Diario

Giambattista Biffi
DIARIO (1777-1781)

Testo critico stabilito da Giampaolo Dossena (Milano, Bompiani, 1976)

[1777]

[1] Io Giambatista conte Biffi figlio del conte Gianambrogio patrizio cremonese comincio questo dì primo ottobre 1777 a scrivere alcune cose notabili per gli altri, e interessanti per me che accadono in questa mia patria; cosa che mi ero proposto di fare da gran tempo in qua, e che ora voglio eseguire. Se da qui a molt’anni questo mio giornale caderà in mano d’un curioso d’antichità, chi sa che non diventi una curiosa cosa.

[2] Morì di parto il dì 4 ottobre la signora Luiggia Vacchelli sposa del dottor Girolamo Gabella: donna più virtuosa di questa non la conobbi, aveva cento virtù. Il di lei marito infelice, la madre, i fratelli, i domestici strappavano il cuore. Fu sepolta in San Leonardo.

[3] Il dì 18 ottobre la sera a tre ore di notte arrivò in Cremona andando a Vienna l’arciduca nostro governatore Ferdinando d’Austria con la moglie madama Beatrice d’Este; allogiarono in casa Crivelli; l’aspettammo il senatore Masnaghi, il comandante della città conte Luigi di Tradich tenente maresciallo, l’intendente conte Passalaqua, il marchese Fraganeschi ed io. Non volle ricevere verun altro. L’arciduca si tratenne a parlare meco; mi chiese dei raccolti; delle inondazioni, e del temporale del dì 18 d’agosto del quale s’era sparsa fama per tutt’Italia. La matina del dì 19 ch’era domenica fissò questo signore di partire. Eravi oltre la corte del dì antecedente il barone Montani, il signor giudice Grecchi, ed il signor vicario Parravicini. L’arciduca si mostrò alegro, mi parlò della di lui salute, che asserì essere buona, disse publicamente: “Se si dà un bue ad un villano, ciò è a stima, e non a peso; ed io, io devo essere stimato a peso!” volendo aludere al di lui dimagramento. Aveva chiesti alcuni libri al marchese Fraganeschi; ne legeva il frontispizio, quando ne trovò uno sul come garantire gli edifizi dal fulmine, al quale era premesso un testo d’Ezechiello; mi richiese se credevo che i profeti s’intendessero d’eletricità; le risposi ch’essi non se ne mischiavano, ma che per obligo di mestiere dovevano predire che noi ne avremmo inteso molti misteri, e specialmente il nostro celebre don Giambattista Volta di Como. Si mostrò contento della risposta. M’interogò sulla marchesa Ali che stava morendo, e m’accorsi ch’era non bene impressionato del marchese Gianfrancesco. Dopo la colazione sortirono li arciduchi ad udire la messa in San Nazaro, ed alla porta della chiesa montarono in carozza i due principi, il principe Albani, e la contessa Confalonieri, e partirono per Mantova.

[4] Il giorno 22 la sera arrivò da Mantova il signor conte ministro plenipotenziario nostro conte de Firmian in compagnia dell’ambasciadore della nostra corte a Napoli conte di Wilcech stato già mio amico in Milano anni sono. Non andai la sera a fare la mia corte a sua eccellenza che allogiava in Vescovato, ma mi ci portai la matina vegnente; fui accolto con moltissima bontà, ed accompagnai que’ signori al Duomo, a Santa Margherita, a San Domenico, a San Lorenzo, a San Pietro al Po, a vedere le pitture che le mostrai io. Volle andare alle Scuole regie a vedere la fabrica della scala, e della libreria che si fa sotto la mia direzione: fui a pranzo con loro dal vescovo monsignor Fraganeschi, e dopo pranzato andammo alla rotonda di San Luca, ed al museo ornitologico del dottor Giuseppe Sonsis, ove sua eccellenza si tratenne sin quasi a un’ora di notte, ed ammirò il bel gabinetto di storia naturale, e le belle preparazioni d’uccelli di questo industre, e rischiarato citadino. Mi disse il ministro che altre volte aveva vedute le pitture nostre, ma non credeva averle vedute che questa volta solamente; mi parlò molto della mia opera che sto scrivendo delle vite de’ nostri pittori, e mi collaudò la racolta delle iscrizioni patrie.

La matina del dì 24 fui a vederlo partire. Sembrò che il vescovo si fosse rapacificato meco, e fosse rinvenuto dalle antiche sue idee. Fui ad assistere ai funerali della povera marchesa Ali che si fecero in San Nicolò. Il mio caro, il mio incomparabile amico Ximenez aveva assistito quella povera dama in una maniera unica; aveva passate le molte notti di seguito senza svestirsi, e senza dormire.

[5] Con lettera di sua eccellenza il signor conte ministro plenipotenziario in data dei 28 ottobre mi si partecipò che la corte mi aveva assegnato una pensione; picciola a dir vero, ma che mi fece grandissimo piacere per la maniera graziosa colla quale spontaneamente mi si diede senza ch’io avessi mai niente richiesto. Si venne con ciò ad aggradire il da me operato nella soprantendenza di queste regie Scuole della città e provincia, le quali a dir vero, mi sembra, che prosperino. La fabrica della publica libreria, e della scala che v’introduce che si va facendo colla mia assistenza, e col dissegno dell’architetto valente nostro citadino Giovanni Manfredini, va avanzandosi verso il suo compimento. Sono giunto alla fine a vedere adempito una mia idea!

[6] 21 novembre. My dear little gearl is returned from his confinement at home to her mother. This amiable andsom poor creature was baseli betrayed by a cremonese Thomas Incle, by a Ioseph Leman; to be brief by a rapcy fellow for whom she had a pardonable wecness. Poor destitute wholli of confort, rit habits, forsaked by wholli word, end principaly by this profligate and wicked rascal she had recourse to me, and I take them on me protection: I put her in the castle telling to her mother that his gearl was to Placenzia. After his childbed she was brought back again at home.

The thoukfulness of this decent creature was not to be sead; il name is A… Debuisson son of a Frenc man setled here. If i am not in love for her, I own at last that I have a strong affection for this handsom mead.

[7] Il dì 21 novembre giunse in Cremona il marchese Francesco Viale mia antica conoscenza di Genova, patrizio di quella republica, fratello della contessa donna Giulia Schinchinelli. Questo cavagliere è uomo di grandissimo ingegno; originale ed amabile in tutte le cose sue. Si pose anni sono in corispondenza coll’imperador di Marocco; andava sulle traccie dei Medici; la sua patria, e l’Italia lo guardava attonita: non so qual contratempo interuppe le vaste sue idee: le auguro che le possa eseguire; egli è un generoso signore. È partito oggi 25 novembre.

[8] Quest’istesso giorno 25 novembre un Francesco Moretti calzolaro di professione in età di quasi settant’anni stando ad una finestra a farsi la barba provò a tagliarsi la gola, ma sentendo dolore si pose a chiedere aiuto gridando forte, e nel tempo stesso si slanciò dalla finestra: sopravisse poche ore. Si disse per città che aveva fatto così pei scrupoli, e di fatti in quest’ultimi anni non lavorava, ma stava sempre in chiesa a pregare. La di lui moglie, ed una sua figlia fecero già lo stesso. Anche Catone si amazzò, anche Bruto, ed Ottone, ed il Lord Peterborugh, ma questi erano poltroni secondo il padre curato di San Vittore che non sapevano sofrire i mali della vita, ed anche secondo il padre Farina carmelitano scalzo; il nostro Moretti al contrario per un tanto nobile motivo… alcuni pensarono che fosse pazzo. Era della parocchia di San Matia, e fu sepolto in chiesa. Un requiem per lui.

[9] Martedì 2 decembre essendo a passare la sera in casa de’ signori Vacchelli ad un’ora e mezza di notte vidi al nord-est una belissima aurora boreale, la quale come era di ragione fu guardata dal nostro fedelissimo popolo come indizio, o di guerra, o di peste, o di carestia di vino, essendo l’aria rossa.

[10] Circa questi giorni comperai alla subasta dell’ultimo de’ Cambiaghi un belissimo quadro di San Giovanni Battista nel deserto di Lavinia Fontana. Poi in un’altra subasta comperai due gran paesi del Bassi, il celebre Baccanale che è certo o di Guido, o dell’Albano, ed un stupendo crocefisso di Vincenzo Campi nostro: questi dipinti erano della famiglia Crotti di Sant’Ilario già estinta; il marchese Pesci che ne fu l’erede li fece vendere. Altri gittano i zecchini scomettendo che una carta verrà alla destra piutosto che alla sinistra, o pure li spendono per amore della virtù colle virtuose: io impiego que’ pochi soldi che ho ne’ viaggi, in quadri, ed in libri. Mi scusi la nobiltà riverita se mi dò in tal modo un ridicolo, e sono un stravagante.

[1778]

[11] Martedì 21 genaro del 1778. Ho spedito a Milano il rimanente de’ documenti provanti i dugent’anni di nobiltà generosa della mia famiglia, li trasmisi al marchese Giambattista Fraganeschi oratore della città di Cremona residente in Milano.

[12] Non si parlava d’altro in Cremona che dell’atrocità d’un fatto comesso in Pavia da un cadetto del regimento Caisroug chiamato Pessina, il quale uccise in sua camera un certo Fusi gioielliere milanese, attirato da Milano a Pavia con finte lettere d’un supposto gentiluomo che voleva comperare diamanti: ammazzatolo lo tagliò in pezzi, e lo pose ad incenerire in una stufa. Ammazzò in oltre un laché acciò non lo scoprisse. Il valore de’ diamanti rubati, montavano al prezzo di sette in otto mila zecchini. Quel mostro fu arotato.

[13] In questi giorni è piena la città di cose che diconsi di don Agostino Cavalcabò regio delegato. Si ritrova a Milano da più mesi, avendole don Ferrante Cavalcabò intentata una lite per dimostrare ch’egli non è altrimenti di quell’illustre casato, ma dei Perini. Il povero don Agostino che non ebbe mai il talento di farsi amare dal popolo, da questi è preso di mira, né mai mi è venuto fatto di sentire contro d’un citadino tante cose, tanti auguri di male, ogni uno ingrandisce le di lui iminenti pretese perdite, ogni uno si rallegra sperandole, e dandole per sicure. Chi vuole che si definirà dall’araldico che non dovrà più dirsi Cavalcabò, chi diceva sarà scancellato dal ruolo del Collegio, altri che la moglie non starà più seco. Se fossi ne’ suoi panni quanto più d’ogni altra cosa mi umilierebbe un odio tanto universale! quanto temerei che vi potesse essere qualcheduno che dasse ragione a quel poeta che scrisse Interdum vulgus rectum videt.

[14] A dì 24 genaro 1778 per mezzo del residente veneto a Milano Soderini, che me le procurò da Venezia ricevetti da ben quarantadue lettere inedite del conte Francesco Algarotti. L’edizione di Livorno delle opere di quell’uomo immortale essendo essausta, e non corettissima, Lorenzo Manini libraio nostro ne intraprende una ristampa. Il conte di Firmian l’approva; i miei amici di varie parti d’Italia la sospirano. I nostri valenti Guerini e Manfredini ne faranno uno il ritratto, l’altro il frontespizio in buona architettura. L’abate Ximenez coreggerà i testi latini, e greci; io l’inglesi ed i francesi; Ferdinando Giandonati il testo italiano. Sono stato pregato a scrivere il manifesto. Con quale piacere vedo ristamparsi, aumentate di tanto, le opere di quel genio sovrano, l’onore d’Italia, del quale mi vanterò sempre d’essere stato discepolo, e d’averlo conosciuto ne’ tempi dell’infante don Filippo a Parma, tempi della mia adolescenza ne’ quali vissi con un Frugoni, con un Condilliac, col Pagnini, col Mazza, col marchese Manara, con Adeodato da Parma, il solo uomo capucino che mi abbia conosciuto. Con un tanto maestro, e con tali modelli sott’ochio che non avrei potuto sperar di fare? La stiticheria de’ miei distrusse ogni cosa prima che si facesse.

[15] 3 marzo ultimo giorno di carnovale dell’anno di poca salute perché piovoso 1778. Non si ricorda da nessuno esservi stato un carnovale più sciocco di questo; tutti questi miei signori cavaglieri miei confratelli si vanno chiedendo l’un l’altro la cagione di tanta tristezza, e non la sanno vedere; dissi che la cagione si doveva forse cercarla nascosta, e rifuggiata in due o tre camere del palazzo publico; in quelle dei Dieci, e delle Vettovaglie massimamente. Povero popolo mi strappa il cuore! vittima maltrattata sempre di cento inconstanze, della non curanza d’alcuni, e massimamente dell’ignoranza di noi patrizi. Il pane monta a 7 lire il peso; il vino commune 24 lire la brenta, la legna forte 90 lire ogni misura detta ronga, la dolce 64 lire, e non trovarne se non se con grandissima difficoltà; le ova due soldi e mezzo l’uno; il butiro 20 soldi la lira; un capone cotto otto lire: questi non erano i prezzi de’ generi nei tempi de’ nostri maggiori quando in carnovale si facevano le belle mascherate.

Il nuovo vicario di provisione marchese Antonio Lodi ha fatto publicare la grida delle vettovaglie da me fatta durante il mio vicariato, ma non la fa poi eseguire. Mi si anunzia dal canceliere di quel tribunale essere venuti in determinazione i signori che lo compongono di mettere in esecuzione il mio piano di pannizazione, da me ideato per ordine del governo, applaudito allora, né mai più eseguito. Sono stato, dico, pregato a volere soministrare dei lumi. Non lumi che non ne ho, e ne fanno bisogno pochissimi, ma il mio cuore vorrei comunicare, che è lealmente bramoso del bene della mia povera patria.

