Discorsi sull’indole del piacere e del dolore, sulla felicità e sulla economia politica

Pietro Verri
DISCORSI SULL’INDOLE DEL PIACERE E DEL DOLORE, SULLA FELICITÀ E SULLA ECONOMIA POLITICA [1781]

Testo critico stabilito da Giorgio Panizza, Sara Rosini, Gianni Francioni (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, III, 2004, pp. 15-21, 293-423; 63-152; 195-277)

Prefazione

Questi discorsi trovarono una fortunata accoglienza quando comparvero staccati l’uno dall’altro. Ora gli ho nuovamente esaminati affine di pubblicare un lavoro meno imperfetto.

Il Discorso sull’indole del piacere e del dolore sviluppa un sistema di cui se ne trovano i semi in Platone. Quest’autore ci ha tramanda­to il ragionamento che tenne Socrate poich’ebbe inghiottita la ci­cuta. Vennero tolti i ceppi a Socrate, e quel filosofo strofinando la gamba al luogo sul quale i ceppi avevano compresso e trovandone voluttà riflettè sul piacere cagionato dalla cessazione del dolore. Eccone le parole: «Socrates autem sedens in Lectica contraxit ad se crus, manuque perfricuit atque inter fricandum sic inquit: quam mira videtur, o viri, hec res esse quam nominant homines voluptatem, quamque miro naturaliter se habet modo ad dolorem ipsum, qui ejus contrarius esse videtur, quippe cum simul homini adesse nolint, attamen si quis prosequitur capitque alterum, semper ferme alterum quoque accipere cogitur, quasi ex eodem vertice sint ambo connexa. Arbitror quidem Aesopum si hec animadvertisset fabulam fuisse facturum: videlicet Deum ipsum cum ipsa inter se pugnantia vellet conciliare, neque id facere posset, in unum saltem eorum apices conjunxisse, proptereaque cuicumque adest alterum, eidem mox alterum quoque adesse: quod quidem mihi accidit in presentia. Siquidem modo crus propter vincula afficiebatur dolore, sed huic succedere voluptas jam videtur». Così Marsilio Figino ci ha tra­dotto quel passo di Platone nel Phaedo vel de anima.

Anche più da vicino ne diede un cenno il mio compatriota Gerolamo Cardano, uomo strano, uomo visionario, ma di somma perspi­cacia d’ingegno. Egli nel libro de vita propria al capo vi scrisse: «Fuit mihi mos (de quo plures admirabantur) ut causas doloris si non haberem quererem, ut dixi de podagra: unde plerumque causis morbificis obviam ibam (ut solum devitarem quantum possem vigilias) quod arbitrarer voluptatem consistere in dolore precedenti sedato». Egli è vero che Cardano non si fa punto carico della cele­rità, con cui cessi il dolore (il che a mio sentimento è una condizio­ne essenziale al piacere), ma pure convien confessare che un chiaro indizio ci ha dato quello scrittore di non credere egli essere il piace­re cosa positiva.

Questa opinione era parimenti di Montagne, il quale nel secondo tomo de’ Saggi al libro secondo, capo XII, dice: «Notre bien etre n’est que la privation d’etre mal… car ce meme chatouillemnt et aiguesement qui se rencontre en certains plaisirs, et semble nous enlever au dessus de la Santé simple et de l’indolence, cette volupté active, mouvante et je ne scay comment cuisante et mordante, celle là mesme ne vise qu’à l’indolence comme à son but. L’appetit qui nous ravit à l’accointance des femmes, il ne cherche qu’à chasser la peine que nous apporte le desir ardent et furieux, et ne demande qu’à l’assouvir, et se loger en repos et en l’exemption de cette fievre. Ainsi des autres». Da che si conosce come quell’amabile e profon­do pensatore travide pure che il solo principio delle azioni era il dolore, e che il piacere consiste nella cessazione d’un male.

L’esatto analizzatore dell’animo, il luminoso genealogista delle nostre idee Giovanni Locke ha chiaramente annunziato che il solo dolore è il principio delle azioni umane, e dopo maturo esame si è ritrattato sulla affermazione che la volontà sia determinata dal bene; eccone lo squarcio tolto dalla traduzione del Sig. Coste, Essai Philosophique concernant l’entendement humain, libro secondo, De la Puissance, ivi al paragrafo 31 leggesi: «Voyons presentement ce que c’est qui determine la volonté par rapport à nos actions. Pour moi après avoir examiné la chose une seconde fois, je suis porté à croire que ce qui determine la volonté à agir n’est pas le plus grand bien comme on le suppose ordinairement, mais plutot quelque inquietude actuelle, et pour l’ordinaire celle qui est la plus pressante. C’est là dis-je ce qui determine successivement la volonté, et nous porte à faire des actions que nous faisons. Nous pouvons donner à cette inquietude le nom de desir, qui est effectivement une inquietude d’esprit causée par la privation de quelque bien absent. Toute douleur du corps quelle qu’elle soit et tout mecontentement de l’esprit est une inquietude [à laquelle est toujours joint un désir proportionné à la douleur ou à la inquietude] qu’on ressent, et dont il peut à peine etre distingué. Car le desir n’etant que l’inquietude que cause le manque d’un bien absent, par rapport à quelque douleur qu’on ressent actuellement, le soulagement de cette inquietude est ce bien absent, et jusqu’à ce qu’on obtienne ce soulagement ou cette quietude on peut donner à cette inquietude le nom de desir, parce que personne ne sent de la douleur qui ne souhaite d’en etre delivré avec un desir proportionné à l’impression de cette douleur, et qui en est inseparable. Mais outre le desir d’etre delivré de la douleur, il y a un autre desir d’un bien positif qui est absent, et encore à cet egard le desir et l’inquietude sont dans une egale proportion, car autant que nous desirons un bien absent, autant est grande l’inquietude que nous cause ce desir… Quiconque reflechit sur soi meme trouvera bientot que le desir est un etat d’inquietude». Ed al paragrafo 34 nuovamente conferma essere il solo dolore la cagione d’ogni nostro movimento: «Lorsque l’homme est parfaitement satisfait de l’etat ou il est, ce qui arrive lorsqu’il est absolument libre de toute inquietude; quel soin, quelle volonté lui peut-il rester que de continuer dans cet etat? Il n’a visiblement autre chose à faire, comme chaqu’un peut s’en convaincre par sa propre experience. Ainsi nous voyons que le sage Auteur de notre Etre, ayant egard à notre constitution, et sachant ce qui determine notre volonté, a mis dans les hommes l’incommodité de la faim et de la soif et des autres desirs naturels qui reviennent dans leur tems afin d’exciter et de determiner les volontés à leur propre conservation et à la continuation de leur espece». Così pensava il saggio Locke, il quale al para­grafo 35 si discolpò per avere diversamente opinato nella prima edi­zione e si ritrattò colle seguenti parole: «C’est une maxime si fort etablie par le consentement general de tous les hommes que c’est le bien et le plus grand bien qui determine la volonté, que je ne suis nullement surpris d’avoir supposé cela comme indubitable la pre­miere fois que je publiai mes penseés sur cette matiere, et je pense que bien de gens m’excuseront plutot d’avoir d’abord adopté cette maxime, que de ce que je me hazarde presentement à m’eloigner d’une opinion si generalment reçue: cependant après une plus exacte recherche je me sens forcé de conclure que le bien, et le plus grand bien, quoique jugé et connu tel, ne determine point la volonté, à moins que venant à le desirer d’une maniere proportionnée à son excellence, ce desir ne nous rende inquiets de ce que nous en sommes privés».

Anche un delicato ed elegante italiano, il conte Lorenzo Magalot­ti, conobbe che il piacere non era una cosa affatto positiva e nella prima parte delle sue Lettere familiari alla lettera 19 così si esprime: «Io osservo che insino a un sapor buono, questo si trova (lasciatemi dire una parola che non credo d’aver detta da venticinque anni in qua) a parte rei; ma quel che si chiama delizia, regalo, questo a mio credere è un Ente di ragione, che ha tutta la sua fede nello spirito, che non è uscito da quel che si mangia o si bee, e quel che più è mirabile non è neanche passato per l’organo corporale; io ho detto che quell’Ente di ragione non è uscito da quel che si mangia o si bee; ora aggiungo ch’ei non ha più che fare coll’uno, o coll’altro di essi di quel che abbiano che fare i misteri degli egizj co’ simboli sot­to i quali gli espresse la loro sacra Scrittura. E fate vostro conto che zampe di tordo abbrustolite alla fiamma della candela di cera, teste di beccacce spaccate e bruciate sulla gratella, ostriche crude, corna novelle di Daino, peducci d’orso, nidi di rondine della Cocincina, Thè, Caffè, Ketchup, Cacciunde, e tant’altre strane adozioni della svogliata moderna scalcheria sono appresso di me un alfabeto di jeroglifici adattati dai ghiotti mistici a rappresentare alle loro menti alcuni gradi di squisitezza spirituale che nè può trovarsi ne’ cibi materiali, nè può trasfondersi per la via de’ sensi esterni. Del resto tanto hanno che fare tutte queste cose con quelle varie spezie di beatitudini che si eccitano nello spirito di chi le mangia quanto ha che fare Iside coll’anno, lo sparviere coll’anima, il cielo colla donna che fa figliuoli, il Cinocefalo co’ Caratteri o colla Luna. Che poi non sieno passati pe’ sensi vedetelo da questa riprova che non può falli­re, che la prima volta che tai cose s’assaggiano, o che se ne sente discorrere come non si sia prevenuto ch’elle abbiano a esser delizie così pellegrine non piacciono a nessuno. Ma gli spiriti un po’ delicati sono suscettibilissimi della curiosità e della prevenzione, le quali fanno che non si attende più il sapor della cosa, ma l’anima innamo­ratane a credenza le si fa incontro, e prima che la specie del sapore nel suo essere naturale arrivi a toccarla, ella di lontano asperge lei di quella dolcezza immaginaria di cui ha in sè la vena, e poi accostan­dosele la sente qual elle l’ha fatta non qual ell’era, e fruendo di se medesima sotto la sua immagine pensa fruir di lei… Questo non succede solamente ne’ sapori, segue negli oggetti di tutti gli altri sensi ec.».

Tutti questi cenni dimostrano che Platone, Cardano, Montagne, Locke e Magalotti hanno conosciuto che il piacere non è un essere positivo, anzi i primi dippiù scoprirono che il piacere altro non è che una cessazione d’un male, e che il solo principio motore dell’uo­mo è il dolore. Io mi lusingo d’avere data qualche luce a questa teoria, pubblicata colle stampe dell’Enciclopedia di Livorno l’anno 1773, almeno le spontanee posteriori edizioni mi persuadono che non saranno per dispiacere a’ miei lettori le cure che nuovamente ho impiegate per dare un maggior finimento a questo discorso nella presente edizione. Il prodigioso avvenimento de’ quattro illustri secoli d’Alessandro, d’Augusto, dei Medici e di Luigi XIV, che fu un mistero, cessa di esserlo tosto che si conosca essere spuntati que’ secoli dai dolori e da così turbolenti governi, che gli uomini ricevet­tero le massime spinte per agire.

Il secondo discorso sulla felicità ha per oggetto un argomento comunissimo sul quale tanti e tanti hanno scritto. Ei comparve stampato in Livorno l’anno 1763 sotto una mole più piccola, e la for­tuna che ritrovò mi ha fatto animo a rifonderlo e dargli una forma più estesa. Forse il solo merito che hanno i miei scritti è quello che rappresentano le vere opinioni del loro autore e i veri suoi senti­menti. Io penso che la sola virtù può farci godere quel poco di feli­cità di cui siamo capaci, e che la sola coltura della mente può farci conoscere in ogni caso la strada della virtù. Queste verità utilissime non gioveranno che poco a richiamare sulla strada della felicità gli uomini incalliti dalla abitudine, o preservare il loro animo dalla illusione che per lo più ci conduce all’affannosa miseria. Un uomo solo, che meditando su queste tracce giunga a sottrarsi dalle insidie del­l’errore ed evitare la infelicità, mi ricompensa caramente del mio lavoro.

L’Economia Politica è il soggetto del terzo discorso il qual com­parve stampato in Livorno l’anno 1771. Debbo mostrarmi grato al Sig. Giovanni Gravier che immediatamente lo ristampò in Napoli con espressioni che mi onorano; in Genova dalla stamperia dello Scionico ne comparve la terza edizione pure nel 1771. Il Galeazzi in Milano volle ristamparlo la quarta volta. Vorrei potere annoverare fralle edizioni anche quella fatta in Venezia da Giambattista Pasqua­li all’insegna della Felicità delle lettere, ma il pubblico giudizio non ha applaudito a quelle note che con inusitato metodo volle innestare al testo d’un autore vivente. In fatti nella bellissima versione francese che comparve a Losanna l’anno 1773 dalla officina del Sig. Giulio Enrico Pott l’elegante e dotto traduttore, che mi ha fatto moltissimo onore anche nel suo discorso preliminare, non ha credu­to d’affaticarsi nella versione delle note. Lo stesso è accaduto nella versione tedesca pubblicata in Dresda nella stamperia Walter l’anno 1774. Quindi ho creduto che nella edizione che ora faccio conve­nisse l’omettere quanto nella sesta edizione fatta in Livorno dalla stamperia dell’Enciclopedia credetti di aggiugnere a schiarimento maggiore delle poco giudiziose note colle quali venni corredato alla Felicità delle lettere. Ho ripassate le mie idee a nuovo esame e in parte dati alcuni tocchi onde mi lusingo che possano essere soddi­sfatti i miei lettori.

L’Economia politica è la materia più vasta de’ delirj di chiunque, è una specie di medicina empirica che serve d’argomento ai discor-si ed agli scritti anche più inetti e potrebbe essere la facoltà di chi volesse insegnare senza possedere facoltà alcuna. In questo campo io pure sono entrato, ma il metodo tenuto da me non è simile a quello che comunemente è stato di norma a molti autori. Essi dal­l’ozio tranquillo del loro gabinetto formandosi idee astratte sopra del commercio, della Finanza e d’ogni genere d’industria, mancan­do di ajuti per esaminare gli elementi delle cose, sopra ipotesi anzi che sopra fatti conosciuti hanno innalzate le loro speculazioni. Il mio ingegno è stato più lento. Ho impiegato varj anni a conoscere i fatti: le commissioni colle quali la clemenza del sovrano mi ha ono­rato me ne hanno somministrato i mezzi. Quasi tutte le idee mie hanno cominciato coll’essere idee semplici e particolari, poi coll’oc­casione di esaminare oggetti reali accozzate, disputate, contraddette si sono andate componendo, e le generali idee sono emanate poi dopo una lunga combinazione di elementi conosciuti. Questo meto­do non ha il merito certamente di essere il più breve nè il meno penoso, ma a lui solo credo di essere debitore della onorevole acco­glienza che è stata fatta a questa serie d’idee, le quali le trovo vere e riducibili ad esecuzione anche oggidì come le trovai dieci anni fa nel pubblicarle la prima volta. Vorrei essere collocato fra gli autori buo­ni; ma ambisco ancora di più l’essere conosciuto un buon cittadino. Felice quel popolo da cui comunemente si ragiona della virtù, e le di cui dispute familiari hanno per oggetto i mezzi che producono la felicità dello Stato!

DISCORSO SULL’INDOLE DEL PIACERE E DEL DOLORE

§ I. Introduzione
§ II. Dei piaceri e dei dolori fisici e morali
§ III. Il piacer morale è sempre preceduto da un dolore
§ IV. Il piacer morale non è altro che una rapida cessazione di dolore
§ V. La maggior parte dei dolori morali nasce da un nostro errore
§ VI. Sviluppamento della teoria dei piaceri e dei dolori morali
§ VII. Dei piaceri e dei dolori fisici
§ VIII. I piaceri delle belle arti nascono dai dolori innominati
§ IX. Applicazione del principio alle belle arti
§ X. Come l’uomo giudichi nella scelta fra i dolori e fra i piaceri
§ XI. Il dolore precede ogni piacere, ed è il principio motore dell’uomo
§ XII. Di alcuni dolori e piaceri di opinione
§ XIII. Schiarimento sull’indole dei dolori e dei piaceri
§ XIV. Se nella vita siano più i dolori ovvero i piaceri

 Introduzione.

La sensibilità dell’uomo, il grande arcano al quale è stata ridotta come a generale principio ogni azione della fisica sopra di noi, si divide e scompone in due elementi, e sono amor del piacere e fuga del dolore: tale almeno è la comune opinione degli uomini pensato­ri e maestri. Ognuno conosce e sente quanta influenza abbiano il piacere e il dolore nel determinare le azioni umane; la speranza, il desiderio, il bisogno del primo; il timore, lo spavento, l’orrore del secondo, danno il moto a tutte le nostre passioni. Tutti gli amatori delle belle arti sanno che il loro scopo parimente è il piacere, col quale allettano altrui a ben accogliere e l’utile e il vero. I tentativi adunque destinati a conoscerne l’indole, a illuminare questi primordiali oggetti, sono meritevoli di qualche attenzione. Se fra le tene­bre, ove sta riposta la parte preziosa dell’uomo, che si cela all’uomo medesimo, ci fosse possibile carpire una nozione esatta del piacere e del dolore, una precisa definizione, che ce ne palesasse la vera essenza, si sarebbe fatto un passo importantissimo, e sarebbesi acquistata una generalissima e utilissima teoria applicabile alla libe­rale eloquenza, alla seduttrice poesia, alle bell’arti tutte, e all’uso comune della vita medesima, perchè ci darebbe la norma, e ci addi­terebbe i mezzi onde potere, colle attrattive di lui, rendere le azioni degli uomini cospiranti alla nostra felicità.

Fra i molti filosofi, che della natura del piacere hanno scritto dopo l’epoca della ristorazione delle lettere, si distinguono singo­larmente le opinioni di Des Cartes, del Wolf, e del sig. Sulzer. Il pri­mo fa consistere il piacere nella coscienza di qualche nostra perfezio­ne; il secondo nel sentimento della perfezione; il terzo nell’avidità dell’anima per la produzione delle sue idee. Sia però detto colla venerazione dovuta al merito di questi autori, queste definizioni mancano e di chiarezza e di precisione. Il piacere di spegnere la sete, il piacere di riposarsi dopo la stanchezza e una infinita schiera di piaceri singolarmente fisici, nè ci fanno sentire una perfezione qualunque, meno poi hanno relazione veruna coll’avidità dell’anima per produrre le sue idee. Da ciò chiaramente si vede non essersi in tal modo definito il piacere. Ma ne’ tempi a noi più vicini sopra di ogni altro ha acquistata fama il sig. di Maupertuis. Ci propose egli una definizione del piacere. L’organizzazione geometrica, ch’egli die’ alla sua tesi, sommamente preparò gli animi alla persuasione; e sebbene alcuni gli abbiano fatto contrasto, nondimeno prevalse la fama di lui su quella degli oppositori. Egli così definì il piacere: il piacere è una sensazione, che l’uomo vuol piuttosto avere che non avere. Questa però non è altrimenti una definizione, se ben vi si rifletta; sarebbe la stessa cosa il dire che il piacere è quel che piace: asserzione egualmente evidente quanto superflua, essendo che da essa non ci viene veruna idea generale di proprietà stabilmente inerente a ogni sensazione del piacere. La simmetria artificiosa delle parole ha sedotti molti lettori, che di essa contenti accettarono una parafrasi per una definizione.

Ogni uomo ha un’idea esatta del dolore e del piacere, ed ogni uo­mo è giudice competente di quello che eccita in lui la sensazione che gli è aggradevole o disgustosa; ma non così ogni uomo ha la ostina­ta curiosità di scomporre gli elementi che formano le proprie sensa­zioni, e rintracciare quale sia la proprietà comune a tante e sì varia­te sensazioni che sono piacevoli, e a tante e sì variate che sono dolorose. Questo è quello che penso io di fare; e se per ventura potrò ritrovare questa proprietà, che sempre ha seco il piacere, e senza di cui non si può questo sentire, dirò d’aver mostrata la definizione di esso, e di averne spolpata l’idea, e ridotta alla nuda precisione.

Questa ricerca per sè medesima spinosa forse mi può condurre all’errore. Forse la immaginazione mi farà traviare, lo temo io stes­so; pure tentiamo. I varj tasti, su i quali debbo porre le dita, for­se desteranno qualche idea nuova ne’ miei lettori; lampeggierà forse fra questo bujo qualche utile vista, sebbene ancor io non riesca al mio fine. Sono benaugurati sempre gli scritti che fanno ripiegar l’uomo in sè medesimo, e l’obbligano a rendersi un esatto conto di ciò che sente. L’esame attento dei fenomeni interni è lo specchio della filosofia e della morale umana. Quanto più l’uomo s’abitua a scorrere nei labirinti della propria sensibilità, quanto più si rende amico di sè medesimo, tanto migliora, perchè tanto più teme le inconseguenze e i rimorsi. Quindi le ricerche che si fanno fra queste tenebre, quand’anche non giungano alla verità, possono paragonar­si ai lavori degli alchimisti, i quali, traviando dallo scopo, hanno però, strada facendo, ritrovati non solo gli utili rimedj, ma altresì le preparazioni chimiche più fortunate.

§ II. Dei piaceri e dei dolori fisici e morali.

Tutte le nostre sensazioni si dividono in due classi, e le chiamerò sensazioni fisiche e sensazioni morali. Chiamo sensazione fisica quella l’origine di cui si vede cagionata da una immediata azione sulla nostra macchina. Chiamo sensazione morale ogni altra in cui questa immediata azione non si conosca.

Il dolore che nasce da una lacerazione o irritazione violenta del corpo nostro si chiama un dolor fisico; una forte percossa, un taglio, un abbruciamento cagionano un dolore fisico. Quando per lo contra­rio si calma la irritazione, nascono i piaceri fisici; così dopo un di­sastroso viaggio d’inverno un letto tepido e molle, dopo una sobria ed affannosa caccia una mensa delicata, sono piaceri fisici: dolori e piaceri cagionati da una immediata azione sulla nostra macchina.

L’annunzio della morte d’una persona che ci è cara, l’annunzio della rovina della fortuna nostra e de’ beni nostri, ci tormentano dolorosissimamente. Qual è la cagione di questo dolore? Noi non ne vediamo l’azione immediata sugli organi nostri, perciò si ripon­gono nella classe dei dolori morali. Medesimamente la notizia d’una inaspettata eredità, d’una carica luminosa, d’una amicizia acquistata e desiderata da noi, ci risveglia un piacere vivissimo, sen­za che compaja alcun oggetto applicato agli organi della nostra sen­sibilità; quindi vengon chiamati piaceri morali.

Ai piaceri e dolori fisici ogni uomo anche rozzo e selvaggio è sensibile; ai piaceri e dolori morali tanto più l’uomo è sensibile, quanto è più dirozzato dalla educazione, cioè quanto è maggiore la folla delle idee che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche nelle intere nazioni della diversità su tal proposito: i popoli più inciviliti sono più sensibili alla gloria e al disprezzo; i popoli ancora più rozzi lo sono alle percosse e alla mercede. I piaceri e i dolori morali sono tanto maggiori, quanto maggiore è il numero dei bisogni e delle relazioni che un uomo sente d’avere cogli altri.

Per conoscere questa verità esamino attentamente me stesso. Se nel momento in cui mi si annunzia la morte d’un mio dolcissimo ami­co, io potessi essere certo che dopo brevi istanti la di lui memoria non esisterà più nel mio animo, nè più mi risovverrò di averlo cono­sciuto; se avessi, dico, questa certezza, il mio dolore sarebbe sempli­cemente la compassione del male altrui; sentimento il quale, preso isolato, fors’anco non consiste che nel fremito di alcune parti unisone della nostra sensibilità. Quel che cagiona la desolazione e lo squallore ov’io piombo, si è che in quel momento prevedo quante volte avrò d’avanti agli occhi l’immagine della perdita fatta; sento in quel momento la trista solitudine che mi si apre davanti, e il parago­ne che ne farò col bene avuto; nelle mie afflizioni non avrò più un fe­dele compagno, a cui senza timore manifestarmi, e riceverne consi­glio e assistenza; negli avvenimenti felici non vedrò più quella gioja dell’amicizia, che moltiplica la felicità comunicandola; dove trovare chi s’interessi meco ne’ delirj della mia immaginazione, e che per uni­formità di genio, avendo meco comune la curiosità di scoprire il ve­ro, mi accompagni; dove troverò più un essere tanto grato, tanto sen­sibile, che mi consolava ad ogni atto di amicizia che io usassi seco, dolce di carattere, robustissimo nella onestà, attivo, discreto, nobile! Così mi vado col pensiero spignendo sulla serie delle dolorose sensazioni che mi aspettano, e su quel primo momento contemporanea­mente pesando tutt’i momenti del dolor preveduto, resto immerso nella più crudele amarezza. Questo dolor morale nasce dalla riunione de’ fantasmi che occupano la mia mente, onde la parte più nobile di me stesso, appoggiando sul passato e sull’avvenire, più che sul momento attuale, e paragonando i due modi di esistere, tutta invilup­pata nel timore dei mali preveduti s’immerge in un dolore morale.

Mi ripongo in una opposta situazione. Mi figuro che mi venga l’annunzio d’una luminosa carica ottenuta. Se io potessi dimenticar­mi del passato, se io non mi slanciassi nell’avvenire, la novella re­catami riuscirebbe insipida e il mio animo non sentirebbe niuna sensazione piacevole. Ma si affacciano alla mia mente le ingiustizie, l’or­goglio, la fredda indifferenza, che hanno mostrato per me alcuni uo­mini insolenti per la loro carica sin tanto che restai disarmato e sen­za potere; mi spingo nell’avvenire, e li prevedo cambiati; mi trovava nell’impossibilità d’acquistarmi l’opinione pubblica, eccomi il cam­po aperto per guadagnarmela; ho in faccia degli amici, che potrò coi beneficj rendere agiati, e sempre più ben affetti; gli emoli o riconci­liati, o ridotti all’impotenza di nuocere; tutto questo ridente spetta­colo mi si spalanca allo sguardo: tutte le sensazioni, alle quali vado incontro, già in parte mormorano nel mio interno; il giubilo, la con­solazione invadono tutta la mia sensibilità; sono immerso in un vo­luttuosissimo piacer morale, perchè, poco o nulla pesando sul mo­mento presente, tutto mi appoggio sul passato e sull’avvenire.

Questi due esempj generalmente convengono a tutt’i dolori morali, a tutt’i piaceri morali. Essi non si risentono se non in quel momento in cui l’animo, dimentico quasi del presente, si risovviene e prevede; e a misura che o teme o spera, sente o dolore o piacere. Se questo è vero, ne scaturisce un teorema generalissimo. Tutte le sensazioni nostre piacevoli o dolorose dipendono da tre soli principj: azione immediata sugli organi, speranza, e timore. Il primo principio cagiona tutte le sensazioni fisiche; gli altri due le sensazio­ni morali.

Scelgasi un piacere morale ancora più nobile e puro: figuriamoci un geometra nel momento in cui, per un fortunato accozzamento d’idee, ha carpito lo scioglimento d’un problema arduissimo e importantissimo. Qual sarebbe la gioja di quel geometra se egli vivesse in un’isola disabitata, sicuro che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta? A me pare che poca o nessuna con­solazione ne proverebbe; o se qualche ombra ne risentisse, ciò ver­rebbe perchè da quella verità ne sperasse di cavarne o un uso pra­tico per vivere più agiatamente, ovvero maggiore attuazione a svilupparne in seguito una catena di altre curiose verità, e guada­gnare così una occupazione che lo sottragga alla inazione insipida della sua vita solitaria. Il piacere adunque del matematico, quello che lo fa nudo balzare dal bagno, e scorrere pieno d’entusiasmo per la città, si è la speranza de’ piaceri che in avvenire aspetta, e dal­la stima degli uomini e dai beneficj che dovrà riceverne. Per ciò dico che tutt’i piaceri morali, come tutt’i dolori morali, altro non sono che uno impulso del nostro animo nell’avvenire: cioè timore e spe­ranza.

Un dolor morale de’ più sublimi nella sfera degli umani sarà quello che sente un cuor nobile e generoso, qualora per disgrazia o acciecato da una violenta passione, ovvero per inavvertenza, abbia mancato di gratitudine a un virtuoso suo benefattore. Analizziamo i sentimenti dolorosi che lo affliggono. Egli teme il disprezzo, o alme­no la diminuzione di stima degli uomini, e, confusamente nell’avve­nire scorrendo, se ne anticipa i mali; egli diffida di sè medesimo, e sente la probabilità accresciuta di poter di nuovo in avvenire coprir­si di simili macchie, e sempre più veder diminuita la opinione dei buoni; ei prevede che, per quanto sia generoso il suo benefattore, non potrà in avvenire stare in sua presenza così tranquillo e sereno come vi stava in prima. Tutta questa nebbia gli offusca la serie del­le sensazioni che si vede avanti, e quand’anche sul momento non le analizzi a sè medesimo, ma confusamente col solo vocabolo di rimorso annunzi il dolor che soffre, quest’è pure un semplice timo­re delle sensazioni a venire.

Tutte le applicazioni che ho fatte di questo principio, le quali, se avessi a riferirle, darebbero troppa uniformità e tedio, ricadono co­stantemente al medesimo risultato, che tutt’i piaceri e dolori morali nascono dalla speranza e dal timore.

Tutt’i piaceri morali, che nascono dalla stessa umana virtù, altro non sono che uno spignimento dell’animo nostro nell’avvenire, antivedendo le sensazioni piacevoli che aspettiamo. Abbiamo un illustre cittadino in Italia il quale, essendo sovrano tranquillo della sua patria, preferì la raffinata ambizione di vivere immortale nella gratitudine e memoria de’ suoi, alla volgare di comandare agli uomi­ni nel corso della sua vita: rinunziò la sovranità, ristabilì la repubblica, si fece suddito delle leggi, subordinato ai giudici. Quale azione più grande, più virtuosa, più disinteressata! Siila l’avea già fatta in prima; ma Siila, grondante di sangue romano, usurpatore violento d’un potere arbitrario, Silla, di cui la tirannia fra gli sgherri e le stra­gi aveva immolate tante vittime, non poteva sperare che venisse mai guardato come un atto di virtù il momento in cui, per lassitudine, terminava la orribile serie de’ suoi delitti. L’immortale autore che lo fa parlare con Eucrate innalza quel feroce al livello della sua gran­d’anima; ma la storia di quegli orrori non lascia luogo a immaginar­selo somigliante al ritratto. Andrea Doria, per grandezza d’animo, per vera elevazione di genio virtuoso, pieno di gloria, nel punto in cui abdicando la sovranità diventò cittadino, e molto più ne’ mo­menti in cui prevedendo quest’atto vi si andava disponendo, ha pro­vato certamente i piaceri morali più sereni ed energici. Si slanciava egli nell’avvenire, e diceva a sè stesso: sulla faccia de’ miei concitta­dini leggerò scritta la riverenza e la gratitudine unita alla maraviglia; attraverso del timido rispetto, che i sudditi presentano al sovrano, rare volte traspirano i veri sentimenti del cuore: toglierò quest’osta­colo, e goderò di sentimenti spontanei. Non sarà certamente mino­re la mia influenza negli affari pubblici dopo una sì generosa abdi­cazione, ed ogni adesione sarà per me così dolce, come se ogni volta mi proclamassero sovrano; regnando anche felicemente, potrebbe essere ecclissata la mia gloria da altri più felici successori; ma osan­do render forti al par di me i cittadini, e stabilendo una repubblica, rimarrà isolata la mia gloria, e s’innalzerà alla veduta ne’ secoli più remoti. L’affetto, la spontanea sommessione, l’ammirazione, la fa­ma: tutt’i beni che queste seco portano, gli sperava e li vedeva di fronte, quando si apparecchiava all’atto generoso, e così la speranza era la sorgente di tutti quei piaceri morali.

L’uomo fedele alle sue promesse, grato ai beneficj, attivo nel con­solare e ajutare gli uomini, disinteressato, nobile, guardingo a non nuocere sia coi fatti, sia colle parole più trascorrevoli, e talvolta più fatali, ogni volta che con un nuovo atto rinfianca i suoi principj, prevede di rendere sè stesso sempre più forte coll’abitudine al bene, e di confermare e cimentare sempre più la opinione pubblica, e singolarmente la stima degli uomini buoni; quindi, in ogni atto virtuo­so che fa, sente diminuito un grado alla possibilità di perdere questi beni, e accresciuto un grado alla speranza delle sensazioni piacevoli che se gli affacciano. Il piacer morale di lui sarà sempre più forte, quanto più diffiderà della perseveranza, e quanto sarà più incerto e timoroso sulla opinione altrui.

O io m’inganno, oppure questa teoria è costante, siccome ho det­to, che tutt’i piaceri egualmente come tutt’i dolori morali nascono dal timore e dalla speranza, in guisa tale che, se potesse darsi un uomo incapace di temere o di sperare, questi non potrebbe avere che soli piaceri e dolori fisici; come vediamo appunto accader ne’ bambini, i quali, sprovveduti d’idee, e altro non avendo che gli organi disposti a ricevere le impressioni, tanto meno corredati di memoria, quanto più è vicino il momento in cui cominciarono ad essere; incapaci di grandi paragoni o numerose combinazioni, non sentendo nè speranza nè timore, unicamente in preda ai dolori e piaceri fisici, non cominciano a gustare i morali se non a misura che gli anni e l’esperienza insegnano loro l’arte di sentire per antivedenza. Il senso morale non si acquista se non allor quando, col seguito d’una lunga serie di sensazioni accumulatasi una folla d’idee, giugne l’uomo a conoscere la successione di diversi modi di esistere, onde si sviluppano nell’animo i due risultati: speranza e timore. Sin­chè ciò non si è fatto coll’opera del tempo, l’uomo altre sensazioni non potrà avere, come dissi, se non che le fisiche, le quali sono modi di esistere isolati, prodotti dalla momentanea passività degli organi, bastante ad eccitare il movimento dell’animo.

In fatti, se attentamente esamineremo lo sviluppamento che per gradi fa l’animo d’un fanciullo, vedremo che la vergogna, la com­passione, il pentimento, come l’ambizione, l’invidia, l’avidità, l’en­tusiasmo, i germi in somma delle virtù e dei vizj, col lungo tratto di tempo soltanto, e dopo aver fatto un grande ammasso d’idee, si vedono schiudere e sviluppare. Di che il profondo Giovanni Locke trovò già una felice dimostrazione.

§ III. Il piacer morale è sempre preceduto da un dolore.

Dunque il piacer morale nasce dalla speranza. Cos’è speranza? Ella è la probabilità di esistere meglio di quello che ora esisto. Dunque speranza suppone mancanza sentita d’un bene. Dunque suppone un male attuale, un difetto alla nostra felicità. Dunque non posso avere un piacer morale se non supponendomi previamente un male, che tale debb’essere un difetto, una mancanza sentita alla mia feli­cità.

Analizziamo tranquillamente le sensazioni d’un sovrano: esso pare agli occhi d’ognuno il centro de’ piaceri, e conseguentemente a chi ricerca di scoprir l’indole de’ piaceri è un oggetto particolarmente degno di osservazione. Figuriamoci un monarca assoluto padrone d’un vastissimo regno, temuto e rispettato dai vicini, glo­rioso presso le nazioni, amato, venerato da’ suoi sudditi; sarebbe nella infelicità tristissima di non poter gustare verun piacer morale, se potesse esser persuaso che l’amore, il rispetto, l’entusiasmo del suo popolo non sono suscettibili d’un grado di più, e se non temesse di perdere il godimento di questi beni. Un monarca, che fosse immortale, impassibile, e sicuro possessore di questi beni, sarebbe il solo uomo sulla terra, al quale nessun altr’uomo potrebbe mai portare verun fausto annunzio. La sola sorgente per lui dei piaceri morali, benchè languidi e scoloriti, sarebbe la sua noja medesima. Gli oggetti che gli facessero sperare di sottrarsi da quella letargica uniformità, gli darebbero un momento di languidissimo piacere. Così il romore d’una caccia, l’armonia, la pompa, le passioni, il ridicolo d’un teatro, facendogli sperare una preda, e interessandolo nei sentimenti degli attori, e appropriandosi le loro speranze, posso­no trarlo ad una esistenza meno nojosa. Egli otterrà che per qualche ora in sèguito la sua mente sia occupata d’idee meno uniformi; quindi ne nascerà un qualche piacer morale. Ma a questo stato non può giunger mai un monarca. Egli non può mai esser sicuro dai mali fisici, dolori, malattie, morte; nemmeno può aver egli l’evidenza degl’intimi sentimenti di ciascun del suo popolo; quindi ha sempre nel suo animo de’ principj dolorosi di timore, i quali possono dar luogo al nascimento della consolatrice speranza. Altra sorgente di piacere ha un buon monarca, ed è quel benaugurato principio di umana benevolenza, deliziosa occupazione d’un ottimo principe, che esercitando la più invidiabile parte del suo potere, cioè adope­rando i mezzi onde si diminuisce la miseria d’un gran numero d’uo­mini, con questa sublime facoltà moltiplica le benedizioni e i voti del suo popolo, dilatando la pubblica felicità, facendo regnare la giustizia, la fede, la virtù, l’abbondanza nel suo popolo. Il bisogno che sente d’avere dei voti pubblici, bisogno inquieto e doloroso per sè stesso, ma sorgente delle più nobili azioni sconosciuta ai tiranni, il bisogno, dico, di questi voti gli rende deliziose tutte le prove di fiducia, di benevolenza, di entusiasmo, che va ricevendo dai pubbli­ci applausi. Ogni giorno più vede egli assicurarsi in favor suo quella pubblica opinione che dirige la forza. Ei vede gradatamente ren­dersi sempre più cospiranti a lui le azioni di ciascun cittadino; vede che, s’ei dovrà adoperar l’impeto di fuori, concorreranno a gara i suoi popoli a rinforzarne gli eserciti; si mira già alla testa di un’armata invincibile di entusiasti. Pensa egli a un grandioso monumen­to, a un’opera di pubblica utilità? Quanto egli è più amato e più possede la opinione, tanto si spianano davanti a lui le difficoltà tut­te. Egli sicuro passeggerà in mezzo al suo popolo, qualora voglia spogliarsi della importuna, ma forse a tempo necessaria, pomposa maestà. Tutti questi sublimi e consolanti oggetti scuotono la fantasia d’un saggio monarca a misura che egli vi si occupa nel procurare la felicità pubblica; e la speranza di conseguire e di rassodare il pos­sesso di questi beni è un vivissimo piacere, che lo rende beato; pia­cere non invidiato perchè poco conosciuto, mentre la turba, paga della corteccia degli oggetti, incautamente invidia quel pesantissimo corredo della maestà, e quelle insipide prosternazioni, e quei titoli, ai quali per lunga età avvezzo un sovrano non può essere sensibile; e quand’anche talvolta se ne avveda, non sarà per ciò che ne ritrag­ga verun piacere morale, perchè ciò non gli fa cessare alcun dolore, nè gli seda un timore, o gli desta alcuna speranza.

Un sovrano al primo ascendere che fa sul trono, e singolarmente un elettivo, il quale colla sua educazione non si poteva aspettare il regno, può essere lusingato dagli atti esterni di omaggio, perchè cia­scuno di essi gli annunzia e gli ricorda ch’egli è veramente sovrano, nel tempo in cui, non ancora abituato per una lunga serie di sensa­zioni a persuadersi pienamente d’esser tale, ha sempre nei ripostigli del cuore un resto di dubbio sulla sua nuova condizione, ed ogni atto, che annienti questo dubbio, è sempre un grado che si aggiugne alla speranza dei beni ch’ei vede uniti alla sovranità; ma tanto è lon­tano che questi invidiati omaggi possano piacere, acquistata che se ne sia l’abitudine, che anzi io credo che ogni sovrano, quando potesse esser certo che il popolo fosse per venerarlo e ubbidirlo sen­za l’esterno apparato che percuota i sensi, volentieri se ne spoglierebbe. Ogni illuminato sovrano, quando conosca che l’uomo al qua­le parla veramente lo onora e rispetta, ed è pronto a ubbidire, sommamente si compiace, se altronde lo vede libero e ingenuo manifestargli i suoi sentimenti; e talora si rallegra e gode, se essendo egli mal conosciuto, taluno lo tratti con popolare dimestichezza, e con uguaglianza da uomo a uomo.

Per lo contrario gli uomini ambiziosi posti in dignità meno sicure, e delle quali il potere sia più soggetto alle instabili vicende di for­tuna, sono assai più animati nel difendere i contrassegni esterni di onore convenienti alla lor carica, perchè la lor condizione è precaria e dipendente dal beneplacito sovrano. Le cariche più luminose han­no sempre degli emoli, e ben di raro si può tranquillamente riposa­re sulla costanza di tal destino. Questa inquietudine, che sta più o meno sempre riposta nel loro cuore, si diminuisce ogni volta che scorgono atti di stima, di subordinazione, e di attaccamento; poichè o sono essi sinceri, e provano il voto pubblico in favore, o sono esterne apparenze soltanto, e queste almeno provano che siam te­muti, conseguentemente che è forte il nostro partito. Questi atti aggiungono un momento di speranza sulla durata del potere, anzi sull’accrescimento. Per lo contrario quegli atti di famigliarità, e di cittadinesca ingenuità, che rallegrano un monarca, con maggior difficoltà rallegreranno un ministro, perchè il primo non teme di perdere la dignità, nè di diventare uomo comune; l’altro lo teme, nè può trovarsi bene in un dialogo che anche per breve spazio lo tra­sporta in uno stato temuto.

Questi pensieri in generale si verificano; nel fatto però vi sono delle eccezioni. Se un sovrano temerà di perdere il trono, non sarà più in questo caso. Se un ministro, bastantemente filosofo per saper viver bene anche senza impieghi pubblici, si presta per principio di virtù al bene del sovrano e dello Stato; s’egli, consapevole de’ proprj servigj e della illuminata rettitudine del sovrano, placidamente eseguirà gli ufficj del suo ministero, potrà diventare insensibile ai fasci ed ai littori che lo precedono, e conservando quell’esterior decoro, che esige la scena ch’ei rappresenta su questo teatro, essere esente nel fondo del cuore da quella inquietudine che comunemente ne risente l’umanità posta in simili circostanze.

O si esamini adunque l’uomo in privata condizione, ovvero si esa­mini ne’ pubblici impieghi, sempre si verifica che il piacer morale non va mai disgiunto dalla cessazione d’un dolor morale; giacchè, come si è detto, piacer morale è sempre accompagnato dalla speranza di esistere meglio di quello che ora esistiamo. Dunque prima che nasca il piacer morale dobbiam sentire un difetto; una cosa che manca al nostro ben essere è sentire un difetto alla nostra felicità, è una sensazione spiacevole e dolorosa; dunque il piacer morale è sempre accompagnato dalla cessazione di un male, giacchè, quan­d’anche sia tenue la speranza, ed ella non diminuisca se non di pochi gradi la sensazione disgustosa che portiam con noi, quella quantità diminuita è altrettanto male che cessa, alla quale quantità è paragonabile il piacer morale.

§ IV. Il piacer morale non è altro che una rapida cessazione di dolore.

Nè perciò abbiamo ancora trovata la vera definizione del piacer morale, perchè, sebbene il piacer morale sia sempre accompagnato dalla cessazion del dolore che presuppone, non però ogni cessazion di dolore produce un piacer morale. Sia per esempio: un cuore sensibile ama teneramente la virtuosa sua sposa; la dolce abitudine di convivere, la uniformità di sentimenti, la bontà del suo carattere, tutto fa che in lei ritrovi la felicità de’ suoi giorni: una feroce malat­tia sopravviene alla sposa e la precipita ai confini della morte. Faci­le è lo immaginarsi quale strazio crudelissimo soffre il cuore dello sposo; ognuno accorderà che questo sia uno de’ più violenti dolori morali. Giunto al colmo il malore con gradi tardi ed insensibili, passa dall’imminente pericolo ad acquistare alcuna speranza di ore, poi di giorni, poi non è affatto disperatissimo il caso; indi appare un piccol raggio di speranza, che gradatamente e lentamente si va rin­forzando, sin tanto che si passa a una lunga convalescenza, indi alla sanità. Supponiamo che senza salto veruno, ma attraversando tutti gli stadi intermedj che non si possono esprimere gradatamente col­le voci, le quali in ogni lingua caratterizzano unicamente i modi principali e decisi, il dolor morale dello sposo sia cessato. In questo caso il sommo dolore s’andò insensibilmente mitigando, si rese poi sopportabile, indi leggiero, sin tanto che placidamente passò alla calma, senza che in un solo istante l’animo dello sposo abbia prova­to un piacer morale. Figuriamoci ora lo sposo medesimo nel punto in cui per una falsa voce piange la perduta sua sposa, e nel momen­to della maggior desolazione si spalancano le porte, entra la sposa inaspettatamente ilare e sana, che si scaglia fralle sue braccia; forse non avrà robustezza bastante nella fibra per resistere alla violenza del piacere; pochi piaceri morali possono essere paragonabili alla delizia di questo. L’istesso uomo nelle due supposizioni passa dal sommo timore al non temere; l’istessa persona nei due casi da un dolore cocentissimo passa alla cessazion del dolore. Perchè mai nel primo caso non provò egli nessun piacere, e vivissimo lo provò nel secondo? Ne’ due casi dall’istesso dolore passò il di lui animo alla cessazione del dolore; come dunque nasce il piacere? Nel primo non ebbe piacere, perchè la cessazione del dolore fu lenta: nel secondo caso ebbe un piacer sommo, perchè la cessazione del dolo­re fu rapida. Se ciò è, abbiamo la definizione dei piaceri morali, e sono una rapida cessazione di dolore.

Dei dolori morali, che insensibilmente si annientano senza sentimento di piacere, ne abbiamo una schiera assai grande, e sono tutti quelli che il tempo solo fa cessare. Lo stesso sposo detto poc’anzi rimane vedovo. Uno squallido universo gli si apre davanti, non ha pace, non la spera, non è più sensibile che al dolore e a quel dolore solo, non prevede più alcun bene nella sua vita. Dopo alcuni anni il dolore è diventato una memoria tenera, ma non tormentosa. Si è annientato il tormento senza che nell’annientarsi sia nato verun pia­cer morale, perchè appunto lentamente, e per gradi, si è estinto.

Il piacere nasce adunque dal dolore e consiste nella rapida cessazione del dolore, ed è tanto maggiore quanto lo fu il dolore, e più ra­pido l’annientamento di esso. Quanto più si diminuisce la rapidità, di tanto viene a scemarsi la sensazione piacevole nella energia. Sin tanto che la cessazione si farà a salti sensibili, l’uomo proverà tanti piaceri quante sono esse cessazioni; e interamente sarà svanito ogni piacere allor quando cesseranno i salti e, lentamente calmandosi il dolore, toccherà l’uomo tutti gli stati intermedj con pausa di tempo.

Pare che tutta la serie delle sensazioni morali adunque corrisponda ai modi possibili di esistere concepiti da noi. Nella nostra fanta­sia, dopo che la sperienza ci ha ammaestrati dei modi diversi ne’ qua­li possiamo esistere, e delle diverse affezioni delle quali possiamo es­sere occupati, si dipinge come una scala di questi diversi modi, e considerando sempre la nostra attuai situazione lontana dalle due estremità del sommo bene e del mal sommo, ci resta che temere e che sperare; quindi prevedendo una prossima discesa a un genere peggiore di vita, ci addoloriamo, e antivedendo la probabilità di ascendere a una vita migliore, speriamo, e ne abbiamo piacere. Che se la nostra attuale situazione potesse da noi considerarsi giunta o al­l’estremità del sommo bene, ovvero a quella della somma miseria, al­lora non vi sarebbe alcuna sensazion morale possibile per noi, per­chè la somma infelicità esclude ogni speranza, il sommo bene esclu­de ogni timore, e così gli uomini sono appunto sensibili alle affezioni morali, perchè si conoscono lontani dalle due estremità. Le sen­sazioni nostre morali sono adunque relative allo stato in cui ci tro­viamo, a quello a cui prevediamo di dover passare. Un determinato modo di esistere non è per sè stesso nè un bene, nè un male; sarà un bene per chi da una vita peggiore vi ascenderà, e all’incontro sarà un male per chi vi decada da una vita migliore. Quanto maggiori sono i salti, e quanto sono più rapidi, tanto è più energica la sensazione. Il voluttuoso, il molle Orazio sarebbe stato consolatissimo, se aves­se potuto diventar collega di Mecenate; ma l’ambizioso, l’accorto Ottavio se avesse dovuto discendere al grado di Mecenate, avreb­be trovato quella situazione la più tormentosa a soffrirsi.

Se i piaceri morali nascono da una rapida cessazione di dolore, ne viene in conseguenza che, quanto meno un uomo è suscettibile dei dolori morali, tanto meno lo sia dei piaceri; ed all’opposto quanto più l’uomo è in preda ai dolori morali, tanto più lo troviamo sensibile ai piaceri. Una nazione colta e vivace, in cui i sentimenti del­l’onore, della gloria e della virtù sieno diffusi sopra un buon nume­ro d’uomini, sarà molto sensibile alla cortesia, alla officiosa urbani­tà, alla lode; ivi l’uomo ragionevole e bene educato potrà vincere l’amor proprio altrui, e cederanno l’ire e le ostilità al dolce solletico della lode e ai contrassegni esterni di onore e di stima. Per lo contrario presso un popolo che sia meno colto, dove i bisogni fisici e l’immediata azione de’ sensi tengano tuttavia più occupata la parte principale della sensibilità, dove, mancando la folla delle idee com­binate e astratte, rimanga l’anima più oziosa ad accorrere alle imme­diate sensazioni, ivi troveremo che o nessuno o tenuissimo sentimen­to faranno nascere i più raffinati ufficj, e nessuna o scarsissima vo­luttà produrranno le lodi e i contrassegni del sentimento di stima. Il selvaggio non ha il dolor morale d’essere trascurato e confuso nella folla degli uomini, perciò non ha piacere d’essere distinto; l’uomo incivilito soffre gli stimoli dell’ambizione, ha dolore pensando di valer poco, di dover essere nascosto tutto entro la tomba, perciò sen­te il piacer morale della lode, ed ogni volta che può lusingarsi di va­lere, d’essere distinto, considerato, onorato, prova voluttuosissime sensazioni. Lo stesso principio distingue la sensibilità dell’uomo virtuoso da quella del malvagio. Due sono le sorgenti della umana vir­tù, e sono il bisogno della stima generale e la compassione. L’uo­mo virtuoso soffre continuamente per questi due principj, teme la volubilità delle opinioni, teme che o l’artificio o il caso possano in­volargli la buona fama, non è mai bastantemente contento del gra­do a cui ella si trova, teme la umana dimenticanza; mosso da tutti questi dolori morali è spinto a continue azioni di virtù umana, cioè di quella che ha per oggetto la gloria, la lode, il sentimento del valor proprio e della propria eccellenza. La compassione, altro principio meno imperioso, ma più benefico, fa patire all’animo buono parte de’ mali altrui; e il dolor morale che nasce da questa disposizione porta l’uomo a liberare gli altri dai malori e dalle sventure che sof­frono. Per lo contrario l’uomo incallito nel mal costume, insensibile ai mali morali, indifferente alla buona o cattiva riputazione, freddo e immobile spettatore delle altrui smanie, perchè minori dolori mo­rali soffre, anche minori piaceri morali può provare.

Se poi sgraziatamente troverassi impegnato nella strada del vizio un cuore originariamente buono e sensibile, lo stato di lui sarà degno di somma compassione; e perciò, tormentato da cocentissimi dolori morali, sarà capace di voluttuosissimi piaceri morali. Egli sof­fre il crudelissimo peso d’una coscienza che ad ogni momento lo avvilisce; quai beni può mai godere in pace quel miserabile, che leg­ge scritto in fronte agli uomini illuminati e buoni il disprezzo e la diffidenza; che in ogni sguardo teme un rimprovero, in ogni arcano la scoperta di qualche sua bassezza; che gode precariamente la buo­na opinione di alcuni sedotti, e la conserva con una laboriosissima sagacità di finzioni e con una intricata tessitura di artificj, e sa che al primo momento in cui gli cadesse la maschera farebbe orrore? Se quest’uomo, che di sua indole è straniero alla iniquità, con uno slan­cio felice carpirà il momento per fare una generosa azione, o se mutando clima, e trasportato ove la memoria de’ suoi mali non giunga, si disporrà a cominciare una serie di azioni nobili e virtuose, egli tanto maggiori piaceri morali proverà, quanto più furono auste­ri i tormenti che il vizio gli pose intorno al cuore; gli sembrerà di respirare un’aria più dolce e leggiera, il sole avrà per lui una più ridente faccia, gli oggetti che gli si presenteranno gli daranno nuove e grate sensazioni, tutta la natura sarà abbellita per lui singolarmen­te al principio della sua onorata vita.

Non però i piaceri morali, che produce la virtù, sono o possono costantemente essere tali che disobblighino gli uomini dal ricom­pensare l’uomo che la pratica. Sono lusinghiere le apparenze sotto le quali alcuni filosofi rappresentarono l’uomo virtuoso, quasi che nella coscienza propria ei debba ritrovare la voluttà sempre pronta, qualunque sia lo stato di vita, o di fortuna, sano o infermo, propizia o avversa; e ravvisarono la virtù sotto l’idea platonica di premio a sè stessa. Felice immaginazione, se fosse atta a riscuotere gli uomini, e guidarli sulle tracce di lei! Ma l’abitudine a ben operare diminui­sce nel cuor dell’uomo il dolor morale del timore della fama, e a proporzione vanno illanguidendo i piaceri morali che vi corrispondono. Alcuni semiviziosi, vedendo l’uomo virtuoso assediato dalla gelosia e dall’invidia degli emoli, amareggiato e contraddetto, s’im­maginano ch’ei trovi perfettamente ogni consolazione nel suo cuo­re, e soffocano in tal guisa il desiderio spontaneo di recargli ajuto. L’uomo virtuoso sente l’ingiustizia di cui è la vittima, sente la debolezza propria contro il numero che l’opprime. Quindi il virtuoso, il forte Bruto, inzuppato della idea della virtù di Platone, dopo averla esattamente seguita nelle azioni, ritrovandosi il cuore oppresso da affanni, proruppe chiamandola un sogno, non già pentendosi di averla seguita, non già negando l’esistenza di lei, ma unicamente confessando la chimera di chi s’immaginò che la tranquilla serenità d’un’anima virtuosa, che la beatitudine di occupare sè medesima della coscienza propria, potessero preservare la mente e il cuore dai dolori, dalle amarezze e da quel cumulo di mali, che l’avversa fortuna precipita indistintamente sugli uomini. La giustizia perciò del grand’Essere ha riservato a sè medesima la distribuzione del premio alla virtù, che non può essere bastantemente ricompensata nè dal sentimento proprio, nè dalla mercede degli uomini.

§ V. La maggior parte de’ dolori morali nasce da un nostro errore.

Quantunque però io creda che la virtù stessa non basti a rendere perfettamente felice l’uomo in terra, dico che l’uomo virtuoso a cir­costanze eguali sarà più felice dell’uomo malvagio. Dico di più: che se l’uomo potesse avere i sentimenti sempre subordinati alla ragio­ne, sarebbe certamente meno soggetto ai dolori morali di quello ch’egli è. Ogni dolor morale è semplice timore. Questo dolore è una mera aspettazione d’un dolore contingibile. Quando siam tormentati da un dolor morale, altro male non soffriamo in quel momento fuorchè il timore di soffrirne; questo timore spesse volte è chimeri­co, e sempre ha un grado di probabilità contro la sua ventura realiz­zazione; può dunque colla ragione o togliersi, o almeno scemarsi, o almeno, vistane l’inutilità di soffrirlo, procurarsene la distrazione. Quanto maggiori progressi facciamo nella vera filosofia, tanto più ci liberiamo da questi mali. Sia per esempio: prendo un ambizioso, nel momento in cui gli viene l’annunzio che una carica da lui an­siosamente desiderata, e quasi certamente aspettata, dal principe vien conferita a un suo rivale. Ecco l’ambizioso nello squallore, nel­l’abbattimento, immerso in un profondo dolor morale. Un freddo ragionatore s’accosta a lui: che fai, uomo desolato e oppresso (gli dice), perchè ti abbandoni così a un vago, e forse chimerico timore? Che temi? Quasi nol sai, confusamente tu prevedi di dover viver male. Ma quai mali prevedi? Gli uomini non avranno per te quei riguardi che tu vorresti, ti stimeranno meno, sarai men ricco? Calmati, e per poco almeno esamina questo timore a parte a parte, non prenderlo tutto in massa. Gli uomini ti mancheran di riguar­di? Qualche inchino meno profondo, qualche adulazione di meno non è una perdita da farti disperare; se ambisci i riguardi degli uomini illuminati, essi non saran cambiati per te. Gli uomini ti sti­meranno meno? Non già gl’illuminati; per il restante hai perduta qualche curvità negli inchini e qualche bassezza di chi mendicava il tuo favore? Non è poi grande lo scapito. Sarai men ricco? Tutt’i mali, che vagamente temi, forse si riducono a salariare due o tre sfaccendati di meno, a nutrire due o tre parassiti di meno alla tua tavola. La tua sanità, la robustezza de’ tuoi anni, il concetto della tua probità, delle tue cognizioni, tutto ciò rimane intatto presso gli uomini ragionevoli, i quali sanno quanta parte abbia il caso nella distribuzion degli ufficj su di questo teatro del mondo; ti resta con che nutrirti, alloggiare, vestirti decentemente. Se un chirurgo doves­se farti soffrire una dolorosa operazione, compatirei il tuo affanno prevedendola; ma se non puoi esser pretore, o tribuno della plebe, o console, sii cittadino, sii ragionevole, non ti turbare per una chimera. Il freddo ragionatore ha una ragione così evidente, che quasi non resta più luogo a compatire l’ambizioso, se continua a delirare fralle tenebre d’un avvenire chimerico. Pure lo compatirà quel­l’umano filosofo, che sa quanta distanza vi sia dalla convinzione al vero sentimento.

Obblighiamo il ricco avaro ad analizzare egualmente il suo dolor morale per una porzione del suo denaro che gli venga tolto. Obbli­ghiamo l’amante che scopre infedele e sconoscente la sua amica, e così andiam dicendo della maggior parte degli uomini appassionati, e conseguentemente più capaci di dolori morali, e troveremo che la maggior parte delle volte si addolorano per chimere sognate, e s’in­grandiscono le larve d’un avvenire, al quale giugnendo poi, non si trovan sì male come previdero. Se dunque i sentimenti nostri potes­sero essere sempre posti al prisma della ragione, e analizzarsi, una gran folla di dolori morali verrebbe ad annientarsi per noi, e farem­mo come quel Cinico, il quale, scoprendo che comodamente potea ber l’acqua nella cavità della sua mano, gittò il bicchiere come un peso inutile nel suo fardello. Ma la previsione dei mali è talmente nebbiosa e tumultuaria nell’uomo appassionato, che non dà luogo sittosto a sminuzzarli uno ad uno; anzi, quantunque talvolta ci avve­diamo che il dolor nostro è una mera apprensione di dolori possibi­li, o probabili, sendo questi tanto vagamente e scontornatamente dipinti alla fantasia, non possiamo nè conoscerli nè apprezzarli con distinzione; ma ci rattristano per le tenebre medesime, che in parte li involgono, e questo sconoscimento accresce in noi la diffidenza di superarli.

Un’altra difficoltà incontra l’uomo per uniformare ai dettami del­la tranquilla ragione tutt’i suoi sentimenti, ed è questa, che difficilmente possiamo noi stessi ritrovar l’origine e la genesi di molti de’ sentimenti nostri: è come un fiume, di cui propriamente non sai indicare qual sia la prima sorgente, poichè lo formano mille piccoli, divisi, e lontani ruscelletti, i quali si frammischiano col discendere; così i sentimenti sono conseguenze di tante, e sì varie, e sì mischiate idee in tempi diversi, e successivamente avute, sì che la mente uma­na si smarrisce, e si perde rintracciando i capi di tanti piccolissimi e intralciatissimi fili che ordiscono la massa d’una passione; e come d’un fiume non puoi toccare con sicurezza il punto onde comincia, così nemmeno esattamente puoi toccare il più delle volte l’idea pri­mordiale da cui nasce un sentimento.

Se però nè tutti i dolori morali, nè la maggior parte di essi è spe­rabile di prevenirli coll’uso della sola umana ragione, ella è però cosa certa che varj possono da quella essere scemati, come dissi. L’uomo selvaggio ha pochissimi dolori morali; l’uomo incivilito ne acquista in gran copia; l’uomo che perfeziona l’incivilimento adde­strando la sua ragione, e applicandola alle azioni della vita, costan­temente quanto si può, torna, riguardo ai dolori morali, ad accostarsi al selvaggio. Così, quale nelle scienze dall’ignoranza si comincia e all’ignoranza si ritorna, passata che siasi la mediocrità; tale nella coltura si parte dalla tranquillità, si va al tumulto, e da quello pro­gredendo si avvicina di nuovo alla tranquillità.

§ VI. Sviluppamento della teoria dei piaceri e dei dolori morali.

Sinchè un uomo però è capace dei due sentimenti motori, timore e speranza, è soggetto ai dolori e ai piaceri morali. Questo modo di sentire, assente l’oggetto esterno, è un fenomeno che dipende inte­ramente da quell’ignota parte di noi che chiamasi memoria: parte di me, che agisce sopra di me, che tien luogo di oggetto esterno, che da sè eccita moti e passioni, che, essendo io paziente, opera in me, mio mal grado talvolta, e forma essa sola quel me, quell’io, che con­siste nella coscienza delle mie idee; quest’enigma della mia propria essenza tanto umiliante, questa memoria è la produttrice di ogni mio piacere, o dolor morale, poichè non si danno questi se non per la speranza, o pel timore; nè speranza, o timore senza idee dei beni, e dei mali; nè queste senza averli provati, e risovvenirsene.

Come mai, quando la fantasia ci rende presente l’aspetto de’ mali futuri, e ci agita il timore, nasce in noi la sensazion del dolore? Que­sto è un mistero, che l’Autore dell’universo non ha conceduto al­l’uomo di penetrare. La cagione delle sensazioni nostre è talmente oscura, che l’ingegno dispera di rintracciarla giammai. Quando un ferro rovente a caso si accosti alle mie membra, risento un dolor fisico: so che allora ivi si lacera, e si scompone la mia macchina, so che risento dolore; ma qual relazione abbiano questa lacerazione e questo scompaginamento colla mia sensazione del dolore, non lo so. Se non intendo questa relazione, se non distinguo gli anelli di quel­la catena che unisce la fisica lacerazione colla sensazione dolorosa, quantunque una delle due estremità sia da me conosciuta, come mai spererò di conoscere e distinguere gli anelli di quell’altra catena, che comincia dall’immagine presentata dalla memoria e termina alla sensazione? In questo secondo caso non conosco nè l’una, nè l’altra delle due estremità. Forse la memoria quando è vivacissima, e chia­masi fantasia, cagiona una irritazione nelle parti più interne della mia macchina. Il pallore, l’ansietà del respiro, il precipitoso battere delle arterie, il tremore delle membra, la torbidezza dello sguardo, che accompagnano la sola viva apprensione del male senza alcuna fisica azione esterna attuale, possono far credere probabilmente uno scompaginamento interno prodotto da quella stessa facoltà di ricor­darci, che è la sorgente della maggior parte de’ beni, come de’ mali della vita. Ma in questa materia non si può cautamente ragionare se non col forse.

Dirà taluno: è vero che ogni piacer morale consiste nella rapida cessazion del dolore; ma egualmente potrà dirsi che ogni dolor mo­rale consiste nella rapida cessazion di un piacere. Ma a ciò rispondo che una simile generazione reciproca non si può dare, e, per conoscere che ciò non si può, basti il riflettere che, se ciò fosse, non po­trebbe l’uomo cominciar mai a sentire nè piacere, nè dolor morale; altrimenti la prima delle due sensazioni di questo genere sarebbe e non sarebbe la prima in questa ipotesi, il che è un assurdo. Eccone la prova. Dopo il momento in cui l’uomo ha ricevuto la vita, vi deve essere un primo piacer morale e un primo dolor morale. Supponia­mo noi che la prima di queste due sensazioni sia un piacere? Se que­sto consiste nella rapida cessazione di un dolore, è stato preceduto dunque da un dolore; dunque la sensazion del piacere non è stata la prima. Supponiamo noi in vece che la prima sensazione sia stata un dolore? Se fosse vero che questo consistesse nella rapida cessazion d’un piacere, il dolor pure non sarebbe stato la prima sensazione. Dunque evidentemente si conclude non esser possibile quest’alternativa essenziale generazione; e se il piacer morale consiste nella rapida cessazione d’un dolore, ne viene per conseguenza sicura che il dolor morale non può consistere nella rapida cessazione del piace­re, perchè il primo piacer morale, che ha sentito l’uomo, sarà nato dalla distruzione rapida di un dolore, che non è stato preceduto da verun piacere. Dunque o nè l’una nè l’altra di queste generazioni è vera, oppure se una di esse è vera, l’altra è impossibile. Se dunque concludentemente si prova che il piacer morale sia una cessazione rapida d’un dolore, ne verrà per conseguenza che il dolor morale non può consistere in una cessazione rapida di un piacere.

