Carteggio di Pietro e Alessandro Verri
I (ottobre 1766 – dicembre 1767)

CARTEGGIO DI PIETRO E ALESSANDRO VERRI
I (ottobre 1766 – dicembre 1767)

Testo critico stabilito da Gianmarco Gaspari (Viaggio a Parigi e Londra, 1766-1767. Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, Milano, Adelphi, 1980)

I (1) A Pietro. [Milano,] 2 8bre 1766

Abbiamo buona sedia ed ottimi cavalli e Vetturino. V’è tutta l’apparenza di essere benissimo serviti. Questa sera vi scriverò da Novara. Per ora non è tempo di parlare della situazione dell’animo nostro. Fin ora non può essere un dolce argomento. Lo sarà fra poco, io lo spero. Intanto siate sicuro che la nostra tranquillità non sarà anteriore alla vostra. Ne aspettiamo con impazienza le nuove. ALESSANDRO.

II (1) Ai Fratelli. [Milano,] ad[dì] 4 d[ett]o

Vi ringrazio che partendo m’abbiate ingannato, e che m’abbiate risparmiato il dolore di riflettere all’ultima occhiata che doveva darvi. Odazzi mi ha data la vostra lettera scritta sul punto di partire; l’ho baciata. Tutte le vostre lettere saranno fedelmente registrate in un libro da Fermiere. Il giorno della vostra partenza sono stato tutto il dopo pranzo col Marchese Beccaria al passeggio; io lo trovo un uomo di cuore, egli ama il suo Cesare e tripudia della gioia per la sua gloria; siamo entrati in vari discorsi di famiglia e singolarmente egli batteva il punto della Marchesina, contro la quale però non ha toccato che alcuni minuti articoli di disattenzione passata; io ho sostenuta la conversazione come deve un uomo che è venuto per la pace e non per la spada. Questa lettera l’incontrerete dopo finite le seccature del vostro viaggio. lo ho fatti i miei conti che quella porzione di strada che dovete fare sino ai confini di Francia deve essere noiosa assai, sopra tutto da Milano a Torino. Ora che siete in Lione cominciano le belle Cameriere agli alloggi; vengono i peccati mortali a girarvi intorno, la serietà piemontese e savoiarda sono finite, vi resta da vivere fra una nazione amabile sin tanto che passiate la Manica, per vederne una ch’io credo troverete feroce. Lambertenghi ha cura di me colla tenerezza del più dilicato amico, egli ha condensata tutta l’amicizia che era divisa in tre sopra di me solo, la sera viene col suo piccolo Bacone a leggere in mia stanza mentre io rivedo l’opera d’Alessandro con sentimento di consolazione; fra dieci o dodici giorni spero che l’avrò terminata e sarà immediatamente spedita. Quando penso che la privazione mia produce un bene vostro essenziale ed un piacere durevole, trovo la maggiore compensa di ogni altra alla vostra lontananza. Il Cavaliere sempre più mi piace e credo che termineremo per essere intimi amici. Ha senso per la virtù e per la verità, l’animo suo è ammollito da una cattiva educazione, ei vede da ogni parte i mali che possono fare gli uomini e non ha ancora acquistata l’idea che colla fermezza si respingono più sicuramente forse che colla pieghevolezza non si scansano. Ma il sugo vitale v’è, e ve lo prometto migliore al vostro ritorno; mi dispiace che per godere della sua compagnia io mi debbo sempre inghiottire l’Abate, che va con ordine retrogrado dalla conseguenza all’antecedente; ma spero di provvedervi, e ciò sarà facendo che il Caval.re venga a dormire nella stanza d’Alessandro, sotto pretesto ch’io resto affatto isolato di notte, e così avremo qualche ora in libertà. Ho scoperto nel Cav.re dei sentimenti intorno a voi due che fanno l’elogio del suo cuore e della sua penetrazione. Ora passo ad un altro punto, ed è che Alessandro è Profeta: il nostro S.r Troiano spontaneamente ha parlato con moltissimo entusiasmo dei precetti a Lucillo, che gli hanno provato una squisita sensibilità del cuore dello Scrittore; egli vorrebbe abbracciarlo, stringere al suo seno quell’anima calda di virtù che ha prodotti que’ pensieri; egli realmente aveva definito Alessandro come Alessandro credeva, ed ora vi definisce come siete e come avete preveduto. Pare impossibile come si possa sentir tanto e coglionar tanto, e come questi due talenti si riuniscano in quel microcosmo che ora va ad inaffiare tanti gallici cunni! In casa con me nessuno degli antenati parla di voi altri né della vostra partenza: frattanto che questi ascetici non consentono al viaggio peccaminoso, voi, da bravi, proseguitelo, e consolatevi che andate frapponendo uno spazio sempre più grande fra voi e le seccature. Ho mantenuta la parola a Beccaria e sono stato a visitare la Ninfa; non la trascurerò finch’egli ritorni, e spero che non avrà da farmi il rimprovero d’avere sepellito il talento in questo spazio di tempo. Ella m’ha pregato di fargli mille saluti. Noi non abbiamo alcuna novità pubblica. Ve n’è una secreta ed è che le istanze di Roma hanno portato tanto che si cambierà il sistema della revisione delle stampe e tornerà ad avervi mano l’Arcivescovo e, quello che è più, l’Inquisizione. Con ciò si viene a dare a que’ Frati un nuovo titolo. Illuminare his qui in tenebris sedent. Questo mi dà inquietudine e dispiacere assai. Si sta pensando a formare un piano che pregiudichi meno che sia possibile, ma sempre il pregiudizio vi deve essere. Queste oscillazioni dal bene al male son peggiori della perseveranza istessa nel male, la quale s’avvicina da per sé più sollecitamente all’estremo e, per conseguenza, al rimedio. Addio, cari fratelli. Amate il vostro Pietro, e continuate a ricordarvi di esso, che non ha in mente nessun pensiero più spesso che di voi. Odazzi, Lambertenghi, Biffi e Lecchi vi salutano; così Carlo e il Cav.re. Addio. PIETRO.

P.S. Prima di chiudere ho un’altra novità. La Principessa questa mattina, giorno di Gala, ha fatto molti encomi a nostro Padre perché con molta condiscendenza abbia approvato il vostro viaggio, del quale ha fatto gli encomio. La scena s’è passata in un gran circolo di nobili, e il Senatore Reggente stavasi tutt’umile in tanta gloria. Anche quest’encomio di più si è meritato per la costante ubbidienza a tutte le follie della sua cara metà. Addio PIETRO.