[16] Si è sparso per città essere imminente una guerra tra l’imperadore nostro alleato colla Francia, Spagna e Porta Ottomana, ed il re di Prussia alleato della Moscovia, e dell’Inghilterra. Li eroi pagati cinque soldi al giorno se ne vanno come la nebbia al Bosco Parmigiano: questi Marti non amano la guerra.

[17] A cursed old iade who was in her beggining veri preti wouman, m’ayant temoigné une passion violante, je l’obeis: elle se lassa de moi et s’attacha à un jeun coxcomb a veri bad fellow, le quel l’ayant plantée la, elle fit toutes sorte de follies so that she becemes a prototipum of folli and impertinence to volle world. After many discourses lows, indecents, and wuvorti against me, ayant écrit une lettre stupide a ce jeun homme qui se publia, et qui lui attira les risées du public, elle eut l’impudance de me l’atribuer, et l’on trouva que cette lettre étoit écrite de sa main.

[18] 4 marzo del ’778 a sei ore di notte. Eviva la quaresima, e mora il carnovale! Questo dopo pranzo sono sortito a fare un giro per città in una carozza nuova all’inglese; ed i miei stolidi concitadini mi anno accordato più di stima per ciò che questa carozza costa 300 zecchini che non avrebbero fatto se avessi publicamente esercitato una qualche virtù sociale. Fui a visitare il mio amico marchese Gianfrancesco Ali amalato, indi fui a cena dalla contessa Giulia Schinchinelli. I convitati erano il marchese Antonio Pallavicino, il marchese Antonio Araldi, don Pietro Barbò, don Carlo Albertoni, il conte abate Tinti, il conte Giovanni Schizzi, il conte Giacomo Schizzi, il marchese Luigi Picenardi. Si rise, si mangiò, si declamò, si mormorò, si cantò, si ramemorò, si racontò, si bevve, si scaldò, ma non si raggionò, forse per un mezzo quarto d’ora in un angolo della sala in secreto, e di nascosto per non scandolizzare la nobiltà riverita da due galantuomini.

[19] 7 marzo sabato sera. Ieri ed oggi mi sono annoiato come una bestia chiuso in stanza senza potermi applicare a niente in grazia d’una flussione di denti che mi cagiona della febre. Noia, e dolore sono due benedizioni della vita, e due argomenti fertilissimi da scriverci sopra due belissime disertazioni, o diatribe metafisiche da essere incoronate nella reale academia de Topurbeninculgerometta.

Non est vivere sed valere vita.

[20] 8 marzo. Predica nel nostro Duomo un certo padre Baroni lucchese, il quale è giunto a Cremona carico di lettere di racomandazione quanto una ballerina. Costui dice più spropositi che parole, stiracchia la Scrittura come una calzetta, e dà per supposte cose insupponibili: mi si dice che non è fatto per piacere né ai colti uomini, né al popolo per le molte metafore che usa. Dunque argomento io piacerà ai prevosti che sono le metafore del buono, e dell’onesto, e l’esagerazione del loro mestiere. Povero pulpito del Duomo di Cremona! Dopo essere stato calcato da un Sanesino e da un Pietrarossa riformati, da un Venini, Vanini, Giuliari, Manzi, Pellegrini, Rossi e tant’altri valentuomini gesuiti, da un Costaguti servita, ora è calcato dal padre Baroni di San Vittore. Requiem eternam dona ei Domine et lux perpetua luceat ei.

[21] 14 marzo 1778. Dal dottor fisico Manusardi si ha che pochi giorni sono a Castel Vetro di là dal Po una donna abbia partorito cinque figli in una volta una femmina e quattro maschi, tutti vivi, e benissimo formati, che sono però morti tutti. La partoriente stava malissimo, né si sa se possa rimettersi.

[22] Questa matina giorno 17 marzo del ’78 sono partiti da Cremona i granatieri del regimento Caprara incaminandosi in Germania. Il mio buono, e leale amico Otone Gomez de Bariento mi ha abbraciato colla maggior tenerezza. Che Dio accordi a questo bravo uffiziale fortuna, e gloria. La di lui onestà, i di lui lumi, i talenti de’ quali è fornito lo rendono meritevole d’ogni bene! Che i bronzi prussiani rispettino l’uomo virtuoso!

[23] 20 marzo 1778. Il corpo de’ fucilieri del regimento Caprara è arivato questa matina per proseguire il di lui viaggio in Germania. Il cavaliere de la Tramblai altre volte da me creduto mio amico faceva da maggiore. Partita quest’ultima truppa il povero stato resta deserto: tutto il tributo sortirà dal paese. I soli cinque mila uomini che coprivano lo stato spendevano 50000 zecchini l’anno; ed il presidio stabilito dovrebbe essere di 20 mila uomini. Io per me spero ancora che quest’iminente guerra possa svanire; si scrive che il ministro di Prussia sia ancora in Vienna. Dio volia che non vi abbia ad essere guerra. Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi.

[24] Oggi giorno 3 d’aprile 1778 è giunto da Vienna l’arciduca Ferdinando coll’arciduchessa Maria Beatrice d’Este di lui sposa. La contessa Confalonieri, ed il principe Albani li accompagnavano: si fermarono all’albergo della Colombina a pranzo; alle ore dieciotto prima che partissero mi presentai alle loro altezze reali e ne fui accolto graziosissimamente. L’arciduca mostrò interessarsi alla mia salute, e mi fece su ciò le domande le più clementi.

[25] 17 aprile 1778. Venerdì santo. È partito questa matina da Cremona per Lamagna alla testa di due squadroni di usseri del regimento di Greven il magiore barone di Gerhart amabile uomo pieno di bonarietà, col quale si amavamo come fratelli; quell’anima sensibile all’amicizia nel congedarsi da me non poteva quasi tratenere le lagrime. – Ieri sera giorno del giovedì santo poco popolo era attorno per la città; moltissime boteghe erano aperte; quel divoto passeggio delle sette chiese era quasi deserto, mentre mi ricordo nella mia infanzia che era quelli un solenne giorno: anche dalla divozione si traeva divertimento. La notte iluminata; le finestre ornate di tapeti, e di belle signore; le strade ceppe di popolo; trombe, sacre imagini, sordine, confraternite, sacchi, piedi scalzi, battuti, liti per la mano tra que’ che visitavano le chiese, qualche omicidio, e molte incarnazioni, tutto questo insieme divertiva. La divozione è pure una bella cosa! La filosofia non vale un corno!, con quel suo semplicificare annoia mortalmente. E il padre inquisitore che non c’è più che faceva tanto bella vista andando atorno tronfio accompagnato dai Patentati, dall’alfiere del Sant’Offizio, e da Longino?

[26] Mercoledì 22 aprile 1778. Ho passato tutta la giornata ad esaminare carte vechie per provare che io sono nobile per quatro parti cioè pel padre e madre di mio padre ducent’anni adietro, e per padre, e madre di mia madre per altri dugent’anni dietro: alla fine ho ritrovato ogni cosa e posso prendere la croce di Malta. È un gran bel piacere l’essere nobile, e saperlo di certo: questi era il piacere del barone di Tundertantrunch. Ma mi sono seccato mortalmente. Essere asicurato da una bella ragazza che mi vuol bene mi piace assai più che essere dichiarato nobile da un tribunale araldico. Che gusto depravato!

[27] Giovedì 23, mese ed anno sudetto. È partito questa mattina alla testa di due squadroni di usseri del reggimento Grecwen il collonello Paolo conte di Bethlem, ciambellano delle loro maestà, col quale ancora ero legato d’amicizia. Partendo ha lasciato una memoria cara di sé.

[28] 24 aprile 1778. È intieramente fuori di pericolo il patrizio don Giulio Cesare Bonetti giureconsulto collegiato conte e cavagliere, e ristabilito da una sofferta violentissima malatia. Questa è stata un fenomeno politico relativamente al paese. Si era già sparso che non aveva che pochi giorni a vivere l’anzidetto cavagliere; la nobiltà tutta, trattine alcuni giovani, diceva perduta la città colla perdita di quest’uomo solo; chi si sarebbe più potuto consultare ne’ publici, e privati affari, chi avrebbe sciolte le gravi difficoltà, chi scritto a nome del publico colla dignità, e sapienza che era propria di questo grand’uomo? Tridui, divozioni a spese de’ privati gentiluomini, le chiese aperte per lui, ecc… Qual cittadino ebbe mai testimonianze più autentiche nella sua patria dell’amore, e della stima universale del suo ordine! Il popolo al contrario diceva essere un guadagno, e non una perdita la morte d’un patrizio duro, superbo, freddo e indifferente a togliere que’ disordini che sono il flagello della plebe: il povero non avere mai trovato presso di lui protezione, o conforto; ne’ di lui vicariati la scarsezza dell’annona aver sempre afflitto i bisognosi, e la di lui negligenza nell’esercizio della sua carica avere arrichito pochi botegari e prestinari non togliendo le frodi. Una sera in San Vittore essendo esposto il Santissimo, il sacerdote pregò il popolo di racomandare a Dio un cavagliere benemerito della patria, e de’ poveri, ed in chiesa si alzò un bisbilio di disapprovazione.

Don Giulio Bonetti è un uomo di buon senso, e di molto criterio; ha fatto lunghi studi e prolissi, si è impadronito delle materie patrie, ed ha tutte le notizie che sono relative all’interessi del paese nostro; nella facoltà legale è un maestro, e si può definire con certezza un vero giureconsulto: circospetto nel parlare sino allo scrupolo, mantenitore della parola data, e sopratutto buon patriota. Comparve in Cremona finiti i di lui studi in tempo che regnava un’ignoranza universale nell’ordine de’ patrizi: ebbe subito grandissimo credito; ogni suo detto era un oracolo; non veniva contradetto mai; si abituò per modo a non esserlo, che allorquando ne’ successivi tempi lo fu qualche volta le riusciva la cosa disgustosissima oltre modo. Avezzo ad essere il primo in ogni cosa, non amava chi fosse stato guardato come secondo per tema che un giorno non le disputasse il primato. Ne’ publici congressi avaro di parole, quall’ora in un affare non avesse veduto l’ottimo, non voleva abbracciare il partito che dall’ottimo meno d’ogni altro si discostava; in fine per nessun modo voleva mai aver fallato, né arischiare il di lui credito neanche in prò della patria: d’un esteriore freddo, taciturno, e susiegato, le veniva dal popolo imputato a superbia ciò che era il suo naturale. Io l’ho stimato, ed ho cercato ogni strada da farmene stimare, ma sempre però con quell’onorata franchezza che caratterizza l’uomo dabene, mai con adulazioni, o somissioni cieche ch’egli stesso deve disprezzare in que’ che usanle seco lui. Non so d’essere riuscito nel mio intento; mi guardava forse come imprudente credendo io d’esser sincero; forse mi credeva troppo realista, forse non mi perdonava di non amare i gesuiti del mio paese essendo egli terziario; forse… e che so io! Ho cento argomenti da credere che non mi ama; so di certo che mi ha fatto delle carezze; altronde lo credo sincero; come conciliare tutto ciò? Non lo saprei.

[29] Ieri 25 d’aprile ho auto in regalo dal signor Nicola Nicolai banchiere mio amico una preziosa tavola di Boccaccio Boccaccino, ramemorata dal Panni nel Distinto raporto ecc.

[30] 8 maggio 1778. Il marchese Giacinto Arigucci ha dato oggi in sua casa una magnifica colazione a quel corpo di nobiltà che ha preso l’uniforme. Questa idea venne in mente a due o tre de’ nostri cavaglieri che vestirono un abito verde con mostre, e colarino rosso ed asole d’oro, sottoveste e calzoni color di paglia, pretendendo fare un abito uniforme da campagna, e da viaggio. Mi fu comunicata questa idea, e l’approvai moltissimo, e mi feci io pure questo uniforme: alle volte gli uomini si legano con ciò che lega i fanciulli; chi sa mi dicevo a me stesso che questa fanciulagine non produca degli ottimi effetti! che si sminuisca con ciò quello spirito di disunione che purtroppo regna fra noi, forse che si limitassero le spese superflue che si fanno pel troppo lusso degli abiti. Molti cavaglieri fecero dunque questo tale uniforme; si formò una spezie di corpo, al quale si diede il nome tedesco di Land-uniform.

L’individui che vestono quest’uniforme sono sua eccellenza il conte di San Secondo, Giacinto marchese Arigucci, Luigi marchese Picenardi, Giuseppe marchese Picenardi, Luigi conte Vernazzi, Giuseppe marchese Maggi, don Luigi Maggi, Giambatista conte Biffi, don Pietro Barbò, don N. N. Barbò, Gian Luca conte Radicati, Giacomo conte Schizzi, Ercole marchese Persichelli, Luigi marchese Dati, Antonio conte Asti, don Luigi Asti, Carlo conte Ponzoni, Antonio marchese Pallavicino, Antonio marchese Araldi, don Costanzo Cazzaniga, Antonio conte Crotti, Giorgio conte Barai, Antonio marchese Cataneo.

Che non dissero su questa unione i miei dabene cremonesi, in ciò solo simili alli ateniesi d’essere pettegoli, curiosi, e frivoli, quante stravaganze non dissero, e non pensarono? Alcuni se ne scandalizavano, altri mormoravano; vi fu sino chi disse che il conte Crotti ed io volevamo di questi uniformisti farne de’ liberi muratori. I politici sussuravano che il governo non lo avrebbe permesso, e che noi tutti avressimo finito per esser posti in castello: le intenzioni che avevamo erano prave; gli effetti sarebbero funesti. No viscere care logoro che abiamo questo vestito, tutto è finito, credetelo, anime dolcissime, e bo…ne, benefiche voglio dire.

[31] 4 giugno 1778. È seguita una comica sfida al caffè di Sant’Elena tra il conte Radicati ed il marchese Dati, ed è stata comicamente composta: le sfide, ed i duelli dai longobardi sino a noi sono sempre state in uso tra i popoli guerieri.

