fa ribrezzo si è che, per infliggere la pena di morte, la pluralità d’una o di due voci sia bastante. Una pluralità sì poco con­siderabile non è ella una prova che il delitto non è avverato? E potrà privarsi di vita un uomo, quando il suo delitto non è chiarissimo? Dovrebbero ricordarsi, quelli che sono alla testa delle nazioni, essere meno funesto il perdonare ad un colpevole che punire un inno­cente.

Passiamo all’arte di conghietturare nella storia. Quest’arte ha per base la soluzione d’una questione, di cui l’uso s’estende al di là della storia stessa; soluzione che può essere sottoposta a delle regole, delicate però nella applicazione: intendo della probabilità de’ testimoni e del grado di fede, più o meno grande, ch’essi meritano.

È regola generale che, quando la probabilità d’un fatto è appoggiata sul semplice testimonio verbale, di generazione a generazione essa di­minuisce, a misura che si allontana il tempo nel quale il fatto è accaduto. Ma quando un fatto è trasmesso per iscritto tutto si riduce a sapere se l’opera che lo trasmette non è né apocrifa interamente né alterata, perché allora tale opera deve avere quella stessa fede che meriterebbe l’autore, se egli stesso raccontasse il fatto. Supponendo dunque che l’opera non sia né apocrifa né alterata, tutto si riduce a veder quale stima e qual grado di fede meriti l’autore stesso. Deve però in questo osservarsi che, più un fatto è difficile a credere, maggiore esame v’abbisognerà per accertare che il libro sia stato scritto nel tempo in cui ciò si suppone: ciò che è molto più necessario se lo scopo dello scrittore si scorga essere nel raccontare prodigi, ed i di lui sforzi di cambiare la maniera di pensare degli uomini su’ punti importanti. Affine di prestare fede ad un’opera scritta in tempi passati è indispensabile che una serie di testimoni non interrotta ne attesti la realtà. Poiché se tra l’opera ed il primo testimonio scritto vi sia una lacuna formata da semplice tradizione orale, allora la realtà dell’opera diverrebbe più dubbia, in ragione della durata di tale lacuna. In fine, più i testimoni in iscritto s’allontanano dal nostro secolo, ascendendo, più la realtà di tali testimoni è difficile a provare. Queste regole sono alla verità assai severe, ma sono indispensabili per non ingannarsi. La circospezione è mai bastante a garantire dalla seduzione e dagli inganni sulle cose passate.

L’arte di conghietturare nella condotta della vita, in mezzo a regole incertissime, ne ha una sicura. Si è l’amor proprio, l’interesse ed il desi­derio del nostro ben essere a preferenza di quello degli altri. È questo il grande mobile di tutto il genere umano. Il saper avere de’ riguardi per l’amor proprio altrui, l’urtargli il meno che è possibile, il risparmiare le loro passioni favorite, il non incrocicchiargli ne’ loro disegni od inte­ressi, il fare tutto ciò di modo che o non s’avvedano o se ne avvedano il meno che si può, si è lo scopo dell’uomo che sa vivere, ed il fine di tutte le conghietture.

Nella politica è molto più difficile l’uso dell’arte di conghietturare. Come stimare tutti gl’interessi, tutte le passioni, tutt’i desideri d’una so­cietà? Come mai appigliarsi ad una determinazione che unisca il massimo interesse del maggiore numero? Nell’arte della guerra, come nella poli­tica e nella medicina, è difficile il cogliere giusto. La complicazione de’ principii nasconde spesso la verità.

§ VII. Schiarimento su ciò ch’è stato detto sull’analisi de’ nostri sensi e di ciò che ciascuno d’essi può farci conoscere.

È da lungo tempo dibattuta questione se il solo senso della vista possa farci conoscere, indipendentemente dal tatto, l’esistenza degli oggetti da noi differenti. Il signor d’Alembert ne è persuaso. Egli è certo, secondo esso, che la vista ci dà una chiara idea della estensione, e molto più prontamente del tatto, poiché la diversità della riflessione de’ raggi più prontamente e più perfettamente del tatto ci fa conoscere la contiguità e nello stesso tempo la distinzione delle parti nelle quali consiste pro­priamente l’estensione. La diversità d’impressione degli oggetti diversi dal nostro corpo, e del nostro corpo stesso su di noi, sono pel signor d’Alembert un principio per provare largamente il di lui assunto. Entra con questa occasione in dettaglio sul numero de’ sensi e sulla estensione loro. Parla del senso da esso chiamato interno, e sembra fissare la sede del sentimento alla regione dello stomaco, forse al diaframma, dove la fissa il signor Buffon, ed il cervello stabilisce essere la sede de’ pensieri.