III (2) A Pietro. Novara, 2 8bre [1766]

Abbiamo ritrovato un Vetturino che ci serve assai bene. Questa mattina abbiamo pranzato a Boffalora, dove c’è l’Istorico Giulini che temevamo che non ci volesse suoi ospiti. È giunto nella stessa osteria per mutare i cavalli di posta, mentre vi eravamo, il Conte Bagliotti. Non volevamo essere disturbati; siamo stati ritirati nella nostra stanza. Questa mattina il viaggio è riuscito comodo. Non avevamo né freddo né caldo; ma questo dopo pranzo, andando noi verso l’occidente, siamo stati mezzo arrostiti dal sole, ed aspettiamo l’istesso disaggio i seguenti giorni. Ma non importa, mi confido nelle montagne della Savoia.

Or ora abbiamo fatto un giro in questa Città; siamo caduti a caso in una bottega di Libraro, e vi abbiamo ritrovato le opere del Sig.r di Volterre. Del resto, se le fisonomie non ci tradiscono, questa colonia dell’Asia, come vorrebbe il P[ad]re Ferrario, è ancor più stupida di codesta nostra metropoli.

Le acque pericolose che si dicevano doversi da noi passare non arrivano a mezza gamba di un uomo. Se il monte Senis cotanto terribile sarà egualmente da temersi, possiamo stare tranquilli. Spero che succederà il solito delle cose umane, le quali s’impiccoliscono più loro s’avviciniamo. Sto a vedere che gli erti monti savoiardi hanno da essere un delizioso viaggio.

Vi voglio dare una gran nuova: fin ora non ne ho di più rimarchevole. Il nostro Vetturino è guercio, eppure questa mattina ha scoperto in mezzo al fango della strada un mezzo paolo, stando a cavallo; onde è disceso e lo ha raccolto.

Col vostro passaporto le Dogane di codesto Stato sono andate senza la menoma parola: ma qui ad ogni tratto salta fuori gente che cerca la buona mano.

Mi ricorderò a Lione di mandar subito dal Sacchi per avere vostre lettere.

lo e Beccaria abbiamo comandato al nostro cuore di non opporsi alla tranquillità che desideriamo in un viaggio intrapreso a fine di avere sensazioni aggradevoli; il cuore di tanto in tanto fa delle velocissime scapate costì, e la ragione ci spinge verso Parigi. Questa lotta non potrà forse mai finire; ma scemerassi di molto quando sapremo e saremo persuasi che voi non siate in questa situazione. Prima di tal nuova non è possibile che noi ci abbandoniamo ai piaceri del n[ost]ro viaggio. Mille sentimenti mi si affollano al cuore. Addio. Il tempo mi manca. Il caldo del sole mi ha resa la testa pesante. Ti scriverò anche da Torino. Cerco d’annullare lo spazio che ci divide col scriver ti più che posso. Aspettati un nembo di lettere. Saluta i miei amici. ALESSANDRO

IV (3) A Pietro. Vercelli, 3 8bre [1766]

Mi trovo a pranzo in una assai bella Città. Comincio a vedere un Paese nuovo. Appena mi accorgo di essere escito dalla Lombardia. Da Milano sino a Novara tutto ha l’istessa aria: ma qui ritrovo, per quanto ne posso giudicare in poche ore, maggior polizia di costumi. La figura della Città è del tutto allegra: non vi sono fabbriche magnifiche, ma la maggior parte delle case sono belle. Ho veduto il Duomo. La Chiesa è grande e magnifica. Vi è un vestibolo, fatto dal Cavaliere Alfieri, che mi pare un gran bel pezzo di maestosa architettura. V’è la Chiesa de’ Padri Rocchettini di S. Andrea: disegno gottico, ma parimenti grande e bella. In somma, vi assicuro che nasce voglia di qui fermarsi.

Oggi abbiamo giornata nuvolosa: non avremo il sole in faccia questo dopo pranzo, come ieri. Stiamo tutti due benissimo. Ti abbraccio. Così fa Beccaria. Addio cogli Amici. ALESSANDRO

V (2) Ai Fratelli. [Milano,] 6 8bre [1766]

Cari Fratelli, ho ricevuto sin ora due vostre lettere, una da Novara, l’altra da Vercelli, dolci contrassegni del vostro cuore. Anch’io buona parte del mio tempo la impiego pensando a voi, ma non per questo lascio che la malinconia la vinca, voi sapete se sono industrioso epicureo. Io mi vado imaginando che ora, mentre vi scrivo, voi, stanchi del passaggio del Montcenis, state discorrendovela con qualche Savoiardina e assaporando l’aurea semplicità che trova asilo fra i monti; penso che fra pochi giorni sarete a Lione a leggere questa lettera, e che questo è il tempo accettabile, e che da gente di giudizio ve lo saprete godere sorso a sorso, poiché forse in vita non ne troverete un più delizioso. So che mi volete bene, e che la lontananza non mi scemerà… Ma cazzo, io faccio quasi con voi altri due da sodomita, e vivo sotto le Nuove Costituzioni, che non burlano. Dunque facciamo punto. La sera io sto in casa a ripassare il resto della Storia, della quale sono incantato. Odazzi lo è pure, ma vorrebbe maggiore italianismo nella costruzione del periodo; da qui a qualche tempo non penserà così. Il caro Luisino regolarmente viene a passar meco la sera: egli legge il suo Baccone, io rivedo la Storia. Indovinate chi sia il terzo? Il Cavaliere, il quale si sottrae dalle seccature e cerca un asilo per divorare le Lettere Persiane; è preso dallo spirito che vi sente, e più dal cuore. Il tratto de’ Trogloditi lo ha posto in orgasmo. Amici, preparatevi ad esserlo di lui: la sua anima riconosce se stessa ed il suo cuore è sicuramente fatto per la virtù. lo non gli ho proposto il libro né suggerito il passo de’ Trogloditi a preferenza; tutto viene da sé. L’Abate non c’incomoda e passiamo già due sere dolcissima mente, egli dorme vicino a me e la sera si fanno lunghi discorsi e assai interessanti. Per terminare il Tomo del Caffè, che Galeazzi vuole veder presto, io gli ho consegnato il manoscritto sull’Innesto; forse il Tomo avrà un foglio di più, ma che importa? Colla stessa composizione ne faccio tirare alcuni esemplari in ottavo per i miei amici, la materia interessa l’umanità ed io darò questo libro come un ceroto.