[32] 8 giugno del ’78. Ho acquistato due bei pezzi di quadri di Paolo Veronese per un picciolissimo prezzo, ed ho auto da Ferrara un Giusto Lipsio d’Anversa plantiniano stupendo anche questo per pochi quatrini, cosiché la mia galleria, e la mia libreria s’aumentano. Le lettere, e le belle arti m’interessano ancora alcun poco; spendo i miei pochi soldi in ciò che può onorare un galantuomo. Il mio signor zio mi guarda come un scialaquatore; forse amerebbe meglio che spendessi in giuoco ed in puttane.

[33] 11 giugno del 1778. “Bella quella canna” diceva il conte abate Schizzi al marchese Ercole Persichelli in casa Dati, “bella quella canna, oh vita come è bella, essa ha il pomo d’oro! tu dovresti cedermela.” “Nepure se mi dassi sessanta zecchini” rispose il marchese pavonegiandosi d’avere una canna con pomo d’oro poco avezzo a veder canne con pomo d’oro, ed ancor meno avezzo ad averne; “te la donerei piutosto che vendertela se ti volessi lasciar applicare sul culo ventiquatro bastonate con quest’istessa sublime canna.” La dama intanto sorideva angelicamente alla generosa proposizione, e gli astanti soridevano. L’eroe Schizzi compostosi in aria cogitabonda dopo due minuti di seria considerazione, “Se tu scherzi,” le disse, “io non scherzo, farò nota al mondo la nobiltà del mio carattere, e la spartana mia fermezza, ti prendo in parola, dammi le ventiquatro proposte bastonate, e la canna è mia, eccoti il culo”, ed in così dire si coricava col ventre in giù ed a natiche in aria sopra il letto della dama, che Imeneo, non amor scomposto avea. Il prode marchese si vede preso in parola a non essere superato in generosità non vuole disdirsi, e recatosi in nobile, e fiera aria caporalesca s’accinge alla preclara intrapresa, e con nervoso braccio scarica sul culo del mio abate le ventiquattro fatali bastonate in cadenza di arpa che la bella marchesa donna Antonia toccava con mani d’avorio soridendo alla gentile impresa.

Si alzò a stento dal letto il vincitore, e consegnatale la canna la baciò, se la strinse al seno, ed abbenché si regesse male sulle gambe “Io triomphe” andava sciamando. “Mi figuro come avrai concio il culo abate mio”, le disse un non so chi, una generosità tira l’altra, “Cosa mi date, e ve lo mostro?” “Una pezza di Spagna”, “Qua la pezza”, e si cava i calzoni, e mostra le natiche illividite e sanguinose. Sopragiunge di lì a non molto un altro, ed “Anch’io” dice “vedrei volentieri il bastonato culo, ma non vo’ spendere una pezza, se bastassero quattro paoli…” “Sì bastano”, e con eccesso di compiacenza cala i calzoni, e mostra alla gioiosa compagnia il nobile abate il glorioso deretano.

Si sparge fratanto l’aventura per la città, ed il popolo ad applaudire alla generosità, alla fermezza, al nobile coraggio de’ suoi patrizi. Si affissero agli angoli delle contrade de’ cartelli postovi sopra: “Chi avesse canne a provare vada dal conte Lodovico Schizzi che tien sempre il culo pronto a ciò, e lo mostra per pochi pavoli”.

La curia vescovile esaminò il caso, e voleva proferire scomunicato latae sententiae il marchese vapulante, e scomunicato ferendae sententiae il conte vapulato. La curia pretoria avrebbe voluto farne un’affar suo per zelo di cavarne quatrini. Romanino a Milano rapresentò il fatto in piazza con le marionette metendo i veri nominativi agli attori.

I due eroi passegiano gloriosi per la città, e sono accolti alla taolette delle signore; “Che matti”, vanno dicendo, “Come sono allegri!” Chi è capace di simili viltà dovrebbe essere cacciato da ogni buona compagnia: tra noi se uno fa una buona azione, o non si raconta, o non si cura, o si guarda chi la fece come un don Chisiotte; si sorride al contrario alle porcherie, alle basezze, alle turpitudini. Noi guastiamo la testa delle nostre donne, esse in ricompensa ci avviliscono il cuore: le donne avrebbero ad essere l’eccitamento e la ricompensa delle belle azioni, come lo furono già un tempo; dovrebbero frenar dal male disprezzando que’ che lo comettono: ma sciocche che sono accarezzano qualunque sciocco che con loro giuochi, che con loro vadi in carozza, le accompagni al teatro, e rida stolidamente di tutto, e detragga con una stupida malizia al buon nome altrui. I nostri coglioni di Padri della Patria non si formalizzano, né si scatenano contro simili viliacherie, e malediranno un giovane di merito che non anderà alle quarant’ore tutti i giorni. Molti popoli del nort che noi diciamo barbari, infliggono delle leggi penali contro chi non rispetta se stesso, e noi colti, noi illuminati, noi sondiamo alla basezza, e dialoghizziamo colla vergogna familiarmente.

[34] 12 giugno 78. E viva Cremona mia cara patria produttrice feconda in ogni genere d’eroi, e di massimi avenimenti. Un certo signor Fulgonio nostro citadino grandissimo amatore di reliquie, e racolitore indefesso, e grande inteligente di queste, ne possiede un tal numero che ne ha un sachetto pieno. E che non fa il babione con queste reliquie! benedice febri, doglie, catarri, e se qualche volta può avere chi si creda o egli giudichi osesso allora è proprio a nozze. Andò ieri per comissione della madre signora Perucca vedova a visitare e benedire una delle sue ragazze; passando per una stanza vede la signora Brigidina Perucca maritata in Ronchi che stava con della micrania sopra un letto, ed il mio Fulgonio la giudica inspiritata adrittura. Sente il giudizio la signorina, e per divertirsene comincia ad urlare, questi corre col sacchetto delle reliquie; la signora a scarmigliarsi, e tiratoselo vicino, fingendo sempre che fosse il diavolo che operasse, le diede tanti schiaffi, tanti pugni, tanti calci che non si possono numerare, poi non contenta trovandosi alla mano un pezzo di legno lo bastonò talmente che sortì dalla casa ansante, sbuffando, gli ochi fuori dalla testa, e la lingua fuori di bocca; corse da una sua cugina, e le raccontò il fatto accaduto dicendo che mai aveva trovato un diavolo più feroce di quello della signora Brigidina, che guai a lui se non avesse auto quelle sue autentiche reliquie, sicuramente il demonio lo avrebbe amazzato, ch’era stato crudelmente bastonato, e ciò perché non essendo esorcista, aveva voluto esorcizare, ma che a costo della vita voleva però tornarvi un’altra volta, farsi bastonare pazienza, ma liberare quella bella ed infelice signorina indemoniata.

Sensus o Superi sensus! A fulgure et tempestate libera nos Domine.

[35] 18 giugno ’78. Ogni giorno si sentono nuovi tratti di venalità per parte di chi amministra la giustizia. Oramai il denaro fa tutto, giustifica, condanna, assolve, o costituisce reo. Si rubba con impudenza. D’onde ripetere si habbia questo disordine non so precisarlo. Alcuni l’atribuiscono all’impiegare uomini di niuna educazione, di cativo cuore, poveri, ed esteri, e di bassa estrazione. Il paese si lagna, ed il povero geme. Il misero citadino non dovizioso che deve far valere le sue ragioni è mangiato vivo da queste maledette arpie, è roso sino all’ossa dall’imonda vermina de’ notai, causidici, dotori, procuratori, attuari, giudici, ecc. ecc. ecc. ecc. ecc., deve pagare i passi, le parole, i pensieri, le solecitudini, le diligenze, le negligenze, le verità, le bugie, le firme, gli atti, le soscrizioni, i palmari, le visioni, le verificazioni, le addizioni, le dizioni, le autentiche, il diavolo che li porta tutti… Povera patria mia quelle cautele imaginate con sapienza ad evitare l’inganni, sono convertite in fonti inesauste di perenni turpissimi inganni! il povero non ha scampo contro l’opressione! troppo difficilmente si può strappare il velo detto consuetudine all’iniquità! O Ferdinando mio buon principe seconda i moti del tuo benefico cuore, amazza quest’Idra, strappa le corna di questi Acheloi, taglia le braccia a questi Briarei; se vi riesci, tu sarai un Ercole non favoloso! Ora ti amo e allora ti adorerò: libera la mia patria dai mostri; tu che ne hai il desiderio, e la forza, e perché non lo fai? Tu sarai il mio eroe, l’idolo degli omini da bene; le benedizioni dei popoli, credilo principe virtuoso, le troverai pur dolci: tu che hai saputo già disprezzare nell’età tua giovanile le lodi delli adulatori, fa’ di più, bevi il delizioso profumo delle lodi meritate: la tua anima onesta è fatta per questo piacere; Dio e gli homini ti benediranno; quanto v’ha di prospero ti ariverà. Deponi quella malfidenza che cercano d’inspirarti; in ogni nazione vi sono de’ cativi sogetti, ma la nazione in corpo è buona. Confida gl’impiegi ai nobili nazionali; credilo generalmente riusciranno; quanti freni avranno a non comettere il male, che gli oscuri forestieri non hanno. E se tra questi poi trovi de’ giudici venali ed iniqui, de’ ministri infedeli, allora ricordati di quell’antico re del qual parla la storia che fece scorticare un giudice corotto, ed inchiodar la di lui pelle sul tribunale sul quale dovevano sedere i suoi successori.

[36] 18 giugno 78. Oggi giorno del Corpus Domini siamo comparsi in processione noi altri giureconsulti collegiati per la prima volta fregiati della nuova medaglia della quale ci ha voluti insigniti la corte: questa medaglia è della grandezza d’una dopia, e sicome a Venezia vi sono li sbirri del zecchino, così a Cremona vi saranno li cavaglieri della dopia. I dottori componenti il collegio sono: don Giulio Cesare Bonetti gran giureconsulto; don Agostino Cavalcabò regio delegato economo sotile; Giovanni conte Schizzi che sa amobiliare un appartamento con grazia; Alessandro conte Schinchinelli che è un cavaliere; Antonio marchese Lodi il di cui elogio, o il di cui biasimo sarebbero troppo prolissi, e difficili a farsi adequatamente; Giambatista conte Biffi umilissimo servitore di loro signori; Ignazio marchese Zucchelli che ha fatto ogni sforzo per imparare; Giulio marchese Vaini che è un bel giovane ed ha studiato a Roma; don Lorenzo Ferrari regio avocato fiscale di quest’illustrissima curia, che se il Signore lo avesse fatto morire bambino si sarebbe potuto dire che lo avrebbe tolto di buon’ora dalla malizia del secolo; don Cesare Mussi che morirà vecchio coll’inocenza batesimale; Giambatista marchese Fraganeschi oratore della patria in Milano uomo d’ingegno, e di cuore, caldo nell’onestà e nella verità, il conte di Chatam della patria; Berardo marchese Regazzi che è il marchese Regazzi; Giuseppe conte Crivelli un rispettabile signore; Giorgio marchese Stanga stabilito a Parma per un amor sventurato, dato alla divozione per proprio conforto ed edificazione altrui, grandissimo matematico, che ha fatto delle scoperte nuove e delle aggiunte al tratato degli infinitamente piccioli.

[37] 20 giugno 1778. È giunta in questa fedelissima città la notizia della morte seguita in Parigi del celebre signor di Voltaire. Morì questo genio dell’età nostra adormentato dall’opio preso per sbalio in troppa quantità. I nostri preti che non le hanno fatto dire prima di morte?

[38] 24 giugno 1778. È morto in Milano il cavagliere Isimbaldi, ed ha lasciata vedova donna Madalena di lui consorte nata marchesa Beccaria: poche donne ho conosciute del merito di questa. La marchesa Viale di Genova, la marchesa Giandemaria di Parma; donna Camilla della Somaglia, ora contessa di Casalgrasso; e poi, e poi qual pazzia di scrivere questa nota!

[39] Circa questi giorni è morto in Milano il conte Sigismondo Brumani nostro patrizio cremonese. Questi era o stravagante, o scemo, o fatuo. Aveva preso in affitto una casa in Venezia, e non vi stava mai: era andato a Milano per una setimana, e vi stette vent’anni; portò un tabarro estate e inverno per sedici anni; signore di grandi rendite giuocava, e perdeva, non esigeva il suo, andava cencioso; roso dai pidocchi era mostrato a dito per Milano come un pazzo. Non prese moglie, ed alcuni pretendono che fosse impotente. Due sorelle sue la marchesa Gadi, e la marchesa Crotti ereditarono il suo, così finì in lui la schiatta de’ Brumani. Sicome gli alberi nelle selve finiscono in ponta, così pure finiscono gli alberi genealogici delle famiglie generalmente; dopo il fondatore che è sempre un qualche gran capitano intorno al mille, o al mille e cento, se pure non è un qualche discendente de’ reali di Francia, o di Scozia, o di Napoli, o d’uno di que’ re non mai trovabili nella storia, e solo rinvenibili ne’ romanzi, dopo il fondatore dico, vien via il tronco grosso grosso per una lunga serie di scudetti rotondi; di quando in quando lateralmente ne spontano de’ ramicini che presto si esicano, ed il ramo maestro ornato di mitre, di capelli , di cimieri, di corone da conte, e da marchese va a finire sottile sottile, in punta picciolissima nell’ultimo rampollo che ordinariamente è un qualche gran barbagianni. Che Dio accordi la sua santa grazia alli ultimi de’ loro casati, e dia loro il paradiso! Povera patria i bei cognomi antichi delle illustri tue famiglie si spengono, e cosa vai aquistando di nuovo per rimpiazzarli?

[40] 25.th Iuly 1778. Miss Pallavicini is no longer to be called by that name. She is Ladi Scotti. May she make Count Scotti as happy as I would have made happi her, if it not be the fault of my circunstances, the situation of my heart, and above of all the strange manner of thinking of mi uncle, a empti, rougthly man.