Il sig. di Maupertuis ha voluto calcolare i piaceri e i dolori, e il risultato che ne scaturisce al paragone si è che la somma totale dei secondi eccede; onde, valutata l’intensione e la durata delle affe­zioni dell’animo nostro, più pesano le disgustose che le amabili, e più soffriamo di quel che godiamo, qualunque sia la condizione e fortuna nostra nel corso della vita. Questa conseguenza, che ogni uomo trova pur troppo vera nella serie delle umane vicende, scatu­risce, almeno per le sensazioni morali, dalla stessa definizione che abbiam ritrovata del piacere. Questo è una rapida cessazion di dolo­re; questo non può mai essere una quantità maggiore di quella che ha fatta cessare; può essere assai più energico, perchè concentrato in pochi istanti; ma la somma totale, distesa per lo spazio di tempo in cui si è sofferto il dolore che rapidamente è ceduto, non può esser minore dell’effetto. Ogni piacer morale che si gode suppone una quantità uguale per lo meno di dolore che si è sofferto; sin qui, potrebbero essere bilanciate le due quantità. Ma tutt’i dolori che non terminano rapidamente sono una quantità di male che nella sensibilità umana non trova compenso, ed in ogni uomo si danno delle sensazioni dolorose che cedono lentamente. Dunque se è vera la definizione già data al piacer morale, di necessità deve l’uomo più soffrire che godere nella serie delle sensazioni morali.

Un’altra conseguenza scaturisce da questo principio, ed è che non può l’uomo sentire due piaceri morali contigui, se il primo almeno non è frammisto a qualche porzion di dolore; poichè, il secondo piacere consistendo nella cessazion rapida di un dolore, forz’è che questo dolore coesistesse col piacer primo. Quindi due piaceri perfetti di seguito nella serie delle sensazioni morali saranno impossibili a darsi, ma necessariamente dovrà interporvisi un dolo­re, la di cui rapida cessazione cagioni il secondo; ed ecco perchè la felicità vera e depurata da ogni male non possa fisicamente essere uno stato durevole nell’uomo, nemmen per poco, ma appena per brevissimi intervalli ne vegga dei lampi, per ripiombare ben tosto nel desiderio animatore di riaccostarsi a quella seducente immagine, di cui sollecito e ansante va in cerca durante lo spazio della sua vita. È una verità malinconica, ma egualmente costante, che l’uomo può essere occupato da un seguito non interrotto di dolori, e discendere per lungo tratto di tempo verso la infelicità senz’altro limite che la stupidità, o la morte; perchè uno scompaginamento, una lacerazione, una distensione ne’ nostri organi non esclude una successiva nuova lacerazione, scompaginamento, e distensione: laddove, sebbene possa succedere a un piacere frammisto con molto dolore una nuova cessazione rapida di altra parte di dolore, e così un piacere meno amareggiato, sin tanto che si giunga a un mo­mento di felicità, questa scala però nell’ascendere non può essere tanto lunga, quanto lo è quella della discesa. In fatti il dolore o morale o fisico può occupare miseramente un uomo per più giorni, senza lasciargli intervallo o pace bastante per chiudere gli occhi al sonno; ma nessuna serie di piaceri vi sarà che basti a tenere occupa­to piacevolmente un uomo più giorni senza che il sonno, la lassitu­dine, la sazietà l’abbiano interrotta. Non v’è piacere o morale, o fisico, il quale non s’annienti nell’animo nostro alla sensazione d’un forte mal di capo, o di denti. Ecco perchè l’immaginazione d’ogni uomo facilmente può figurarsi un cumulo di mali, e uno stato dure­vole di pene, e di assoluta miseria; e per lo contrario non può, nem­meno nel liberissimo regno della nostra immaginazione, dipingersi uno stato di vita sempre giocondo e felice, libero da ogni noja e da ogni sazietà. Ecco perchè le descrizioni del Tartaro riescano sempre più colorite e verosimili di quelle dell’Eliso, le quali dopo inutili sforzi compajono stentate e fredde, quand’anche sien fatte da uomi­ni dotati di somma immaginazione. La religione può sola consolarci a vista di queste triste verità; essa ci assicura di un tempo in cui, modificatasi altrimenti la sensibilità nostra, saremo capaci d’una serie non interrotta di purissimi piaceri, della quale frattanto portia­mo inerente a noi stessi il desiderio.

§ VII. Dei piaceri e dei dolori fisici.

Ho ragionato sin ora dei piaceri e dolori morali, e di questi credo d’aver ritrovata l’indole e la definizione, dicendo essere i primi una rapida cessazion di dolore, e i secondi un timore; resta ora che en­triamo nella medesima analisi su i piaceri e dolori fisici, affine di conoscere se essi sieno d’uguale, o d’indole diversa dei morali.

Ogni lacerazione che si faccia sopra di un corpo vivente o col fer­ro, o col fuoco, ovvero colla compressione, cagiona quel sentimento che esprimiamo colla parola dolore. I gradi poi di intensione diffe­rente hanno fatte inventare le parole irritazione, incomodo, pena, smania, spasimo, e desolazione, colle quali s’indica il dolore a misu­ra che dalla più debole azione passa ai modi più forti e violenti, giunto ai quali distrugge la sensibilità medesima, e l’annienta colla vita. Tale è la cagione di ogni dolore fisico, che sempre nasce da una lacerazione o sulle esterne, ovvero sulle parti interne del nostro cor­po; giacchè anche la semplice compressione o stiramento delle par­ti sensibili, sebbene non sempre lasci dopo di sè la cicatrice visibile della lacerazione, non può comprendersi se non immaginando una separazione violenta di alcune parti della organizzazione. Sin qui mi pare di appoggiarmi al vero, e di poter affermare il dolor fisico esser sempre cagionato da una lacerazione e distacco delle parti sen­sibili; ma come questa lacerazione produca in me il dolore, come questo porti e noi e gli animali tutti alla fuga, al moto, alle grida, questo è l’arcano, che io dispero di giammai conoscere. Il sig. di Maupertuis mi ha detto che il dolore è una sensazione che dispiace di avere, e lo saprei da me stesso, come ognuno lo sa; ma non per questo siamo noi avanzati punto nel labirinto della sensibilità. Giunto che io sia a conoscere che la lacerazione e separazione di una parte sensibile produce il dolor fisico, e che questo non si dà senza di quella, io non ho più guida per fare un passo sicuro avanti: allora rimango abbandonato alla immaginazione; essa mi fa parere che la sensibilità nostra si raggruppi, per così dire, e si condensi tut­ta intorno la parte del corpo nostro che soffre lacerazione; sembra che il dolore sia un rannicchiamento forzato del nostro animo, e che la gioja che gli succede, qualora cessi rapidamente, sia una espansione dell’animo istesso, che ripiglia il suo elatere, e si dilata sugli oggetti più rimoti. Sembra ancora che una tale condensazione della nostra sensibilità non si faccia al momento, ma con prevenzio­ne, e apparecchio: soffriamo assai più dolore per un piccol taglio fattoci da un chirurgo, di quello che ne proviamo se una spada improvvisamente ci trapassi il corpo; nel primo caso la lacerazione sarà minima e per lo spazio, e per la finezza dell’acciajo, e ci doglia­mo, mentre appena ci accorgiamo nel secondo d’essere feriti. Ciò mi induce a credere che per ammassare me stesso in una data parte del mio corpo, e trasportarvi la sede della mia sensibilità, e attenta­mente esaminare quanto ivi accaderà, conviene che in prima io ne sia avvisato; altrimenti diramando l’animo nostro una sensibilità eguale su tutto il nostro corpo, quella sola porzione di sensibilità è colpita nelle lacerazioni impensate, che trovavasi al luogo in cui seguì la distrazione; e questa, se però basta a renderci quasi indiffe­renti i colpi non antiveduti, basta altresì ad avvisarci del danno acca­duto, e condensarci poi d’intorno ad esso per una disgraziata attrazione, che ci rende più cocente il dolore. Ma queste immagini non sono appoggiate a fatti o a sperienze tali da renderne contento un pensatore. Tale è la condizione nostra, che, dei movimenti che suc­cedono in noi medesimi quando ci troviamo ridotti all’ultima anali­si, mancano i mezzi e gli stromenti per separare gli elementi e le fila originarie. Abbandoniamo perciò il pensiero di conoscerne l’essen­za, e accontentiamoci di sapere che il dolor fisico è un sentimento cagionato dalla lacerazione delle parti sensibili.

L’istessa impenetrabile nebbia sta intorno al sentimento del pia­cere; non ne cerchiamo l’intima essenza, ma, per accostarci al miste­ro che lo racchiude, io considero che una gran parte de’ piaceri fisici consiste in una rapida cessazione di dolore. Arso dalla sete, dopo lungo cammino fatto ai cocenti raggi del sole nella calda stagione, dopo averla sofferta per lungo tempo e cercato inutilmente ristoro, trovo finalmente una fresca soavissima bevanda; in quel momento provo un piacer fisico assai sensibile, e questo facilmente si vede cagionato dalla rapida cessazion del dolore. Affamato trovo una lau­ta cena: tanto ne è maggiore la delizia, quanto più forte la fame sof­ferta, e questo piacer fisico è pure una rapida cessazion di dolore. Oppresso dalla stanchezza trovo un letto agiato; intirizzato dal freddo vengo trasportato a un tepido ambiente. Questi sono piaceri vivissimi, piaceri fisici, cioè cagionati da una visibile azione sugli organi, e sono piaceri consistenti nella rapida cessazion del dolore. Se ben si rifletta, si troverà che la maggior parte dei piaceri fisici è di questo genere, e che evidentemente si conosce consister essi in una rapida cessazion di dolore.

Molti oggetti si osservano con tranquillità da un anatomico; mol­te idee si analizzano senza tumulto di passione da un curioso investigatore de’ principj; ma talvolta il risultato pericolosamente si pre­senterebbe nell’estrema sua semplicità all’esame del pubblico. L’uo­mo curioso di meditare, che leggerà queste mie ricerche, non mi vorrà rimproverare ogni omissione, e qualche applicazione negligentata non farà presso di lui pregiudizio alla teoria.

Talvolta l’uomo anche senza avvedersene risveglia in sè medesimo delle sensazioni inquietissime e penosissime unicamente per sentir­le rapidamente cessare. Forse l’uso di quella polve caustica che so­gliamo fiutare; forse l’uso che alcuni fanno masticando un’erba di­sgustosa e sozzamente preparata; forse l’abituazione a riempirsi la bocca col fumo d’un vegetabile stimolante, l’uso della senape nel­le vivande, e simili, sono stati introdotti per questo principio. Molti uomini protraggono il passeggio o il ballo sino alla stanchezza per sentirla rapidamente cessare adagiandosi. Questa classe di piaceri procuratisi da noi colla volontaria creazione d’un previo dolore non sono tanto circoscritti quanto sembrerebbe al primo aspetto.

Se dunque tutt’i piaceri morali, e una gran parte dei piaceri fisici consistono nella rapida cessazion di dolore, la probabilità, l’analo­gia, ci portano a credere che generalmente tutte le sensazioni piace­voli consistano in una rapida cessazion di dolore. Quello che più d’ogni altra cosa mi persuade, si è il riflettere che molte volte l’uo­mo ha dei dolori, ma avendo essi la lor sede in qualche parte dell’or­ganizzazione meno esattamente sensibile, soffre bensì, ma non sem­pre sa render conto a sè stesso del principio che lo fa soffrire, e dal­la cessazione rapida di quel dolore innominato ne nascon dei piace­ri, dei quali la sorgente esattamente non si conosce. In prova di ciò si rifletta ai diversi nostri modi di sentire. Le parti del nostro corpo più abituate al tatto, quando sieno offese da qualche corpo estrinse­co, danno una sensazione decisa, per cui ci accorgiamo precisamen­te della azione che si fa sopra di noi. Le parti per lo contrario meno abituate al tatto, quando vengono esposte all’azione d’un corpo estraneo, ci producono una sensazione più muta e incerta; e sebben distinguiamo se sia dolorosa o piacevole, non però finitamente conosciamo qual precisa azione si faccia sopra di noi. Per esempio: se alla parte interna delle dita un corpo mi cagionerà dolore, io distin­guerò esattamente se sia per troppo freddo, o troppo caldo, se ta­gliente, se pungente; distinguerò se il dolore che soffro venga da pressione, da division di parti, da lacerazione, ec. Ma se la medesi­ma azione si farà sopra un piede, ovvero sopra un braccio, parti me­no esercitate al tatto, l’uomo sentirà un dolore, ma esattamente non saprà se vengagli fatta pressione, o lacerazione ec. Progredendo in questo esame io trovo che le parti interne della nostra organizzazio­ne sono sensibili alle azioni dei corpi, che possono ferirle, lacerarle, o irritarle; ma essendo esse più di rado toccate, ancora più muta e indecisa ne risulta la sensazione. Un dolor di capo suppone certa­mente qualche irritazione interna sugli organi; ma qual è il punto preciso che duole? Il dolore è egli una puntura? È egli una disten­sione? È egli una pressione? Nol so. Duole il capo, l’uomo sta male, ma precisamente non può nominare il luogo, il punto, in cui succede lo sconcerto. I dolori alle viscere sono dell’istessa natura; vaga­mente si può dire presso a poco in questo spazio sento il dolore; ma non se ne può con precisione indicare il luogo, o la qualità dell’azio­ne che ci fa soffrire. Il dolor de’ denti medesimo, per quanto sia cru­dele e violento, talvolta è incerto a segno che indichiamo un dente sano come sede del dolore, il quale realmente risedeva nel dente vi­cino cariato, e fattovi più attento esame chi lo soffre se ne avvede. Ciò accade perchè, come dissi, le parti di noi meno avvezze al tatto ci cagionano sempre delle sensazioni annebbiate ed equivoche. In fatti che altro significano queste parole tedio, noja, inquietudine, malinconia se non un modo di esistere doloroso senza che ci accor­giamo di qual natura sia, o in qual parte di noi la sede del dolore? Ciò posto io rifletto che ogni uomo ha quasi sempre seco qualche dolore di questa natura, perchè ogni uomo ha qualche fisico difetto nella sua macchina; per esempio qualche viscere sproporzionata­mente grande, o angusto; qualche corpo estraneo o nel fiele, o ne’ reni, ec. Un anatomico avrebbe di che troppo contristare un lettore colla serie de’ mali che può aver l’uomo entro di sè senza avvederse­ne; mali, i quali ci cagionano dei vaghi e innominati dolori, cioè do­lori che più o meno ogni uomo soffre senza esattamente distinguer­ne la cagione, e sono questi dolori innominati, dolori non forti, non decisi, ma che ci rendono addolorati senza darci una idea locale di dolore, e formano vagamente sì, ma realmente il nostro mal essere, l’uneasiness conosciuta dal pensatore Giovanni Locke. Questi dolo­ri innominati sono a parer mio la vera cagione di que’ piaceri fisici, i quali a primo aspetto sembrano i più indipendenti dalla cessazion del dolore.

§ VIII. I piaceri delle belle arti nascono dai dolori innominati.

La musica, la pittura, la poesia, tutte le belle arti hanno per base i dolori innominati in guisa tale che, se io non erro, se gli uomini fos­sero perfettamente sani e allegri, non sarebbero nate mai le belle arti. Questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri più delicati del­la vita. Esaminiamo in fatti l’uomo nel momento in cui è veramente allegro, contento, e vivace, e lo troveremo insensibile alla musica, alla pittura, alla poesia e ad ogni bell’arte, ammeno che la preceden­te abituazione meccanicamente non lo porti a riflettervi, ovvero la vanità di mostrarsi sensibile non lo renda ipocrita in quel momento. L’uomo vigoroso, che ha la contentezza nel cuore, è nel punto il più rimoto dalla sensibilità: questa s’accresce col sentimento della nostra debolezza, dei nostri bisogni, dei nostri timori. Un uomo che abbia della tristezza, s’egli avrà l’orecchio sensibile all’armonia, gusterà con delizia la melodia d’un bel concerto, s’intenerirà, si sen­tirà un dolce tumulto di affetti, godrà un piacer fisico reale, cioè sarà rapidamente cessato in lui quel dolore innominato da cui nasceva la tristezza, coll’esser l’animo assorto nella musica, e sottrat­to dalle tristi e confuse sensazioni di dolori vagamente sentiti e non conosciuti. Anzi per uscire dalla tristezza che lo perseguita, l’uomo da sè medesimo si ajuta, e cerca d’abbellire e d’animare coll’opra della fantasia l’effetto delle belle arti, e, per poco che abbia l’anima capace d’entusiasmo, come nella casual posizione delle nubi ei ravviserà le espressioni di figure in vario atteggiamento, così nelle variazioni musicali s’immaginerà molti affetti, molti oggetti, e molte posizioni, alle quali il compositor medesimo non avrà pensato giammai. La musica singolarmente è un’arte nella quale il compositore dà occasione a chi l’ascolta di associarsi al suo travaglio per otte­nere l’effetto della illusione. Una bella pittura, una sublime poesia, faranno qualche senso anche in chi non ne abbia gusto, o passione; ma una bella musica resterà sempre un romore insignificante per chi non abbia orecchio a ciò fatto, e positivo entusiasmo, per la ragione già detta che la musica lascia fare la più gran parte alla immaginazio­ne di chi l’ascolta. Perciò la medesima musica piacerà a diverse persone nel tempo medesimo in cui le sensazioni di esse saranno diver­sissime; uno la troverà sommamente semplice e innocente, l’altro tenera e appassionata; il terzo la troverà armoniosa e ripiena, e così dicendo; le quali diversità non accaderanno sì facilmente nel giudicare della pittura, nè della poesia; perchè, come dissi, in queste l’artista è attivo e l’ascoltatore, purchè abbia una squisita sensibilità, è quasi puramente passivo; laddove nella musica l’ascoltatore deve coagire sopra sè stesso, e dalle diverse disposizioni del di lui ani­mo accade che ora in un modo, ora nell’altro agisca, e sieno così diverse le sensazioni prodotte dal medesimo oggetto occasionale.

La pittura parimente non occuperà l’animo ilare e giocondo di un uomo in un momento felice; ma per poco ch’egli sia rattristato da qualche passione, o dolore innominato, l’uomo si presterà alla di lei azione, e da quella l’animo di lui resterà più o meno occupato. Le anime appassionate saranno più sensibili ai quadri i quali sveglino sentimenti. Gli altri meccanicamente conoscitori potranno essere assorbiti dalla maraviglia per le difficoltà superate dall’artista, per la destrezza e giudizio col quale son disposte le figure, le ombre, e i colori. Nell’animo assorbito da quest’oggetto cessa rapidamente il dolore innominato, e ne nasce il piacere; ma per gustare un più gran numero di piaceri nella pittura conviene ch’ella desti nel cuore de’ sentimenti; la cessazione dei dolori innominati allora è più frequen­te, perchè più l’anima viene con ciò distratta dallo stato di prima, e interamente occupata di oggetti, che creano dolori, e gli estinguono, e li riproducono, e rapidamente gli annientano a vicenda. Io ho provato un piacere assai vivo nel mirare la prima volta un quadro rappresentante la partenza d’Attilio Regolo da Roma. L’eroe cam­peggia nel mezzo, vestito della toga, e del lato clavo: la fisonomia presa dall’antico esprime una placida e ferma virtù; pareami però nel riflettervi ch’ei premesse a forza un profondo dolore. Egli è nell’atto di incamminarsi alle navi cartaginesi che sono sul Tevere, alle sponde del quale si passa l’azione. Conobbi alla somiglianza il figlio dell’eroe; fanciullo ancora, sembra opporsi passionatamente al passo di suo padre, mentre una figlia si copre il volto colla mano del padre in atto di baciarla, e stringendola fralle due tenere sue mani, cela le proprie lagrime, e la sua disperazione. Poco discosto da Atti­lio sta il console romano; la tranquilla maestà che gli signoreggia nel volto non gli toglie punto i tratti d’una sensibile e dolente amicizia. Una folla di romani stassene dalla parte del console, e i più rimoti s’arrampicano sulle piante per veder l’eroe al grand’atto. Una roma­na, che si vede per il dorso stendente il braccio verso l’eroe e addi­tandolo a un suo pargoletto, sembra ammaestrarlo con quest’esem­pio, e dirgli: mira, quegli è un romano. Frattanto due cartaginesi abbronziti sul mare, e che si distinguono al barbaro vestito, non meno che per i tratti odiosi della lor fisonomia, compajono attoniti e confusi. Tutto il quadro esattamente è conforme al costume, e spi­ra maestà, grandezza, e sentimento. La voluttà che ne provai non fu breve; mi sentii commovere come da una tragedia; mi feci illusio­ne, come se esistessero gli oggetti; m’immaginai i loro sentimenti, le loro parole in quell’atto; tristezza, compassione, rispetto, ammira­zione, stupore, furono i diversi affetti che successivamente mi agitaron l’animo. L’idea di questo quadro pieno di calore e di grandez­za è nata da un gran ministro per cui fu fatto, il di cui genio ha operato una felice rivoluzione negl’ingegni dei popoli alla sua cura confidati.

Parimente al teatro uno spettatore veramente lieto e vegeto si troverà poco sensibile, e sarà continuamente distratto; laddove per lo contrario l’uomo che trovisi un po’ infelice s’intenerirà, singhiozze­rà, proverà una voluttà squisitissima alla rappresentazione d’una buona tragedia. L’uomo, le poche volte nelle quali veramente sta bene entro di sè stesso, non si piega mai, nè si lascia assorbire da un solo oggetto; i nostri affetti, le nostre idee sarebbero di lor natura re­pubblicane, e non consentono in fatti a soffrire un dittatore se non quando i torbidi interni ci costringono. Ogni uomo entusiasta, ogni uomo, che appassionatamente ama o una scienza, o una bell’arte, o un mestiero, o cosa qualunque, non l’ama per altro se non perchè egli è originariamente infelice con sè medesimo, e tanto più avida­mente ama i mezzi per sottrarsi, quanto è maggiore la somma dei dolori innominati ch’ei soffre abbandonato a sè medesimo. L’uomo che esiste male, isolato, cerca di darsi in preda ad un oggetto prepoten­te per essere da quello occupato; ma l’uomo robusto, lieto, e felice sfiora sorridendo gli oggetti, e signore della natura domina le sensa­zioni proprie tranquillamente; quindi poca o nessuna compassione troverai presso di lui non già per durezza o malignità, ma per la vo­lubilità naturale del suo felice animo, che leggermente si occupa, tut­to vede, nulla esamina, e sente un solletico bensì nelle idee, ma non urto, nè impeto giammai. Molti hanno detto che gli sciocchi sono felici; io anzi dico che i felici sono sciocchi, perchè l’uomo che non soffra il pungolo del dolore, e che tranquillamente viva vegetando, non ha una ragion sufficiente per superare la inerzia, e attuarsi presso di verun oggetto; quindi nessuna parte dell’ingegno se gli può sviluppare, e nessuna idea viene da lui esaminata attentamente. Non v’è principio che lo obblighi a balzar fuori dall’indolenza, ed affron­tare la fatica. Non è dunque la sciocchezza cagione della felicità, ma al rovescio l’uomo è sciocco perchè è felice. In fatti troveremo che tutti gli uomini che coltivano le scienze e le arti con qualche buon successo furono spinti dalla infelicità e dalla folla dei mali sulla la­boriosa carriera che hanno battuta. Leggiamo le memorie degli uomini più illustri in qualsivoglia parte dell’umano sapere, e trovere­mo costantemente che o la domestica inopia, o la persecuzione, o il disprezzo altrui, ovvero i mali di una cagionevole organizzazione gli spinsero all’azione, al moto, alla fatica; la qual fatica per sè stessa è dolorosa, e non si abbraccia dall’uomo naturalmente se non quan­do, inseguito da un dolore ancora più grande, spera in essa di ritro­vare un salvamento; ella è un dolore meno grande dell’altro che si soffrirebbe senza di lei; e l’uomo, fuggendo sempre il dolore, lo ab­braccia non per acquistare una quantità di esso, ma per rifiuto e fu­ga della porzione eccedente: ed ecco come, non solamente ogni piacere che risvegliano le scienze e le belle arti nasca dai dolori prin­cipalmente innominati, ma dai dolori nasca ogni spinta a conoscer­le, a coltivarle, a ridurle a perfezione. Così l’idea terribile del dolore è l’archetipo di quella serie di purissimi piaceri che fanno la delizia delle anime più delicate e sensibili.

Sebbene parlando dei dolori innominati io principalmente gli abbia attribuiti all’azione fisica immediata dei corpi sugli organi nostri, non intendo dire perciò che una parte di questi non venga anche da sensazioni morali mal conosciute. Nella società di persone le quali mostrino indifferenza per noi, o poca stima, proviamo un dolore innominato, e lo chiamiamo noja; quando quel sentimento è più deciso e conosciuto, lo chiamiamo umiliazione, dispetto ec. L’amor proprio riempie l’animo nostro di sentimenti innominati qualunque volta sia offeso mediocremente, e senza grand’impeto. I dolori innominati adunque possono essere o fisici o morali; sono soltanto alcune affezioni dolorose sordamente, le quali fanno un mal essere in noi, senza che la riflessione nostra ne abbia analizzata e riconosciuta esattamente la cagione.

§ IX. Applicazione del principio alle belle arti.

Se il fine delle belle arti si è quello di cagionar piacere, e allettarci con esso a ben accoglier l’utile, dalla teoria esatta del piacere ben conosciuta dovrebbero dedursi come corollarie conseguenze i principj primordiali delle belle arti istesse. Non è tanto difficile all’arti­sta di colpire e sorprendere al bel principio, quanto assai più è difficile il conservarsi attento lo spettatore, e con una serie di piace­ri sempre gradatamente crescenti, sebbene interrotti, impegnarne l’attenzione per qualche tempo costante. Le prime arcate clamorose d’una grande orchestra; il primo periodo d’un oratore, che con enfasi declami; il primo affacciarsi d’un quadro grande e colorito vivacemente; la prima scena d’una rappresentazion teatrale ottengo­no facilmente il fine di aver lo spettatore attento e occupato d’un primo piacere, quale si è la sorpresa, da cui nasce l’istantanea cessa­zione dei dolori innominati, e la distrazione da sè medesimo. La grand’arte consiste a sapere con tanta destrezza distribuire allo spet­tatore delle piccole sensazioni dolorose a fargliele rapidamente ces­sare, e tenerlo sempre animato con una speranza di aggradevoli sen­sazioni, in guisa tale ch’egli prosegua ad essere occupato degli oggetti proposti, e terminatane l’azione, richiamandosi poi la serie delle sensazioni avute, ne veda una schiera di piacevoli, e sia conten­to di averle provate. A tal proposito io osservo che sarebbe intollerabile una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e sparse delle dissonanze, le quali cagionano una sensazione disgradevole, e in qualche modo dolorosa; così nella poesia dei versi aspri distribuiti sapientemente a tratto a tratto cagionano una sensazione disgustosa, e rapidamente la fanno cessare armoniosi e sonori versi. Così nella pittura alcune ombre più crude, alcuni tratti di pennello studiatamente strapazzati sono un oggetto spiacevole a vedersi, ma ci fanno gustare la delicatezza, la luce, il colorito, e il finimento del restante. Le belle donne amano più di comparire di notte, anzi che colla luce del giorno; di giorno il gran corpo della luce parte da un canto solo, tutte le prominenze del volto, tutte le cavità ricevono un’ombra, la quale rende marcati i tratti. Una sala di ballo signoril­mente illuminata, in vece, riceve la luce da tutte le parti in un colpo stesso, tutta la figura è uniformemente rischiarata, e quasi sempre in ciò: che reciprocamente non tanto i suoni delle voci, ma le imma­gini ancora si alternino disgustose, poi aggradevoli e gentili.

Un seguito d’idee tutte geometricamente ordinate, e con simmetria disposte, forma un libro eccellente per insegnare una scienza; ma un’opera piacevole, elegantemente scritta, fa ritrovare le grazie e i vezzi frammezzo a un leggiadro disordine. L’abile artista in ogni genere debb’essere come il voluttuoso giardiniero d’Aristippo. Un lunghissimo viale piano, uniforme, fra due siepi paralelle, t’invi­ta a un nojosissimo passeggio, che sempre ti presenta l’oggetto medesimo, e ti guida alla stanchezza prima che ti sia avveduto d’aver cambiato di luogo. A quel viale s’assomiglia ogni opera labo­riosa, esatta, regolare, ove non siavi verun lato negligentemente toc­co. Quel viale è un placido poema di versi tutti sonori, è una musica tutta di consonanze, è una pittura cinese tutta monda e di vivaci colori. Non v’erano viali nel giardino di quel filosofo. Il passeggio era preparato con una varietà deliziosa. Un sentiero t’invitava al bosco, l’attraversavi calpestando l’erbe e i fiori che i raggi del sole non avean veduti mai: una fresca umidità, un sacro silenzio regnava­no d’intorno, e quasi provavi spiacere e timidezza, come se ivi ti ritrovassi separato dal soccorso degli uomini; appena questo senti­mento cominciava a molestarti, improvvisamente eccolo cessato; termina il bosco, e ti si affacciava da un lato la vista d’una spaziosa campagna popolata di case; spigni l’occhio quanto puoi, non troverai altri confini che l’orizzonte. Esaminavi deliziosamente quest’og­getto; ma t’inquietava la curiosità di godere d’altre sorprese, che ben conoscevi esserti preparate ancora dopo un sì giudizioso princi­pio, e questa curiosità, molestamente scuotendoti, ti obbligava ad inoltrarti. Dopo pochi passi inutilmente ti rivolgevi per rimirar nuo­vamente la bella vista, perchè una collinetta vicina rimaneva frappo-sta all’oggetto, e come un bel sipario chiudeva la passata scena. Qui diventava più angusto il teatro che avevi davanti gli occhi; varj ruscelli parte cadenti, parte lambenti lo strato della collina occupa­vano piacevolmente il tuo sguardo. Restava da ascendere. Il sentie­ro diventava rapido, e di qualche incomodità. Appena cominciavi a provarne dolore e stanchezza, eccoti una grotta non prima veduta, dove l’acqua zampilla da ogni parte, e dove agiatamente ti sedi a rimirarla. L’acqua sapientemente diretta ivi dava moto a concerti musicali, che ti sorprendevano perchè inaspettati. La dolce melodia pastorale ti lasciava in preda a soavissime immagini; l’ardita sinfonia della guerra e della caccia ti urtava in seguito, e ti rinvigoriva sin che, destandoti nuovamente l’importuna curiosità, ti alzavi e prose­guivi il passeggio, frattanto già punto da due dolori, stanchezza e curiosità. Il cammino giudiziosamente ti riconduce d’onde partisti senza la noja di replicarti le stesse sensazioni. Ora ti ricreano i soa­vissimi odori de’ fiori e delle piante più rare, in seguito un prospet­to impensato di antica architettura rovinata dal tempo; qui un tem­pietto, là un parco di fiere, poi un piccolo canale navigabile ti sorprendono aggradevolmente, e fanno rapidamente cessare i senti­menti dolorosi che naturalmente s’intrudono fra l’uno e l’altro oggetto, e ritornavi all’albergo dopo un’ora beatamente impiegata, pago del modo col quale eri frattanto vissuto.

Parmi con questa immagine che resti toccato l’essenziale princi­pio delle belle arti. Una galleria, un museo veduti di volo difficilmen­te fanno passar bene una giornata. Bisogna che le cose belle sieno a una certa distanza le une dalle altre, distanza o di luogo o di tempo, in guisa tale che abbia luogo fra una sensazione e l’altra d’intro­mettersi il dolore. Un libro, in cui di seguito vi fosse una serie contigua di idee tutte sublimi e fitte, non potrebbe essere mai un libro piacevole, se non l’ajutasse l’oscurità. Questa oscurità obbliga il let­tore a interporre uno spazio per meditare attentamente, onde poter intendere il pensiero dell’autore; frattanto il lettore soffre e per la fa­tica che è costretto di fare, e per l’impazienza d’intendere. Se que­sto dolore non è indiscreto, viene rapidamente a cessare coll’intelli­genza della proposizione; così le cose troppo fitte, se non ha lo spet­tatore il tempo di diradarle, riescono sempre di poco pregio.

È un’arte sagacissima quella di lasciar fare qualche cosa allo spet­tatore, e di servire di occasione puramente alle sensazioni, ch’egli eccita sopra sè medesimo. Alcune reticenze d’un oratore fanno il medesimo effetto, come la figlia di Attilio Regolo, di cui ho parlato di sopra, coprendosi il volto colla mano del padre in atto di baciar­la. Quel volto celato lascia in libertà la fantasia d’ogni uomo di figurarsi la fisonomia la più bella, la più addolorata che ciascuno può immaginare; quindi ognuno risvegliando le idee più analoghe a sè medesimo, agisce sulla propria sensibilità in un modo assai più energico di quel che farebbe, se l’oratore, il pittore, il poeta, ec. volessero agire in dettaglio essi medesimi, e determinare l’impressione. La reticenza di alcune idee intermedie consola altresì l’amor proprio del lettore, e gli fa cessare quel sentimento di paragone che ordinariamente è doloroso, quando leggendo un buon libro, si dif­fida di poterne fare altrettanto.

Ma troppo mi svierei dall’argomento che mi sono proposto, se volessi entrare più addentro colla immaginazione fra questi ridenti oggetti; e, ritornando al soggetto del quale ora io tratto, parmi che lo scopo d’ogni buon artista sia quello di spargere le bellezze conso­latrici dell’arte in modo che vi sia intervallo bastante fra l’una e l’al­tra per ritornare alla sensazione di qualche dolore innominato, ovvero di tempo in tempo di far nascere delle sensazioni dolorose espressamente, e immediatamente soggiugnervi una idea ridente, che dolcemente sorprenda, e rapidamente faccia cessare il dolore. Quest’arte riesce anche nella civile società. L’uomo più amabile è quegli il quale sa in noi calmare i dolori morali che portiamo con noi, e per dimenticare i quali ricerchiamo la società. Se quest’uomo fosse sempre dolce e compiacente riuscirebbe nojoso per la stessa uniformità; ogni dialogo con lui diverrebbe insipido e breve perchè senza contraddizione; la stessa lode ci lascerebbe insensibili, e non sarebbe più l’uomo amabile. Esso stuzzica in noi e risveglia qualche leggiero dolore, move qualche contraddizione delicata, c’in­quieta industriosamente, e interpone a questi piccoli mali degl’ina­spettati contrassegni di stima, di amicizia, che dolcemente ci colpiscono. Un giovane ufficial francese giugne all’armata, va al quartier generale per presentarsi al maresciallo di Villars, francamente attraversa la folla e ad alta voce chiama: «dov’è Villars?» Il mare­sciallo, offeso da questa famigliarità indecente, «dite almeno il signore di Villars» gli soggiugne: al che l’ufficiale: «non ho mai inte­so dire “il signor Alessandro”, “il signor Cesare”». Il maresciallo, a una lode così impensata, al paragone tanto consolante per la sua gloria fra i più gran capitani dell’antichità e lui, dovette sentire un piacere tanto più grande quanto più rapida fu la cessazion del dolore. In mezzo al senato di Roma convocato davanti a Tiberio s’alza liberamente un romano, e, apostrofando l’imperatore, così comincia a parlare: «Cesare, tu sei l’uomo più ingiusto che viva sulla terra»; figuriamoci quai sentimenti si svegliarono ne’ cuori a quest’esordio: que’ senatori tanto bassamente avviliti, che Tiberio stesso li chiama­va un gregge di schiavi, quegli uomini già al colmo della corruzione avranno paventato un supplizio in pena d’aver ascoltato; Tiberio doveva fremere… ma proseguì il romano: «sì, il più ingiusto, perchè dipendendo la salute pubblica dalla tua, dimentichi affatto la pro­pria conservazione, e tutto consacrato alla felicità, alla gloria di Roma, impieghi per lei quelle cure, che pur dovresti riserbare in parte a te stesso per rendere più diuturna la beatitudine del tuo impero, ed esauditi i nostri voti». Il modo più insinuante per lusin­gar l’amor proprio degli uomini si è appunto soggiugnendo la lode a qualche puntura, perchè la prima cagiona dolore, e ci fa credere d’essere poco curati in quel momento da chi ci parla; sopravviene impensatamente l’encomio, e rapidamente cessa la sensazion dolo­rosa, e la sorpresa fa che più intensamente ci occupiamo della dolce idea non preveduta. Un negoziante è impaziente perchè tarda a giugnere la nave, che ha il carico delle sue merci; la dilazione lo ha reso inquieto, e già dubita di qualche sciagura. Mentre egli sta in casa tri­stamente occupato delle conseguenze che teme, un suo amico vede entrare salva la nave in porto. Corre a casa del negoziante, simula d’aver la tristezza in volto, entra a discorrergli della sua nave, finge una relazione avutasi d’una burrasca e d’un naufragio, indica alcune circostanze sul luogo, sulla bandiera, sulla qualità della nave. Il negoziante si agita, teme, gli pesa addosso in quel momento tutta la serie dei mali che prevede in conseguenza. L’amico lo riduce a quel punto, e gli dà la novella che la nave è felicemente giunta; così cagiona nell’animo del suo amico una gioja assai più vivace quanto è stata maggiore la quantità del dolore che ha fatto rapidamente cessare.

§ X. Come l’uomo giudichi nella scelta fra i dolori e fra i piaceri.

Nel calcolo dei piaceri e dei dolori l’uomo valuta più l’intensione che non la durata. Esattamente calcolando, un dolore che si esprimesse della forza d’un grado durando dieci minuti dovrebbe con­siderarsi uguale a un dolore che avesse dieci gradi di forza, ma durasse un sol minuto. Eppure nella scelta l’uomo si determinerà piuttosto per la minor intensione di quello che per la minore dura­ta, e crederà men male il dolor d’un grado benchè duri dieci minuti. Osserviamo ciò che accade sul Monsenis allorchè è coperto di neve, e che vi si discende rapidissimamente sopra di un traino mos­so dalla sola gravità per il gran pendio della montagna. Moltissimi viaggiatori, finita la discesa e passato il monte, vogliono nuovamen­te affrontare il tedio, il pericolo, lo stento di rampicarvisi nuova­mente a piedi sino alla sommità, per provare un’altra volta il piacer di discendervi con quella rapidità che non la cede al volo degli uccelli. Questa è l’immagine fedele della maniera colla quale calco­la l’uomo sul punto della propria sensibilità. Egli affronterà un dolore spontaneamente, purchè la di lui intensione non sia grande, quand’anche ei debba nella total quantità riuscir grande per la sua durata, e l’affronterà ogni qual volta ei debba rapidamente cessare, dal che ne ottiene un piacere.

La maggior parte delle debolezze e delle apparenti inconseguenze dell’uomo nasce appunto da questo principio: che più resta col­pito dall’intensione dei piaceri e dei dolori, di quel ch’ei non lo sia dalla durata; sebbene la quantità assoluta, per essere ben calcolata, dovrebbe desumersi dal prodotto dell’una per l’altra. Ma quando di due sensazioni dolorose una è da soffrirsi tutta in un colpo, e l’uo­mo nel momento immediato prevede tutto il grado d’infelicità in cui piomba, preferisce l’altra sensazione, di cui la parte che se gli pre­senta è men dolorosa per il momento consecutivo, e, senza esatta­mente trascorrerla sino al fine col di lui sguardo, la sceglie con ribrezzo minore. La vita è una serie di momenti; la parte che è nostra è il momento attuale; tutto il restante a venire è una mera probabilità, tanto più forte quanto il tempo a venire è più vicino al momento attuale. Un dolore intenso e breve piomba su i momenti più vicini alla nostra esistenza, e ci promette la pace per que’ momenti che sono più discosti. Un dolore più durevole e meno intenso ci presenta i momenti più contigui, più nostri, sotto un’ap­parenza meno ripugnante; e, sebbene per que’ momenti più rimoti non ci lasci vedere la pace, la lusinga che nasca in questo intervallo qualche soccorso che abbrevii i mali sempre più o meno sta nel cuo­re; e quindi nasce che comunemente gli uomini si determinino più per l’intensione che per la durata, siccome dissi.

Quantunque io creda generalmente condotto l’uomo a scegliere più per l’intensione che per la durata, non ne viene però che con eguale misura uniformemente ci determiniamo: anzi quanto più l’uomo è illuminato e placido nel suo giudizio, tanto si va egli accostando alla precisione nel calcolo, e sempre più va conside­rando la durata, perchè quanto più l’animo umano si trova vicino allo stato ch’io dissi, tanto più sa prevedere e scostarsi dalla ma­niera di operare de’ bruti, i quali quasi unicamente si determinano sugli oggetti esistenti, e feritori de’ loro organi. In tre classi, quindi, io divido la maniera di sentire degli uomini, e sono le se­guenti.

La parte più comune degli uomini rimira più d’un oggetto a un tempo stesso, ma li vede con un colorito pallido, e contorni sfuma­ti e incerti. Sono per lo più quindi dubbiosi ne’ loro giudizj, timi­di di equivocare nella scelta, ed essendo pure costretti a dare un corso alle loro azioni, son forzati a prender di norma l’imitazione anzi che il raziocinio. Incapaci di passioni grandi, incapaci di vi­gor d’animo, languiscono nella imbecillità; si sottraggono al morda­ce sentimento del poco valor proprio col sonno, co’ liquori assopitivi, col giuoco, colla lettura, o colla compagnia, che avidamente e senza scelta ricercano, e a ciò vengono spinti da quel tedio abitua­le, in cui restano immersi, abbandonati a loro stessi. Questi vedon gli oggetti come a traverso la nebbia, e, non potendo spignere lo sguardo molto addentro, valutano nella loro scelta piuttosto la su­perficie di quel lato che lor si presenta, anzi che la massa; quindi, omettendo quasi del tutto la durata, giudicano delle sensazioni qua­si interamente sulla pura intensione momentanea.

Un minor numero d’uomini in vece ha l’immaginazione fatta per modo che un fantasma vincitore s’impadronisce della loro sensibi­lità, e il restante delle loro idee resta inconsiderato, e in disordine, mentre quel fantasma è rappresentato con vivissimo colorito, e con esatti contorni. Questi hanno per loro carattere l’immaginazione, l’entusiasmo, l’elevazione; i voli più arditi non si vedono che in questi uomini. Essi però si sottodividono in due specie. Gli uni sono costantemente occupati da una idea prepotente, la quale ostinata­mente tengon sempre di mira: uomini capaci di grandi cose, perchè esercitano un’azione energica assiduamente prolungata per lungo spazio. Se il fantasma che gli occupa è conforme al bene del gene­re umano, sono eroi; se contrario, sono illustri scellerati; se è incoerente, sono pazzi. Gli altri sono della seconda specie, occupati da un dispotico fantasma, ma dove un fantasma detronizza l’altro, e si suc­cedono vicendevolmente. Sono questi i migliori poeti, i migliori pittori, gli oratori i più eloquenti, uomini di grandi passioni al momento. Non ti farà maraviglia, se dopo aver essi declamato in favore della civile libertà, li vedi diventati all’occasione cortigiani; combatteranno essi talvolta contro quella libertà medesima che avevan sostenuta. Questi uomini d’immaginazione, i quali a foggia degl’istrioni risvegliano in lor medesimi le passioni del momento, e con calda energia le sanno comunicare, mal si giudicherebbero se si credesse costante in essi quell’entusiasmo, che non parte dal cuore, ma da un’artificiosa e cercata fermentazione di sentimenti. I primi, giudicando delle sensazioni che hanno rapporto all’idea signoreggiante, s’accostano alla esattezza del calcolo, e ne valutano non sola­mente l’intensione, quant’anche in parte la durata; ma nel restante delle loro idee pochissima attenzione vi prestano, e si determinano per la sola intensione; i secondi in vece, quanto ai loro giudizi, in­teramente si conformano al metodo volgare, e nella loro pratica restano perpetuamente plebei.

Finalmente una parte ben piccola del genere umano è quella di coloro che sogliono ad un tempo stesso avere davanti al loro sguardo più oggetti illuminati, coloriti, e distinti; sagacemente li parago­nano, gli accozzano, li separano. Conosciuta che hanno la schiera de’ mali, che seco strascina il vizio, scelgono la virtù e tranquilla­mente e con costanza ne batton l’orme. Essi non hanno quelle cla­morose estasi, colle quali cercano di accreditarsi gli empirici della virtù; il loro animo più in calma pacatamente, e per una felice abi­tudine, li porta a bene e virtuosamente vivere. Costoro, sebbene per costruzione loro abbiano il cuore meno appassionato di quello degli entusiasti, con tutto ciò non sono esenti dalla febbre delle passioni. Non sempre la placida ragione lascia viva alla mente loro questa verità, che gli uomini cattivi meritano più compassione che odio; la bassezza, la ingiustizia fanno nascere nel loro cuore lo sdegno talvol­ta, come le belle azioni amore e benevolenza. Questi ultimi sono gli uomini più simili a loro stessi nelle loro azioni. I loro discorsi sono della tempra de’ loro fatti; i loro scritti hanno la tinta istessa della lor vita, e de’ loro sentimenti; essi non cercano di ridurre gli uomini attoniti e sbigottiti con gigantesche idee, ma illuminati e resi miglio­ri da un raggio puro e sereno di verità. Essi nella scelta delle sensa­zioni generalmente s’accostano più di tutti all’esattezza del calcolo, portano i loro sguardi sulle maggiori relazioni possibili, e lo inoltra­no al tempo più rimoto.

Queste tre classi sono come i tre tuoni principali del diverso modo di sentire degli uomini; ma ogni uomo, comunemente parlan­do, è un misto, e partecipa di più d’una classe. I primi sono meno di tutti capaci di piaceri e di dolori morali, perchè, come si disse, dipendendo questi interamente dall’appoggiarsi che fa la mente sul passato e sull’avvenire, e dal paragone che facciamo fra il modo col quale esistiamo e quello al quale prevediamo di dover giugnere, un tal modo di sentire suppone memoria e previdenza; e dove gli oggetti si vedano abitualmente larvati e mal definiti, non v’è luogo a questo scagliamento dell’animo. I secondi, che hanno un fanta­sma costante, in tutte le sensazioni, che a quello si accostano, debbon essere sommamente capaci di piaceri e di dolori morali. Se Colombo ci avesse lasciata la storia de’ suoi sentimenti per il lungo tratto di tempo in cui sollecitò i mezzi onde scoprire un nuovo mon­do; se ogni giorno avesse scritta la storia delle proprie sensazioni, e nel tempo in cui viaggiava alle corti per offrire il progetto, e nel lun­go spazio in cui languì nelle anticamere fra un piccol filo di speran­za e molti sorrisi de’ cortigiani, che lo rimiravano come un uomo da romanzi; se ci avesse fedelmente tramandate le sensazioni che pro­vò quando le speranze crebbero, poi quando ottenne le poche navi, poi di quanto nel cuore sentì durante la lunga navigazione per un mare immenso e sconosciuto; finalmente se ci avesse descritti i sentimenti che provò allo scoprire la terra, all’approdarvi, al cono­scerne i tesori, avremmo una idea allora de’ sommi dolori e sommi piaceri che occupano un entusiasta costante. Forse questa grande scena terminò nel momento in cui ebbe scoperta l’America. La ter­za classe, come la più capace su tutti gli oggetti di timore e di spe­ranza, così da ogni lato è accessibile ai dolori ed ai piaceri morali; minori forse nella intensione di quei che sentono gli entusiasti, ma nella quantità e frequenza considerabilissimi.

§ XI. Il dolore precede ogni piacere, ed è il principio motore dell’uomo.

Osserviamo i bambini: essi meritano la compassione e l’assistenza nostra, e sono i migliori maestri che possiamo scegliere per conosce­re l’uomo, e lo sviluppo della sensibilità. Al momento in cui il bambino nasce, ci dà tutti i contrassegni del dolore, e d’un violento dolore: i persiani per renderci maravigliosa l’origine del loro legi­slatore, asserirono che appena nato ridesse, ma la natura dovun­que ci fa vedere il bambino gemente e smanioso al suo nascere; e per due o tre mesi dopo nato, ancora o ce lo mostra stupido ovvero addolorato. Le prime sensazioni adunque dell’uomo sono di dolore: in fatti l’aria ferisce le loro membra molli e sensibilissime; la luce percuote violentemente i loro occhi delicati; il latte aggrava il loro stomaco, e cagiona le irritazioni ne’ loro visceri; le loro lagrime, le grida, la inquietudine, tutto ci manifesta lo stato dolorosissimo del loro essere. Trascorrono, non che i giorni e le settimane, anche i mesi dopo che gli occhi sono troppo avvezzi al pianto, che la loro bocca comincia ad apprendere il sorriso. Questo fatto ci prova che il dolore lo può sentire l’essere organizzato al primo momento di sua esistenza, e che il piacere non si sente se non dopo di aver sof­ferto il dolore. In fatti una sensazione suppone un cambiamento di stato nell’organo che la riceve, cioè o una tensione accresciuta ovve­ro diminuita; se l’organo era nello stato di perfezione, la prima sen­sazione lo toglie da quello, conseguentemente è un disordine, e un dolore; se poi l’organo era viziato, o per soverchia tensione o per ammollimento soverchio, la prima azione de’ corpi esterni può bensì rimediarvi, ma sarà preceduta dal dolore che produceva il vizio della costruzione organica, e così ne deriva che la prima sensa­zione deve necessariamente essere dolorosa.

I dolori che soffrono i bambini ne’ primi mesi della loro vita potrebbero forse da taluno attribuirsi alla gracilità e imperfezione de’ loro organi ancora informi, anzi che alla primitiva legge della sensibilità; e perciò figuriamoci che dal sommo Essere venga crea­to un uomo, il quale nel primo istante della sua esistenza sia orga­nizzato come lo sono comunemente i giovani a venti anni, e imma­giniamo se è possibile il presentargli una sensazione piacevole, la quale sia la prima, e non preceduta da alcuna dolorosa. L’appeti­to del cibo o della bevanda non lo potrebbe movere, perchè conviengli prima aver provato i dolori della fame e della sete; indiffe­rente riuscirà ogni sapore a chi non ha potuto prima sentirne mai il bisogno. L’odore parimenti d’una rosa o d’un gelsomino farà la più indifferente sensazione in quest’uomo, se pure farà sensazione, di che ne dubito, perchè i sensi nostri si vanno educando colla società, modificando coll’uso, e artificiosamente snaturando per modo che moltissime volte l’uomo colto crede di provare o piacere o dolore, e s’inganna sedotto dalla abituazione di vedere associate ad un ogget­to le espressioni del piacere, ad altro quelle del dolore; di che fra poco tornerò a trattare. Lo stesso dirò di ogni suono musicale, il quale, se non giugne alla scossa dolorosa, non darà sensazione all’uomo immaginato; e lo dico pure dell’amore anche fisico, ch’ei non può sentire, se non provò prima le dolorose inquietudini che lo fanno nascere in noi; e così ogni oggetto si presenterà alla di lui vista indifferentemente, ammeno che non lo addolori, ed ogni giacitura o tatto del suo corpo sarà di nessun effetto, ammeno che non lo addo­lori, ovvero non si trovi già lasso e addolorato dalla situazione in cui giaceva. L’essenza adunque della sensibilità importa di cominciare col dolore, perchè o l’azione sopra i nostri organi è dolorosa, ovve­ro è un rimedio alla dolorosa organizzazione, ovvero è azione inefficace, indifferente, e nulla; il dolore è una azione, il piacere è una rapida cessazione di essa. Con ciò l’uomo è riposto a vivere in mezzo ai dolori.

Io non dirò che il dolore per sè sia un bene, dirò bensì che il bene nasce dal male, la sterilità produce l’abbondanza, la povertà fa nascere la ricchezza, i bisogni cocenti affinano l’ingegno, la somma ingiustizia fa nascere il coraggio, in una parola il dolore è il principio motore di tutto l’uman genere; egli è cagione di tutti i movi­menti dell’uomo, che senza di lui sarebbe un animale inerte e stupi­do, e perirebbe poco dopo di esser nato; egli ci spinge alla fatica del lavoro de’ campi, ci guida a creare e perfezionare i mestieri, c’inse­gna a pensare, crea le scienze, fa immaginare le arti, e le raffina; a lui siamo, in una parola, debitori di tutto, perchè dalla eterna sapienza ci è stato collocato intorno, acciocchè fosse il principio che desse vita, anima, e azione all’uomo. Appena nati trascorrono poche ore, e il dolore della sete sveglia l’assopito bambino, gli insegna a tranguggiare il latte, poi dà moto alla sua lingua, alle sue mascelle, e gl’insegna a succhiarlo; senza il dolore non si ciberebbe, e la morte sarebbe assai vicina al nascimento. Poi cade nella passiva indifferen­za, e dorme; non più sarebbe richiamato alla vita, se il dolore non lo scuotesse; noi stessi, adulti che siamo, non ci svegliamo mai spon­taneamente dal sonno; comunemente il dolore, cagionato dalla lun­ga pressione sulle parti sulle quali stiamo giacendo, è quello che ci desta; in fatti, la prima azione che facciamo allo svegliarci si è un moto che cambi la nostra giacitura, e distendiamo i muscoli, che per quello spazio di tempo rimasero raggruppati; talvolta un affannoso sogno, dolorosamente agitando la nostra immaginazione, ci desta; il sonno condurrebbe naturalmente alla morte, se non vi si intrapponesse il dolore. Se uno sconcerto accade nella nostra macchina, il dolore è quello che ci avvisa, e ci scuote a ripararlo; senza del dolore il ferro, il fuoco, gli altri esseri consumerebbero le nostre membra prima che ce ne avvedessimo. L’uomo, se non soffrisse dolore, apparirebbe alla luce per una brevissima vegetazione, che lasciandolo svenire privo d’alimento, lo piegherebbe poco dopo alla morte. Se l’uomo non avesse sofferto il dolore del caldo, del freddo, della umidità, e delle malattie, non avrebbe mai cominciato a for­marsi delle capanne, poi delle case, nè a tessere per riparare il suo corpo. Se il dolore della fame non l’avesse spinto, non mai si sareb­be dato alla caccia, alla vita pastorale, indi alla coltivazione della ter­ra. Fatti questi primi passi sarebbesi l’uomo limitato a queste arti ed alle adjutrici; ma la naturale fecondità della specie moltiplicò i dolori e la ricerca de’ mezzi per sedarli, e nacque l’industria, che dopo essersi esercitata in rapine, dovette passare a stabilire le proprietà; e poscia i pochi, che poterono profittare del moto altrui, risparmia­rono il dolore della fatica, e si rifugiarono in quello stato di quiete e di torpore, che è lo stato naturale dell’uomo mancante di dolori. I ricchi poi e viventi col moto della classe dei coltivatori e degli arti­giani, liberati dai dolori primigenj della fame, della sete, e delle sta­gioni, nell’ozio divennero sensibili più delicatamente; e quindi inco­minciando a provar dolore nella ruvidezza del vestito, nell’ambiente dell’albergo, nella durezza del letto; cominciarono ad esigere dagli artigiani esattezza maggiore, e così gradatamente i dolori, che nuo­vamente si andarono creando colla mollezza della vita, portarono l’uman genere ai primi passi verso della coltura. Col passare dei secoli ai dolori fisici si aggiunsero i dolori morali, si sviluppò nel­l’uomo la gelosia di primeggiare; il fasto, l’orgoglio di alcuni insultò molti; taluno si riscosse, e per liberarsi dalla dolorosa umiliazione affrontò costantemente la fatica dell’ingegno e dell’eroismo; e per sottrarsi a quei dolori pungentissimi altri divennero guerrieri, altri legislatori, altri scopritori di verità; così nacquero le scienze e le arti dalle più facili sino alle più astratte e raffinate, così ogni bene del mondo ha la sua radice nel male, così il dolore è il principio del­l’azione, e così l’uomo per sottrarsene lo affronta e abbraccia, sem­pre fuggendo dal maggior dolore, e sopportando la fatica, che pure è dolorosa perchè lo libera da dolori più forti.

In fatti le nazioni che abitano un clima dolce, ove la terra facil­mente somministra l’alimento, sono la sede della indolenza; e ne’ climi più aspri e ne’ terreni più avari veggiamo gli uomini spinti ad una attività abituale, che forma nell’uomo quasi un bisogno di agi­re. Il regno della immaginazione sta nelle prime: questa s’alimenta co’ vaghi delirj d’una vacua esistenza; ma il licèo delle scienze lo troverai presso le seconde; esse sono il risultato di sforzi conti­nuati e combinati da una energica industria. Se nelle prime, per la generale mancanza di azione, la società degli uomini dorme costan­temente sotto il governo d’un despota, detronizzato talvolta in un momento di furiosa impazienza, e ben tosto seguito da un altro despota; nelle seconde la società sempre è in moto, e difficilmente persevera i secoli nel medesimo stato. I persiani oggigiorno s’asso­migliano più ai loro antenati del tempo d’Ezechiello, di quello che noi abbiamo di somiglianza co’ nostri avi dello scorso secolo, sì nelle usanze e fogge di vestire, alloggiare, e cibarci, quanto nella serie istessa delle nostre idee. La poesia, l’eloquenza, le favole, i romanzi, i racconti esageratamente prodigiosi nascono per lo più ne’ climi caldi e molli, e ne’ paesi spontaneamente fecondi, perchè sono questi i prodotti di una vita priva di cure e sedentaria; le mate­matiche sublimi, la erudizione laboriosa, la esatta critica, la giudi­ziosa e paziente osservazione delle cose fisiche e intellettuali sono effetti d’un moto contenzioso del nostro ingegno, il quale non affronta le difficoltà, nè regge a superarle, se non viene incessante­mente punto dal dolore, e perciò la loro sede trovasi ne’ climi più ingrati; e se talvolta ne spunta un raggio in più felice clima, ciò sarà come una banana, o un annanas colto in Europa per artificiali e se­parate cagioni domestiche, non mai dipendenti dalla influenza ge­nerale e comune.

Due pensatori del primo ordine hanno stabiliti opposti sistemi sull’indole delle nazioni: l’uno deriva tutto dal clima, l’altro deriva tutto dalla legislazione; il primo fa emanare tutto immediatamente dalla fisica, il secondo tutto dalle istituzioni morali. Bramo che gli uomini, che hanno parte al destino dei popoli, tengano la seconda opinione, poichè l’altra mi sembra tanto perniciosa nella politica, quanto nella privata morale la fatalità. Io però credo che il dolore è il principio motore dell’uomo; questo nasce e dal clima in cui l’uo­mo respira, e dalla forma con cui è governato; bensì è vero che più ferma e durevole e uniforme di ogni altra è l’azione meccanica del clima, e i dolori da esso cagionati l’uomo li tollera e li ripara senza sdegno e ribellione, perchè inevitabili e senza insulto; ma non per ciò una parte sensibile può ricusarsi agl’istituti sociali, i quali se nel cavallo e nel cane possono formarne due esseri per la guerra, la cac­cia, e i tornei, quantunque non giungano a formarli tutti di eguale coraggio e docilità (il che dovrebbesi fare se l’educazione facesse il tutto), così degli uomini possono formarne o buoni, o malvagi, o industriosi, o scioperati, a misura della sapiente o inconsiderata e capricciosa creazione delle leggi.

§ XII. Di alcuni dolori e piaceri di opinione.

Ho accennato poco fa che i sensi nostri vengono modificati dalle usanze, e che dall’esempio e dalla educazione impariamo a dimo­strar dolore o piacere talvolta per convenzione; nè parlo io di que’ sociali ufficj che, per condiscendenza urbana, ci portano a mostrar­ci sensibili ad oggetti che non agiscono sopra del nostro animo, il che facciamo conoscendolo, e volendolo; ma parlo di quelle illusio­ni che ingannano noi medesimi, e ci fanno esclamare quasi che fos­simo addolorati, o piacevolmente mossi, allorchè veramente non lo siamo, e buonamente crediamo di esserlo, non già perchè sentiamo, ma perchè siamo avvezzi a mostrarci sensibili in quella guisa. Una distonazione clamorosa fa contorcere l’appassionato per la musica, e lo fa dolorosamente sentire, lo crede egli stesso; un bel trillo granito e mordente lo tocca deliziosamente, così dice, e lo crede; io non ho trascurato questa bell’arte, l’amo, ed ho un orecchio sensi­bile, mostro le stesse apparenze: ma dubito assai, analizzando me stesso lontano dall’armonia, se veramente io provi allora il dolore e il piacere che m’immagino. Questi due modi, se potessero cagiona­re un dolore, ed un piacere, ne vedremmo qualche traccia anche negli uomini incolti, o educati ad una coltura diversa dalla nostra. Un inglese, un olandese deliziosamente sorbiscono il thè, giudicano delle minime differenze, gustano il giusto grado di forza, di volati­le, di odoroso di quella bevanda, che noi italiani beviamo soltanto per consiglio del medico con somma svogliatezza: siamo noi insen­sibili, ovvero s’ingannano essi credendo di sentire ciò che non sen­tono? L’avere sino dalla più tenera età osservato che le persone da noi credute più intelligenti mostravano dispiacere per una corda che distoni, l’averne più volte sentito il rimprovero noi stessi, colla lun­ga serie degli atti ripetuti, non può forse associare con una coesione durevole queste due idee, distonazione e dolore? Associate che sia­no, perchè non ne mostreremmo noi gl’indizj anche ad animo paca­to? Chi potrà mai decidere se allora provi l’uomo il dolore che mo­stra? Lo decideranno i pochi che preferiscono la verità alla opinione, che si occupano de’ movimenti del loro animo, e cercano di scacciare l’illusione che penetra sino entro i più profondi ripostiglj del cuore.

Quanto mai sono alcuni piaceri indigeni d’un regno, e affatto diverrebbero insulsi col trasporto! Il cinese ti dipinge la sua Vene­re con una immensa fronte, con due occhietti schiacciati, un naso maccato e largo, un ventre enorme: eccoti la più voluttuosa donna per lui; s’inganna egli, ovvero s’ingannò quel greco incomparabile che scolpì la Venere medicea? Io non parlo sulla idea del bello, ma su quella del piacere, che gli uomini in nazioni diverse collocano sopra diversi oggetti. Gli antichi provavano della delizia nell’odore della rosa; ora le persone più raffinate dicono di trovare disgustose quelle emanazioni. Un triclinio servito colla delicatezza di Attico ora moverebbe lo stomaco a nausea; il falerno si raccoglie anche in questo secolo, lo troviamo insipida e grossa bevanda, e le vivande impastate di mele sarebbero posposte al mero pane. Un voluttuoso musulmano s’annoja alla nostra musica, ai nostri spettacoli, e prova ribrezzo de’ nostri cibi; noi partiamo colla fame dalla mensa degli ottomani, che mischiano zucchero, ambra, e muschio nelle vivande, e fuggiamo la melanconia de’ loro concenti musicali, ai quali essi svengono per delizia. Fra i soli francesi e noi che disparità di opinio­ne non v’è per la musica vocale! L’uno trova una sensazione grata dove l’altro la trova dolorosa. Alcuni turchi di maggiore distinzione, fatti prigionieri dai russi nell’ultima guerra, furono onorevolmen­te scortati a Pietroburgo, ove quella sovrana voleva che, mirando da vicino la sua umanità e lo splendore di sua corte, tornassero poi a darne una idea nella loro patria. Portò la sua cura la imperatrice, oltre lo alloggio ricco e agiato, sino a destinar loro una loggia al tea­tro; ivi nè la musica, nè il ballo, nè il prestigio delle decorazioni e dell’inusitato spettacolo poterono mai ottenere dal loro volto un cenno di piacere; tristi, svogliati, godevano nel momento solo in cui finiva. L’ufficiale destinato a servir loro d’interprete fece loro sentire quanto ospitale fosse l’accoglienza che si faceva ai nemici, pensando a rendere ameno e profittevole il tempo stesso della loro prigionia. Convien bene piegarci e obbedire quando siam presi, così rispose il primo di essi, che credeva una pena e uno scorno l’essere così con­dotti in pubblico; e il sorriso apparve su i loro volti quando udirono che era ad essi libero il non venire, e di questa libertà profittarono, nè mai più vennero al teatro.

I veri dolori e piaceri fisici non sono tanto variati, e sono quelli che sempre e in ogni paese cagionano dolore, o piacere all’uomo sanamente organizzato: non si dà dolor fisico senza lacerazione; e qual lacerazione cagionerà mai nell’orecchio uno stromento discor­de, un errore di lingua, un endecasillabo sgraziato? Il compositore di musica, il gramatico, il poeta credono di soffrirne dolore, ed io credo che non lo soffrano, e che per imitazione altrui dapprima, poi per abitudine, ne mostrino i segni credendosi essi medesimi addolorati; e per convincermene ho osservato che nè il canto gregoriano, nè alcuni inni composti ne’ secoli meno colti cagionano dolore alcu­no al musico, al poeta, al gramatico che gli ascolta. De’ piaceri fisici di opinione per lo contrario io credo che siano sentiti veramente, perchè veramente producano delle rapide cessazioni di dolore: non è poca consolazione il poter dire a noi medesimi: sono un buono e delicato conoscitore: il continuo timore di valer poco, che sta nel fon­do del cuore dell’uomo incivilito, è una sorgente perenne di questi piaceri; un lampo che ce lo scuota, e che rapidamente ce ne storni la dolorosa vista, è un piacere. L’educazione ci forma per dire così nuovi sensi: un fanciullo non sa che gli odori possano cagionar dolore, nè piacere: indifferente prova i grati e i disgustosi senza dar segno di alcun sentimento, ammeno che non diano una scossa capa­ce di formare una lacerazione negli organi dell’olfatto o della respirazione: il selvaggio egualmente; e il sibarita, al primo fiuto distin­gue l’ambra, la tuberosa, il muschio, l’essenza di rose di Persia, rifiuta una essenza oleosa, sviene accostandosi a una traspirazione volgare. L’occhio d’un fanciullo e quello d’un uomo rozzo rimira­no colla tranquillità e disattenzione medesima una facciata del Pal­ladio e un edificio di struttura capricciosa, che impropriamente chiamiamo gotica: il conoscitore delle belle arti crede di provare ad una vista il dolore, e nell’altra sente un piacere, perchè cessa rapidamente qualche dolore innominato in lui, e singolarmente il timore di non valer molto, perchè scopre qualche nuova combina­zione, che confusamente sentiva di non poter trovare, o per altri moltissimi e sottilissimi dolori preparati sempre nello stato di società, ai quali quella vista ha dato un rapido ammorzamento. L’uomo incivilito, per l’istesso principio, anche nella società trova il tuono della voce di uno dolce e piacevole, e duro e ingrato quello d’un altro; la voce d’una donna talvolta seduce, e desta la sensibilità del cuore per un non so che di velato e di sensibile che ella annunzia; il caraibo non se n’è avveduto mai. Alla cena un elegante europeo di questi tempi preferirà i vini del Reno e della Borgogna agli altri; il meno raffinato cercherà una bevanda meno acida, e che conservi di più il sapore del frutto; dico un elegante europeo di questi tempi, perchè è verosimile assai che i nostri posteri trattino con noi come facciamo noi co’ nostri antenati, e che ci compiangano per le nostre delizie nella musica, nella mensa, e in tutti i piaceri nostri di opinio­ne, come facciamo noi della verdea, della malvasia, del Corelli, del Bernini, e di quanto formò il raffinamento degli avi nostri.