Il rimanente della lettera abbiate la bontà di riceverlo dal carattere del nostro Ghelfi, poiché io lo sto dettando nel tempo che una bella Signora ha la bontà di farmi il ritratto. Vorrei darvi delle nuove, ma non ve ne sono, ovvero sono così piccole che non vi possono interessare: per esempio, la Principessa Maria Beatrice è stata unta col Sacro Crisma giorni sono ed ha preso il nome di Maria Teresa. La funzione si è fatta senza invito, privatissimamente, dal nostro Cardinale. Il libro sulle Leggi Reali il Galeazzi lo ha pubblicato. lo mi aspetto in una delle vostre prime lettere qualche notizia di quello sventato uomo che n’è l’autore. La Somaglia e la Fogliazzi mi hanno ricchiesto di vostre nuove con premura. Padre e Madre non parlano d’Alessandro, come se nemmeno fosse al mondo. Monsignore ne parla con cuore e con tenerezza indicibile. Il nostro Presidente vi saluta caramente. Lambertenghi, Odazzi e i Fratelli fanno altrettanto. Terminate allegramente il vostro viaggio verso Parigi, e fatelo una volta di più in nome mio alle belle Cameriere che troverete per strada. Alessandro è salutato dall’amabile Pittrice. Addio. PIETRO.

P.S. Fate ricercare alla Posta, che v’ho scritto un’altra lettera diretta a Lione per mezzo del Corrispondente di Ginevra. Questa vi giungerà per la mano del S.r Sacchi.

VI (4) A Pietro. Torino, 4 8bre [I766]

Scrivo in mezzo foglio perché la franca tura costa troppo in questi paesi. Sono molto contento delle poche ore che respiro l’aria di questa Città. Il Guibert, Libraro, che era prevenuto da codesto Reicent, ci ha fatte mille onestà. Questo dopo pranzo ci ha fatta girare tutta la Città. Ella è molto ben fabbricata. Sarà la quarta parte di Milano. Farà novantamila anime. Vi sono due bei colpi d’occhio. L’uno è dalla piazza maggiore, da dove si vedono due strade, l’una che conduce a Porta del Po e l’altra a Porta Nuova. Mi sembra una piccola immagine della Porta del Popolo di Roma. L’altro colpo d’occhio è verso la stessa piazza. Sono due strade che tagliano in croce tutto Turino. Non è bisogno che vi dica la regolarità con cui è fabbricato la più gran parte. Credo che essa la renda in apparenza più piccola di quello ch’ella è veramente. Gli oggetti regolari forse producono quest’effetto.

Sono allogiato al Bue rosso, dove sto benissimo. Sono stato a Teatro. È passabilmente cattiva l’opera buffa. Addio: non ho tempo di più. Mi basta di dirti una parola. Forse ti scrivo a Chambery. Certamente nel primo sito che vi sarà posta. Beccaria ti abbraccia, come faccio anch’io. L’istesso a tutti gli amici.

P.S. Ho veduto un amabile e semplicissimo Filosofo nel Capitano Scheizer, che qui dimora. Egli è quello che ha mandata a Beccaria dalla parte della Società Svizzera la medaglia. Addio. Addio. Il tuo ALESSANDRO.

VII (3) Ai Fratelli. [Milano,] 11 8bre [1766]

Questa lettera ve la scrivo dalla dottissima sedia del Supremo Consiglio, perché oggi è forse questo il solo tempo che avrò per scrivervi. Ho ricevuto vostre nuove da Torino, oltre le altre due da Novara e da Vercelli. Voi avrete a Lione ricevute due mie, una dal Sig.r Sacchi ed una dalla posta. La Isimbaldi è ritornata in Città, non pensa di fare la progettata corsa a Lugano perché il viaggio l’incomoda, e lo ha provato solamente da Pavia a Milano, dove ne ha sofferto. lo seguito il mio solito tenore di vita, non sono stato al Teatro dopo la vostra partenza, la sera me ne sto nella mia solitudine col caro Luisino e col Cav.re, il quale sempre più mi diventa caro; non così quel fanatico dell’Abate, il quale più si conosce e più inspira indifferenza e qualche cosa di più; non è possibile il mancare di più di senso comune e il sospettarne meno di quello ch’ei fa; pare che abbia ridotta la fatuità a sistema e che nella sua testa sia un principio di ragionar male su princìpi falsi, evitando sempre le conseguenze legittime. Si sta stampando il mio discorso sull’Innesto, e ne faccio due edizioni in una volta, una col Caffè, l’altra in ottavo, la quale sarà un opuscolo di più di cento pagine. lo sono giunto nella revisione della Storia sino al Frate Barletta; ho dovuto interromperla per fare degli estratti di Libri italiani per il Galeazzi, il quale sta per pubblicare il secondo Tomo. Il vostro Frate del fulmine è ridicolo nelle sue frasi urbanamente inurbane, ma per altro non è un ignorante nella materia che tratta: per ciò gli ho avuta carità nell’estratto. Io però mi affretterò a riprendere la Storia e sbrigarla in breve per spedirvela al suo destino. Biffi si dispone a ritornarsene a Cremona fra pochi giorni,. onde resto sempre più isolato. Odazzi è, come è giusto, attaccato al suo generoso ospite, né io posso profittare molto della sua compagnia; e poi un amico, per il mio cuore, resta sempre nuovo per molti mesi, e non mi compensa mai l’amico vecchio. Addio di fretta. PIETRO.