§ VIII. Schiarimento su ciò ch’è stato detto della distinzione dell’anima dal corpo.

La questione della distinzione dell’anima dal corpo è difficile e d’oscurissima indagine. Tra un pezzo di marmo e ciò che compone il corpo umano appena si scorgono delle differenze fisiche di fluidità, durezza ecc.: differenze che sempre divengono minori, se una ben intesa macchina si paragoni col corpo umano. Ciò non ostante è certa cosa esservi un essere distinto dalla materia, che costituisce il principio pensante in essa. Niente v’è, tra tale principio pensante e la materia, di comune. Le difficoltà che contro alla distinzione ora fissata si fanno sono puramente speciose.

La insussistenza di que’ raziocini è tanto chiara, che noi ci dispensiamo col signor d’Alembert dal rispondere ad essi. Quand’anche la Scrittura in nissun luogo chiaramente enunziasse la spiritualità dell’anima, sarebbe tuttavia dimostrata perché la dichiara tale la Chiesa, che supplisce alla Scrittura quando o non si spiega punto o non si spiega abbastanza. Quante verità vi sono, sulle quali noi non potremmo mai sicuramente parlare, senza un tale infallibile oracolo!

Altre difficoltà d’una soluzione difficile, e che dipendono dalla di­stinzione dell’anima dal corpo, sono nello spiegare l’ineguaglianza degli spiriti, la sede ed ubicazione dell’anima stessa, il di lei modo d’agire. Tali questioni, che non sono d’alcuna utilità pratica e che perciò non dovreb­bero occupare gli uomini, non ammettono che una risposta: Dio sa cosa ha fatto e cosa ha voluto, la quale, quantunque non dia de’ maggiori lumi, è però la sola che può darsi.

§ IX e X.

I diversi sensi de’ quali una parola è suscettibile, l’inversione e l’indole diversa delle lingue, sono le materie sulle quali s’aggirano questi due paragrafi. La grammatica meritava certamente d’occupare, come da lungo tempo lo fa, i più grandi uomini. Le etimologie, le origini, i rapporti delle diverse parole tengono strettamente alle origini delle idee ed allo sviluppo delle facoltà. Una lingua bene conosciuta serve infinita­mente ad indagare la marcia dello spirito umano nelle cognizioni, ed a determinare il grado di fervore e d’immaginazione che si ha in un paese. D’altra parte, una lingua bene analizzata giova a schivare infiniti errori che o l’incostanza delle idee attaccate a tali parole o la poca loro preci­sione fa nascere. Noi non seguiremo il signor d’Alembert ne’ dettagli ne’ quali entra; ci basta solo d’avvertire ch’è molto interessante la di­gressione ch’esso fa sul rapporto tra la musica e le lingue, del quale ei parla nel § 9.

§ XI, XII, XIII. Sugli elementi d’algebra e di geometria e sulla applicazione dell’algebra alla geometria.

Gli elementi delle scienze sono i libri i più importanti e, per mala sorte, i più negligentati. Nella geometria stessa, in mezzo alla sterile abbondanza d’opere di tal sorta, si manca d’un libro d’elementi bene eseguito. Il principale difetto di tal genere d’opere, dal quale tutti gli altri ne derivano, si è che le idee vi sono poste fuor di luogo e fuori dell’ordine loro più conveniente. Quindi sovente bisogna supporre per vero ciò che di fatti abbisogna di dimostrazione, e per lo più si fanno delle dimostrazioni poco rigorose, laboriose e complicate di ciò che con grande semplicità potrebbe dimostrarsi. Il signor d’Alembert entra a questo proposito in un esame sulle definizioni delle parallele, della linea retta, dell’angolo, della maniera d’esprimersi nella misura e risoluzione d’un rettangolo, della enunciazione del rapporto tra il quadrato d’un lato del triangolo rettangolo equicrure e la diagonale. Egli fa vedere e l’insufficienza delle definizioni date fin qui e la poca esattezza delle espressioni che s’adoperano, la quale spesso è cagione d’errori.

Non sono diverse le cagioni che fanno desiderare de’ migliori elementi d’algebra. Il signor d’Alembert si stende a lungo nel provare l’avvantaggio della maniera d’esprimere i rapporti delle quantità con i caratteri algebrici, ciò che principalmente ha un comodo nelle quantità sorde, nell’esprimere più chiaramente il risultato delle operazioni analitiche e nel maneggiare le quantità negative, le quali, colla quantità delle soluzioni che somministrano ne’ diversi problemi, sono una prova della ricchezza, della fecondità e della preferenza che merita l’algebra.