Una dimostrazione cospicua di questa verità, che nell’uomo ar­tificiale si creano moltissimi dolori e piaceri di opinione, ce la somministra l’antica Roma tanto avida dello spettacolo de’ gladiatori. Le vergini, le matrone, i fanciulli romani si affollavano al­l’anfiteatro, e avidamente godevano nel mirare più uomini che col pugnale in mano si battevano a morte; li volevano veder nudi, per meglio osservare il ferro acuto che doveva forarli; li volevano ben pasciuti, perchè l’adipe istesso, rendendo più lento lo sgorgo del sangue, riusciva lo spettacolo della morte più prolungato; si assapo­rava la grazia della positura in cui sapeva rendersi pittoresco il mori­re, e il gladiatore si applaudiva dagli astanti perchè agonizzasse con leggiadria. Nelle mense medesime più festose, mentre coricati i romani epicurei ponevano pausa al cibo, venivano i gladiatori a ricolmare la voluttà de’ convitati; e le mense grondanti umano san­gue, e coperte di murene e greci vini, e i singhiozzi de’ moribondi frammischiati alle festevoli sinfonie, cagionavano le delizie e il dilicato raffinamento de’ piaceri. Troppo è noto il fatto, ed è pur noto che somma rusticità allora si reputava dai romani se mai, per annun­ziare che taluno era morto, si fosse detto obiit o simile espressione, dovendosi usare la più mite, e dire vixit, quasi che il ricordare a voce la morte naturale d’un uomo potesse essere dolorosa cosa ad un popolo che con giubilo la mirava eseguita con violenza e atrocità. Egli è certo che, se ai tempi nostri nel colosseo si rappresentasse­ro queste carnificine, non che le tenere vergini e le donne, e i giova­ni, ma gli uomini ancora meno sensibili ne proverebbero un dolore, e il dolore e la lacerazione interna cagionata dalla compassione giugnerebbero al grado di portare molti degli spettatori allo stato della malattia. Io credo che a misura che l’uomo è più rozzo ha bisogno di oggetti più violenti per godere di uno spettacolo, e all’altra estre­mità pure dell’artificioso raffinamento torna ad avere lo stesso biso­gno, perchè conviene adoperare un colpo più energico per conci­liarci l’attenzione d’un essere difficilmente sensibile, quanto d’un essere molto occupato delle proprie idee.

§ XIII. Schiarimento sull’indole dei dolori e dei piaceri.

Il tempo che passiamo con piacere ci sembra breve, e quello in cui soffriamo dolore lunghissimo. Il tempo, relativamente a noi, altro non è che la successione delle nostre sensazioni. Se un uomo potes­se per degli anni di seguito restare assorbito nell’estasi di una sola idea, egli non si accorgerebbe che sia trascorso tempo. Ciò posto, se le ore del dolore ci sembrano lunghe, convien dire che molte e repli­cate e fitte sensazioni siansi provate durante quello spazio di tempo; onde, riflettendo noi alla serie per la quale passammo, giudichiamo essere trascorso più tempo che il pendolo non ci indica; e se le ore del piacere ci sembran brevi, convien pur dire che il tempo trascorso non fosse variato da replicate scosse e sensazioni; quindi appari­sce esser il tempo del piacere una cessazione d’azione, uno stato uniforme dell’animo, e perciò giudicarsi breve perchè egli è una quantità negativa, ed un accostamento al non essere; laddove il dolore è una quantità di azione positiva, e nella rapida cessazione di lei consiste il piacere. Ecco perchè altresì il piacere per sua indole debb’esser breve, nè può protraersi oltre un corto spazio; laddove il dolore può essere tanto lungo e durevole, quanto la vita che ci può togliere; perchè una azione positiva sopra di noi non ha altri confini di tempo che la nostra sensibilità; in vece una mera cessazione rapi­da di dolore non può allungarsi senza continuo discapito della rapi­dità sua, e annientata questa s’annienta il piacere, come si è detto di sopra.

Quando è mai che l’uomo corra più avidamente in traccia dei piaceri? Ciò è nel punto in cui egli è più infelice, e soffre i mali mag­giori. Dopo di un tremuoto, di un grande incendio, nel tempo della pestilenza, l’uomo naturalmente punto da mille oggetti di miseria propria e altrui, si getta alla più libertina sfrenatezza; quei riguardi, che tenevano nella moderazione il cittadino in tempi migliori, nel disastro, nella folla de’ mali sono troppo deboli fili; non è sopporta­bile lo stato continuato e atroce dei dolori morali; si rompono i rite­gni, e si corre clamorosamente dietro un piacere qualunque, purchè s’ottenga una tregua ai mali con una rapida cessazion di dolore. Quanto è più violento il dolore, e quanto ne è più rapida la cessazione, tanto più intenso ne sarà sempre il piacere. I vecchj generali, induriti nella militare disciplina, e insensibili quasi alla gioja, si vedono, dopo d’una battaglia vinta, inondati di lagrime di allegrez­za; sono in quel momento i più sensibili, i più cordiali uomini del mondo. I dolorosissimi sentimenti che assalgono il cuore d’ognuno al combattere, la natura che internamente grida, l’onore che forzatamente compone il nostro aspetto, la fortuna dello stato nostro, sentimenti violentissimi che ci stringono, scompajono al momento che il nemico fugge, e quella rapida cessazione fa palpitare anco le fibre più incallite. Da una pericolosa burrasca un soffio celere di vento: se ti salvi in un porto sicuro, vedrai i più insensibili uomini marinareschi abbracciarsi l’un l’altro con trasporto di gioja, gridare, cantare, abbandonarsi alla delizia cagionata dalla cessazione rapida dei mali. Non mi si troverà un solo dolor fisico o morale, la di cui rapida cessazione non sia un piacere. Non mi si troverà un solo pia­cer fisico ovvero morale, del quale sicuramente si possa dire non essere questo cagionato da una rapida cessazion di dolore o fisico, o morale, o innominato. Ecco ridotti con ciò i fenomeni della sensibi­lità a un solo principio, cioè alla fuga del dolore, giacchè l’amor del piacere si risolve in una fuga rapida del dolore, e così i due ele­menti della sensibilità nostra, accennati all’introduzione di questo discorso, si risolvono in un principio solo, la fuga, come si è detto, del dolore; e dipendendo il dolor fisico dalla lacerazione, e il dolor morale dal timore, eccoci ai due ultimi termini, che immediatamen­te toccano la nebbia sacra del nostro essere, e che ci additano però i due mezzi che producono il nostro movimento.

Fra i misterj della fisica deve riporsi la elasticità. Una molla di fino acciajo stassene immobile sin tanto che non venga compressa: il mistero della sensibilità vi ha molta rassomiglianza; l’uomo privo di sensazioni rimane parimenti immobile: comprimilo, addoloralo, ei si rannicchia in sè stesso, e si move. Se la compressione è passaggera e tenue, la molla ribalzando se ne libera, e nel primo slancio si dilata anche oltre il limite in cui prima trovavasi; così la sensibilità, se il dolore sia moderato e passaggero, al cessare di esso la gioja sembra che la dilati e la estenda anche quasi fuor di sè: il dolore è quasi un raggruppamento, una condensazione; ed è espansiva, e sembra grandeggiare la gioja. Comprimi la molla con eccessivo peso, ella perderà l’elasticità, o sarà infranta: opprimi l’uomo con eccessivo dolore, o lo renderai stupido, o lo ucciderai. Togli alla molla la compressione per gradi insensibili, e ritorna allo stato pri­miero senza ribalzo: toglimi insensibilmente il dolore, e giungo alla tranquillità senza piacere. Assoggetta la molla a un peso uniforme, e lasciala per molto tempo compressa immobilmente, la elasticità sarà diminuita, e non sarà mai più quella di prima: aggrava l’uomo di un dolore diuturno e uniforme, non riacquista più la squisita sensibili­tà di prima; col lungo tratto l’uomo s’indurisce ai mali, la sensibilità s’incallisce, e cade nella indolenza o nella disperazione.

§ XIV. Se nella vita siano più i dolori ovvero i piaceri.

Sono adunque più i mali o i beni in questa vita? La somma totale de’ dolori è ella eguale, maggiore, ovvero minore della somma tota­le de’ piaceri? Ogni uomo prova egli una porzione uguale di bene e male? Su di tali questioni, trattate ingegnosamente da varj illustri italiani all’occasione del libro del sig. di Maupertuis, io ardirò dire quello che ne sento, e quanto parmi scaturire dai principj già indicati. V’è chi osservò non essere due quantità paragonabili, dolore e piacere, e non potersi mai esattamente trovare una di queste due serie di sensazioni, che sia eguale, o doppia, o tripla dell’altra. In fatti: dammi un piacere, che esattamente valga un determinato dolore! La mente umana non ha mezzi onde graduarli, nè abbiamo veru­na macchina che serva di misura, come i termometri, i pendoli, i palmi, le once ci fanno paragonare i gradi di calore, il tempo, l’estensione, i pesi ec. Ciò non ostante, nella pratica delle nostre azioni noi facciamo tacitamente paragoni continui fra il male e il bene, fra il dolore e il piacere. L’ambizioso, l’innamorato, l’avaro, il vendicativo quanti mali non affrontano, quante sensazioni dolorose spontaneamente non iscelgono, perchè giudicano praticamente che il piacere, che se ne promettono, sarà maggiore del male, che son disposti a soffrire per ottenerlo! Anche gli uomini più pacati e non mossi da forte passione scelgono sempre fra il dolore e il piacere, e ne fanno continuo calcolo di paragone. L’uscir di casa con un tem­po cattivo, l’attraversare un lungo cammino a piedi, l’uscir di buo­n’ora da letto, ove mollemente ti giaceresti, il differire a cibarti ec.: sono piccoli dolori, ma però lo sono, e ogni uomo li giudica una quantità minore del piacere che avrà d’aver visitato un amico, d’ave­re esattamente adempiuto agli obblighi dello stato, d’aver usata urbanità e compiacenza ec. Se adunque nella pratica l’uomo paragona continuamente i dolori e i piaceri, convien dire che sieno due quantità prossimamente paragonabili. Ogni azione nostra si assomi­glia a una compra: si dà il denaro per avere una cosa; il privarsi del denaro per sè è un male; ma, quando compriamo, giudichiamo che è un bene maggiore di questo male la cosa che ricerchiamo. In ogni condizione in cui sia l’uomo, anche sotto al trono, è costretto a fare una quantità di azioni penose, incomode, dolorose per acquistarsi i piaceri. Questo calcolo l’uomo lo fa abitualmente.

Ciò posto, siccome di sopra ho detto, il piacere, non essendo che una rapida cessazione di dolore, non può in conseguenza essere maggiore giammai della quantità del dolore, la di cui cessazione non può essere maggior quantità che lui medesimo. Di più l’uomo soffre dei dolori, i quali cessano lentamente, onde non hanno un piacere che ad essi corrisponda. Dunque la somma totale delle sensazioni dolorose debb’essere in ogni uomo maggiore della somma totale delle sensazioni piacevoli. Tal è la condizione dell’uomo; ma la seducente e consolatrice speranza ci sta sempre al fianco sino all’ul­timo respiro, sparge di rose la scoscesa e laboriosissima via; per lei prendiamo vigore e fiato; e s’ella ci spigne al di là del breve viver nostro, ci fa ridenti attraversare fralle difficoltà più scabrose, e placidi soffrire anche i dolori più forti.

Se fosse vero che ogni uomo egualmente avesse che soffrire e che godere, se fosse vero che il sano, ricco, libero, rispettato, avesse tan­ti mali e beni quanti ne ha l’infermo, povero, carcerato e abbietto, questa odiosissima verità, distruggitrice di ogni germe benefico di compassione, sarebbe da proscriversi da chiunque onora l’umanità. Ma la immortale verità non nuoce ai più cari e preziosi sentimenti dell’uomo, e l’opinione di questa sognata uguaglianza è un patentis­simo errore. Se ogni piacere consiste nella rapida cessazione d’un dolore, e se ogni dolore può cessare anche lentamente, ne viene per conseguenza che può essere diversissima la proporzione fra l’uomo e l’uomo; e mentre uno nella serie della sua vita avrà un terzo delle sue sensazioni piacevoli, un altro appena ne avrà un decimo, un cen­tesimo.

E qui do fine al mio discorso, lontano egualmente dal gregge degli epicurei, come dall’insensibilità della Stoa: se avrò fatte cessare rapidamente e con frequenza le sensazioni dolorose di chi mi ha letto; se l’avrò invitato a pensare, ad analizzare l’inesauribile fondo della propria sensibilità, avrò ottenuto il fine che mi era pro­posto.

DISCORSO SULLA FELICITÀ

 Indice de’ paragrafi

§ I. Introduzione
§ II. Della ricchezza
§ III. Della ambizione
§ IV. Dell’accrescimento del nostro potere
§ V. Di alcuni contrasti fralle leggi
§ VI. Della conoscenza di noi e degli uomini
§ VII. Dei movimenti del cuore
§ VIII. Se i mezzi per vivere felici crescano ovvero sceminsi in questo secolo
§ IX. Conclusione

§ I. Introduzione.

Se la condizione dell’uomo è tale che qualunque sia lo stato suo, o di propizia o di avversa fortuna, sempre la somma delle sensazioni dolorose che avrà sofferte sarà maggiore della somma delle sensa­zioni piacevoli (siccome nel discorso precedente credo di avere provato), per necessità converrà dire che non può darsi nell’uomo la felicità pura e costante, ed all’incontro può darsi la miseria e la infe­licità. Questa verità sconsolante sarebbe da dissimularsi, se col palesarla e svilupparla non ne venisse del bene; e credo io che ne venga e tale e tanto, che in esso si racchiude quel di meglio che il retto uso della ragione può farci conseguire; e che la più sublime e la più uti­le verità a cui ci conduce la filosofia sia il conoscere che la felicità considerata come una quantità positiva e segregata dal male è un sogno, e che tutto il saper nostro non può rivolgersi a un nostro uti­le reale se non quando abbia di mira la diminuzione soltanto de’ nostri mali. In fatti, se fissataci una volta in mente la idea d’una asso luta felicità paragoneremo a quella lo stato nostro, tanto lo trovere­mo distante da quella sognata beatitudine che renderemo sempre più amaro e misero a sopportare lo stato della nostra condizione; che se, più illuminati, conosceremo essere i mali il nostro retaggio ed una inseparabile conseguenza del composto di cui siamo forma­ti; se conosceremo che gli uomini che in apparenza ci sembrano i più invidiabili e felici sono il più delle volte meschini, costretti a portare sul viso una maschera ridente, ma realmente rosi da mille angustiose passioni, e forse più miseri di quello che non lo siamo noi; se toccheremo con mano che quand’anche da noi soli dispoti­camente dipendesse l’organizzare tutto il genere umano a nostra foggia e collocarci all’apice della dominazione, ciò non ostante saremmo infelici per sazietà, per la noja, pel vuoto di non aver più desiderj; allora, ritornando in noi medesimi, troveremo conforto ai nostri mali, ripiglieremo vigore per rintuzzarli o indurirci a quelli, e non disperando di nostra condizione, cercheremo di rendere più piccola la nostra infelicità coll’industrioso maneggio della ragione, ripiegandoci in noi medesimi e contrapponendo cosa a cosa, e bilanciandoci cogli avvenimenti, come appunto un abile architetto la stessa gravità distruggitrice fa servire alla solidità dell’edificio.

L’eccesso de’ nostri desiderj sopra il potere è la misura della infelicità. Chi niente desidera è in uno stato di letargo, chi sommamen­te desidera s’accosta al delirio. Il primo non è infelice, il secondo lo è di tanto quanto non può conseguire. Ma l’assenza de’ desiderj è piuttosto vegetazione che vita, e non si dà che per intervalli; laddo­ve la violenza de’ desiderj la prova ogni anima che sente con ener­gia, e talvolta può essere uno stato durevole. Le operazioni adunque da farsi per allontanarci dalla infelicità sono o diminuire i desiderj, o accrescere il potere, o l’uno e l’altro insieme.

Ma siamo noi padroni di diminuire i desiderj nostri, siamo noi arbitri di accrescere il nostro potere? In tutto no certamente: perchè ogni volta che soffriamo un dolor fisico è una conseguenza fisica in noi il desiderarne la cessazione; perchè il preservarci totalmente anche dai soli errori di opinione non è compatibile colla imperfe­zione del nostro essere; perchè il dilatare il poter nostro oltre certi confini viene interdetto dalla fisica istessa e dal potere degli enti che lottano con noi. Ma il premunirci coll’uso della ragione e col placido esame contro l’insidioso assalto delle passioni prima che esse ci abbiano scossi e trasportati nel chimerico mondo della immaginazione; ma lo scemare e molto più l’impedire il nascimen­to dei desiderj nostri di tanto almeno quanto v’è di sognato ne’ beni che immaginiamo, è sicuramente entro i confini della nostra volon­tà, come è in mano nostra l’accrescere il poter nostro con varj mez­zi che andremo esaminando; e vedremo che certamente gli uomini assai meno sarebbero infelici se facessero, singolarmente nella loro prima età, un uso continuato e intenso della loro ragione per esami­nare i loro interni movimenti, e ridurre a sistema e a principj le pro­prie azioni.

L’immaginazione di ogni uomo è sempre disposta ad ingrandire i mali che temiamo e i beni egualmente che desideriamo, e ognuno, riflettendo sopra di sè medesimo e ricordandosi delle sensazioni provate, sarà meco d’accordo nell’asserire che, realizzatisi i desiderj, gli oggetti agiscono sopra di noi con assai minore energia di quanto ci aspettavamo. Se adunque si toglierà ai desiderj nostri tutta la por­zione che in essi si racchiude di chimerico, di molto se ne diminui­rà la somma. Esaminiamo questi principj, e cominciamo dai desiderj.

§ II. Della ricchezza.

Le ricchezze sono lo scopo d’uno de’ più comuni desiderj, e cer­tamente, essendo elleno come un pegno del diritto che gli uomini hanno sulle cose, chi le possede sembra dilatare la propria essenza ed interessare una più gran parte della natura ne’ suoi piaceri. Il desiderio di esse non può essere dalla ragione diminuito sin tanto che si circoscrive ai bisogni fisici e civili; ma pochi sono coloro i quali sapendo far uso di loro ragione trovinsi in questo caso. Il destino, o per dir meglio la spensieratezza dell’uomo fa che avida­mente desideri la ricchezza, e poi quei pochi che l’ottengono diven­tano realmente più infelici di prima; perchè l’arte di saper godere delle ricchezze è molto più rara dell’arte di acquistarle, anzi l’avidi­tà di ammassarle per lo più esclude quella generosa e nobile distribuzione dalla quale sola dipende il godimento. Chiunque conosca un uomo che dalla povertà sia giunto ad ammassare una ricchezza importante dovrà dire che quello sarebbe stato più felice se avesse posto più angusti limiti ai suoi acquisti. La cura incessante di placa­re la non mai sopita invidia, la inquietudine di preservare i beni dall’invasione, la sollecitudine, il sospetto sugli attentati altrui, la sete sempre rinascente di accrescere gli acquisti, la non mai saziata avidità, la pena d’essere sempre come sul teatro rappresentando un personaggio in faccia del pubblico, censore attento e difficile delle azioni d’un uomo che da povera condizione sia giunto alla ricchez­za, la vista di eredi che hanno scritta in fronte la impazienza del nostro fine, i mali fisici che accompagnano la vita molle e affannata da un fascio di sventuratissime sensazioni: tale è lo stato a cui cerca di giugnere chi sconsigliatamente desidera una grande ricchezza. Chiunque sei che possedi un moderato patrimonio, se ti è odiosa la infelicità, se brami di passare la tua vita il meglio che si può, stabili­sci i confini ai tuoi desiderj, e sia questo il dio Termine sacro e inviolabile posto dalla sapienza. Un accrescimento che tu faccia ai beni tuoi oltre la tua moderata condizione è il seme da cui ripullu­leranno innumerevoli nuovi desiderj che giammai non giugneresti a pareggiare col potere. Misura le tue spese, limita gli eccessi capric­ciosi, soddisfa i tuoi bisogni in prima, poi la decenza, se te ne rimane di più donalo alla beneficenza, non mai al lusso, e sia certo che l’avaro egualmente che il prodigo sacrificano i bisogni reali ai biso­gni chimerici, perchè il primo pospone i bisogni presenti ai venturi capricci, e il secondo preferisce i capricci presenti ai venturi biso­gni; il primo sempre s’apparecchia per viver bene, e mai non vive realmente bene, l’altro divora tutto nel momento attuale, e si dimentica di viver bene nel tempo a venire.

Io non dirò il paradosso che un patrimonio cospicuo sia un male, nè che l’uomo saggio debba spogliarsene, o gettar nel mare le ric­chezze, come si raccontò d’un antico filosofo; dico anzi che questi potranno essere mezzi per acquistare assai beni e contribuire alla propria felicità; ma dico che ciò accaderà allorquando questi mezzi ci sieno venuti indipendentemente da’ nostri sforzi continuati per ottenerli, perchè allora chi se ne trova al possedimento può aver l’animo superiore alle ricchezze medesime, e considerandole come mezzo d’aver i beni, e non beni per loro medesime, maneggiarle, ripartirle e servirsene con accorta e saggia distribuzione senza affanno; laddove l’uomo che divorato dal desiderio di ricchezza l’ha ammassata gradatamente, colle proprie azioni deve aver già abituato il suo cuore all’affannoso desiderio che non mai si limita, anzi si moltiplica colla nuova esca, e signoreggiato dal proprio denaro ne porta servilmente il peso e palpita e s’angustia per accrescerlo, conservarlo e ripartirlo. Lorenzo de’ Medici trovò da’ suoi maggiori ammassati i tesori, nella sua prima età non si occupò col pensiero d’arricchirsi, ma portato da un felicissimo genio verso il bello e il grande, dotato di fino sentimento per discernerlo, si abbandonò in braccio alla nobilissima passione di onorare e proteggere il merito; conosce in un fanciullo la nascente passione per essere uno sculto­re, lo abbraccia, lo assiste, lo ricovera, lo anima, e presenta alle età venture un Michelangelo. Ma nessuno di questi privilegiatissimi piaceri può gustare l’uomo diuturnamente abituato ad ambire ed ammassare le ricchezze, perchè, siccome dissi, il desiderio non è mai sazio, e l’ammasso non è compiuto giammai; quindi non può l’uomo che per uno sconsigliatissimo partito abbandonarsi al desiderio del­io le ricchezze. Tutti adunque gl’infelici i quali soffrono l’angustia di bramare i tesori e di accumularli, e ne sopportano le lunghissime cure, le umilianti mortificazioni, il sacrificio frequente della loro probità, sono infelici appunto perchè non ragionano abbastanza, perchè non vedono esattamente bene gli oggetti ai quai corrono die­tro, e se la ragione venisse esercitata nell’esame importantissimo di noi medesimi, sarebbero tolti dalla lunga lista degl’infelici tutti i molti che vi sono per avidità di ricchezze. Che cerchi tu mai di otte­nere col tuo ammasso? Forse i piaceri fisici? Questi sono destinati per l’uomo amabile; l’amore comprato è la cosa la più insipida e umiliante di tutte. Forse la stima degli uomini comprandoti delle condecorazioni? Gli uomini irritati per questo appunto faranno noti i tuoi piccoli principj, e il ridicolo si intreccerà co’ fasci de’ tuoi littori. L’uomo condecorato per nascita e per merito ti spreggerà se sarai cinto colla stessa fascia d’onore da lui acquistata co’ servigi renduti allo Stato, e da te a contante. Il vero interesse nostro ben conosciuto ci reca il disinganno sulla chimerica felicità delle grandi ricchezze, ed ecco svelto un gran ramo de’ nostri desiderj i più difficili a giammai pareggiare col potere, perchè grandeggiano sem­pre più progredendo.

Ma per allontanarci dal pericolo di desiderare la ricchezza è ugualmente necessario il fare un uso moderato e un prudente ripar­to de’ beni nostri. La spensieratezza nella privata economia porta con sè la ingiustizia verso i nostri creditori, il cambiamento sempre in peggio della condizione nostra, la diminuzione annua de’ comodi ai quali siamo abituati, e alla fine ci conduce a un cocentissimo desi­derio di que’ vantaggi che godevamo ed abbiamo scioperatamente perduti; la memoria del passato fasto, la vista della inopia attuale e durevole fanno un contrasto desolante a segno che piombiamo tal­volta nell’avvilimento, e da quello quasi lusingandoci d’un ritorno allo stato primiero siamo disgraziatamente spinti talora sino al delitto. Se il prodigo avrà famiglia, facilmente ognuno comprenderà con qual piacere possa egli contemplare la sposa alla quale non può somministrare il decente corredo, i teneri figli abbandonati nella educazione e degradati dalla condizione a cui avevano dritto di aspirare. Sia anche solo e libero il dissipatore, a misura che va egli invecchiando, cioè a misura che crescono i bisogni de’ comodi, i mezzi vanno diminuendosi, scompajono colle ricchezze i falsi amici, trovasi isolato e in preda all’amarezza ed all’abbandono. I pochi pia­ceri divorati frettolosamente nella gioventù non pesano nè bilancia­no i lunghi rammarichi che rimangono a soffrire negli ultimi anni. Se l’uomo vi riflettesse non accetterebbe certamente mai di fare un tal cambio. Ma nei più la mente è priva delle nozioni più interessanti per la felicità: le passioni nacquero, il momento presente, il capriccio attuale occupano soli la mente, e nemmeno di volo si get­ta uno sguardo sull’avvenire. L’uomo che seppe essere uomo dap­principio, e che nella prima età si abituò a dubitare prima di decide­re ed esaminare prima di scegliere, non farà mai tale abuso de’ suoi beni da prepararsi col tempo gli smaniosi desiderj di riaverli. Ami tu il denaro? Custodiscilo con sapienza. Cerchi tu forse colla profusio­ne, colla pompa e col fasto di rendere attoniti gli uomini, e farti cre­dere più che non sei possente e magnanimo? L’illusione accecherà te solo, alcuni pochi saggi e buoni ti compassioneranno, i più ti dileggeranno; le tue facoltà sono note, non sperare che i creditori sieno pittagoricamente taciturni, la città conosce che il tuo fasto non è durevole, la tua grandezza ti guida ad usurpare l’altrui, a man­care di fede se ti abbandoni alla profusione. Avrai alcuni scaltri parasiti, come edera tenace ti avviticchieranno, ficcheranno le radi­ci nel tronco e alimentandosi coll’umore di quello ti crederai fiancheggiato. Sgombreranno al primo bisogno; gli amici non si comprano, le anime capaci di profittare della rovina altrui non lo sono d’amicizia: questo sacro e nobile sentimento del cuore è disinteressato, nasce dalla virtù, dalla uniformità del genio e dai bene­fici fatti per iscelta e non per fasto, e nati da una espansione di cuore anzi che dalla spensieratezza. Tale è il linguaggio della ragione, la quale evidentemente ci dice: se tu spendi quest’oggi più che non ti fruttano i tuoi beni ogni giorno, o devi avere fatto risparmio ne’ giorni passati, ovvero risparmierai nell’avvenire. Se in quest’anno la tua ricchezza di mille non ti basta, e ne vuoi spendere mille e dugento, dunque nell’anno venturo tu spenderai solo ottocento, e come questi basterebbero se in quest’anno i mille non bastano? Questo facilissimo, popolarissimo ragionamento solo basta a tenere lontano ogni uomo dalla dissipazione, e così dalla miseria d’essere in preda a inutili desiderj di ricchezza. L’uomo adunque, facendo buon uso della ragione, datagli dall’Essere eterno appunto per farne buon uso, può liberarsi e prevenire una folla di desiderj tormentosi di ric­chezza, e così guardarsi da una moltitudine di lacci che lo strascina­no, se è spensierato, alla infelicità.

§ III. Della ambizione.

L’ambizione è forse la passione la più funesta insieme e la più bene­merita; a lei dobbiamo la massima parte de’ politici disastri e delle più grandi e utili imprese; i desiderj che la costituiscono hanno per oggetti la gloria, la stima, gli onori.

Gli uomini energicamente organizzati e dotati d’una robusta maniera di pensare sentonsi angustiati dai due limiti tanto vicini fra il nascere e il morire: la loro esistenza è come compressa in un pic­colo spazio, e quindi con un nobilissimo entusiasmo sentono il bi­sogno di estenderla a più lontani limiti di tempo e di luogo. Questi sono ambiziosi di gloria, e cercano di lasciare ai secoli venturi e alle rimote nazioni vivo il loro nome o per conquiste o per regolamenti civili, ovvero coll’accrescere il deposito de’ lavori dell’ingegno. Sono questi o soldati, o ministri, o uomini di scienze, di lettere e di belle arti. Un Monarca ambizioso di gloria trova già preparate le due prime strade; ma per l’ultima gli conviene partire dal punto medesimo d’ogni altro uomo, cioè dalla ignoranza; perciò nell’indi­ce delle biblioteche gli autori coronati vi sono in assai minore nume­ro che non trovansi nella serie cronologica i Sovrani conquistatori e legislatori; ma per un uomo privato le due prime strade della gloria sono difficilissime, e per un capitano di condizione privata vera­mente illustre, per un ministro degno di memoria l’antichità ci ha trasmessi venti privati scrittori, architetti, pittori che hanno reso celebre il loro nome. Chi cerca fra i privati di passare alla posterità scegliendo il partito delle armi rifletta che più di due milioni d’uo­mini avran dato il nome alla milizia in questo secolo sino alla metà di esso, e che appena sei generali fra gli uomini privati si conteran­no i quali veramente abbiano avuta occasione e sapere per vedere scritto il loro nome al tempio brillante della gloria; e quand’anche il tempo non cancellasse alcuno di questi nomi, sarebbe sempre la probabilità di acquistarsi la gloria per questa via come l’unità a tre­cento e più mila, sorta di lotteria di cui la disuguaglianza balza agli occhi troppo facilmente: quindi è che realmente siano mossi piut­tosto dall’ambizione degli onori che dall’ambizione della gloria coloro che intraprendono questa carriera per ambizione. Se cercasi la gloria dai privati che ambiscono le cariche del ministero, sono anch’essi abbagliati da un seducente oggetto che è difficilissimo a conseguirsi. Gli affari umani si movono quasi sempre per una diago­nale composta da più forze motrici: l’energia medesima dell’animo ambizioso di gloria, per quanto sieno retti i di lui fini e limpida la sua morale, gli scosta gli elementi motori; gli uomini si collegano meno contro una nascente ricchezza che contro una gloria nascen­te, e siccome in questa carriera non si possono occultare i primi pro­gressi, come si fa nelle lettere volendo, così si deve combattere men­tre che ti stai armando, e pochissima resta la probabilità della riuscita; quindi pochissimi ambiziosi di gloria fra i privati s’ingolfa­no a cercarla negli affari pubblici, e quei che ne intraprendono la carriera per ambizione lo fanno per l’àmbito degli onori. Se hai dunque desiderio di gloria e di passare ai posteri, ragionando tu sce­glierai la strada la più indipendente, la più tranquilla e non meno lusinghiera, cioè quella delle scienze, delle lettere o delle belle arti; giacchè se il tuo animo ha tanto vigore di non accontentarsi dell’am­bizione degli onori, non ti mancherà l’ingegno e il calore per innal­zarti negli studj della mente al punto di meritarti e ottenere la gloria. Gli onori può darli un uomo, ma la gloria la danno gli uomini, le età, le nazioni; chi s’innalza sopra di essi è in gran pericolo al pri­mo slanciarsi che fa a volo, quello è il tempo della oscurità e del silenzio pel saggio; ma spiegato che sia il volo e decisa la superiori­tà, gli uomini cessano d’invidiare uno che ha cessato d’essere ogget­to di confronto, si rivolgono ad ammirare chi gli ammaestra, e in ricompensa dell’utile e del piacere che ne ritraggono e delle fatiche sostenute a tal fine, lo onorano e insegnano ai figli loro di onorarlo, nel che consiste la gloria. Io non dirò che il desiderio della gloria per gli altri oggetti sia da spegnersi: dirò bensì che per un Alessan­dro, un Cesare, un Maometto vi sono migliaja d’uomini infelicissi­mi, e che questi tre conquistatori, da quanto possiamo saperne, furono essi medesimi divorati da amarissime passioni. Dirò che per un Sejano, per un Triboniano e per un Richelieu, si può dire lo stesso dei disgraziati che hanno ambito la gloria negl’impieghi pub­blici, e questi fortunati nemmeno lo furono per la loro felicità. Dirò finalmente che i desiderj della gloria, portando un privato alla con­templazione della verità e alla perfezione delle arti liberali, lo ri­pongono nello stato il più invidiabile per un uomo ambizioso di gloria. Quindi in vece di combatterne il desiderio, saggiamente pensan­do alla propria felicità, convien coltivarlo. Ma questa gloria con­viene invitarla, meritarsela ed aspettarla senza una indiscreta impazienza. Gli uomini di lettere nella prima loro gioventù talvolta si slanciano nell’arena ancora mal esperti; questa giovanile impazienza è da calmarsi, e conviene aspettare di aver cose da presentare al pubblico giudizio le quali s’innalzino sulla mediocrità. La gloria, cioè una generale, estesa e durevole opinione, non si può ottenere dagli uomini in un momento; al primo comparire d’una opera inte­ressante le opinioni sono divise; non conviene maravigliarsi d’un avvenimento che è inevitabile, nè promettersi un accordo istantaneo delle tante discordi menti umane in favor nostro, peggio poi discen­dere a confutare le censure che la piccola invidia o la ignoranza fan­no sempre nascere appunto a corredare un bel lavoro per morire un momento dopo, come i vapori esalati da paludoso terreno schiudo­no un baleno che abbaglia e sviene, lasciando gli astri adorni della immortal luce placidi e eterni nella loro rivoluzione. Se desiderando la gloria delle belle arti conoscerai intimamente queste verità, non avrai desiderio che non sia compiuto, a meno che tu non offenda incautamente coll’annunziare le tue idee quegli uomini e quei ceti che possono far soffrire bensì un uomo, ma non già togliergli la glo­ria, esposto ch’egli abbia alla pubblica luce il suo lavoro.

L’ambizione della stima è un sentimento più circoscritto alle per­sone meno rimote da noi, e ad un tempo limitato poco più del vive­re nostro. Questa ambizione è compagna della virtù, e se la prima ambizione tende a sottometterci gli uomini, questa sembra accostarceli e aver per oggetto di rendergli amici. Se il desiderio della stima pubblica cade nell’animo di un uomo superiore al comune livello per dignità e potere, potrà egli vederlo adempiuto facilmente: la ret­titudine, la popolarità, la beneficenza, l’amorevolezza delle maniere bastano; ma se ti abbandoni al desiderio di ottenere la stima de’ tuoi eguali, ti prepari l’amarezza, perchè nel tempo istesso in cui si sentiranno costretti a stimarti, il dolore di contribuire a darti col loro suffragio una temuta superiorità farà che non te la mostrino. I nostri pari sono rivali nostri nati; mostreranno essi più distinzione ad un uomo mediocre che li diverte e non gli imbarazza che ad un cittadino virtuoso che con una nobile fermezza vuol sempre essere buono, e tacitamente loro rimprovera col paragone che non sian tali. Gli uomini saggi quando hanno ambito la stima generale hanno sempre incominciato dal popolo, più facile ad acquistarsi, perchè non trovasi in concorrenza con noi, nè sente rivalità della superiori­tà nostra, già stabilita dalla fortuna; anzi ci fa buon grado che valu­tiamo la sua opinione, e che ci spogliamo dell’orgoglio che circonda chi è superiore al popolo ed è disposto ad esaltare la nostra virtù per poco che ne lasciamo travedere. Allora fiancheggiati dalla stima dei popolari costringiamo gli stessi ottimati a celare la loro rivalità e soccombere al numero. Che se immediatamente cerchi il suffragio de’ tuoi pari, tu desideri una opinione instabilissima per natura, la quale quand’anche si ottenga porta sempre seco la maggiore proba­bilità pel cambiamento. Chiunque non avendo un animo comune si propone di acquistare i suffragi de’ suoi pari, deve per lo più disporsi ad un intero e lungo sacrifizio col modellare ogni parola ed ogni atto esterno sulle opinioni e su i pregiudizj di essi, per modo che rinunziando quasi alla esistenza propria deve addossarsene una fattizia, e ciò per tentare l’acquisto di una chimera pronta a scom­parirgli davanti al minimo soffio contrario. L’assurdità di questo contratto è tanto evidente che io non so che alcun uomo non volgare lo abbia mai fatto. Convien dunque cercare la stima generale non mai al nostro livello, ma o più alto o più basso; perchè coloro che son posti a sedere più alto di noi, egualmente che i molti che corro­no nel piano più basso, non sono in rivalità di virtù e di merito, e ci giudicano senza passione almeno, se non senza errore. Quindi l’am­bizioso della stima pubblica diminuirà o cancellerà dal suo cuore il desiderio di quella de’ suoi pari, ed ascoltando la ragione, non mai bastantemente adoperata sull’importantissimo affare della felicità nostra, coltiverà quella sola porzione di desiderj che sia pareggiabile col potere. Io ho detto che l’ambizione della stima è compagna della virtù, non già perchè sempre l’uomo virtuoso sia mosso da desiderio di acquistarsi la stima, ma perchè questo desiderio sareb­be una contraddizione se si supponesse in un animo capace di com­mettere azioni ingiuste, dure o crudeli, azioni distruggitrici della sti­ma pubblica, ed ho appoggiato anzi alla virtù che alla superiorità dei lumi l’acquisto della stima, perchè questi ci sforzano ad ammira­re ed a confessarci inferiori, ma non ad avere quella rispettosa bene­volenza e fiducia che porta con sè il sentimento di stima.

Finalmente l’ambizione degli onori è la terza classe la quale nè esclude, nè suppone le virtù del cuore e l’energia dell’animo. Que­sta classe di ambiziosi è più numerosa incomparabilmente delle altre due. Alcune volte l’uomo di merito, e che vive lontano dalla ricerca degli onori, si trova amareggiato dalla insolenza e dal fasto d’uno che è distinto nella società per una carica o per un titolo; que­sti amari frizzi si moltiplicano, vede che il merito disarmato è oppresso dal vanaglorioso, si determina e si scaglia impetuosamente sulla carriera per acquistarne e pareggiarsi agli altri e sottrarsi alla ingiustizia, e prova allo stolido che la distanza posta dalla fortuna fra un uomo e l’altro non è sempre uno spazio insuperabile. Questi ambisce gli onori per sottrarsi all’insultante fasto altrui, non per­chè in sè stesso gli abbia in pregio. Altri cercano gli onori come un testimonio del merito proprio: leggieri, fluttuanti, incerti fra il bene e il male, la maggior parte degli uomini vorrebbero persuadersi di valere, provano frequenti occasioni di conoscere che valgon poco, questa fatale incertezza li rattrista, sembra loro di uscirne acquistan­do degli onori. Costoro sono uomini vani e non uomini ambiziosi: ambizioso è colui che li cerca come un mezzo per difendersi, vano colui che li cerca come un testimonio del proprio merito che non trova nella propria coscienza. La vanità più facilmente conduce agli onori che l’ambizione, perchè l’animo dell’uomo vano, appunto perchè più incerto di sè medesimo, è più versatile e pieghevole alle diverse circostanze de’ tempi e de’ luoghi, laddove l’animo vigoroso di chi ha ambizione è più violento, più rigido e meno docile per conseguenza a prendere l’aspetto piacevole in faccia a chi è l’arbitro nella distribuzione degli onori. Quando la distribuzione degli ono­ri dipende o da uno o da pochi, la incertezza dell’esito diminuisce a misura del merito dei distributori: sotto di un capriccioso despota, sotto un Caligola chi può mai prevedere se sarà fatto Console l’uo­mo di virtù o un cavallo? Sotto un saggio Monarca è meno difficile il prevedere se sarà esaudita o no una supplica, perchè le vie della sapienza sono semplici e chiare, quelle della arbitraria opinione sono un labirinto. Le cariche poi e gl’impieghi non sempre si dan­no a chi sappia meglio esercitarle, ma talvolta a chi sa meglio esser gradito al distributore: la fiducia di dilatare il proprio potere ripo­nendo in carica de’ meri stromenti de’ loro fini può molto presso i ministri primarj generalmente. Vi sono fortunatamente delle eccezioni, ne conosco, ma tanto più sono pregevoli perchè sono rare. Pochissimi poi sono che non temano la superiorità de’ lumi e della forza d’animo. Queste qualità vedute producono maraviglia, sentite producono timore, esercitate producono o l’esterminio di chi le possede o l’obbedienza degli uomini.

Conosciute che siansi queste verità, l’uomo esaminerà sè medesi­mo, esaminerà gli uomini co’ quali dovrebbe porsi ad agire per otte­ner il loro concorso, e scemerà coll’abbandonare una vana lusinga la classe dei desiderj che erano nati prima che la ragione lo illuminas­se e ne facesse conoscere la ineseguibilità, e per gli altri desiderj che rimarranno, molto si scemerà della loro inquietudine qualora rifletta che la maggior parte de’ beni che si sono avidamente desiderati, ottenuti che siansi, s’impiccoliscono e quasi svengono; ognuno che abbia molto desiderato un onore, indi abbial’ottenuto, mi farà sicu­ro testimonio quanto sia questo bene diminuito di pregio; l’occhio vede più piccoli gli oggetti a misura che sono più rimoti, l’ambizio­ne per lo contrario quanto più sono da noi lontani gl’ingrandisce, e quanto più s’accostano gli smagra, gli spolpa, e moltissimi s’an­nientano al contatto. La ragione ci ha abituati a correggere la illusio­ne ottica e giudicare della estensione anche degli oggetti lontani senza sottrarvi dalla vera grandezza; la stessa ragione ci può abitua­re a correggere la illusione della ambizione e preservarci dall’ingan­nevole giganteggiare di minimi oggetti quasi insensibili per loro stessi. È legge inviolabile che sempre i beni che si possedono si pregiano meno de’ beni che si ambiscono, ma la differenza in chi non ragiona è la massima, e sempre va diminuendo a misura che sappiamo far uso della nostra mente per esaminare questi oggetti importantissimi della nostra felicità.

La parte d’Europa ove siavi il maggior fomento per l’ambizione degli onori è sicuramente Roma, perchè ivi trovasi la possibilità dei più grandi acquisti con minimo tempo e limitatissime condizioni. Che un nobile sia fatto Doge della sua patria, che sia creato Re elet­tivo con una moderata autorità, non è questo uno spazio corso pa­reggiabile a quello d’un poverissimo fraticello senza nome, senza appoggi, che in sette anni si trova Sovrano d’uno Stato, padre dei Monarchi e capo della religione. La importanza di quella che noi chiamiamo fortuna si deve conoscere non tanto dal grado a cui uno è giunto, quanto dalla condizione da cui è partito, dal tempo che ha impiegato per giugnere e dal luogo in cui si è collocato. Un Elettore che sia fatto capo dell’imperio, un Principe del sangue a cui passi una corona hanno fatto un passo; un uomo di fortuna che giunga ad essere il primo ministro d’una vasta monarchia come il Cardinale Alberoni ne ha fatti più; ma il Padre Ganganelli, fatto Cardinale e Sommo Pontefice in meno di sei anni, ha camminato con una rapidità somma un lunghissimo spazio, e tale che in nes­suna altra parte d’Europa può un privato fare altrettanto. Chi ha potuto accostarsi a Clemente XIV assicura che acquistare quel sommo grado e perdere la sua pace fu un punto solo.

Francesca d’Aubigné, nata da un matrimonio contratto per fuggi­re dalle carceri colla figlia del bargello, collocatasi a servire il poe­ta Scaron, considerava come un onore il diventare la moglie di quel­l’uomo stimato pel suo sapere. Lo divenne, e rimase vedova. Fu posta, come sappiamo, a servire i figlj che Luigi XIV aveva avuti dalla Marchesa di Montespan; da quella condizione passò a far dimenticare gli amori al Re e guadagnarselo al punto di essere spo­sata da lui e dichiarata Marchesa di Maintenon, la confidente del Re, l’arbitra della Francia, e la più desolata, triste e annojata donna che vivesse forse nel regno. Chi avesse data speranza al Padre Ganganelli solamente di un buon vescovado, si sarebbe creduto di adularlo, ed esso avrebbe nel vescovado ravvisato il colmo della feli­cità. A chi alla d’Aubigné, serva del poeta, avesse fatto sperare un nobile agiato marito, sarebbe accaduto lo stesso. Se si fosse prono­sticata la somma altezza a cui erano destinati, essi avrebbero credu­to di morire di gioja al giugnervi, e in effetto dovettero morire di tedio e di amarezza. Un grosso volume si potrebbe fare di simili rac­conti; ma ogni uomo, per poco di sperienza che abbia, troverà degli esempj nelle persone da lui conosciute alle quali alcuni onori ambi­ti hanno diminuita la pace e la felicità coll’ottenerli. Gli onori e i titoli sono come i deliziosi profumi, che gli abituati a inzupparsene più non li sentono o li sentono con indifferenza, mentre l’uomo vol­gare, che prova una voluttuosa sensazione, accostandosi ad essi li crede circondati da una perenne deliziosa atmosfera. Così i ministri, i cortigiani, i titolati, gl’insigniti di onori, ornati di gemme, d’oro, di nastri, ossequiati, distinti, per lo più meritano la compassione anzi che l’invidia. La mancanza d’ambizione e l’eccesso allontanano ugualmente dal ricercare gli onori: nel primo caso non si cercano per indolenza, nel secondo non si cercano perchè quello che gli uomini credono grande è un piccolo oggetto per noi.

Chi era mai il primo favorito del Re di Spagna che viveva contem­poraneo a Cervantes? Non lo so. Mentre questo favorito, grande di Spagna, cavaliere del Toson d’oro, generale degli eserciti ec. ec. ec., circondato da una brillante caterva di schiavi riceveva nel fasto e nel seno dell’opulenza le adorazioni de’ grandi e del popolo, mentre credeva egli che tutto l’universo lo ammirasse e le più remote età dovessero venerarlo, lo sconosciuto Cervantes, mal vestito, male alloggiato, al lume d’una lucerna scriveva il suo romanzo, il Don Chisciotte; probabilmente si sarebbe trovato ardito Cervantes, se avesse pensato di far conoscere al reale favorito la sua piccola esistenza. La morte troncò la illusione: si ignora il nome del grande coperto di onori, e per tutta l’Europa è tanto famoso il romanzo del Cervantes che pochi uomini viventi sono al dì d’oggi tanto cono­sciuti quanto lo è egli. Le avventure che Cervantes immaginava nel­la sua povera oscurità sono il soggetto di quadri, di arazzi, di stampe che adornano le sale dei Re e i gabinetti degli uomini di gusto, il bel romanzo gira in più lingue nelle mani di ognuno, da quello si cavano i soggetti per gli spettacoli teatrali. Uomo che sconsigliata­mente sei abbandonato ai cruciosi e difficili desiderj di onore, conosci il loro vacuo, e anticipa a vederne l’annientamento, e se hai un nobile sentimento di non cessare d’aver sì tosto vita, volgiti alle belle arti e alle scienze; un Galileo, un Cavalieri, un Tasso, un Ariosto, un Palladio, un Tiziano, un Raffaello, persino un Pergolese e un Corelli vivono e vivranno nomi cari e venerati all’Italia, men­tre l’obblivione ha per sempre cancellati i nomi de’ contemporanei loro, i quali, oppressi dalla copia delle condecorazioni e delle ric­chezze, altro non ebbero che gl’innalzasse dal volgo fuor che ono­rificenze. Volgiti, se cerchi la felicità, alla vera gloria, a rendere te stesso maggiore del comune degli uomini col numero, colla impor­tanza e col buon ordine delle tue idee; dilata il tuo cuore alla virtù pura, ferma, incorrotta, che sta sulla base propria adamantina, e non cambia per cambiamento di opinioni, fedele ai doveri di uomo, di cittadino, di figlio, di sposo, di amico; sia la tua promessa infalli­bile, la tua asserzione la verità, cauto custode del tuo secreto e del­l’altrui; tollera con fermezza l’avversità e con moderazione il destino secondo; sensibile al merito altrui, l’onora sempre in chiunque, anche in un inimico, se sventuratamente ne hai senza essertelo meritato; sia giusto, discreto, benefico, e ti riderai di chi corre ansioso agli onori, possederai tu stesso un tesoro d’onore che nessun uomo può dare, che i malvagi istessi venerano e che a misura che crescerai negli anni sempre più ti renderà generalmente l’oggetto della rive­renza degli uomini. Con questo esame adunque l’uomo, usando della ragione, può diminuire la schiera d’innumerevoli desiderj e strappar di mano al reo destino tanti fili, co’ quali viene incautamen­te strascinato alla infelicità.

§ IV. Dell’accrescimento del nostro potere.

Le due principali sorgenti de’ nostri desiderj sono le già indicate, cioè ricchezza ed ambizione. Una terza ve n’è, ed è quella dei piace­ri fisici, propriamente così detta perchè gli ha immediatamente per iscopo. Anche di questa terza avrei potuto parlarne, ed avrei potu­to provare che anche le sensazioni voluttuose, passando dalla imma­ginazione alla realità, perdono costantemente, che la maggior parte delle inquietudini nostre non derivano tanto dalla esigenza della organizzazione o dalla vera forza dell’oggetto, quanto dalla esage­razione che ne fa la nostra fantasia; per lo che un attento esame può diminuire realmente questa magia produttrice d’inadempiuti desiderj figlj dell’errore, e farci preferire la vigorosa alacrità de’ moderati alla svogliata indolenza di chi, logorando gli organi anima­tori della vita, si priva del più esquisito stato de’ spontanei fisici bisogni. Io però non mi trattengo su di questo soggetto, perchè lo stato degli avidi di denaro o d’ambizione permette a chi ne sente i desiderj l’esame di essi, anzi suppone un esercizio continuato della ragione bene o male adoperata per il conseguimento di que’ fini; ma l’amore, la gola e simili desiderj hanno più adesione alla organica struttura nostra, e sono un ingordo appetito, un delirio, piuttosto che uno stato capace di ragione; quindi poco gioverebbe lo scriver­ne. Altronde, l’uomo può per anni e lustri soffrire i tormentosi e vani desiderj de’ quali ho trattato, ma assai più breve è il periodo de’ desiderj fisici, i quali o si saziano o svengono naturalmente col tem­po, e per ciò meno interessano la felicità della vita intera. Finalmen­te l’argomento è troppo difficile a trattarsi colla severità della sola ragione, ed è più confacente alla penna d’Ovidio, che lo espose in facili e leggiadri versi, anzi che alla placidezza di un ragionamento; perciò, trascorse le due fonti de’ più dannosi desiderj nostri, cono­sciuto di quanto la ragione possa liberarcene, passo a divisare i mez­zi onde accrescere il nostro potere.

Prima base del poter nostro è lo stato fisico della nostra organizzazione. A condizioni uguali dammi due uomini, uno sia vegeto, l’altro soltanto abbia qualche difficoltà allo stomaco caricato di trop­po cibo; annunzia a ciascuno di questi due uomini una piccola di­savventura, vedrai il primo rimanere quasi tranquillo e l’altro sensi­bilmente affliggersene. Noi medesimi possiamo farci testimonio, se dopo esserci addolorati e irritati talvolta con molta pena, liberati poi da taluno dei dolori innominati, de’ quali nell’altro discorso trattai, ci troviamo noi medesimi stupiti che per così piccola cosa abbiamo perdute delle ore di pace e di calma. Ciò posto, molto dipende da noi stessi e dal buon uso che facciamo della ragione nostra il mante­nere più vigorosa la condizione dello stato nostro fisico. L’abuso de’ piaceri fisici ci snerva e indebolisce, seco guida dappoi malattie; l’in­temperanza nel cibo, l’eccesso nelle bevande, la vita neghittosa e se­dentaria, l’abituazione a troppi comodi tendono tutti a indebolire il nostro poter fisico. Il potere, ossia la robustezza del corpo nostro può accrescersi con una ragionata cura di noi medesimi lontana ugualmente e dalla superstiziosa cautela e dal cieco abbandono agli attuali capricci. Le cognizioni delle cose naturali possono molto con­tribuirvi, almeno per non affidare la nostra vita all’arbitrio d’un ignorante medico; ma l’arte di conservare la sanità più sicura e più utile degl’incerti tentativi che fannosi per lo più per ricuperare la perduta è in mano nostra, se sappiamo essere moderati consultando la ragione e la propria sperienza. Così l’uso attento della ragione può conservare ed accrescere la robustezza de’ nostri muscoli e con essa la forza dell’animo, e quindi renderci più disposti ad agire e respin­gere i mali non solo, ma resistere e pareggiare un numero di desiderj, giacchè anche alla gloria e ad altri beni non vi si cammina se non con passo fermo e giocondo.

Oltre il sentimento delle proprie forze fisiche, coraggio macchina­le che accresce il poter nostro, un altro sentimento è necessario al­l’uomo per avere una esistenza ferma ed un coraggio perfetto, e que­sto sentimento necessarissimo è la coscienza tranquilla. L’uomo reo che sa di aver commesse azioni vili e indegne, sebbene nella oscuri­tà abbia tessute le insidie, sempre è angustiato dal timore che sieno svelate; un’occhiata, un gesto fortuitamente equivoci lo sgomentano; ei porta nel cuore una malattia più disgraziata di qualunque fisica imperfezione. Il disprezzo degli uomini che sa di meritare, il loro al­lontanamento che può aspettarsi e mille tristi pensieri abituali nel cuore d’un uomo che cammini per la strada del vizio, imprimono nel suo volto a solchi marcati la tristezza; lo sguardo inquieto e torbido, il passo circospetto e sospettoso sono tanta diminuzione del di lui potere a fronte dell’aspetto sereno, libero e fermo dell’uomo che ob­bedisce alla virtù. Vero è che alcuni cattivi uomini hanno talvolta l’arte mimica di contraffare l’uomo giusto; ma qual peso il rappre­sentare ogni giorno tutt’altro che noi stessi! Questo sforzo non to­glie l’interno avvilimento. Si può disputare qual dei due renda più omaggio alla virtù, se quello che essendo vizioso lascia vedere in fronte la tristezza del rimorso, ovvero chi si sforza a rappresentare l’uomo virtuoso: entrambi la pregiano, perchè l’uno è avvilito per non averla, l’altro fa sforzi per contraffarla; sono due debitori: il pri­mo si dichiara fallito, il secondo paga con moneta falsa; entrambi hanno l’avvilimento nel cuore.

Per accrescere adunque e conservare il poter nostro conviene che l’interno sentimento di noi stessi, che è il più giusto e inesorabi­le de’ nostri giudici, ci sia favorevole. Lo spirito umano ha i suoi confini, l’errore ben sovente ci si presenta sotto il sembiante della ve­rità. Non pretendo io già che un essere debole e imperfetto non possa mai, rivolgendosi al passato, trovare qualche fatto proprio che meriti pentimento: ognuno ne ha; ma facendo noi molto uso della riflessione in tutti gli atti importanti della vita, non ci accaderà di commettere di quelle azioni che degradano ed avviliscono l’uomo. La buona coscienza è il sentimento della conformità delle azioni no­stre colla giustizia, e la giustizia comprende la fedele obbedienza al­le leggi. Le leggi fissate dall’Autore dell’universo sono semplici e in­variabili; ma dove gli uomini ne hanno stabilite, le debolezze, gli er­rori, le mire private vi hanno sì fattamente contribuito che talvolta s’incontrano dubbj, e fa mestieri d’avere la ragione ben addestrata per districarsene. Il ministro del santuario insegna all’uomo la stra­da della giustizia religiosa, il mero ragionatore, che ricerca i mezzi della felicità costanti in ogni luogo e tempo, e comuni anche agli uo­mini viventi sotto false religioni, può guidare gli uomini assai vicini al santuario istesso, partendo ancora dai più meccanici principj, perchè una verità non può smentire un’altra verità e da più principj fisici o morali, purchè sien veri, concatenando una verità all’altra si può giugnere alla stessa dimostrazione.

Mi si conceda che la fuga del dolore e l’amore del piacere sia una legge universale e sempre obbedita dagli esseri sensibili: ne verrà da questo principio che l’uomo sceglier deve per essenza la somma minore dei dolori e la maggiore somma dei piaceri. Una bea­titudine eterna e infinita è maggiore di qualunque bene finito; una infelicità eterna e infinita è maggiore di qualunque dolore finito. Da ciò ne deriva che l’uomo non deve mai cercare i piaceri che sono vietati dalla legge divina, nè ricusare i dolori che la legge divina ci obbliga di sopportare. Come avviene dunque che gli uomini facciano l’errore di calcolo di preferire il meno al più? Perchè le sensazio­ni degli oggetti presenti agiscono quasi sole sull’animo, e la riflessio­ne, alla quale pochi uomini si addestrano, non pone di contro se non pallidi e scoloriti contrasti: quindi si compra sovente un piacer attuale a prezzo d’un dispiacere molto maggiore a venire. Quanto adunque l’uomo sarà più illuminato, tanto più saprà antivedere e contrapporre agli oggetti presenti i lontani, ed accostandosi alla esattezza del calcolo, preferire la maggior somma de’ piaceri e la minore de’ dolori; quindi quanto più si accosta l’uomo alla perfezio­ne del ragionamento, tanto più sarà nella strada della giustizia reli­giosa e si terrà lontano dai rimorsi.

Quelle religioni che autorizzano azioni contrarie alla onestà so­no false, la vera religione è sempre offesa quando sia violata la one­stà. Chi vivesse sotto un falso rito, nondimeno, ascoltando anche la sola ragione, dovrebbe esattamente ubbidire alle leggi della onestà, siccome tanti illustri greci e romani hanno fatto; perchè qualunque piacere è minore della somma dei dispiaceri che si ricevono dagli uomini qualora si ha il concetto di essere malonesto. Il disprezzo, l’allontanamento, gl’insulti, l’insensibilità ai nostri mali sono i senti­menti che legge scritti in faccia degli uomini colui che si allontana dalla onestà, ed è più facile l’essere onesto che il portarne continuamente la maschera. In oltre, offendendo le leggi della onestà, col tra­dire un secreto, coll’insidiare il merito, col calunniare, rapire, essere ingrati, mentitori ec., nasce in noi un sentimento di disprezzo di noi medesimi che è il più crudele di tutti, ed una vile timidezza compa­gna del rimorso che scema il poter nostro togliendoci la buona coscienza. Quindi freddamente concludo che la mera ragione può con­tenere l’uomo nella strada della giustizia morale, s’egli la eserciterà abitualmente. Felici quelle anime nobili e sublimi, che per amare la virtù non hanno bisogno di ragionamento, che sentonsi ingrandire e innalzarsi colle virtuose azioni, e rapite dalla vittoriosa potenza di questa fiamma celeste, sono benefiche e generose per la vivissima vo­luttà che provano in quello stato!

Se lo stato disordinato della nostra organizzazione o dell’animo nostro ci rende timidi e avviliti in diminuzione del nostro potere, e se per conservarcene tutta la porzione possibile dobbiamo colla sag­gia moderazione non meno che colla frequente riflessione mante­nerci lo stato fisico e morale libero dal mal essere, per accrescere questo potere e così poter pareggiare una più vasta porzione de’ nostri desiderj ci fa bisogno d’avere in favor nostro i suffragi degli uomini, o almeno non averli contrarj. Questi o si comprano, o si conquistano, ovvero si rendono indifferenti con una vita oscura ma conforme alle leggi. I Romani, dacchè la virtù repubblicana era svanita, si vendevano, e a preferenza davano i loro suffragi a chi più lautamente sapeva comprarli con cene pubbliche, largizioni, spetta­coli, combattimenti di fiere, gladiatori e simili piaceri gratuitamente accordati. Così seppero coprire la loro tirannia anche i primi Cesa­ri, e fiancheggiati dalla plebe sazia e lieta, impunemente annientava­no gli ottimati e li depredavano, obbedendo così al timore, alla ven­detta ed alla avidità propria col concedere alla fame popolare le spoglie in parte della preda. Non vi sono oggi nell’Europa di sì grandiose compre e vendite, perchè non vi è nazione che possa paragonarsi a Roma ne’ tempi di sua grandezza; non è però abolito l’uso di comprare più in piccolo i suffragi del popolo anche a de­naro, e ciò non potendo accadere nelle monarchie, ove il popolo nulla può dare se non la buona fama, forza è il cercarne le memorie negli Stati ove a’ suffragi pubblici si facciano le elezioni alle magistrature. Le ricchezze servono a comprarci un suffragio di bre­ve periodo, ammeno che non sianvi i mezzi per rinnovare questi periodi istessi, siccome l’avevano i primi Imperadori; e saranno impiegate opportunamente qualora con esse acquistiamo dei beni superiori alla perdita che facciamo. Comunemente però i suffragi degli uomini si sogliono comprare facendo che essi generalmente acquistino una ferma opinione favorevole di noi, della virtù, bontà e ragionevolezza nostra. I caratteri più opportuni per acquistare que­sta generale opinione sono gli uomini che non operano a scosse e ad impeto, ma con movimenti placidi ed uniformi; nemmeno in conse­guenza possono essere gli uomini d’ingegno caldo o d’immaginazio­ne violenta; la figura nostra, che non ci siamo fatta noi, molta parte vi può avere: una maniera di agire e di mostrarci nobile, dolce e sensibile, popolare con dignità è la migliore di tutte. Tutti questi mezzi poco dipendono da noi e dall’uso della nostra ragione; quindi la compra de’ suffragi pubblici o per denari o per maniere è da consi­derarsi come un bene riservato a pochi. Chi è disposto dalla sua condizione e stato a poterselo proccurare, opera sapientemente nel farlo, e chi non ha i mezzi per comprare i suffragi positivi, opera sapientemente almeno coll’evitare i suffragi contrarj, come poi dirò.

Si conquistano i suffragi degli uomini prevalendoci accortamen­te della loro imbecillità, e facendo in essi nascere un timido senti­mento della debolezza loro in paragone nostro: così si legano a noi gli uomini col vincolo il più forte di tutti, che è il timore. Ciò si fa o interessando le intelligenze sovrane nella nostra azione, ovvero manifestando una decisa superiorità di coraggio, virtù che sola in ogni secolo e presso ogni nazione ha saputo costantemente ottenere gli omaggi degli uomini. Il pericolo di questa conquista cresce a misura della violenza con cui si tenta; ma insieme col pericolo cresce la forza della impressione. Ma per conservarci i suffragi così conquistati e per goderne, forza è persuadere almeno quella porzio­ne d’uomini che ci fiancheggia e ci rende preponderanti essere loro interesse di stare uniti con noi. Più in piccolo si conquistano anche i suffragi della moltitudine ottenendo una carica per cui gli uomini aspettino bene o male dalle nostre azioni. Questi mezzi pure per accrescere il poter nostro sono riserbati a pochi, e il primo a pochis­simi; e sebbene accrescano il potere, anche assai dippiù moltiplica­no i desiderj, onde non sono i trascelti dai veri saggi che ricercano la propria felicità.

Si rendono indifferenti i suffragi degli uomini e si toglie loro l’occasione di restringere il nostro potere sottraendoci ai loro sguar­di con una vita oscura e rigorosamente conforme alle leggi. Questa rigorosa conformità è indispensabile per contrapporre al sentimen­to di superiorità, che gli uomini rumoreggianti nel vortice sociale hanno pei solitarj, quello dell’aperta ingiustizia se ne fanno uso. Questo è il partito meno pericoloso di ogni altro e meno soggetto ai capricci altrui, ed è quello appunto che è stato ordinariamente pre­scelto dai saggi.

§ V. Di alcuni contrasti fralle leggi.