VIII (5) A Pietro. Aigue-belle, 8 [ma 7] 8bre [1766]

Il Luogo da cui vi scrivo è distante da Chambery sei leghe. Dimani vi arriveremo. Ho saputo che qui v’è la posta: perciò subito vi scrivo. Tutte le volte che trovo la cannoniera tiro la mia cannonata verso di costà, e lo farò tutte le volte che ne avrò l’occasione. Noi stiamo bene. Trovammo qualche alloggio veramente alla spagnuola. Ma pazienza: per veder Parigi abbandonammo le cose più care; è niente, dopo questo, ogni disaggio. Sono quattro giorni che camminiamo le montagne di Annibale. Sempre in su ed in giù, con alti monti che ci pendono sulla testa. È sovente orrido, sovente a vicenda bellissimo il teatro che ci offrono questi grandi ossoni del nostro globo. Si vedono positivamente in questi siti dapertutto le rovine delle antiche rivoluzioni. Ieri è stata la giornata peggiore quanto al viaggio. In appresso andiamo al basso, troviamo strade migliori senza paragone. Il monte Senis è qualche cosa di ben rispettabile. Dalla parte d’Italia ha la strada: ma da questa banda non è alcuna. Si discende per i canali che ha fatti l’acqua. L’arte ha niente fatto per renderlo praticabile. È veramente questa la sola parte di tai monti che si possa dire un argine alla Francia. Negli altri luoghi vi sono strade bellissime, se si considerino tagliate nelle falde de’ monti. Tanto è ciò vero che vi sono le poste da per tutto. Addio. Sabbato saremo a Lione. Mi manca il foglio. Ti abbracciamo cento volte: così gli amici. Addio. ALESSANDRO.

IX (4) Ai Fratelli. [Milano,] ad[dì] 18 8bre [1766]

Quattro lettere sin ora ho ricevuto da voi: Novara, Vercelli, Torino ed Aigue-belle, e questa è pure la quarta lettera che vi scrivo, e perciò vedete che vi pongo il numero, come farò sempre in avvenire, perché sappiate se qualche cosa si perde. Ricevete dunque acclusa la lettera della Principessa Elisabetta procuratavi dalla nostra buona amica, la quale merita che le scriviate di tempo in tempo. A tal proposito voi sapete che le incombenze le so suggerire molte alla volta, e vi propongo il Sig. Conte Firmian, al quale naturalmente scriverete tutti due se volete indirizzarmi queste lettere mi farete piacere. M’immagino che forse a quest’ora siete in Parigi. Il Marchese Lonati è ritornato dal suo giro di Parigi e Londra e il primo accoglimento che gli è stato fatto si è d’averlo posto in Castello, da dove in pochi giorni è uscito: la ragione di ciò è perché era partito senza formale licenza del Governo. La Principessina ha chiesto nuove di voi altri due a Biffi nella visita di congedo ed a me nel baciamano. di S.ta Teresa. Biffi è partito per Cremona ed io resto con Peppe, Luisino, che ha una guancia gonfia, e il Cav.re, che ha terminate le Lettere Persiane ed ora scorre il libro che ha cagionato il fatto d’Abeville. Eccovi tutte in un fascio le poche nuove che vi sono. La Casa Beccaria è andata ieri a Gessate co’ sposi Isimbaldi, i quali hanno fatta e ricevuta visita dalla Marchesa e Marchese. Mia Madre sta a letto, mio Padre ha una lite colla Duchessa Serbelloni per un cacatore; Avvocati, Scribi, Farisei si vanno internando in questa materia: è peccato che pochi sappiano ridere dove tanti sanno far ridere. San quasi al termine della Storia; la correzione delle stampe, l’Indice e l’Errata del Caffè, l’estratto del Fulmine e delle Leggi di Vasco m’hanno occupato del tempo. Mercoledì scriverò ad Aubert e contemporaneamente spedirò a Genova il pachetto. Nella condotta per Parigi vi unirò mezza dozzina di Caffè, Tomi I e 2: ne farete l’uso che troverete approposito. Se avete qualche notizia di quello sventato di Vasco, scrivetemela. Sentitene una bella. Un Cav.re Toscano colto e amabile assai ha scritto a chi? Al Marchese d’Adda. Che viene a Milano per vedere Beccaria e me. Ciò mi è stato detto dal Sen[ato]re Pecci. In casa si lamentano perché io non dia le vostre nuove e non vi nominano mai; se il vostro viaggio è un peccato mortale, io non debbo trionfarne avanti coscienze tanto timorate quanto essi sono. Gli ho fatto dire che avevate passate le Alpi sanamente. Datemi sempre vostre nuove, cari Fratelli, che queste sono la più graziosa mia consolazione. V’abbraccio col pensiero. Addio, cari. PIETRO.

X (5) Ai Fratelli. [Milano,] 21 8bre 1766

La posta di Francia non è giunta ed io, sospirando vostre nuove, vi scrivo due righe per darvene le mie. Da Aigue-belle a questa parte non ho più ricevute vostre lettere. V’è stato chi ha supposto a mio Padre che vi siate accompagnati per viaggio colla Marchesa Andreoli, e che con essa abbiate presa la Diligenza per voi soli; io, che conosco il vostro umore, non ne credo nulla. La lite che ultimamente vi ho indicata per il cacatore s’è attitata con solennità e con tutta l’industria ghelfa e gibellina. A nostra madre ne è ritornata la febbre per passione. Vi vorrebbe un Poeta che fosse un grado più in giù del Tassoni per cantarne degnamente il caso. La Storia è rivista pienamente e in questa settimana si spedirà nelle forme. Non v’è alcuna novità, gli amici stanno tutti bene; Lambertenghino e Peppe continuano a leggere la sera con me; io penso di riprendere le mie Meditazioni e di rifonderle in questi giorni di vacanze. Addio, elementi essenziali al mio ben essere. Amatemi. Spero che stabiliti che sarete in Parigi avrò regolarmente vostre nuove; ma ne’ viaggi sempre accade così: l’ho provato io andando a Vienna, malgrado la premura che aveva di dar mie nuove a Milano. Addio, cari. PIETRO.

XI (6) A Pietro. [Lione,] 12 Ott[ob]re [1766]

Siamo finalmente esciti dalle noiosissime montagne savoiarde. Niente di più squallido e miserabile. Se ne eccettuate due valli, l’una di S. Jean de Morionne e l’altra d’Aigue-belle, il rimanente tutto si può dir nudo sasso.

Questa Città è assai grande e bella. Il tutto ha l’aria mercantile. Poche carrozze, pochissimo lusso, rarissime poste di carrozza. La maggior parte va a piedi, col parasole sotto il braccio, con un bastone in mano, capello in testa, abito succinto, tutt’al più con un leggiero bordo d’oro o d’argento. Le maniere di questa gente sono cortesi; ma, per quanto mi posso trasportare a Parigi, mi sembra che abbiano qualche cosa di troppo mercantile: sono un grado al dissotto della vera franca pulitezza; pure, qual differenza da codesti galli circumpadani!