L’applicazione di questa alla geometria è una di quelle felici ed utili scoperte che hanno aperto un campo immenso a ritrovare nuove verità. Ne dà anche di questa un saggio il signor d’Alembert nel § XIII, a fine di non lasciar niente senza averne date delle idee chiare e precise.

§ XIV. Schiarimento su i principii del calcolo infinitesimale.

Per avere una giusta idea di ciò che i geometri chiamano calcolo infinitesimale, egli conviene definir bene prima d’ogni altra cosa la parola infinito. Questa non esprime altro che la nozione d’indefinito, o sia d’una quantità di cui non si considerano i limiti, facendone anzi astrazione da essi. «Questa nozione fa abbastanza conoscere che l’infinito, quale l’analisi lo considera, è, a parlare propriamente, il limite del finito, cioè il termine al quale il finito tende sempre senza mai arrivarvi, ma al quale si può supporre che sempre s’accosti, quantunque mai vi giunga. Ora, è sotto questo punto di vista che la geometria e l’analisi bene intese con­siderano l’infinito: ciò che un esempio farà vedere agevolmente. Suppongasi la seguente serie di frazioni all’infinito: 1/2 1/4 1/8 1/16 ecc., e così di seguito, sempre scemantesi della metà. È provato da’ matematici che la somma di questa serie di numeri, se suppongasi portata all’infinito, è uguale all’unità». Ciò che vuol dire che il numero 1 è il limite della som­ma di questa serie di numeri. Se una serie crescente dall’unità si sup­ponga come 1, 2, 4, 8, 16 ecc. fino all’infinito, con questa espressione s’intende che più termini saranno presi in questa serie più la somma ne sarà grande, e ch’essa può essere uguale ad un numero qualunque, per grande ch’esso sia.

Con tali nozioni bene determinate fanno schifare infiniti errori, e facilmente si formano tutte le idee tanto combattute nel principio del presente secolo su i diversi ordini degli infiniti e sulla realtà e verità de’ calcoli differenziale ed integrale. Il signor d’Alembert fa su questi oggetti diverse riflessioni che i confini di questo estratto non permettono di qui analizzare, ma che non lasciano d’essere interessanti.

§ XV. Sull’uso ed abuso della metafisica nella geometria ed in generale nelle scienze matematiche.

«La metafisica, secondo i diversi punti di vista sotto i quali può riguardarsi, è la più futile o quella che più soddisfa delle umane cogni­zioni. Quella che più soddisfa, quando essa non considera che oggetti i quali sono alla di lei portata; quando essa gli analizza con nettezza e precisione, e ch’essa non s’eleva in tale analisi al dissopra di ciò ch’ella conosce chiaramente di questi stessi oggetti. La più futile, quando orgo­gliosa ed oscura s’immerge in considerazioni superiori alli di lei sguardi, quando ella disserta sugli attributi di Dio, sulla natura dell’anima, sulla libertà e su altri oggetti di questa sorta». Lasciate dunque per sempre da banda per la metafisica queste ultime considerazioni, facciamone col signor d’Alembert l’applicazione della metafisica alla geometria. Per questo bisogna innanzi tutto farsi delle esatte nozioni dell’estensione, della linea, d’un solido, d’una superficie, del punto, della linea retta ecc. Forse questa precisione sola servirebbe a togliere di mezzo le que­stioni geometriche che hanno divisi i giudizi de’ matematici, come lo è quella dell’angolo del contatto, ed altre, le quali con tanto scandalo si sono elevate in una scienza dove si pretende che la sola evidenza abbia luogo.

L’uso della metafisica può parimente impedire, nella soluzione de’ problemi, diversi degli errori che sovente hanno ingannati e tuttora in­gannano molti: tale è la soluzione del problema sulla linea della più breve discesa, che a prima vista pare una retta ma che poi, ben pensate tutte le cose, si trova essere una curva, la cicloide.

La metafisica può giovare ancora a rendere facile la soluzione di problemi difficili, col ridurne la questione agli ultimi termini e con la separazione di quelle condizioni che inutili sono e superflue. Ma è principalmente nel calcolo infinitesimale che l’uso e l’abuso della meta­fisica si fa sentire. Non v’è opera nella quale si veda un abuso maggiore della metafisica più che negli Elementi della geometria degli infiniti del signor di Fontenelle, opera tanto più pericolosa nella lettura a’ giovani geometri, quanto che i sofismi vi sono presentati colla maggiore eleganza e semplicità. La grande sorgente degli errori del signor Fontenelle è d’aver voluto realizzare l’infinito, e d’averne così fatta la base de’ suoi calcoli, in luogo di riguardarlo come il limite al quale il finito non giunge giammai.