La virtù è la base della felicità, siccome si è osservato, e nelle varie leggi alle quali siamo soggetti talvolta trovansi degl’inviluppi così in­tralciati che fa d’uopo di molto uso della ragione per ritrovare il filo delle azioni nostre e preservarci dai rimorsi. Abbiamo le immmortali leggi prescritteci dalla Divinità, abbiamo le leggi civili, abbiamo quelle dell’onore. Gli uomini in alcuni casi sì fattamente le hanno combinate che sembrano cozzare e distruggersi a vicenda. Ho ricevuto una offesa; la religione mi ordina di perdonarla, la legge civile mi prescrive come debba far punire l’avversario dal giudice, l’onore mi eccita a vendicarla col mio braccio. Sono fra ’l peccato, il supplizio e l’infamia. La vita del Principe Stuardo, pretendente alla corona della Gran Brettagna, era posta a taglia, dichiarato reo di Stato chiunque gli desse asilo, il pretendente sconfitto, dispersi interamen­te i suoi partigiani; senza soccorso, solo, languente di fame, freddo e lassitudine, dopo aver passato un giorno appiattato in un cespuglio intorno cui giravano i nemici per prenderlo, venuta la notte si pre­senta alla casa d’un gentiluomo del contorno: «vi porto» dice egli «un felice annunzio: dieci mila lire sterline sono vostre, solo che il vogliate potete aver la taglia promessa a chi consegnerà il Principe Stuardo. Eccolo nelle vostre mani: sono io, senza difesa; disponete dell’ultimo infelice rampollo dei vostri Re, ovvero, se le mie disgra­zie v’inteneriscono, soccorrete la mia fame, ricoveratemi ed assistetemi per uscire dall’isola». Che partito doveva prendere il gentiluo­mo? Egli ristorò l’infelice Principe, lo celò, lo imbarcò alla più sicu­ra occasione; fu processato; la legge era chiara come chiara la con­travvenzione; per tutta difesa, chiese a ciascuno de’ suoi giudici che avrebbon’essi fatto nel suo caso, e fu liberato. Ma fece egli un’azio­ne giusta e virtuosa, ovvero debole e viziosa? Era egli permesso a un generoso e nobile uomo di soggiogare e impadronirsi d’un nimico reso impotente, e che volontario gli si affidava? Che ne avrebbero giu­dicato gli uomini che ubbidiscono ad un valoroso onore? Era egli permesso il conservare e dare libertà a un inimico del proprio Re, di cui la vita poteva cagionare nuovi torbidi e guerre civili? Potevasi contravvenire a un legittimo proclamma? Hai data la tua parola d’onore di conservare un secreto: si pubblica una legge che obbliga a manifestare gli autori dell’azione che tu sai sotto il sacro vincolo; altra pubblica legge ti offre una ricompensa e con pubblico editto t’invita ad uccidere un uomo; ma la religione e la onestà gridano non tradire, non uccidere: come condurommi in questo orribile labirinto?

In queste spinosissime situazioni trovandosi l’uomo anche buono e virtuoso, talvolta è in pericolo di fare una scelta di cui poi s’abbia a pentire ed averne rimorso. La riflessione però mi può dare il filo per rettamente condurmi. La prima di tutte le leggi è la divina: è mio dovere di sacrificar tutto all’ubbidienza di un Essere maggiore di tutti. Il mio dovere è pure di non mancare mai alla virtù. Se un ragionatore esatto mi ricercherà cosa significhi questa voce dovere, io mi accontenterò quand’anche si voglia renderla una emanazione d’interesse. Interesse sia quella general voce che comprende le azio­ni che ci sono utili e dovere sia quella porzione delle utili azioni che sono conformi alle leggi: il primo sia il genere, l’altro la specie. Non ogni interesse sarà un dovere, perchè vi sono delle azioni che la leg­ge ha lasciate in libertà. Interesse poi contrario alla legge non è possibile che si dia, poichè sarebbe una contraddizione il dire che sia nostro interesse comprare un piacere che porta in conseguenza un male più grande di lui. Si dà un apparente interesse momentaneo contrario alla legge, perchè il bollore delle passioni per alcuni pe­riodi distrae l’uomo dal ragionare, e allora sta il pericolo di abban­donare il cammino della giustizia; ma ogni uomo che a mente cal­ma e ragionando travia dal proprio dovere, dà, a mio credere, la più evidente di tutte le dimostrazioni di avere un vizio nella facoltà ragionatrice. Mi si cercherà pure cosa io intenda di significare colla parola virtù. Io non intendo di comprendere sotto questo vocabolo gli atti del culto religioso, ma unicamente di significare quella clas­se di azioni che per consenso generale degli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, costantemente furono considerate virtuose: perdona­re generosamente all’inimico, essere fedeli, grati, liberali, umani, va­lorosi, giusti, e, per comprendere il tutto più brevemente, l’eserci­tare gli atti utili in generale agli uomini.

Perciò l’animo virtuoso sarà quello che ha un costante desiderio di fare cose utili in generale agli uomini. Ora, siccome l’onestà ci porta a guardarci dalle azioni dannose ai nostri simili, ed è nostro interesse, siccome dissopra ho detto, d’ubbidire alle leggi della one­stà, così evidentemente se ne deduce essere nostro dovere di non mancare alla virtù.

Ciò posto, per conoscere fralle contraddizioni angustiose delle leggi cosa esiga da noi la virtù, conviene esaminare nella scelta qua­le dei partiti che ci si affacciano produca un effetto più utile in generale agli uomini. Convien calcolare se sia più il bene che si fa agli uomini svelando un secreto, e liberandoli da uno che è giudicato pernicioso alla quiete pubblica, ovvero se sia maggiore il male di autorizzare col proprio esempio un freddo tradimento ed un legale assassinio. Per fare esattamente questo calcolo, conviene esaminare altresì lo stato attuale della società in cui ci troviamo.

Formiamoci una idea d’una società d’uomini tanto perfettamente organizzata quanto ce la può somministrare la nostra immagi­nazione. Suppongasi un’isola nell’Oceano, ove gettati due fanciul­li da una tempesta sieno divenuti col tempo i patriarchi d’un nuo­vo popolo, cresciuto co’ secoli al segno di poter formare una na­zione. Questa moltitudine di uomini mossa dai bisogni, mancante di idee complesse (frutto di una lunghissima tradizione, e che non si accumulano se non dopo lo stato di civilizzamento), avrà ubbidito principalmente alle impressioni degli oggetti che attualmente ferivano i suoi sensi. Quegli uomini erano allora indipendenti, nè vi sarà stato fra di loro che la robustezza diversa o la diversa scal­trezza che potesse mettere limite alle azioni altrui, e l’impero era tutto nella forza. Ma come la minor forza e la minore astuzia è pro­pria del maggior numero, così in quello stato la parte massima del­la nazione avrà dovuto soffrire la prepotenza; quindi la sicurezza nelle proprie capanne, la tranquillità nella custodia de’ frutti rac­colti per proprio cibo, la pacifica convivenza colla propria donna essendo sempre in pericolo, gli abitanti furono indotti a collegarsi per formare colla riunione di più forze un contrasto. Dopo varie parziali associazioni ancora disuguali, e forse rivali e guerreggianti, la durevolezza de’ mali indusse un uomo più accorto a proporre una associazione stabile, pacifica, universale. Così venne abolito il feroce muscolare dispotismo, e così si venne a circoscrive­re il numero delle azioni di ciascun uomo, vietandogli quelle che si opponessero alla sicurezza e pace d’un altro uomo, reso con cer­te leggi fattizie sicuro di conservare sè stesso, i frutti della sua in­dustria, la donna sua e i suoi figli. Così ciaschedun uomo si spropriò di parte della sua indipendenza per acquistare la libertà, e passò la nazione allo stato sociale. Così venne a stabilirsi un dritto di proprietà.

Ma le società degli uomini, gli Stati, le repubbliche e i regni d’Eu­ropa hanno essi mai ne’ loro annali i documenti di simile associazio­ne primitiva? Questa isola immaginata altro non è che una finzione la quale niente ha di comune colla realità de’ nostri dritti. Così può chiedermisi ragione della genealogia degli Stati, immaginata non meno a piacere da alcuni filosofi di quello che alcuni antiquarj lo facciano delle famiglie. Io accordo che della remota infanzia delle società non ci restano memorie, nè potevano lasciarcele gli uomini prima dello stato d’incivilimento e della invenzione della scrittura; arte che sarà stata delle più tarde a trovarsi, e conseguentemente inventata in que’ tempi ne’ quali la memoria della associazione primiera non poteva essere più presso degli uomini. Accordo di più che forse indipendentemente da ogni convenzione un uomo solo più ardito, più illuminato o più scaltro può aver cominciato a domi­nare sopra i suoi figli, e con essi forzare altre famiglie ad unirsi a lui, e così, creatasi una potenza, soggiogare un popolo colla sola forza e col fatto. Ma se la sola forza desse un diritto, ne verrebbe l’assurdo che la sola resistenza lo potesse togliere; perciò quella origine dello stato sociale non sarebbe fondata sulla giustizia, ma sulla mera usurpazione e violenza, nè potrebbe nascere un dritto che posteriormente, quando cioè l’esercizio del potere venisse così saggiamente adoperato che equivalesse alla immaginata spontanea primitiva associazione.

Il fine adunque dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società, il che si risolve nella feli­cità pubblica, ossia nella maggiore felicità possibile ripartita colla maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Ovunque le leggi positive abbiano questo sco­po, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i doveri e i dritti d’ogni uomo sono chiari e sicuri, ivi è interesse di ogni socio che si osservino le leggi per le quali sussiste; giacchè violandole ecciterebbe gli altri a rimettere in vigore la forza, si annienterebbe la libertà, risor­gerebbe la selvaggia indipendenza; ivi le leggi non possono mai essere in contraddizione colla virtù, perchè le leggi tendono alla feli­cità pubblica, e la virtù, siccome ho detto, avendo per oggetto gli atti utili in generale agli uomini, non si può mai cercare la felicità pubblica con atti dannosi generalmente al genere umano. Questa età dell’oro però è una immagine deliziosa, ma tanto vana quanto la perfetta felicità nell’uomo. Non s’è data nè si darà nel mondo una società così esattamente organizzata, dove ogni atto della podestà pubblica sia una spinta verso la pubblica felicità, e dove quella clas­se d’uomini presso i quali ne viene depositato l’esercizio non travii mai, non declini e non ne abusi; poichè, qualunque sia la forma del governo, sempre un numero di uomini ha influenza nel maneggiare la forza pubblica, e questi uomini sono soggetti all’errore, alle pas­sioni e alle debolezze e imperfezioni della nostra specie.

Una società traviata dai principj costituenti la giustizia sociale e condotta alla corruzione lascia per l’opposto incerti i doveri e i drit­ti di ogni socio, e confuse sono le azioni d’ogni uomo: la felicità con­densata in pochi, il fasto, l’orgoglio di questi sempre più amareggiano lo stato di miseria e di annientamento dei molti. Le leggi sono un atto di potere arbitrario, la diffidenza, la dissimulazione, la viltà serpeggiano in ogni ceto, si teme la verità, si fugge la vista d’una vir­tù luminosa il di cui baleno è troppo forte scossa alle deboli pupille della moltitudine. In questa società gli uomini restano tranquilli come l’acqua nelle pozzanghere, e di questa società perciò non ne vedi lo scioglimento, perchè le membra, isolate dal timore e concen­trate, non osano accostarsi fra loro e riunirsi a distruggerla. Ivi la maggior parte di chi la compone non ha interesse a mantenerla, ma soltanto a non essere autore della dissoluzione.

Fra questi due estremi trovansi comunemente le società; onde per risolvere ne’ casi di conflitto fra le leggi civili e quelle dell’onore, sarà da calcolare se facciamo più male agli uomini indebolendo col fatto nostro le leggi dell’onore, ovvero indebolendo le leggi civili. Le prime tanto più diventano utili agli uomini in generale quanto meno lo diventano le seconde; anzi le prime s’annienterebbero e diverreb­bero superflue quanto più le seconde si accostassero allo scopo del­la instituzione sociale, perchè l’onore essendo la legge della opinio­ne universale degli uomini, ed opinando in questa parte con liberi suffragi tutt’i membri della società per accordare stima o disprezzo alle azioni, a misura che sono o generose e nobili, ovvero abiette e codarde, non potrebbe mai la opinione universale libera degli uomi­ni disapprovare l’obbedienza alle leggi che tendono anche alla mag­gior felicità di ciascun uomo, per quanto è possibile il combinare gl’interessi di tutti. Quindi in una società traviata e condotta alla sua corruttela sembra che sia una azione più utile in generale agli uomi­ni il rinforzare le leggi dell’onore, acciocchè almeno non tutte le azioni vengano depravate dalla cattiva legislazione; e in una nazione più bene condotta, a proporzione che s’andrà accostando alla origi­naria giustizia, sarà più utile azione il rinfiancare l’obbedienza a quelle leggi civili che sono garanti della civile libertà e della felicità pubblica. Con tali principj sembra che possano sciogliersi i difficili problemi delle legislazioni che si contraddicono; e così il saggio uso della riflessione anche in queste inviluppate indagini può indicarci la strada della virtù onde ci preserviamo da quell’avvilimento in cui ci precipita il rimorso, e conserviamo il vigore dell’animo, la buona coscienza e il potere maggiore onde pareggiare un più gran numero di desiderj.

§ VI. Della conoscenza di noi e degli uomini.

Affine di sviluppare e porre nella massima attività il poter nostro è necessario che ci occupiamo profondamente per conoscerci e co­noscere gli uomini. Conosci te stesso è un antico e verissimo precetto della sapienza, il quale in poco indica la perfezione della gran­d’opera a cui debbon tendere le ben dirette nostre meditazioni. Poche sono le anime privilegiate che resistano ad un tranquillo e con­tinuato esame di loro medesime, e la maggior parte degli uomini sono come deboli ammalati, che temono la vista delle proprie ulceri. Cerca la moltitudine di slanciarsi lontana da sè medesima; quindi l’abborrimento della solitudine e il bisogno perenne o d’una conver­sazione qualunque ella siasi, o di un lavoro, o anche d’un libro che occupando le nostre idee ci faccia uscire da noi medesimi e ci trasporti ne’ palazzi incantati del regno della immaginazione. Così la vita dei più si risolve in una costante obbedienza agli urti degli og­getti presenti, ai quali rarissime volte la riflessione contrappone l’im­magine degli oggetti lontani; onde mutandosi pel moto universale o la distanza o l’apparenza degli oggetti, galleggiano le menti umane sopra di uno instabilissimo fondo, sempre fluttuanti dall’amore al­l’odio, dal disprezzo alla stima, con una apparente contraddizione, ma che meglio esaminata si risolve in una costante adesione al medesimo principio. Il saggio che cerca la propria felicità conosce che questa non può essere collocata altrove se non nel mezzo del suo cuore; si ripiega in sè stesso e attentamente considera quali sieno i movimenti, le cure, i desiderj che lo agitano, d’onde traggono questi l’origine; ascende a questi primi germi delle inquietudini e pone sul­la esatta bilancia la realità o la chimera della opinione produttrice; l’attento esame accompagnato dalla dubitazione, madre della sapien­za, gli stanno al fianco; separa le verità dalle opinioni, pone nella pri­ma classe quelle solamente che hanno subito il cimento; e ritornan­do spesse volte a rimirare sè stesso nella tranquillità, ed ivi richiaman­dosi le vestigia de’ passati tumulti, divisa i mezzi onde scemare le tur­bolenze cagionate da’ desiderj di beni chimerici, ovvero di beni non conseguibili, col passare dalla dimostrazione alla persuasione, il che si fa con atti ripetuti. Rivolgendosi poscia all’esame de’ mezzi onde conseguire i beni che gli convengono, accresce il potere per rendere minore, quanto è fattibile, l’eccesso de’ desiderj sopra di quello. Da questa interna analisi di noi medesimi nasce il gran bene che pos­siamo sentire, con una sorta d’amicizia di noi stessi, la contentezza di esistere, di renderci conto de’ principj che ci movono, il che ci dà una ragionata compiacenza di noi medesimi, poichè sentiamo la distanza vera e reale che passa fra noi ed i volgari, e la non fattizia superiori­tà nostra in ciò, che noi possiamo essere con noi medesimi, laddove quelli portano sempre il loro nemico nel cuore, se non altro il tedio della propria esistenza; e questo sentimento accresce il vigore del no­stro animo e il nostro potere.

Per conoscere me medesimo, io non cercherò che gli altri uomini mi dicano cosa io mi sia nè quanto io valga; il giudizio più esatto l’ho da fare io stesso, e lo potrò fare se mi esamino. La imbecillità degli uomini m’innalza al dissopra del mio vero orizzonte, per poco che mi sorrida la fortuna; l’orgoglio e la invidia degli uomini vorrebbero persuadermi ch’io valgo meno di quello che è in fatti. Se mi ab­bandono a giudicare di me stesso dalla apparente stima degli altri, sarò un uomo passivo e comune, gli onori mi ubbriacheranno e mi faranno cambiare portamento e morale, una traversia mi annienterà e mi farà strascinare nel fango l’avvilita esistenza, passerò la vita ora schiavo, ora tiranno, e non mai uomo, nè felice. Io esaminerò me stesso, e vedrò se una azione generosa mi lascia l’animo in calma; se conservo la pace interna all’udire una azione infame, dirò: il mio cuore è disgraziatamente insensibile, il mio animo è sin ora incapace di elevazione, sono pur troppo un uomo comune e gregario. Ma se la voce della virtù rimbomba sul mio cuore, se le azioni nobili, eroiche, benefiche fanno stillare dalle mie palpebre un dolce pianto, se l’abbominazione e la viltà mi eccitano un vivo sdegno e ribrezzo, dirò allora: sono capace di virtù, sono un uomo, e posso innalzarmi alle belle azioni; l’amor proprio non può sedurmi, perchè si tratta di un fatto. Per giudicare poi delle forze del mio ingegno, io vedrò se le opere di que’ primi maestri che onorano la nostra specie mi siano intelligibili, esaminerò se nel mio cuore vi sia una calda stima per gli uomini di merito, e con ciò avrò la misura della elevazione della mia mente. Il contrassegno più sicuro di ogni altro per conoscere se valghiamo è la sensibilità e l’entusiasmo per il merito altrui; nessun grande uomo ha mai avuta gelosia o invidia del sapere altrui, questo pusillanime rannicchiamento del cuore è figlio della incertezza del nostro merito e suppone un’anima volgare.

Nelle opere di eleganza e di gusto è necessario il ricorrere alla opinione altrui, perchè le leggi e le regole sono poco precise, e il riu­scire dipende dalle opinioni, dai tempi e dai luoghi. Io non cerche­rò ad un altro uomo se quello che io scrivo sia vero o falso, se sia dettato dalla virtù, ovvero dal mal animo; cercherò bensì dalla opi­nione di uomini colti e onesti se la verità e la virtù nel mio scritto sieno annunziate con chiarezza, con facilità, con ordine, con varietà, con ornamento, perchè questo risguarda l’impressione che devefare uno scritto sugli animi altrui, di cui non posso avere certezza anticipatamente entro di me medesimo. Così il poeta, il pittore, l’architetto, lo scrittore di musica, lo scrittore qualunque non può nel­la solitudine giudicare esattamente del proprio lavoro, ma forza è che ricerchi l’opinione di alcuni per decidere sul merito del suo talento, e consigliarsi affine di perfezionarlo. Ma il merito del tron­co maestro, dirò così, cioè della elevazione del cuore e della forza del nostro ingegno, noi soli possiamo giudicarlo. Se la certezza non comincia in noi, su i fatti che accadono nel nostro interno, non è possibile che siamo mai fermi e sicuri di veruna dimostrazione.

Conosciuto ch’io sia a me medesimo, definita ch’io abbia la vera e nuda altezza in cui mi trovo riposto, spogliato ch’io mi sia dei tito­li e di quant’altro di posticcio mi dia la sorte, abituato a entrare ne’ penetrali del mio essere, a conoscerli, ad esaminare le vicende del mio animo, io mi trovo collocato sopra di una base profonda e immobile, d’onde più fermamente rimiro il giuoco delle umane vicende; e sebbene debole ed isolato io possa ricevere e mali e beni dal concorso delle cose che si movono intorno di me, nè il favore d’una fortuna capricciosa farà ch’io mi pregi più di quello che val­go, nè gl’insulti di lei faranno che io mi creda meno di quello che sono. Sarò ora lieto ed ora tristo, ma non mai insano; e questa fermezza d’un animo che s’innalza sopra il destino e sta immobile nel­le vicende è il più gran bene che ci possa dare la ragione, e allora l’uomo acquista il massimo potere per resistere alla infelicità, il che sta rinchiuso nel precetto conosci te stesso.

L’uomo poi che sia destinato a convivere, un altro esame deve intraprendere sopra di sè medesimo per fare il miglior uso del pro­prio potere, e non adoperare sforzi inutili e stentati fuori della pro­pria carriera, e quest’esame è il riconoscere il proprio lato forte e il proprio lato debole. La figura e l’indole di un uomo lo invitano alla piacevole giocondità; sarebbe un uomo di spirito amabile, disgrazia­tamente si è trascelte maniere gravi e sentenzioso discorso, è un Catone forzato, nojoso, che nessuno può stimare. Per l’opposto niente è più sconcio di quella stentata occupazione che s’è imposta un altro di voler rallegrare con frizzi e sali che la natura non gli ha concessi; se rappresentasse il carattere d’un uomo sensato e placido, godrebbe di migliore reputazione. Questi sarebbe un elegante scrit­tore, se non si ostinasse a comporre per il teatro per cui manca di genio. Quegli è un esattissimo ragionatore, e non vuole scrivere che freddissimi e bassissimi versi. Sarebbe immensa la schiera, se dovessi accennare i varj casi ne’ quali l’uomo si presenta svantaggio­samente per non avere esaminato meglio sè medesimo e trascelta la occupazione conveniente al proprio talento. Il saggio se ne occupe­rà, esaminerà sè stesso, farà diversi tentativi, starà in attenzione qual sentimento risveglino negli astanti, e senza avventurarsi incauta­mente, colla riflessione e colla sperienza troverà la strada per lui più naturale, sicuro che quello che costa sforzo ha sempre cattivo con­torno e riesce disgustoso, e che la imitazione è sempre stentata e spiacevole. In tal guisa coll’esame di sè medesimo il saggio acquista il massimo potere e la massima industria per farne buon uso per la propria felicità.

Se alla nostra felicità molto possono contribuire gli uomini, conviene esaminarli, conoscere con accurata osservazione i principj che li movono, talvolta sconosciuti a loro stessi, e dedurne quindi una notizia esatta di quanto possiamo da essi sperare o temere. Il luogo che occupa un uomo, poco o molto inganna comunemente; uno sciocco titolato e un uomo di sommo merito inerme e povero sono rimirati con un vetro di mezzo: fra l’occhio e il primo il vetro è convesso, fra l’occhio e il secondo è concavo il vetro, e così si pregia il primo più, e il secondo meno del vero. Se l’ordine della società e la nostra pace richiedono da noi dei riguardi e degli ossequj, facciasi, ma non passi il cerimoniale all’anima, la quale libera e sciolta deve esaminare e pesare esattamente il merito dell’uomo. Il saggio sta attento contro di questa seduzione, tanto più forte quan­to sempre attiva, e si fida de’ giudizj proprj solamente allora che mutandosi la fortuna altrui, non sente cambiarsi internamente la opinione.

Se da un canto esamini di quanto sia stato capace l’uomo, ti si presenta un pomposo ammasso di gloria che ti sforza a venerarne l’ingegno e la sublimità. Vedi questo vivente sprovveduto di armi, vinto dalla maggior parte degli animali nella vista, nell’udito, nel­l’odorato e nel corso, vedilo viaggiare sicuramente sulla instabile superficie dell’immenso Oceano, attraversare gli antipodi e cingere col suo viaggio il globo. Osserva con quanta sagacità ha inventate le voci sì varie col mezzo delle quali comunica ai suoi simili i suoi pensieri. Poco era questo ancora: cerca di parlare ai lontani, cerca di conversare co’ suoi posteri e inventa la scrittura, e la perfeziona al punto non solo di palesare esattamente i movimenti del suo ani­mo, ma di palesarli piacevolmente con grazia e con venustà. Vedi quest’industriosissimo essere creare a sè stesso nuovi organi per supplire alla debole sua vista, e con essi è giunto a contemplare di­stintamente molti oggetti che la piccolezza o distanza rendevano insensibili. Conosce allora i corpi celesti, ne calcola la posizione, la grandezza, il moto, e anticipatamente ne annunzia l’ecclisse e l’apparenza. Cava dal mezzo ai monti i metalli e ne forma stromenti per la difesa, e mezzi per formarsi nuove mani ai più sottili e dif­ficili mestieri. Un piccolo orologio solo da tasca basta a provare quanto possa la mano grossolana dell’uomo diretta dall’ingegno. Gira per le botteghe, passa dallo stampatore, dal fabbricatore di calze a telajo, dal tintore ec.; esamina le biblioteche, que’ vastissimi emporj de’ molti sogni e di alcune verità, e ammirerai l’altezza a cui l’uomo può giugnere. Ma dall’altra parte qual contrasto non fa a sì nobile prospettiva il riflettere come gli Stati d’Europa miseramen­te sacrifichino ogni anno molte miliaja di vittime umane per pos­sedere e coltivare nell’America, mentre nel centro dell’Europa vi sono vasti deserti, e ciò per rendere nell’Europa più abbondante l’oro e l’argento, conseguentemente meno pregevole, e conseguen­temente più voluminoso il trasporto di quella merce che è l’universale permuta delle altre! La milizia d’Europa, quel terribile sgo­mento della potenza e della sicurezza, ancora non è vestita in modo d’aver libero e facile il moto, ed essere difesa dal nemico o dalla sta­gione. I pubblicisti disputano se un uomo appartenga alla na­zione, ovvero la nazione ad un uomo. I giurisperiti hanno posta l’in­certezza nelle proprietà. I medici, poco conoscendo e molto affer­mando, più ammazzano che non risanino. Il mondo è quasi tutto diviso in due classi: la piccola è di quelli che ne impone, la grande è di quelli che ciecamente si sottomettono; stanno confusamente amalgamati nella mente dei più il bene e il male, e il commercio di uomo a uomo comunemente si riduce alla creazione di qualche in­felicità che si divide in eguali porzioni. Nel conoscere queste tri­sti verità l’uomo che abbia nel cuore una feroce virtù diventa mi­santropo, disprezza e abbomina la propria specie; ma il vero saggio al penoso sentimento dell’odio ne sostituisce un più giusto e più umano, cioè la compassione degli errori della moltitudine.

Come mai l’uomo, che ha trovate le leggi della gravità, quelle della luce, quelle de’ movimenti celesti, ancora non ha trovato un codice che limiti e decida pacificamente la proprietà d’un cittadino? Io credo che la ragione stia nella natura istessa dell’uomo. Nella nostra specie vi sono alcuni pochissimi, i quali sono dotati di una forza d’in­gegno e d’una costante passione per cercare la verità e la gloria, talchè essenzialmente trovansi in una classe moltissimo innalzata sul livello degli altri. Bastano cinque o sei di tali uomini che nascano uno dopo l’altro per condurre alla somma perfezione una scienza, e que­sto edificio lo innalza ciascuno nel silenzio della solitudine non at­traversato dalle opinioni o dalle rivalità di alcun uomo; fatto che sia poi, il risultato si mostra a più uomini, e molti anche di coloro i qua­li non avrebbero avuto forza e ardire per portare nuovi materiali ad innalzare l’edificio, ne hanno per esaminarlo e salirvi. Ma negli og­getti che risguardano gl’interessi pubblici, l’uomo che sarebbe capa­ce d’innalzarsi viene o escluso o contrastato, ammeno che quest’uo­mo non sia nato sul trono; perciò i regolamenti politici, essendo l’opera di più uomini, sono come le strade delle grandi città, fatte in origine più a caso che a disegno, e i sistemi sono tanto capricciosi e irregolari quanto la pianta d’una città, perchè sì questi che quelle na­scono dal risultato dei comodi che ciascun privato ha cercato di ot­tenere, e non dal disegno d’un architetto che avesse in mira un tutt’insieme, il comodo, la facilità e l’eleganza. Le opere d’un uomo che agisca da sè possono essere un tutt’insieme, e talvolta prodigio­se e sublimi; le opere concertate da molti uomini insieme, che a for­ze eguali si uniscono, sempre saranno difettose e incongruenti. Di tante accademie di scienze che ha l’Europa nessuna ha formato col suo concorso un Galileo o un Newton. Nessuna Accademia di pit­tura ha formato un Raffaello, un Coreggio, un Tiziano. Nessuna ac­cademia di poesia ha formato un Tasso o un Ariosto. Un ceto d’uo­mini non farà mai cosa che oltrepassi la mediocrità.

L’uomo comunemente è debole, anche sotto di un aspetto libero e sereno sta covandosi nel cuore il timore. Questo timore è il padre del­la gelosia, della invidia e del sospetto. La debolezza permette a pochi il ragionare, pochi resistono alla fatica d’un lungo esame. La moltitu­dine ha ribrezzo per ogni azione vibrata, sia nel bene, sia nel male; lo­da le virtù facili e sociali, ammira le virtù un po’ elevate, ma le azio­ni veramente sublimi o non le sente, ovvero le sente con ribrezzo, per­chè danno troppo forte scossa alla debole sua esistenza. Cessa adunque, o saggio che cerchi la tua felicità, di esigere dagli uomini quella generale ragionevolezza che ripugna alla loro costituzione, e in vece di affliggertene allorchè non la trovi, rimira ciò come un regola­re fenomeno della nostra specie; se ami d’essere superiore colle for­ze della tua mente e del tuo cuore, non isdegnarti adunque se negli altri ritrovi mente e cuore più deboli; hai con ciò la dimostrazione della superiorità tua sopra dei volgari: essi camminano ad occhi ben­dati brancolando, e tu li vedi. Svanisce con ciò una classe d’impos­sibili desiderj e si accresce il sentimento del tuo potere.

§ VII. Dei movimenti del cuore.

Le verità sin ora sviluppate ci staccherebbero affatto dagli uomini e ci concentrerebbero a vivere con noi medesimi, se non avesse provvidamente riposti l’Autore eterno della natura due principj nel nostro cuore, la compassione e il bisogno d’amicizia. La vista d’un animale morto eccita una emozione violenta nell’animale vivo della specie istessa, e soffrendone con dolore la vista se ne allontana con ribrezzo. Le grida del dolore d’un animale svegliano la sensibilità di altri animali della specie medesima, e si vedono penosi accorrere e inquieti attrupparsegli d’intorno. Questa legge non è comune a tutti i viventi, ma soltanto a molte specie, e quella dell’uomo vi si comprende. Indipendentemente dalla ragione, sembra quasi per istinto che l’uomo alla vista d’un altro uomo che sia addolorato patisca, e da questo patire come per simpatia ne deri­va la voce compassione. I bambini fanno ridendo delle azioni crude­li e sono insensibili talvolta ai mali altrui, perchè non hanno idea di quello che soffre l’oggetto che hanno presente; ma l’uomo comu­ne ancora soffre nel vedere soffrire un suo simile, e a meno che non si sia con replicati atti costantemente incallito alla vista dei mali, le fibbre con un intimo fremito lo portano anche macchinal­mente a desiderare il fine del male altrui. Pochi uomini reggeranno a starsene la prima volta col giudice criminale che fa dai sgherri slo­gare le ossa a un infelice colla tortura, ovvero col litotomo che taglia l’uomo vivo per estrarre la pietra; e ascoltando l’agitazione interna l’uomo non incallito farà cessare lo spasimo altrui se lo può, o almeno si allontanerà colla fuga dall’atroce spettacolo. Se questa macchinale irritabilità si risguarda dalla ragione, potrà un austero e duro stoico consiliarci di indebolirne la forza coll’uso di assistere agli spasimi altrui; ma se un più umano e più illuminato filosofo considera questa sensibilità del nostro animo come la benefica sor­gente delle umane virtù, se a questa conosce appartenere la bontà del cuore, la fratellanza, la dolcezza, la sociabilità nostra, consiglie­rà in vece di ben custodirla, e di tenercela ben cara e preservata da qualunque azione che ne diminuisca la più squisita palpitazione. Questa è l’organo morale, questa è quel sesto immaginato senso che ci porta a soccorrere gli afflitti, i bisognosi, gli addolorati anche prima che la ragione ce lo suggerisca; e le nostre azioni verso il bene sono sempre più energiche quando partono da una spinta di senti­mento, di quello che riescono quando ne ha anticipatamente compassato il cammino la tranquilla ragione. Se la strada della felicità fosse quella del vizio, io suggerirei di soffocare questo senso di com­passione nel nostro animo, e ridurci a potere indifferentemente essere spettatori de’ mali altrui; ma siccome il potere del nostro ani­mo e l’energia del coraggio nostro non reggono, se non abbiamo un nobile sentimento dalla coscienza nostra che ci risponda della eleva­zione di noi medesimi, il che non può aversi se non a misura che sia­mo virtuosi; così questa disposizione macchinale alla virtù è nostro interesse il conservarla, il raffinarla, l’accrescerla affinchè siamo felici. La virtù nata dalla sola ragione ci fa essere giusti, fedeli, discreti e circospetti; ma quella che parte dal sentimento ci fa essere genero­si, affettuosi, benefici. La prima tende più a sottrarre dalle nostre azioni il male, la seconda ci spinge con azioni positive al bene.

Un limite però sarà da porsi a questa benefica sensibilità del nostro animo, e questo la virtù istessa ve lo pone, cioè quando per essere utili e benefici convenga reprimere il ribrezzo per il patimen­to altrui. Molti sono i casi della vita ne’ quali, per soccorrere e libe­rare altri dal male, conviene reprimere quella macchinale sensibilità che ci renderebbe attoniti e inoperosi o ci farebbe volgere alla fuga; e allora la buona direzione di noi stessi ci farà rivolgere ai mezzi del soccorso per i modi meno turbolenti e più sicuri e brevi; ed occupa­to in questa ricerca industriosamente il saggio, distraendosi da una troppo viva compassione, moltiplicherà le azioni virtuose e si rende­rà sempre più robusto per allontanare sè medesimo dalla infelicità.

Questa compassione de’ mali altrui non si trova che languidissi­ma, sì in coloro che hanno avuto poche occasioni di soffrire, come in quelli che fortissime e frequentissime ne ebbero. Le fibbre perdo­no la loro sensibilità egualmente o nel letargo o nell’abuso delle ri­petute sensazioni. Se un uomo giovane, ricco, amabile, educato fra gli agi, vivente fralle ridenti dissipazioni vedrà un pallido padre di numerosa famiglia, lacero, abbattuto dal dolore, mancante di mezzi per dar pane agli affamati e languenti figli, leggermente lo scaccerà come importuno, non già per orgoglio nè per avarizia, ma perchè non ha idea del dolore che soffre quel misero. Lo stesso compassio­nevole oggetto presentato a uno schiavo che da più anni vive a un re­mo, nessuna emozione cagionerà, perchè la sensibilità dello schiavo è stata incallita dai mali proprj. La squisita sensibilità che rende le anime delicate e raffinate nel sentimento sarà massima in coloro che avendo idea dei mali e provatili per qualche tempo, innamorati del­le attrattive della virtù, avvezzi a rendersi conto de’ sentimenti, non abbiano l’animo intorpidito da assoluta mancanza di passioni, nè as­sorbito da una passione violenta che annienti ogni altro movimento.

Le infermità, la tristezza, le passioni, le debolezze inerenti alla nostra costituzione diversificano per modo i varj momenti della vi­ta, che se non abbiamo chi ci consoli, chi ci consigli e chi persino tal­volta pensi in vece nostra, siamo abbandonati alla desolazione, e co­me isolati e smarriti in uno squallido deserto, esposti non di rado a farci dei mali talvolta irreparabili: ecco la fonte dell’amicizia, nome sacro e venerabile, troppo profanamente adoperato da ogni classe di persone. Il bisogno d’avere un amico è piccolo negli uomini d’un ca­rattere duro e poco sensibile, è grande negli animi delicati e afflitti o dalla fortuna ovvero dai mali fisici, è quasi nullo negli uomini po­sti in superiore fortuna, sani e lieti, negli ambiziosi degli onori, ne­gli avari, ne’ maligni, e in tutti coloro i quali debbon temere di lasciarsi conoscere quali internamente sono. Se tranquillamente esa­mineremo i beni e i mali che in noi produce il bisogno dell’amici­zia, dubito che ne sarà per comparire una verità poco consolante; so­no tanto rari i caratteri meritevoli d’essere amici, sono tante e tanto volubili le passioni dell’uomo, che cercandoti un amico, il rischio è fortissimo d’essere finalmente deluso. In conseguenza di ciò gli an­tichi lasciaronci quel ferreo precetto di trattar sempre coll’amico co­me se un giorno dovesse diventare inimico; precetto il quale consiglia realmente a non avere amicizia per alcuno. Conosco che que­sta sarebbe la strada per vivere più sicuri e indipendenti: ma qual vi­ta sarebbe mai la mia se mi considerassi, vivendo fra gli uomini, d’es­sere attorniato da velenosi serpenti, e se dovessi, sempre in aguato, sempre in guardia, avere la diffidenza in ogni lato! Comprerò io la felicità sacrificando il più nobile sentimento che mi rende sopporta­bile la vita? Io stimo che sia men male l’avventurarsi talvolta anzi che l’esistere così solitario. Tristo colui che non può mai essere ingannato; egli ha un cuore di ghiaccio, ed è incapace del sublime entusia­smo della beneficenza! Il non diffidar mai degli uomini è imbecilli­tà; il diffidarne sempre è un error feroce e tristo. Chi conosce gli uo­mini vede che essi non sono nè buoni, nè malvagi totalmente per lo più; che essi non fanno il male se non per errore, credendo di far del bene a loro medesimi; perciò l’uomo che cerca la felicità non soffo­cherà nel suo animo il dolce bisogno dell’amicizia, ma nella scelta ascolterà lungamente la sola ragione; fatta poi che l’abbia, si abban­donerà al suo cuore.

Prima di sceglierti un amico, esaminalo attentamente ed osservalo in varie circostanze, felici e meste, pacate e turbolente. Sia egli uomo illuminato e docile alla ragione; la maggior parte dei mali si fanno per ignoranza. La probità d’un uomo che ragioni è fondata su de’ principj; la probità d’un uomo che non ragioni è appoggiata ad una parola. Sia egli libero dalla avidità delle ricchezze, dal­la briga e dalla affannosa fame degli onori. Le anime ulcerate da tai passioni sacrificano tutto a quelle. Sia d’un carattere aperto, dolce, discreto. Osserva se il racconto d’una azione generosa faccia com­parire nel suo volto il senso della virtù, se il racconto d’una infa­mia dipinga sulla di lui fisonomia il ribrezzo. Guai alle fronti di bronzo che conservano inalterabilmente i loro tratti! Esamina se in fatti sia compassionevole a soccorrere l’infelice e a consolarlo; se non mai si avvilisca a incensare il vizio armato di potere; se sia fe­dele alle promesse, se abbia il sublime coraggio di dare il torto a sè medesimo quando la verità lo esiga; se sia buon vicino, buon padro­ne, buon marito, buon padre, buon figlio; e se regge a questo esa­me l’uomo che cerca la tua amicizia, donagliela, amalo, travaglia per la di lui felicità, che probabilmente egli farà per te altrettanto.

L’amicizia poi non può nascere, nè durare senza una scambievo­le uniformità di genio; due onesti uomini saranno talvolta non solamente incapaci di amarsi, ma difficili persino a tollerarsi, come due stromenti musicali accordati sopra diversi tuoni. Suppone l’amicizia una capacità di sentire vivamente le passioni istesse che prova il nostro amico. Tanti uomini illustri, e fra gli antichi e fra i nostri contemporanei, hanno scritto sull’amicizia, che io non oserei di trattarne, nè questo discorso mi porterebbe a dilatarmi più a lun­go su questo delizioso argomento. Osserverò solamente che vi vuo­le moderazione per conservarci gli amici anche ne’ beneficj medesimi. Un cumulo di beneficenze umilia chi lo riceve, e fa risguardare l’uomo che le ha versate come un creditore che non potremo soddi­sfare giammai. Bisogna temere che nasca un tal sentimento in uno che sia nostro pari: l’uomo di cuore vuol sempre che siavi la sponta­neità ne’ proprj sentimenti, e che la riconoscenza istessa non sia tan­to un dovere quanto un affetto. Quanto è più perfetta la legislazio­ne d’uno Stato, tanto meno vi è bisogno dell’amicizia; questa è più costante e intensa ne’ paesi dispotici, che non lo sia laddove le leggi conservino al cittadino la sicurezza d’ogni proprietà: perchè sotto un governo violento e capriccioso ogni uomo si sente vacillante e in pericolo, e s’avvicina al suo simile per rinforzo e ajuto; e per lo con­trario sotto un governo giusto e costante l’uomo ha una esistenza propria all’ombra delle leggi, e nulla temendo la forza altrui, per la strada della virtù franco cammina senza bisogno di soccorso. Sotto la sferza alla scuola d’un pedagogo, fra i pericoli delle armi, fra le inquietudini d’una lunga navigazione si contraggono amicizie forti e durevoli; ma nelle società che chiamansi di bel mondo gli uomini passano la vita senza accostarsi alla amicizia. I caratteri che ne sono capaci non sono ordinariamente facili a trovar piacere nelle comuni società: quel cicalio che basta a parecchi, li lascia annojati e sconten­ti, perchè poca parte vi ha l’ingegno e meno il sentimento.

Se poi, dopo avere trascelto un amico colla prudente disposizio­ne che la ragione c’insegna, troverà il saggio d’essersi ingannato, sof­frirà un male, ne sentirà il dolore nel mezzo del suo cuore; ma sarà questa una sventura come una febbre, da risguardarsi come un appanaggio della nostra sensibilità. Gl’incauti per lo contrario che senza esame attento si gettano fralle braccia di chi si chiama amico, quando si lagnano della ingratitudine degli uomini soffrono il castigo del loro errore. L’uomo opera in conseguenza dei principj che ha, e non in conseguenza dei principj che gli attribuiamo noi a capriccio. Esamina l’uomo, osservalo, adopera intensamente la tua ragione, e quella ti porrà sulla strada onde la compassione istessa e il bisogno della amicizia, in vece di indebolire il tuo potere, lo accre­scano, cosicchè per questi due sentimenti tu diverrai ancora più lon­tano dalla infelicità col pareggiare un più gran numero di desiderj.

§ VIII. Se i mezzi per vivere felici crescano ovvero sceminsi in questo secolo.

Io non entrerò a divisare i principj e i mezzi co’ quali si promove e dilata la felicità di uno Stato; sarebbe questo un argomento che da sè meriterebbe un volume, nè ardirei cimentare le mie forze con un sì vasto oggetto. Unicamente cerco di conoscere se gli uomini che attualmente vivono abbiano maggiori mezzi per accostarsi alla feli­cità di quelli che le circostanze passate offrirono ai nostri maggiori. Questo paragone può essere consolante. Se dapprincipio si è osser­vato dovere ogni uomo nel corso della vita più soffrire che godere, e la miseria essere più vicina all’uomo che non la felicità, almeno contro di questa dura verità riporremo l’altra più ridente, ed è che i mezzi per sottrarci alla infelicità si vanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi. Se la prima verità ci disinganna d’uno stato chimerico, e ci fa volgere a conoscere la reale condizione nostra, e porre ordine e sistema al nostro ben essere; la seconda ci rincora a meglio sopportare una vita coll’esempio di nostri simili che seppero sopportarne una più peno­sa. Gli uomini occupati della erudizione storica sanno questa verità; il Muratori in cento luoghi si consolava della felicità de’ costumi e de’ governi in paragone de’ trasandati; io ne presenterò un com­pendiosissimo prospetto.

Tutto è in moto nell’universo. Volgo il pensiero ai tempi più rimoti ai quali giunge la storia, e vedo in prima i Greci, animati da un violento amore della gloria nazionale, uscire dagli stretti confini del loro paese e rotolarsi come un torrente devastatore sull’Asia e sull’Africa, soggiogando le genti attonite che stupidamente presen­tavano il collo al giogo del vincitore. S’invecchia la Grecia, sorge Roma, e il vigoroso genio conquistatore innalbera le aquile latine, e si strascinano al Campidoglio i Re incatenati dell’ammollita Grecia, dell’Asia e di molta parte di Europa. Passa la robusta virilità dal­l’Italia al Settentrione, ed escono dalle nere foreste dell’Orsa le generazioni di uomini, che dall’Eusino e dalla Germania invaden­do il romano impero, tutto distruggono, niente sostituiscono; lotta­no con altri barbari, poi, indeboliti a poco a poco per la sicurezza i loro imperj, vengono anch’essi dagli Arabi e dai Franchi soggiogati e distrutti. L’urto possente e ripetuto delle nazioni finalmente le infranse, e si spaccarono in molte piccole suddivisioni bilanciate dal reciproco potere, e gli Europei, ne’ quali il cambiamento non aveva del tutto cancellato il bisogno di occuparsi di oggetti grandi e turbo­lenti, corsero a migliaja a cercarli persino nell’Asia Minore. Que­sta furiosa tempesta andò per gradi calmandosi, e meno spumanti ed elevati ne divennero i flutti; quindi per molte generazioni inde­bolendosi e la memoria delle cose passate e la educazione, compar­ve agli occhi degli Europei inciviliti barbaro lo stato de’ loro padri. Le forti passioni della gloria e della sicurezza della nazione si ecclissarono; il lusso e la mollezza riposero sul trono i tiranni e sulla fac­cia della terra gli schiavi. Le nazioni cessarono allora d’esistere per loro stesse e divennero un mero patrimonio de’ Principi, i quali col gius feudale ne regalavano porzione agli amici. Le guerre allora si mossero per motivi personali de’ Principi, i quali condussero al campo una mandra di pecore coperte di ferro e macchinalmente guidate; spettacolo ben diverso da quello che formavano in prima gli uomini a guisa di generosi leoni usciti dai loro covili, sebbene entrambi avessero il nome di guerra. Le ricchezze dovettero decide­re della vittoria fra armate di schiavi mercenarj limitati a non mancare ai doveri imposti, privi dell’emulazione di sorpassarli; piccole perciò erano in que’ tempi le armate, e mantenute colle rapine che il tiranno faceva ai sudditi. Si venne al punto di trovare esausti i mezzi per radunar denari, e in conseguenza per difendersi. La Spa­gna li ritrovò nelle miniere del Potosi; tutte le potenze si riscosse­ro, si pensò a participare di questi nuovi mezzi, si rianimò l’agricol­tura, si rianimarono le arti, si pensò alla popolazione, alla marina, al commercio, si conobbe che la pubblica sicurezza è l’unica madre dell’industria, e il potere capriccioso e arbitrario ne è l’esterminatore; quindi alcune nazioni, per non deperire nella forza relativa, adottarono una forma di governo stabile e legittima, sotto cui la libertà civile fomentasse l’industria; altre vi si avvicinarono, e da quel momento o fu abolito ovvero diminuissi il dispotismo e la tirannia. Da quel punto sino al dì d’oggi i vantaggi delle nazioni più giustamente governate sono andati sempre più crescendo in Euro­pa, e i Sovrani trovansi nella fortunata alternativa o di rendersi come tributarj delle nazioni ben governate, o di ben governare e promovere la sicurezza, la libertà civile e la felicità del popolo.

La repubblica delle lettere sparsa per tutta Europa, se per lo passato era considerata come una società di curiosi che si occupava­no di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cam­biato aspetto. L’astronomo t’insegna ad attraversare con sicurezza il vasto mare. L’ottico ti prepara uno stromento con cui tu vedi ogget­ti lontani perfettamente. Il fisico ti perfeziona il magnetismo e ti addita anche fralle tenebre la strada. Il macchinista ti suggerisce la miglior forma delle navi e gli stromenti i più maneggevoli e sicuri. Il chimico ti ammaestra a cavar profitto dalle miniere, a preparare le manifatture co’ più raffinati colori. L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli, questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. La stampa e le poste, comunicando da una all’altra estremità dell’Europa le scoperte, danno una vera esistenza a questo corpo di pensatori dispersi. Questi oggetti non furono giammai, dacchè la storia ci ha trasmesso i racconti, cono­sciuti a tal segno; nè le cognizioni e gli studj così in alto portati, nè mai tanta connessione vi fu tra gli studj e la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi; e se al ceto dei pensatori fa torto la ciarlataneria di alcuni che abusano d’un misterioso linguaggio per arrogarsi una considerazione non meritata, i Principi attenti ai veri loro interessi e i popoli illuminati non perciò lasciano di promovere e incoraggire la luce universale, al lampeggiare di cui sarà forza che anche i paesi più torpidi di Europa si scuotano, ammeno che la estrema loro decadenza non tolga in prima loro la vita. Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l’Europa, onde con fondamento prevede il saggio che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi. Quando ciò sia fatto, rinascerà l’antico vigore degli animi, l’antica guerra di nazioni e non di Principi; e per questo circolo passeranno in giro le nazioni europee, come le stagioni dell’anno sulla terra. Vediamo in fatti i Sovrani che sedono sul trono occupati a sciogliere la schiavitù del popolo, accessibili, umani, cittadini; li vediamo rappresentare la maestà della nazione e vegliare sulla felicità di essa, in guardia con­tro l’abuso del potere de’ grandi, accostarsi con bontà ai poveri e deboli, e sostenerli colla giustizia e la beneficenza; i tributi, ripartiti con proporzione, riscuotersi con umanità, imporsi per bisogno del­lo Stato e servire allo stipendio di quella parte di sudditi i quali, per consacrarsi alla difesa della nazione, forza è che sieno alimentati dal possessore, di cui conservano la proprietà, o combattendo, o diri­gendo le cose pubbliche, o rischiarando i dritti di ciascuno e frenan­do i malvagi. Se ascendesse sopra un trono in Europa un malvagio simile a quelli che servirono di modello al Secretarlo fiorentino; se i fogli pubblici raccontassero le tirannie che nel secolo XV acca­devano, quando nella Lombardia il Duca Giammaria Visconti pas­seggiava per le città scortato da feroci mastini, ai quali ordinava di sbranare quei cittadini che sospettava sensibili al pessimo suo governo; se ci informassero i fogli pubblici dei veneficj, assassinj, torture, rapine commesse abitualmente per comando d’un Sovrano, affine di alimentare i suoi vizj, di corrompere colla violenza le don­ne altrui, di assoldare sgherri per rinforzare l’oppressione; un tal mostro sarebbe tanto abbominevole, vile e stravagante che non si presterebbe credenza a un tal racconto, e gli Stati suoi si spopole­rebbero, correndo gl’infelici abitanti a ricoverarsi sotto il governo degli Stati vicini. Ma tre secoli sono un tal governo non era mostruoso, perchè tale era quella che allora chiamavasi ragione di Stato. Io non dirò che tutti gli Stati di Europa abbiano interamente deposta la barbarie antica; ognuno però conosce che si è di molto scemata, e con essa la infelicità; giacchè si può bensì disputare se l’uomo fra gli Uroni e gli Iroquesi sia più felice che a Roma, a Londra o a Parigi, ossia se lo stato selvaggio sia più fortunato dello stato d’incivilimento; ma nessuno disputerà se lo stato di barbara e corrotta società sia più misero dello stato di società colta e legitti­ma. Nella vita selvaggia può dirsi che l’eccesso dei desiderj oltre il potere sia poco, perchè quelli sono limitati quasi ai soli bisogni fisici, e questo è grande colla agilità e robustezza del corpo non ammollito dalla educazione; nello stato di società i desideri sono infiniti, perchè nascono dalla fecondissima opinione, sovrana degli uomini sociali, e il potere si accresce dal canto dell’industria e si scema da quello delle forze fisiche; ma se in questa società spira la barbara diffidenza, se l’esistenza e la proprietà diventano precarie, se dalla fonte della equità e della giustizia sgorga il terrore e la deva­stazione, il potere di ogni uomo è vacillante e l’eccesso de’ desiderj diventa sommo. Si è forse trovata un ingegnoso paradosso, piutto­sto che una verità, la proposizione che siano più felici i selvaggi che gli uomini sociali, perchè si è creduto che con ciò si facesse il pro­getto di richiamare gli uomini alle selve, e perchè l’uomo incivilito ha supposto che il selvaggio abbia tutt’i bisogni ch’ei sente, e man­cando di mezzi per soddisfarli, conseguentemente rimanga dispera­to come ei lo sarebbe; ma la questione è un oggetto di semplice speculazione, nè mai da questa potrà dedursene che dopo una comoda e molle educazione possa l’uomo passare allo stato selvaggio senza rendersi infelicissimo. Anzi, nessun altro partito resta da prendersi per le società già formate se non se quello di portarsi alla perfezione ed al massimo incivilimento con ottime leggi, ottimi costumi, e con ogni genere di coltura, addestrando la ragione e l’in­dustria, ed affrettando i progressi della verità fugando le opinioni a lei contrarie, e rendendo comune l’uso di essa ai cittadini in quante azioni della vita si può.

Ho accennato che tutte le società sono in moto e lo furono; ho dato una rapida corsa sul fato delle società europee; non per ciò ho inteso di fissare il limite delle vicende generalmente delle umane società; al mio intento basta soltanto d’indicare quello che interessa noi medesimi. Se poi nell’Asia, che forse in origine fu la patria anti­ca anche di noi, l’indole del clima rende gli uomini più spossati, e capaci soltanto di conservare uno stato forzoso e violento per perio­di più brevi; se ivi i governi dispotici, antichissimamente instituiti e sino al dì d’oggi mantenuti, altre vicende non soffersero se non il cambiamento del despota; se i costumi, le opinioni, i vestiti che da noi cambiano, ivi immobilmente durano per lunga serie di genera­zioni, ciò non contraddice alla storia d’Europa, e unicamente con­fermerà la opinione della influenza massima del clima sul genere umano. Ma da noi, sia effetto della maggiore robustezza, sia quello della irritabilità e inquietudine maggiore, credo che non sarebbe possibile il contenere lungamente una nazione in uno stato somi­gliante a quelli della Persia, della Cina o del Giappone.

Dal sin qui detto raccogliesi che l’uomo ha più mezzi oggigior­no per essere felice che non ve ne furono giammai; che questi di­pendono dai lumi e dalle cognizioni che ci hanno somministrate le scienze; esse dominano la opinione, e questa il mondo; il saggio le onora, e sopra di ogni altra coltiva la scienza di sè medesimo, e perfeziona la ragione per migliorare sè stesso, per formarsi idee chiare e precise degli oggetti, e accostumarsi a un metodo di giu­dicare più lontano dall’errore che sia possibile, e incamminarsi alla felicità, rischiarando il sentiero che vi conduce.

Conclusione.

La felicità non è fatta che per l’uomo illuminato e virtuoso. Se gli uomini, che pure tutti avidamente si uniformano nel correre dove credono di trovare la felicità, adoperassero le loro forze della mente per esaminare se la strada per cui smaniano di correre vi conduca, non cadrebbero così miseramente in braccio al tardo pentimento, come la maggior parte fanno. Gli Stoici c’insegnarono a spogliarci di ogni desiderio per togliere ogni presa al destino sopra di noi; chi­mera rispettabile, ma pure chimera, perchè l’uomo senza alcun desi­derio sarebbe immerso in un profondo sonno. Zenone voleva che il saggio fosse come una robusta quercia, che all’accostarsi dei venti dell’inverno lascia cadere le foglie e dà meno presa, e immobilmen­te ne soffre il soffio; ma la ragione c’insegna a liberarci dai desi­deri contrarj a lei e proccurarci il potere massimo per uguagliare quanto si può i nostri desiderj. La ragione ci fa conoscere che è nostro interesse l’essere virtuosi; che la virtù sola può condurci a vivere men male i nostri giorni. Molti, anche uomini colti e natural­mente disposti al bene, si sono gettati in braccio alla bassezza, al rimorso, alle contraddizioni per non aver creduto abbastanza alla virtù. Il saggio non si sgomenta, nè cambia di parere, sebbene veda preferiti agli onori i caratteri talvolta meno virtuosi, dimenticate le azioni nobili e ricompensate le servili; non cambierebbe perciò lo stato proprio coll’apparente fortunato, nè la sicurezza interna che gode colla turbulenta condizione ch’ei penetra a conoscere nell’in­terno altrui. La felicità del saggio comincia da lui e si stende poi agli oggetti, il volgare incautamente ne cerca il germe fuori di sè mede­simo; mentre la prima si estende al di fuori di sè lentamente, e per gradi si accresce come i cedri superbi che insensibilmente vegetano, ma reggono alle stagioni, l’altra come gli arbusti acquosi e gracili rapidamente cresce e muore al primo gelo. Un antico poeta deside­rava che l’uomo malvagio vedesse per un momento la virtù, e si annienterebbe di confusione; io vorrei che gli uomini la vedesse­ro, la conoscessero, e ne sentirebbero il bisogno, anche per loro immediato interesse, di conformarvi le loro azioni. Dammi un uomo virtuoso e illuminato, ed io ti proverò che se fosse stato maligno e stordito, sarebbe in peggiore condizione di quella che gode. Dammi un uomo senza virtù e senza principj, posto dalla fortuna per ogget­to d’invidia, e ti proverò che se fosse stato illuminato e virtuoso, sarebbe più felice che non è. Chiunque sei che aspiri ad allontanarti dalla miseria, esamina questi principj, combina questi elementi, e con un intimo e costante esame de’ movimenti del tuo animo gli applicherai a migliorare la tua condizione, diminuendo l’eccesso dei desiderj sul potere. A misura che avrai più lumi, a misura che ti avvezzerai a combinare le idee con migliore metodo, sarai più sicu­ro di te medesimo, de’ tuoi principj, della tua virtù.

Gli uomini più eruditi sono quelli che hanno letto di più, e corredata di più la memoria di cose e pensieri altrui; gli uomini più saggi sono coloro che hanno riflettuto e pensato di più essi medesimi, e che hanno prima di ogni altra cognizione esaminata la loro interna costituzione e posto in ordine il sistema di loro stessi. La lettura continuata ed estesa ci porta nelle scienze tanto lontani da noi medesimi quanto gli spettacoli e le rumoreggianti società. Molti hanno bisogno di un libro per allontanare la noja di essere con loro medesimi, e il pregio maestro dell’uomo è appunto la capacità di ripiegarsi in sè stesso, conoscersi e farsi spettacolo interessante delle proprie osservazioni. Il saggio coltiva le scienze, le lettere e le arti per gloria, o per diletto, o per vivere; ma coltiva le interessantissime cognizioni del suo animo, l’esame de’ suoi desiderj, lo sviluppamento del proprio potere per allontanarsi quanto è possibile nelle sue circostanze dalla infelicità.

Qual è il carattere d’un uomo più disposto di ogni altro a go­dere della felicità? Non v’è uomo, per insensato che sia, che in qualche ceto non possa ottenere la stima, come non vi è all’oppo­sto merito, per luminoso che sia, che in qualche ceto non possa essere disprezzato: è però vero che quell’uomo che avrà nel tempo stesso forza e dolcezza d’animo, cosicchè nè l’una degeneri in a­sprezza, nè l’altra renda lo spirito debole e molle, sarà comunemen­te stimato presso ogni nazione ed in ogni secolo. L’uomo saggio resta ugualmente distante e dalla inurbanità e da quella servile pas­sività che lo dispone ad essere mero stromento di chi ardisce di adoperarlo. Un uomo debole non è mai sicuro della propria virtù. La virtù suppone una esistenza ferma e fondata sopra principj co­stantemente seguiti e difesi. Fralle nazioni selvagge tutto è robusto e forte. Fralle nazioni corrotte tu vedi il sorriso sulla faccia dei cit­tadini. Fralle nazioni illuminate leggerai in fronte agli uomini la onorata sicurezza e l’amore dell’ordine. In ogni nazione il saggio esamina prima di determinarsi; si determina prima di agire; ha un carattere suo; conforma talvolta alla comune opinione le sue manie­re esterne, non però mai i suoi sentimenti; ricerca in tutto di svi­luppare i primi elementi delle proprie idee, affine di preservarsi dall’errore; e fralle verità possibili sente che la più importante e di­mostrata di tutte è che deve cercare la propria FELICITÀ.

DELLA ECONOMIA POLITICA

 Indice de’ paragrafi

§ I. Quale sia il commercio delle nazioni che non conoscono il denaro
§ II. Del denaro e come accresca il commercio
§ III. Accrescimento e diminuzione della ricchezza d’uno Stato
§ IV. Principj motori del commercio e analisi del prezzo
§ V. Principj generali dell’Economia
§ VI. Viziosa distribuzione delle ricchezze
§ VII. De’ corpi de’ mercanti e artigiani
§ VIII. Delle leggi che vincolano l’uscita dallo Stato delle merci
§ IX. Della libertà del commercio de’ grani
§ X. De’ privilegi esclusivi
§ XI. Alcune sorgenti di errori nell’Economia politica
§ XII. Se convenga tassar per legge i prezzi di alcuna merce
§ XIII. Del valore del denaro e influenza che ha sull’industria
§ XIV. Degl’interessi del denaro
§ XV. Mezzi per fare che gl’interessi del denaro si ribassino
§ XVI. Dei banchi pubblici
§ XVII. Della circolazione
§ XVIII. Dei metalli monetati
§ XIX. Del bilancio del commercio
§ XX. Del cambio
§ XXI. Della popolazione
§ XXII. Della locale distribuzione degli uomini
§ XXIII. Errori che possono commettersi nel calcolo della popolazione
§ XXIV. Divisione del popolo in classi
§ XXV. Delle colonie e delle conquiste
§ XXVI. Come si animi l’industria avvicinando l’uomo all’uomo
§ XXVII. Dell’agricoltura
§ XXVIII. Errori che possono commettersi nel calcolare i progressi dell’agricoltura
§ XXIX. Origine del tributo
§ XXX. Principj per regolare il tributo
§ XXXI. Aspetti diversi del tributo
§ XXXII. Su quale classe d’uomini convenga distribuire il tributo
§ XXXIII. Se convenga addossare tutti i carichi ai fondi di terra
§ XXXIV. Del tributo sulle merci
§ XXXV. Metodo per fare utili riforme del tributo
§ XXXVI. Se il tributo per sè medesimo sia utile o dannoso
§ XXXVII. Dello spirito di Finanza e di Economia pubblica
§ XXXVIII. Quale sia la prima spinta che porti rimedio ai disordini
§ XXXIX. Carattere d’un ministro di Finanza
§ XL. Carattere d’un ministro d’Economia

§ I. Quale sia il commercio delle nazioni che non conoscono il denaro.

Quelle società di uomini che non conoscono altri bisogni che i fisici hanno e debbono avere poco o nessuno commercio reciprocamen­te. Contento l’uomo, allevato in quella società, di avere assicurata la vita dalle insidie degli animali, dalla fame, dalla sete e dalle stagioni, non può nemmeno sospettare che lontano dal proprio suolo nativo vegeti qualche cosa, da cui possa trarne utilità. Perciò le nazioni che noi chiamiamo selvagge non hanno commercio fra di esse, se non nella necessità di qualche carestia o disastro qualunque che le obbli­ghi a ricorrere ai vicini, dai quali o con qualche difficile concambio o per mera umanità o colla aperta forza trasportano il necessario mancante. Non si dà nell’uomo moto alcuno senza un bisogno (di che nel primo discorso si è trattato) nè un bisogno senza una idea, e queste sono ne’ popoli isolati e selvaggi limitatissime.

Quanto più le nazioni diventano colte, ossia quanto più s’accresce il numero delle idee e dei bisogni presso gli uomini, tanto mag­giormente si vede introdurre il commercio fra nazione e nazione. Il bisogno, cioè la sensazione del dolore, è il pungolo col quale la natura scuote l’uomo, e lo desta da quell’indolente stato di vegeta­zione, in cui senza questo giacerebbe. Paradosso poco consolante si è questo, che sempre il dolore preceda il piacere, e che per necessi­tà ogni nazione debba essere prima infelice per diventare colta dap­poi: per noi europei è già stato bastantemente pagato questo fatal tributo dai nostri antenati, e possiam consolarci coi progressi che andiam facendo nella coltura, e goderne i beni, e moltiplicarli quan­to lo possono essere; il che sarà sempre l’opera d’un illuminato legi­slatore. L’eccesso dei bisogni sopra il potere è la misura della infelicità dell’uomo (come esposi nel secondo discorso) e lo è non meno della infelicità d’uno Stato. I selvaggi sono poco infelici perchè han­no pochissimi bisogni; ma le nazioni che ne hanno acquistati in gran numero coll’incivilirsi debbono di necessità cercare l’accrescimento della potenza per accostarsi alla felicità. Non è ora mio scopo l’indi­care i mezzi de’ quali può un legislatore utilmente far uso per ren­dere i desiderj degli uomini più conspiranti ad un solo fine, nel che consiste la massima azione d’un popolo verso la felicità; dirò soltan­to per quali mezzi l’Economia politica ben diretta accrescerà la potenza d’uno Stato.

Il bisogno spinge l’uomo talvolta alla rapina, talvolta al commer­cio. Perchè vi sia commercio vi debbon’essere bisogno e abbondan­za: bisogno della merce che si cerca, abbondanza della merce che si cede in contraccambio. A misura che i bisogni crescono, cresce lo stimolo di aumentare le merci atte a cedersi in contraccambio. Sic­come nelle nazioni selvagge i bisogni sono minimi, così anche l’ab­bondanza, ossia il superfluo sarà il minimo: essendo che la nazione selvaggia si procurerà dal proprio fondo le derrate necessarie alla vita, e sia essa pastorale o cacciatrice o agricola, non estenderà la sua industria al di là dell’annua consumazione.