If I should be less strictly honest and disingaged in my affections, I dare say I should be blessed with this good-hearted well breaded ghirl. Unapy passion for a deceitfull woman, ow many wrongs have brought to me! T’is already the second match that I have declained, the second occasion to be happi. Lady Somaglia first, and Lady Pallavicini now, were proposed as wifes to me.

Mys Aurelia Pallavicini is the daugther of Marquis Mutius Pallavicini and Lady Mari Zaccaria sprung of the eminents familis of my ow contri. She is a tall ioung wouman all lovely and blooming; pretti if not handsom; she has declared that I only and no other… Poor thinck, my heart is torn in pieces at the consideration of motives of my denial. I who would not maring the greatest princess on heart if I were not assured that she loved me above all the mens where I deserve it or not: I had meet a woman suitable to that manner of thinking. I shall live a single man; my house is ended; I am last of posterity of my honests ancestors. May the man who shall have the honour to call Miss Pallavicini his be as desserving as she is! Then will they live togheter a life of angels 105!

[41] 28 luglio 1778. Coi fogli publici ho ricevuto la trista nuova della morte di Giangiacomo Rousseau citadino di Ginevra. Il più gran genio del secolo è morto: quegli che in tutto s’assomigliava a Socrate fuor che nel volto, il dotto, l’equo, il giusto, il vero il sapiente uomo del secolo è morto! Egli era il mio padre, la mia scorta, il mio maestro, il mio idolo. I di lui scritti dettati dalla sapienza stessa sono sempre stati per ritirare gli homini dal vizio, e condurli alla virtù. Altri dotti del secolo decimo ottavo hanno scritto delle grandi cose, niuno ne ha prodotte, e publicate delle tanto sublimi, e vere, e oneste quanto lui. Ha auto per nemici tutti i fanatici, i sciocchi, i preti, l’impostori, i traditori, i menzogneri; ha auto per amici tutti gli homini da bene, tutte le anime sensibili.

Viveva questo filosofo a Parigi, ma anche il soggiorno di quella capitale le era venuto a noia abbenché vi fosse solitario, e vi disprezzasse tutte le grandezze. Si ritirò con sua moglie nel castello di Ermenonville diocesi di Senlis presso il marchese di Girardin, il quale lo aveva pregato ad occupare un appartamento nel suo castello sino a che le avesse fatta erigere un’abitazione nel di lui parco ove avesse potuto menare una vita analoga alle sue idee; quando la notte dei trenta giugno cessò di vivere per una colica nefritica.

Il degno marchese ha fatto imbalsamare il cadavere di quel grand’uomo, e si prepara a farle erigere un sepolcro là in quel bel parco che Cesare ammirò peregrinando in Francia e che tutti i passageri comendano. Perché non ho protratto il mio viaggio sino a Parigi quando due anni sono fui in Francia non per altro che per vedere quel grandissimo uomo! Felice terra ch’or lo rinchiudi. Faccio voto sin d’ora di andare ad Ermenonville a visitare il Santo Sepolcro di Giangiacomo, del grande, dell’illustre Rousseau.

[42] Tra la fine di luglio ed il principio d’agosto di quest’anno è morto qui in Cremona il conte Alessandro Luccini Passalaqua, che era regio intendente delle finanze cavagliere che amavo come un mio fratello.

[43] 16 agosto di quest’anno alle vent’un’ora in circa si alzò un turbine che cagionò del danno nel contado, sopratutto ammontichiando il lino disteso pei campi, che il vento sconvolse, e trasportò lontano mischiando, e confondendo quello d’un vicino con l’altro. In città si vedevano le arene del Po colla polvere delle strade formar nuvole portate impetuosamente in aria. Accade che ne’ contorni della piazza di San Domenico molti citadini avevano poste delle brugne a seccare sopra i tetti; il vento le faceva piovere sulla piazza: alcune divote che sortivano di chiesa all’aspetto di quella insolita grandine rientrarono nel tempio, e con lagrime esclamavano prostese all’altare di Nostra Signora del Rosario: “Ah Beatissima Vergine liberateci dalla tempesta nera!”

[44] 20 agosto del ’78. Si scarseggia di grano, e si scarseggia d’aqua per macinare. Il popolo geme, e si adira contro i patrizi. Una mal fondata paura lo scorso anno fece fare una provista di grano che si pagò a carissimo prezzo; poi essendo decaduto il grano stesso, il povero popolo pagava il pane in ragione del grano a sedici lire lo staio, e non si vendeva che a undici, dodici lire. Viene il nuovo raccolto, il governo permette che mercanti esteri vengano ad incettar grano in provincia, ed il grano aumenta subito di prezzo. I bottegari, ed i prestinari non vegliati da vicino dal tribunale di provisione che non vi pensa, o poco almeno fanno cento frodi. Il vicario di provisione marchese Antonio Lodi va pochissimo in visita. Il sistema presente di annona è il più diffettoso che imaginare si possa. Essendo io vicario di provisione in tempi difficilissimi fui incaricato di stendere un nuovo piano di pannizazione; lo feci; fu approvato, anzi applaudito dal governo, e poi non fu eseguito, e fratanto quidquid delirant reges, plectuntur Achivi. Ora che vi è siccità non si sa come macinare, anche ciò per mancanza di previsione, e di providenza. I fornai fanno mille briconate, celano i contratti, nascondono le farine, notificano falso i grani di loro ragione, il pane è nero, mal cotto, pessimamente faturato: a ventitré ore non si trova più pane, ed il misero giornaliere vede sprovisto sé, e la sua famiglia di susistenza. Ieri sera più di quatrocento persone armate di bastoni, divise in varie truppe andarono a tor pane per forza dai prestini, ove ne trovavano; alcuni giorni adietro andarono vari barcaiuoli di Po a chiedere providenza al marchese Lodi vicario che era in casa San Secondo, perché i fornari non avevano voluto travagliare per ciò che la camera delle vittovaglie aveva abbassato il prezzo del pane. La faccenda, se le cose seguitano così, non vuol finir bene.

Un nuovo piano stabilito, che se non previene tutti i diffetti, almeno tolga molti dissordini, un’autorità più estesa al vicario di provisione per tempo; questi non estratto a sorte dalla bussola dei dottori di Collegio , ma scielto dal Consiglio generale; e poi per parte di questo magistrato, zelo, diligenza, amore del bene del popolo, disinteresse, e non risparmiare fatica in visitare, ed usare rigore in punire; sono questi i soli mezzi di aiutare, sollevare, e proteggere la porzione più proficua degli abitanti, la classe degli artigiani.

[45] 22 agosto 1778. Mi si presentò con lettera del capitano Minific il dottor Warner ecclesiastico anglicano di moltissimo merito. Mi lasciò il di lui indirizzo: To Reverend Dr Warner, Bernards Inn, London.

[46] Giovedì 27 agosto 1778. È morto quest’oggi a vent’un’ora d’infìamazione formata alla vesica il signor don Stefano Biffi fratello di mio padre, in conseguenza mio zio. Egli era figlio del conte Giambatista Biffi e della contessa Brigita Biffi di Santa Marta. Aveva ereditato più del carattere degli ascendenti della di lui madre, che del carattere dolce dell’avo mio paterno. Appassionato per la caccia, e tutto dedito all’agricoltura aveva contratta la durezza di quell’essercizio, e la stiticheria di questa occupazione. Giusto, ed incapace d’una frode, o d’una menzogna; ascoltava ogni uno con pazienza, e dava dei consigli di buona fede; egli che si credeva capace di darne. Economo sino alla lesina senza pratica di mondo che non aveva mai frequentato; divoto, ma però tolerante percioché tolleranza non costa soldi; di talenti limitatissimi, persuaso d’intendere l’economia superiormente, non conosceva che il risparmio senza essere riuscito mai ad accrescere il patrimonio della casa con quell’industria onesta che viene dalla mente, e non disdice al cuore. Uomo di poche parole, di niuna sensibilità; indeciso sempre ed in tutto non ebbe mai un amico; non lo cercò per prudenza, e per cautela. Mi amò nella mia infanzia, e lo riamai di cuore; poi fu contento di me per la mia condotta, ma discontento perché spendevo; finì per stimarmi, ma non amarmi; le sembrava vedere in me un dissipatore, un uomo a idee maggiori del proprio stato. Io né lo stimavo, né l’amavo, e m’affligevo di non poterlo né amare, né stimare. Nell’ultima sua infermità sono stato sinceramente afflitto vedendolo sofrire; non ho più veduto in lui l’uomo duro, ma solo uno de’ miei ascendenti che perdevo; non mi sono trovato sensibile al piacere d’essere libero, e di potermi garantire da tante privazioni, ma ho pianto la sua morte ricordandomi quanto mi amasse da fanciullo. È morto di 74 anni.

[47] Sabato 29 agosto del 1778 giorno in cui celebraronsi i funerali di don Stefano Biffi mio zio che fu sepolto questo giorno in San Lorenzo nel sepolcro della famiglia, non so perché, o per qual ragione il principe Spaccaforno siciliano che si trovava in Cremona venne improvisamente a visitarmi. Parlammo di varie cose, ma specialmente di politica, governi, interessi de’ principi, geni de’ popoli, diffetti d’intiere nazioni, disordini di legislazioni. Il principe parlò sempre buon senso, e si mostrò un viaggiatore che guarda; si fermò meco due ore; partì da me esagerando le da lui supposte in me cognizioni mie. This lord was spokin so bifore the only wouman… A sentiment of mercy, of tendernes, it may be of love was reneuved in his heart. After then wole years… I was comanded to stay before her. My almigty God whose darling attribute is mercy to be mercifull on her, on me. And… but I am wandering..

[48] Dopo una lunghissima malatia è morto il marchese don Camillo Manfredi Pesce essendo ancora di fresca età, ma pregiudicato dai disordini. Aveva questo cavagliere sortito dalla natura una grande prontezza di spirito, moltissima vivacità, non mediocre memoria; poteva passare per uomo d’ingegno. Non si era applicato mai a verun studio seguito, né poteva combinare le idee de’ filosofi, o servirsene a produrne di nuove, ma aveva invece un vero talento di unire le idee le più disparate, dalle quali rissulta il ridicolo, e difatti les rieurs étoient touiour de son coté. Ottimo patrizio ne’ civici magistrati non la perdonava a fatica, né ad applicazione per disimpegnare lodevolmente le incombenze che le venivano date. Il popolo lo apprezzò nel tribunale di provisione. Protettore de’ carcerati s’adoprò moltissimo per que’ miseri. Pronto in ogni occasione per li amici non si rifiutava a scrivere, ed a parlare ai ministri dei loro affari. Tante belle qualità svanivano alla considerazione ch’era giocatore, e di professione. I suoi scherzi alle volte erano un po’ troppo acuti. Ci rimane un suo figlio che mostra ingegno, e voglia d’applicare. Voglia il cielo conservarlo acciò conservi alla patria una rispettabile famiglia patrizia.

[49] 22 dicembre 1778. Un fanciullo di nobile famiglia del ducato di Milano per nome Giovanni Piantanida in abito da chierico scacciato crudelmente da un suo zio paroco è venuto da Varese a Cremona, ove maltrattato, languente e sprovisto d’ ogni cosa in età di dodici anni poco più era un oggetto di vera compassione. L’ho accolto, l’ho posto in pensione, e lo tengo alle scuole. Dio facci che corisponda alle mie premure!

[1779]

[50] Venerdì 4 febraro 1779 è partito per Milano sua patria il fanciullo da me ricoverato che si era dato il nome di Giovanni Piantanida, ed in realtà era un don Giovanni Carnago figlio di don Giuseppe Carnago; questi venne a riprenderlo; la storia del zio che lo aveva cacciato era una favola. All’età di tredici anni essere impostore sino a quel segno è cosa strana. Questo ragazzo è dotato di grande ingegno, di un coraggio grandissimo, ma indocile, e d’una finzione inaudita. Forse una severa disciplina lo ricondurrà sulla buona strada ma temo moltissimo.

[51] 29.th February 1779. She has been here in my appartement accompanied by her husband. Ow I have been surprised by this sudden apparition! After then years this dai I have seen the sun in its full glory. In my eies she is yet not only worthi to be loved, but also to be adored. Wath weachness!

[52] Domenica 7 marzo 1779. Un baron cornuto per nome Giovanni Palazini cremonese ha steso una corda dalla torre nostra nel luogo ove sta la campana delle ore, cioè in cima, sino giù in piazza del Pretorio, e poi per mezzo d’un canone di cuoio al quale stava appeso per un braccio, e per una gamba si è precipitato da quell’altezza, ed in dieciotto battute di polso è giunto illeso contro de’ materazzi in piazza, ciò che si chiama fare il volo. Ho meditato che sorta di coraggio vi voleva per esseguire una simile cosa, ed ho veduto che vi voleva il coraggio d’un coglione che si cambia da uomo in straccio. Costui si era poi ubriacato come un porco per stordirsi. Non posso che disprezzare questo mio patriota esponendosi in tal modo a schiacciarsi per guadagnare qualche soldo. Come magnificherei l’azione di costui se l’avesse fatta per salvare un amico, per fuggire di carcere, o per servire il suo sovrano, o la patria.