§ XVI. Schiarimento di ciò che s’è detto negli Elementi di filosofia sullo spazio e sul tempo.

«I filosofi addimandano se lo spazio ha una esistenza indipendente dalla materia, e se il tempo ha una esistenza indipendente dagli esseri esistenti. Vi sarebbe egli spazio, se non vi fossero i corpi? Vi sarebbe una durata, se niente esistesse? Queste questioni vengono fatte perché si suppone allo spazio ed al tempo una realtà ch’essi non hanno».

Se si considerano tre corpi vicini, de’ quali successivamente uno si tolga e si rimetta dal luogo dov’esso era, nascerà ora uno spazio pene­trabile, ora impenetrabile. Questa successione di creazioni, distruzioni di spazio ora penetrabile ora impenetrabile, sono un assurdo, supponendo lo spazio reale; dunque lo spazio non è che una semplice capacità. In questo raziocinio del signor d’Alembert v’è una supposizione: che la natura dello spazio sia identica a quella de’ corpi, e che ad uno spazio sia impossibile l’essere compenetrato colla estensione d’un corpo e d’esserne successivamente separato. Chi sostiene la esistenza dello spazio assoluto, sostiene che la natura dello spazio è diversa da quella comune maniera di esistere che vediamo nella materia. Forse il principio dal quale parte il signor d’Alembert per sostenere il suo assunto non ha tutta la precisione. Il tempo non è che la misura della successione delle nostre idee, dice il signor d’Alembert: dunque se non esisteranno idee, corpi e moto, de’ quali esso pure misura l’esistenza, non vi sarà tempo. In questo raziocinio si vede parimente la stessa mancanza di precisione che su quello che riguarda la natura dello spazio.

In tutti questi schiarimenti vi sono delle eccellenti cose, e degne del celebre autore. Segue ad essi una memoria che ha per titolo Questioni e dubbi sul calcolo delle probabilità. Ne daremo un’idea. I più grandi geo­metri si sono applicati a’ calcoli di probabilità. Sono in questa parte assai conosciute le fatiche di Moivre, Montmort e de’ Bernoulli. Il signor d’Alembert ha dubitato della verità de’ principii che servono in questa materia di base al calcolo, ed ha comunicati al pubblico i suoi dubbi nel tomo secondo de’ suoi opuscoli matematici. Tali dubbi non sono stati ricevuti favorevolmente da alcuni geometri. Per questo il signor d’Alem­bert ha travagliata la presente memoria, a fine di mettere alla portata comune una sì difficile materia ed interessare il pubblico a giudicare della verità de’ dubbi da esso proposti.

Il calcolo delle probabilità è fondato su questa supposizione: che tutte le differenti combinazioni d’uno stesso effetto sono ugualmente possibili. Per esempio, se si getta una moneta in aria si suppone ugualmente possibile che cento volte venga croce di seguito, o che croce e lettera s’abbiano alternativamente, o secondo qualunque successione arbitraria. Questi due casi sono ugualmente possibili, parlando mate­maticamente; ma la difficoltà non consiste in questo. Si tratta di sapere se questi due casi possibili matematicamente lo siano ancora fisicamente e, nell’ordine delle cose, si tratta di sapere se sia del pari fisicamente possi­bile che lo stesso effetto s’abbia cento volte di seguito, che questo stesso effetto sia mischiato con altri, secondo quelle combinazioni che si vorranno.

Pietro giuoca con Paolo a croce o lettera, con questa condizione, che se Paolo farà croce al primo colpo, darà uno scudo a Pietro; s’egli farà croce al solo secondo colpo, gliene darà due scudi; se non farà croce che al terzo colpo gliene darà quattro; se al solo quarto gliene darà otto, e così di seguito, finché venga croce. Si domanda: la speranza di Paolo, o, ciò ch’è la stessa cosa, cosa deve dare a Pietro, avanti che il giuoco cominci, per giuocare con esso a giuoco eguale? Le formole conosciute del calcolo delle probabilità fanno vedere che, se Pietro e Paolo non giuocano che in un colpo, Paolo deve dare a Pietro un mezzo scudo; se in due colpi, Paolo deve dare a Pietro due mezzi scudi; se in tre colpi, tre mezzi scudi; se in quattro colpi, quattro mezzi scudi ecc. Egli è chiaro che secondo questa legge, in un numero di colpi indefinito, o sia se il giuoco non deve cessare se non venendo croce, come si suppone – ciò che può, parlando matematicamente, non succedere mai, – Paolo deve dare a Pietro una somma infinita. Nissun matematico mette in dubbio questa conseguenza; ma nissuno v’è che non ne senta il risultato assurdo, e nissun giuocatore certamente farebbe questo giuoco per 50 colpi.