La Città, come vi dissi, è grande: farà centosettanta mille anime. Non v’è nessuna gran fabbrica che fermi un forastiero. Si ritrovano delle belle strade, delle buone case, il tutto ha l’aspetto di vastità piuttosto che di magnificenza. V’è nulla da vedere per un galantuomo. Siamo stati alla Certosa, che è riposta su di una altura contigua alla Città. Vi vedemmo un magnifico altare. Questo è ciò che si mostra ad un forastiero. Nulla più. Il nostro valet de place non sa dove più condurci. Non pubbliche biblioteche, non grandi fabbriche. Si dice che Lyon è più grande di Mi1ano. Ciò non mi sembra. Ho veduta stamattina tutta la Città in un colpo d’occhio dalla Certosa, e non sono persuaso che superi Milano. Ella è bensì più regolarmente fabbricata e più bella.

Ieri sera siamo stati al Teatro. Si rappresenta il Tancrede. Passabilmente. Vengo di ricevere in questo punto la tua cariss.ma dei 6 Ottobre. Quale consolazione per la filosofica famiglia di ritrovare nel Cavaliere un nuovo associato, e noi un buon amico. Quanto all’Abate, ei sarà sempre un buon uomo. Mi pare che la sua maniera di pensare sia legata ad organi ben duri.

Voi dunque leggete la mia opera? voi la trovate buona, ciò mi consola; ma che Odazzi pretenda ch’io mi vesta de’ bocaccievoli ornamenti non me l’aspettavo. Come, quell’anima di Vesuvio e di trasporti esigerebbe ch’io mi avvolga in questo fango grammaticale, mi ponga que’ ceppi indegni e vergognosi, a’ quali dobbiamo la nostra mediocrità? Convertitelo nella buona strada del Signore, convertitelo. Ho cento cose a dirti, ma non ho tempo. Martedì parto per Parigi. Di là ti darò più minute notizie del mio viaggio. Vi vuole maggior tranquillità per dartele. Addio, addio. T’abbraccio, così Beccaria. Fa’ lo stesso agli amici. ALESSANDRO.

XII (6) Caro Alessandrino [Milano,] 26 8bre [1766]

Oggi ricevo la vostra lettera di Lione, sospirata perché da dodici giorni non sapeva vostre nuove. Dalla lettera di Beccaria mi figuro i dialoghi che avrete avuti nel viaggio, compiango la sensibilità del caro amico e mi fido sulla ragione vostra, che gl’impedirà di fare una scena irreparabile nella opinione altrui e darà tempo e spinta alla sua, per superare l’accesso della febbre. In quest’ordinario non vi saprei scrivere altro se non che m’è stata cara la descrizione di Lione, che noi non abbiamo nulla di nuovo, che parto per Gessate per alcuni giorni e sono stanco per la lunga lettera scritta a Beccaria. Amami, caro amico. Ti salutano Lambertenghi e Visconti. Addio, caro. PIETRO.

XIII (7) A Pietro. [Parigi,] 19 Ott[o]bre 1766

Bisogna finalmente che il mio cuore si sveli e scoppi con voi. Io vi farò la serie di quanto mi si è passato nell’anima da poiché vi ho lasciato sino adesso.

Mi andava lusingando che l’abbandonarvi per alcun tempo non mi sarebbe costato che nulla o pochissimo. Si trattava di qualche mese di assenza, si trattava di andare nella più gran Città d’Europa: mi credeva adunque che il nostro distacco sarebbe stato quello di due uomini la di cui tenera amicizia non si sarebbe fatta sentire, in questa occasione, che dalla parte della cordialità solita. Di mano in mano però che si accostava il giorno della partenza, io sentii sminuirsi nell’animo mio questa tranquillità che mi era promessa, finché la sera antecedente, in Teatro, mi sono propriamente ritrovato in uno stato nel quale io stesso fui sorpreso di essere. È gran tempo che non provai sì fatta prostrazione di cuore. Al momento ch’io lessi nel tuo volto, il dopo pranzo, i segni di un dolore soffocato, e molto più alla sera, ti giuro che mi sono sentito a scoppiare di tenerezza. Vedi se non lo doveva fare e se il mio cuore poteva essere in altra situazione. In te mirava un uomo che pagava co’ suoi danari un profondo dolore e me lo nascondeva, volendomi sollevare a un tempo dalla gratitudine e dalla desolazione di un congedo. Non ti saprei spiegare qual sensazione mi facesse il vederti luttare contro te stesso al Caffè ed al Teatro; io diceva ad ogni momento: quest’uomo è per me in tale tumulto, la sua amicizia giunge a segno di risparmiarmi con gran sforzo il dispiacere che avrei conoscendo lo stato dell’animo suo. Un uomo che si abbandona al suo dolore con imbecillità mi è sempre stato un oggetto a cui non posso accordare la compassione che mista di qualche disprezzo; ma un uomo che resiste al dolore, che tumulta con se stesso e sulla di cui faccia ciò si comprende: se quest’uomo è amico, è tenero amico, se la cagione dello stato in cui si ritrova siete voi, io dico, perché l’ho provato, che questa è una scena troppo insoportabile. Non mi ricordo d’aver provato simile disolazione d’animo che andando ne’ collegi di Santa Cristina e di Merate. Se non che questa volta v’era, aggiunta all’abbattimento, una gran dose di tenerezza. In tale stato io sono andato alla sera a dormire da Beccaria. Alla mattina fu una scena compassionevole il distacco dalla moglie. Calderari ed Odazzi vi erano presenti e non aveano il coraggio di farla da consolatori, mostravano nelle loro fisonomie le nostre passioni. Erano due ottimi amici, ma non per queste occasioni: bisogna aver la forza di comparire insensibile, se così facendo potiamo sollevare gli amici. Il dolore, se ha compagnia, cresce assaissimo. Quanto a me sono stato il solo che abbia dissimulato: credo che Odazzi mi abbia prospettato insensibile. Mi sono piccato di questa ingiusta sua congettura. L’ho potuta ricavare da qualche tronca sua parola. Forse mi sono ingannato, forse no. Se così è, metterò queste sue riflessioni assieme di quelle che ha fatte sulla mia opera.