Quando una nazione dallo stato della vita selvaggia comincerà a scostarsi, conoscendo nuovi bisogni e nuovi comodi, allora sarà for­zata ad accrescere proporzionatamente la sua industria e moltiplica­re l’annua massa de’ suoi prodotti; cosicchè oltre il consumo ella ne abbia tanto di superfluo, quanto corrisponde alla straniera derrata che dovrà ricercare dai vicini. Ed ecco come, a misura che si molti­plicano i bisogni d’una nazione, naturalmente tendano a crescersi l’annuo prodotto del suolo e l’industria nazionale.

Ma come fra queste società che cominciano a conoscere i bisogni artefatti potrà farsi il conguaglio fra il valore della merce che ricevo­no con quella che cedono in cambio? Il valore è una parola che indi­ca la stima che fanno gli uomini d’una cosa; ma ogni uomo avendo le sue opinioni e i suoi bisogni isolati in una società ancor rozza, sarà variabilissima la idea del valore, la quale non si rende universale se non introdotta che sia la corrispondenza fra società e società, ed incessantemente mantenuta. Questa fluttuante misura debb’essere stata il primo ostacolo che naturalmente si frappose alla dilatazione del commercio.

Come sperare che una nazione finitima voglia cedere parte de’ suoi prodotti, se ventura non porta che ivi reciprocamente vi sia bisogno del nostro superfluo? Si priverà ella di porzione del suo, per ricevere l’eccedente nostro, col pericolo di vederlo perire e cor­rompersi prima che sia venuta l’occasione di usarne? Questo è il secondo ostacolo che naturalmente pur deve aver impedito che si dilatasse la reciproca corrispondenza fra nazione e nazione al primo uscire dallo stato selvaggio.

§ II. Del denaro e come accresca il commercio.

Acciocché s’introducesse una stabile e reciproca comunicazione di commercio fra uomo e uomo, e molto più fra Stato e Stato, era necessario adunque che primieramente si ritrovasse il mezzo per avere una idea universale del valore, e si ritrovasse una merce incor­ruttibile, divisibile, accettata sempre da ognuno, facile a custodirsi e a trasportarsi, atta in somma a potersi cedere in contraccambio di ogni altra merce. Prima dell’invenzione del denaro non era perciò fisicamente fattibile che s’introducesse una reciproca e stabile comunicazione fra uomo e uomo, fra popolo e popolo. Fralle molte definizioni che mi è accaduto di leggere date al denaro, non ne ho trovata alcuna la quale mi sembri corrispondere esattamente all’in­dole di esso. Alcuni ravvisano nel denaro la rappresentazione del valor delle cose: ma il denaro è cosa, è un metallo, di cui il valore è ugualmente rappresentato da quanto si dà in contraccambio di esso, e questa proprietà di rappresentare il valore è comune a tutte le altre merci generalmente contrattate. Altri ravvisano il denaro come un pegno e mezzo per ottenere le merci: ma sotto di questo aspetto egualmente pure le merci sono un pegno e mezzo per ottenere il denaro, e ogni merce è pegno e mezzo per ottenere un’altra merce. Altri definiscono il denaro come la comune misura delle cose, e con ciò dimenticano che il denaro ha un valore, ed è materia prima di molte manifatture, e qualunque cosa che abbia valore misura pari­mente ed è misurata da ogni altra cosa di valore.

Queste definizioni dunque non competono privativamente al denaro, o non ne comprendono tutte le qualità. L’errore si è comu­nemente adottato perchè si è voluto considerare il denaro per qual­che cosa di più che semplice metallo. Il denaro ha un impronto, ma non riceve valore dall’impronto.

Il denaro è la merce universale: cioè a dire è quella merce la qua­le per la universale sua accettazione, per il poco volume che ne ren­de facile il trasporto, per la comoda divisibilità e per la incorruttibi­lità sua è universalmente ricevuta in iscambio di ogni merce particolare. Mi pare che riguardando il denaro sotto di questo aspetto venga definito in modo che se ne ha una idea propria a lui solo, che esattamente ce ne dimostra tutti gli officj.

I contratti di compra e vendita ritornano al semplice stato di per­mutazione ed a più facile intelligenza. La teoria del denaro diventa semplicissima, poichè per essere merce universale forza è che sia accettata e dentro e fuori allo stesso valore; e quindi è viziosa ogni arbitraria tassazione oltre il metallo; e quindi la spesa del conio ema­na dal fondo istesso da cui i pubblici pesi della Sovranità; quindi finalmente ne deriva la preferenza che merita l’argento sul rame, e l’oro sull’argento, essendo più universale e più facile a trasportare e custodirsi quel denaro che sotto minor volume comprende valore uguale.

Introdotta che sia l’idea del denaro in una nazione, l’idea del valore comincia a diventare più uniforme, perchè ciascuno la misu­ra colla merce universale. I trasporti da nazione a nazione diventano assai più facili: poiché la nazione dalla quale si riceve la merce particolare non ricusa in compensa altrettante merci universali, e così in vece di due condotte difficili e incomode, una diventa di somma facilità; basta che vi sia abbondanza in una nazione, perchè la nazione bisognosa possa soddisfarsi, quand’anche la nazione abbondante non abbia attualmente un bisogno reciproco da soddi­sfare. Colla introduzione della merce universale si accostano le società, si conoscono, si comunicano vicendevolmente, dal che chia­ramente si vede essere il genere umano debitore all’invenzione del denaro, più assai che forse non si è creduto, della cultura e di quel­la artificiosa organizzazione di bisogni e d’industria, per cui tanto distano le società incivilite dalle rozze ed isolate dei selvaggi. Tutte le invenzioni le più benemerite del genere umano e che hanno svi­luppato l’ingegno e la facoltà dell’animo nostro sono quelle che accostano l’uomo all’uomo, e facilitano la comunicazione delle idee, dei bisogni, dei sentimenti; e riducono il genere umano a massa. Tali sono la perfezione della nautica, le poste, la stampa e prima di que­ste il denaro.

Quanto più si va rendendo facile il trasporto, tanto più si estende la comunicazione, tanto più si moltiplicano le idee, tanto più si ac­crescono i bisogni, tanto cresce il commercio, e parallela cresce l’agricoltura in un Paese agricolo; essendo che l’effetto è sempre pro­porzionato alla cagione; l’uomo coltiva quanto domandano i suoi bi­sogni, e più coltiva quanto più sono estesi i bisogni, ai quali deve corrispondere coi prodotti della sua terra. Da ciò si conosce quanto a torto da taluni siasi creduto che l’accrescimento del commercio fos­se nocivo ai progressi dell’agricoltura, la quale anzi riceve nuova vi­ta quanto più l’industria e i bisogni vanno crescendo in una nazione.

§ III. Accrescimento e diminuzione della ricchezza d’uno Stato.

Due oggetti principalmente bisogna osservare, e sono annua ripro­duzione e consumazione annua. In ogni Stato si riproduce per mez­zo della vegetazione e delle manifatture, e in ogni Stato si consuma. Quando il valor totale della riproduzione equivale al valore dell’an­nua consumazione, quella nazione persevera nello stato in cui si ritrova, qualora tutte le circostanze sieno uguali. Deperisce quella nazione in cui l’annua consumazione eccede la riproduzione annua. Migliora quello Stato in cui l’annua riproduzione sopravanza il con­sumo.

Alcuni benemeriti scrittori, rattristati dai gravi disordini che sof­frono i popoli per le gabelle, sono passati all’estremo di considerare ingiusto e mal collocato il tributo, se non ripartito su i fondi di ter­ra, e colla creazione d’un linguaggio ascetico hanno eretta la setta degli economisti, presso la quale ogni uomo che non adoperi l’ara­tro è un essere sterile, e i manofattori si chiamano una classe sterile. Rispettando il molto di vero e di utile che da essi è stato scritto, io non saprei associarmi alla loro opinione nè sul tributo, di che in seguito tratterò, nè su di questa pretesa classe sterile. La riproduzio­ne è attribuibile alla manofattura ugualmente quanto al lavoro de’ campi. Tutti i fenomeni dell’universo sieno essi prodotti dalla mano dell’uomo, ovvero dalle universali leggi della fisica, non ci danno idea di un’attuale creazione, ma unicamente di una modificazione della materia. Accostare e separare sono gli unici elementi che l’ingegno umano ritrova analizzando l’idea della riproduzione; e tanto è riproduzione di valore e di ricchezza, se la terra, l’aria e l’acqua ne’ campi si trasmutino in grano, come se colla mano dell’uomo il glu­tine di un insetto si trasmuti in velluto, ovvero alcuni pezzetti di metallo si organizzino a formare una ripetizione. Delle intere città e degli Stati interi campano non d’altro che sul prodotto di questa fecondissima classe sterile, la di cui riproduzione comprende il valo­re della materia prima, la consumazione proporzionata delle mani impiegatevi, e di più quella porzione che fa arricchire chi ha intrappresa la fabbrica e chi vi si impiega con felice talento.

Ho detto che la nazione in cui l’annua riproduzione pareggia l’annuo consumo è in uno stato di perseveranza, e vi ho aggiunto quando tutte le circostanze sieno eguali; poiché mutate le circostan­ze essa potrebbe deperire ciò non ostante; e ciò accaderebbe qualo­ra qualche nazione vicina diventasse più ricca e potente di lei; essen­do che la forza e la potenza, come tutte le altre qualità sì dell’uomo, che degli stati, altro non sono che mere relazioni e paragoni d’un oggetto coll’altro. Potrebbe un simile fenomeno accadere altresì qualora diminuendosi la popolazione, scemassero in egual porzione gli uomini riproduttori ed i consumatori, sottraendosi due quantità eguali nel valore d’ambe le parti.

Quando l’annua consumazione ecceda la riproduzione annua, necessariamente la nazione deve deperire, poiché ogni anno diminuisce e consuma del suo capitale oltre i frutti. Ma questo stato, come ognun vede, non può essere permanente al di là d’un certo limite, nè può una nazione continuare per una lunghissima serie d’anni a scapitare colle altre, essendo che o saran forzati a partir­sene tanti consumatori, quanti corrispondono al debito nazionale, ovvero saran costretti a diventar riproduttori, e così pareggiare le partite. La nazione dunque in questo caso dal male medesimo riceve la spinta al rimedio, e non secondandola dovrà diminuire il popolo e indebolirsi lo Stato, finché si restituisca l’equilibrio. Se partono i consumatori si metterà la nazione in equilibrio sceman­dosi la popolazione e accostandosi alla distruzione propria; se in vece si accrescono i riproduttori si stabilirà l’equilibrio col rendersi lo Stato più florido e robusto. Come nella macchina del corpo uma­no allorché il moto prepotente del sangue minaccia di sfiancare le vene e le arterie, si può rimediare al disordine imminente, o dimi­nuendo la massa del fluido o accrescendo la elasticità de’ condotti solidi; così nel corpo politico, allorché si consuma più che non si riproduce si metterà un sistema in equilibrio o consumando meno o riproducendo di più. L’uomo vive, ma indebolito quando risanò per sottrazione, così lo Stato. Il disordine medesimo di consumare più che non si riproduce è uno sprone a maggiormente riprodurre; per­chè l’industria del riproduttore acquista uno stimolo sempre più forte quanto è più sicuro lo smercio, e questo tanto lo è più, quanto più s’accrescono i consumatori. La nazione adunque in questo caso dal male medesimo riceve la spinta al bene, siccome dissi; e quando gli ostacoli della legislazione o della fisica elidano questa direzione naturale al bene, si dovrà diminuire il popolo e indebolirsi lo Stato, sinchè si restituisca l’equilibrio.

Nella nazione poi, ove l’annua riproduzione ecceda la consuma­zione, ivi dovrà accrescersi la merce universale, la quale, resa più famigliare e comune ivi che nei finitimi, andrebbe gradatamente incarendo i prezzi delle riproduzioni, per modo che non avrebbero più esito presso gli esteri, i quali altrove si rivolgerebbero per otte­nerle, ciò che sarebbe se la merce universale giacesse ivi con poco moto, di che si parlerà in seguito. Ma la merce universale acquista­ta coll’industria accrescerà ivi i bisogni, perchè tanto ogni uomo ha più bisogni quanto ha più desiderj, e tanto più desiderj quanto maggiore probabilità di soddisfarli, e questa s’accresce a misura che se ne accrescono i mezzi; quindi ogni uomo acquistando maggior quantità di denaro accrescerà la propria consumazione; quindi proporzionatamente se ne accrescerà la riproduzione, perchè vedesi accresciuto lo smercio; quindi le merci particolari si moltipliche­ranno a proporzione che universalmente si spanderà l’accrescimento della merce universale, e si aumenterà il numero de’ contratti a misura che se ne aumenteranno i mezzi per farli, il che in seguito si vedrà, onde la merce universale acquistata coll’industria e diradata sopra un gran numero di uomini colla celerità maggiore rimedierà e compenserà i cattivi effetti che la sola massa dovrebbe fare; ed ecco come la natura medesima quando da sè sola operasse prenderebbe a trattare gli uomini tutti da madre benefica, correggendo gli ec­cessi e i difetti in ogni parte, distribuendo i beni e i mali a misura della attività e sapienza de’ popoli, e lasciando fra di essi quella sola disuguaglianza di livello che basti a tenere in moto i desiderj e l’in­dustria, siccome nell’oceano, per l’azione dei corpi celesti variando­si l’orizzonte, le acque alternativamente trascorrono, sicchè ne resta impedito l’infradiciamento. Ma gli ostacoli politici cagionati da quel funesto amore, benchè rispettabile, dell’ottimo e del perfetto, che fece talvolta traviare i legislatori, possono, ove più, ove meno, abbastanza però dovunque, per attraversare e ritardare quell’equili­brio, a cui incessantemente tendono le cose morali, non che le fisiche.

§ IV. Principi motori del commercio e analisi del prezzo.

Come ogni contratto consiste nella traslazione della proprietà, così il commercio fisicamente considerato ha inerente il trasporto delle mercanzie da un luogo all’altro. Questo trasporto si fa a misura del­l’utile che v’è nel farlo. Quest’utile si misura dalla diversità del prez­zo che ha la merce, per modo che non si trasporterà mai a una nazione finitima la nostra merce, se da essa non venga pagata più di quello che si paga dov’ella è, poichè le spese del trasporto, la cura di regolarlo, il ritardo di riceverne il prezzo e il pericolo che si corre con questo ritardo non si soffrono senza compenso. Conosciuti che sian bene gli elementi che formano il prezzo delle cose, si sarà conosciuto il principio motore del commercio e si sarà preso il tronco di questo grand’albero, del quale per avventura si sono fissati gli occhi troppo su i rami.

Il      prezzo, esattamente parlando, significa la quantità d’una cosa che si dà per averne un’altra. Se in una nazione, a cui sia ignoto il denaro, un moggio di grano si cambierà in estate con tre pecore, e in autunno vi vorranno quattro pecore per l’istesso moggio di gra­no, in quella nazione, dico, sarà contrattato il grano a maggior prez­zo in autunno, e le pecore saranno contrattate a maggior prezzo nel­l’estate. Prima dell’invenzione del denaro non potevano aversi le idee di compratore e di venditore, ma soltanto di proponente e di ade­rente al cambio. Dopo l’introduzione del denaro ebbe il nome di compratore colui che cerca di cambiare la merce universale con un’altra merce, e colui che cerca di cambiare una cosa qualunque colla merce universale si chiamò venditore.

Presso di noi che abbiam l’uso della merce universale, la parola prezzo significa la quantità della merce universale che si dà per un’al­tra merce. Ciò accade perchè gli uomini generalmente non s’accor­gono che il prezzo della merce universale medesima è variabile, e le universali esclamazioni de’ popoli si restringono a lagnarsi del prez­zo generalmente incarito di tutt’i generi, senza travedere che quere­le sì fatte, rese universali come sono, provano appunto la diminuzio­ne del prezzo della merce universale.

Il prezzo comune è quello in cui il compratore può diventar venditore e il venditore compratore, senza discapito o guadagno sensi­bile. Sia per esempio il prezzo comune della seta un gigliato per lib­bra, dico essere egualmente ricco colui che possede cento libbre di seta, quanto colui che possede cento gigliati, poiché il primo facil­mente può, cedendo la seta, avere 100 gigliati, e parimente il secon­do cedendo 100 gigliati aver 100 libbre di seta: che se maggior diffi­coltà vi fosse in uno di questi due a fare il cambio, allora direi che il prezzo comune non sarebbe più d’un gigliato per libbra. Il prezzo comune è quello in cui nessuna delle parti contraenti s’impoverisce.

Merita riflessione come il prezzo comune dipendendo dalla comune opinione degli uomini non può trovarsi se non in quelle merci le quali siano comunemente in contrattazione. Le altre merci rare e di minor uso necessariamente debbono avere un prezzo più arbitrario e variabile, dipendente dall’opinione di pochi, senza il contrasto d’un libero mercato, in cui cozzino in gran numero i reci­prochi interessi degli uomini per livellarsi.

Quali sono dunque gli elementi che formano il prezzo? Non è certamente la sola utilità che lo costituisca. Per convincerci di que­sto, basta il riflettere che l’acqua, l’aria e la luce del sole non hanno prezzo alcuno, eppure niun’altra cosa ci è più utile, anzi necessaria quanto lo sono queste. Le cose tutte le quali comunemente si posso­no avere non hanno prezzo alcuno, onde la sola utilità d’una cosa non basta a darle prezzo.

Nemmeno la sola rarità d’una merce basta a darle prezzo. Una medaglia, un cammeo antico, una curiosità d’istoria naturale e simi­li oggetti, benchè fossero rarissimi e di sommo valore presso alcuni, o curiosi o amatori, pure nel mercato troverebbero comunemente poco o nessun prezzo.

L’abbondanza d’una merce influisce sul di lei prezzo; ma per nome d’abbondanza non intendo la assoluta quantità di essa esi­stente, ma bensì la quantità delle offerte che se ne fanno nella vendi­ta. Ogni quantità di merce occultata alla contrattazione non entra a influire nel prezzo, ed è come non esistente. Le offerte possibili non produrranno che una abbondanza possibile. Dirò adunque che l’ab­bondanza assoluta non è un elemento del prezzo, ma lo è l’abbon­danza apparente. Il prezzo precisamente cresce (tutto il resto ugua­le) colla rarità della cosa che si ricerca.

Il prezzo delle cose vien formato da due principj riuniti, bisogno e rarità; ossia, quanto più sono forti questi due principj riuniti, tan­to più s’innalza il prezzo delle cose; e vicendevolmente quanto più s’accresce l’abbondanza d’una merce o se ne scema il bisogno, sem­pre anderà diminuendosi il di lei prezzo, e riuscendo a miglior mer­cato.

Riflettasi che quando si parla di mercato, ossia di permutazione di una cosa coll’altra, col nome di bisogno non s’intende già un sinonimo del desiderio, ma s’intende unicamente la preferenza che si dà alla merce che si ricerca, in paragone della merce che si vuol cedere. Dunque bisogno significherà l’eccesso della stima che si fa della mer­ce che si desidera, in paragone di quella che si vuol cedere. Mi spiegherò. Qual idea ci dà questa parola bisogno esaminata come un elemento del prezzo? Io possedo del denaro e ho desiderio d’acqui­stare una merce: se io ho poco desiderio di conservare il denaro che possedo, allora dico che ho molto bisogno di quella merce che desi­dero acquistare; per lo contrario se avrò tanto desiderio di possede­re quella merce quanto di conservare il denaro, allora dico che i due opposti desiderj si elidono e il bisogno influente nel prezzo sarà nul­lo, perchè realmente io non farò offerta alcuna. Saranno mille i desi­derj d’un avaro per mille oggetti di lusso, ma egli ha un preponde­rante desiderio per conservare il denaro e non offrirà mai alcun prezzo per quegli oggetti. Non influisce adunque nel prezzo se non l’eccesso della stima della merce desiderata in paragone di quella mer­ce che si vuol cedere, e quest’eccesso, questa quantità, chiamasi biso­gno. Da ciò ne deriva che in quel paese, in cui la merce universale si accresca in grande abbondanza, se il bisogno delle merci particolari non si accresca proporzionatamente, essa verrà a riuscire per conse­guenza di minor pregio nella estimazione comune, e converrà ceder­ne quantità maggiore per ogni merce particolare. Suppongansi due paesi isolati e che non abbiano alcuna relazione esterna; sieno que­sti abitati da pari numero d’uomini in pari circostanze di estensione, clima, leggi, governo e costumi; in uno di questi la somma totale della merce universale circolante sia il doppio dell’altro; dico che i prezzi delle cose vendibili saranno il doppio presso il paese che ha doppia quantità di denaro circolante. Acciocché i prezzi diventino eguali in que’ due Stati conviene che i bisogni e le consumazioni si raddoppino nel paese che ha doppia merce universale, poiché accrescendosi le compre in uno Stato tendono proporzionatamente ad accrescersi i venditori e i riproduttori come ora dirò, onde sareb­bero allora nella medesima proporzione le ricerche e le offerte ne’ due immaginati paesi. L’effetto appunto della merce universale, che entri in uno Stato per effetto d’industria, gradatamente e ripartita su molti, si è di accrescere sempre più le voglie per le merci particola­ri; ne verrà quindi, che quanto la merce universale sarà meno ammassata e più suddivisa in molti, tanto più conserverà il valore e meno alzerà il prezzo delle merci particolari. In fatti siccome già accennai al paragrafo terzo, a misura che presso una nazione si accresce generalmente la quantità del denaro, ogni cittadino dilata la sfera dei suoi bisogni: comincia egli a pensare a nuovi comodi a misura che si accresce la possibilità di soddisfarli. Quanto più cre­sce nelle mani di ognuno la quantità della merce universale, tanto più naturalmente crescono le compre che ha voglia di fare, onde per ogni compra conviene che si divida la merce universale e a tutte basti. Ecco per qual modo accade che accrescendosi la total quanti­tà del denaro, qualora ciò si faccia gradatamente e ripartitamente su molti, ciò non ostante i prezzi delle cose non s’accrescano, o pro­porzionatamente non s’accrescano, nè il pregio del denaro diminui­sca, poichè crescendo lo stimolo di far uso di più merci particolari a proporzione che la merce universale s’accresce, proporzionatamen­te si accresceranno le offerte di ciascuna merce particolare.

Ho detto che accrescendosi le compre tendono proporzionatamente ad accrescersi i venditori e i riproduttori in uno Stato, perchè quanto più compratori vi sono, tanto cresce l’utile d’essere venditore, e tan­to più si moltiplicano i riproduttori quanto s’accrescono i venditori. Ma non potrebbe questa teoria prendersi al rovescio, e chi dicesse quando in uno Stato s’accrescono i venditori debbonsi in quello accre­scere i compratori direbbe delle parole che non contengono una idea esaminata. Accrescendosi i compratori s’accresce l’interesse di fare il venditore; ma accrescendosi i venditori non s’accresce del pari l’interesse di fare il compratore. Si coltiva e si traffica una merce perchè è ricercata da molti, e tanto più si coltiva e si traffica quanto più vien ricercata; ma non viene ricercata di più una merce, perchè s’accresca il numero di chi l’offre e la produce; in un paese ove s’ac­cresca la coltura dell’ingegno e si dilati il piacere di leggere, ivi si moltiplicano i libraj; ma non basta che in un paese incolto si molti­plichino i libraj perchè ivi si accrescano i compratori di libri. Cosa poi io intenda di significare col nome di compratori, venditori e riproduttori si vedrà al paragrafo quinto, cioè non essere, nè poter essere le classi divise per modo che l’uomo in diversi momenti della giornata non sia ora dell’una ed ora dell’altra, siccome vedrassi.

L’abbondanza apparente, cioè quella che contribuisce alla forma­zione del prezzo, cresce col numero delle offerte e scema col nume­ro delle medesime; e il numero delle offerte prossimamente si misu­ra col numero de’ venditori. Per conoscere questa verità si consideri che se in una città vi fosse alimento bastante per nutrire il popolo per un anno, ma questo alimento fosse in potere di un uomo solo, quel solo venditore condurrebbe al mercato giornaliero la sola quantità proporzionata alla vendita di quel giorno, e così le offerte sarebbero ridotte al minimo grado, l’abbondanza apparente sarebbe la minima possibile, conseguentemente il prezzo sarebbe il massimo possibile, dipendendo dalla mera discrezione di quel solo dispotico venditore.

Questa medesima vittovaglia suppongasi divisa in due venditori; s’essi faranno un accordo fra di lor due, siamo nel caso di prima; ma se non lo fanno, qualche principio di emulazione nascerà fra di loro, perchè quantunque siavi un profitto assai grande nel vendere l’ali­mento a mezza la città, pure l’uomo sempre desidera di più, e da ciò comincerà a nascere una speculazione fra di essi per calcolare qual utile vi sarebbe nel ribassare il prezzo, se la porzione che si toglies­se al concorrente fosse per sorpassare di utilità la diminuzione gene­rale del prezzo. Se un terzo, un quarto, un quinto venditore, e così dicendo, si presentino al mercato offrendo la stessa merce particola­re, sempre più diventerà piccola la porzione che ripartitamente cia­scuno potrebbe vendere e sempre più diventerà minore la perdita del ribassato prezzo e riparata più facilmente con una dilatazione di maggior vendita, e così nascendo la gara di accumulare più solleci­tamente la merce universale si andranno moltiplicando le offerte, l’abbondanza apparente sarà accresciuta e il prezzo s’andrà dimi­nuendo.

Accrescasi con questa norma il numero de’ venditori, ella è cosa naturale che quanto più questo numero cresce, tanto più l’accordo fra di essi si rende difficile, tanto più il numero delle maggiori ven­dite compenserà la diminuzione del prezzo e quindi si animerà l’emulazione e la concorrenza; tanto più dunque crescerà l’abbon­danza apparente e tanto più si diminuirà il prezzo della merce. Io perciò prossimamente dico che l’abbondanza apparente si misura col numero de’ venditori.

Si è detto che il bisogno si misura sull’eccesso della stima che si fa della merce che si desidera, in paragone di quella che si vuol cede­re. Questo è vero; ma considerando la massa totale della società, con qual norma misureremo noi la quantità del bisogno? Dico che il nu­mero de’ compratori sarà una norma, se non esattissima per un geo­metra, certamente in pratica la sola e sufficiente per servire di misu­ra del bisogno. Per conoscerlo ritorniamo a un consimile esempio. Siavi un solo monipolista d’una merce; si è veduto che allora l’abbon­danza apparente sarà minima; ma se di essa merce vi sarà un solo compratore, anche il bisogno sarà minimo, poichè il prezzo dipenderà dal conflitto eguale di due sole opinioni. Che se in vece d’un solo compratore il monipolista abbia due compratori, allora potrà accre­scere le sue domande, e così a misura che, tutto il resto uguale, il numero de’ compratori crescerà, crescerà pure il bisogno constitutivo del prezzo. Il numero dunque de’ compratori è quello dal quale deve desumersi la quantità del bisogno che influisce nel prezzo.

Crescasi il numero de’ venditori, tutto il resto eguale, l’abbondan­za crescerà e il prezzo anderà ribassando; crescasi il numero de’ compratori, tutto il resto pure eguale, e il bisogno crescerà e il prez­zo anderà accrescendo. Il prezzo adunque delle cose si desume dal numero de’ venditori paragonato col numero de’ compratori; quanto più crescono i primi o si diminuiscono i secondi, tanto il prezzo si anderà ribassando, e quanto più si vanno diminuendo i primi e moltiplicando i secondi, tanto più si alzerà il prezzo. Un geometra direbbe: essendo uguale il numero de’ venditori i prezzi saranno proporzionali al numero de’ compratori; essendo uguale il numero de’ compratori crescono i prezzi in proporzione che scema il nume­ro de’ venditori; componendo le due ragioni e supponendo dise­guale il numero de’ venditori e de’ compratori, sarà il numero de’ venditori in ragion diretta del numero de’ compratori e inversa del prezzo; sarà il numero de’ compratori in ragion composta del numero de’ venditori e del prezzo; sarà il prezzo delle cose in ra­gione diretta del numero de’ compratori, e inversa del numero de’ venditori.

Ma queste proporzioni sono prossimamente vere: poiché rigoro­samente dovrebbero i compratori esserlo di quantità eguale affine che l’esattezza geometrica se ne accontentasse. La quantità che si esibisce e si cerca da ciascun venditore e compratore non è sempre la stessa, nè ha l’istesso momento di forza a mutare il prezzo un compratore che cerca uno, che un compratore che cerca dieci. Ciò nondimeno dieci compratori contemporanei accresceranno più il prezzo che un compratore solo che si affacci ad acquistare tutta la merce che cercherebbero i dieci; e ciò per le ragioni già dette. Sono adunque così prossimamente vere queste proporzioni che pratica­mente si troveranno sempre conformi al fatto.

Se il commercio adunque da nazione a nazione ha in sè inerente il trasporto delle merci; se questo trasporto è cagionato dall’utile; se questo dipende dalla sola diversità del prezzo; se questo prezzo è constituito dal paragone fra il numero de’ compratori e il numero de’ venditori, ne verrà per conseguenza che una nazione tanto più troverà sfogo all’eccedente delle sue merci presso gli esteri, quanto più sarà grande il numero de’ venditori di essa merce presso di lei, e piccolo il numero de’ venditori presso la nazione a cui deve tra­smetterla, e vicendevolmente piccolo il numero de’ compratori interni, e grande il numero de’ compratori esteri. Così una nazione tanto meno riceverà di merci dagli esteri quanto più venditori ne avrà e meno compratori internamente, e quanto meno venditori e più compratori ve ne saranno ne’ paesi stranieri.

La concatenazione di queste conseguenze è semplice e facile, per quanto mi pare. Non si trasporterebbe alcuna merce costantemente da luogo a luogo, se dove ella si vende il prezzo non fosse tanto più caro che ricompensasse le spese del trasporto, i tributi delle dogane, i rischi del deperimento, l’interesse del capitale e di più un guadagno al mercante. La diversità adunque fra il prezzo interno e l’este­ro è lo stimolo al trasporto, e quanto maggiore sarà la diversità del prezzo, ossia quanto il prezzo d’ogni nostra merce sarà più alto pres­so gli esteri, tanto maggiore sarà il trasporto che ne potremo fare. Dunque per ottenere lo sfogo dell’eccedente nostro, per accrescere la partita del nostro commercio utile, bisogna che siano i prezzi del­le merci che dobbiam vendere agli esteri più alti che si può presso gli esteri, e più bassi che si può presso di noi. Sono bassi i prezzi presso di noi quando di quella merce ne abbiamo internamente mol­ti venditori e pochi compratori; sono alti i prezzi presso il forestiere quando ivi siano pochi venditori e molti compratori. Collo stesso principio si diminuirà la partita del debito nazionale quanto meno consumeremo di merci estere, e ciò accaderà quando il prezzo di es­se non sarà più alto da noi o di poco più alto di quello che lo sia pres­so la nazione che ce le trasmette, e ciò accaderà quando di quella merce ne avremo molti venditori e pochi compratori nel nostro Stato, e all’incontro saranno presso la nazione che ce la vende pochi venditori e molti compratori. Tutto ciò non è altro se non l’applicazione dello stesso principio. Sento quanta sia la naturale aridità di sì fatte ricerche; ma spolpate che sieno queste idee e conosciute nella loro semplicità spero che il lettore non si pentirà della fatica a cui l’ho invitato; conosciuti che siansi questi elementi agilmente si ac­cozzano e si combinano, e servono di norma in moltissimi casi, ne’ quali la mente senza di ciò rimarrebbe annebbiata e incerta.

§ V. Principi generali dell’Economia.

Questi principj che sono i primordiali, e che a me sembrano provati, servono di base a molte operazioni che si vogliano tentare per promuovere l’industria d’un popolo e accrescere la popolazione, le facoltà, la forza e la riproduzione d’uno Stato. Accrescere quanto più si può il numero de’ venditori di ogni merce, diminuire quanto più si può il numero de’ compratori, questi sono i cardini, su i qua­li si raggirano tutte le operazioni di Economia politica; e sebbene talvolta non si distinguessero esattamente i contorni di queste due idee nel proporre e dirigere le operazioni pubbliche, il fatto è però che tutte si vedono spinte verso l’uno di questi due principj.

L’accrescimento dell’annua riproduzione debb’essere lo scopo della Economia politica: questo non può ottenersi se non col facile e pronto sfogo di tutta la porzione eccedente i bisogni interni dello Stato: ciò non può aversi che a misura che il prezzo interno è mino­re del prezzo estero: a conseguire ciò bisogna, per le cose già dette, che i venditori ai compratori abbiano la maggior proporzione possibi­le. Alcune volte le operazioni tendono a scemare il numero de’ com­pratori, altre volte ad accrescere il numero de’ venditori. Pare che e l’uno e l’altro di questi due mezzi conducano allo stesso fine; ma dirò in seguito quali effetti diversi cagionino questi due mezzi, e come ogni equilibrio fatto per addizione accresca la vita dello Stato, fatto per sottrazione in vece accosti al non essere.

Quando io dico che conviene che i venditori ai compratori abbia­no la maggiore proporzione possibile, non distinguo la classe degli uomini, per modo che un uomo medesimo non possa agire e nel­l’uno e nell’altra. Ogni nazione è naturalmente composta di vendito­ri e compratori. Ogni venditore d’una merce è, e debb’essere com­pratore delle merci che consuma; anzi perciò ogni uomo è venditore perchè debb’essere compratore, essendo che senza un bisogno l’uo­mo non si scuote dall’indolenza, nè si pone al lavoro o al traffico se non per cercare i mezzi di procurarsi le consumazioni proprie. Una riproduzione che si consuma nello Stato impedisce le perdite; una consumazione che ivi non si riproduce fa perdere; una riproduzione che non si consuma e si trasmette fa guadagnare.

Ho detto poc’anzi che tutte le operazioni di Economia politica cadono sopra uno di questi due principj: accrescere i venditori, ovve­ro diminuire i compratori. Con quali mezzi tenteremo noi di ridurre i venditori ai compratori alla maggior possibile ragione? Forse con leggi vincolanti e coercitive? Saranno forse le leggi indirette? Questi oggetti meritano di essere esaminati.

§ VI. Viziosa distribuzione delle ricchezze.

Il   numero de’ venditori sarà sempre maggiore in una nazione a misura che le fortune saranno distribuite con maggiore uguaglianza, e sopra un maggior numero. Vediamo in fatti che ne’ paesi ove la sproporzione delle ricchezze ci presenta il compassionevole contra­sto della nuda affamata plebe, che dalle strade rimira l’orgoglioso fasto di alcuni pochi rigurgitanti di comodi e ricchezze, ivi scarsissi­mi sono i venditori di ogni merce tanto indigena che straniera, mol­ti sono al paragone i compratori e i prezzi talmente alti che pochis­sima esportazione posson fare agli esteri; l’annua riproduzione è ridotta stentatamente al necessario, la terra, su cui passeggiano uomini o avviliti o oppressori, mostra la sua faccia sterile e infecon­da, tutto languisce e dorme aspettando o un legislatore che voglia e possa e sappia (combinazione fortunatissima!) o l’estremità dei mali, i quali sono i più funesti, ma forse gli unici precettori che per­suadono con intima convinzione quale sia la strada della verità.

Quando le ricchezze della nazione sono costipate nelle mani di pochi, da quei pochi debbe il popolo ricevere l’alimento, e que’ pochi venditori dispotici del prezzo obbligheranno la plebe a una stentata dipendenza. I pochi magnati, arbitri d’ingojare colle loro ricchezze ogni classe di merce, cagioneranno in quello Stato fre­quenti monipolj e frequenti carestie artificiali. Nessuna abbondan­za, nessuna libertà civile troverassi presso di quella nazione; il com­ mercio vi sarà sconosciuto e l’agricoltura vi sarà negletta. Che se la sproporzione delle ricchezze sarà nella divisione delle terre, dico che l’agricoltura non potrà prosperarvi generalmente giammai; poi­ché se il gran terriere farà coltivare a conto proprio tutta l’estensio­ne de’ suoi fondi v’è gran pericolo che, anzi che tollerare l’affanno di assistere da vicino ad ogni punto della vasta sua proprietà con una inquietudine incessante, abbandonerà la direzione alla cura de’ mercenarj, e nel seno della opulenza dormendo egli, tutto si farà languidamente. Che se il gran terriere confiderà a un fittuario il suo fondo, il fittuario procurerà di ritrarre dal fondo quanto più siagli fattibile per lo spazio in cui dura l’affitto, nulla curandosi poi quand’anche diventi sterile e deserto il fondo pel tempo a venire. Laddo­ve il mediocre possessore punto dal proprio bisogno, capace di vegliare sopra di una estensione limitata, cauto nella conservazione non meno che per la fecondità della sua terra, vi procura la riprodu­zione massima, e i prodotti del suolo originalmente ripartiti in più proprietarj vengono al mercato offerti da un maggior numero di venditori e così al prezzo più mite; nè v’è opera grande destinata a preservare o arricchire un distretto, la quale se da un ricco terriere può intraprendersi, non si possa del pari eseguire dalla associazione di molti possessori. Quindi è, che laddove la proprietà delle terre sia ammassata in grandi porzioni, ivi l’agricoltura sicuramente sarà negletta; e per lo contrario in ogni paese che trovisi suddiviso in molti possessori, ivi l’agricoltura sarà attiva e industriosa, quand’anche fosse il terreno difficile e di poca fecondità.

La legge agraria de’ Romani, l’anno giubilaico degli Isdraeliti, va­rie leggi di Licurgo e d’altri antichi legislatori avevano lo scopo d’im­pedire i grandi amassi e conservare la suddivisione de’ fondi. Erano leggi dirette, utili al fine di preservare la repubblica dalla tirannia di un solo, ma funeste al fine d’industria. La perpetua uniformità esat­tamente osservata toglierebbe l’emulazione e farebbe in guisa che, nessuno avendo lo stimolo del bisogno, tutto languirebbe, e si acco­sterebbe la società allo stato isolato e selvaggio; la consumazione avrebbe per oggetto le sole produzioni interne e quest’annua ripro­duzione non eccederebbe il minimo limite degl’interni bisogni. Le leggi dirette possono allontanare i delitti, ma non mai animare l’in­dustria.

Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l’annua riproduzione si restringe al puro neces­sario e l’industria s’annienta, poiché il popolo cade nel letargo; sia ch’ei disperi una vita migliore, sia che non tema una vita peggiore.

Una nazione che sia di mezzo a questi due estremi, cioè dove nè la plebe sia fra gli stenti d’una squallida povertà, nè sia tolta la spe­ranza d’ingrandire e migliorar di fortuna, quella è in istato di riceve­re le più felici impressioni che la spingano al bene, e se a questo sta­to non è una nazione, converrà preliminarmente ridurvela.

I mezzi per isminuzzare e dividere i patrimonj troppo ammassati, e far circolare i beni di fortuna sopra un maggior numero di uomi­ni, non possono mai essere mezzi diretti, poichè sarebbe questo un attentato contro la proprietà, che è la base della giustizia in ogni società incivilita. Indirettamente ciò si potrà ottenere quando nel­l’ordine delle successioni alle eredità vengano dal legislatore unifor­mati tutt’i figli senza riguardo al sesso e al tempo della loro nascita; quando nessuna porzione di terra e nessun bene resti immutabil­mente segregato dalla circolazione de’ contratti; quando alcune pri­vative pompe che si arrogano i magnati vengano, o ad essi tolte, se hanno un principio di usurpazione, o rese comuni a un più gran numero; quando alcuni articoli di lusso puramente di ostentazione e che si esercitano su merci straniere vengano più dall’esempio del legislatore, che da’ suoi editti proscritti; quando in somma s’inter­pongano questi mezzi indiretti, i quali benchè da principio riescano lenti, mantenuti però in vigore, non mancano di ottenere l’effetto e di spandere sopra un più gran numero i beni ammucchiati su pochi.

Queste operazioni però sono da scegliersi e combinarsi con mag­giore o minore energia a misura della civile costituzione di un popo­lo; essendo, come ognun vede, più conforme allo Stato popolare e dispotico la possibile uguaglianza, ed allo Stato monarchico e aristo­cratico la distinzione dei ceti e la perpetuità di essi.

§ VII. De’ corpi de’ mercanti e artigiani.

In una nazione adunque, in cui restino salutarmente distribuite le fortune per modo che il popolo largamente trovi il necessario fisico, e speri coll’industria ciascuno di poter godere anche dei comodi; in quella nazione dico, basterebbe che le leggi non vi avessero posto ostacolo, perchè il numero de’ venditori di ogni merce sarebbe il massimo possibile nelle sue circostanze. Poiché dove la industria sia svincolata ed abbia tutta la naturale sua attività, concorre ad ogni professione tanto numero per esercitarla, quanti è capace di mante­nerne l’utile che se ne cava.

Ma in ogni paese, dove più, dove meno, i legislatori sono stati sedotti da uno spirito mal pensato di ordine e simmetria, ed han cercato di compassare e modellare quel moto spontaneo della socie­tà, di cui le leggi possono bensì conoscersi con un attento esame su i fenomeni politici, non mai anticipatamente prescriversi, siccome nelle lingue è accaduto, che non mai i grammatici hanno potuto organizzarle a loro talento, ma sibbene esaminarle, formate che furono da una massa d’uomini con una libera scelta, ed i filosofi posteriormente le analizzarono e ne confrontarono le analogie.

L’idea di radunare ogni arte ed ogni mercatura in un corpo, e di dare a questo corpo i suoi statuti, prescrivere il tirocinio, l’esame e la qualità requisita per esservi annoverato, prevalse in ogni nazione e tuttavia sussiste nella maggior parte. Essa porta con sè un’appa­renza di saviezza e di prudente circospezione. Sembra che si assicu­ri in tal guisa il buon servizio del pubblico, la perfezione de’ mestie­ri, la fedeltà nella contrattazione, e che s’impedisca che gli uomini senza costume e senza pratica possano defraudare i cittadini e scre­ditare le produzioni interne presso gli stranieri.

Chiunque però si volgerà a esaminar da vicino queste instituzioni, troverà che gli effetti ordinarj di esse sono di rendere difficile l’in­dustria de’ cittadini; di costipare nelle mani di pochi le arti e i diver­si rami del commercio; di soggettare i manofattori e i mercanti ai pe­si di diverse tasse, e di tenere sempre al livello della mediocrità e ta­lora anche al di sotto ogni manifattura. Liti incessanti fra corpo e corpo, e fra corpo e membri; spese voluttuarie e vane fatte dalla cas­sa comune, le quali ricadono a peso di ciascun individuo; perdite di tempo per inutili formalità e capricciosi officj, espilazione talvolta dei piccoli magistrati di quelle ridicole repubbliche, rivalità, odj, guerre contro chiunque ardisca di essere più esperto o più industrio­so: tale è la scena che rappresentano ordinariamente questi corpi, esaminati che siano da vicino. Uno spirito di lega e monipolio gli anima, per cui tendono a stringere nel minor ceto che possono l’utile del loro commercio, ed ecco come anche dagli effetti si trovi quan­to vane fossero le speranze che si ebbero nella loro instituzione.

L’esame ch’essi fanno degli alunni si riduce a un tributo ordinariamente, dal che un abile e povero cittadino viene ridotto o ad abbandonare la patria o a rivolgersi ad altro partito; nè quest’esame garantisce il pubblico dall’aver pessimi operaj approvati da queste maestranze, di che l’esperienza può conoscersi in ogni paese; e quel­lo che dico dell’abilità, si può estendere anche alla buona fede che è dagli uomini trattata nella stessa guisa, siano essi arruolati in corpi, siano essi scapoli, tosto che l’invito al guadagno sia in essi più forte de’ lor principj morali.

L’effetto solo adunque che questi corpi producono si è quello di diminuire il numero de’ venditori interni, conseguentemente accre­scere il prezzo delle merci, diminuire il numero de’ contratti, frena­re l’attività dell’industria, e scemare l’annua riproduzione.

Un’arte vi è la quale per necessità non debbesi lasciare intera­mente libera, ed è quella degli speziali; troppo si avventurerebbe altrimenti la sanità del popolo. Il porre limiti al lor numero non spetta all’Economia politica, ma ai progressi della saggia medicina dubitatrice. Gli argentieri, i drappieri, i cuojaj prospereranno me­glio sotto un’intera libertà colla condizione soltanto che il bollo autentico della nazione non sia apposto se non all’oro e argento del vero titolo, ai panni, ai cuoj preparati con determinate leggi e costi­tuzioni.

I privilegj antichi dei corpi delle arti, i debiti che molte volte trovansi ad essi addossati sono oggetti piccoli e facilmente rimediabili con una saggia politica. Se questi corpi portano il peso d’un par­ziale tributo sarà sempre facile il trovare un fondo su di cui più innocuamente collocarlo. Aprasi la strada ampia e libera a chiun­que di esercitar la sua industria dove più vuole; lasci il legislatore che si moltiplichino i venditori di ogni classe, e vedrà in breve l’emulazione e il desiderio di una vita migliore risvegliar gl’ingegni, rendere più agili le mani del suo popolo, perfezionarsi le arti tutte, ribassarsi il livello de’ prezzi; l’abbondanza scorrere dovunque guidata dalla concorrenza, inseparabile compagna di lei; e siccome l’albero annodato artificiosamente e forzato nelle sterili piazze che noi chiamiamo giardini, languisce e malamente vegeta sin che da quei vincoli resti frenato l’umore che gli dà vita, e sciolto da essi l’anima gli scorre ne’ tronchi, rinverdiscon le foglie, il succo nu­tritivo spandesi liberamente e s’alza vegeto al cielo per ricompensa­re co’ suoi frutti la saggia mano che scatenò la natura; così nelle società accader deve che tutto prenda lena e vigore e si riscaldi, quando il desiderio di migliorare la sorte non incontri ostacolo, e possa per ogni dove spignersi, e largamente e sicuramente signoreg­giare.

Il giudizio del compratore è sempre il più disappassionato e il più equo; e l’inesperto come l’indiscreto venditore resteranno sempre solitarj, e per mancanza di profitto verranno costretti o a diventar buoni o a uscire dalla professione. I corpi dunque delle arti e de’ mestieri non producono il bene per cui furono instituiti; tendono a diminuire l’annua riproduzione, e ad accostar la nazione alla sterili­tà: abolendoli adunque si farà un’ottima operazione e si moltipliche­ranno salutarmente i venditori. Dovrà adunque il legislatore dimen­ticare interamente l’oggetto delle arti e de’ mestieri? No. Egli le proteggerà con buone e sante leggi. Egli stabilirà un metodo facile e breve e non dispendioso, col quale ciascuno possa avere la forza pubblica in soccorso, qualora gli venga mancato di fede. Egli orga­nizzerà le leggi per modo che un fallito doloso sia esemplarmente punito; un fallito innocente, soccorso; un creditore oppresso dai dilungamenti, assistito. Farà osservare religiosamente la fede de’ contratti. Stabilirà le condizioni colle quali i libri de’ negozianti debbono avere autenticità. Veglierà acciocché le manifatture nazio­nali non sieno decorate del pubblico impronto se non travagliate secondo le opportune leggi. Proteggerà le manifatture interne approvate, liberandole dal tributo e respingendo le estere in emula­zione con un tributo saggiamente collocato. Preserverà il fabbrica­tore, il mercante, e l’artigiano da ogni indebita inquietudine de’ finanzieri. Darà pronto castigo a chi ingannerà o nel peso o nella qualità o nella misura. Tali sono le mire, tai sono gli ufficj, co’ quali il legislatore proteggerà il corpo de’ commercianti.

§ VIII. Delle leggi che vincolano l’uscita dallo Stato delle merci.

Un altro ostacolo frappongono le leggi all’accrescimento del nume­ro de’ venditori, ed è la proibizione all’uscita di qualche natural pro­dotto del paese. Si è creduto che potesse uscire da una nazione col moto naturale del commercio anche parte del necessario al di lei consumo; nei viveri singolarmente questo timore prevalse, e con paterno e rispettabile principio in quasi tutti i paesi si pubblicarono delle leggi proibitive del trasporto delle interne produzioni più pre­ziose. Si proibì pure di trasportare agli esteri le materie prime delle manifatture colla plausibile idea di spingere a prosperità le fabbri­che interne, e impedire agli esteri l’entrare in concorrenza.

O queste leggi vincolanti sono universalmente da ogni cittadino osservate, ovvero non lo sono. Se la legge è osservata generalmente e che sia fisicamente impedita ogni esportazione, dico che la colti­vazione di quel genere infallibilmente dovrà limitarsi alla sola con­sumazione interna, poichè ogni porzione eccedente questa consu­mazione sarebbe di nessun valore. Anzi tutt’i minuti possessori e venditori di questa merce temendo questo non valore cederanno all’astuzia di alcuni pochi ricchi e attivi che ne faranno ammasso, e così ristrettosi a pochi il numero de’ venditori l’abbondanza interna diminuirà.

Se poi la legge potrà per taluni essere derogata, ovvero fraudata, egli è evidente che presso questi tali si ammasserà la merce vincola­ta, e questi potranno trovare utile lo svotarne lo Stato in grosse par­tite, e condurvi quella carestia, che appunto si cercava di prevenire coi vincoli. La politica è piena di paradossi, perchè sono sottilissimi i fili che tengono unite le cagioni agli effetti, e perchè l’attenzione degli uomini rimira gli oggetti riuniti in masse grandi confusamente e non distinti ne’ loro elementi.

La terra che abitiamo riproduce ogni anno una quantità corri­spondente alla universale consumazione; il commercio supplisce col superfluo d’una terra al bisogno d’un’altra, e colla legge di continui­tà si equilibrano dopo alcune oscillazioni periodicamente bisogno e abbondanza. Egli è un malinconico errore lo riguardare gli uomini ridotti a gettare il dado a chi debba morire di fame; riguardiamoli con occhio tranquillo, e riceveremo idee più vere e consolanti. Fra­telli d’una vasta famiglia sparsa sul globo, spinti a darci vicendevol­mente soccorso, vedremo il gran Motore della vegetazione averci largamente provveduti di quanto fa d’uopo per sostenere i bisogni della vita. I soli vincoli artificiali hanno potuto ridurre gli stati ai timori della fame, i quali cresciuti a un dato segno sicuramente la producono, quand’anche si trovi provvisione bastante a saziarla. La maggior parte delle carestie non sono fisiche, ma di opinione; di quella opinione regina del mondo, che distribuisce la felicità e la miseria e sugli uomini e su i regni, con maggior impero e sicurezza di quello che non lo facciano tutti gli altri esseri fisici collegati.

Dico che le leggi proibitive sono o insterilitrici o inutili. Ho pro­vato che sono insterilitrici, perchè diminuiscono il numero de’ ven­ditori; resta a provare quando sieno inutili. Tali sono quando uno Stato non produca del superfluo nel genere che si proibisce. Dico adunque che il necessario alla interna consumazione non può mai uscire da uno Stato dove la natura sola diriga il commercio, poichè nessun venditore ricuserà di cedere la sua merce al compratore nazionale, che senza ritardo o pericolo gliela paga, per fare la spesa di trasportarla all’estero, correre il rischio del deperimento nella condotta, e differire in oltre a riceverne il prezzo. Il comprator nazionale avrà poi sempre la preferenza anche nel prezzo, poichè l’estero dovrà pagare tanto di più quanto costano le spese e il peri­colo del trasporto, le gabelle imposte sull’uscita e il ritardo al paga­mento, ed ecco l’argine che conterrà sempre nello Stato la quantità proporzionata all’interno bisogno, e ve la conterrà a un prezzo sem­pre minore di quello a cui dovranno pagarla i forestieri.

Le proibizioni all’uscita sono adunque ostacoli alla libera espan­sione dell’industria; sono di più una facile sorgente di corruzione, che tale si è sempre una legge arbitraria, per cui sia interesse di mol­ti cittadini il vederla o derogata parzialmente o delusa.

§ IX. Della libertà del commercio de’ grani.

Siami permesso il trattenermi sopra una parte di quest’oggetto, cioè sulla libertà del commercio de’ grani, sulla quale la comune opinione degli autori non ha per anco potuto superare la timidezza di mol­ti. L’argomento è interessante, e le ragioni che son per dire, credo che abbiano della forza. Due mali si temono dalla libertà del com­mercio de’ grani. Il primo male si è ch’ei venga a mancare nello Sta­to. Il secondo male si è che ascenda a un prezzo così alto che oppri­ma il popolo. Esaminiamo questi due pericoli.

Perchè un commercio si faccia, non basta che sia libero; bisogna che sia utile. L’utilità d’un trasporto nasce dalla differenza del prez­zo. Non si perda mai di vista questo principio, posto il quale, dico così. Dovunque sia libera la contrattazione d’una merce tosto che appaja differenza sensibile fra il prezzo che si fa nell’interno e il prezzo esterno, differenza che ecceda le spese del trasporto e del tri­buto, vi sarà guadagno a trasportar la merce dove il prezzo è mag­giore; e tosto che vi è guadagno i possessori della merce vi concor­rono a gara per partecipare di quel guadagno, e con tanto maggior impeto quanto il guadagno è maggiore; e sintanto che cessi il guadagno. Questo fa vedere che dove la contrattazione è libera non vi può essere differenza sensibile e durevole di prezzo, ma questo debbesi livellare naturalmente fra le diverse provincie confinanti. Da qui ne viene che quando una merce di uso comune si vede a salti improv­visi calare, e crescere il prezzo, ed essere sensibilmente e costante­mente diverso il di lei prezzo da un distretto all’altro, si deve dire che questo è un moto artificiale, effetto di vincoli e degli ostacoli impeditivi del commercio. Ne’ paesi ne’ quali è libero questo com­mercio, il prezzo de’ grani si sostiene a un livello uniforme. Quelle impensate e saltuarie variazioni nel prezzo de’ grani che si vedono negli Stati vincolati, fanno tremare alcuni al solo nome di libertà, perchè si figurano che data questa fluttuazione di prezzo si potreb­be con somma rapidità rendere esausto lo Stato. Pecca quest’argo­mento perchè suppone l’effetto, tolta che ne fosse la cagione.

Se il trasporto d’una merce si fa a misura dell’utile che v’è nel far­lo; se questo utile è proporzionato all’eccesso del prezzo estero sopra l’interno; se quest’eccesso, posta la libertà, è il minimo possi­bile, ne viene in conseguenza che data la libertà del commercio usci­rà del grano la minima quantità possibile; nè si potrà mai averne nel­lo Stato in maggiore abbondanza, ammeno che non ne venga assolutamente proibita non solo, ma impedita espressamente ogni esportazione, nel qual caso di tanto se ne diminuirà l’annua ripro­duzione quanto è il grano superfluo eccedente l’interna consumazione, siccome si è detto, e la nazione si accosterà al pericolo ventu­ro della carestia.

Ma questa fisica custodia troppo difficilmente si otterrà. Gl’interessi privati conspirano colla loro pluralità a deluder la legge. I custodi moltiplici son sempre soggetti a inganno o a corruzione. Difendere i confini esattamente colla forza non si può in un sistema stabile. Perciò ne’ paesi vincolati ordinariamente accade, che se il raccolto eccede l’interna consumazione, al tempo della messe il prezzo de’ grani è avvilito, essendo che più sono i venditori che i compratori. Alcuni monipolisti profittando del vincolo comune, e con una fatale industria, avendo mezzi di sottrarsi al rigor della leg­ge, se ne renderanno padroni, il che fatto, il prezzo s’alzerà, perchè sono ridotti a pochi i venditori; dalle loro mani passerà in grosse partite ad un monipolista estero, e così costantemente sussisterà l’utile a trasmetterne, perchè i venditori esteri non sono accresciuti; quindi quella stessa quantità che mercanteggiata liberamente avreb­be livellati i prezzi, uscirà senza livellarli, e il prezzo interno, mino­re dapprincipio del vero prezzo comune, allungherà il raggio di quella sfera di relazioni che ha il commercio coll’estero, onde ridot­ta a dar alimento a popoli più rimoti sarà la nazione vincolata in pericolo di penuria. Tale è la serie delle cose che sono prodotte dal­le leggi dirette e vincolanti.

Se poi vi fossero persone incaricate a conceder le tratte de’ grani, acciocchè assicurato il necessario allo Stato abbia sfogo il superfluo, questa idea prudentissima al primo aspetto riuscirà ineseguibile nel­la pratica. Non è possibile il fare ogni anno un calcolo nemmeno di approssimazione sulla quantità de’ grani raccolti; in conseguenza, posto che anche si sappia la vera annua consumazione, non si potrà definire a quale quantità ascenda ogni anno il superfluo. Di più que­sto calcolo inesattissimo non sarà fatto se non più mesi dopo il rac­colto. Dovrà dunque sospendersi ogni tratta di grano per tutto il tempo anteriore a questo calcolo; cioè per tutto il tempo nel quale i possessori delle terre saranno stati costretti dall’inesorabile bisogno a venderlo, e sarà questa derrata già tutta ammassata presso i monipolisti prima che se ne possa fare commercio. Ecco la ragione, per cui i paesi che non permettono esportazione de’ grani se non per tratte, si espongono bene spesso a pericoli o di vuotare il paese o di fare che manchi il compratore e si diminuisca questo importantissi­mo ramo di agricoltura.

Di tutte le merci anche le più necessarie alla vita comune, olio, vino, panni, tele ec. non ne manca mai il necessario allo Stato quantunque ne sia libera la contrattazione e il trasporto. Perchè temesi adunque che la merce grano esca dallo Stato e ne manchi il necessa­rio, se la legge non accorre ad impedirne l’uscita? Si dirà forse che il grano è una merce più preziosa di ogni altra. Si osservi però ch’ella lo è tanto per noi quanto per gli esteri, onde aggiugnendo eguali quantità da una parte e dall’altra, le relazioni fra noi e gli esteri rimar­ranno precisamente quali sono in ogni altra merce meno preziosa.

Il necessario fisico non può uscir mai da uno Stato, che abbia la libertà del commercio, perchè dovunque vi è concorrenza non vi possono essere monipolisti. L’interesse di ogni cittadino veglia sopra le usurpazioni di ogni cittadino, e tanti a gara si affollano a partecipare dell’utile, che resta sempre diviso questo sul numero maggiore possibile; da che ne viene, che quei grandiosi ammassi, i quali si vedono nei paesi vincolati, sono fisicamente impossibili a farsi ne’ paesi liberi. Se dunque uscirà la merce dal paese libero, uscirà in molte e replicate partite, uscirà per gradi; e a misura che le ricerche si accresceranno, gradatamente si alzerà il prezzo, perchè niente di clandestino può ivi succedere dove l’attività di ogni uomo abbia lo stimolo dell’utile a invigilare sulle usurpazioni altrui. Ne’ mercati apertamente si faranno i contratti, e così s’alzerà di tanto il prezzo interno della merce, che all’estero non converrà più di com­prarla, e la natura delle cose da sè medesima avrà interdetta l’uscita al primo accostarsi del pericolo che uscisse più del superfluo. In fat­ti l’estero dovrà sempre pagare la nostra merce quello che la paghiam noi, più il trasporto e il tributo all’uscita, più il pericolo e il ritardo del pagamento. La sfera delle relazioni d’ogni Stato co’ finiti­mi è circoscritta, e ciascuno Stato adjacente a noi diventa centro d’un’altra sfera, e così da vicino a vicino, per la qual connessione ne accade che cresciuto il prezzo da noi a un dato segno, il finitimo si volgerà a cercare il restante del suo bisogno da qualche altra parte.

Taluni sostengono un’opinione, la quale può destar meraviglia, ma non persuasione; cioè che la libertà convenga ai paesi sterili e sia pericolosa ai fecondi. Si rifletta che i paesi sterili in grano, pure ne possedono, poiché ne ricevono dal forestiere; e la porzione necessa­ria alla loro consumazione che hanno ricevuta dagli esteri non potrebbe uscire da quello Stato senza pericolo della fame. O dun­que il necessario non può uscire o veramente lo può: se no, perchè lodare i vincoli ne’ paesi fecondi? Se poi si sostiene che il necessario possa uscire colla libertà, dove mai sarà più da proscriversi questa libertà se non ne’ paesi, ne’ quali il primo moggio che ne uscisse potrebbe essere un decreto di morte d’un cittadino!

Fa meraviglia come in mezzo a tutta la rete dei vincoli tessuta ne’ secoli passati non sia mai caduto in mente di vincolare anche la custodia del grano destinato per sementare. In fatti seguendo i principj coattivi, che non suppongono inerente alla natura delle cose medesime il moto al bene, ma vogliono imprimervi questo moto, che non poteva dirsi per intimorire gli animi volgari e far risguardare salutarissimo e providissimo il vincolo sul grano da seminare! Questi è una parte sensibilissima del raccolto, e sarà almeno la quar­ta parte: «E che diverrà lo Stato» (potevasi dire) «se la spensieratez­za o l’ingordigia caverà da’ granaj questo germe della ventura rac­colta, e lo macinerà? L’incentivo dell’utile è sempre urgente; l’uomo sacrifica i bisogni dell’anno venturo agli attuali. Dunque si obblighi ogni possessore a depositare una proporzionata quantità di grano sotto la tutela pubblica per seminare il suo campo». Eppure questo non si è fatto mai; è mancato mai per questo il grano bastante a seminare? Non mai. Perchè l’interesse privato di ognuno quando coincide col pubblico interesse è sempre il più sicuro garante della felicità pubblica.

Che se si teme non la mancanza del grano, ma l’esorbitanza del prezzo in seguito alla libertà, nemmeno questo timore è fondato. In uno Stato vincolato, al tempo della messe ne è vile il prezzo, poichè come già si è detto, il possessore non trova che pochi compratori del suo superfluo. Ammassato poi il grano in poche mani di monipolisti il prezzo s’accresce anche nell’interno, poichè gli artigiani e la maggior parte degli abitanti nelle città formano una giornaliera squadra di compratori. Così la maggior parte dell’anno non resta il grano al livello del prezzo che sarebbe utile, anzi necessario per sostenere la man d’opera nell’interno dello Stato. L’effetto dei vin­coli si è di alzare il livello del prezzo interno, e assai più l’esterno delle nazioni che prendono la merce da noi; perchè l’effetto dei vin­coli si è di radunare la merce in poche mani, cercando ognuno di sbrigarsi d’un frutto del quale non può liberamente disporre, e profittando alcuni pochi privilegiati della comune servitù per fare essi soli un privativo commercio tanto più seducente, quanto mag­giore e più rapida si è la fortuna che promette. Inutilmente la legge fulminerà i monipolisti; potrà rovinarne alcuni, ma saranno imme­diatamente succeduti da altri; troppo grande è l’utile in questa fro­de, e troppi mezzi vi saranno sempre, perchè il ricco addormenti i subalterni custodi della legge. Sempre che vi saranno vincoli, vi saranno monipolisti, e fin ch’essi vi sono, piccolo sarà il numero de’ venditori nel corso ordinario dell’anno a fronte de’ compratori; per­ciò dovrà sempre il prezzo esserne alto.

Suppongasi quello che non è, e concedasi che il prezzo del grano sarebbe più alto colla libertà, di quello che sia coi vincoli; prima di decidere se convenga avere i grani a prezzo alto, ovvero a prezzo vile, converrà esaminare da qual de’ due partiti sia l’interesse della maggior parte de’ nazionali, giacchè l’interesse pubblico altro non è se non l’aggregato degl’interessi de’ particolari. Per decidere adun­que se l’interesse pubblico esiga d’avere il prezzo alto ovvero basso bisogna osservare se sia nello Stato maggiore il numero de’ vendito­ri di grano, ovvero quello de’ compratori. Le nazioni mancanti di grano non hanno leggi proibitive di questo commercio. Si parla adunque d’una nazione coltivatrice, e che abbia del superfluo di grani. In questa nazione, dico, sarà assai maggiore il numero dei venditori di grano di quel che non lo siano i compratori. Tutt’i con­tadini saranno venditori, e il numero di essi eccederà di assai il numero degli abitanti nella città, e da questi ultimi si detraggano tutt’i facoltosi, e si vedrà che per sollevare un povero cittadino si porterebbe la desolazione a sei o otto poveri agricoltori. Che i con­tadini sieno venditori di grano e non compratori in un paese fertile di grani è facil cosa a capire. Basta riflettere che essi non comprano il grano nè il pane, ma consumano il pane fatto dal grano che essi medesimi coltivano; essi poi pagano il proprietario della terra o immediatamente col grano, ovvero col denaro che hanno ricavato vendendolo; essi per comprarsi il vestito e le consumazioni necessa­riamente adoprano il prezzo del grano venduto; tanto è ciò vero che in uno Stato abbondante di grano il contadino sarà più miserabile quando i prezzi de’ grani saranno più vili. Ciò posto qual è l’aspet­to in cui ci si presenta dappertutta quasi l’Italia, l’uomo il più neces­sario e il più benemerito della società? Vediamo il miserabile conta­dino, nudo le gambe e scalzo; egli ha sul suo corpo il valore di tre o quattro lire e non più; egli mangia un pane di segale e di miglio; non mai beve vino; rarissime volte si pasce di carni; la paglia è il suo let­to, prima d’avere una moglie; un meschino tugurio è la sua casa; stentatissima è la sua vita, e faticosissimi i suoi lavori. Egli si consu­ma e si logora sino all’ultima vecchiaja senza speranza d’arricchire, e contrastando colla miseria per tutto il corso de’ suoi giorni; null’altro bene raccoglie se non quello che accompagna una vita sem­plice, e che producono l’innocenza e la virtù. Egli non trasmette a’ suoi figli altra eredità che l’abituazione al travaglio. Generazione d’uomini frugalissimi, laboriosissimi, che danno un valore alle terre, ed alimentano la spensieratezza, l’ozio e i capricci delle città! Que­sti sono gli oggetti rimoti dallo sguardo del cittadino; oggetti degni di eccitare tanta commiserazione per lo meno, quanta ne muove la mendicità per lo più meritata dalla plebe civica.