[53] 12 marzo 1779. Colle lettere di Vienna si assicura che si farà la pace, che Giuseppe II Cesare, re Frederico di Prussia, e la Corte Palatina siano d’accordo colla mediazione della Francia, e della Russia. Dio lo voglia! Quanto sangue risparmiato. Diconsi partiti pel luogo del congresso che è i ministri plenipotenziari. Sono per la corte nostra il conte di Cobbenzel, per la Francia il barone di Bretteuil, per la Moscovia il principe di Repnin

[54] Domenica 14 marzo 1779. “Oh che bel tempo signora Appolonia” diceva la signora Lucrezia Fornara alla di lei commare stando vicino al fuoco le feste di Natale intanto che cuocevano le castagne, “oh che bel tempo! Sono già più di quindici giorni che fa un gran bel tempo, ma certo la non può durar tanto questa cucagna, a rivedersi questo carnovale, povere maschere! Le nevi ingombreranno le strade, le pioggie saranno frequenti, lo predice l’Indovinello Inglese, egli non falla, poveri divertimenti vi dò per spacciati.” Passò tutto il carnovale senza una picciola nuvoletta in modo che in città ed in campagna v’era la polvere per le strade come di grande estate, ed intanto La Galleria delle Stelle, La Zingara Indovina, Lo Schisone, La Truffaldina, Caporal Quatordes Cazzaball, Il Gran Mirandolano, e tant’altri rispettabilissimi conservatori delle cognizioni umane, predicevan nebbie, nevi, nuvole, pioggie. Esclamava il popolo: “Oh che stravaganza di bel tempo”. Venne la quaresima e via il bel tempo; siamo alla metà e più di quaresima ed il bel tempo dura, e se giungeremo a dopo dimani saranno tre mesi in ponto che fa bel tempo. Si dirà poi che i proverbj sono fondati? “Seren d’inverno, e nuvolo d’està, amor di donna, e carità da frà.” Qual’è la donna che duri ad amare costantemente per tre mesi! qual è il frate che usi carità per tre giorni!

Scrive Antonio Campi che l’anno 1540 regnò grandissima siccità nell’inverno qui in Cremona, e che si temeva pei raccolti, i quali furono abbondantissimi; si tagliarono le biade maturissime a mezzo maggio, e si fecero vini in principio d’agosto.

[55] 17 marzo 1779. Oggi si son fatti in San Sigismondo i funerali al padre don Tiziano Martini generale de’ monaci gerolamini morto ier l’altro qui in Cremona, ove era venuto per ascoltare una predica del bravo abate Pinaroli che fa il quaresimale in Duomo. Al padre don Tiziano si sono ritrovati sette mila zecchini nella sua cassetta privata; per un daben religioso che ha fatto voto di povertà la somma è onesta; poco fa è morto in Milano il maresciallo Wit comandante in capite delle armate imperiali in Italia, e gli si sono trovati ventitré zecchini; quell’imprudente soldato dava tutto in elemosina. Don Tiziano sarà certo in paradiso; il maresciallo sarà certo all’inferno, impercioché oltre essere soldato era poi anche franco muratore. Si racconta di quell’empio ma amabile signore che un giorno in Germania pranzava da uno di que’ vescovi che sono anche principi, le fu mostrato una quantità prodigiosa d’ucelli rarissimi delle quatto parti del mondo che il vescovo nodriva con lusso, e spesa regia; il maresciallo ammirò, e tacque. Invitò il vescovo pel giorno dopo a pranzo dicendole che in casa d’un soldato non avrebbe sua altezza reverendissima ritrovato una tavola tanto splendida come la sua, ma che le avrebbe mostrato il proprio seraglio forse più bello di quello che sua altezza le aveva fatto vedere; fu sorpreso da una tale proposizione l’altero vescovo, andò, pranzò male, ed al caffè da una finestra, aspettandosi a vedere uccelli, e fiere, le furono mostrati dal maresciallo duecento poveri vestiti di nuovo quel giorno stesso, e che manteneva quotidianamente da tre mesi. Che peccato che questo buon maresciallo fosse franco muratore! punctum exclamantis.

[56] 14 aprile 1779. Lavare un paio di stomachevoli calzette dopo averle portate tre mesi, lavarle da sé nella sua camera in un catino d’aqua fresca per fare economia di sapone; far consistere la spesa della propria tavola per un giorno in tre quatrini di rape; per asciugarsi le mani adoperare una salvietta quatro mesi servendosi d’ogni angolo un mese; tenere le stesse lenzuola nel letto sei mesi; far durare un paio di scarpe un anno; un vestito dieciott’anni; dopo vent’anni donare al servitore un ridicolo tabarro a condizione che lo porti di giorno, ma lo ristituisca la notte per metterlo sul letto proprio; mandare i propri figli laceri e pezzenti come i figli de’ mendici, e permettere che vadino in qualche chiesa a portare delle scranne ai fedeli per averne due soldi; cavare di tasca un sordido fazoletto sucido, e lordo del non suo tabacco che sembra un straccio col quale si siano netati cento culi, distendendolo al fuoco, e perfumarne fetentemente gli astanti: diventar l’odio del paese per tante virtù, alcuni crederanno che ciò sia esagerare, che un tal personaggio non esista se non se nell’Arpagone di Molière. No esiste in Cremona nella persona del regio delegato don Agostino Cavalcata.

[57] Sabato 24 aprile 1779. Oggi ho fatto l’intromesso, o sia ho celebrato il contratto, col signor Giuseppe Tranquillo Monti nostro cremonese che si è fissato a Bologna, delle terre di Santa Cristina. Il dottor Giuliano Vacchelli ne fece rogito. Ho pagato questo fondo due mila zecchini. Quale idea mi è venuta in mente di comperar fondi? E a chi perverranno dopo di me? Piaccia al cielo che quegli che avrà i miei fondi dopo che non sarò più tra i vivi, ne goda più tranquillamente ch’io non faccio!

[58] Hoc anno prodigio similis visa res, tota hyeme et vere non pluisse. Ea tali tempestate nihil non a vulgo ad ostenta arripienda pronissimo in iram Numinis coniectum. Non deerant qui mala omnia Cremonensibus imminere iactarent, aversis Coelitibus ob nefarios hominum mores. Cucullati praesertim, ad incutiendos in animos civium terrores, quasi de concilio Divorum venissent, narrare, placandum esse supremum Numen, adesse tempus luendi scelus contempti eorum ordinis, et imminutae maiestatis sacrorum. Vaferrimum hominum genus aeque semper paratum ut faelicitate publica, sic calamitate ad suum ipsorum commodum abuti. Heine pretium optatis imbribus largitiones eorum aedibus factas statuere. Decreto X Virorum supplicationes trium dierum ad aedem maximam indictae, et habitae. Marmorea tabula patrijs religionibus sacra ab aedibus divae Agathae solenni pompa per vicos urbis deducta: Divorum omnium statuae loco motae. Sexto Calendas maias Christi Servatoris cruci affixi statua deducta per urbem squallido cum populi habitu, si quo pacto Numinis ira desaeviret. Interea ager Cremonensis uberrimus ardore solis, et aquarum deffectu miserrimus; armenta sine pabulis moerentia, nec laboribus apta vagabantur. Quem finem Deus huic malo praescripserit incertum. Illud vulgatissimum quod in publicis calamitatibus usu venire solet, ut vel communia in portenti loco ponantur, coelum ad septemtriones rubuisse, hirundines cum vere novo frequentes non adventasse. Si quis physicus mutire auderet, impietatis reus agebatur.

[59] 4 maggio 1779. Tandem, tandem, tandem dopo cinque mesi di siccità, dopo essere stati tantalizzati questi quatro ultimi giorni dalle nuvole che ci mostravano pioggia senza darcela oggi sono già quatr’ore che piove; la campagna si rimetterà; il povero avrà del pane. E vivan le processioni ed i tridui; i miei daben cremonesi si sono sfogati a farne; egli è già un mese e mezzo che si fanno tridui, e processioni. Se ne fece prima uno in Duomo della città, e questo alla buon’ora. Poi se ne fece uno a Santa Tavola, e si portò Santa Tavola per le strade, ed il concorso vi fu grandissimo; ed un asino d’un misionario che predicò in piazza con una voce da toro cominciò il suo discorso con la parola Tacete, mise in bocca a Gesù Christo le parole di Caio Giulio Cesare moribondo, ed adatandole le fece dire tu quoque Christiane fili mi. Ma non piovette. Si fece poi la processione dai padri alias crematori ora semplicemente domenicani, e portarono San Vincenzo Ferrerio, il quale poco mancò che non cadesse, e si rompesse, ma non piovette. Si fece poscia la processione di Santa Eurosia contro la peste, con il più pazzo manifesto possibile, ma non piovette. D’indi si fece un triduo al Foppone, ma non piovette; dipoi si fece una bella processione a San Michele Vecchio; si portò la statua della Madonna Adolorata, e dell’arcangelo San Michele, ed il signor ceremoniere Teressan fece un passabilmente ragionevole discorso al popolo in strada, ma non piovette. In seguito si fece una grande processione a San Homobono portandosi il Santissimo Crocifisso, facendosi chiudere le boteghe per ordine del Senatore, ed a questa processione concorse tutta la città, ed un certo padre Rotini somascho fece il più sciocco discorso al popolo che imaginare si possa; declamò contro i spiriti forti, contro la lettura de’ libri empi; ed insinuò che non pioveva perché si toglieva robba ai frati, e perché si disprezzavano. Ma non piovette. In appresso si fece un’altra processione, e si portò intorno la Madonna di Loreto, ed il vescovo diede la benedizione, ma non piovette. Nel giorno stesso si portò Sant’Alberto che sta in San Matia, e San Clemente Papa di Gonzaga, ma siccome la statua di questo santo era grande, ed il baldacchino era picciolo, così si tagliarono due spanne di gambe a San Clemente, ma non piovette. Si portò anche San Rocco, ma non piovette. Si portò un altro Crocifisso a San Silvestro, ma non piovette. Finalmente ieri si portò San Francesco di Paola, ed oggi ha piouto; l’ultimo ha auto ragione. Se oggi non pioveva chi sa domani quall’altro santo si sarebbe portato; chi sa a qual santo sarebbe toccato da far piovere! Nel contado poi si sono fatte cose inesprimibili dai sempre giudiziosi parochi di campagna. Nel secolo decimo ottavo; nel secolo dell’Enciclopedia 25! E fra’ Rotigni inveisce contro l’abuso delle letture: fra’ Rotigni mente per la gola; non contro l’abuso del leggere, ma contro l’abuso del non pensare si avrebbe ad inveire.

Se tutti i soldi che sono costati questi tridui, e processioni, si fossero impiegati in far del bene, si sarebbero vestiti almeno, almeno cento poveri; se ne sarebbero nodriti per tre giorni almeno almeno cinquecento, e si sarebbero dotate cinquanta fanciulle.

O tu che ne’ tempi avenire leggerai questa mia nota; giudicami, dimmi se sono un empio, o un uomo dabene; quale dei due ne abbia il cuore.

[60] 4 may du 779. Hier au soir je retournois chez moi vers minuit; je rencontroi sur la place de Saint-Dominique quatre, ou cinque bourgeois avec leurs fammes que j’entendois en distance faire la conversation; comme je fus près d’eux, étaint éclairé par un flambeau, ils me reconurent: “C’est luy; cest luy-meme ce bon gentiliomme; que le ciel le comble de benedictions; qu’il ramplisse tous ses desirs; s’il a pour nous le coeur d’un pere; pourquoi n’aurons nous pas celuy des fils tendres et reconoissants!”… Et comme je m’éloignois ils haussoient la voix pour me faire parvenir ce doux son. Les calomnies de mes ennemis ne m’ont iamais eté si ameres que ces louanges m’ont eté douces, quoique je n’aie merité ni les unes, ni les autres.

[61] 4 maggio 1779 Nel fare un soteraneo al palazzo che sta fabricando per decoro della città nostra il mio caro amico Giuseppe marchese Soresina Vidoni, si è ritrovata un’olla, o pentola assai grande piena di medaglie consolari d’argento: tutti i muratori se n’empierono le tasche, e la città ne fu inondata; al marchese ne restò un buon numero. Sono costantemente d’avviso che quella fosse una raccolta fatta del Cinquecento da un qualche antiquario, e sepolta poi in tempi, o di guerra, o di peste. Molte di queste medaglie ne fusero, molte se ne trasportano fuori di paese.

[62] 14 maggio 1779. Si dice che ieri sarà stata publicata la pace in Vienna.

[63] 21 luglio 1779. Oggi ho auto la trista nuova che ha cessato di vivere in Ferrara l’abate Zorzi. Dotato di massimo ingegno, aveva questo sapiente giovane intrapreso un’Enciclopedia italiana, e mi aveva fatto l’onore di assegnarmi da scrivere alcuni articoli sulle belle arti. Lo studio troppo intenso ce lo ha tolto, lo ha tolto all’Italia. Quando more un sciocco, o un perverso, un altro le succede subito, e lo rimpiazza; l’uomo da bene morendo lascia un vuoto nella società.

[64] 28 settembre. Sulla fine di questo mese un certo Giovanni Vernazza in età di vent’anni circa cittadino di discrete sostanze, dotato di sommo ingegno, e di non commune avenenza si è data la morte da sé prendendo una fortissima dose d’oppio. Già da qualche tempo la modestia di questo amabile giovane era degenerata in taciturnità; dove prima si occupava delle sue letture unicamente alcune ore del giorno, ultimamente le protraeva alle intiere notti. Si lagnava di tempo in tempo di una cattiva salute e ripeteva sovente l’adagio Non est vivere, sed valere vita. Essendosi ordinato dal fratel suo ad un’artefice che facesse la cifra della loro dita mercantile colle due lettere iniziali dei loro due nomi, Giovanni non lo volle dicendo che alla di lui morte non lontana una tal cifra sarebbe stata un imbarazzo. Una sera va a casa, si chiude in camera, e vi si occupa leggendo, e scrivendo tranquillamente sino alle sette della notte. Poco prima di giorno va al letto del fratello, lo sveglia, e “Queste sono” le dice “le note de’ miei debiti” (montavano a poche lire); “voi gli pagherete; questi i miei crediti per imprestiti fatti; voi gli esigerete, ma senza violenza, o durezza. Al tale, e al tale ho prestato i tali libri, cercate riaverli. Rispettate sempre nostra madre, amate la mia memoria, io ho cessato di vivere.” Il fratello sorpreso credendolo in un accesso di malinconia lo sgrida affetuosamente; ed esigge che si ponga a giacere appresso di lui lì nel suo letto. L’infelice giovane non replica più parola, si spoglia, si pone in letto, e s’addormenta profondamente, ciò che osservò con contentezza il fratello ed i domestici, e la povera madre la mattina vegnente verso il mezzo giorno, ma siccome un forte ansamento dell’adormentato aveva da prima inquietato la madre, così essendo questi cessato, ed il preteso sonno durando anche il dopo pranzo, si domandarono e medici, e preti. Quelli lo dichiararono morto; questi dannato perché le ritrovarono le opere d’Elvetius, Mirabeau, Sistema della Natura, Voltaire, e Rousseau. Perché quel giovane rischiarato leggendo le lettere del citadino di Genevra dove nella sua Giulia parlando del suicidio mette in bocca a Mylord Edovard quelle parole: “Insensato! se in cuore ti rimane tuttavia il menomo sentimento di virtù, viene e t’insegnerò ad amare la vita. Ogni volta che sei tentato di lasciarla, dì a te stesso, ch’io faccia anche una buona azzione prima di morire, e poi va e cerca qualche indigente a soccorrere, a consolare qualche sfortunato, a diffendere un qualche oppresso; se questa considerazione ti tratiene oggi, ti tratterrà anche domani, dopo domani, tutta la vita. Se non vale a trattenerti, muori, tu se’ un uomo cattivo.”