Molti grandi matematici si sono sforzati di risolvere questo caso singolare; ma le loro soluzioni, che non sono uniformi, provano quanto questa questione sia imbarazzata. Basta questo saggio per far vedere la difficoltà del calcolo delle probabilità. Non possiamo seguitare il signor d’Alembert in tutta la estensione di quanto egli dice: contentia­moci d’avere indicata una delle principali difficoltà di fatto contro i principii ricevuti. L’uso della geometria ha giovato all’ingegno umano nella scoperta di molte verità; ma l’abuso d’essa e del calcolo non hanno fatto che produrre errori più difficili a riconoscere, per l’asprezza de’ calcoli stessi poco accessibili alla più parte de’ pensatori stessi.

Viene in seguito una memoria che ha per titolo Riflessioni sulla ino­culazione. Essa è la stessa che l’autore ha pubblicata negli opuscoli ma­tematici, accresciuta però del doppio per le aggiunte che vi ha fatto. Esamina egli i principii de’ calcoli su i quali il signor Daniele Bernoulli ha trattata questa materia, e gli confuta. Sono due grandi avversari, ed in verità, malgrado la di lui eloquenza, il signor d’Alembert non pare che si svolga in questa parte del tutto dalle opposizioni che i principii del signor Bernoulli gli formano. Il rimanente di questa memoria tratta sotto tutti gli aspetti l’inoculazione, ed è in tutte le parti degna del di lei autore. Noi ci dispensiamo dall’entrare in dettagli di sorta veruna, perché ne’ nostri estratti abbiamo già tante volte parlato dell’ino­culazione, e si hanno dette tante cose, che poco di nuovo vi sarebbe in questa memoria per i lettori, eccettuatane la parte che risguarda il calcolo, di cui non è possibile di bene e con brevità darne un estratto.

Riflessioni sulla poesia.

Perché mai nella sola gioventù si gustano generalmente le dolcezze della poesia? Dipende ciò dalla età ovvero è un difetto della poesia? È ella questa una prova che colla età si diviene più ragionevole, ovvero che si diviene insensibile? Non si può dire che questo venga dall’incalli­mento degli organi dell’udito, giacché questa insensibilità che s’ha col tempo per la poesia non s’ha ugualmente per la musica, la quale unica­mente dipende dalla organizzazione dell’orecchio. Tale discredito però della poesia non ricade che in piccola parte su i grandi uomini che l’hanno illustrata. Il genio, l’estensione delle idee, la grandezza e la sublimità delle cose sono i soli caratteri della poesia che può aspirare a non perdere di pregio col tempo o ad essere dimenticata. La filosofia, tanto coltivata nel presente secolo, si sforza d’inspirare il gusto delle letture utili e di riunire col vantaggio la grazia, per rendere di questo modo i piaceri più reali e più durevoli. Da questi principii il filosofo parte per giudicare delle opere di poesia. Per esso il primo merito d’ogni scrittore è quello de’ pensieri. La poesia aggiunge a questo merito quello della difficoltà vinta nella espressione. Ma questo merito secondario, quantunque molto pregievole quando s’unisse al primo, non è che uno sforzo puerile quando questo versa su degli oggetti futili.

La vera poesia, quella che sola merita questo nome, sdegna non solamente le idee popolari e basse, ma ancora le idee ridenti e graziose, se esse sono triviali e ribattute. Niente v’è di più fino e pieno di verità che le finzioni della vecchia poesia: ma niente v’è oggi di più comune e volgare. Quello che il primo ha dipinto l’amore sotto la figura di fanciullo colle ali e cogli occhi bendati ha mostrato molto spirito; ma non ve ne ha punto a ripetere lo stesso. A ragione Anacreonte ci piace, perché è stato o si crede il creatore di quel genere di poesia che è suo particolare: ma in un genere così semplice, dove quello che inventa l’esaurisce, l’originale è qualche cosa, e le copie non sono niente.