La libertà adunque nel commercio de’ grani non può giammai in nessun stato, in nessuna circostanza portar nocumento nè alla sussi­stenza, nè all’abbondanza della nazione. Nè possono mai esssere di giovamento gli ordini costringenti delle leggi. Se si dubiti della veri­tà di questi principj se ne appelli la decisione alla sperienza, e si ritroverà che gli Stati che non hanno nè corpi d’arti e mestieri, nè leggi vincolanti all’uscita de’ loro prodotti sono più floridi e opulen­ti degli altri, ne’ quali tai organizzazioni coercitive sussistono, e tan­to più s’accostano gli Stati all’ubertà e all’abbondanza, quanto meno sì fatte leggi si tengono in vigore.

§ X. De’ privilegi esclusivi.

Un’altra conseguenza emana da questi principi, ed è che tutte le privative e tutt’i privilegj esclusivi sono diametralmente contrarj al bene d’uno Stato. Pare veramente a primo aspetto, che un introdut­tore d’una nuova arte possa meritare questo favore di vedere inter­detto ad ogni altro l’entrare in concorrenza con lui e dividerne l’utilità. Questo principio d’equità prevalse e tuttavia prevale in molti Stati senza eccettuarne alcuni de’ più avveduti e sapienti; ma difficil­mente mi si troverà una coltura, una fabbrica, un artifizio che siasi costantemente sostenuto ed abbia ridotto il suo oggetto a perfezio­ne ottenuto ch’ebbe il privilegio esclusivo. Tolta all’artefice l’emula­zione, assicurato ch’egli sia d’essere il solo venditore, gli manca lo stimolo per far bene; e come alcune famiglie per essere state troppo facoltose spensieratamente vanno in rovina; così il monipolista facilmente si conduce a deperire. O l’introduttore della nuova arte la possiede a un grado da non temere che alcun cittadino lo sorpassi, ovvero non è giunto a questo segno; nel primo caso il privilegio esclusivo gli è quasi inutile, poichè l’artefice porta già seco il miglio­re di tutt’i privilegj, l’eccellenza; nel secondo caso poi sarebbe ingiu­stizia l’interdire l’esercizio dell’industria in quella parte ad ogni cit­tadino in favore d’un mediocre manofattore, il quale altronde può essere con eguale attrattiva, e col mezzo più innocuo d’una grati­ficazione invitato a piantare la nuova introduzione. Così lasciasi aperta sempre la strada, sicchè in ogni genere possa apparire il mag­gior numero de’ venditori che si può.

Da ciò ne viene pure in conseguenza che certe manifatture e fab­briche prepotenti, e che più signorilmente colpiscono e stimolano l’attenzione del forestiere, sono per lo più o di pochissima utilità ad uno Stato o di danno talora. Una fabbrica che ci presenti gran pom­pa, porta seco il monipolio naturalmente, perchè non vi sarà chi ardisca entrare in concorrenza con lei. Cento telaj distribuiti sopra dieci fabbricatori saranno più utili di quello che forse non lo sieno dugento dipendenti da un fabbricatore solo, perchè i venditori si moltiplicano, la gara fa che si perfezionino e riducasi il prezzo al grado più utile per la nazione, e il guadagno distribuito su più fab­bricatori stimola sempre l’industria di ciascuno.

Dico dunque che il numero de’ venditori in ogni classe possibile bisogna lasciarlo moltiplicare naturalmente senza porvi alcun limite, acciocchè s’ottenga in ogni classe il minor prezzo possibile, il quale solo può accrescere l’annua riproduzione procurando lo sfogo della porzione eccedente, e questa teoria deve estendersi, come dissi, ad ogni classe possibile di venditori anche di quelle derrate che servo­no al puro interno consumo giornaliero; perchè il prezzo d’ogni mercanzia e d’ogni derrata deve necessariamente comprendere il prezzo di quanto ha consumato l’agricoltore o il manofattore; con­seguentemente l’abbondanza di ogni più minuto genere contribui­sce come elemento nell’abbondanza d’ogni merce, a misura che ne è più popolare la consumazione.

§ XI. Alcune sorgenti di errori nell’Economia politica.

Acciocché i compratori ai venditori abbiano la maggiore proporzione possibile nell’interno della nazione, oggetto unico e primitivo a cui tendono tutte le operazioni dell’Economia politica, e dal qua­le solo possono emanare la ricchezza e la prosperità dello Stato col­l’accrescimento dell’annua riproduzione, due mezzi naturalmente si presentano alla mente di ogni uomo, e sono accrescere il numero de’ venditori, ovvero diminuire il numero de’ compratori. Se nella prima idea si può francamente progredire togliendo gli inciampi e lascian­do vegetare spontaneamente l’attività degli uomini, nella seconda per lo contrario conviene adoperare somma cautela e timidamente stendervi la mano più con tentativi per osservarne l’effetto, che con colpi maestri e arditi.

In alcuni Stati si volle accrescere la proporzione fra i venditori e i compratori diminuendo questi ultimi, e si promulgarono leggi sontuarie. La sperienza ha provato com’elle sieno per lo meno pericolose e il più delle volte funeste. Esse diminuiscono il numero de’ compratori; ma fanno scemare anche in maggior ragione il numero de’ venditori. Esse possono convenire ai paesi che ricavano la loro sussistenza da un precario commercio di economia, e a quei popoli, presso de’ quali la riproduzione annua essendo tenuissima, sono costretti ad essere gli agenti e i commissionieri degli Stati riproduttori. Possono a quei convenire, perchè la maggior parte de’ loro venditori trae il suo utile dai compratori esteri, e poco perde togliendole i consumatori nazionali; ma dove nella nazione si crei ogni anno un nuovo valore che corrisponda alla total consumazione, quanto diminuirassi la consumazione interna, tanto si vedrà dimi­nuire l’annua riproduzione, ammeno che non si sostituisca una maggior consumazione d’un prodotto interno, il che sarà sempre l’opera del costume a cui debbono rivolgersi le leggi e della opinio­ne che convien cercare di far nascere, senza che l’oracolo del legisla­tore l’intimi direttamente.

In quello Stato di cui il principio conservatore sia l’uguaglianza; dove il cittadino che si distingua per pompa o ricchezza fa temere un tiranno; dove l’universale diffidenza della usurpazione impedisce che s’alzi l’usurpatore; in quello Stato, dico, saggiamente potrà sacrificarsi una porzione di vita della società alla di lei sicurezza, e providamente verrà il lusso proscritto. L’ottimo governo, quello cioè in cui si ritrovino ad un tempo stesso somma sicurezza e stabi­lità interna per le leggi e per la civile libertà de’ cittadini; somma rapidità e impeto per rispingere ogni esterna aggressione; somma riproduzione, industria e ricchezza, sarà sempre difficilissimo a immaginarsi, ammeno che colla locale posizione la natura non abbia già fatto il più. Si tratta adunque di scegliere i mali minori reggendo un popolo. Ma io scrivendo della Economia politica debbo indicare l’ultimo confine a cui debb’essa spingersi per sè medesima.

Ogni operazione, che tenda direttamente a diminuire il numero de’ compratori, produce una diminuzione di prezzo efimera, di cui gli effetti ricadono per lo più in danno della società; essendo che la diminuzione de’ compratori porta seco ben presto la diminuzione de’ venditori, e così in vece di accrescere il moto interno della società si ripone una parte di esse segregata, ed in quiete, e altrettanto si diminuisce dell’annua riproduzione. Io non citerò esempj; il lettore gli troverà da sè; e tanto mi fido della costanza di questi principj che mi lusingo ch’ei difficilmente troverà un caso, in cui una legge diretta a scemare il numero de’ compratori interni abbia stabilmente portata l’abbondanza in un paese.

Si è veduto al paragrafo terzo per qual modo gli Stati proporzionino la loro consumazione alla riproduzione annua, e come de’ due modi co’ quali ciò può farsi, l’uno sia malaugurato, e fausto l’altro:
lo stesso dico in questo luogo del modo di accrescere la proporzione fra i venditori e i compratori. Quando ciò facciasi per addizione si spinge lo Stato alla prosperità, e da quella in vece si allontana qualora si tenti farlo per sottrazione. Non si debbe estinguere il principio vitale della società, nè si può utilmente diminuire la quantità totale del moto giammai. Quella sola porzione di moto utilmente si spegnerà che sia un ostacolo allo sviluppamento d’una quantità di moto maggiore. Le provide leggi limitano le azioni degli uomini quando esse si oppongono alla espansione e stabilità delle azioni prese nella loro totalità. Se il legislatore lasciasse libera e impunita la frode ne’ contratti, sicuri e tranquilli i falliti dolosi, placida e serena la mala fede, queste azioni rese libere diminuirebbero una quantità assai maggiore di azioni; poichè tutti i commercj, tutti i contratti che
si fanno sull’appoggio della buona fede verrebbero annientati. Non consente la natura di questo libro ch’io dirami questo principio, il quale potrebbe stendersi su tutta la teoria delle leggi, e servire di esatto confine alla civile libertà; un cenno basta perchè i pensatori ne ravvisino l’ampiezza e la trascorrano; dico adunque soltanto che ogni diminuzione che vorrà farsi sulla quantità totale del moto, e nelle stabili azioni della società, sarà un passo verso la distruzione della medesima.

Dall’accrescimento di proporzione fra i compratori e i venditori dipende adunque l’abbondanza interna d’uno Stato, da cui il tra­sporto dell’eccedente riproduzione agli esteri, da cui l’accrescimen­to dell’annua riproduzione, da cui la ricchezza e la popolazione, la coltura e la forza nazionale derivano. Accrescere i venditori, dimi­nuire i compratori sono i due mezzi che si offrono alla mente; il pri­mo di questi è sempre innocuo ed è facilissimo ad usarsi, l’altro è sommamente pericoloso e porta effetti di breve durata, in seguito ai quali si ricade in uno stato peggiore. Donde è avvenuto adunque che nella maggior parte de’ paesi gli uomini d’affari propendessero sempre a trascegliere il secondo mezzo a preferenza del primo? Per­chè gettarsi per la strada più spinosa e difficile, quando vi è la spaziosa e sicura in faccia? Entriamo ne’ secreti penetrali del cuore umano e ne ritroveremo la cagione; fors’ella vi sta riposta in un can­to così oscuro che talvolta gli uomini stessi che la ubbidiscono non se ne avvedono. Le leggi vincolanti e prescrittive sono un grado di autorità, e il comune amor proprio è sempre più lusingato quando s’immagina d’imprimere un moto e di creare una azione entro una massa d’uomini, che non lo è quando si limita unicamente a spianarvi le strade ed a rimovere gli ostacoli. Sembra più breve e lusinghie­ro il partito di proibire immediatamente l’effetto, e più laborioso è certamente quello di conoscere le rimote cagioni. Così cominciareno gli uomini che sedevano al governo delle città ad agire per sottra­zioni. Col passare de’ secoli questo mezzo si consacrò come ogni antica pratica, e gli usi venerati dalla pubblica opinione e assistiti dalle leggi non si affrontano senza energia d’animo non volgare, e vi si richiede una contenzione superiore di mente per assicurar sè medesimo di non errare, solo contro il torrente delle autorità oppo­ste. Tali sono le difficoltà che si frapposero a scegliere il primo mez­zo; laddove seguendo il secondo partito ognuno si assicurò di non vedersi rimproverare giammai dell’esito cattivo, anzi acquistò il tito­lo per avere gli encomj che si danno alla prudenza, la quale per lo più in politica è un sinonimo d’imitazione. La naturale inerzia fa piegar l’uomo agli esempj, e lo allontana dallo sforzo dell’esame. Queste cagioni o separatamente o riunite hanno fatto sì che general­mente le leggi, le costituzioni, e le pratiche della società siansi rivol­te piuttosto a frenare il numero de’ compratori anzi che sciogliere e illimitare quello de’ venditori.

§ XII. Se convenga tassar per legge i prezzi di alcuna merce.

Si è creduto di poter per legge livellare i prezzi interni, massimamente di alcune derrate che servono all’uso più comune del popolo. Questo espediente forse è nato dappoichè videro i magistrati che dalle loro leggi vincolanti non ne nasceva la pubblica abbondanza, che anzi i prezzi si rialzavano diminuendosi il numero de’ venditori. Per rimediare al male di una legge vincolante si ricorse ad altra leg­ge vincolante ancor più, e si stabilì per autorità pubblica il prezzo a cui dovevano vendersi alcune merci. Questi usi sussistono in varj Stati. La maggior parte degli uomini viene sedotta coll’aspetto d’una politica speculativa, la quale come la scuola sofistica sa abbel­lire questi ordigni constringenti e rappresentarli come salutari allo Stato, e con una virtuosa ma sorpresa decisione e anticipato giudi­zio li fa abbracciare.

Esaminiamo gli effetti di simili prescrizioni. Supponiamo che il prezzo comune della merce realmente sia 12 lire, cosicchè se la con­trattazione fosse libera, nel mercato comunemente si venderebbe la merce a lire 12. La legge comanda che il prezzo sia . Ecco sconvol­to tutto l’ordine delle cose; il prezzo non è più in ragione diretta de’ compratori e inversa de’ venditori. Il prezzo non è più il grado d’opinione che danno gli uomini alla merce. Il prezzo è divenuto un atto arbitrario della legge, il quale fa torto al venditore, e conseguentemente tende a diminuire il numero di essi. Quali effetti ne accaderanno? I venditori scemeranno; i venditori si conformeranno il meno che si può alla legge, quindi di quella merce se ne trasmet­terà agli esteri anche di più del superfluo; si cercherà di falsificare la merce e frammischiarvi materie di minor valore; si cercherà di fro­dare il peso e la misura; e gli esecutori della legge potranno bensì ansanti, in moto e guerra continua sacrificare alcune vittime ree di un delitto arbitrariamente creato, senza che cessi perciò il disordine o l’abbondanza pubblica regni mai; poichè una legge che abbia con­tro di sè la natura e l’interesse di molti non può mai essere costante­mente e placidamente osservata, nè portare fauste conseguenze alla città.

Le leggi tassative del prezzo sono ingiuste col compratore se fissa­no un limite al di sopra del prezzo comune; sono ingiuste col vendi­tore, se lo fissano al di sotto, e sono inutili se si attengono al vero livello del prezzo comune.

Molti popoli hanno dovuto sentire i mali della tassazione del prezzo nel modo il più funesto, cioè colla carestia. Anche nell’anno 1771 una provincia di Germania ha sofferti i mali della fame, e ne sono periti degli abitanti nel tempo in cui colle ricerche fattesi dipoi si trovò grano bastante, e abbondantemente bastante per la consu­mazione; ma quel grano i proprietarj l’avevano segregato, perchè era stato tassato un prezzo di cui non si contentavano. La teoria mi pare evidente, e tosto che vi è un confronto, tosto che vi è un com­pratore e un venditore ella si verificherà.

In fronte della maggior parte delle leggi, che le nazioni ereditarono dai loro padri, si trovano scritte quelle ferree parole forzare e pre­scrivere. I progressi che la ragione ha fatto in questo secolo comin­ciano a farne vedere di quelle che hanno la benefica divisa invitare e guidare. Qualunque sia la forma di governo sotto la quale vive una società di uomini, a me pare che sia interesse del sovrano di lasciare ai cittadini la maggior possibile libertà, e toglier loro quella sola por­zione di naturale indipendenza che è necessaria a conservare o migliorare l’attual forma di governo. A me pare che ogni porzione di libertà che ultroneamente si tolga agli uomini sia un errore in politica, essendochè quest’ultronea azione del legislatore sente in faccia del popolo il solo potere: l’imitazione gradatamente si diffon­de; s’indeboliscono l’idee morali nel popolo; e a misura che si diffida della sicurezza, si ricorre all’astuzia; laonde, moltiplicati che siano questi errori in politica, fatalmente la nazione diverrà timida, poi simulata, finalmente inerte e spopolata, se il potere troppo fami­liarmente esercitato giunga all’oppressione. Ma nella felicità dei tempi presenti dopo i progressi che la filosofia ha fatto in ogni par­te del sapere, colla dolcezza e umanità degli attuali governi, questi oggetti fortunatamente non trovansi, fuori che nella speculazione. È però cosa degna da osservarsi che ogni passo superfluo che dal legi­slatore si faccia in limitazione delle azioni degli uomini è una reale diminuzione di attività nel corpo politico tendente direttamente a scemare l’annua riproduzione.

§ XIII. Del valore del denaro e influenza che ha sull’industria.

Abbiamo osservato come il prezzo delle merci è in ragione diretta de’ compratori e inversa de’ venditori. Osserviamo presentemente come debba misurarsi il prezzo del denaro. Se il commercio altro non è che la permutazione d’una cosa coll’altra, e se l’abbondanza delle ricerche e la scarsezza delle offerte formano il prezzo, ne verrà in conseguenza che il prezzo della merce universale sarà in ragione inversa de’ compratori e diretta de’ venditori, conseguenza che scatu­risce immediatamente da’ principj e dalle definizioni che si son date, poiché i venditori sono al denaro quello che i compratori sono alle merci, onde quanto più compratori vi saranno di ogni merce partico­lare, tutto il resto uguale, tanto meno avrà prezzo il denaro; e quanto più venditori si troveranno di merci particolari, in parità pure di circostanze, tanto più il denaro sarà apprezzato. L’abbondanza adun­que della merce universale esclude direttamente l’abbondanza di tut­te le merci particolari, e quanto è da temersi la penuria delle merci particolari in uno Stato, altrettanto lo è la troppa abbondanza della merce universale.

La troppa abbondanza della merce universale non si misurerà dalla quantità nè assoluta, nè circolante di essa; ma bensì allora sol­tanto che il numero de’ compratori avrà a fare con uno scarso nu­mero di venditori, cioè quanto saranno in minor ragione i compratori ai venditori potrà dirsi che siavi questa nociva abbondanza. La natura fa che i venditori si moltiplicano a misura che i compratori crescono in numero; se il numero de’ compratori crescerà gradata­mente, naturalmente i venditori si moltiplicheranno parimente den­tro lo Stato: che se non gradatamente ma per scosse crescano i compratori interni, ovvero se la fisica o la politica vi pongano osta­coli, allora crescendosi i compratori interni potranno accrescersi altrettanti venditori esteri. Da ciò ne segue che questa esuberanza di merce universale diverrà sensibile allora quando entri tutta in grossi sfoghi nello Stato, e non dia tempo gradatamente all’industria di accorrere e moltiplicare i venditori. Il denaro che insensibilmente si va accrescendo in uno Stato è come la rugiada che rinvigorisce e rianima tutta la vegetazione; egli è un torrente impetuoso che schianta, intorbida, insterilisce se entra nello Stato ammassato in tesori.

Si è osservato sin dal principio che non potrebbe darsi un commercio vivo e esteso se non si fosse inventata la merce universale, e che il commercio avesse dovuto consistere in permutazione di cose consumabili. Uno Stato adunque in cui scarseggi talmente la moneta, che ne manchi per l’interna circolazione, dovrà accostarsi alla vita selvaggia, e restringendo i contatti al puro bisogno a misura che la merce universale è poco diffusa, ne accaderà che fra uomo e uomo la contrattazione si riduca e limiti al minor grado, e proporzionatamente si diminuirà la riproduzione annua, e la nazione povera, isolata e languente ripiegherà verso gli antichi suoi principj, allontanandosi dallo stato della coltura.

Per la ragione medesima quella nazione in cui l’instancabile industria e un florido commercio gradatamente fanno accrescere la quantità della merce universale, questa sarà un nuovo sprone all’industria, accrescerà il numero de’ contratti, diventerà sempre più rapida la interna circolazione, farà conoscer nuovi comodi e nuovi agi, raffinerà le arti e le manifatture, inventerà i metodi per renderle più perfette e fabbricarle con celerità maggiore, tutto spirerà coltura, vita e prosperità.

Perciò conviene distinguere due casi assai diversi. L’accrescimento della massa del denaro farà questi benefici effetti, se una nazione
lo acquisterà per il moto della industria; che se l’acquisterà tranquillamente, o per miniere abbondanti o per opinione che sforzi le altre nazioni a tributarle la merce universale, questa, in vece di animare l’industria, addormenterà gli uomini in un profondo letargo. La ricchezza entrando nello stato per questa strada, caderà nelle mani di pochi, e questi pochi, rigurgitanti di denaro, si abbandoneranno a un eccessivo lusso, e disdegnando le produzioni nazionali imperfet­te e grossolane, attesa l’universale povertà, si getteranno a consumare e dissipare in manifatture e prodotti esteri la loro ricchezza. Que­sta fatale ricchezza sarà per quel popolo un lampo che dall’alto balenerà sul capo della moltitudine, e la renderà sempre più rannic­chiata ed avvilita; la merce universale passerà alle nazioni estere atti­ve, senza che le mani del popolo la tocchino, e l’unica picciolissima parte che potrà averne la nazione sarà ne’ salarj, che riceveranno alcuni cittadini inerti. La pompa d’alcuni pochi contrastando colla universale miseria sarà lo spettacolo che offrirà dovunque il denaro accresciuto senza una nazionale industria.

Considerando le due quantità merce universale circolante e mer­ci particolari offerte è vero che tutta l’una vale tutta l’altra; onde se una di queste due quantità s’accresca, e l’altra resti quale era pri­ma, la quantità accresciuta varrà meno. Se la merce universale cir­colante s’accresca, e le merci particolari offerte non s’accrescano del pari, dovrà cedersi maggior quantità di merce universale per ogni merce particolare. Pare adunque che il prezzo d’ogni cosa debba essere più alto a misura che circola più denaro nello Stato, e taluno scrittore, altronde pensatore esatto, asserì essere indistin­tamente un male l’accrescimente del denaro circolante, ed essere questo un principio distruttivo della esportazione. Ma in questo ra­gionamento si è omesso un dato, ed è questo, che l’accrescimento del denaro circolante quando s’acquisti per industria e gradatamen­te e universalmente si diradi sul popolo, produce un proporziona­to accrescimento di consumazione, e come si è già accennato ogni uomo più compra quanto più gli è dato di spendere, più acquista bisogni quanto ha più mezzi per soddisfarli, e quanto più spaccio trova ogni merce tanto più se ne accrescono i venditori, tanto più se ne anima la riproduzione. Se adunque in uno Stato si accresce­rà il denaro e le merci vendibili proporzionatamente non si moltiplicheranno, i prezzi cresceranno; se si accresceranno del pari e il denaro e le merci vendibili, i prezzi resteranno come erano; se ac­crescendosi il denaro si moltiplicheranno in maggior proporzione le merci vendibili si vedrà che i prezzi diminuiranno. Da ciò ne de­riva adunque che il denaro stesso acquistato per l’industria anima­ta dall’annua riproduzione, se le cagioni politiche o fisiche non lo impediscano, di tanto accrescerà e aggiungerà moto all’industria, che moltiplicando al di più le merci particolari ne ribasserà il prez­zo. Quanto più vendite fa il venditore, tanto può accontentarsi di guadagnar meno per ogni vendita. Regola generale: dovunque è in fiore il commercio, ivi son minimi i vantaggi del commerciante, presa ogni merce separatamente; e dovunque torpisce l’industria, grandiosi sono i guadagni del commerciante.

La perfezione delle macchine e degli istrumenti è ridotta presso una nazione arricchita coll’industria a un segno tale, che l’operajo travaglierà in un giorno quella manifattura, che in uno Stato meno industrioso si farebbe in più giorni; e queste sono le risorse che ha un paese arricchito coll’industria; risorse delle quali manca uno Sta­to spontaneamente arricchito dalla terra, non coll’accrescimento dell’annua riproduzione, frutto dell’industria, ma col fatal dono del­la merce universale; perchè il primo avrà cresciuto il numero de’ venditori col crescere la ricchezza; il secondo avrà cresciuto il numero de’ compratori, i quali avranno avuto ricorso ai venditori esteri, come si è detto, incautamente trascurando i nazionali le ric­chezze fisiche a fronte di quelle che sono ricchezze di convenzione.

Il conoscimento di queste verità ci porta a dedurne per conseguenza che il valore del denaro non dipende dalla assolutà quantità che ne possede uno Stato, ma bensì dalla proporzione, che vi è fra i venditori ai compratori interni nello Stato. Altra conseguenza sarà che quanto sarà maggior il moto della circolazione entro uno Stato, ossia quanto sarà maggiore il numero e la quantità delle merci ven­dibili e maggiore il numero de’ contratti, tanto, tutto il resto uguale, i prezzi si ridurranno al minimo grado possibile. Finalmente sarà una conseguenza di ciò il dire che in quello Stato in cui i prezzi sono minori, la proporzione fra i venditori e i compratori è maggiore di quello ch’ella sia, tutto il resto uguale, nello Stato che abbia più cari i prezzi.

Si osservi che la ricchezza d’una nazione non si misura tanto per l’assoluta quantità de’ beni che possede, quanto per la proporzione che passa fra di essa e le nazioni che l’attorniano e commerciano con lei. La ricchezza acquistata adunque colle miniere farà la metà meno effetto nella ricchezza nazionale di quello che farebbe una egual somma venuta per il commercio, essendo che quest’ultima sarebbe una quantità accresciuta alla nazione e diminuita ad un altro Stato, lo che importa doppia quantità nella proporzione fra li due Stati.

§ XIV. Degl’interessi del denaro.

Il denaro dunque essendo abbondante e universalmente diffuso in uno Stato arricchito per il fermento dell’industria, ne accaderà che molti cercheranno o di accomodarlo, ovvero di convertirlo in un fondo stabilmente fruttifero; poiché la custodia del denaro è sempre un peso che pochissimi soffrono tranquillamente per il timore di perderlo; e in un paese industrioso sentendosi tutto il pregio del denaro e tutta la utilità di renderlo fruttifero, non si soffrirà di lasciare per dappocaggine ozioso quel fondo come si fa ne’ paesi più torpidi e che hanno troppa sproporzione nella divisione delle fortu­ne. Si bonificherà adunque l’agricoltura, si accresceranno le manifatture, le offerte del denaro si moltiplicheranno e le ricerche dimi­nuiranno a misura che un paese più ne avrà in circolazione. L’interesse dunque del denaro ivi si ribasserà; poiché l’interesse è sempre in ragion diretta delle ricerche e inversa delle offerte, essendo le ricerche al denaro quello che i compratori alle altre merci come le offerte quello che i venditori, e l’interesse essendo quello che nelle merci è il prezzo. L’abbondanza adunque universale del denaro por­ta con sè per necessaria conseguenza il ribasso degl’interessi, e i molti possessori del denaro non trovando più la stessa rendita col darlo a mutuo si rivolgeranno a fare acquisto di fondi stabili, ovve­ro lo impiegheranno nelle manifatture. Prima conseguenza adunque che nasce dal ribassarsi gl’interessi del denaro si è di veder accre­sciuto il prezzo de’ fondi di terra, e di veder data una nuova spinta alle manifatture. Dico cresciuto il prezzo dei fondi di terra, perchè saranno accresciuti i compratori e non sarà accresciuto il numero de’ venditori. La spinta data alle manifatture tenderà ad accrescere il numero de’ venditori e a favorire così l’abbondanza pubblica.

Sembra che il maggior prezzo a cui si comperano le terre dovrebbe far accrescere il prezzo de’ prodotti delle terre medesime, perchè il prodotto di esse è il frutto del capitale impiegato nell’acquisto. Ma comunemente si vedrà accadere all’opposto, cioè che diminuendosi gl’interessi del denaro s’accrescerà bensì il prezzo delle terre, ma non s’accrescerà il prezzo delle derrate, perchè il prezzo delle terre accresciuto non fa diminuire i venditori, nè accrescere i compratori delle derrate medesime, anzi accrescendosi il numero de’ compra­tori delle terre, esse verranno divise sopra un maggior numero di proprietarj, ed ecco accresciuto il numero de’ venditori delle derrate. Il frutto del denaro sono gl interessi, il frutto delle terre sono le derrate, ribassandosi un frutto, l’altro debbe livellarvisi, poiché tan­ti concorreranno all’impiego dei due più utile, finchè sieno di utili­tà uguale. Possono adunque valere di più le terre, e non accrescersi perciò il prezzo delle derrate.

Seconda conseguenza di aver abbassati gl’interessi del denaro si è la bonificazione che fassi alle terre della nazione, stendendosi la col­tura sopra delle pianure che prima erano trascurate, accrescendosi le piantazioni utili, ricevendone nuova vita tutte le arti, colle quali s’ottiene dal suolo la maggiore annua riproduzione, al che conduce il non trovare nei mutui l’interesse più alto; ed ecco come l’abbon­danza medesima della merce universale, posta che sia in circolazio­ne e scarsamente ricompensata negli oziosi depositi dei banchi, pro­duca un effetto opposto a quello che a primo aspetto sembra dover produrre, cioè, in vece di alzare i prezzi delle cose, tende a ribassar­li e a condurre all’abbondanza pubblica e alla massima riproduzio­ne annua. Tali sono gli effetti ch’ella produce quando sia entrata in una nazione in conseguenza dell’industria universale.

La terza conseguenza che nasce dai piccoli interessi del denaro si è la facilità di fare delle più grandi intraprese sia nel commercio, sia nella agricoltura, essendo che con maggiore facilità ritroverassi o dal terriere o dal manofattore il denaro ad imprestito per azioni più ardite, per modo che dall’utile di esse comodamente potrà scontare l’annuo frutto corrispondente al debito, donde ne deriva sempre maggiore aumento e sfogo all’eccedente annua riproduzione. Palu­di asciugate e ridotte ad essere campagne ridenti; fiumi contenuti negli alvei; torrenti inviati per mezzi innocui all’agricoltura; canali navigabili scavati per accrescere la facilità de’ trasporti; audaci na­vigazioni e tentativi d’ogni sorta si vedranno in quelle nazioni, fralle quali è abbondante il denaro circolante e ne sono piccoli gl’inte­ressi.

In quello Stato, in cui cresce la merce universale per industria e attività generalmente sparsa, debbe proporzionatamente crescervi l’interna circolazione, ossia moltiplicarsi il numero degl’interni con­tratti. Ivi crescono, come già dissi, i bisogni; la sfera di essi propor­zionatamente si estende dal necessario fisico ai comodi, indi ai piaceri; il pregio della merce universale ivi non si diminuisce quantun­que ne sia accresciuta la quantità, poiché del pari sono cresciuti i bisogni ai quali debbe supplire. Giovi ripeterlo: il prezzo delle merci particolari cresce quando i venditori ai compratori acquistino una maggior proporzione: il prezzo della merce universale cresce per lo contrario quando i compratori acquistino una maggior proporzione ai venditori.

Si è veduto disopra come per procurare l’abbondanza pubblica e la maggiore annua riproduzione conviene, dei due partiti che vi sono, accrescere i venditori e scemare i compratori, scegliere il primo e dimenticare il secondo; e tale esser la teoria per bene e costante­mente dar norma alle merci particolari. Ma nella merce universale bisogna fare precisamente il contrario, e le leggi vi porteranno un ordine salutare, piombando su chi deve ricevere il denaro, piuttosto che su chi deve darlo in prestito. Non pretendo io con ciò di dire che convenga giammai di fare alcuna legge vincolante o tassativa, per cui l’interesse del denaro venga fissato ad un livello. Quest’inte­resse, come si è detto, è in ragione diretta de’ ricercanti e inversa degli offerenti, siccome il prezzo lo è del numero de’ compratori diviso per quello de’ venditori. Sì l’uno che l’altro sono un effetto fisico, il quale non può mai esser discorde, nè sproporzionato alle cagioni che lo producono. Per le ragioni adunque dette disopra, per le quali non possono innocuamente i magistrati comandare il prez­zo delle merci particolari, nemmeno potrebbero comandare il limi­te dell’interesse del denaro senza esporre la legge ad essere delusa, come sempre lo sarà qualunque legge che abbia luttanti contro di sè gl’interessi di molta parte di cittadini, l’azione de’ quali benchè minima, presa ne’ suoi elementi, produce però sempre sicuramente l’effetto quando molti e molti piccoli elementi conspirano a un dato fine. Essendo che, per poco che c’interniamo nell’esame, si scuopre questa verità, che la costanza e solidità d’ogni civile instituto presso di ogni nazione sempre in fatti si decide dalla pluralità dei suffragj, qualunque sia la costituzione sotto di cui vive; con questa sola diver­sità che nella democrazia sono palesi e negli altri governi sono più lenti, taciti e occulti, ma non perciò sono meno attivi in effetto per decidere di ogni stabile sistema.

§ XV. Mezzi per fare che gl’interessi del denaro si ribassino.

Come adunque potrà un governo ribassare gl’interessi del denaro operando su chi deve riceverlo? In ogni nazione vi sono dei debiti pubblici, vi sono dei banchi, dai quali coloro che presteranno il denaro allo Stato ricevono l’annuo frutto. L’esperienza ha fatto vedere quanto provida sia l’operazione di ribassare gl’interessi di questi banchi, non solo per alleggerire i pesi del pubblico erario, ma altresì per livellare a un più basso prezzo indirettamente tutti gl’imprestiti della nazione.

È inutile ch’io qui soggiunga quello che la giustizia la più eviden­te suggerisce alla mente di ciascuno, cioè dovere lo Stato avere in pronto una somma per offerire contemporaneamente ai creditori il rimborso del loro capitale, quando non si contentino del più basso interesse, il quale giustamente devesi ottenere da una spontanea adesione del creditore. Guai se una momentanea utilità prevalga sopra i veri interessi dello Stato! Guai se la fede pubblica s’oscuri! L’interesse dello Stato diventerà divergente dall’interesse di ogni privato. La sola simulazione coprirà l’indifferenza con cui ogni uomo rimirerà l’unione, di cui è parte; i principj morali si anniente­ranno, la nazione cadrà nella corruzione, stato peggiore assai del­l’originaria vita selvaggia, tutto andrà deperendo, e alla prima urgenza, in cui la pubblica sicurezza esigerà il soccorso, si cercherà inutilmente. Ne’ secoli passati se ne videro gli esempj in molti luo­ghi d’Europa, ed alle miserie d’allora siam debitori d’essersi illumi­nata generalmente la politica degli Stati, ed essersi universalmente riconosciuto che la fiducia e la sicurezza nel pubblico erario sono il patrimonio più ricco ed inesausto di ogni sovrano.

Ridotto che siasi dai banchi pubblici l’interesse del denaro a un più basso livello, se i creditori di questi banchi formano una parte sensibile degl’imprestanti che ritrovansi nella nazione, ne accaderà che quei che ricercano a mutuo la merce universale, coll’esempio de’ banchi pubblici non offriranno più l’interesse di prima, e quei che cercano di accomodarla non avendo più da sperare dai banchi il passato interesse, si contenteranno di ribassare. Se poi i creditori dei banchi pubblici avranno ricevuto il lor capitale, piuttosto che assoggettarsi al ribasso degl’interessi sarà cresciuto il numero degli offerenti, e in conseguenza tanto più ne sarà ribassato l’interesse.

Un altro mezzo hanno i governi per diminuire gl’interessi del denaro. Per conoscerlo basta il riflettere che due sono i principj per i quali l’offerente esige l’interesse. Il primo è per essere risarcito del­l’utile, che ne ricaverebbe impiegandolo nell’agricoltura o nel com­mercio; il secondo per ricompensarsi di quel grado di rischio, che può correre di perdere il suo capitale. Si è già veduto al paragrafo XIII come i frutti del commercio e dell’agricoltura debbon esser ridotti a un basso livello in una nazione ove l’industria liberamente si muova in ogni sua parte; conseguenza di ciò ne viene, che quanto più si promoverà e si lascerà agire nel cuore degli uomini la speran­za di migliorare la sorte; quanto più s’interporranno quei mezzi che scatenano il principio vitale e attivo dell’industria ad accrescer l’an­nua riproduzione, tanto diverrà minore naturalmente quella porzio­ne d’interesse che viene dai trattatisti chiamata lucro cessante. Sta poi in mano del legislatore il diminuire il rischio che i forensi chia­mano danno emergente; s’otterrà questo fine con ottime leggi, con brevi e semplici forme giudiziarie, colla giudiziosa scelta d’incorrot­ti magistrati, cosicchè ognun possa facilmente e sollecitamente far valere il proprio diritto; e la forza pubblica, sempre pronta ad avventarsi contro l’usurpatore e il mancator di fede, renda stabile e soda la sicurezza de’ contratti.

Tanto è ciò vero che io ardisco dire che nessun paese, dove l’industria sia animata e dove la buona fede sia rispettata, avrà interes­si alti del denaro; ed all’incontro dovunque sia alto interesse del denaro sarà languida l’annua riproduzione e assai dubbia la fede dei contratti. Dall’interesse del denaro si può calcolare la reciproca feli­cità degli Stati.

Gl’interessi del denaro si possono paragonare fra nazione e nazio­ne, e fra secolo e secolo, per calcolare la felicità d’una società che pretenda allo stato di coltura; ma il valore di nessuna merce nè uni­versale nè particolare potrà mai paragonarsi fra nazione e nazione, se fra di esse non abbiano una comunicazione immediata, ovvero con una terza nazione; essendo che il valore può esser basso tanto per mancanza di compratori, quanto per abbondanza di venditori, tanto per scarsezza del denaro, quanto per la rapidità colla quale i contratti si succedono, nè vi può essere misura fra due quantità distanti e isolate. Lo stesso dico di chi voglia paragonare i valori d’un secolo all’altro: calcolo nel quale si potrà bensì rinvenire quan­te once di metallo si cedessero in cambio d’una data merce, non mai il vero valore di essa, se per nome di valore s’intenda il grado di sti­ma ch’ella aveva nella comune opinione, essendosi variata coll’andar dei tempi la stima dei metalli preziosi a misura che lo divennero meno colle inesauste miniere, che vanno moltiplicando in Europa la merce universale. Per fare esattamente il calcolo del valore fra due società incomunicanti per distanza di luogo o di tempo, converreb­be avere una terza quantità inalterabile a cui paragonarli, come la inalterabile estensione del braccio e la gravità costante dell’oncia trasportate e paragonate daranno il mezzo per calcolare i veri rap­porti fra due altezze o due pesi distanti; ma questa quantità inaltera­bile per paragonare i valori non vi è, nè è possibile che vi sia; perchè il denaro istesso sebbene sia merce universale è ora di maggiore ed ora di valor minore, e perciò è incapace di servir di misura. I pramatici stabilirono il principio che il valore del denaro dipendesse dal­l’impronto sovrano ch’ei porta, e che il Principe fosse arbitro nell’assegnare il valore; e dato un tal principio chi debba restituire un capitale ricevuto ne’ secoli passati non è tenuto se non a sborsare un numero di lire eguale a quello che fu allora pagato; la conseguenza è ben derivata, ma da un falso principio. Si dimostrò che il valore del denaro dipende dal valore del metallo e che l’impronto è un semplice attestato del peso e della purità di esso, e da questo princi­pio vero se ne derivò la conseguenza che per restituire un capitale ricevuto ne’ secoli trasandati si debbano pagare tante once d’argen­to quante ne furono allora consegnate; conseguenza che suppone una costanza nel valore del metallo che non si trova realmente. Finalmente vi fu chi tentò d’accostarsi a un calcolo più esatto e ciò paragonando il prezzo delle merci più comuni al vitto degli uomini ne’ due tempi distanti, e fissando una somma media in ciascuna epoca; indi calcolossi quante once d’argento debbansi oggi portare al mercato per acquistare le derrate che nell’epoca dell’imprestito si compravano colla somma ricevuta; e questo è il metodo che più s’approssima alla esattezza. Nelle restituzioni però i tribunali si attengono al primo metodo del numerario che ha per sè la lunga pratica, la semplicità, e forse ha cessato d’essere ingiusto dappoichè la costumanza essendo generalmente stabilita da’ secoli, quando si fece il prestito si assoggettò il capitalista alla eventuale diminuzione compensandosi sugl’interessi che correvano in que’ tempi e in meno di dieci anni facevano rimborsare il capitale.

§ XVI. Dei banchi pubblici.

Si è veduto quai buoni effetti possono produrre i banchi pubblici per abbassare gl’interessi del denaro. L’invenzione dei banchi come quella delle lettere di cambio appartengono a questi ultimi secoli. Colle cedole si è introdotta una rappresentazione della merce univer­sale sommamente comoda al trasporto, la quale per tutta la sfera a cui si estende il credito deve accrescere sommamente la circolazione e il rapido giro dei contratti. Sintanto che gli uomini si credono egualmente ricchi con una cedola di banco o con una lettera di cam­bio di quel che si credono ricchi possedendo la merce universale, nella contrattazione si riceveranno più volentieri questi pezzi di car­ta e queste promesse del denaro, anzi che il denaro medesimo; perchè sommamente ne sono facili la custodia e il trasporto. Simili invenzioni saranno di utilità a quegli Stati, ne’ quali la custodia del­la fede pubblica è confidata a un gran numero di uomini che hanno interesse a sostenerla, e che muniti della opinione pubblica si trova­no talmente forti da non aver mai di che temere: poichè quanto più sono gli uomini che hanno interesse a sostenere la fede, quanto più interesse vi hanno, e quanto più è sicura l’azione di essi, tanto è minore, come ognun vede, la probabilità che la fede pubblica sia tradita. Ma dovunque si possa col mutare di qualche circostanza cambiare il grado della fiducia pubblica verso di queste rappresen­tazioni della merce universale, ivi saranno in pericolo di rivoluzione le opinioni e le fortune private, nè mai queste instituzioni potranno ampliarsi al di là di un certo limite senza pericolo.

I banchi fanno l’effetto di raddoppiare quella massa di merce uni­versale che ricevono, poichè resta nello Stato e la merce universale e la di lei rappresentazione. Pare adunque che dovrebbero far accre­scere i prezzi delle merci particolari; ma la rapida circolazione che introducono distribuendo il guadagno sopra un maggior numero di contratti può non solamente impedire l’innalzamento del prezzo, ma anche ribassarlo colla moltiplicazione sempre maggiore de’ venditori, e così accrescendosi le compre e le vendite e le consumazioni interne, si può accrescere in maggior proporzione l’annua riproduzione.

Se gl’interessi de’ banchi pubblici fossero alti, questi farebbero il sommo male d’invitare i cittadini a depositare su i banchi il loro capitale e abbandonare ogni industria. Il pericolo della mala fede produrrebbe un buon effetto in quel caso, e a questo timor solo sarebbero debitrici l’agricoltura e le arti di non essere affatto dere­litte. Gli Stati talvolta, allorché sono giunti alla corruzione, ricevono un bene da quei principj medesimi che gli hanno condotti, e la moltiplicità dei cattivi principj produce per avventura l’effetto che due principjdistruttori e opposti si elidono scambievolmente. Tale sarebbe appunto questo, quando la dilapidazione usatasi del pub­blico erario avesse alienata la fiducia del popolo; si dovrebbero offrire interessi altissimi per avere gli imprestiti, il che rovinerebbe l’industria se avesse effetto; ma la mala fede medesima dell’ammini­strazione, altro vizio pubblico, vi si opporrebbe, e l’effetto sarebbe o nullo o debolissimo.

Gli Stati più vasti, che hanno un esteso commercio colle più rimote nazioni, ricevono più bene che male dai debiti pubblici fintanto che l’opinione del popolo non giunga a diffidare; ma gli Stati più ristretti e subalterni poco bene risentono dai banchi pub­blici, e quel poco comodo viene largamente contrappesato dall’an­nua perdita che fa l’erario per il peso degl’interessi; laonde nel pri­mo caso conviene rivolger le mire a perpetuare il debito nazionale, e nel secondo a saldarlo coi mezzi più innocui che si può.

§ XVII. Della circolazione.

Le riflessioni che abbiamo fatto finora c’inducono a questa conseguenza, che l’accrescimento della merce universale e della rappre­sentazione di lei è sempre un bene per lo Stato, quando proporzio­natamente s’accresca la circolazione; poichè s’accrescono i venditori a misura che si accrescono i compratori, il che ricade a moltiplicare l’annua riproduzione. Per avere un’idea ancora più precisa di questa verità convien riflettere che ogni venditore dovendo ritrarre una determinata somma dalle sue vendite giornaliere, quanto maggior numero di vendite farà, tanto sopra ciascuna vendita particolare potrà limitarsi a una minor porzione di guadagno, perlochè accre­scendosi generalmente la circolazione anche sulle merci che ogni venditore deve consumare, si potrà compensare minor utile a chi le vende, e così di mano in mano i salarj degli artigiani, il prezzo delle manifatture, gli utili del commercio anderanno sempre abbassando­si, si moltiplicheranno sempre i venditori, quanto più la circolazio­ne crescerà, ed ecco come l’accrescimento del denaro che per sè medesimo dovrebbe far incarire tutte le merci, quando entri in una nazione in conseguenza della universale attività, produca un effetto contrario, cioè di ribassare i prezzi e la rappresentazione del denaro istessamente; e ciò per le già dette ragioni, perchè tanto si moltipli­cano le voglie quanto più vanno crescendo i mezzi per soddisfarle, e di tanto cresce il moto interno e il numero de’ contratti incessan­ti, che si dirada e scorre la merce universale, senza che il livello si rialzi; in quella guisa che un fiume incidendo in un altro fiume, di tanto accelera il moto delle acque inferiori col premere e coll’impe­to concepito, che si vede ribassarsi il livello delle acque in quel momento appunto, in cui sembrava più dovessero rigurgitare.

Quando il contratto si fa da un nazionale a un estero, si chiama commercio esterno, se il nazionale è venditore è commercio utile, se è compratore è commercio dannoso. Quando il contratto si fa da due nazionali questo chiamasi commercio interno ossia circolazione. La circolazione è la somma totale de’ contratti interni. Conosciuta che siasi chiaramente l’indole della circolazione, come ella s’accresca per l’accresciuta massa del denaro acquistato per l’industria, come ella tenda a ribassare i prezzi delle cose; conosciuta che sia intimamente la natura della circolazione, effetto dell’accresciuta massa del dena­ro acquistato per l’industria, si conoscerà che il vedersi accresciuti i prezzi de’ viveri in una nazione non è prova che ivi s’aumenti la ricchezza; anzi può questo accadere, o perchè scemandosi il denaro, in maggior proporzione siasi rallentata la circolazione, e dividendosi l’utile del venditore sopra un minor numero di contratti ciascuno di essi debba aver prezzo maggiore, ovvero perchè diminuiscasi il nu­mero de’ venditori, o perchè si vada scemando l’industria e l’annua riproduzione si restringa. In fatti noi vediamo ai nostri tempi che non solamente per tutta l’Italia si ascoltano le querele sul prezzo ec­cessivo del vitto, ma per la Francia, per l’Inghilterra e generalmente per tutta l’Europa; dal che si vede che se una provincia d’Europa prova questo eccessivo prezzo non può da ciò desumersi ch’ella vin­ca sulle altre, nel che consiste la ricchezza considerata come un ele­mento della prosperità e forza dello Stato. Può adunque crescere il prezzo per una abbondanza universale del denaro accresciuto in Eu­ropa, senza che in pari proporzione siasi accresciuta la abbondanza delle merci particolari, e questo accrescimento di prezzo non prove­rà che alcuna parte d’Europa siasi effettivamente arricchita, poiché la ricchezza dipende dal paragone cogli altri Stati.

Tutte le merci che si vendono in un giorno vagliono tutto il dena­ro che s’è speso in quel giorno per acquistarle; ma il denaro non si consuma, e le merci si comprano per consumarle. Questa sola rifles­sione basta a far conoscere due verità; una che il denaro non finisce mai a rappresentare una consumazione se non quando sia fuso per farne manifattura, ma anzi sin che è denaro giornalmente rappresen­ta nuove consumazioni senza soffrire alcun cambiamento; l’altra che tutto il denaro circolante in uno stato è eguale bensì alla giornaliera consumazione, ma non è eguale nè all’annua consumazione, nè al­l’annua riproduzione: poichè la stessa moneta passando successiva­mente per le mani di molti cittadini in un anno, tante volte rappre­senta il proprio valore quanti sono i contratti e i passaggi che fece da una mano all’altra. Quanto dunque più rapidi e frequenti sono i pas­saggi della moneta in più mani, di tanto deve dirsi, che le merci con­trattabili eccedono la merce universale circolante; e siccome dove scarseggia la merce universale, ivi gli uomini sono necessariamente più parchi, prudenti e cauti generalmente per non privarsene, rinun­ziando a molti comodi e piaceri, così per avere una rapida circola­zione è necessario che vi sia abbondanza del denaro, il che, torno a ripeterlo, dimostra che crescendo la quantità del denaro quando es­sa venga in una nazione per industria, l’annua riproduzione delle merci particolari dovrà crescere sempre in maggior ragione, ammeno che una forza estrinseca, o fisica o morale non vi s’opponga.

Per convincersi di questa verità, cioè che la quantità del denaro circolante nello Stato è di gran lunga minore del prezzo totale a cui si vendono le consumazioni annue, basta riflettere quanti saranno gli uomini che al primo giorno dell’anno possedano il denaro effet­tivo bastante alle spese che dovranno fare nel corso di 12 mesi. Pochissimi certamente; forse uno appena ogni mille abitanti, e quest’uno sarebbe un cattivo economo. Quanti nella nazione al primo dì dell’anno possederanno il denaro appena bastante per il lor vitto d’una settimana? Tutti i coltivatori della Terra, tutti i salariati, tutt’i piccoli artigiani, quasi tutto il popolo minuto e delle città e della campagna. Non vi è adunque che il moto e il giro che fa il denaro per cui possa supplire alla contrattazione annua. Accrescendosi la massa del denaro distribuita su molti, cresceranno, come si è detto, le voglie, i bisogni, i contratti, e sempre più s’andrà moltiplicando l’annua riproduzione e la quantità delle merci particolari, quanto maggiore moto prenderà la circolazione della merce universale. Se si potrà conoscere la quantità della riproduzione annua e la quantità della merce universale in circolo, si saprà la quantità del moto della circolazione, e a vicenda se due di questi elementi saranno conosciu­ti, se ne conoscerà il terzo.

L’uso delle manifatture d’argento e d’oro; il denaro ammassato ne’ scrigni e sottratto alla circolazione son dunque un bene o un male per lo Stato? Rispondo che sotto a un provido governo questo debb’esser sempre un male, essendo che nelle urgenze pressanti dello Stato non è permesso costringere un cittadino più che l’altro a concorrervi se non sull’estimo censibile apparente di ciascuno gene­ralmente, e così svanisce tutta l’utilità che potea sperarsi da questi tesori, i quali se invece circolassero nella nazione, spingerebbero la riproduzione annua a maggior ampiezza e dilaterebbero il vero e real fondo della ricchezza e della forza nazionale. Quanto poi alle manifatture d’oro e d’argento, si provvedere, anzi che con pericolo­se leggi sontuarie e vincolanti, meglio coll’esempio, e l’effetto sarà indubitato, che nessun nobile spenderà in questo lusso quando saranno più semplici i magnati, e questi lo saranno sicuramente quanto più il legislatore preferirà praticamente il lusso di comodo a quello di ostentazione.

Mi si perdoni se troppo spesso ritorno ai principj. Quanto più denaro è sparso generalmente per le mani del popolo tanto più cre­scono le voglie e i bisogni del popolo, perchè si desidera il comodo a misura che v’è probabilità di procurarselo; quanto più crescono i bisogni nel popolo, tanto più compre e consumazioni egli fa; quan­to più crescono le compre e le consumazioni, tanto più s’accresce l’utile d’essere venditore, e tanto più i venditori s’accrescono, e quanto più si accrescono i venditori, sempre del pari tende ad accrescersi la riproduzione annua. L’accrescimento del denaro solo e isolato tende a rendere i prezzi più cari. La circolazione quanto è più rapida tende a diminuire i prezzi. Queste due quantità possono secondo che si combinano o accrescere o diminuire o lasciare immobili i prezzi delle cose.

§ XVIII. Dei metalli monetati.

Conviene adunque procurare, non mai però con leggi dirette, ma di riverbero, di fare in modo che il denaro ristagni meno che si può, e sia nel più rapido moto per accrescere il numero de’ contratti; ma per nome di denaro, ossia di merce universale, ognuno intenderà ch’io parlo dei soli metalli nobili, oro e argento, essendo che la moneta di rame o l’argento reso voluminoso con molta lega non possono meritar il nome di merce universale. Sarà questa una merce indigena e particolare di uno Stato, la quale non si trasmetterà mai al di fuori, per le spese del trasporto che porterebbe. Perciò se un paese facesse le sue contrattazioni a moneta di rame si accosterebbe allo stato anteriore all’invenzione della merce universale; pochissimi sarebbero i contratti, limitati quasi al puro necessario, e sarebbero più cambi di cosa con cosa, che di cosa con denaro per l’incomodo della custodia e del voluminoso e pesante trasporto. La riproduzio­ne annua sarebbe limitatissima, languidissima la circolazione, la popolazione sarebbe poca e l’industria sconosciuta. Potrebbero uscire delle armate conquistatrici da quegli uomini disprezzatori della vita, perchè poco ne conoscono i piaceri, ma non potrebbe esser una nazione florida sinché durasse in quello stato, e le conver­rebbe o ritornare alla vita selvaggia, isolandosi e perdendo l’idea dei bisogni delle nazioni colte, ovvero converrebbe togliere industriosa­mente gl’inciampi, e lasciare schiudere negli uomini quel fermento di speranza e di bisogno, da cui nasce l’industria animatrice della società.

Per questo principio appunto l’oro sarà una moneta che accresce­rà la circolazione più che l’argento, e le cedole di banco accompa­gnate dalla opinione l’accresceranno ancora più che l’oro. Fra i metalli adunque è da desiderarsi per uno Stato più la moneta d’oro che quella d’argento, e quella d’argento più che quella di rame, pre­ferendo sempre il minor volume e il valor maggiore.

Non credo che dal principio dell’era volgare sino al secolo XVI siasi mai considerato l’argento come moneta destinata ai grandi pagamenti, almeno i musei non ci mostrano se non se piccole mone­te d’argento che rare volte eccedono il peso di due paoli le quali sembrano destinate a supplire ai rotti dell’oro e a fare i pagamenti minori della moneta d’oro. Non si vedono talvolta se non delle medaglie grandi d’argento e lo più posteriori alla scoperta d’Ameri­ca. Al tempo dell’Imperatore Carlo V e più ancora dopo di lui si introdusse l’uso delle grandi monete d’argento.

Molte nazioni europee usano di avere qualche parte di moneta in rame, la quale serve per il più minuto commercio de’ cittadini. Se la legge monetaria dichiarerà il valor delle monete con giusto calcolo in quella proporzione medesima con cui ogni pezzo indipenden­temente dall’impronto verrebbe stimato nella pubblica contrat­tazione, non avrà da temere nè il trasporto del denaro fuori dello Stato, nè l’introduzione del denaro estero, perchè nessun negozian­te si addosserà mai le spese del trasporto senza necessità e senza utile. Se per necessità di saldo di un debito, la legge che lo proibisce comanderebbe una mancanza di fede in discredito della nazione; se per utilità, ciò non potrebbe essere che un accrescimento di denaro nello Stato a spese d’una nazione meno accorta che avesse arbitrariamente voluto tassare i metalli.

Per ischiarire sempre più questi principj bisogna riflettere che, siccome più volte si è detto, in ogni Stato si deve considerare l’annua consumazione e la riproduzione annua. Se l’eccedente delle annue nostre produzioni non sia eguale al valore delle merci e generi che riceviamo dal di fuori, converrà necessariamente che esca della merce universale per saldar le partite colle altre nazioni, e la proibizione all’uscita del denaro sarebbe un voler togliere l’effetto lasciando sussistere la cagione.

In uno Stato poi dove un’oncia d’argento puro abbia sempre il medesimo valore che un’altr’oncia d’argento puro qualunque sia l’impronto e la denominazione dei pezzi che la compongono, e qualunque sia il volume di essi cagionato dalla vile materia a cui sta frammischiata; dove lo stesso possa dirsi e nell’argento e nell’oro e nel rame monetati; dove la proporzione fra un metallo e l’altro sia la medesima dei prezzi comuni de’ metalli; dove indirettamente in somma il legislatore siasi limitato a dichiarare il prezzo pubblico de’ metalli, non mai direttamente a regolarli; in quella nazione, dico, non uscirà mai un’oncia d’oro o d’argento, se non per rientrarvi un valore eguale o in merce universale o in particolare; e potrà entrarvi anche valor maggiore trasmettendo agli esteri quella moneta ch’essi han voluto arbitrariamente valutare più del giusto, e ritraendone altre monete, che gli esteri arbitrariamente pure abbiano valutato meno del giusto; essendo che non è più fattibile che il legislatore fissi a suo arbitrio il prezzo della merce universale di quel che sia il prezzo di qualunque altra merce particolare, dipendendo, come si è di già veduto, questa quantità dal numero de’ compratori paragonato a quello de’ venditori. Dovunque gli editti di monete diventino una mera dichiarazione del prezzo comune de’ metalli, ivi non sarà possibile che siavi disordine di monete, nè che il commercio della moneta sia mai di danno. Conviene però ricordarsi della definizione data al prezzo comune. La variabilità del prezzo della merce univer­sale porta di sua natura che una tariffa di monete non possa mai esser buona legge per lungo tempo, perch’essa diventa col variare delle circostanze una falsa dichiarazione, sebbene in origine sia sta­ta vera.

È molto indifferente per il comodo e ricchezza di uno Stato che la moneta porti un impronto, più che un altro; anzi gli Stati piccoli pagano la vanità di aver le loro armi su i metalli monetati a troppo caro prezzo, essendo che le spese e il calo della monetazione o cado­no sul pubblico erario, ovvero cadono in altrettanta diminuzione dell’intrinseco, la qual diminuzione non sarà mai valutata dai forastieri, e in conseguenza vedranno la lor moneta rifiutata dagli esteri nella contrattazione, ammeno che non la cedano a un minor prezzo. Quindi io credo che negli Stati minori altra operazione da farsi non sia nelle monete, fuori che un esatto calcolo di tariffa, ammettendo nella contrattazione qualunque moneta, purché sia valutata come un mero metallo. Ma ne’ vasti regni è indispensabile l’avere una zec­ca in attività e soccombere al peso di essa per mantenere in circo­lazione la maggior quantità possibile di metallo, e così moltiplicare al possibile i contratti, dal che ne nasce, come giova ripetere, la mol­tiplicazione del numero de’ venditori, e da questa l’abbondanza in­terna, da cui la facile esportazione che sola può spingere al massimo confine la riproduzione annua: base ch’è unica, vera e stabile della forza e ricchezza d’uno Stato.

In fatti un vasto regno o avrà miniere, ovvero avrà un vasto com­mercio, il quale porterà l’introduzione de’ metalli nobili non mone­tati; così ha la materia prima della zecca; e la necessità di risarcire la diminuzione che fassi coll’uso, logorandosi la moneta, non potrà lasciare oziosa quell’officina la quale, come dissi, accrescerà la som­ma del denaro circolante; ma uno Stato minore che non abbia miniere dovrà per battere moneta o fondere i metalli comprati o fondere l’estera moneta; se compra, altrettanta moneta esce; se fon­de, altrettanta moneta scompare; se il conio e la spesa della moneta­zione si risarciscono sulla stessa moneta, tanto ella avrà d’immaginario che gli esteri non valuteranno; se vorrassene risarcire con altret­tanta diminuzione sulla moneta erosa destinata ai rotti ed ai piccoli contratti, questa rifiutata dagli esteri in uno Stato piccolo porterà un accrescimento del numerario nella moneta nobile. Dico perciò che i piccoli Stati poichè abbiano valutato nella tariffa ogni moneta circo­lante al prezzo comune del metallo avranno l’ottimo sistema. Se il gigliato sarà dieci lire, la lira sarà la decima parte del gigliato. Il gigliato sia 70 grani d’oro puro, la lira sarà sette grani d’oro puro, ovvero cento cinque grani d’argento puro posta la proporzione di 1 a 15 e ognuno intenderà cosa sia lira senza bisogno d’una moneta che abbia questo nome.

La officina di una zecca è la sola di cui non si vuol pagare la manofattura, eppure questa manofattura è di somma necessità, poichè senza di essa converrebbe pesare non solo, ma saggiare i pezzi di metallo che si volessero dare in pagamento e non vi sarebbe la merce universale. Se gli Stati d’Europa si accordassero a valutare reciprocamente un tanto per cento di manofattura nelle monete, allora le nazioni ricche di miniere vendendo l’oro e l’argento non monetato come merce particolare potrebbero somministrare la materia prima a queste officine; ma sintanto che questo non si fac­cia non potranno le zecche risarcirsi delle spese de’ loro lavori, se non quando da altre nazioni venga pregiata qualche loro moneta oltre l’intrinseco.

§ XIX. Del bilancio del commercio.

Varj sono gli autori che hanno scritto sul bilancio del commercio e sul modo di calcolare se la ricchezza nazionale s’accresca ovvero di­minuisca. Comunemente chiamasi bilancio del commercio l’eccesso della esportazione paragonato colla importazione e viceversa; modo d’esprimersi il quale, siccome alcuno ha giudiziosamente osservato, realmente non è nè preciso nè esatto. Le importazioni e le esporta­zioni debbono sempre pareggiarsi presso di ogni nazione, e il valo­re di tutte le merci entrate necessariamente debbe uguagliare il valore di tutte le merci uscite dopo un certo periodo. L’intelligenza di questa verità sarà facile ricordandosi che il denaro è una merce e che i debiti si pagano. Adunque fra queste merci importate o estratte si annovera anche la merce universale; e siccome abbiam veduto che l’accrescimento della massa circolante del denaro moltiplica i con­tratti ed in conseguenza l’annua riproduzione, così la diminuzione del denaro medesimo debbe portare un deperimento alla riproduzione annua. In seguito a ciò ne viene che quella nazione, la quale pareggia le importazioni delle merci particolari colla merce univer­sale anderà scapitando, ed in vece se pareggerà l’esportazione delle merci particolari coll’importazione della merce universale, anderà acquistando. Col nome di bilancio s’intende il paragone fra due quan­tità, cioè fra il total valore delle importazioni e il total valore delle esportazioni, operazione che sarebbe sempre incerta e arbitraria qua­lora si scostasse dai semplici principj aritmetici. Nè può sperarsi giammai di bilanciare uno Stato colla esattezza medesima e col me­todo che convengono ad una privata famiglia. Il bilancio d’una fa­miglia si fa paragonando quello ch’ella possedeva, scomputati i de­biti, con quello che possede, scomputati pure i debiti; ma in uno Sta­to tutte le merci universali e particolari esistenti e i debiti da pagar­si agli esteri ognun vede che non sono una quantità che l’arte umana possa calcolare. Precisamente parlando il bilancio del commercio in questo senso non può farsi; ma col nome improprio di bilancio del commercio si cerca di scoprire questo fatto: se la nazione s’in­cammini al bene, ovvero al male; e si è creduto industriosamente di ritrovare la risposta a un tal quesito, confrontando le merci partico­lari introdotte colle merce particolari trasmesse, sicchè ridotta sì una partita che l’altra al suo verisimile valore, la differenza che in fine ri­sulta fra queste due quantità si considera come la quantità del dena­ro che debbe essersi accresciuto e diminuito nello Stato.

Dal paragone fralle merci particolari uscite in confronto delle merci particolari entrate può uno Stato sapere se il valore delle mer­ci che ha vendute agli esteri sia maggiore, minore o eguale al valore delle merci che da essi ha comprate. Questa notizia palesa se uno Stato cammini alla prosperità, ovvero alla decadenza. Quello Stato in cui l’annua consumazione è stata maggiore della riproduzione annua è nel caso d’aver diminuito realmente la propria ricchezza, e può dirsi di lui quello che dicesi di una famiglia quando oltre l’an­nua rendita spende parte del capitale.

Se ai registri delle dogane si scrivessero esattamente tutte le mer­ci d’importazione ed esportazione, dallo spoglio di questi si potreb­be conoscere qual relazione abbia il valore dell’annua importazione in confronto dell’annua esportazione; ma in molti Stati ciò non accade, e varj capi di commercio, o di frutti immediati delle terre o di manifatture non si scrivono in questi registri, perchè esenti dal tributo. Quantunque poi tutte le merci particolari venissero descrit­te, la merce universale non può esservi registrata, ed essa può usci­re o entrare in uno Stato, o per impiegarsi dalla nazione su i banchi esteri o dagli esteri su i banchi nazionali, e così vicendevolmente per comprare fondi, il che quantunque non sia nè una porzione dell’an­nua riproduzione, nè dell’annuo consumo, può influire ad accelera­re o render più lenta la interna circolazione per i principj che si sono veduti; conseguentemente sarebbe una nozione necessaria ad aversi per calcolare con giustezza l’incremento o la diminuzione della riproduzione annua nazionale. Lo spoglio dei libri delle dogane adunque non basta per certificare questa importante cognizione.