Perché non ramentò queste parole, come mai non ne fu colpito!

Giovanni Vernazza inglese andrebbe nella bocca di tutti, in tutte le gazette; al pari dei Peteborug, e dei Smith. Giovanni Vernazza cremonese è guardato come uno sciocco, e si stette in dubio se avesse ad essere sepolto in chiesa. Il rischiarato parere del rischiarato parroco di San Michele era per il no.

[65] 30 settembre. Con lettera del ministro plenipotenziario in data de’ 14 di questo mese, dovendosi fare un espurgo generale della Cremonella, sua altezza reale l’arciduca Ferdinando di proprio suo moto mi ha delegato per far eseguire quest’opera, e far togliere i molini de’ padri agostiniani, de’ conti Visconti, e delle signore eredi Mainoldi, che sono posti in questo canale; uno de’ consultori il conte di Wilcech mi scrive congratulandosi meco d’una tal comissione. Dio me la mandi buona!

[66] 20 ottobre. Sul principio di questo mese è morta d’un colpo d’apoplesia in Piacenza dove era ad assistere al parto di sua figlia la marchesa donna Maria Pallavicini nata Zaccaria. Questa era una delle più rispettabili dame del nostro paese; le processavo la maggior gratitudine per la stima che degnava avere di me.

Morte fura prima i migliori.

Ho assistito a’ suoi funerali col cuore pieno di doglia. È stata sepolta in Sant’Imerio de’ carmelitani scalzi.

[67] … lucemque perosi
proicere animas …

Colà nei Campi Elisi, vicino alla regina Didone, a Catone, a Milord Peterborug starà Giovanni Guglielmini nostro cremonese, il quale essendo ardentemente inamorato d’una carogna per nome Veronica Alvergna moglie di un Giuseppe Cavalli, per costei si ammazzò circa il principio del mese. Era da molto tempo che l’infelice giovane delirava; le mille volte inganato, offeso, tradito dalla petegola, disprezzandola ed aborrendola non ne poteva però distaccare il cuore: egli stesso diceva essere ciò una spezie di malia, e che se persuaso non fosse stato che non esistevano sortilegi, costei averlo incantato avrebbe giudicato. Quando per agitarlo fingeva la falsa donna una gelosia del marito, tall’volta a torturarlo metteva in scena ora un suposto, ora un vero rivale. Ebro, e delirante d’amore, e di rabbia, sortì con tali minaccie contro il marito il Guglielmini, che il Magistrato Criminale le diede una spezie di bando. Stette non so che tempo in Parma; da dove venne giorni sono inoservato in Cremona; disse ad un amico col quale s’abboccò ch’era disperato, ed in prossimo di comettere quattro omicidi, cioè che voleva uccidere la donna, il di lei marito, ed un nuovo suo amante chiamato Riva; “Ed il quarto” richiese l’amico “chi sarà?” “Io” le rispose; né si fe’ gran caso di tali espressioni prendendole per esagerazioni d’un inamorato. Il giorno dopo va l’ardente giovane alla casa del Cavalli, ritrova la sua donna, le fa de’ brevi e male espressi rimproveri, e le chiede ove sia il marito; rispostole che non era in casa sorte; la donna lo segue, temendo che l’incontrasse, essendo l’ora che rientrava, e di fatti vedutolo da lontano le grida che si ritiri; allora il Gulielmini impugna uno stile, e le dà tre ferite dicendole, “Posto che ne vuoi più per lui che per me, muori”. Furono le ferite legerissime; la mano anche d’un furioso non sa vibrarsi contro ciò ch’egli ama di cuore. Cade la donna tramortita dalla paura assai più che dalle ferite; crede l’infelice averla amazzata, e guardatala con aria cupa, “Oh Dio cos’ho fatto” esclamò, “che abominevole carnefice son io mai! Oh Dio ti ho ammazzata!” Appena prononziate tai voci, si slaccia la sottoveste dalla cima al fondo, e si pianta quel pugnale che tuttavia teneva in mano sino all’elsa nel petto. Accorrono alcuni astanti gridando “Che fai”, ed egli temendo volessero impedirlo del suo progetto con rara ferocia si pose a squarciarsi col coltello così immerso la profonda ferita sinché spirò con dipinto in volto dolore per lei piutosto che altro sentimento. La donna si ristabilì prestissimo; i teologi non vollero il giovane sepolto in chiesa; l’atroce caso atterì la città. Le passioni che moderate sono un vento favorevole per la navigazione pel traffico, pei viaggi, per mille usi della vita, divenute violenti si fanno turbini che sconvolgono i mari, ed affogano i naviganti.

Un frate non pensatore dirà che in Cremona si leggono de’ libri proibiti e che per ciò non piove, che si ha poca religione, e per ciò si ammazzano. Un politico potrebbe dire, e forse con fondamento, che quelle anime che sono sogette a malarie simili a questa di Giovanni Gulielmini, essendo sane, e ben dirette, quali cose non potrebbero eseguire gloriosamente pel principe, per la patria, per la gloria del nome italiano?

[68] 3 novembre 1779. O rus, quando ego te aspiciam andavo esclamando da figlio di famiglia e pensavo alla mia villa di San Felice detta la Cà del Pesce, e vedevo con dolore rovinare per incuria l’abitazione de’ miei maggiori. Rimango libero alla fine, ed uno de’ miei primi pensieri si è quello di ristorare ed esornare questa mia casa di campagna: la rendo decente, e vado per la prima volta a passarvi alcuni giorni; l’altra sera giorno primo di novembre ch’era il dì di tutti i Santi ero stato con l’avoccato Vacchelli, e col signor Giuseppe Saglio onestissimo negoziante tutti due miei amici, a vedere la possessione di Santa Christina da me comperata dal signor Giuseppe Monti, quando nel ritorno verso mezz’ora di notte fummo incontrati sulla strada di San Marino vicino a casa da quatro birbanti che cominciarono ad insultarci con parole; forse sarebbero venuti ai fatti, ed il mio orologio, la mia scattola, i miei anelli sarebbero iti se la mia gente accorsa non avesse unitamente al comune arrestati dei quattro due che si trasmisero alle carceri. In quest’occasione l’affetto per me dei miei mi chiamò le lagrime sugl’occhi. I due arestati staranno in carcere vari mesi; gli altri due si sono ritirati fuori di stato.

[69] 17 novembre 1779. Non so se la soluzione di quel problema “Come i grandi ingegni fioriscano ad un tempo” sia applicabile, e valga a spiegare quel fenomeno che pur si vede spesissimo, che quando uno s’annega, e molti s’annegano in poco spazio di tempo, quando uno è morsicato da un cane arabiato, vari lo sono, quando si usavano gl’inspiritati, ed uno ne compariva in una parochia, o in un vilaggio, cento stralunavano gli occhi, e parlavano latino e greco con que’ daben preti che non sapevano né di greco né di latino.

In Cremona uno s’amazza, e quatro, o cinque si amazzano. Un prete curato di Fontanella arrivò i scorsi giorni in città, e si pose a fare gli esercizi spirituali ne’ padri misionari per sollevarsi da una violenta passione d’animo. Il medico dottor Ghisi chiamato non approvò gli esercizi per sollevare una passione d’animo; proseguì il buon curato a fare esami pratici, e meditazioni dei due stendardi; una sera chiede dell’aqua ad un frate laico che le dormiva in camera, ed intanto che questi va a prenderla si slancia dalla finestra, e si schiaccia il cranio sopra il litostratos “quod est ab operire.” Ed i teologi non ebbero nemeno la consolazione di definirlo danato mentr’era prete, e non leggeva libri proibiti fuorché il breviario.

L’altr’ieri a Sesto un certo Pigoti fittabile non avendo con che pagare il padrone si gittò in una roggia, e si annegò.

Cela passa la raillerie.

[70] Sul finire di novembre è morta la contessa Rosa dalla Rosa nata Maggi parente della mia famiglia.

[71] 28 dicembre 1779. Ho assistito oggi in Santa Lucia de’ somaschi ai funerali del conte generale Grisoni; ieri le si ferono le essequie militari sontuose. Fortunatamente che ha fatto testamento; senza questo ero io destinato procuratore del conte Grisoni fratello primogenito del povero generale dal conte presidente Carli, ed ho schivato un grandissimo imbarazzo.

[1780]

[72] Sabato 26 febraro 1780. È gionta nuova da Milano essere morto in Varese l’altezza serenissima di Francesco III d’Este duca di Modena. Sono stato sensibile alla perdita di questo principe; durante il mio sogiorno a Milano mi aveva distinto, usava meco di una somma clemenza, mi voleva spesso alla sua tavola, nelle sue partite particolari. Nodrivo una vera riconoscenza per tante bontà usatemi. Era questo principe adetto singolarmente al militare, e ne manteneva tanto quanto altre volte ne tenevano in attualità i re; era stato involto nella sua gioventù ne’ grandi torbidi dell’Europa; aveva comandato le armate francesi, e spagnuole. Amava le lettere ed i letterati, ed aveva eretta in Modena un’amplissima biblioteca; ivi ha pure lasciato un’albergo ed un ospedale che sono fabriche regie. Venne l’anno 1754 se non erro a governare lo stato di Milano per Maria Teresa augusta durante la minor età dell’arciduca Ferdinando, al quale ha data in moglie Maria Beatrice d’Este sua nipote figlia di suo figlio. Passava per essere assai amante del danaro. In picciola compagnia era amabilissimo; con gente che non conosceva era silenziosissimo. Si vuole che i suoi stati non fossero felici sotto il di lui governo; la sua absenza da questi, e le imposte gl’impoverivano. Le si è trovato un gran cumolo d’oro; si pretende che montasse a ottocento mila zecchini. Era nato il due luglio del 1698; è morto il dì 22 febraro 1780.

[73] 26 febraro 1780. Ho assistito questa matina ai funerali che si sono fatti in Sant’Abondio de’ teatini alla marchesa donna Barbara Manfredi. In lei finisce la schiatta de’ Raimondi illustre famiglia nostra patrizia. Fu in sua gioventù graziosa senz’esser bella; certo di lei intrigo con un uffiziale ongaro il barone Culuoki fece parlare il mondo. Rimasta vedova faceva l’amore col vescovo nostro monsignor Fraganeschi; era assai vecchia.

[74] Decozione d’uva d’orio picciolo arboscello che cresce in Spagna, e si ritrova nelli Svizzeri alle radici dei monti Succhet fu l’ammirabile segreto col quale il dottor d’Awellon chirurgo di Cadice liberò dalla pietra un contadino per nome Ximenez nel termine di cinque mesi.

[75] Sul principio di quaresima di quest’anno del Signore 1780. In questa fedelissima, e felicissima città sono occorsi due casi che meritano d’essere scritti al paese.

Due giovani cavaglieri addattando una satira fatta in Venezia per delle dame di quel paese ad alcune dame nostre misero molti di buon umore, e molti di mala voglia; uno dei due cavaglieri don Giambatista Manna che fu supposto l’autore di questa rapsodia si disse bastonato per ordine d’una delle dame mal tratate; se fosse realmente bastonato non si sa, ciò che è certo si è che furono appesi agli angoli di moltissime strade de’ bilietti che asserivano, e notificavano al publico che era stato vapulato.

La satira era la seguente per quanto mi ricordo.

Una donna che tira le reti che sono forate siché gli uccelli fuggono col motto: Le gibier s’enfuit, e le filet me manque. – Contessa donna Antonia Schizzi Torelli.

Una vigna spogliata di grapoli, e sino di foglie per la grandine: Les vendatiges sont faites. – Marchesa Laura Araldi nata Pavesi.

Una torre circondata da assedianti: sulla porta un gueriero coperto di ferro armato d’alabarda col motto: Attandez qu’il soit endormi, et je suis à vous. – Contessa donna Marianna Archinto Manfredi.

Una bella donna coricata nuda con capelli sciolti, col motto: Je suis épuisée, je n’en puis plus. – N.N.

Un’alta rupe sulla quale s’arampica gran numero d’ogni fatta di gente: Il y-en a pour les grands et les petits. – Marchesa Anna Zucchelli Alberiggi di Quaranta.

Una donna su d’un canapé languente; due vecchi se le struggono dietro; molti giovani la guardano dalla porta: Le coquetisme expirant. – Marchesa Laura Arigucci Picenardi.

Una vite che sostiene due olmi, col motto: Au contraire. – Donna Costanza Sommi nata contessa Mainoldi.

Statua chinese su d’un piedestallo d’argento: donna Laura Manara nata contessa Mainoldi.

Lampada gemmata che risplende la notte nella gran sala della galleria: marchesa Laura Maggi contessa Martinengo.