Che vi dirò, amico, del mio viaggio? molto, in poche parole. Il mio amico il secondo giorno à cominciato a regrettare la sua famiglia e la sua Moglie sopratutto. Sono due settimane ch’io sostengo la sua somma e pesantissima melanconia. Ho temuto che divenisse pazzo. Egli si è dimagrito: avea lo sguardo abbattuto e fisso a terra, sospirava, piangeva: in fine vi ripeto ch’ho temuto ch’egli impazzisse. Si era fissato in capo che la Marchesina sarebbe morta: in conseguenza di questo principio ne tirava le conseguenze. Vollea venire per le poste a Milano. A Lione ho avuta tutta la pena di questo mondo per trattenerlo. Stava per fuggirsene. Vedete qual scena? Finalmente le ragioni che gli ho detto l’hanno persuaso a venire fin qui e provare se vi si possa vivere. Amico, mai più viaggio con uomini di grande immaginazione; mai e poi mai. Non ho passato in mia vita peggior tempo di questo viaggio. Come? aver seco un uomo che sospira, che non è buono a nulla, che mi parlava da pazzo da mattina a sera, che mi volle a fuggire da per tutto, che mi era tutto sulle braccia; e dove così buona compagnia? Nelle montagne della Savoia: solo, abbandonato in cattivi tuguri. Vi assicuro che tal volta mi sarei gittato dalle finestre. Vi scriverò più a lungo di tutto ciò l’ordinario venturo. In tanto sostituitevi a quanto ho sofferto e vedrete che bella delizia è stato il mio viaggio. Mai più Filosofi, mio Signor G[esù] C[risto], mai più Filosofi!

Finalmente oggi sono giunto a questo Oceano d’uomini. Vi approdai con molto rispetto. Si entra in Parigi dalla peggior parte ch’egli abbia. Eppure quale spettacolo! In seguito darò più distinta relazione di tutto ciò.

Torno indietro al viaggio. Mi hanno detto che gli Auberge della Savoia sono ottimi. Falso, falsissimo. Sono orribili. È vero che nelle montagne non bisogna sperare molto, ma è vero che si sta male di alloggio e di letto. Abbiamo sovente dormito vestiti. Fra le altre cose, il culo vi sta inospitalmente. Non si sa dove fare il suo servizio; non si mangia però male. Ma ciò non basta. Mi hanno detto che le cameriere sono facili. Falso, falsissimo. Non sono facili in conto alcuno. Non mi farete il torto di credermi inabile a sedurre una marmotta di quelle montagne: pure la cosa è così. Sono avvezzate agli uomini, se ne difendono accortamente. Altronde non meritano nulla. Sono brutte diavolacce, mal vestite e goffe. Mi hanno detto che gli Auberge della Francia sono divinissimi. Falso, falsissimo. Sono passabili e niente più. Mi hanno detto che nella diligenza si sta a meraviglia. Falso, falsissimo. Si annoia profondamente un onest’uomo: giacché, come trovare sei persone del vostro umore, sei persone che vi presenta il puro azzardo? Mi hanno detto che in Parigi v’è un continuo strepito di carri, carrozze e vetture. Falso, falsissimo. Noi siamo alla Hotel de Malte, rue Traverse, riposta nel Cuore della Città, eppure non v’è tanto strepito come si dice. Cominciate a tener da conto queste poche falsità, forse ne verranno in seguito delle altre. Parigi non me ne impone un cazzo fino adesso. Vedremo che pensare in avvenire.

Oggi, giorno seguente alla mia venuta, ho già conosciuto Diderau, Tomas, Alembert ed il Barone d’Aulbac, da cui abbiamo pranzato. L’abbé Morellet ce gli ha fatti tutti conoscere al momento. Beccaria è accolto con adorazione. lo sono ancora come sarebbe a dire un astro che non ha ancora che la luce di riverbero. Ma stiamo sodi. Ciò è ben giusto. Fra poco spero qualche cosa di più. Sono lontano dalla invidia ma non dal desiderio della stima. Taluno mi crede l’autore delle Meditazioni. Bisogna che li vada disingannando. Hanno qui tradotto il mio saggio su Giustiniano. Piace e mi fanno complimenti. Farò tradurre le altre pezze e vedremo che pensano. Se stimano quella, stimeranno le altre.

Vi dirò due parole di questa gente. Il carattere che essi esiggono nell’uomo è prima la bontà che la scienza. Hanno fra di loro un tuono del tutto famigliare, filantropo. Non v’è fasto, non v’è pedanteria. Disputano caldamente e vigorosamente fra di loro, con tutta la buona fede del mondo. Morellet ci fa mille attenzioni. È un ottimo amico. Diderau è la stessa semplicità. È circa i cinquant’anni. Declama sempre con impeto, delira, è caldo, caldo in tutte le cose della conversazione, come ne’ suoi libri. È eguale da per tutto. Ottimo, sensibilissimo uomo. lo gli ho detto al primo abordo chez le Baron d’Aulbac: Je ne sais, M.r, si je dois vous faire des compliments ou des adorations. E egli colla sua semplicità è subito disceso al mio livello. Gli ho detto que je vojais que les grans Philosophes etoient comme les grans Segneurs, qui plus etoient grands, plus ils etoient humains; mi rispose prendendomi la mano: je suis bien content que vous aiez cette maxime la.

D’Alambert è un uomo che non tanto sembra occupato dalla sua fama nella conversazione come di esservi uomo amabile. Egli è piccolo, magro, valetudinario, d’una fisonomia buona, finissima, brillante. Ci ha detto in tutto segreto che darà presto alla luce un nuovo tomo di Mêlanges; la Destrution des Jesuites, ancora, escirà presto con delle aggiunte considerabili. Ne ha parlato sorridendo, come se i gridi debbano essere maggiori in questa edizione di quello che non lo sono stati. Vi deve, dal tuono con cui ne parla, aver fatte delle importanti addizioni.

Il Barone d’Aulbac è un uomo adorabile. Il tuono della Società e della tavola di sua casa è libero e comodissimo. Ieri (perché continuo la lettera il giorno 20) ho sentito a dire alla tavola di esso Barone che la novella de’ Pattagoni si va riconfermando. Videbimus.

Io sono alloggiato alla Hotel de Malte, in un bellissimo quartiero, nel cuore di Parigi. Questa Hotel è situata rue Traverse. Per avere vostre lettere parlerò al S.r Verzura, come ci siamo intesi, e manderemo le nostre dalla parte di Ginevra.