Se però questo spoglio non ci somministra tanto, è non ostante sempre utilissimo il farlo. Vi vuole della chiarezza d’idee per imma­ginare un metodo per cui procedere giustificatamente in un conteg­gio formato da sì gran numero di elementi, e dividere ogni merce in classi, e tassarne ciascuna al suo verisimile prezzo. Ho detto che vi vuole chiarezza d’idee per immaginare un metodo giustificato con cui procedere, e abbracciare coll’aritmetica tanti oggetti; poiché ogni conteggio che mancasse di giustificazione, ed in cui le somme asserite non fossero l’apice emanato per anelli collegati che partono dai primi elementi; un conteggio che esiga credenza sulla mera asserzione, e mancante di prove, sarebbe una operazione sulla qua­le non vi sarebbe da appoggiare verun ragionamento, come ognun vede. Sarebbe questo spoglio certamente più interessante, se potes­se da ciò conoscersi non solo le somme delle merci particolari tra­smesse e ricevute, ma altresì gli Stati ai quali e dai quali si sono inviate e introdotte; ma per fare questa operazione aritmetica in modo provante, vi vuole troppo tempo e dispendio, e il fine e l’uti­le che se ne può ottenere da questa divisione è assai minore e più incerto di quello che appare. Tutte le merci non si ricevono imme­diatamente dalla loro originaria patria, e si annunziano ai libri delle dogane come provenienti dalla città donde si sono staccate, dal che ne viene un infallibile errore nel registro. Tutte le merci che si tra­sportano nate e cresciute entro dello Stato non s’indrizzano sempre immediatamente al termine a cui debbon giungere e dove si consu­meranno; altra sorgente d’errore, perchè dai registri delle dogane si troveranno poste a debito d’un paese per dove non fanno che tran­sitare. La terza sorgente d’errori nasce dalla imperizia de’ vetturali e condottieri, dai quali poca esattezza si può sperare, e la loro sola notificazione è quella che si scrive ai libri delle dogane. Queste tre inevitabili e vaste sorgenti d’errori debbono scorrere sopra una simile operazione; e poichè si avrà il prospetto imperfettissimo dei rapporti che una nazione ha con ciascuna delle nazioni comunican­ti con lei, di quale utilità sarà una simile divisione? Di nessuna pre­cisamente; perchè laddove ci crediamo d’essere creditori, una tratta d’un banchiere ci può aver fatti debitori, e viceversa. Che se per ottenere una apparente organica distinzione si sia omesso l’essenzia­le, cioè la vera organizzazione aritmetica che assicuri la verità delle somme col richiamare agli elementi, si sarà fatto un cattivo cambio, perchè si sarà abbandonata la realità per l’apparenza. Uno Stato è una vasta famiglia; preme il sapere esattamente in fin d’anno s’ella migliori o scapiti; quai sieno gli articoli su i quali s’impoverisce; qua­li sieno quelli su i quali si rinforza; il nome de’ creditori e de’ debitori suoi è assai indifferente, e la patria originaria delle merci presso a poco si sa. Io credo adunque che lo spoglio de’ libri delle dogane debba farsi colla distinzione di ogni merce, col prezzo di ciascuna, e coll’unica divisione mercantile dare ed avere, ma che si faccia, lo ripeto, con un conteggio non arbitrario, ma giustificabile in ogni asserzione. Una carta fatta su questi principj rende avvertito un abi­le politico dello stato verisimile in cui trovasi l’industria della nazio­ne, e questo solo prospetto può indicargli qual sia il ramo che meri­ti più pronto soccorso, quale prenda incremento e vigore, a qual classe di uomini debba preferibilmente portare ajuto o nella agricol­tura o nella man d’opera, acciocchè si mantengano nella nazione vigorosi più che si può tutt’i rami dell’annua riproduzione. Mancan­do di un simile prospetto non si saprebbe dove più rivolgersi se a una o all’altra classe del popolo, e potrebbe essere diminuita sensi­bilmente una parte d’industria nazionale prima che se ne avvedesse­ro i magistrati.

Senza di questo annuo prospetto non si potrebbe nemmeno pre­vedere con qualche fondamento di quanta importanza sia per l’era­rio pubblico la diminuzione del tributo su qualche merce particola­re, e in conseguenza o si dovrebbe azzardar sempre, tutte le volte che si ponesse mano a questo tributo, o non si dovrebbero mai secondare gl’interessi dell’annua riproduzione, i quali col mutarsi delle circostanze possono esigere delle parziali variazioni nel tribu­to sulle merci. Sebbene dunque lo spoglio de’ libri delle dogane sia un’operazione che convien fare, da questa operazione però non si può esattamente dedurre se aumenti o scemi l’annua riproduzione di quell’anno; poiché quand’anche le merci particolari trasmesse sieno d’un valor minore delle merci particolari ricevute, potrebbe essersi introdotta nella nazione maggior merce universale di quella che uscì, e così riceverebbe un nuovo stimolo ad accrescere la circo­lazione e la riproduzione annua l’industria nazionale.

§ XX. Del cambio.

II corso de’ cambi è un altro mezzo a cui da taluni si ricorre per conoscere lo stato dell’annua riproduzione. A formare una idea in una materia resa oscura e dal linguaggio particolare dell’arte e dal minuto dettaglio col quale taluni ne han trattato, basti riflettere che i debiti che i negozianti nazionali hanno co’ negozianti esteri facil­mente si bilanciano fino a tanto che il debito di altrettanti negozian­ti esteri verso dei nazionali giunga a pareggiarne il valore; poiché il negoziante nazionale cede il suo debitore al suo creditore senz’alcun trasporto di denaro fra la nazione e gli esteri. Ma se computati i cre­diti e debiti verso i forastieri la nazione resterà tuttora debitrice, sarà pur forza che si pareggino le due partite d’importazione ed esportazione, e la nazione dovrà trasmettere il denaro al di fuori, e questo trasporto porta pericolo e spesa. In questo caso adunque un nazionale che voglia far pagare una somma agli esteri dovrà portare il peso della spesa del trasporto; e se vorrà darsi commissione ad un negoziante perchè faccia questo pagamento, converrà pagare al negoziante medesimo la spesa del trasporto che dovrà successiva­mente fare; così chi vorrà una lettera di cambio per un paese estero, allora dovrà pagare più della somma che sarà sborsata nel paese estero. In questo caso il cambio perde.

Facciasi una supposizione, all’opposto, che scontati tutt’i debiti resti tuttavia creditrice la nazione cogli esteri: allora essendo a cari­co degli esteri le spese per il trasporto del denaro, ne avverrà che per risparmiare questa spesa e pericolo, che sono sempre a peso del debitore, l’estero si contenterà di pagare sul luogo qualche cosa al più di quello che deve; e così per avere una lettera di cambio da pagarsi dagli esteri si spenderà qualche cosa meno di quello che dagli esteri sarà effettivamente pagato, e allora si dice che il cambio guadagna.

Se in una nazione potesse uniformemente trovarsi il cambio o in guadagno o in perdita, cioè, per servirmi del linguaggio dell’arte, se il cambio fosse costantemente e universalmente in un anno sotto della pari, ovvero sopra la pari, allora se ne potrebbe cavare argo­mento fondato sull’annua riproduzione. Ma questo è un caso immaginario, e in realtà i cambj con una nazione guadagnano, e perdono coll’altra, ed ogni giorno sono mutabili; dal che ne siegue che incer­tissimo sia l’argomento che si potrebbe cavare da esso. Si rifletta che qualora i negozianti cercano di trasmettere in un paese estero de’ capitali, o per fare a tempo le provvisioni o per altre loro speculazio­ni, il cambio della nazione con quella piazza guadagnerà, e l’annua riproduzione perciò non sarà accresciuta, anzi potrebbe essere diminuita. Sempre dunque è equivoco l’argomento tratto dal corso dei cambj.

§ XXI. Della popolazione.

Il mezzo più sicuro per conoscere l’aumento dell’annua riproduzione in uno Stato si è l’accrescimento della popolazione. La specie umana come tutte le altre per organizzazione medesima tende a per­petuarsi ed a moltiplicare. Talvolta i distruttori fenomeni della fisica, le inondazioni, i terremoti, i vulcani annientano le popolazio­ni. La corrispondenza dello stato sociale tra nazione e nazione comunica le malattie contagiose e le guerre; l’attività medesima del­l’industria cagiona la perdita dei naufragati o periti per malattie, nelle lunghe navigazioni, e nelle viscere della terra, respirando l’aria nociva delle miniere. Ma nel corso ordinario delle cose, la natura umana tende a moltiplicare prodigiosamente; il che è stato posto in chiara luce da chi ha trattata profondamente questa materia. In ogni Stato adunque dove la popolazione o non s’aumenti o lentamente s’aumenti, e non colla proporzione della naturale fecondità, convien dire che siavi tanto difetto di politica, quanta è la distanza da quel­lo che è, a quello che dovrebb’essere: ammeno che, come dissi, non siavi qualche manifesta cagione straordinaria a cui attribuire quella porzione di sterilità. L’abitudine tiene talmente attaccato l’uomo e affezionato al suolo su cui nacque, che vi vogliono dei mali pesanti prima ch’ei sia spinto ad abbandonarlo, e la condizione delle nozze è tanto seducente, che ammeno che non siavi l’impossibilità di sup­plirne ai bisogni, ogni cittadino vi viene guidato dalla medesima natura.

Ognuno facilmente comprende che la forza d’uno Stato deve misurarsi dal numero degli uomini che vi campano ben nodriti, e che quanto più uno Stato è popolato, tanto maggiori debbono esse­re le interne consumazioni; quanto maggiori son queste, tanto debb’essere animata l’annua riproduzione; conseguentemente dall’ac­crescimento o diminuzione del popolo si conoscerà l’accrescimento o la diminuzione della riproduzione annua; anzi essendo questa moltiplicazione una prova degli agi e della sicurezza che trovano gli uomini nello Stato, essendo gli uni e l’altra sempre inseparabili nel­le società incivilite dall’industria animata e dalla rapida circolazione, ne verrà, dico, in conseguenza che dall’accrescimento del popolo si conosca l’accrescimento dell’annua riproduzione, la quale più che la semplice esportazione annua è la misura della forza e prosperità del­lo Stato.

La misura della forza d’uno Stato o della prosperità di esso non è sempre l’accrescimento del travaglio, come è sembrato ad alcuni, poichè la riproduzione non è sempre proporzionata al travaglio; anzi in una nazione dove gli stromenti dell’agricoltura e delle arti fossero meno perfetti e più grossolani, ivi il travaglio sarebbe mag­giore, ma non perciò sarebbe accresciuta la riproduzione o la ricchezza. Il problema dell’Economia politica si è accrescere al possibi­le l’annua riproduzione col minor possibile travaglio, ossia data la quantità di riproduzione ottenerla col minimo travaglio; data la quan­tità del travaglio ottenere la massima riproduzione; accrescere quan­to più si può il travaglio e cavarne il massimo effetto di riproduzione. Dico poi che l’esportazione annua è una misura equivoca della forza e felicità d’uno Stato; perchè si potrebbe acquistare nuovo popolo che dapprincipio colle sue consumazioni diminuisse l’espor­tazione annua; per lo che sarebbe possibile che si accrescesse il numero di nazionali, e si scemasse per qualche anno appunto perciò l’esportazione. È bensì vero che non sarebbe questo un acquisto di soda ricchezza nello Stato, se i nuovi consumatori non contribuisse­ro ben presto alla riproduzione annua ed in seguito cooperassero ad accrescere l’esportazione. Potrebb’anco accadere l’opposto, cioè che per qualche accidente scematosi il popolo, per alcun tempo si accrescesse l’annua esportazione. La sola esportazione adunque non è una norma sempre sicura dello stato dell’annua riproduzione.

§ XXII. Della locale distribuzione degli uomini.

Ma questa popolazione è egli meglio che sia diradata sopra un vasto paese, ovvero fitta e ristretta a uno spazio più angusto? Rispondo che se una popolazione sarà troppo diffusa e diradata sopra una gran superficie, il commercio interno sarà il minimo pos­sibile, perchè quanto maggiore sarà la distanza da villaggio a villag­gio e da città a città, tanto più sarà difficile la comunicazione dei contratti; conseguentemente non vi sarà circolazione e non si farà commercio se non ne’ casi passaggieri, ne’ quali vi sia differenza di prezzo da luogo a luogo assai sensibile; e ridotti così gli uomini distanti e isolati, l’industria non potrà animarsi e l’annua riprodu­zione si limiterà poco più che a soddisfare ai bisogni di prima neces­sità. Se per lo contrario la popolazione sarà ristretta sopra uno spazio di terra troppo angusto, la circolazione sarà rapidissima e la riproduzione annua sarà somma; ma non bastando la terra a sommi­nistrare una riproduzione annua di derrate corrispondente all’an­nuo consumo, dovrà questo popolo rivolgere la sua industria prin­cipalmente sulle manifatture, il valor delle quali dipendendo dalla opinione degli uomini, arbitraria e variabile colle circostanze, sarà sempre più incerto e precario del valore delle derrate del suolo, che servono d’alimento alla vita. Questa popolazione adunque condensata avrà una somma riproduzione annua, ma di ricchezze meno sicure a fronte di bisogni fisici e naturali. Spinta da sommi bisogni a somma attività una popolazione, posta in tali circostanze, può abbracciare e condurre a fine le intraprese le più ardite; ma se un momento si rallenta la sua industria e la rapida circolazione; se le leggi e i costumi cessano di governarla, muterà aspetto velocemente ogni cosa e resteranno quei soli abitanti, la consumazione de’ quali corrisponda alla produzione annua del suolo.

Tra questi due estremi deve trovarsi uno Stato per essere in pro­sperità, cioè non occupare tanta terra che allontani gli uomini dal comunicarsi facilmente e non restringersi in guisa di dover cercare l’alimento al di fuori.

Le città sono in una provincia quel che le piazze di mercato sono in una città. Sono il punto di riunione, ove i venditori e i comprato­ri s’incontrano. La capitale poi è alle città quello che esse sono alla provincia.

Si può domandare se l’utile della nazione esiga che nelle città e singolarmente nella capitale si ammucchi in gran massa la popola­zione, ovvero se convenga anzi procurare che ciò non succeda, e cresca a preferenza la popolazione della campagna.

La mortalità è maggiore nelle città che nelle campagne, perchè nelle città più popolate v’è più intemperanza e l’aria è meno salubre. A ciò si aggiunge la riflessione assai naturale ed è che il contadino evidentemente contribuisce all’annua riproduzione assai più di quel che non faccia una parte degli abitanti della città. Pare adunque che sia più utile l’accrescimento de’ coltivatori a preferenza dei citta­dini.

Ma riflettasi al principio detto poc’anzi, cioè che quanto più gli uomini son condensati, tanto maggior fermento riceve l’industria da una rapidissima circolazione. Le città, e singolarmente le grandi e molto popolate, sono il centro di riunione da cui escono le spinte all’industria della campagna, la quale nelle terre non può riscuoter­si da sè medesima, perchè pochi sono i bisogni e poca la circolazione fra gli uomini. Una gran massa di uomini ammucchiata deve dif­fondere nella sfera delle terre che l’attorniano l’attività per ritraerne le proprie consumazioni. I comodi della vita nelle popolose città impiegano un gran numero d’artefici; si raffinano le arti, si riducono a perfezione le più difficili manifatture. Che se la popolazione medesima si distribuisse per la campagna e nessuna città molto popolata vi fosse, non v’ha dubbio che la circolazione e l’industria sarebbero minori, e conseguentemente minore l’annua riprodu­zione. Ognuno sa che maggiori spese si fanno nelle città, di quelle che si facciano vivendo nella campagna, e sa ognuno, e lo prova, che vivendo nelle città più grandi maggior numero di compre dovrà fare che non nelle città piccole. Dunque la popolazione medesima dira­data avrà minore circolazione assai, condensata ne avrà assai mag­giore, e la riproduzione annua crescendo col numero delle compre, cioè coll’accrescersi della circolazione, la riproduzione annua, dico, sarà maggiore quanto più vi saranno in uno Stato città popolatis­sime.

Certamente esser vi debbe una propozione in ogni Stato fra i cit­tadini e il popolo della campagna. In uno Stato militare, e che abbia da temere o invasione dei nemici o che mediti conquiste, si dovrà render più difficile la vita nella città, che nella campagna, per molti­plicare a preferenza i coltivatori, essendo essi gli uomini meglio edu­cati per le armate, ed essendo più difficile all’invasore l’impadronir­si e conservare la dominazione sopra di un popolo quanto egli è più diradato. Un milione d’uomini ammassato in una città è assoggetta­to tosto che l’inimico posseda alcune batterie che la dominino, lo stesso numero diradato nè si conquista, nè si custodisce sì agevol­mente. I Parti, gli Sciti, gli Arabi, i Tartari, la storia tutta ne fanno fede. Ma in una nazione che abbia poco a temere d’essere invasa e che non aspiri a conquiste non sarà di nocumento l’aver molto popolo nelle città, essendo che queste portano in conseguenza una coltivazione delle terre sempre proporzionata alla consumazione, tosto che lo Stato le abbia naturalmente fecondabili.

Un filo d’erba la più comune, mietuto sul prato è un pezzo di materia inerte sinchè resta isolato, ovvero raccolto in piccole masse; ma se si ammucchi un voluminoso acervo di quest’erbe recise vedrassi nascere la fermentazione, schiudersi un calore, propagarsi un moto in tutta la massa, la quale giungerà ad accendersi, ad avvampare illuminando l’orizzonte. Ogni grappolo di vite, qualora sia da sè o con pochi altri simili, si scioglie in una materia fecciosa, ma compressi in gran copia in un recipiente, l’urto vicendevole del­le infinite volatili particelle agita la massa tutta, e in lei ovunque propaga l’effervescenza, e ne stilla un liquore che spande nell’atmosfe­ra fragranti atomi riscuotenti, e nelle vene di chi ne gusta vita e gio­ventù. Tale è la pittura dell’uman genere, l’uomo isolato è timido, selvaggio e inetto; diradato ch’ei sia o unito a pochi, poco o nulla sa fare; ma una unione di moltissimi uomini ammucchiati, condensati e ristretti in piccolo spazio si anima, e fermenta, e perfeziona, e spande tutto all’intorno l’attività, la riproduzione e la vita.

§ XXIII. Errori che possono commettersi nel calcolo della popolazione.

Ritornando al soggetto principale, l’accrescimento della popolazio­ne si è dunque il solo sicuro indice dell’accrescimento dell’annua riproduzione, come si è veduto al paragrafo XXI. Ma per verificare bene questo fatto conviene usare di alcuni riguardi. Talvolta può parere accresciuta la popolazione o scemata in uno Stato unicamen­te perchè sia accresciuta o scemata l’attenzione, colla quale si son fatte le ricerche. I registri degli ecclesiastici sogliono essere i più fedeli; ma se questi si paragoneranno con altri registri meno esatti, la differenza dei due termini non proverà lo stato della popolazione. Conviene ne’ casi pratici non dimenticare questi riguardi sebben minuti, poichè per cavare una conseguenza sulla popolazione biso­gna che la fedeltà e l’esattezza dei diversi anni che si paragonano sia verisimilmente eguale.

Di ogni nazione sarebbe facile il provare qualunque delle due tesi, o che la popolazione sia scemata o che sia accresciuta, quando si scelga un anno indistintamente fra i precedenti. Dopo una pestilen­za, dopo i disastri d’una guerra facilmente uno Stato era più spopo­lato di quello che oggi non lo sia, quantunque la popolazione attual­mente deperisca. In simili calcoli due soli estremi non bastano, ma conviene avere una serie di più anni immediatamente precedenti. In una serie di 6 o 8 anni consecutivi si conosce qual moto prenda la popolazione, e formando una media proporzione di più anni si conosce realmente se l’ultimo Stato sia maggiore o minore di quella, dal che può cavarsene una conseguenza la più giusta e provata di qualunque altra per conoscere se l’annua riproduzione e la prospe­rità pubblica accrescano o diminuiscano.

Si sono fatte delle ricerche curiose e talvolta utili in questo secolo sulla popolazione degli Stati. Egli è vero però che tanto la fisica posizione, quanto le leggi di ciascun popolo talmente variano le pro­porzioni fralle classi degli uomini, che non può cavarsene molta pro­babilità coll’analogia. La quantità degli ecclesiastici varia assai da na­zione a nazione, le nozze o il celibato prevalgono secondo le leggi di­verse e i diversi costumi de’ popoli, così la proporzione de’ sessi è variabile come hanno provato illustri scrittori. Questi oggetti dob­biamo aver presenti per innalzarci alla somma arte di dubitare, e per cercare la verità amandola e rispettandola. Chi stabilisce una pro­porzione fra i celibi e gli ammogliati, fra gli ecclesiastici e i laici, fra gli uomini e le donne si troverebbe in errore o a Roma o a Londra.

Paragonando la popolazione d’uno Stato coll’altro conviene dividere il numero degli abitanti sullo spazio intero della nazione, e si vedrà quanti abitanti contenga ogni miglio quadrato: questo è il metodo per conoscere quale de’ due Stati a proporzione contenga maggior popolazione. Ma per non cadere in errore bisogna aver quattro dati ben conosciuti e sicuri. Supposto che vogliasi parago­nare la popolazione della Francia colla popolazione della Gran Bre­tagna, debbono sapersi con esattezza i quattro seguenti fatti. Primo la popolazione esatta della Francia. Secondo l’esatta estensione di quel regno. Terzo l’esatta popolazione d’Inghilterra. Quarto l’esatta superficie di quell’isola. Uno solo di questi fatti che sia equivoco, sarà erroneo il calcolo.

Troppo sarei per dilungarmi se volessi prevenire gli errori possibili a commettersi in sì fatti calcoli politici. In ogni Stato vi sono i verdi e i cerulei, vi sono gli uomini che traggono utilità dal pubbli­co disordine, l’interesse de’ quali è di abellire il tempo presente, screditare le querele de’ popoli e distogliere il sovrano dal rimediar­vi; vi sono parimenti gli uomini negletti e ambiziosi che cercano d’ingrandire i mali pubblici per invidia verso chi ha i pubblici impieghi. Questi calcoli conviene che sieno diretti da chi ami impar­zialmente la verità e non ami più un’opinione di un’altra.

§ XXIV. Divisione del popolo in classi.

Gli uomini che compongono una nazione io li considero divisi in tre classi, riproduttori, mediatori, consumatori. Lascio di parlare del­la classe separata de’ direttori, tali sono quei che rappresentano la maestà del sovrano, i tribunali, i giudici, i soldati, i ministri della religione ec., classe d’uomini destinati a dirigere le azioni altrui e a proteggerle, perchè gli ufficj loro non cadono immediatamente nella sfera degli oggetti che esamina la Economia politica. Riproduttori adunque sono quegli uomini, i quali o cooperando colla vegetazio­ne della terra o nell’arti e mestieri, modificando le produzioni della natura creano, per dir così, un valor nuovo, la somma totale di cui chiamasi annua riproduzione. Mediatori sono quella classi di uomini, i quali s’interpongono fra il riproduttore e il consumatore, procura­no al primo un facile sfogo della merce particolare riprodotta dalla sua industria, e presentano un pronto acquisto di altrettanta porzio­ne corrispondente di merce universale; offrono al secondo la merce particolare procurandogli il comodo di fare rapidamente la scelta fra molte qualità radunate della medesima specie. Questi mediatori sono tutti i mercanti, tutti quegli uomini che comprano per rivende­re, tutti gli uomini impiegati ne’ trasporti, persone tutte le quali sono il veicolo che accosta il consumatore al riproduttore, e conseguentemente colla loro opera facilitano la circolazione. La terza classe de’ consumatori s’intende facilmente comprendere coloro i quali nessuna industria ripongono del proprio nella massa comune della società, e in ciò consiste il carattere distintivo di essi.

Queste tre classi che sono le primigenie, non sono però di lor natura incompatibili; che anzi ogni venditore debb’essere compra­tore, siccome abbiam veduto al paragrafo V, così ogni riproduttore debb’essere consumatore per necessità di tutta la porzione destinata alla sua sussistenza; lo stesso dico del mediatore. Il consumatore sembra a primo aspetto un peso inutile dello Stato, essendo che se dalla nazione uscisse tutta la massa dei meri consumatori altro effet­to pare che non potrebbe accadere se non di vedersi accresciuta l’annua esportazione di tanto quanto corrisponde alla consumazio­ne interna diminuita, dal che ne verrebbe l’utile allo Stato di aver accresciuta la massa circolante.

Ma in politica bisogna diffidarsi delle conseguenze che si deduco­no al primo aspetto degli oggetti. I consumatori sono in gran parte proprietarj dei fondi; la loro vita svogliata e passiva è in continuo bisogno d’essere sollecitata colla soddisfazione di variati piaceri. Sono in un bisogno perenne di aver denaro, debbono adunque indi­rettamente cooperare all’annua riproduzione delle terre; debbono raffinare e immaginare i metodi per accrescere l’annua riproduzione dei fondi; debbono servire d’uno sprone continuo al coltivatore, mancando il quale languirebbe di molto l’agricoltura. La spensiera­tezza, la profusione del proprietario delle terre, sebbene in alcuni casi particolari siano di danno, comunemente però sono un ajuto all’annua riproduzione.

Sarebbe un’idea di perfezione platonica il pretendere che nello Stato non vi fossero meri consumatori. Le ricchezze legittimamente acquistate hanno da essere salve al possessore; se questo debb’essere, è anche necessario che vi sieno uomini ai quali non si possa inter­dire il far nulla. Questo ceto non obbligato a pensare al vitto ed ai comodi che di già possede sarà il seminario da cui si avranno i gio­vani meglio educati per essere magistrati, uomini di lettere, capita­ni: giovani ai quali non mancarono i mezzi per essere educati, ed ai quali non è necessario di contribuire per il servigio pubblico quel prezzo che si dovrebbe a chi non avesse che il solo stipendio per campare.

Sono gravosi allo Stato i consumatori che non possedono o vivo­no accattando o con importunità o con altri artifizj il vitto. Essi sono un vero sopraccarico di tributo sugli altri cittadini operosi, nè altro effetto producono se non appunto quello di sminuire l’annua espor­tazione. Il legislatore procurerà sempre di scemarne il numero. Io non entrerò in una odiosa enumerazione di quelle classi di uomini che si trovano in questo caso. Contento di accennare le viste gene­rali degli oggetti che tratto, lascerò ad altri la cura di adattarle ai casi pratici. Basti ricordare quello che giudiziosamente osservò un illu­minato scrittore; cioè che non tutti i vizj politici sono vizj morali, nè tutti i vizj morali sono vizj politici.

Le tre classi degli uomini delle quali si è parlato si proporzione­rebbero nello Stato, se le leggi e le opinioni introdotte non impedissero il libero corso alla natura delle cose; poiché i mediatori debbo­no per forza circoscriversi col numero dei contratti: cioè colla quan­tità della riproduzione e della consumazione. I riproduttori accre­scerebbero naturalmente sin tanto che giungessero ad equilibrare la consumazione, e così tutto sarebbe livellato con sicurezza dal risul­tato universale dei bisogni; ma laddove o si limiti il numero de’ mediatori con ridurli a ceto e a corpo separato, di che si è detto di sopra, ovvero si accresca un ceto di consumatori che non possedono, questa benefica livellazione e corrispondenza viene alterata; e un abile ministro indirettamente tenderà sempre a infievolire queste instituzioni dell’arte, rimettendo le cose più che si può nelle mani della sagace e benefica natura.

La classe de’ consumatori possessori delle terre è bene che si mol­tiplichi quanto è possibile, essendo che, come si disse al paragrafo VI, una vasta estensione di terra che sia in proprietà d’un uomo solo, sarà sempre meno feconda di quello che lo sarebbe divisa in più: poichè maggior cura e studio vi porrà ad accrescere la riproduzione della terra un proprietario che ne debba far valere una mediocre porzione, di quello che vi porrà un ricco proprietario di vasti fondi, il quale oltre all’avere minore stimolo, nemmeno potrebbe mirar tutto egualmente con attenzione, di che si è già detto. Aggiungasi che quanto più sono i proprietarj delle terre, in tanto maggiori mani saran le derrate, e così sarà accresciuto il numero de’ venditori a profitto della pubblica abbondanza. I mezzi che a tal fine adoprerà un accorto legislatore saranno i medesimi, dei quali ho ragionato parlando di quegli Stati che soffrono il male di aver le fortune troppo disugualmente distribuite. Un’altra osservazione si può fare a tal proposito, ed è che a misura che s’accresceranno i terrieri, maggio­re sarà il numero degli uomini interessati nella conservazione dello Stato; essendo che i possessori dei fondi stabili sono i veri indigeni e i cittadini più attaccati al suolo, essendo essi e per l’abitudine che hanno comune con tutti gli altri, e più per la conservazione delle loro ricchezze e del loro Stato, beni che il mediatore facilmente ritrova anche mutando paese.

Uomo benefico, uomo illuminato che hai esaminati e conosciuti i sacri diritti dell’uomo, non ti sdegnar meco se ne prescindo e se uni­camente lo considero come parte della società contribuente alla di lei forza e ricchezza. No, non degrado l’uomo alla servil condizione d’un mero fondo fruttifero; così potesse la mia voce annunziare con frutto gli augusti primitivi diritti d’un Essere intelligente e sensibile che associandosi non può averlo fatto che per il miglior genere di vita; dritti altamente pubblicati da sublimi uomini che la potenza ha in odio, il volgo non conosce, e alcuni pochi deboli, sparsi e avvezzi alla meditazione onorano! Sappi che a stento raffreno scrivendo gl’impeti del cuore; ma la fredda ragione mi suggerisce di promove­re il bene degli uomini non col linguaggio del sentimento, ma col­l’analisi tranquilla delle cose, e illuminando chi può far il bene, mostrare la coincidenza degl’interessi comuni. Rispettiamo la eleva­zione del genio e la calda virtù di chi posto in privata condizione s’erge a tuonare sull’abuso della forza e vorrebbe far arrossire gli uomini in carica de’ loro vizj e de’ loro errori. Se per ciò l’umanità venisse sollevata dai mali, la virtù ci additerebbe quel sentiero: ma la misera condizione degli uomini è tale che più si ottiene generalmen­te solleticando l’interesse personale, che non si fa interessando la gloria, a cui rare sono le anime che si innalzino.

§ XXV. Delle colonie e delle conquiste.

Se è vero che la forza d’uno Stato e che l’annua riproduzione si misurino e vadano del pari colla popolazione, che dovrem mai pen­sare delle colonie che si trasmettono a popolar regioni lontane per assicurare la conquista? Per una nazione la di cui forza principale debba consistere sul mare, le colonie remote possono supplire al danno che cagionano della spopolazione, servendo a mantenere un’incessante navigazione anche in mezzo alla pace, e la metropoli rivendendo le produzioni delle sue colonie potrà dare tanta spinta all’industria e accrescere di tanto la circolazione, che in breve si ricuperi egual numero di popolo al perduto. Ma nelle nazioni, nelle quali le forze naturali debbono essere terrestri, perchè posson esse­re terrestri le forze di chi tentasse sopra di esse un’invasione, nelle nazioni nelle quali la terra non sia per anco popolata a quel segno, a cui può naturalmente giungere, a me sembra che le colonie cagioni­no un male colla loro originaria spopolazione, e un secondo male perenne coll’obbligo di mantenere troppe forze marittime. Mi pare che non dovrebbe mai uno Stato cercare di rendersi formidabile in regioni rimote, sintanto che non sia formidabilissimo su quella por­zione di globo ove giace. Poiché quanto più stendesi la dominazio­ne al di fuori, tanto di forza sottraesi alla difesa interna. Dopo due o tre generazioni le colonie perdono l’affezione all’antica loro patria, e se non si rinnovellano con sacrificj continui di popolazione v’è pericolo che degenerino in fredde alleate di poca utilità, e che impa­zienti della dipendenza talora diventino nemiche ai loro antichi cit­tadini.

Le conquiste rimote portano i mali medesimi delle colonie; e se nelle conquiste anche contigue agli Stati non si acquistano più uomini che terra, nasceranno i mali di dover di più diradare la popolazione e render gli uomini più isolati, il che si è già veduto quanto rallenti la circolazione e diminuisca in conseguenza l’annua riproduzione.

§ XXVI. Come si animi l’industria avvicinando l’uomo all’uomo.

Per animare gli Stati soverchiamente vasti e mancanti di popolo bisognerebbe poterli concentrare unicamente quanto basta per la­sciar tra gli uomini lo spazio di terra capace di nutrirgli, e riponen­do un deserto tra essi e i confinanti, comunicare cogli altri popoli per le sole vie dei mari e dei fiumi. In tal guisa nella nazione s’in­trodurrebbe il fermento e l’attività, si accelererebbe la moltipli­cazione della riproduzione annua e del popolo, s’accrescerebbe l’esportazione, si acquisterebbe nuova copia di merce universale in premio dell’industria, e a proporzione sempre accelerandosi la cir­colazione e la riproduzione annua si vedrebbe la nazione grada-

tamente stendersi sulla pianura che aveva da principio lasciata de­serta, sintanto che gli uomini giugnessero al contatto coi finitimi, e vi giugnessero nello stato di forza, d’industria somma e di somma coltura.

Non è male il ripeterlo: quanto l’uomo è più isolato e distante dagli altri suoi simili, tanto più s’accosta allo stato selvaggio; all’op­posto tanto più s’accosta allo stato dell’industria e della coltura quanto è più vicino a un più gran numero d’uomini; e deve farsi ogni studio possibile per accostare l’uomo all’uomo, il villaggio al villaggio, la città alla città. Su questo proposito accade di osservare che più mezzi ha un governo per eseguire questo accostamento, e può farlo in effetto senza che gli uomini trasportino abitazione. Dovunque sieno tributi frapposti sul trasporto interno dello Stato, se il legislatore gli tolga, avrà effettivamente accostate le città, fram­mezzo alle quali cadeva il tributo; ma di questa materia parleremo più oltre. Dovunque sieno strade difficili al trasporto o pericolose per la sicurezza, se un buon governo le spiani e le renda agevoli e sicure, avrà accostate fra di loro tutte le terre e città che comunica­no per quelle strade; essendo che le spese e il tempo del trasporto da luogo a luogo sono tanto maggiori quanto è maggiore la distan­za, ovvero quanto è più scoscesa, difficile e pericolosa la strada che debbesi fare, e così viceversa. Tanto minor differenza di prezzo basta a cagionar il trasporto da luogo a luogo, quanto minore è la spe­sa e il tempo della condotta. Le strade adunque ben fatte debbono moltiplicare la circolazione interna dei contratti, e per le ragioni già dette accrescere l’annua riproduzione.

Conviene però in questa classe di opere pubbliche guardarsi dal lusso e limitarsi alla sola utilità; poichè le strade soverchiamente lar­ghe e fatte più a pompa che per uso sono tante strisce di sterilità d’una nazione; ed è da osservarsi che il lusso sicuramente più dan­noso d’ogni altro si è quello che impedisce una utile vegetazione sul­le terre, e così i vasti giardini, le selve destinate unicamente alla pompa della caccia, gli sterminati viali e simili abusi della proprietà sono un genere di lusso che non ammette compenso; perchè il lus­so di consumazione eccita una proporzionata annua riproduzione, ma questo lusso infecondo è una diretta esclusione alla riproduzio­ne annua.

Per questo principio istesso la costruzione de’ canali navigabili gioverà sommamente ad accostare le rimote popolazioni; la sicurez­za pubblica delle strade, la distribuzione comoda degli alberghi e simili altri mezzi in mano d’un provido governo rianimeranno la cir­colazione, l’industria e la riproduzione d’un popolo quantunque collocato con diradata ripartizione. Una potenza marittima di cui la bandiera sia rispettata può dirsi per questa ragione confinante con ciascun porto dell’universo.

§ XXVII. Dell’agricoltura.

Ogni spazio di terra è la materia prima dell’agricoltura, la qual pro­duce ai popoli la ricchezza la più vera e la più indipendente d’ogni altra col variar delle opinioni. Ogni genere di agricoltura è utile allo Stato, perchè accresce l’annua riproduzione: ma quel genere di agricoltura sarà preferibile, che più accresce l’annua riproduzione. Pare che l’interesse del proprietario delle terre sia quello di ricavare dal suo fondo la maggiore annua riproduzione, per lo che al legislatore sembra che non convenga averne il pensiero riposandosi sulla vigi­lanza dell’interesse del proprietario. Con tutto ciò può darsi che gl’interessi dello Stato non coincidano talvolta cogl’interessi del proprietario. Questa verità si conosce riflettendo che l’interesse del proprietario si è non già d’accrescere l’annua riproduzione totale de’ suoi fondi, ma bensì di accrescere quella porzione di rendita che a lui spetta. Ciò posto facilmente vedrassi che la rendita del proprietario per due maniere si può accrescere, o coll’aumentazione della ri­produzione annua o colla diminuzione del numero de’ giornalieri.

L’interesse del proprietario coincide con quello del legislatore sin tanto che si scelga il primo mezzo per accrescere la rendita; ma qualora si scelga il secondo, possono gl’interessi dello Stato e quelli del possessore essere in opposizione. Sempre le equazioni in Economia politica si fanno felicemente per addizione, e per sottrazione sempre con danno; sempre debbesi cercare la massima azione col massimo effetto. Suppongasi che un genere di coltura richieda l’opera di dieci agricoltori che vivono sul lavoro di un campo. Il proprietario potrebbe guadagnar più, sostituendovi un’altra coltura, la quale impiegasse due uomini soli, perchè potrebbe il risparmio di otto uomini di meno da mantenere essere una somma maggiore della differenza che passa tra la total produzione del primo, paragonata al secondo genere di coltura. È dunque un oggetto l’agricoltura, che anche nelle sue specie diverse debbesi aver sott’occhio dagli uomini destinati a vegliare sulla felicità pubblica. Prima regola adunque generale sarà: preferire quel genere d’agricoltura che più accresce l’annua totale riproduzione, e che impiega maggior numero di braccia.

Alcuni generi d’agricoltura possono accrescere l’annua riproduzione su quel terreno su cui si esercitano, e diminuire in proporzio
ne assai maggiore l’annua riproduzione delle altre terre. Tale può essere la coltura che si fa per mezzo della irrigazione. Se i terreni paludosi vengano ridotti a coltura dando uno scolo alle acque, può accrescersi l’annua riproduzione nazionale; ma quando un fiume si dirami, e si suddivida sopra un vasto spazio di terra, vi sarà pericolo che le frequenti nebbie e le grandini frequenti non portino la devastazione alle altre campagne, e non rendasi l’aria insalubre a diminuzione del popolo. L’evaporazione dell’acqua non si fa in ragione della di lei quantità assoluta, ma della di lei superficie. La ragione e la sperienza c’insegnano che le piogge, le nebbie e le grandini sono assai più frequenti ne’ paesi che hanno molta irrigazione
di quello che non lo sieno ne’ paesi più asciutti. Tutte le cose eguali, nelle pianure simili e similmente poste per rispetto alle vicine montagne, la quantità della pioggia che cade in ciascun anno, il numero e la furia de’ temporali è maggiore dove i fiumi sono sparsi e divisi per le moltiplicate irrigazioni. Nella Toscana vi sono come nella Lombardia i monti che circondano, eppure assai più grandini e piogge cadono nella Lombardia dove anco nel Milanese vi sono sicure osservazioni d’essersi anticipato in autunno il principio delle nebbie, ed essersi queste innalzate e distese in maggiore vicinanza delle colline col dilatarsi la irrigazione. Seconda regola generale: sarà sempre posponibile quel genere di coltura che deteriori le condi­zioni del clima.

Si può dare un genere di coltura, il quale accresca l’annua ripro­duzione senza scapito alcuno, ma che essendo uno sforzo della ter­ra, dopo alcuni anni la renda sterile o di troppo difficile riproduzio­ne. In questo caso pure gl’interessi della nazione sarebbero opposti a quelli del proprietario. Molti paesi, che la storia c’insegna essere stati fertilissimi, ora sono acervi d’infeconde sabbie. Forse la irriga­zione per un lungo tratto di anni lambendo lo strato vegetabile del­la terra, con una insensibile azione scioglie i sali e le parti oleose che costituiscono la fecondità, e lascia coll’andare de’ secoli un fondo esaurito e morto, e mentre il suolo s’accosta a quest’estremo rendesi poi necessaria la irrigazione sopra di quel fondo che in origine avrebbe contribuito alla riproduzione anche da sè. L’interesse del proprietario non prevede o calcola questo deperimento perchè troppo remoto, e di cui egli non ne proverà le conseguenze; ma l’im­mortale politica spinge i suoi sguardi nell’avvenire, e insegna non esser utile allo Stato quella riproduzione, la quale deteriori la fecondità del suolo. Terza regola generale adunque sarà: preferire quel genere d’agricoltura per cui si conservi alla terra la sua attività.

Ognuno vede facilmente quanto sia preferibile per lo Stato il rica­var dalle terre prima d’ogni altra cosa l’immediato alimento, e quan­to sia preferibile l’alimento di prima necessità a quello di piacere. Se una popolazione d’America metterà tutte le sue terre a coltivare lo zucchero, perchè nel total valore ne ritrae più di quello che sarebbe coltivando i grani, dico che quella nazione menerebbe una vita sem­pre dipendente e precaria dalle nazioni estere, e dovrebbe prima d’ogni cosa procurarsi nel proprio suolo l’alimento fisico immedia­tamente. Quarta regola generale adunque: preferire quel genere di coltura che soddisfaccia ai bisogni fisici, sintanto almeno che sieno lar­gamente assicurati.

Altre osservazioni si possono fare sull’agricoltura, dalle quali dedurre altri precetti. Io credo che sia più utile allo Stato che la par­te dominicale sia pagata dal fittuario al padrone del fondo, piuttosto in derrate che in moneta, perchè affine che il fittuario possa unire la somma da pagare debbe affrettarsi a vendere i prodotti della terra; e siccome presso ogni nazione vi sono i tempi legali per pagare i ter­reni allogati, così tutti ad un tempo s’accrescono i venditori, e facil­mente nascono gl’incettatori, e si può far monipolio. Oltre di ciò, ristagna una parte sensibile di denaro frattanto, perchè il fittuario appoco appoco ammassa la somma da pagare, e così si sottrae una porzione della merce universale alla circolazione. Che se il padrone del fondo sarà pagato con tanti sacchi di grano, botti di vino, ec., non vi saranno questi inconvenienti. Riflettasi pure che l’eccesso dell’annuale riproduzione sulla consumazione interna sarà sempre più facilmente trasportato agli esteri, quanto meno voluminosa sarà la derrata e meno corruttibile; dal che si vede quali altre regole di agricoltura si possono aggiungere.

Ma quando io dico che questi oggetti son degni dell’attenzione del legislatore, e che un genere merita d’essere più promosso e un altro più ristretto, non intendo dire perciò, che io creda mai bene l’obbligare i proprietarj con leggi dirette o penali ad abbandonare o scegliere una coltura più che un’altra; nè qualora io accenno i mali che produce una irrigazione troppo estesa suggerisco perciò di obbligare ad altro genere di coltura quei terreni che più non ne sono suscettibili, o proscrivo perciò ogni uso di prati, o escludo questo genere dalla economia rurale. Dico che questo genere di col­tura non è mai preferibile alla coltura de’ grani; ma dico nel tempo stesso che le leggi coercitive non possono mai produrre verun buon effetto, perchè limitando esse il dritto di proprietà per entro a trop­po angusti confini tendono a intimidire gli uomini, a scoraggire l’in­dustria, e diminuire la ricerca dei campi, e a portare la freddezza in ogni parte, dove anzi conviene lasciare vegetare la vita e schiudersi l’attività. Si otterrà stabilmente e con placidi mezzi che nello Stato si stenda più la coltura che più accresce la riproduzione, qualora indi­rettamente il legislatore inviti la coltura più utile, o aggravando meno di tributo quelle terre sulla quali si esercita, ovvero lasciando più svincolata la contrattazione delle derrate provenienti dalla col­tura più utile, ovvero sollevando nelle gabelle all’uscita e circolazio­ne quelle derrate, e in vece aggravandone le prodotte dalla meno utile coltura. Se i vincoli imposti alla contrattazione de’ grani spin­gessero una nazione a moltiplicare la irrigazione e la coltura dei caci, si potrebbe placidamente togliere questa spinta restituendo al commercio de’ grani la originaria libertà; poiché la ritrosa volontà dell’uomo vuol essere invitata senza scossa e guidata senza violenza, affinchè s’ottenga un bene costante e non compensato da un maggior male. Nelle nazioni illuminate gli uomini vanno direttamente, e obbliquamente vanno le leggi, ma quanto sono minori i lumi d’un popolo, tanto vanno più direttamente le leggi, e obbliquamente gli uomini.

I premj possono essere mezzi che talvolta ajutino l’industria anche nella agricoltura, e se ne contano esempj di qualche nazione; ma d’ordinario danno poca utilità reale. Primieramente v’è pericolo che questi vengano distribuiti più per ufficj che per attento esame, e non vi è cosa che avvilisca più il merito, quanto un’arbitraria distribuzione de’ premj. Secondariamente se il valore di questi sta nella ricchezza fisica, saranno un aggravio certo universale per un’incerta utilità parziale; se il valore non sarà ricchezza fisica diventerà un giuoco la distribuzione; e in una nazione vivace correrà gran rischio la cerimonia d’essere mancante di quella serietà che ecciti l’emula­zione. Finalmente ogni coltura che non trovi il premio intrinseco del guadagno nella vendita, farà sempre una riproduzione efimera e di pochissima utilità. Io non dico che in alcun caso il premio propo­sto non possa essere di bene; dico soltanto che questi sono il vero lusso della legislazione, a cui non è permesso il pensare, sino a tan­to ch’ella in ogni sua parte non sia esattamente modellata e confor­me alla società per cui è fatta.

Si è detto che il legislatore cercherà adunque di promovere più una coltura che l’altra; e riducendo a una teoria sola qual coltura debbasi preferire, dirò: quella che più costantemente accresce il total valore dell’annua riproduzione. Un ministro politico non sarà mai di altro sollecito; e ottenuto che siasi il necessario fisico non si curerà se sia variata o no la coltura; se molte materie prime delle arti si pro­ducono; se cresca sul suolo quanto serve ai comodi della vita; poichè ciò si livella da sè; ogni cosa ricercata ha prezzo, e tanto mag­giore quanto è il numero delle ricerche, e tosto che il proprietario del fondo non coltiva un dato genere, è segno che ne ritrae valor maggiore altrimenti, col quale potrà procurarsi dall’estero la ma­teria prima che si cerca. L’idea di formare un compendio dell’uni­verso entro i proprj confini non è mai ben augurata: accrescere l’annua riproduzione, spingerla quanto oltre si può, snodando, ani­mando l’attività umana, questo è il fine solo a cui tende l’Economia politica.

§ XXVIII. Errori che possono commettersi nel calcolare i progressi dell’agricoltura.

Ho detto che la riproduzione si debbe spingere quanto oltre si può: non dico portarla al colmo, perchè la riproduzione annua, pra­ticamente parlando non vi giunge mai. Il moto dell’industria è come ogni altro moto; per quanto ei sia rapido può sempre ricevere nuo­va spinta, che ne accresca la quantità. Esattamente parlando, so che si tratta di elementi finiti, ma il loro limite è tanto discosto dallo sta­to attuale di ogni nazione d’Europa, che può considerarsi come infinitamente distante. Risguardisi la sola agricoltura di cui trattia­mo. Sintanto che in uno Stato vi saranno dei pezzi di terreno non ancora coltivati, che vi saranno dei fondi comunali, che vi saranno dei prati e pascoli, capaci d’una coltura che renda maggior valore per alimentare un più gran numero di uomini, si deve dire che anco­ra resti molto da fare per i progressi dell’agricoltura. Non vi è terra che coll’opera dell’uomo non si renda feconda. Di nessuna parte d’Europa può adunque dirsi che ivi l’agricoltura sia giunta al suo colmo. Converrebbe, acciocché questo fosse, che tutte le brughiere fossero ridotte a coltura e così tutt’i fondi comunali fossero coltiva­ti dalla mano dell’uomo; che vi fossero prati e pascoli ma solo quan­to è necessario per mantenere gli animali che cooperano all’agricol­tura medesima e corrispondono alle consumazioni degli abitanti. Il numero degli animali eccedente questo limite e che si nudriscono per servire di materia prima alle manifatture sono una sensibile diminuzione del popolo, poiché quanto più numero di bestie ali­menta uno Stato, tanto minor numero d’uomini può alimentare.

A provare che l’agricoltura fosse al colmo di uno Stato si credet­te che fosse un argomento l’avere ribassati gl’interessi de’ banchi pubblici ed essere stati ricercati i capitali da pochi. Dunque è segno, dicesi, che nell’agricoltura non vi sia più mezzo da fare impiego de’ capitali; dunque ella è giunta al colmo. Per conoscere la spiegazione d’un tal fenomeno basterà riflettere che gli utili che si potrebbero avere dall’agricoltura suppongono la massima libertà del commer­cio delle derrate; che vi vuole una energia non volgare per intra­prendere d’accrescere il valore de’ fondi terrieri; che l’indolenza umana fa che si preferisca un utile minore ma agiato, a un maggiore che richiede inquietudine e occupazione; che dove l’attività non sia universalmente in fermento, pochi uomini osano slanciarsi sopra il livello comune. Se adunque non vi saranno comodi e sicuri impie­ghi di capitali a più alto interesse, la maggior parte de’ creditori pubblici si contenterà del ribasso e lascerà i suoi capitali su i banchi. Da questo fatto non vi è miglior ragione per argomentare in favore dell’agricoltura di quella che vi sarebbe per argomentare in favore delle manifatture. L’interesse del denaro ribassato promuove l’indu­stria nazionale, siccome si è detto; ma non è una prova che l’indu­stria sia già in piena attività. Ho detto pure che dall’interesse del denaro si può calcolare la reciproca felicità delle nazioni; ma ciò s’intende un interesse uniformemente ribassato ne’ denari che si accomodano, e allora paragonando l’interesse nostro coll’interesse che corre in altri Stati avremo la misura per calcolare quale de’ due goda di maggiore felicità.

§ XXIX. Origine del tributo.

Il tributo ha moltissima influenza sull’annua riproduzione; può scemarla, può accrescerla, a misura che sia bene o male regolato. Si è accennato come un tributo saggiamente collocato possa animare le manifatture interne, come possa promuovere quel genere di agricol­tura che più accresca la totale riproduzione; ora dirò le teorie che mi sembrano le primordiali per conoscere e l’origine e la natura e la influenza di esso sulla prosperità d’un popolo. Sin ora ho scorsi gli oggetti proprj della Economia; mi restano ora da scorrere quelli del­la Finanza, parte anch’essa della Economia politica, la quale com­prende il modo di render più ricco lo Stato, e quello di fare il miglior uso della ricchezza.

Sebbene sul tributo sieno usciti alla luce in questi ultimi anni ottimi trattati, e siensi posti in chiaro per la maggior parte i principj, con tutto ciò credo che vi resti qualche cosa da fare anche a chi scri­ve in quest’oggi. Per formarci un’idea della necessità e giustizia del tributo si rifletta che una società di uomini non potrebbe sussistere tosto che fosse impunita la violenza e la frode che un cittadino può fare all’altro, ovvero tosto che una nazione conquistatrice venisse a devastarla. Da qui nasce la necessità per cui una parte de’ cittadini debb’essere occupata a difendere la nazione intiera, e ciascun indi­viduo che la compone da ogni usurpazione e violenza sì interna che esterna. Una unione d’uomini la quale non avesse veruna forma di governo, alla prima minaccia d’un’invasione o dovrebbe disperder­si abbandonando il suolo nativo, ovvero tumultuariamente accor­rere per respingere l’aggressore. Frattanto sarebbe abbandonata la coltura delle terre, e costretta dalla fame dovrebbe piegare alla ne­cessità e sottomettersi. Così tumultuariamente e con un disordine perenne si respingerebbe anche l’aggressore interno, la forza sola deciderebbe di tutto, tutto sarebbe in combustione.

Da ciò nasce la necessità di avere un numero di uomini unica­mente destinati a mantenere la sicurezza della proprietà a ciascun membro dello Stato, uomini di professione obbligati in parte ad agi­re per respingere con impeto le usurpazioni della forza, e in parte a verificare tranquillamente i diritti d’ognuno e ordinarne la difesa; a invigilare sulla pubblica felicità da ogni suo lato, e promuoverla. Ecco l’origine dei sovrani, della milizia, dei magistrati e dei ministri. Questa classe separata di uomini nè produttori, nè mediatori, unica­mente consacrata alla sicurezza e felicità pubblica, classe d’uomini che io chiamo direttrice, ragion vuole che sia mantenuta da quella società medesima, a cui conserva e procura ogni bene. La necessità di avere questa classe di uomini forma la giustizia del tributo; e l’ali­mento proporzionato all’officio di ciascuno di questi uomini sino a quel limite a cui giunge l’utilità pubblica forma la somma totale del tributo. Il tributo adunque si è una porzione della proprietà che cia­scuno depone nell’erario pubblico, affine di godere con sicurezza la proprietà che gli rimane.

Egli è dunque interesse di ogni uomo che sieno pagati i tributi, e che sieno convertiti per il bene che gli ha fatti nascere. D’onde av­viene dunque che laddove ogni altra legge realmente coincidente coll’interesse della maggior parte degli uomini viene facilmente ubbidita, ed è punito colla disapprovazione pubblica il violatore; le leg­gi del tributo per lo contrario, sebbene del pari interessanti la mag­gior parte, trovano un niso continuo nella nazione ad opporvisi, e non incontra mai la disapprovazione pubblica il fraudatore? Ciò for­se accade perchè l’intelletto dell’uomo è fatto come l’occhio, a cui un piccolo oggetto, ma assai vicino, cuopre vastissimi oggetti rimo­ti, e così l’immediato male di privarsi di parte della propria ricchez­za si sente assai più che non il lontano bene di venire assicurati da una eventuale violenza. Secondariamente l’idea della privata pro­prietà è assai più radicata nell’animo dell’uomo di quel che non lo sia l’idea generale dell’organizzazione politica d’uno Stato; e sicco­me il tributo è una diminuzione delle proprietà ed è una relazione fra l’uomo e lo Stato, ogni individuo sente più la parte che è dimi­nuita, di quello che senta il legame dei rapporti che la bilanciano. Ciò non ostante io credo che se in ogni tempo fosse stato il tributo sempre un fondo giudiziosamente impiegato, l’opinione pubblica lo risguarderebbe come un debito sacro; e forse il costume avrebbe ra­dicata negli animi tanta vergogna al sottrarvisi, quanta ne prova ogni uomo spontaneamente unito in una privata società, se non possa pa­gare la sua porzione avendo risentita la sua parte nel bene. Se i co­stumi hanno associata una macchia, e una vergogna a chi non paga i debiti del giuoco; perchè non se ne infligge altrettanta a chi non pa­ga i debiti al mercante o all’erario? Sarebbe mai per la ragione che agli ultimi provvede la legge, ai primi no? Forse è da osservarsi che l’abuso fatto in altri tempi del potere legislativo, e il più grande abu­so moltiplicatosi di rendere incerta e dubbiosa ogni legge colla in­terpretazione, hanno impressa nel cuore degli uomini un’idea poco favorevole alla legge, e perciò l’opinione pubblica assolve sin dove si può quello che la legge condanna. Nelle nazioni che hanno una fe­lice legislazione scorgesi maggiore coincidenza fralle leggi e i costu­mi; le condanne sono uniformi, e nel tribunale e nella opinione pub­blica. Forse la divergenza di questi due principj è la vera misura del­la corruzione d’un popolo. Ma queste idee, secondate che fossero, troppo mi porterebbero lontano dal mio argomento.

Sarebbe pure cosa disparata dal mio soggetto s’io volessi conside­rare il tributo come una legittima porzione depositata nell’erario. Altri vi sono che hanno portata la luce su di questa materia. L’instituto di quest’opera mi richiama a contemplare il tributo unica­mente come un oggetto che ha relazione ed influenza sulla circola­zione, sulla riproduzione annua, sull’industria e sulla prosperità dello Stato.

§ XXX. Principi per regolare il tributo.

Una nazione decaderà per colpa del tributo in due casi. Primo caso, quando la quantità del tributo eccederà le forze della nazione, e non sarà proporzionata alla ricchezza universale. Secondo caso, quando una quantità di tributo, la quale nella sua totalità è propor­zionata alle forze, sia viziosamente distribuita. Nel primo caso il rimedio è solo e semplice, cioè proporzionare il peso alla robustez­za della nazione. Il secondo caso è assai variabile e inviluppato. Cer­chiamo di mettere a luogo le idee, e comprendere in capi tutti i casi particolari.

Il tributo è viziosamente ripartito, quando immediatamente piomba sopra una classe di cittadini dei più deboli dello Stato, ovvero quando nella percezione vi sia abuso, ovvero quando impe­disca la circolazione, la esportazione, lo sviluppamento dell’indu­stria, in una parola quando renda difficili quelle azioni per le quali s’accresce la riproduzione annua.

Ogni tributo naturalmente tende a livellarsi uniformemente su tutti gl’individui d’uno Stato a proporzione delle consumazioni di ciascuno. Se il tributo sarà nelle terre, suppongasi che venga pagato in derrate le quali si distribuiscano alla classe direttrice di cui poco fa ho detto. Egli è vero che tutti gl’individui di quella classe cessano allora d’esserne compratori, e il terriere vedrà diminuito il numero de’ compratori delle sue derrate, onde dovrebbe venderle, tutto il resto uguale, a un minor prezzo, e così non si compenserebbe del tributo sul restante de’ compratori. Ma dico che non resterà tutto il resto uguale, e il numero de’ venditori si diminuirà: perchè impo­nendosi un nuovo tributo sopra i terrieri, e cadendo un nuovo inte­resse immediatamente, e accrescendosi sopra della loro classe tutto in un tempo un nuovo bisogno d’avere più merce universale, ne accaderà, che al bel principio i più facoltosi si asterranno dal fare le vendite aspettando prezzi più alti, e i pochi venditori che resteran­no in attività ristretti a minor numero, otterranno che il prezzo si rialzi, e fattasi questa livellazione al primo imporsi del tributo, natu­ralmente seguiterà sin tanto che il tributo continui, tutto il resto uguale, a distribuirsi in quella forma. Suppongasi che il tributo si paghi in denaro, come realmente si fa, allora la classe direttrice for­merà una nuova schiera di compratori, i quali quanto più mezzi hanno per consumare e più consumano, siccome si è veduto, onde naturalmente cooperano col terriere medesimo a rendere più cari i prezzi delle derrate, e così il proprietario delle terre procurerà di risarcirsi sopra ciascun consumatore del tributo che avrà anticipato. Se il tributo sarà sulle merci e sulle manifatture, i mercanti e gli artigiani cercheranno di risarcirsene, vendendone a più caro prezzo le loro manifatture, e così ripartire su i loro consumatori proporziona­tamente il tributo. Se il tributo verrà imposto immediatamente sul minuto popolo che niente possede, e che, locando unicamente sè stesso, vive d’un giornaliero salario, il minuto popolo necessaria­mente esigerà salario maggiore, e così il tributo ha sempre una for­za espansiva per cui tende a livellarsi sulla sfera più vasta che si può. Riguardato da questo canto solo parrebbe indifferente ch’ei cadesse più su di una classe di uomini che su di un’altra.

Ho detto che il tributo si distribuisce e si conguaglia naturalmen­te sulle consumazioni di ciascuno. Per rendere quest’idea più chia­ra immaginiamoci un forastiero domiciliato da noi, il quale abbia tre mila scudi d’entrata che gli vengono dalle terre che possede nella sua patria. Suppongasi ch’egli spenda ogni anno per il proprio mantenimento tutta l’entrata. Egli deve pagare sopra le consumazioni che fa, sì immediatamente per la sua persona, quanto mediatamen­te per le persone de’ suoi domestici, il tributo del nostro paese; e se i tributi da noi ascendessero al diecisette per cento del valor capita­le, dico che il forastiere avrebbe contribuito cinquecento scudi delle sue terre nel carico nostro nazionale. Quando i tributi sono impo­sti sull’ingresso delle merci in città, sulla vendita de’ generi di prima consumazione, sulle case, sulle arti e mestieri, come lo sono attual­mente quasi dappertutto, ella è cosa assai ovvia d’intendere, come il forastiere a misura della sua consumazione forza è che contribuisca. Ma se il tributo presso di noi fosse interamente collocato sulla sola parte dominicale delle terre, allora è più lunga la strada del congua­glio sulle consumazioni; pure egli pagherebbe le derrate di suo con­sumo più care di quello che le comprerebbe se non vi fosse tributo, e tutte le opere e servizj che dovrà pagare saranno proporzionata­mente più cari quanto sarà maggiore il peso della terra da cui ricevono alimento i cittadini de’ quali ha impiegato l’opera. Quindi io credo che se un terriere possessore di vasti fondi consumerà pochis­simo, sarà realmente piccolissima la porzion del tributo che avrà pagata; e così il forastiere che soggiorna da noi, pochissimo contribuisce alla sua nazione. Ciò anche più chiaramente si conosce riflettendo che il tributo imposto sulle terre e stabilmente e unifor­memente conservato è piuttosto una diminuzione istantanea del valore delle terre accaduta nel momento in cui venne stabilito, anzi che una annua diminuzione del frutto del padrone; poichè per i contratti passando i fondi di terra dopo imposto il carico a un pos­sessore nuovo egli ne ha fatto l’acquisto impiegando il suo denaro a un determinato frutto annuo e sottraendo dal fondo l’importanza del tributo. Da ciò è nata la legge di alcuni Stati che vieta ai proprietarj delle terre di soggiornare in estero paese; legge diretta, la quale se da una parte impedisce l’uscita del denaro e la diminuzione del numero de’ contribuenti, dall’altra però non invita l’estere famiglie a stabilirsi nello Stato, a comperarvi dei fondi, e a portarvi le ric­chezze e l’industria loro.

Per dissipare sempre più le nebbie su di questa materia si rifletta che colui che non possede cosa alcuna non può pagare verun tribu­to se non carpendolo dalle mani di chi possede. Un possessore sia egli o di terre o di capitali o d’altri fondi, s’egli mantiene degli arti­giani pagherà necessariamente il tributo imposto ad essi, poiché se egli consuma il tempo e l’opera loro debbe cedere ad essi di che si alimentino, e paghino il loro debito all’erario. Lo stesso dico de’ salariati che il possessore stipendia, de’ quali pagherà il tributo sicu­ramente; così dico delle mercanzie tutte che il possessore consume­rà, per le quali egli pagherà necessariamente al mercante il prezzo primitivo più il trasporto, più l’alimento di esso mercante, più il tributo che il mercante anticipò. A misura dunque che farà di con­sumazioni, maggior parte pagherà di tributo ogni possessore; e a misura che ciascuno più è aggravato di tributo cercherà di più risar­cirsene nelle vendite, ed ecco come il tributo tende a conguagliarsi sulle consumazioni. Riflettasi che un terriere che abbia comprati i suoi fondi sulla rendita depurata del 3 1/2 per cento ricaverà dalla ter­ra il frutto intero del suo capitale, e come possessore non pagherà tributo, in quella guisa che, acquistandosi un podere soggetto a ser­vitù, non si cede niente del proprio lasciando l’uso di essa a chi ne ha il diritto, così accadde pagando il tributo anticamente imposto sulle terre. L’idea che il sovrano sia comproprietario delle terre non mi pare vera, e se lo fosse lo sarebbe ugualmente dei magazzini del­le merci. Perciò ogni uomo pagherà il tributo in qualità di consuma­tore perchè di tanto pagherà di più le consumazioni quanto è il tri­buto, onde acquisterà tante merci particolari di meno da consumare spendendo una determinata quantità di denaro quanto è l’incarimento cagionato dal tributo, e queste merci di meno che acquisterà saranno la porzione della proprietà deposta nell’erario pubblico. Chi più consuma più contribuisce al tributo, e il tributo, siccome dissi, si diffonde e conguaglia sulle consumazioni.

Sembra dunque a primo aspetto, poiché il tributo tende a con­guagliarsi sulle consumazioni, che arbitrario sia lo scegliere anzi una classe che l’altra del popolo: ma ciò non è; poiché questo congua­glio, e questa suddivisione del tributo è sempre uno stato di guerra fra ceto e ceto d’uomini. Quando il possessore e il cittadino che ha fondi debbono anticipare il tributo, la suddivisione sul minuto popolo si fa sollecitamente e con poco ostacolo, perchè egli è il potente che richiede ragione dal debole; ma quando il tributo immediatamente cada di primo slancio sulla classe del debole, la suddivisione si farà, ma con quella lentezza e con quegli ostacoli che debbon nascere quando il debole e povero cerca ragione dal ricco e potente. Questi intervalli tra l’impulso e la quiete sono le crisi più importanti negli Stati; e sono ben da osservarsi in ogni cambiamen­to di tributo.

Il tempo che trascorre fra la imposizione del tributo e il congua­glio è un tempo di guerra e di rivoluzione. Quel che dico del tribu­to dicasi delle mutazioni nel valor numerario delle monete. In que­sto intervallo di tempo fra l’impulso dato dal legislatore e l’equilibrio, quel ceto d’uomini anticipatamente caricato del tributo soffre un peso maggiore delle ordinarie sue forze; quanto più sarà debole e povera la classe a preferenza caricata, tanto più sarà da temere lo scoraggimento dell’industria o l’evasione degli abitanti. Il primo canone dunque per dirigere il tributo sarà: non piombar mai immediatamente sulla classe de’ poveri.