Statua di Pigmalione bella e senz’anima: marchesa Isabella Vaini Magnoni.

Guardaportone della galleria: donna Maria Ferrari nata contessa Poncavalli.

Due statue collosali nell’antisala della galleria: donna Isabella Barbò Mainoldi, donna Barbara Sozzi Baleotti.

Una donna che oculatamente esamina una gabbia in cui tien chiuso un canarino per otturare ogni adito alla fuga, col motto:… – Contessa donna Giulia Schinchinelli Viale.

Una donna sedente ad una mensa imbandita di copiose vivande, che nausea tutto fuorché un piatto inglese di grossolano rost-beef che aggradisce con avidità col motto: J’ai trouvé ce qui m’a piquée. – Donna Maria Parravicini nata contessa Barni.

Custode e dimostratrice della galleria la contessa Eleonora Schizzi nata Orvati che va spiegando gli emblemi al conte Carlo Soresini curiosissimo cavagliere.

[76] 16 agosto 1780. Oggi arivo da Milano ove sono stato a fare la mia corte al nostro reale arciduca. Tutte le graziosità fatte per lusingare l’amor proprio d’un sudito le ha esercitate meco questo clementissimo principe. L’arciduchessa, il principe Albani, il conte di Firmian, il conte di Wilcech, il consultor Pecci hanno usato meco le più obbliganti maniere; la marchesa Elisabetta Litta mia antica padrona si è degnata mostrarmi quell’affetto che si potrebbe per un figlio; quel buon vechio del consultore don Paolo della Silva le più gentili accoglienze. Tutto il mondo, oso dirlo, a gara per obbligarmi. Pranzi, cene, partite di piacere; quel linguaggio di fina adulazione che non consiste nelle lodi strabochevoli che uno ti dice al naso, ma che consiste in cento direi quasi nulla indefinibili, che va al cuore, e non si sa usare fuor che nelle capitali, tutto è concorso per farmi piacere, ma… ma sono a Cremona ed ho ogni ragione d’essere contento del mio viaggio, e se non lo sono egli è certo per colpa mia. A Milano ero stordito pel gran mondo e m’annoiavo; a Cremona mi annoio pel ritiro e la solitudine; quale di queste due noie è preferibile? Non lo so. Querit ephipia bos piger, optat arare caballus. Ciò che mi è stato carissimo si è l’aver fatto delle nuove conoscenze, col giovane conte Francesco Melzi l’una, col principe di Chimais l’altra.

[77] 16 detto. Non ero ancor gionto a Cremona, che longi tre miglia ho sentito il fiero caso accaduto ier l’altro. Si dice che don Pietro Gerenzani Bonhomi sortendo dal celebre caffè di Piazza Picciola volesse imporre silenzio a due uomini del popolo che fingevano di quistionare; questi risposero al cavagliere con dispetto; in fine da un certo Rinaldi detto Rizzolino fu impugnato uno stile ed investito il Gerenzani; si diffese questi validamente colla sola canna d’india che aveva sinché le riuscì di fuggire. Un tenente Galimberti del regimento Belgioioso accorre allo strepito; a questi il Rinaldi pianta lo stile nel cuore, e poi fugge. Sottrattosi per ben due giorni alle squisite ricerche che se ne facevano stando appiatato in un campo, alla fine spinto dalla fame sorte, si lascia vedere, ed i contadini lo circondano; il feroce giovane per non essere preso vivo si dà due gran colpi di pugnale nel petto, ed è semivivo portato in città, e posto nelle carceri.

[78] 12 dicembre 1780. Dopo le inquietudini nelle quali siamo stati per la grave malatia dell’augusta nostra clementissima sovrana l’imperadrice Maria Teresa d’Austria; oggi abbiamo ricevuta la nuova della di lei morte. Fu questa principessa una donna da secolo. Dotata d’una belezza da sorprendere, rapiva cogli ochi tutti quanti i cuori riunendo insieme maestà, dolcezza, clemenza, affabilità. Ebbe moltissimo ingegno, lo coltivò, e sorprese altretanto colla sua sapienza, quanto colla sua belezza. Figlia, sposa, madre di Cesari, fu la delizia dell’imperador Carlo sesto di lei padre; fu idolatrata dall’Antonino de’ tempi nostri, Francesco primo augusto di gloriosa e cara memoria; fu sempre venerata dall’augusto nostro presente padrone l’imperatore Giuseppe secondo, al quale Iddio dia ogni bene e felicità, e gloria. Appena montata sul trono de’ suoi padri, che l’Europa tutta se le dichiarò nemica, ed essa resiste a tutta Europa con animo, e virtù eroica. Diede un’educazione a’ suoi figli quale non l’ebbe verun altro principe de’ nostri tempi; fu la madre del mio buon principe l’arciduca Ferdinando che amava con tenerezza. La di lei generosità andava anche aldilà della sua grandezza; se fosse stata padrona della terra avrebbe auto appena abastanza onde fare del bene ai sudditi che essa aveva nei domini austriaci. Quel cuore benefico non si appriva alla gioia in questi ultimi tempi dopo la funesta perdita del marito suo se non se allora che conferiva una qualche beneficenza; mille esempli vi sono su ciò che qui non so riferire. La di lei clemenza era uguale a quella di Tito; sembrava per dir così che le offese fattegli fossero un titolo onde ottenere perdono; a quanti traditori donò la vita! Se il supplizio d’un reo giungeva a sua notizia, il reo non perdeva la vita. Di costumi santissimi, e intemerati, non la maldicenza, ma nemeno la calunnia osò mai attacarli. Amò le arti, e le scienze, e le incoraggì; ci tolse l’Inquisizione; fu religiosa, ma non fanatica, aveva viscere di pietà per chi soffriva; vedemmo, raro spettacolo! la compassione seduta sul trono. Quall’ora leggo ciò che l’adulazione lasciò scritto negli antichi marmi o bronzi di molte imperatrici, alle quali si diede il titolo di Mater orbis, Mater castrorum, Mater patriae, Mater Caesarum, alle quali si consacrarono altari, e templi Laetitia orbis fondata, Laetitiae temporum, Felicitas saeculi, tutti, tutti questi titoli gli dò nel mio cuore alla mia buona defonta padrona. Non la conobbi personalmente, ma le sono stato fedelmente attacato e di cuore sin che ha vissuto; e la sua memoria mi sarà in venerazione sin che vivrò; ero ier l’altro nel Duomo nostro ove si facevano delle publiche preci per lei; l’afflizione di questo povero popolo; l’idea dell’afflizione del mio principe; la considerazione delle tante sue virtù mi chiamarono le lagrime sugli ochi, né le potei trattenere. È morta in Vienna la sera del dì 29 dello scorso novembre.

Così finisce ogni gran cosa in terra.

[79] 27.th December. I have assisted this morning in S. Sepulcher Cheaurch to burial of the late Count Francis Asti Cremonese patrician. Hi was but a coxcomb son of a blochead, brother of a blochead, father of a blochead, great father of blocheads. I hope. Amen.

[1781]

[80] 3 Avril du 1781. Don Ignace Vernazzi le dernier de sa famille qui à éte illustre dans notre pais est mort. C’étoit un homme dur en apparance mais en realité charitable envers les povres; riche et ignorant a son avis ce quil ne savoit pas n’existoit point; grossier et sans aucune education il étoit fait pour aliener ceux mêmes qu’il se proposoit d’obbliger. Bigot iusqu’à la stupidité une maxime de l’Evangile n’etoit de rien vis a vis l’assertion d’un jesuite; declamant touiour contre les vices du tems, et contre la iunesse il étoit emerveillé losqu’il voiet une quelque bonne action faite par un homme qui n’avoit pas la renommée d’etre devot. Tetu comme un Cremonois du tems de S. Bernard, il faisoit de tres mauvaise grace le bien, secouroit des povres familles, assistoit l’indigent; c’etoit le Borrù Bienfaisant. Il a laissé tout son bien au Marquis Gerome Ugolani qu’il regardoit comme son ami; il a laissé un gros leg à D. Giulio Bonetti qui, a ce qu’on pretend, le refuserà. Si cela est quelle modeste fierté! Peut’on refuser d’etre riche iusqu’à ce qu’il-y-a des povres?

[81] 26 maggio 1781. È gionto oggi l’arciduca nostro per assistere all’esercizio che ha fatto il regimento di Belgioioso; questa matina essendo all’anticamera sua altezza reale mi ha chiamato per un’udienza mi ha chiesto de’ studi della città, ed io l’ho raggualiato delle due mie comissioni, l’espurgo della Cremonella, e le riparazioni del Po. Al dopo pranzo ero alla Piazza del Castello col senatore de Capitanei, e vi faceva un freddo strano: v’era concorsa tutta la città.

[82] 26 luglio 1781. Un porco di frate di nome Calderoni lettore carmelitano di San Bartolomeo avendomi presentato alla revisione tre ridicole tesi delle quali una pretendeva mostrare l’utilità dei frati, fu da me rifiutato; l’impudente frate fece frodolentemente stampar le tesi in Milano, vantandosi che si sarebbe fatta la difesa in Cremona mio malgrado; avendo io scritto al governo su di ciò, a posta corrente sono stato incaricato io stesso dal reale governo d’intimare ai frati carmelitani la sospensione della diffesa con una graziosissima lettera. Viva il clemente, il rischiarato governo nostro. Viva Giuseppe II, viva Ferdinando, e moiano i frati!

[83] 4 agosto 1781. Colle lettere d’oggi ricevo ordine dal ministro plenipotenziario conte di Firmian che l’arciduca mi comanda di far eseguire le opere da me progettate intorno le riparazioni del Po. Il Magistrato Camerale mi ha fatto scrivere dal conte di Rogendorf una lettera di congratulazione su questa importante incombenza adossatami con tutte le marche di onorifico possibili. Che peccato di non poter essere ambizioso! Mi sembra di potermi paragonare ad un nonagenario al quale mentre le si irrigidiscono le estremità, una bella ragazza lussureggia d’intorno, e le dà de’ baci.

[84] 6.th August 1781. She is no more the same! t’is plain. She is intirely lost for me. Iudgment dispel the dream of heart! that long, that fatal dream, the curse of my life. This woman alreadi so beloved, so praise worti of a so mild temper, melting in tars at the sigts of an unappi creature watsoever, is now a quaite different thing. Proud, almost alwais angry, humorous, affecting the airs of a greatest rang woman, bursting in furors’ fits unsuitable to all rangs and conditions for the most insignificant things. She is qui te different from that modest, timid, virtuous loveli woman that she was formerly. Wath celestial behaviour was sine, wat angelic creature! She is no more the same, she is lost. The bads companies, rascals, ruffians have snatched from her so mani goods qualities. Heaven what deplorable lost. She was inflamed formely at the perusal, at hearing a generous act, she blusches now… at consideration of the ver tu and humaniti. Last year being her father at a loss, she was rioting in the countri; one of her poors daugters is dyng, and this stone hearted woman contemples that scene of orror witout a tear, or a sight. Curse on the bads companies, on the seductors of good-hearted creatures. What griefing lost for me!

[85] 8 agosto 1781. Maria Amalia arciduchessa infanta di Spagna sorella del nostro imperadore e sposa dell’infante duca di Parma è passata di qui questa matina per andare alla fiera di Brescia; era accompagnata dalla contessa Del Verme sua dama di corte sorella della contessa di San Secondo. Ieri pranzai dal marchese Vidoni colla marchesa Isotta Pindemonti Landi che è pure dama della stessa principessa. I lickes this Ladi as a sister.

[86] … Quid intactum nefasti
Liquimus?

15 agosto 1781.

Ritorno a casa in questo momento pieno di tristezza, e di pensieri. Sono stato col Collegio, secondo l’uso antico a fare la solita offerta al Duomo. Qual silenzio, qual vuoto, quale differenza da quello che era questa chiesa negli anni andati! molto più poi negli anni antichi! Tutte le Università vi comparivano co’ loro stendardi, tutte le terre, e città della provincia nostra, e chiamate ad una ad una da un publico banditore avvicinavansi all’alto palco che ivi stava eretto, ed ai signori della fabrica presentavano le offerte.

Tutti i Tribunali, i Dicasteri; le Arti, i Mestieri, i Collegi, i diversi Corpi civici, tutti in pompa vi comparivano. La vigilia era per Cremona un vero dì di festa. Eravi la così detta batagliola simulacro delle antiche fazioni, od imagine ed avanzo dei partiti guelfo, e gibellino; si vestiva di nuovo la statua di Giovanni Baldesio detto Zanino dalla Balla, e di Berta Zola di lui moglie; nel vechio vestito involgevasi una moneta, e gittandolo in piazza dai brentadori armati di alabarde facendosi cerchio sotto la loggia ove stanno le statue, quegli tra loro che sulla punta dell’asta fermava lo straccio era guardato come vincitore. Immenso era il popolo spettatore; eravi presente il Maggior Consiglio dei patrizi; il senatore podestà, il comandante dell’armi. I trombetti ed i piffari precedevano la città che in corpo andava la sera del dì quatordici in Duomo alla benedizione; più anticamente facevasi la caccia del toro, per vedere la quale concorrevano d’ogni banda i forastieri.