Il mio amico continua nella sua melanconia: i maggiori suffragi, la maggiore Città non gli basta. Seguito ad esser assediato dal momento che mi sveglio sino alla mezza notte. Manderei a far bog… il mio malanno, che mi ha riposto in questa situazione. Io vengo a Parigi per divertirmi e mi sono annoiato quant’è possibile, fin ora. Credo che l’amico non potrà qui fermarsi. Ei non ha più dei sbalzi di tristezza, ma non dorme le sue notti, e cessate un momento le distrazioni ricade nelle sue idee. Niente gli tien luogo della sua famiglia, egli sospira la sua moglie, i suoi figli e mi pare impossibile che ben presto per le poste non ritorni costì, pretestando l’aria, l’acqua della Senna, la. salute. o simili ragioni, con quale figura poi io non mi saprei. A buon conto l’ho strascinato fin qui. Quanto a me, adesso che sono mezzo orientato e che ho il mio Frisi, che non pensa di partire così presto lascierò che l’amico ritrovi in Milano la sua tranquillità. Non mi è possibile di più vivere con lui. Mi ammareggia la vita. Così la cosa è decisa. O si accomoda e vivremo bene, o non si accomoda, partirà ed almeno avrò pace nel mio tugurio. Amico adorabile voi avete provata la seccatura orribile di avere un servitore che invocava i Morti di San Bernardino voi mi compatirete. Vi scrivo quello che mi sento perché non vedo l’ora di sfogarmi, e mi rincresce di non potere toccar col dito Milano perché tosto voi abbiate questa lettera. Facciamo un dialogo importantissimo con di mezzo centosessanta leghe. Bisogna sempre che ritorni al mio soggetto. lo ho cominciato a seccarmi della imbecillità dell’amico, perciò sono stato secondo il mio solito, ne’ princìpi del mio viaggio, un poco aspro: mi annoiavo di vedermi accanto un uomo che era buono da nulla in un tempo che bisognava esser disinvolto. Questa mia asprezza, non per altro grande ne inurbana, l’ha cominciato ad involgere in melanconia maggiore. Gli parve di vedersi come isolato. Le montagne e gli cattivi alberghi della Savoia hanno poi data l’ultima mano. L’orridezza del paese ha suggerito a quella grande immaginazione fantasmi terribili. Allora ho positivamente cominciato a temere di lui. Mi sono sentito pieno di compassione. Egli chiamava da mattina sino a sera: La Marchesina si ammalerà ella? Io gli dicevo cento ragioni, finiva coll’essere persuaso un momento e poi ritornava a farmi la stessa domanda; ho fatta questa bella vita due settimane; a Lione finalmente scoppiò la mina. Volea andarsene. lo gli ho fatto vedere a quale scena si esponeva, a quale ridicolo andava incontro, quanto gli pregiudicherebbe nella opinione degli uomini, e forse degli amici, questa debolezza. Si conchiuse adunque di venire a Parigi e di provare se vi stava bene: caso che no, di partire col pretesto o della salute o di affari domestici. Egli mi ha fatto ripettere un milione di volte le ragioni che gli ho addotte a Lione per venire fin qui. Se ne dimentica ad ogni tratto e me le fa dire di nuovo. Adesso però io gli ho parlato chiaro. Gli ho detto che così non possiamo vivere. Che siamo venuti fin qui con grandissimi stenti ed ostacoli e che quanto a me non voglio perdere questo tempo prezioso, che però o può starvi, e viveremo, o non può starvi, e cerca quel rimedio alla sua tranquillità ch’egli crede il solo a potergliela procurare. Io non ne posso più, più, più.

Dirò finalmente una cosa, dopo tante che ne ho dette a questo proposito di poco felice memoria; e questa è che anche l’uomo sensibile lo è bene ai mali ed al dolore delle persone che lo sopportano o li sopportano da uomo; ma non tanto lo è al dolore misto di abbattimento e della più feminesca e fanciullesca imbecillità. Altronde, così soffocato ch’io sono da questa melanconia per tanto tempo, prevale in me il sentimento di noia a quello della commiserazione; aspettatevi adunque ben presto a Milano l’amico. Dio! qual scena! Si è tanto detto, tanto parlato e poi così si finisce.

Passiamo ad altro. Mi sorprende il libertinaggio di questo paese. Vi vorrebbero mille cazzi. Non vi dirò che questo. Alla sera sino a mezza notte le più popolate strade di Parigi sono piene di puttane che fermano le persone e le invitano al giuoco; piene piene, per modo che se ne vedono tre, quattro ad ogni passo; e belline, sapete. Mi pare che non si possa dire di più.

Vi sono molto obbligato della pazienza che avete a rivedere la mia opera. Addio, amico adorabile: mi sento meglio dopo di essermi sfogato con voi. Vi vuole tutta l’industria per scrivere questa lettera. L’amico non mi lascia giamai tranquillo. Sapiatemi dire come vanno le cose di casa e che dicono costoro. Essi hanno ragione. I costumi qui certo sono maladettamente impervertiti: quanto alla religione ho veduto che in tutti gli Auberges della Francia si dà a mangiare grasso e magro sabbato e venerdì. Qui si parla di Rousseau con fanatismo: è detestato e disprezzato. Sono irritati, ma hanno torto. Mi pare troppo fuoco contro di lui, non gli accordano merito alcuno. Di nuovo ti abbraccio. Forse scriverò a mio Padre. Bisogna che metta la mia anima in una incomoda situazione per riuscirvi. Saluta tutti quanti gli amici anche dalla parte di Beccaria. Ti dirò un’altra cosa. Beccaria ha cominciato a disgustarmi col volere far a parte il suo giornale e quasi farmene un mistero: io avea progettato di farlo insieme. Ho veduto ch’egli era geloso. Dirò un altra cosa. Gli faceva una pena grandissima il vedermi tal volta allegro. La sua melanconia allora cresceva. Vedete che bel gusto! Io, che so il disotto delle carte intorno al carattere del mio sozio, trovo qualche riflessione da fare quando lo vedo in mezzo de’ suoi ammiratori.

Addio, addio, Vorrei avere le braccia lunghe centosessanta leghe. Non manca di scrivermi, per amor del Cielo. Io sto bene: l’animo mio non è tranquillo, ma, per Dio, non farò la coglioneria di fuggire da Parigi né la bestialità di spender male i più bei giorni della mia gioventù nella più graziosa Città del mondo, né la menchioneria di rimproverarmi un giorno d’aver buttato al vento il frutto prezioso della vostra liberalità. No, amico. Voglio vivere bene a Parigi. Voglio veder Londra e l’Olanda, voglio ritornare per Marsiglia e fermarmi nel ritorno a Livorno e traversare in tal modo la Toscana. Così penso, così farò se lo posso. Di nuovo per la trentesima volta ti abbraccio teneramente, il migliore e l’eterno de’ miei amici.