Poiché la poesia è un’arte d’immaginazione, non v’è più poesia quando non si fa che ripetere ciò che gli altri hanno detto. Ella è cosa conosciuta che le frasi poetiche sono insopportabili e noiose nella prosa. Questo è perché la ripetizione di frasi d’un linguaggio inventato da 3000 anni in qua non può non essere noiosa. Nella poesia stessa gli autori che hanno genio non ne fanno più uso.

Questo è parimente vero di molte particolari sorti di poesia. Nel genere pastorale, dopo quello che hanno scritto Teocrito, Virgilio e Fontenelle, appena si può leggere qualche cosa senza noiarsi. Anzi, le egloghe e gli idili, dove puramente si trovano le fredde e tanto conosciute descrizioni campestri, poco v’è che aguzzi il piacere. La più interessante delle egloghe di Virgilio è quella di Corydone ed Alessi. Ciò non pertanto quello sicuramente non è un genere pastorale.

Perché però l’indifferente del secolo sull’egloga è ella comune anche alla poesia lirica, all’ode? Il carattere della poesia lirica è la grandezza e l’elevazione delle idee. Ogni ode che soddisfaccia a queste condizioni è sicura de’ suffragi favorevoli. Ma i pensieri sublimi sono rari, né possono essere suppliti colla magnificenza delle parole, troppo sterili quando le cose non vi corrispondono, né con quel bello disordine che finora non s’è definito bene, con delle triviali invocazioni che non sono esaudite, né con un comandato entusiasmo, che sembra annunciare una folla d’idee e che non ne produce alcuna.

In una parola, il carattere unico, la legge imposta alla poesia nel presente secolo, si è che i versi non si vogliono riconoscere per buoni se non quando reggono anche essendo tradotti in prosa, e si trovano eccellenti. Non dico per questo che de’ versi prosaici, quantunque felice ne fosse il pensiere, possano essere apprezzati. L’uomo di gusto esige nel verso una espressione nobile e scelta, senza essere troppo ricercata, ed un’armonia dolce, dove non si conosca la difficoltà e lo studio per riuscirne.

Il raffreddamento dunque sulla poesia quando l’età cresce non è una conseguenza del disprezzo ch’ella meriti, ma, al contrario, è una conse­guenza di quella idea di perfezione che vi si attacca. È perché colla sperienza e colle riflessioni s’è conosciuta la distanza enorme del mediocre dall’eccellente, che è insoffribile ciò che solo è mediocre. Questo raffred­damento è a solo danno della poesia fredda e senza genio, ciò che non è una grande disgrazia.

Riflessioni sulla storia.

Molti uomini leggono la storia per pura occupazione. Hanno bisogno di non sentire il peso dell’esistenza, di passare il tempo senza avvedersene, e per questo non sono molto difficili ad accontentare, tanto sullo stile quanto sul fondo stesso della storia. Si pascono essi di ciò che prima di loro è accaduto, come il popolo s’accusa del presente… La storia, o vera o falsa, bene o male scritta, è dunque l’alimento naturale della moltitudine incapace di meditare e troppo vana per ridursi a vegetare, ma che per buona sorte non è nemica della lettura. I leggitori che pensano non sono né così avidi né così indulgenti. Alcuni d’essi sdegnano tal sorte di cognizioni come se fossero troppo sterili ed una pura perdita di tempo, o carico alla memoria. Così pensava il padre Malebranche, il quale, sul dubbio d’essere dalla storia distratto dal meditare, non se ne occupava punto.

Perché mai, diceva alcuno di questi rigidi censori, perché mai imbarazzarsi degli errori detti e fatti prima di noi? Quelli che succedono a’ nostri tempi sono più che bastanti per instruirci e per annoiare… Se l’istoria serve alla cognizione della natura umana, poche conversazioni con chi se n’è occupato servono maggiormente e più presto istruiscono. Tali cognizioni acquistate, poco invitano a stenderle colla lettura. Tengo gli uomini di questo secolo per deboli, furbi e cattivi; né ho bisogno di libri per avvedermene. L’esperienza m’ha convinto che questo mondo è una specie di bosco infestato da’ malviventi. La storia m’assicura di più ch’egli lo è sempre stato. Questa è una verità poco instruttiva e sconsolante. D’altra parte, qual fede può egli darsi a tali racconti? L’ignoranza, la stupidità, le passioni, la superstizione, l’adulazione, l’odio sono altrettanti vetri affumicati, attraverso a’ quali gli uomini tutti vedono nella maniera loro particolare ciò che raccontano.