Non v’era quasi festa dell’anno che non fornisse un publico spettacolo. A Sant’Anna si strappava il collo all’oca sul Po, ed io che non son vecchio ricordomi nella mia infanzia d’aver veduta una tal festa; era il fiume coperto di barche; era la sponda coperta di popolo; la città tutta era fuori di città; stromenti di musica risuonavano tutt’intorno ed eccheggiavano le voci di applauso d’un popolo lieto: sopra picciole gondolette scorrevano come il vento rapidi i destri nuotatori, che passando sotto la tesa fune alla quale erano pei piedi attacate le oche, cercavano di strapparle il collo. V’erano poi i palj: a San Donato si poneva un coniglio; a Sant’Elena una gatta; e così ad altre parochie, e chi arrampicandosi al paglio prendeva la gatta, la pecora o ’l coniglio aveva non so quante braccia di panno cremisino; si andava a San Paolo in camiscia a pigliare i gnocchi con un spadone, ecc. ecc. Si rallegrava il popolo; ne parlava; ed intanto dimenticava i disgusti; lasciava in pace il prossimo; era il popolo grossolano, buono, non maligno, e contento. Gli orrori dell’infame Tribunale dell’Inquisizione, le tenebre della superstizione grossolana erano soportabili con questi diversivi, che addolcivano sino le prepotenze di noi patrizi. Intanto scriveva Girolamo Vida, e Giulio Campi dipingeva, e Dattaro architettava. Elio Crotti, Gabriele Faerno, Benedetto Lampridio rapivano i cuori colla dolcezza del canto; Soiari, e Boccacino, e Malosso amagliavano l’inteletto per gli occhi colla magia dei colori; e gli uni, e gli altri portavano la gloria del nome cremonese presso gli esteri, siché i principi consultavano il nostro Collegio, che colmavano di onori colle maggiori qualifiche, lo consultavano dico sui punti più astrusi di giurisprudenza.

Cosa siamo noi ora? Un po’ meno bestie dei nostri avoli, ma di poco, ed in vece cento volte di loro più baron cornuti. Non crediamo, per esempio che i demoni sortino dal corpo delle ossesse in forma di lucertole alate; non crediamo, almeno generalmente, che le streghe prendino la forma di gatto per obbligo di statuto; non crediamo che fosse privilegio del padre inquisitore, quando vi era, di chiamare a sé il diavolo, e che fu visto le più volte sulle scale del infame Tribunale dell’Inquisizione: è vero non crediamo a tutto ciò; ma in vece quante verità fisiche, astronomiche, politiche ignoriamo, o non crediamo; quante sciochezze in ogni facoltà, e d’ogni fatta non ottengono ogni nostra, e più piena credenza! Maligni, piccioli, ed imbecilli avessimo almen conservata quella bonomia dell’ignoranza che caratterizzava i vecchi lombardi. Invidiosi, e dettrattori; occupati mai sempre d’un ozio malnato, mancando di coraggio per vendicarci delle suposte offese, che ci dipinse offese l’invidia, ci vendichiamo colla calunia, col moteggio più scimunito; coll’inventare sporche cose ed attribuirle a quegli che ci proponiamo di denigrare; sperando se non altro che la voce che ne correrà potrà a lui fare della pena. Bricconi per prodigalità da figli di famiglia, niente si lascia intentato per avere denaro, o rubandolo al giuoco, o ingannando chi lo possa prestare; birbanti da padroni di casa per avarizia, le suddicie usure, i lesivi contratti, e le frodi sono il vanto di quei sporchi, e le lagrime del povero, e dell’oppresso, le grida, i gemiti del desolato eccitano le risa di una parte di quelle anime infernali e gli applausi dell’altra.

Un sentimento onesto, un tratto disinteressato, una sentenza dilicata che ti sfugga; tu sei spacciato; la raccontano i zerbini alle tavolette delle dame, rivestendola di nuovi colori; tu sei un romanzo ambulante, un signor Lelio della comedia; i gravi padri della patria prenderanno caritatevolmente le tue diffese; diranno che quei ridicoli sono da perdonarsi, ma che non lo sono così gl’irreligiosi sentimenti, e le prave massime che tu spacci, senza però accenarne nessuna: che se per caso il tuo principe ti avesse mai distinto con della clemenza, che se il popolo tuo ti avesse onorato mostrandoli dell’amore, o ti avesse una sol volta salutato per padre, credilo le calunnie, i sarcasmi, le detrazzioni, le imprecazioni, i titoli d’empio, di dissoluto ti pioveranno adosso d’ogni banda. L’abitino, ed il topé ed i tacchi rossi degli uni; l’aria grave la serietà asinesca degli altri, formeranno il loro merito; il tuo demerito lo faranno le tue qualità stesse, né i pochi amici tuoi basteranno ad opporsi al torrente che tutto inonderà contro di te. I preti, ed i frati poi, i pacifici ministri dell’altare, i miti sacerdoti daranno l’ultima mano all’opera; riconosciuti per ciò che sono, in questo rischiarato secolo, e trattati in conseguenza, faranno gli ultimi sforzi contro di te, né vi sarà azione tua veruna abbenché santa che non sia sinistramente interpretata; di me hanno detto quei baron fotuti che ho dei libri di magia, che sono il nemico dei religiosi, che so la lingua inglese, che sono un eretico, un deista, un ateista, un libero-muratore, un filosofo, un miscredente, un camisin curt, che ho dei pati taciti con il diavolo, che non credo nel papa, che leggo de’ libri proibiti, che sono uno scomunicato, un dissoluto; e qualche d’uno è giunto a tacciarmi sino d’impotente, e che questo era il motivo per il quale non prendevo moglie; altri hanno detto ch’io avevo tre bastardi, ecc. ecc. ecc. ecc. E se tante, e tant’altre cose hanno detto di me che non ho alcun merito, cosa diranno, o lascieranno di dire di te se ne hai alcun poco?

[87] 24 otobre 1781. Il dì 17 di questo mese alle ore quatordici ha cessato di vivere il conte Giovanni Ambrogio Biffi mio padre. Sono rimasto privo di quanto avevo di più caro, e rispetabile al mondo. Ho perduto in lui il migliore dei padri, il mio amico, l’amico della mia infanzia, il mio benefatore; quegli che non mi comandò mai, ma mi ammonì, m’instrusse e m’inspirò di buon ora le vere massime del vero onore; egli mi fe’ suchiare col latte l’amore, e la riverenza che dovevo al mio principe, alle leggi, ed alla mia ingrata patria. Egli mi amò sempre con una tenerezza senz’esempio, e lo riamai in uguale maniera, e l’ho perduto! Divideva meco tutte le mie pene ed i miei piaceri; ciò che approvavo era approvato da lui; bastava che uno fosse mio amico perché tosto fosse pure il suo: troppo favorevolmente prevenuto per me si gloriava di me, non avevo una distinzione che non gioisse, non avevo un ramarico che non se ne affligesse; sentiva a lodare una buona azione, ed anch’egli diceva d’avere un figlio ch’era capace di farne; si parlava d’un uomo cativo, ringraziava Dio d’averlo benedetto con un figlio onesto; non v’era niente di me che non degnasse lodare ed esaltare.

Aveva sortito dalla natura un cuore sensibilissimo, un carattere dolce, un’anima virtuosa; vero e sincero sino allo scrupolo; fiero ed ardito nella lealtà, faceva consistere la nobiltà del rango nell’onoratezza in ogni cosa: aveva tutte le massime che ne’ tempi andati costituivano que’ generosi gentiluomini, che noi adesso, ne’ rischiarati tempi nostri, guardiamo come cavaglieri da romanzo; essi erano onesti, e noi siamo bricconi. Picciolo piutosto di statura, benissimo formato della persona, destro a tutte le arti cavaleresche, la fisionomia vivissima, gli ochi sfavillanti, era faceto nella conversazione, distratto ed anoiato negli affari, ammenché non fossero miei, rigido in ponto d’onore, geloso mantenitore di sua parola, portando la delicatezza dell’onore sino al pregiudizio, avendolo io più volte udito dire che in questo sol ponto si ponno trasgredire le leggi per conservare al proprio sovrano un corpo di nobiltà senza bruttura, “Anche la morte è da preferirsi all’infamia: ti amerei meglio morto che avvilito” mi diceva. Impetuosissimo nella collera, ma questa era momentanea, e si ravedeva, e si scusava con una grazia inimitabile. Compassionevole ai mali altrui, affabile, generoso, modesto, era generalmente amato da tutti, e la di lui onoratezza conosciuta, e rispetata.

La di lui educazione era stata negletta assai, non era uomo di lettere, abbenché amasse moltissimo i letterati; sapeva però il francese, il tedesco, e la lingua sua propria assai bene; intendeva tanto di latino da capire la Bibbia che non legeva; era religioso ma senza smorfie; niente lo scandalizava se non se una cativa azione, o una mancanza di parola data. Si confessava una volta l’anno dicendo non fare egli peccati alla sua età, che in gioventù ne aveva fatti d’una sol sorte che non disdicono coll’onoratezza; mi si dice di fatti che fu egli assai galante, e fortunato col bel sesso. Dapertutto dove trovava delle contradizioni, ed in qualunque sistema, le rilevava, aiutato dal semplice buon senso, e ne rideva. Era tolerantissimo, né mai volle male ad alcuno per diversità d’opinione; odiò quindi mai sempre i fanatici ed i persecutori, ed ebbe in esecrazione il Tribunale dell’Inquisizione sino da que’ tempi nei quali tutti lo rispettavano.

Si fece sempre un’idolo della pace domestica sacrificando a questa moltissimi suoi interessi, ed inghiotendo dispiaceri gravi per parte d’un fratello suo di un carattere duro, e che voleva comandare, e per parte di mia madre donna virtuosa ma d’un carattere austero che non combinava col suo affetuosissimo.

Amava le belle arti, la pittura massimamente, che esercitò; aveva ereditata questa passione dal suo eccellente padre; studiò da prima sotto un mediocre pittor figurista Bernardino de Hò, poi il paesaggio sotto Sigismondo Benini, e questi fu quel genere nel quale riuscì discretamente per un dilettante, ed alcuni quadri suoi che ho nella mia casa di San Felice lo dimostrano; fece anche di battaglie, ma non riuscì; non fondato nel dissegno della figura non meteva ne’ suoi dipinti di bataglie se non se un fuoco ed una furia singolare nelle azioni, ed in ogni espressione.

Erano già tre anni ch’era stato colpito da un accidente apopletico che lo aveva reso paralitico da tutta la parte destra, braccio, mano, coscia, e gamba; confinato su d’una sedia opure in letto, non perdé mai coraggio, o giovialità quell’anima nobile; spesissimi le replicarono i colpi in questo tempo, ed era per me un indizio quasi certo che andava ad avere un nuovo accesso quando lo vedevo duplicare la sua tenerezza per me. Era il giorno quindici di ottobre che montai al suo appartamento per salutarlo, quando sentendo una carezza di casa mi chiese per chi fosse; le risposi ch’era la mia, e per me avendo a servire un cavagliere torinese che mi era racomandato, il conte canonico de Comitis. “È giusto” mi disse “che tu vada ad accompagnare il tuo viaggiatore, ma intanto che tu le fai compagnia io sarò privo di te, e non sai che mi resta pur poco a goderne?” Non potei nasconderle il molto mio turbamento, e nel baciarle la mano mi vennero le lagrime agli ochi pregandolo a non funestarmi, e non funestarsi con questo linguaggio. Prese egli allora un aria solenne come non gliel’aveva veduta mai, e stendendo prima verso di me, poi alzandola al cielo, “Non ho che una mano per abbracciarti, e benedirti filiol mio, ne adoprerei cento se le avessi, Iddio ti benedica sempre, e ti remuneri per la tua pietà figliale verso di me; mi dichiaro contento di te, e delle tue azioni, e del tuo cuore; Iddio ti benedica come io ti benedico, e possi tu ritrovare in tutti quelli coi quali avrai a fare nel corso di tua vita il cuore di tuo padre. Amen.” E mi teneva la mano sul capo mentre io piangevo sull’altra sua mano che baciavo. Mi tolsi da quella troppo tenera scena che mi strappava il cuore; lo rividi la stessa sera, ed il giorno sedici quatro, o cinque volte, ma era languente, e ragionava non seguitamente; “Non v’è più oglio” mi disse “figlio mio la lucerna è esausta”; poi mi chiese se l’arciduchessa che con tanta clemenza mi aveva domandato di lui era ancora in Cremona; poi se ritornavo a Scandolara dal marchese Ali; erano questi sintomi d’un nuovo colpo del quale non s’eravamo accorti. La matina del 17 mi venne un servitore in camera ad avvertirmi che aveva perduta conoscenza; corsi nella sua stanza, spedii a prendere il medico, il chirurgo, ed il curato; egli era ancor vivo; mi ritirai fratanto; quando avertito che il medico era giunto le chiedo se v’è a sperare, e questi con un gran sangue freddo mi dice: “Non vive più”.

Fuggii da quella stanza di morte, avendo tentato in vano di baciarle la mano ancora una volta.

Non ho verun’altra consolazione nella irreparabile perdita che faccio se non che la sicurezza di non aver mai contristato in mia vita questo buon padre, questo padre incomparabile; in una sol cosa l’ho disubidito, ma Iddio sa s’ero scusabile nella mia disubidienza: ei voleva che prendessi moglie, ma col cuore prevenuto per una donna che non può essere mia, col cuore pieno di lei per mia sventura, e solo di lei, come avrei potuto dare la mano ad un’altra? Mi sarebbe sembrato di comettere una cativa azione. Tu vedi anima generosa là dal cielo ove stai, se là stanno e di là vedono le anime dei buoni, tu vedi quanto mi è costata la scusabile mia disubidienza; tu sai che sono l’uomo il più infelice del mondo, e mi compiangi, durando in te la solita tua bontà. Quella che tu avresti voluto per figlia, la virtuosa giovane che avresti voluto che fosse la mia sposa, donna Camilla della Somaglia, che avrebbe certo fatta la mia felicità, che mi amava, e ch’io stimavo, non avrei potuto amarla amandone io un’altra. Possi il conte di Casalgrasso meritar sempre la sua fortuna di avere una moglie tanto degna. Io non ne avrò mai altra, in me finirà la mia famiglia; né io potrò mai essere ad altri un tanto buon padre quanto lo fu a me il conte Gianambroggio Biffi, la di cui cara ed onorata memoria avrò sempre in venerazione sino all’ultimo mio respiro che mi auguro così placido come fu quello di quell’anima onorata.