Si è pensato che ogni tributo termini finalmente in una capitazio­ne, e su questo principio si è immaginato che la forma più semplice sia tassare egualmente ogni abitante. Il ragionamento che si fa si è questo. Ogni uomo a misura che è facoltoso gode delle manifatture e dei servigj d’un maggior numero di poveri cittadini, ai quali forza è che paghi non solamente il vitto corrispondente al tempo che impiegarono per lui, ma altresì il tributo proporzionato a quello tempo medesimo che da essi si è dovuto pagare. In conseguenza di ciò la capitazione si conguaglia da sè medesima, e al termine di ogni anno avrà pagato maggior tributo ogni uomo in ragione degli agj maggiori che ha goduto, e il popolo che non possede sarà stato intieramente indennizzato. Ma questo discorso ha contro di sè il tempo del conguaglio, cioè lo spazio in cui debbe il povero far la guerra al ricco. Aggiungasi a tutto ciò la ostilità che seco porta un simile tributo, e la odiosa servitù a cui degrada l’uomo; poichè quando il tributo abbia per base o i fondi stabili o le merci di un cit­tadino, il tributo è un’azione che cade sulla cosa, e non sulla perso­na; laonde la pena di non aver pagato il tributo sarà la perdita, tut­to al più, del fondo o della merce. Ma quando il tributo cade sulla persona, l’uomo medesimo, la sua libertà, la sua esistenza personale vengono ipotecate per il tributo, e la povertà e l’impotenza vengono offese e oppresse da quelle leggi medesime che dovrebbero pure esser fatte per sollevarle e difenderle. Ogni angolo più riposto dello Stato, ogni povera capanna debb’essere visitata dai perlustratori; se la famiglia d’un povero contadino non ha la moneta del censo, l’in­sensibile esattore la ridurrà all’esterminio; si vedranno i gabellieri a forza strappare le marre, i vomeri, e una semplice virtuosa e povera famiglia resterà in totale rovina. Questa immagine deve realizzarsi dovunque vi sia un tributo diviso per capitazione. Dovunque paghi l’uomo, e non il possessore, ivi è violata radicalmente la libertà civi­le. Le idee morali della nazione saranno in pericolo, perchè continui esempj della forza pubblica esercitata sopra gl’innocenti le distrug­geranno. L’industria viene corrosa nella sua radice, e la nazione non riceverà mai spinta ad accrescere l’annua riproduzione, perchè fischia il flagello delle leggi terribilmente sul capo degli uomini riproduttori avviliti e scoraggiti. A questi mali un altro se ne aggiugne, cioè la spesa della percezione di questo tributo, per esigere il quale, sotto questa forma, conviene mantenere de’ subalterni in tan­to numero da stendersi e visitare ogni anno ogni più riposta abita­zione dello Stato.

Le spese della percezione del tributo sono di un mero aggravio allo Stato per due ragioni. Una ragione si è perchè data la somma del tributo corrispondente ai bisogni dello Stato, dal medesimo forza è che si paghi in oltre il dippiù che costano i gabellieri. L’altra si è perchè quanto più s’accrescono i gabellieri di ogni genere, tanto si aumenta nello Stato una classe d’uomini, i quali non essendo nè riproduttori, nè mediatori, ma semplici consumatori, e consumatori che non possedon fondi, che non difendono lo Stato, sono perciò uomini puramente a carico. Il loro officio naturalmente odioso, la loro abitudine di soffocare i principj di compassione, le insidie che talvolta tessono per profittare di un vero o supposto contrabbando, rendono per lo più questa classe di uomini da restringersi quanto è possibile. Il secondo canone adunque che debbe dirigere il tributo si è: sceglier quella forma che importi le minori spese possibili nella percezione.

Il tributo ferisce immediatamente la classe del più minuto popo­lo non solamente in ogni capitazione palese e manifesta, ma altresì in ogni capitazione tacita e occulta. Tale si è ogni tributo imposto su i generi di prima necessità, e molto più se qualche privativa se ne appropriasse il Principe per venderli solo al popolo. In questi gene­ri di prima necessità consumandone presso a poco egual porzione tanto il facoltoso, quanto il povero, egli è manifesto che quanto ai suoi effetti un simil tributo si riduce a capitazione.

Questa capitazione, tacita però, sebbene porti con sè il contrasto fra il debole e il forte nel di lei conguaglio, non è nella esecuzione tanto odiosa e ostile, quanto la vera capitazione, essendovi sempre una sorta di spontaneità nel contribuente, ed essendo garanti verso l’erario non la nuda esistenza dell’uomo, ma gl’indispensabili biso­gni di lui.

Cade il tributo sulla classe de’ cittadini più deboli immediata­mente quando venga particolarmente imposto sulle vendite più minute. In alcuni paesi è libero il contrattare in grosse partite di alcune merci di uso pubblico, e non lo è il venderne in ritaglio per i giornalieri bisogni del più minuto popolo senza pagare un separato tributo. Da ciò ne nasce che i più poveri e bisognosi mancando sem­pre di un capitale per provvedersi ad un tratto della consumazione di qualche settimana, debbono colle piccole compre di ogni giorno pagare talvolta la merce perfino il doppio di quello che la pagano i più facoltosi. Ognuno facilmente sentirà quanto poco sia umana e giusta una sì fatta maniera di distribuire il carico, e che tutti questi pesi, di primo slancio imposti a quella parte di uomini che non possede, tendono a scoraggiare l’industria e desolare la parte più ope­rosa della nazione, e conseguentemente essere tributi, che sarà sem­pre possibile ripartire altrimenti con utile della nazione.

Ho detto di sopra che il secondo vizio nella ripartizione del tribu­to si è quando nella percezione di esso vi sia abuso. Sarà un abuso nella percezione del tributo se nella classe degli uomini destinati alla Finanza vi sarà o eccesso nel numero o eccesso ne’ salarj; poiché, come si disse, questo peso ricaderà sulla nazione. Il problema che deve sciogliersi tutte le volte che si tratta di tributo si è sempre que­sto: come si possa fare che fra la somma totale pagata dal popolo, e la somma totale entrata nell’erario vi sia la minore differenza possibile, lasciando alla nazione tutta la possibile libertà.

Sarà un abuso nella percezione del tributo, e abuso massimo, quando vi sia luogo ad arbitrio, e che i finanzieri possano esentar gli uni, aggravare gli altri a loro talento, e che il debole e lontano sia nella alternativa o di soffrire con pazienza una forza ingiustamente adoperata contro di lui, ovvero intentare una lite contro un potente incaricato della riscossione dei tributi, che ha un facile accesso ai tri­bunali. Tutte le volte che nella società possa più l’uomo che la leg­ge, non si speri mai industria. Questa non regna se non vi è sparsa generalmente sulla faccia della nazione la sicurezza della persona e dei beni: nè si vedrà mai l’industria dar vita a un popolo se non sia fiancheggiata dalla libertà civile, per cui dalla sacra autorità delle leggi tanta protezione riceva ogni membro della società, che nessu­no possa mai impunemente usurpargli del suo. Il terzo canone adunque del tributo si è: ch’egli abbia per norma leggi chiare, precise, inviolabili da osservarsi imparzialmente verso di qualunque contri­buente.

Il terzo vizio nella ripartizione del tributo si è quando direttamen­te si opponga alla circolazione, ovvero all’accrescimento dell’annua esportazione, e in una parola quando si opponga di fronte a quella azione che è utile a promovere nello Stato per accrescere l’annua riproduzione. Ogni tributo che sia imposto sul trasporto delle mer­ci da luogo a luogo nello Stato fa l’effetto medesimo, come si è di sopra accennato, come se si allontanasse fisicamente un luogo dal­l’altro: conseguentemente tende a diminuire i contratti e la circolazione. Ogni tributo imposto sul passaggio delle strade e sul traspor­to delle merci, come i pedaggi, i carichi sulle vetture, su i carri ec. è del genere medesimo, e fa il medesimo effetto di diradare la nazione, e rendere le parti di essa più isolate e meno comunicanti. Questi mali, come ognun vede, risguardano la circolazione, ossia i contratti interni dello Stato. Giova allontanare talora un compratore estero, talora un estero venditore, e quest’effetto lo fanno i tributi sulle merci, di che si dirà al paragrafo XXXIV, ma non giova mai anzi nuo­ce, l’allontanare l’uomo dall’uomo, il villaggio dal villaggio, il com­pratore interno dal venditore interno, di che si trattò antecedente­mente.

Impedirà la circolazione interna parimente ogni tributo che sia imposto su i contratti; poiché sebbene immediatamente non impe­disca il trasporto, rallenta però la rapida comunicazione dei citta­dini, diminuisce il numero dei contratti, scema la circolazione, con­seguentemente tende a impicciolire l’annua riproduzione. Quarto canone adunque sarà: non collocare mai il tributo in modo che diret­tamente accresca le spese del trasporto da luogo a luogo nello Stato, o s’interponga mai fra il venditore e il compratore nell’interno dello Stato.

Se vorrà imporvisi tributo all’ingresso nello Stato delle materie prime, sulle quali si esercita l’industria nazionale, ovvero sugli stromenti che si adoperano dall’industria per le manifatture, l’annua riproduzione delle manifatture scemerà, come ognun vede. Pari­mente se s’imponga tributo nell’uscita dallo Stato sulle manifatture nazionali, vi sarà da temere che esse nella concorrenza vengano posposte presso degli esteri per il prezzo troppo caro, ammeno che l’eccellenza delle manifatture non sia giunta a segno da non aver concorrenti.

Se a misura che le terre vengono dall’industria accresciute di valore, a misura che l’agricoltura si stende su’ terreni in prima dere­litti, a misura che un artigiano accresce il numero de’ telaj, in una parola se a misura che l’uomo cerca di migliorar la sua sorte coll’at­tività dell’industria, gli caderà proporzionatamente sul capo un sopraccarico di tassa sul tributo, questo tributo sarà diametralmen­te opposto ai progressi dell’industria, e tenderà direttamente a impedire l’avanzamento dell’annua riproduzione. Quinto canone adunque: non si debbe far mai che il tributo segua immediatamente l’accrescimento dell’industria.

Non fa d’uopo ch’io ricordi come tutt’i tributi imposti sulle noz­ze sono dannosi, perchè sono un ostacolo diretto contro la popola­zione.

Si osservi inoltre che se il tributo si pagherà una o due volte l’an­no, e o non si divida o si divida in poche parti, ne accaderà che avvi­cinandosi il tempo di pagarlo si sottrarrà dalla circolazione tutta ad un tratto una massa importante di denaro, anzi dovrà cominciarsi qualche tempo anticipatamente a radunarla, e così con un moto for­zato uscirà dalla carriera dei contratti una quantità sensibile di mer­ce universale, e si rallenterà l’attività del commercio. Per lo che in quanto maggior numero di pagamenti più piccoli si potrà dividere il tributo, tanto più si conserverà uniforme il moto della circolazione.

§ XXXI. Aspetti diversi del tributo.

Ho accennato, secondo che mi sembra, qual sia la forma in cui ripartito il tributo sia di nocumento alla nazione. Brevemente osser­viamo sotto quai diversi aspetti si presenti il tributo al popolo.

Alcuni sono tributi scoperti, e tale è ogni pagamento che fa il cit­tadino all’erario pubblico senza riceverne alcuna cosa immediata­mente in contraccambio. Tali sono i tributi che paga il proprietario sulle sue terre, il mercante sulle sue merci, il padrone sulla sua casa, il viaggiatore sul pedaggio, e l’uomo qualunque nella capitazione propriamente tale.

Altri sono tributi occulti. Di questa natura sono le vendite priva­tive che ha il sovrano o del sale o del tabacco o d’altro qualunque genere, poiché l’uomo mentre paga il tributo fa l’acquisto di una merce, e la quantità del tributo resta quasi amalgamata e occulta col prezzo naturale della merce che compra. Di tal genere son pure tutt’i tributi che anticipò il mercante a nome del consumatore all’introdurre le merci estere nello Stato, tributi che il compratore paga sen­za quasi avvedersene, perchè frammischiati col prezzo della merce.

In due altri aspetti si sottodividono in faccia della nazione i tribu­ti, e sono: altri forzosi, altri spontanei. Forzosi son quei sulle terre, sulla capitazione propriamente tale, sulle case, ec. poichè non è in libertà del cittadino l’esentarsene quando ei voglia perseverare nel suo Stato. Spontanei poi sono, o almeno appajono, i tributi ai quali l’uomo si assoggetta per propria scelta, affine di procurarsi un bene. Fra gli spontanei il primo di tutti si è il tributo delle lotterie. Io non parlo di ogni sorta di lotterie indistintamente; molte ve ne sono di fondate sopra un’equa proporzione fra l’utile e l’azzardo; altre si convertono in oggetti di pubblica utilità; ma alcune lotterie nascon­dono una tale ingiustizia, che se questo genere di tributo non ci fos­se trapassato per tradizione del secolo scorso, tanta è l’umanità che presentemente regna in Europa, tanti progressi ha fatti la ragione universale, tanto luminosamente si conosce la unione che passa tra gl’interessi pubblici e la tutela del più minuto popolo, ch’io ardisco credere che ne sarebbe rifiutato il progetto, se ora fosse per la prima volta proposto. La venerabile autorità delle leggi destinate a far vegliare la giustizia de’ contratti non si vorrebbe degradata a segno di far insidioso invito ai creduli cittadini per un contratto talmente seducente e lesivo che sarebbe disciolto dalle leggi medesime qualo­ra si facesse tra privato e privato a molto minore disuguaglianza. Il più minuto popolo, che non è nè può mai essere generalmente pro­fondo calcolatore, viene deluso con gigantesche e chimeriche spe­ranze d’una difficilissima fortuna, alla quale le più povere famiglie dello Stato sacrificano il letto, il vestito della moglie e de’ figli, ridu­cendosi all’ultima miseria e disperazione. La superstizione, i sacrilegi, i furti, le prostituzioni e il mal costume di ogni genere viene pro­mosso da questa classe di tributo spontaneo, per cui all’uomo più virtuoso dello Stato, al padre del popolo, al legislatore si fece vesti­re talvolta il carattere della seduzione. Lo ripeto, non parlo indistin­tamente di ogni lotteria, parlo soltanto di quelle che adescano la più misera plebe ad un contratto sproporzionatissimo, di cui la ingiusti­zia farebbe stupore se la complicazione del calcolo e la nebbia da cui è attorniata l’intrinseca somma sproporzione di quest’azzardo fosse facilmente penetrabile dai magistrati. Dico adunque che que­sta classe di tributo, sebbene volontario, verrebbe più innocuamen­te ripartita sulla nazione in altro modo, e tanto più facilmente quan­to che non è mai questo un ramo de’ principali per l’erario.

§ XXXII. Su quale classe d’uomini convenga distribuire il tributo.

Quale sarà dunque il modo con cui distribuire le pubbliche gravezze con minore nocumento del popolo? Dai cinque canoni fissati disopra emana la soluzione di questo quesito. Quel tributo sarà men nocivo allo Stato che immediatamente non percuoterà la classe dei poveri, quello di cui la percezione sarà la meno dispendiosa e meno soggetta all’arbitrio, quello che non accresca immediatamente le spese dei trasporti interni, nè s’interponga fra il venditore e il com­pratore, e che non vada troppo da vicino accrescendo col crescere dell’industria.

Si è accennato più sopra che il tributo è sempre una legge che trova un niso negli uomini a deluderla. Dunque sarà sempre più fermo e sicuro il tributo quando percuoterà immediatamente un numero minore di uomini. Due vantaggi vi saranno: un vantaggio di dover tener di vista un numero minore di debitori. L’altro vantaggio sarà di avere minori spese nella percezione perchè le spese di essa tanto sono minori quanto diminuisce il numero degl’immediati contri­buenti.

Posto ciò, quale è la classe fra i membri dello Stato, che si può trascegliere più innocuamente per ricevere immediatamente da essa il tributo? La classe dei possessori. Chiamo possessori coloro i quali hanno in loro dominio e proprietà o fondi di terra o case o mercan­zie o merce universale data a censo o su i banchi pubblici o particolari. Tutte queste quattro categorie di possessori vorrebbe la giusti­zia che uniformemente a misura delle loro proprietà portassero immediatamente tutti i pesi della nazione, perchè dalla società essi ritraggono non solamente la protezione della proprietà personale, comune a ciascun uomo, ma essi di più ritraggono la protezione della proprietà reale; nè potendo dare cosa alcuna all’erario chi nes­suna ricchezza possede, ogni ragion vuole che l’erario riceva una parte dell’annua riproduzione dalle mani di quelli che soli la possedono.

Si è già veduto in prima qual sia la forza espansiva dei tributi, e come i possessori cercherebbero a conguagliarsi, e a far concorrere anche i non possessori con un’opera più intensa e attiva, la quale è il solo fondo con cui i non possessori possono portare la lor parte del tributo. I possessori inoltre sono la classe sola che possa fare l’anticipato disborso del tributo, perchè essi unicamente ne hanno la forza, e altresì essi unicamente possono fare colla maggiore cele­rità il conguaglio, e diramare a norma delle consumazioni di ciascu­no i pesi pubblici.

Ho detto che la giustizia vorrebbe che uniformemente pagassero le quattro categorie dei possessori indistintamente a misura della loro proprietà; ma spesse volte in politica vuole la necessità che ci scostiamo dalla rigida precisione geometrica, e conviene allontanarsi dal gran nemico del bene, l’ottimo apparente. Si tratta non già di evitare ogni inconveniente, nè ogni parziale ingiustizia (che il tribu­to ne ha sempre porzione), si tratta di scegliere i minori inconve­nienti e non più.

I possessori della merce universale accomodata o ai cittadini, ovvero ne’ banchi pubblici come contribuirebbero al tributo? Su i banchi pubblici sarebbe di facile esecuzione; ma perchè pagar loro un interesse, e poi diminuirlo? Sarebbe assai più semplice ribassar gli interessi nel modo detto altrove. I censi fatti presso dei privati come potrebbero ridursi a catastro? Obbligheremo noi ogni uomo a palesare i suoi debiti? Con ciò si diminuirebbe con una odiosissi­ma legge tutta quella parte non piccola di circolazione che fassi uni­camente appoggiata alla opinione, conseguentemente si rallentereb­be l’industria. Se vogliasi stare alle spontanee notificazioni, apparirà ben modico il fondo censibile, e sarà punita l’ingenuità. Si ricorrerà a premiar delatori per iscoprire i censi non palesati? la diffidenza, il sospetto si spargerà nel popolo, e il costume pubblico verrà corrot­to nelle midolla. Che catastro sarà mai quello dei prestiti? Variabile in ogni mese, in ogni giorno, e sempre di una fluttuante quantità. Aggiungasi le spese del gran numero dei subordinati, necessarj a correr dietro a questi volubili elementi, e tenerne registro, e troverassi che è men male la parziale ingiustizia di lasciare esente questa categoria di possessori, e accollar la loro porzione ad altra categoria, che ingolfarsi in questo caos di gravissimi disordini.

§ XXXIII. Se convenga addossare tutti i carichi ai fondi di terra.

Restano dunque censibili i fondi d’agricoltura, le case e le merci. Non mancano in questi ultimi tempi delle opere scritte profonda­mente sulla materia del tributo, nelle quali con assai precisione si so­stiene dover questo cadere interamente sopra le terre, e doversi i fon­di d’agricoltura considerare come i soli beni censibili dello Stato. Questa forma di ripartire il tributo è perfettamente corrispondente ai cinque canoni stabiliti di sopra; poichè non caderebbe mai di slan­cio su i poveri; sarebbe di pochissima spesa la percezione; avrebbe leggi inviolabili che escluderebbero ogni arbitrio; non s’interporreb­be mai a interrompere la circolazione, nè punirebbe l’accrescimento dell’industria, soltanto che le terre rese nuovamente a coltura si la­sciassero per legge esenti dal tributo per un determinato numero di anni. Non si può dare maniera più semplice di questa. Una stima ge­nerale di tutti i fondi dello Stato formerebbe il catastro sul quale ri­partire il tributo. Ogni anno si potrebbe sapere di quanta somma ab­bia bisogno l’erario pubblico, quante spese si debban fare dallo Sta­to per mantenere le opere pubbliche, le strade, i ponti, gli argini ec. (spese le quali è sempre bene ripartirle universalmente su tutta la so­cietà), quanto importerebbero le nuove opere da farsi per render na­vigabili i canali e i fiumi, veicoli dell’industria che avvicinano reciprocamente le terre ec. Tutte queste spese territoriali unite a quelle sta­bili dell’erario formerebbero la somma da imporsi su tutti i fondi di terra registrati nel catastro, e così con un facile conteggio verrebbe dichiarato quanto si debba pagare per ogni scudo di valor capitale de’ fondi stabili. Ogni terra, ogni distretto avrebbe il suo catastro provinciale colla quantità totale degli scudi a cui è valutato il suo ter­ritorio, e colla specifica nomenclativa della quantità del valore di ogni campo; onde con un semplice editto ogni possessore saprebbe quando scada il tempo, e quanto debba pagare per il tributo. Ogni terra avrebbe il proprio esattore obbligato a sborsare nella cassa del­la provincia nel dato termine la data somma. L’esattore talvolta do­vrebbe anticipare la somma a nome di qualche possessore, contro del quale avrebbe l’ipoteca privilegiatissima dei fondi obbligati al tribu­to, e dal quale dovrebbe percepire un frutto del denaro anticipato, fissato bensì dalla legge, ma più alto dei correnti interessi. Le casse delle provincie disporrebbero poi del tributo o trasmettendolo alla capitale, ovvero a misura degli ordini che ricevessero dalla camera.

Ma se tutto d’un colpo si abolissero le gabelle e si collocasse l’in­tero tributo sulle terre, egli è certo che con questa operazione si ver­rebbe a diminuire il valor capitale di tutti i fondi terrieri di tanto quanto ascende il capitale l’interesse di cui sia uguale al tributo nuovamente imposto. Se ad un podere si accrescano di tributo perpetuo trentacinque lire annue, quel podere al momento è diminuito di prezzo mille lire per lo meno, giacchè gl’impieghi in fondi stabili si fanno a meno del 3 1/2 per 100, e il padrone del fondo se lo venderà riceverà mille lire di meno del suo podere. Quand’anche collo scor­rere di molti anni, mutando padrone i fondi, dovesse trovarsi la società in un felice sistema, resterebbe da vedere se sia cosa poi tan­to ragionevole il sacrificare totalmente il ben essere della società vivente e avente una odierna ragione di bene esistere alla ventura società di ignoti successori. Io non lascerò di condannare la spensieratezza de’ nostri antenati i quali con molte cattive operazioni e con debiti pubblici hanno fatto cadere sulla generazione vigente la pena de’ loro abusi; ma l’altro estremo è vizioso del pari. Sin tanto che gli affari politici saranno maneggiati dagli uomini, e che le opinioni vi avranno il loro giuoco non meno che i movimenti sconosciuti che noi chiamiamo fortuna, credo che sarà sempre un cattivo partito l’affrontare un male certo e sensibile per ottenere un bene pubblico in un tempo rimoto che sarà sempre incerto, perchè entro un lungo spazio di tempo accadono dei bisogni e delle circostanze affatto imprevedibili ad una nazione.

Ho detto al paragrafo XXX che il tributo si conguaglia sopra i consumatori; ma un tributo di slancio imposto sopra i fondi di terra diventa una perpetua servitù passiva del fondo, e una diminuzione del capitale, e una vera sterilità politica rispetto al proprietario attuale; il quale se vende il fondo non si risarcirà del tributo giam­mai e lo avrà portato solo, se lo conserva non potrà giammai risar­cirsi sulle vendite de’ frutti delle sue terre ammeno che non venisse intercetto l’ingresso nello Stato di simili frutti; operazione ostile per tutto il popolo e che importerebbe le gabelle per custodia togliendo la uniforme semplicità che si ricerca da chi così propone. Quindi a me pare che sarebbe ingiusta cosa il collocare di slancio una parte sensibile di tributo sulle terre abolendo altri tributi, perchè non è giusto preferibilmente collocare i pesi pubblici a una sola classe in modo che ella non possa averne conguaglio e perchè anche i posses­sori delle merci sono possessori che ricevono dallo Stato una egual protezione sulla lor proprietà reale, e in conseguenza debbono egualmente a proporzione della ricchezza portar parte del peso della pubblica tutela. Se l’annua riproduzione è il vero fondo della ric­chezza nazionale, e se quest’annua riproduzione parte è formata dalle derrate e dai frutti della terra, e parte dalle manifatture, sarà indifferente che l’uomo sia ricco perchè posseda le une piuttosto che l’altre; e se la giustizia suggerisce di far che contribuiscano i possessori nel tributo a misura della loro ricchezza, mi pare eviden­te che il possessore mercante debba portare una parte del peso appunto come il possessore terriere.

Se vorrà darsi una esenzione totale al mercante, e appoggiare il carico totalmente sul possessor terriere, resterà l’industria degli uomini rivolta più alle manifatture che non all’agricoltura, e vi sarà pericolo che quest’ultima non risenta i mali del tributo quando il di lui difetto è originato dalla sproporzione colle forze dei contribuenti. Nè potrà il terriere giammai conguagliare sulla nazione il gravoso tributo impostogli, tosto che la nazione possa ricevere le derrate anche da estero paese; essendo che qualora il terriere volesse risar­cirsi vendendo a più caro prezzo il grano, il vino, l’olio ec. il nego­ziante introdurrebbe da paesi esteri le medesime derrate, e forzerebbe il proprietario terriere a ribassare. Si osservi in tal proposito che anzi se lo Stato confinasse con un paese fertile, e in cui il tribu­to sulle terre fosse leggiero, tutte le derrate estere entrandovi senz’alcun tributo verrebbero ad avere la preferenza, ammeno che il proprietario delle terre nazionali non ribassasse al loro livello il prezzo delle derrate nazionali; e così il tributo nuovamente imposto sulle terre ricaderebbe in una costante diminuzione di ricchezza del terriere sia nella rendita annua, sia nella vendita che volesse fare dei fondi. In uno Stato esteso e grande quest’inconveniente non si farà sentire se non verso i confini; ma in una più ristretta società il dan­no passerà in ogni parte, e penetrerà sino al centro.

Tutt’i tributi che si pagano dal contadino e nel vestito, e nel cibo, e nei contratti, e sotto qualunque altra forma gli paghi, realmente gli paga il proprietario del fondo. Questo è evidente; poichè dalla riproduzione annua dei campi si debbono prededurre le spese della coltivazione, il vitto del contadino e ogni tributo pagato dal conta­dino; il restante sarà la porzione dominicale; e se al contadino si toglierà ogni tributo, di altrettanto verrà a potersi dilatare la porzio­ne dominicale. Dunque il tributo del contadino cade sul proprieta­rio. Lo stesso dico del tributo che paga ogni domestico salariato dal padrone dei fondi di terra, essendo che colui che non possede in questo mondo altro che il suo salario, da quello cava di che pagare il tributo; onde di tanto potrebbe sgravarsi il proprietario sulla por­zione colonica di quanto fosse aggravata la dominicale; e di tanto pure sgravarsi il padrone su i salarj de’ domestici, di quanto essi fos­sero sollevati nella consumazione; e il manifattore di tanto pure diminuire le mercedi della man d’opera di quant’essa fosse solleva­ta. Sin tanto adunque che si aggraverà la parte dominicale del pro­prietario terriere di tutto il tributo che pagavano i contadini e i sala­riati; con queste operazioni si saranno ottenuti due ottimi fini; cioè rendere più certa e indefettibile la rendita per l’erario, e sollevare il proprietario medesimo, gli agricoltori e i salariati dall’arbitrio e dal­le maggiori spese della percezione dell’antico tributo.

Ma in una nazione si considera che la quinta parte di essa vive nelle città, e sebbene questa proporzione asserita da uno scrittore, che fu dei primi a meditare sopra alcuni di questi oggetti, sia stata contrastata da un filosofo inglese, si troverà in pratica generalmente vera. Delle quattro quinte parti della nazione che vivono fuori delle città, ve n’è una porzione sensibile che non vive d’agricoltura, ma bensì sulla negoziazione. La parte che vive nelle città non è cer­tamente composta tutta di possessori delle terre e de’ loro salariati. Vi è un ceto considerabile di cittadini possessori di merci, e molti salariati dipendenti da essi, e tutta la somma del tributo che attual­mente pagano i possessori delle merci e loro salariati sarebbe una somma di sopraccarico che caderebbe sulle terre con troppo peso ai proprietarj, e con fisica e reale diminuzione della loro ricchezza.

Quando tutto il tributo fosse sulle terre egli è vero altresì che il proprietario per le consumazioni proprie, come vitto, vestito, addobbi, livree, cavalli, e loro mantenimento ec. riceverebbe un sol­lievo, poichè tanto meno dovrebbe spendere per questi oggetti, quanto era il valore del tributo che portavano, delle spese della per­cezione di esso, e dell’arbitrio a cui era sottoposto. Ma questa utili­tà sarà ella paragonabile al sopraccarico che gli piomberebbe sulla parte dominicale? Sarà bilanciata se le spese diminuite nella perce­zione saranno eguali al tributo che pagavano tutt’i sudditi non pos­sessori di terre, non salariati da essi, non contadini.

§ XXXIV. Del tributo sulle merci.

È da considerarsi oltre ciò che, qualora si ripartissero tutt’i tributi su i fondi di terra, si perderebbe affatto il beneficio che lo stato può ricevere da una tariffa ben fatta che regoli il tributo sulle merci, sì all’ingresso, sì all’uscita. Il tributo sulle merci fa l’officio di allonta­nare la nazione rivale, come le gratificazioni fanno l’officio di acco­starci alle altre nazioni in quella parte, in cui gl’interessi dell’annua riproduzione lo richiedono. Un tributo sulla uscita d’una materia prima può essere un incentivo fortissimo ad accrescer l’annua ripro­duzione col ridurla a manifattura. Un tributo sopra una manifattura estera può dar vigore a una consimile manifattura interna. Io non mi estenderò su questi elementi chiaramente sviluppati da varj scritto­ri. La direzione che può darsi providamente all’industria col mezzo della tariffa, l’accrescimento sensibile dell’annua riproduzione che si può operare col tributo saggiamente imposto sulle merci, sono beni di tale importanza ch’io credo che superino di gran lunga l’in­conveniente delle spese della percezione.

Una ben regolata tariffa può essere utilissima adunque a proteg­gere l’industria nazionale, ed a promuovere la riproduzione dello Stato: ma non perciò credo io che il tributo sulle merci possa mai far concorrere le terre forestiere al tributo nazionale; poiché o trattasi di merci estere introdotte nello Stato, e il tributo che loro s’impon­ga lo pagherà il consumatore nazionale siccome si è veduto; ovvero trattasi di tributo imposto sull’uscita delle merci nostre, e questo pure si pagherà dal consumatore estero bensì, ma non caderà mai sulle terre. Il terriere come terriere non paga mai tributo, il tributo paga sempre e infallibilmente il consumatore; egli è vero che i consumatori sono alla fine quei che possedono, poiché pagano ai non possessori (de’ quali consumano il tempo) tutte le loro consu­mazioni subalterne; però non è in qualità di possessori che pagano il tributo, ma bensì di consumatori. Se però vorrà farsi concorrere al tributo in tal modo il consumatore estero, le nazioni rivali nella ven­dita potranno annientare la nostra esportazione offrendo le merci a minor prezzo.

Credo giovevolissima allo Stato una tariffa saggiamente immaginata, e un tributo giudiziosamente imposto sulle merci, ma non cre­do che sia utile giammai il proibire l’uscita d’alcuna materia prima dallo Stato: sebbene credo utile l’imporre a quell’uscita un tributo. La ragione di ciò si è già accennata altrove, perchè le leggi proibiti­ve e vincolanti l’uscita avviliscono il prezzo, perchè al bel principio sottraggono tutto il numero de’ compratori esteri a fronte dei ven­ditori nazionali. Avvilito il prezzo, se ne deve diminuire la coltura necessariamente, e la materia prima caderà nelle mani di alcuni pochi monipolisti che non lasceranno godere alla nazione nemmeno l’abbondanza di questa materia prima, di che ho parlato più sopra: laddove un tributo cautamente impostovi fa l’effetto di allontanare il compratore estero bensì, ma non l’esclude, nè si dà luogo a nasce­re il monipolio.

Per la tutela poi di questo tributo sulle merci è da osservarsi che quanto più le merci sono voluminose e di valore, tanto più si può ac­crescere il tributo; e quanto meno ne è il volume o il valore, tanto debb’essere più leggiero il tributo: e ciò perchè quanto è più facile la frode, e quanto maggiore interesse vi è di farla, tanto più si fa; e la pena naturale del contrabbando si è la perdita della merce fraudata.

La tariffa dovrebb’essere un semplice vocabolario succinto e portatile, dove per ordine d’alfabeto si ritrovassero tutte le merci soggette a tributo, con di contro la quantità che per ciascuna si de­ve pagare in due casi: quando entri, ovvero quando esca dallo Stato. I meri transiti dovrebbero lasciarsi esenti, perchè questa esenzione sempre più inviterà il passaggio per lo Stato e il denaro che i con­dottieri vi lasceranno di gran lunga ricompenserà la poca perdita di quel tributo; perchè in secondo luogo o il tributo di transito s’im­pone indistintamente a peso, ovvero distinguendo le mercanzie in classi; se indistintamente si fa, dovrebbe pagare lo stesso tributo un centinaio di libbre di seta e oro, e un centinaio di vasi di terra, spro­porzione ingiustissima e che escluderebbe i transiti più numerosi delle merci meno preziose; se si fa con distinzione, debbono dun­que assoggettarsi alla visita le cose che transitano, e il proprietario della merce non soffrirà che passi da uno Stato dove colla presenza del solo condottiere debbe scomporsi e ricomporsi, con pericolo d’essere poi o mancante o mal rassettata. Gl’inconvenienti e i peri­coli d’imporre tributo ai transiti sono tali a mio giudizio che non sono compensati dal poco utile che può recare quella tenue porzio­ne di tributo; e la libertà totale del passaggio è tanto ospitale e con­forme alla ragione e agl’interessi pubblici che non mi pare possibile il trovarvi un inconveniente. Alcune merci pagano a misura, altre a peso, altre a numero, altre a stima del valor capitale. La tariffa dovrebbe secondar l’uso della negoziazione e tassare su quella misu­ra sulla quale si fanno comunemente i contratti. A stima di valore si dovrebbero tassare quelle merci che nella contrattazione, nè si pesa­no, nè si misurano; poiché in quel genere di merci vi è somma diffe­renza nel valor capitale anche fra due cose che avranno lo stesso nome. Ogni trasporto interno dovrebbe poi essere libero pienamen­te, e il tributo dovrebbe esser uniforme in ogni parte dello Stato sul­la merce medesima. Così la totalità del tributo sarebbe portata da tutti i fondi stabili, e da tutte le merci cadenti nel commercio ester­no; dal che verrebbero i commercianti a sollevare in parte i pesi dell’agricoltura; si lascerebbero neutrali i possessori della merce universale d’impiegarla in aumento dell’annua riproduzione, o nel­l’agricoltura o nelle manifatture; e si sarebbe posto il censo su tutti i possessori censibili.

È stato proposto il quesito se qualora tutte le nazioni si accordas­sero ad abolire il tributo sulle merci, cosicchè liberamente e senza verun carico ogni merce potesse entrare o uscire in uno Stato, se, dico, questa operazione sarebbe universalmente giovevole, ovvero quali effetti produrrebbe. Se questo accordo fra le potenze d’Euro­pa fosse sperabile è molto facile il prevedere quali ne sarebbero le conseguenze; cioè le medesime che nascono in uno Stato, togliendo­gli i tributi sulla interna circolazione. Si accosterebbero le nazioni fra di loro; si moltiplicherebbero i contratti; l’industria generalmen­te e l’annua riproduzione si rianimerebbero per tutta l’Europa; gli uomini goderebbero di comodi maggiori; ma la potenza degli Stati cioè la relazione che ha uno Stato coll’altro resterebbe la medesima. Se fosse sperabile un accordo così fortunato (nel tempo in cui nemmen si è fatta una convenzione per ridurre i pesi e le misure all’uni­formità generale, il che pure non porterebbe sacrificio alcuno o dispendio a farsi), nessun uomo vi sarebbe che volesse contraddire a una idea tanto provida e umana, che tenderebbe ad accrescere il numero de’ nostri simili, e ad aumentare gli agj della vita sopra di ciascuno. Ma sin tanto che altri Stati impongono tributo sulle merci, e che si sforzano di allontanare le nostre dal consumarsi entro i loro confini, necessità vuole che noi pure rendiamo ad essi più care le materie prime che ricevono da noi, e in paragone nell’interno consumo dello Stato aggraviamo di tributo le manifatture estere; cosicché le nostre abbiano, sempre che si può, la preferenza; che se ciò non si facesse da una nazione sola, dico che quella soffrirebbe colla massima energia i mali che posson cagionare i tributi sulle merci, e avrebbe rinunziato alla utilità che se ne può risentire.

Riassumendo la teoria del tributo io dirò che la esatta giustizia vorrebbe che il tributo venisse ripartito sopra di ciascun possessore a misura di quanto possede, ma gl’inconvenienti che altrimenti nascerebbero obbligano a escludere i meri possessori della merce universale. I soli possessori adunque dei campi e delle merci vendi­bili sono i naturali anticipatori del tributo che si paga finalmente dal consumatore. Collocato il tributo in ogni altra parte, sarà sempre di maggior peso alla nazione.

§ XXXV. Metodo per fare utili riforme del tributo.

Poche sono le nazioni, nelle quali sia il tributo ridotto a questa sem­plicità di avere due sole percezioni, una su i fondi stabili, l’altra sul­le dogane. Come mai potrà un abile ministro di Finanza sciogliere quell’inviluppata rete di tanti tributi, e gabelle, e monipoli, che attraversano in ogni parte uno Stato, e legano le azioni de’ cittadini? Il tributo, parte la più interessante ed irritabile del corpo politico, non può mai essere scomposto con violenza e con impeto. Gli anti­chi sistemi delle finanze sono vecchie fabbriche formate gradata­mente senza che una mente direttrice ne organizzasse il disegno; sono crollanti edificj che si sostengono a forza di puntelli, e lo smo­verli tutti ad un tratto sarebbe lo stesso che cagionarne la rovina. Somma cautela vi vuole nello stendervi la mano, e conviene proce­dervi gradatamente, e più con tentativi che con ardite operazioni portarvi rimedio.

Si vedono ancora gli avanzi de’ metodi co’ quali si distribuiva il tributo ne’ secoli della passata barbarie. La ignorata geometria non permetteva allora di immaginare la mappa o il catastro de’ fondi di una intera provincia; quindi o si teneva per base la popolazione di ciascuna terra, e su di essa si distribuiva il censo, il quale colle guer­re e colle pestilenze allora frequentissime in breve rendeva spropor­zionatissima la ripartizione del carico che pure si voleva considera­re immobile; ovvero si teneva per base la descrizione annua dei frutti raccolti, operazione dispendiosissima, odiosissima, e che col­locava nell’arbitrio de’ commessi la tassazione. Questo secondo metodo è il più antico, e forse più conforme alle piccole idee di esat­tissima proporzione fra le annue facoltà, e i pesi annui di ogni citta­dino che non s’assoggettava a un costante peso sopra una incostan­te ricchezza. I tributi poi sulle mercanzie erano piuttosto pedaggi in origine di un tanto per ogni carro o soma; indi si tassarono le merci colla proporzione di un tanto per cento del loro valore senz’alcuna idea di favorire o di scostare più una merce che l’altra. Crebbero i pubblici bisogni a misura che s’incivilirono le società, e s’introdusse in Europa maggiore massa di merce universale; i piccoli Stati furo­no incorporati, e diminuendosi il sistema feudale l’Europa rimase divisa in pezzi grandi, e le guerre si fecero da armate numerose e stabilmente assoldate. I vizj de’ due catastri de’ fondi stabili e della tariffa non permisero di aggiugnere sopra di essi i nuovi pesi; quin­di una creazione perenne di gabelle capricciosissime con mirabile fecondità s’immaginò ne’ due secoli precedenti singolarmente, per modo che una quantità di azioni innocenti anzi talora utili venne interdetta, si crearono nuovi delitti, si gettarono nel carcere i citta­dini, nacque una nuova legislazione penale, una nuova lingua di gabelle; tale è il prospetto che le provincie d’Europa presentano alla riforma.

Suppongo che un ministro voglia ridurre la Finanza alla semplicità di non avere che questi due soli tributi, dogane e censo sulle terre. Qual sarà la strada per cui gradatamente potrà giugnere con sicu­rezza all’adempimento d’un progetto tanto beneaugurato? Primieramente sarà da proscriversi il metodo di affittare la percezione del tributo singolarmente in masse grandi. Vi è già chi ha osservato essere la Amministrazione Regia quella di un padre che dirige gl’in­teressi di sua famiglia, ed oltre l’odio delle rapide fortune essere dannosi i grandi appaltatori per le leggi che di riverbero sforzano di promulgare. Io credo di più che un contratto frapposto che limita la beneficenza del sovrano e i bisogni del suo popolo sia direttamente nocivo ad ogni costituzione, e che pericoloso per la virtù de’ ma­gistrati sia un ammasso di ricchezze collocato presso di una com­pagnia avente perenne bisogno. Prenderà di mira alcun tributo de’ meno importanti, e de’ più odiosi che cadono sul contadino, e cominciando da quello lo abolirà, sostituendovi un proporzionato sopraccarico alle terre. Poi prenderà qualche consimile tributo che si paghi dagli artigiani o dalle università de’ mestieri o dalla negozia­zione, e con un calcolo ben pensato vi sostituirà un accrescimento nella tariffa, o generalmente un tanto per cento o particolarmente sopra alcuni capi che sieno più atti a sopportare maggior tributo. Poscia alternativamente ritornando ai tributi indiretti dell’agricoltu­ra, quindi passando di nuovo alle merci gradatamente, anderà ver­sando parte sulla porzione dominicale del terriere, e parte sulla tariffa. Così temporeggiando potrà egli medesimo veder gli effetti delle operazioni senza avventurare giammai la tranquillità pubblica, sulla quale inavvedutamente talvolta si fanno degli esperimenti troppo importanti. L’umanità non consente che s’impari l’anatomia sugli uomini vivi.

Preparerà utilmente la materia ad ogni salutare riforma il legisla­tore, se farà in modo che la nazione s’illumini ne’ suoi veri interessi, e ragioni sulla pubblica felicità. Una falsa politica regnò nel passato secolo, e i popoli s’impoverirono, e gli erarj divennero oberati dai debiti, e i sovrani perdettero quella robustezza e vigore che hanno riacquistata in tempi più felici. L’arte di reggere una nazione allora si definì l’arte di tenere gli uomini ubbidienti. Le tenebre del miste­ro ro coprivano tutti i pubblici affari. La popolazione, l’indole del com­mercio, le finanze d’uno Stato erano oggetti dei quali alcuni finan­zieri conoscevano le parti, nessuno osava o poteva rimirarli sotto un punto di vista. La strada dei pubblici impieghi non era battuta se non colla diffidenza e colla simulazione ai fianchi. Il Cielo ci accor­da un secolo ben diverso! I governi d’Europa generalmente fanno a gara per distruggere i mali ereditati da quella falsa politica. Si cono­sce e si definisce l’arte di reggere un popolo quella di rianimarlo alla prosperità. Le verità annunziate da alcuni uomini privilegiati si so­no generalmente sparse in Europa; sono queste salite al trono de’ be­nefici sovrani, si sono scossi gl’ingegni, e coll’affritto reciproco si va diffondendo quest’elettricismo che rischiara gli oggetti relativi alla pubblica felicità; materia degna certamente delle meditazioni nostre più ancora di quello che lo sono le verità astratte, i fenomeni della natura e i fatti dell’antichità; confini troppo angusti, entro de’ quali si volle ristringere per lo passato l’impero della ragione.

Prova di quanto asserisco lo sono i libri pubblicati in questi ultimi tempi in ogni nazione, in ogni lingua sull’Economia pubblica, sul commercio, sul governo civile, sul tributo; libri nei quali con sicu­rezza e con libertà gli autori hanno posto nelle mani del pubblico quegli arcani dei quali sarebbe stato un attentato solamente il parla­re in altri tempi. Si è discusso e ridotto a problema, se i regolamenti e le leggi sopra alcuni oggetti pubblici sieno utili o no. Ognuno del popolo può instruirsi, può pensare, può avere la sua opinione; nè agli autori è accaduto verun male, anzi molti di essi furono rime­ritati e dalle loro opere giudicati degni de’ pubblici impieghi. L’abile ministro adunque fomenterà nel pubblico la curiosità d’instruirsi negli oggetti di Finanza e di Economia; ne fonderà delle cattedre, acciocché nella instituzione della gioventù uomini illuminati le imprimano i veri principj motori della felicità pubblica; lascerà libe­ro l’ingresso alle opere che versano su di queste utili materie; lascerà libera la stampa, col mezzo di cui ogni cittadino possa decente­mente e costumatamente manifestare le sue opinioni su i pubblici oggetti. In tal guisa dibattendosi in un liberale conflitto le opinioni su questa classe di oggetti, facilmente se ne schiudono ottime idee, e frammezzo ai sogni e ai delirj germogliano talvolta dei semi utilis­simi alla prosperità dello Stato.

Quanto più il pubblico sarà illuminato, tanto più sarà giusto estimatore delle beneficenze che emanano dal trono; docile alla ragio­ne, grato alla sovrana provvidenza, non s’ascolterà sussurrare tra un popolo colto quel maligno rumore, che fa impallidire talvolta il ministro appena stenda la mano per rimediare ai vecchi mali d’una società. I Sully e i Colbert, sappiam dalle storie, quanto abbian do­vuto lottare per molti anni.

Aggiungo a questo che quanto più il popolo sarà illuminato, tanto il sovrano sarà più sicuro che i ministri operino il bene dello Sta­to; poichè i magistrati quand’anche per sentimento non cercassero il ben pubblico, che è il bene del Principe, saranno tanto più costret­ti ad operare utilmente quanto più avranno aperti gli occhi i cittadi­ni, e saranno essi accorti e intelligenti osservatori della loro condot­ta. Promovere adunque i lumi e la curiosità nelle materie di Finanza e di commercio sarà sempre la preparazione migliore di tutte per cominciar le riforme.

§ XXXVI. Se il tributo per sè medesimo sia utile o dannoso.

Rettificata che sia la distribuzione del tributo e ridotta alla sempli­cità di due soli principj; facilitata così la circolazione interna; reso libero il trasporto, sciolto ogni vincolo coercitivo dell’industria; ri­dotti i cittadini a vivere sotto leggi chiare, semplici, umane, inviola­bili; dato un libero corso alla buona fede, protetta con ogni vigi­lanza; non v’ha dubbio che la nazione si vedrà progredire al bene. Ma potrà chiedersi se il tributo ben distribuito sia utile o no all’in­dustria nazionale? Varj autori opinarono per il sì, appoggiandosi su questo principio. Il tributo impoverisce gli uomini, dunque accresce i loro bisogni, dunque dà loro una nuova spinta per essere indu­striosi. A questo ragionamento, a me sembra che se ne possa contrapporre un altro, ed è il seguente. Il tributo sottrae per qualche tempo alla circolazione una parte sensibile della merce universale; dunque diminuirà la circolazione e seco lei diminuirà l’industria: poichè diminuiti i mezzi di procurarsene l’adempimento, si frene­ranno le voglie, e diminuendosi queste scemeranno immediatamen­te i contratti, siccome si è più volte detto, e scemandosi i contratti la circolazione per quella cagione si rallenterà. Di più il tributo è una diminuzione dell’utile prodotto dalla industria; dunque minore stimolo avranno gli uomini per essere industriosi. Riflettono alcuni che nelle città più floride si pagano i più gravosi tributi, e quasi sem­brano a questi attribuirne la prosperità, la quale invece è cagione si sopportino senza discapito i gravosi tributi. Se qualche volta su gli Stati animati da una estesa industria una cattiva operazione non produrrà apparentemente mali effetti, ciò avviene perchè le grandi masse, dove la materia sia ben compatta, riscaldate che sieno sono più lente a perdere il calore. Quanto più è ristretto uno Stato, tanto egli è più facile il rianimarlo, siccome il condurlo alla rovina. A misura che le masse d’uomini grandeggiano, maggior tempo e spinta vi vogliono a dar loro moto sì al bene, come al male.

È seducente la pittura che può farsi a persuadere che il tributo sia un bene. Osserviamo generalmente le nazioni della Terra, vedremo
i climi più dolci, i paesi più fecondati dal sole esser popolati da nazioni povere, mancanti d’attività e che appena conoscono industria; per lo contrario i climi i più ingrati, se non restano deserti, sono abitati da nazioni ricche e da popoli industriosissimi. Vi fa bisogno di un freddo sommo perchè l’uomo inventi abitazioni deliziose, nelle quali si respiri un’aria soavemente tepida nel maggior rigore dell’inverno. Vi fa bisogno del mare che sovrasti minacciando di sommergere una nazione perchè ivi le terre diventino i più fecon-
di giardini del mondo, ricchi di cose peregrine. Poni un popolo sopra di un sasso nudo e sterile, minacciato d’una continua fame, e
lo vedrai diventare il più ricco e abbondante del contorno. La voce dispotica del bisogno mette l’uomo nell’alternativa, o perire o esse-
re industrioso, e l’abitudine va sempre al di là dei bisogni, onde il lusso e la delizia regnano su quel suolo medesimo sul quale la natu-
ra vi aveva piantata la morte. I tributi fanno l’effetto della sterilità: poichè se un campo coltivato da dieci uomini in un paese fecondo produrrà l’annuo frutto per nodrire trenta uomini, resteranno al proprietario del fondo le porzioni di venti uomini ch’ei potrà salariare, e questa sarà la di lui rendita. In un clima ingrato sopra un’estensione eguale di terreno, il lavoro di dieci uomini darà frutto per mantenere venti uomini, ed ivi il proprietario non ricaverà se non di che mantenere dieci uomini. Ma se nel terreno fecondo s’imponga un tributo per cui il proprietario della terra debba pagare la metà della sua rendita, non resteranno più se non dieci uomini anche a quel proprietario da poter mantenere. L’effetto adunque del tributo sulle terre rispetto al possessore si è il medesimo di quello dell’infecondità originaria sul suolo. Taluni dicono adunque: se l’originaria infecondità spinge l’uomo all’industria, l’effetto medesi­mo si otterrà coll’infecondità artificiale prodotta dal tributo.

Ma questa maniera di ragionare non regge, perchè manca di un dato. L’uomo vede più facilmente i confini immutabili della fisica, che i variabili e fluttuanti delle opinioni di chi lo governa. Una lun­ga sperienza venutagli per tradizione gli fa conoscere quali ostacoli fisici debba superare per continuare a vivere su quel terreno sterile sì, ma prediletto, perchè vi è nato; misura le sue forze coll’ostacolo, sa che colla tale quantità di lavoro potrà superarlo, e godrà poscia con sicurezza il frutto del suo tavaglio. Ma quando la infecondità è artificiale, l’uomo vede un odiato ostacolo, che può ingrandirsi a misura che si accresceranno i di lui sforzi per vincerlo. L’uomo si avvilisce per il peso che gli viene imposto, diminuisce la confidenza verso chi regge il suo destino, e si abbandona all’indolenza.

Io credo adunque che un tributo generalmente sia sempre una diminuzione d’industria, eccettuato soltanto qualche tributo oppor­tunamente imposto o sull’uscita o sull’entrata di alcuna merce; nel qual caso può essere di giovamento positivo all’industria. Per cono­scere che il tributo è generalmente una diminuzione d’industria, ascendiamo a quei principj, dei quali si è accennato altrove qualche cosa. Se in una nazione non si pagasse tributo, e vi fosse un’organiz­zazione di governo necessaria a mantenere una società; qualora un’estera nazione fosse ingiusta verso di lei o minacciasse d’invaderla, bisognerebbe che una parte della nazione abbandonasse l’agri­coltura, e i mestieri, si ponesse in armi, e accorresse alla pubblica difesa frattanto che l’altra parte della nazione resterebbe occupata nell’annua riproduzione, con cui mantenere e sè stessa e i suoi difensori. In questa ipotesi non può dubitarsi che verrebbe scemata l’industria nazionale e l’annua riproduzione di tanto, quante sono le braccia che avessero abbandonata l’agricoltura e i mestieri per la pubblica difesa. In vece di ciò; in vece di togliere all’occasione del bisogno le braccia all’agricoltura e ai mestieri, si sono assoldati degli uomini i quali per lor professione si sacrificano unicamente alla difesa dello Stato, e in vece di trasmettere immediatamente parte delle derrate e delle merci necessarie al vitto de’ difensori, i proprietarj di quelle e di queste le cambiano colla merce universale, e la consegnano all’erario per alimentare i difensori. L’effetto sarà dunque il medesimo in un caso come nell’altro; cioè che l’industria sarebbe assai maggiore, e sarebbe maggiore la riproduzione annua se fosse eseguibile il chimerico progetto di abolir tutt’i carichi, sic­come il più stupido e il più crudele fra gli uomini che disonorasse il trono di Augusto osò proporre al Senato di Roma.

Sempre sarà più innocuo il tributo quanto più celeramente passerà dalle mani del contribuente all’erario, e da questo agli stipendia­ti o alle opere pubbliche, poichè allora, sebbene siasi dato un moto forzoso a una parte della merce circolante, ella però ritornerà nella contrattazione col minore intervallo possibile a moltiplicare i con­tratti e tanto più sarà innocuo il tributo quando si distribuisca sul luogo medesimo che lo contribuisce, e quanto più si dividerà in molte mani uscendo dall’erario.

§ XXXVII. Dello spirito di Finanza e di Economia pubblica.

È una osservazione degna da farsi la seguente, che i principj che debbon muovere il ministro di Finanza sono in gran parte diversi dai principj che debbon muovere un ministro di Economia pubbli­ca. Le leggi di Finanza se sono indirette sono pessime; le leggi di Economia pubblica per lo contrario sono pessime se sono leggi dirette. Mi spiegherò. Se nella Finanza vorrà percepirsi un tributo per legge indiretta: per esempio proibire a tutt’i cittadini un’azione, non già perchè realmente si voglia essa impedire, ma affine che comprino la dispensa per farla (delle quali leggi in molti paesi ve ne sono), dico che questo tributo indiretto costerà alla nazione assai più di quello che ne ricava l’erario, e importerà molte volte la ve­nalità, la corruzione e una dispersione di tempo in uffizj. Laonde se chiaramente e direttamente la legge di Finanza ordinasse il pa­gamento di una somma corrispondente sul fondo censibile, sareb­be assai più naturalmente e placidamente collocato il tributo. Si esaminino tutt’i casi in cui il tributo è indiretto, e troverassi che hanno ragione i molti autori che trovano questa forma sempre viziosa. La Finanza deve sempre andare di fronte e con semplicità a ricercare dai contribuenti il tributo. Ella si spinge direttamente al suo fine.

Ma l’Economia pubblica debbe andar sempre per le strade indi­rette. La Finanza ha per oggetto legar meno che si può la nazione nel ripartimento del tributo. L’Economia pubblica ha per oggetto di accrescere al maggior grado possibile l’annua riproduzione. Nella Finanza vi debb’essere più imperio e attività. Nell’Economia pub­blica vi vuole più delicatezza e più sagacità. Alcuni esempj rappresenteranno con chiari contorni le mie idee. Suppongasi che si voglia accrescere la popolazione dello Stato, dilatare la coltura su i terreni abbandonati, perfezionare i frutti del paese: dico che queste provi­de idee rovinerebbero una nazione se fossero promosse con leggi dirette, e se il legislatore invece d’invito e di guida si servisse della forza e del comando. Le leggi dirette sarebbero, per esempio, proibi­re la evasione dello Stato, ed obbligare ogni cittadino giunto ai 20 anni ad ammogliarsi. Comandare alle comunità di mettere a coltura tutte le terre del loro distretto. Comandare il metodo di preparare la seta, l’olio, il vino raccolti ne’ proprj fondi. Gli effetti di queste leg­gi dirette e vincolanti sarebbero la spopolazione e la desolazione dello Stato. L’evasione crescerebbe, perchè l’uomo ama meno lo stare dov’è costretto, che dove spontaneamente soggiorna; sarebbe­ro ripiene le carceri d’infelici cittadini non d’altro rei che di non aver tradita una fanciulla associandola alla loro miseria; sarebbero le comunità esposte alle esecuzioni militari, per non aver coltivata quella terra, per la quale mancavano le braccia; gli sgherri e la feccia degli uomini romperebbero l’asilo delle domestiche mura per inquirere su i metodi prescritti per le preparazioni. In questa ebulizione interna la confusione, il disordine, l’avvilimento si spanderebbero in ogni parte, e si rifugierebbero i popoli affannati presso i finitimi, cercando una nuova patria, ove tranquillamente passar la vita, sicu­ri di goderla in pace, sintanto che le loro mani saranno monde da ogni delitto.

Il provido ministro di Economia pubblica indirettamente cammi­nerà a questo fine, colle preferenze ed onori renderà rispettabile lo stato conjugale; rianimerà l’industria col toglierle i ceppi, collo spia­narvi le strade, coll’assodare la proprietà, preziosissimo bene del­l’uomo sociale, col procurare agli abitanti un’intima persuasione della sicurezza propria, nel che solo consiste la libertà civile; snoderà l’attività degli uomini, in una parola, per tutti que’ mezzi che si sono veduti, e ne verrà in conseguenza che la popolazione crescerà, si dilaterà la coltura, si perfezioneranno le arti tutte.

§ XXXVIII. Quale sia la prima spinta che porti rimedio ai disordini.

Si è veduto quai siano i principj motori dell’industria, quali gl’inciampi che ne impediscono lo sviluppamento. Si è in seguito osser­vato con qual metodo si potrà dai ministri operare una benefica riforma nello Stato. Resta finalmente ch’io aggiunga qualche cosa per indicare in qual modo io creda che i sommi arbitrj del destino della società possano dare la spinta a una felice rivoluzione. Se gli uomini sono esseri sovranamente dominati dalla abitudine, se gli antichi usi, e le leggi, e i costumi ereditati, e de’ quali siamo imbevu­ti dall’infanzia formano la ragione della maggior parte degli uomini, questo singolarmente poi si verifica nei tribunali, i quali come corpi immortali lentissimamente removibili dalle opinioni seguitate, otti­mi custodi di quelle leggi e di quel sistema dello Stato, da cui nasce l’ordine, difficilmente abbracciano alcuna novità. Ogni nuovo individuo collocato a sedervi forza è che si spieghi alla comune maniera di sentire, e quanto più il tribunale è venerabile agli occhi del pub­blico, tanto più ogni individuo risentendo la gloria d’esservi ascritto si renderà cara e propria la opinione di tutto il ceto. Non mai si è veduto che un ceto di più uomini collegialmente radunati abbia potuto o eseguire o tentare qualche riforma.

Un’unione di più uomini raccolti anche per una nuova adunanza difficilmente si creerà da sè medesima un comune principio univer­sale, a cui tendano le sue opinioni. Ogni individuo, supposto anche della più retta e imparziale intenzione, ha sempre i suoi privati pun­ti di vista, dai quali rimira l’oggetto; e siccome l’unione di più archi­tetti collegialmente raccolti non produrrà mai una regolare ed uniforme struttura di un disegno; così nemmeno io credo che un ceto di uomini a guisa di tribunale possa mai organizzare un regolato sistema di riforma. Che se poi le passioni, le simultà, le propensioni, le quali talvolta per umana debolezza entrano negli animi, vengano a frammischiarvisi, l’attività degli uomini impiegati si disperderà in tutt’altro che negli oggetti immediatamente destinati al servizio del sovrano, cioè al bene del pubblico, di che ne vediamo gli esempj nelle storie, e i fatti domestici di molti Stati ne fanno testimonianza. Dovunque siasi fatta mutazione essenziale, dovunque con qualche rapidità e felice successo si saranno sradicati gli antichi disordini, si vedrà che questa fu l’opera di un solo lottante contro molti privati interessi, i quali, se a pluralità di voti si dovessero singolarmente dibattere, altro non cagionerebbero, che lunghe e amare defatigazioni. Quindi a me sembra che se in tutte le cose, le quali hanno per oggetto l’esecuzione delle leggi già fatte, è utile, anzi indispensabile il farne dipendere la decisione dalla opinione di più uomini; per lo contrario dove si tratta d’organizzare sistemi e dirigere il corso a un determinato fine, sorpassando le difficoltà che si frappongono, e che tutte non possono mai prevedersi, necessità vuole che quest’im­peto e questa direzione dipenda da un sol principio motore; sicco­me la dittatura fu appunto presso i romani nelle cose ardue adope­rata felicemente, e per lo contrario l’instituzione de’ decemviri col disgraziato esito che sappiamo. Quando si tratta di decidere i casi particolari a norma delle leggi già pubblicate, la diversità delle opi­nioni umane rende appunto difficile l’ingiustizia, perchè l’una con­tempera l’altra; ma quando si tratta d’agire, e di una azione pronta, spedita e sempre uniforme ad un fine, io non credo potersi ciò far dipendere dalla pluralità di voti.

Convien dunque nell’Economia politica, singolarmente quando si tratti di ridurla a semplicità, riformando i vecchi abusi, convien, dico, creare un dispotismo che duri quanto basta ad aver messo in moto regolarmente un provido sistema.

§ XXXIX. Carattere d’un ministro di Finanza.

Considerare sempre gli uomini fatti per gl’impieghi, non mai gl’impieghi per gli uomini; saper resistere a qualunque officiosità, non conoscere nè familiari, nè clienti, nè amici; pesare i servigj che può rendere il soggetto che si sceglie, non la persona che lo propone; avere ogni particolare sentimento in disposizione di annientarsi tosto che s’ascolti la sacra voce del dovere; conservare in mezzo a ciò un costume umano e dolce che faccia al pubblico sempre più accetta la forma di amministrare il tributo; amare sinceramente il buon esito della commissione senza rivalità, e con una imparziale ricerca del vero e dell’utile; sapersi internare ne’ dettagli senza dimenticare i tronchi maestri e il tutto insieme; conoscere per inti­ma persuasione i principj motori dell’industria; avere analizzata la natura dell’uomo e della società; amare con uno spirito di vera filan­tropia il bene degli uomini; conoscere esattamente le circostanze del paese sul quale deve operare: tali sarebbero i talenti che formereb­bero un perfetto uomo di Finanza; al quale potrebbe il Principe confidare una piena autorità necessaria per fare un buon sistema. Ma la natura non è prodiga de’ suoi doni.

Quanto più sarà grande il numero degli uomini illuminati nella nazione, tanto maggiore sarà la probabilità che il sovrano ritrovi l’uomo che somigli al carattere che se ne è fatto. È inutile ch’io sog­giunga quanto sia necessario l’averlo ben definito e provato prima di concedergli nelle mani un’autorità così estesa e tanta influenza sulla tranquillità del popolo. È inutile pure ch’io dica quanto debba esser forte e costante la protezione sovrana verso dell’uomo trascel­to, contro di cui in ogni paese non mancheranno d’alzarsi reclami e accuse. Tutto convien che vada nell’epoca della riforma colla maggiore sollecitudine e attività, acciocchè quest’epoca sia più breve che si può, e termini coll’avere organizzato un sistema regolare, pla­cido e niente arbitrario; e in quel momento felice cessi il potere dell’uomo e ricomincino a regnare le sole leggi. Poichè gli uomini muojono, ed i sistemi restano; e convien scegliere gli uomini per gl’impieghi, come se tutto dovesse dipendere dalla loro sola virtù, e organizzare i sistemi, come se nulla si dovesse contare sulla virtù degli uomini prescelti; e come cessato il bisogno per cui s’era creato un dittatore sinché Roma fu felice, l’autorità di esso s’annientò; così pure cessata la necessità nello Stato, l’amministrazione delle Finanze già rettificata e resa semplice potrà confidarsi anche a un ceto di più uomini custodi di una legge già fatta e confacente agl’in­teressi della nazione.

§ XL. Carattere d’un ministro d’Economia.

Ho detto quali debbon essere le qualità di un ministro di Finanza. Da quanto ho toccato appare altresì quai talenti debba avere un ministro di Economia. Egli debbe sopra ogni cosa essere attivo nel distruggere, cautissimo nell’edificare. La maggior parte degli ogget­ti su i quali verte, ricusano la mano dell’uomo. Rimuovere gli osta­coli; abolire i vincoli; spianar le strade alla concorrenza animatrice della riproduzione; accrescere la libertà civile; lasciare un campo spazioso all’industria; proteggere la classe de’ riproduttori singolar­mente con buone leggi, sicchè l’agricoltore o l’artigiano non temano la prepotenza del ricco; assicurare un corso facile, pronto e disinte­ressato alla ragione de’ contratti; dilatare la buona fede del commer­cio col non lasciar mai impunita la frode; combattere con tranquil­lità e fermezza in favore della causa pubblica ben intesa: di quella causa che è sempre la causa del sovrano; non disperare mai del bene, ma accelerarne l’evento diffondendo nella nazione i germi delle più utili verità. Questi e non altri sono gli oggetti che debbono occupare un abile ministro di Economia pubblica, il restante forz’è abbandonarlo al principio immediato motore dell’universo che agisce con immutabili leggi, unisce e scompone gli esseri, ma niente depreda, niente lascia inoperoso così nel fisico che nel politico; principio di cui vediamo alcuni effetti, conosciamo l’esistenza, am­miriamo le leggi, e con un vago e non mai definito vocabolo chia­miamo natura. Felice colui che nel suo cuore la serba, e ubbidiente alla voce di questa figlia dell’Onnipossente ne calca il sentiero e lo indica a chi l’ha smarrito! L’errore solo, le opinioni incatenano gli uomini e guidano le intere nazioni alla squallida sterilità.