Queste ed altre riflessioni di questo gusto che rapporta il signor d’Alembert sono in verità interessanti. Egli passa a farne sentire la fallacia e la troppa estensione loro data da chi tanto vuol togliere alla storia. Il saggio legge nella storia i delitti degli uomini, e vi scopre la loro malignità; da questo egli apprende a perdonare a’ contemporanei molti difetti che vede radicalmente fondati sulla natura umana, e che sono una necessaria conseguenza delle situazioni nelle quali si trovano gli uomini.

Dalla storia egli trova di che consolarsi delle disgrazie alle quali si vede sottoposto, collo spettacolo di tanti illustri e rispettabili infelici che l’hanno preceduto. Esso trova negli annali del mondo delle tracce preziose, quantunque deboli, degli sforzi dello spirito umano, e delle tracce ben più chiare della premura messa in ogni tempo per spegnerlo. Egli travvede senza esserne commosso, nella sorte di chi l’ha preceduto, quella che lo aspetta esso pure. Di questo modo egli si consola, si istruisce e prende coraggio, perdonando alla storia d’essere incerta in ciò che gli apprende, perché tale è il carattere di tutte le umane cognizioni, e perché dalla oscurità ch’egli conosce nell’universo fisico sa tollerare di non veder chiaro nel mondo morale. Se egli vi trova cose di più di quelle che vorrebbe non se ne inquieta, giacché non è difficile il dimen­ticarle. V’è però una sorta di persone alle quali la storia è più utile ancora. È la rispettabile e sfortunata classe de’ principi. Io oso impiegare questa espressione senza timore d’offendergli, perché essa è dettata dall’interesse che deve inspirare ad ogni cittadino la disgrazia inevitabile, alla quale soggetti sono, di non vedere gli uomini che mascherati: uomini, per altro, che tanto necessariamente dovrebbono conoscere! La storia almeno gli mostra loro in quadro e sotto la figura umana, ed il ritratto di que’ che furono loro grida di diffidarsi de’ figli. È dunque essere il benefattore de’ principi, e per conseguenza del genere umano ch’essi governano, il non perdere di vista, scrivendo la storia, il rispetto superstizioso che si deve alla verità.

E però difficile ad uno storico il non urtare da qualche bando, o mascherando la verità o alterandola. Per questo la migliore cautela ed il migliore carattere di verità sarebbe che nissuno scrivesse la storia del suo tempo, od almeno non la pubblicasse. Quanti riguardi si devono mai a chi comanda! Quante avvertenze da fare, quanti protettori, quanti compendi da risparmiare!

Passiamo, dopo queste riflessioni generali, a quelle che il signor d’Alembert fa sulle maniere diverse di scriverla. La più semplice, e la più sicura per dire la verità, si è di scrivere de’ compendi cronologici. Vi si riduce la storia a ciò ch’ella contiene d’incontestabile, ai risultati generali dei fatti, e si sopprimono i dettagli, sempre alterati dagli errori o dalle passioni degli uomini. Tali compendi possono essere sparsi di riflessioni fine e giudiziose, essere fatti con un giudizioso criterio e con delle viste profonde, possono in somma essere eccellenti ed instruttivi. Quanto questo genere di scritti merita lode, altrettanto biasimo meritano quelli che più s’abbandonano alla loro immaginazione che alla verità delle cose, e quelli che si perdono in ricerche inutili e che disaminano de’ punti di storia che sono di pura e sterile curiosità, e ne’ quali è impossibile rinvenire quella verità che scoperta è senza conseguenze.

Lo stile della storia non deve essere troppo oratorio, ma deve essere semplice. Bisogna guardarsi dallo scrivere la storia come la più parte degli uomini la leggono, cioè di non pensare e di non riflettere.

Un altro genere di scrivere la storia più libero de’ compendi crono­logici si è quello della storia universale compendiata, nella quale l’autore può, senza entrare ne’ dettagli de’ fatti, esporne i risultati e compendiargli collo unirvi delle riflessioni. È questo genere di scrivere una specie di quadro riunito e colorato, pieno di figure dipinte in ristretto ma animate. Felice lo storico se in questo genere di scrivere, seducente ma pericoloso, intanto che l’eloquenza anima la di lui piuma, la filosofia la conduce, se i fatti non ricevono il loro colorito dalla maniera particolare di pensare dello scrittore, se questo colorito non gli rende mentitori e falsamente brillanti, se non rende il suo quadro infedele volendo renderlo brillante, confuso volendo renderlo ricco, che stanca volendolo rendere rapido. Di questa maniera di scrivere non ne abbiamo alcun modello nella antichità.

Un’altra sorte di scrivere la storia che gli antichi non sembrano avere conosciuta si è la storia ragionata, che ha per scopo di sviluppare da’ loro principii le cagioni della grandezza e del decadimento degli imperi… Bisogna però confessare che in queste oscure materie, dove le cagioni e gli effetti sono veduti da tanto in lontananza, l’uso dello spirito filosofico è sempre a canto dell’abuso.

Di tutte le maniere di scrivere la storia, però, quella che merita forse più di fede, per la semplicità che ne è l’anima, sono le memorie particolari e le lettere. Negligenza di stile, disordine, longhezze, piccoli dettagli, tutto vi si perdona, purché l’aria di verità vi si trovi, e quest’aria di verità non vi manca mai se l’autore delle memorie è stato o attore o testimonio, e se non le ha scritte per essere pubblicate durante la sua vita, e sopratutto se le lettere non sono state fatte per essere stampate.

Apologia dello studio.

Se si interroghino que’ che si sono dati allo studio per scelta, per necessità di stato o per desiderio di considerazione e stima, quale frutto abbiano avuto dalle loro veglie, la poco consolante risposta che se ne avrà farà conoscere facilmente gli inconvenienti secreti di questa pro­fessione. Per conoscere a fondo tal verità bisogna interrogare non que’ che s’applicano per passatempo alle lettere, ma que’ che le professano. È d’una conosciuta sperienza che gli uomini si trovano felici nelle situazioni degli altri, giammai nella propria. Non bisogna però esagerare i propri mali, come se fosse incompatibile la felicità colla cultura delle lettere. In questo stato come in alcuni altri v’hanno de’ predestinati che sono esenti dalla comune fatal legge, e ciascuno si lusinga d’essere predestinato: senza questo bisognerebbe essere un imbecille, non abbrucciando i libri propri e non comin­ciando da quelli che si possono aver fatti.

Forse quella parte di uomini che, occupandosi nelle lettere, vi sono mediocri, che né sono esposti all’invidia né sono l’oggetto del disprezzo universale, godendo d’una tranquilla esistenza non sentiranno abbastanza i dispiaceri attaccati allo stato di uomo di studio. Qual male, diranno eglino, v’hanno fatto gli uomini di lettere, perché dobbiate disgustargli del loro stato? Se è mostrarsi nemico degli uomini di lettere parlando loro con sentimento e con interesse sulle pene del loro stato, questo è un rimprovero del quale Socrate, Seneca, Cicerone ed una infinità d’altri grandi uomini sono rei. Invece di concludere di questo modo dovrebbesi piuttosto tirare la conseguenza che la passione dello studio, così come tutte le altre, ha i suoi momenti di disgusto e di dispetto, come ella ha i momenti di piacere e di trasporto delizioso.

Il signor d’Alembert entra in un lungo dettaglio de’ dispiaceri che lo studio stesso, indipendentemente dagli altri oggetti, ha per la difficoltà di scoprire tante verità, e per la trista incertezza nella quale, ad onta di tempo consacrato, si trovano que’ che se ne occupano. Tali dispiaceri però dimostra egli non aver altra cagione che una troppo sfrenata voglia di spingersi troppo addentro nella disamina delle cose. Ma ci è egli libero interamente d’arrestarsi ad un punto qualunque a nostro piacere? La maggior parte de’ rimedi morali è poco efficace.

Segue all’Apologia dello studio un discorso sull’armonia delle lingue e sulla latinità de’ moderni. Ci dispensiamo dal darne un estratto perché sarebbe necessario entrare in minuzie didattiche troppo gravi alla maggior parte de’ leggitori. Il fanatismo di scrivere latino è oggi mai passato, ed il pregiudizio di sacrificare le cose ad uno stile imprestato ed ad una lingua morta, che poco assai si conosce, è ridicolo, tanto che dopo molti secoli ne siamo rinvenuti. Come mai sperare di rendere chiaramente e con energia le nostre idee, se le esponiamo in una lingua che sovente poco conosciamo e meno conoscono gli altri, e della quale non abbiamo idee chiare quasi in niente?

Finisce questo tomo con una apologia del signor d’Alembert su quello che egli avvanzato avea nell’articolo Genève della Enciclopedia per rapporto alla maniera di pensare de’ ministri di Genevra in materia di religione.

I vari pezzi staccati che compongono il tomo presente sono assai ben scritti e veramente degni del secolo e dell’autore.