Non ho riveduta la lettera per far presto. Se vi sono delle ripetizioni, peggio per voi. L’ho scritta fra i sospiri dell’amico.

P S. Risovengati di mandarmi i libri di Carli, Relazione del Censimento, tre fogli ultimi del Caffè, qualche altra copia del Caffè, il libro di Facchinei. ALESSANDRO.

XIV (7) Ai Fratelli. [Milano,] 3 9bre [1766]

Rispondo alla tua lettera del 19 dello scaduto che m’è stata portata a Gessate, dove ho passati deliziosamente sei giorni; di là vengo in questo punto col Cav.re Isimbaldi, e appena sbarcato alla Ferma di qui ti scrivo. Cento cose ti debbo rispondere a cento altre interessantissime che mi hai scritte. Primieramente tu mi hai dato un piacere voluttuosissimo, che è andato sino al midollo del cuore, descrivendomi la tua sensibilità nella partenza e l’intima cognizione che hai avuta dei moti del mio animo. Io ti dirò schiettamente che in qualche passaggiero momento io son stato reo presso di te, perché ho potuto dubitare se la tua fermezza fosse virtù o preferenza costante che dassi ai piaceri del viaggio. Perdonami un sentimento che tu non meritavi e che è durato per alcuni baleni in me. Lambertenghi con una parola mi ha fatto ritornar giusto e la tua lettera non m’ha data nuova opinione su di ciò. Io ti aprirò pure il mio cuore: immaginati con qual occhio io poteva esaminare la solitudine nella quale resto sino al vostro ritorno, il bisogno incessante che ho di te, che mi hai date tutte le ore buone che ho passate in casa, il bisogno di comunicar le mie idee; io vedeva uno spazio di tempo squallido e desolato in faccia, ma ho sempre usato due artifici per diminuire la mia sensibilità: uno, la distrazione, la quale mi sembra ch’io sia libero nel destarmela; l’altro, il più efficace, coll’adulare il mio amar proprio sentendo d’avere in me una forza che nessun uomo volgare avrebbe; così, industriosamente contrapponendo sensibilità a sensibilità, io non sono mai né abbandonato né abbattuto. Penso che tu mi vuoi bene; che questa mia solitudine migliora te stesso, ch’io ho potuto contribuire a rendere più stimabile un caro amico, e perciò più felice nel restante della vita. Questo pensiero e l’occupazione di scriverti e ricevere tue lettere sono le idee più dolci che mi occupano. Tu non mancherai mai di mie lettere, ti prego di far lo stesso.

Ora passiamo all’altro punto. Per quanto io conoscessi Beccaria, confesso che la lettera ch’egli mi ha scritto da Lione m’ha perfettamente sorpreso. Pare scritta da Oreste perseguitato dalle Eumenidi; pare scritta da un reo di stato che è tradotto a Parigi per perdere la testa. Io ho risposto a lui quello che naturalmente tu gli avrai ripetuto mile volte. Sono in una continua agitazione per lui. L’affare è dell’ultima importanza: agli occhi miei ei sta per giuocare in un sol colpo la stima altrui e forse la propria morale, la quale rare volte sta soda quando si diffida della stima altrui: come mai conservare un fondo di benificenza, quando ogni uomo ci slancia nel cuore un rimprovero della nostra imbecillità? Si può essere virtuoso fra chi ci odia, ma fra chi ci disprezza alla lunga si cede. L’odio sta colla stima, e v’è qualche tinta nell’odio altrui che ci lusinga perché ci prova che valiamo; ma il ridicolo, ma il nessun conto altrui, come mai non sradicherà dal cuore ogni germe di bontà e non vi verserà il più amaro assenzio, da cui prendino l’indole i sentimenti tutti dell’animo? Qual figura farà mai l’amico dopo un sì pusillanime e ridicolo partito? E per chi? Per la moglie, che va divertendosi alla Costa, a Turano, in buona compagnia, e che il giorno stesso della sua partenza si divertì allegrissimamente! E quale stima ne dovrà avere essa moglie? Cosa penserà quel galantuomo di suo Padre, che fa un debito per proccurare degli onori e un collocamento a suo figlio, e lo vede convertire in una scena vergognosa? Cosa dirà egli al Governo, alla Principessa, ecc.; cosa dirò io a tutti quanti? Amico, io compatisco lo stato infelice in cui sei di persuadere un uomo che nelle sue corde deliranti non è persuasibile, pure non ti stancare: si tratta di un ridicolo inespiabile che sta per cadere sopra un uomo che merita tutt’i sentimenti della nostra stima e del cuore, si tratta d’un uomo che ricompera a larga mano i suoi difetti. lo gli ho scritto una lunga lettera, nell’ultimo ordinario, dettata dalla libertà del cuore e dell’amicizia. Né Lambertenghi, né Visconti, né suo Padre sanno nulla di questa malattia; io aveva troppa inquietudine nell’animo per soffocarla tutta in me, l’ho confidata alla Contessina Isimbaldi, la quale sicuramente tacerà. Spero per altro che la scena non sia per succedere, ed eccone la cagione. Per partire da costì e venire sino a casa vi vuole la fermezza d’animo di viaggiare o solo o con un compagno presentato dall’azardo: la debolezza istessa che cagiona il male non permetterà che si scelga il rimedio funesto. Oh Dio, caro Alessandro, che scene! Povera creattura, quanto ti compiango de’ tuoi patimenti nel viaggio! Questo è ben altro che i Morti di S. Bernardino, i tuoi sono i travagli d’Ercole.

Questa sera (la lettera è in più riprese) è stato da me Odazzi, io l’ho ben bene esaminato per vedere se alla Marchesina era nota l’inquietudine di Beccaria e, se egli è sincero, non ne sa nulla; lode al Cielo, ch’io tremava che per quella strada non venisse alla luce quest’anecdoto.

Odazzi, malgrado l’entusiasmo di Beccaria, è e sarà un uomo mediocre, lento assai a ricevere le idee, che non ne accozzerà mai di grandi da se medesimo; che porta l’entusiasmo ne’ gesti, nelle frasi e nel tuono della conversazione, non mai nell’animo; che non ha rischiarate le idee primordiali; che declama, e non ragiona: quest’è quello che di lui so di sicuro e di cui credo non avrò mai a disdirmene. Egli è mal contento di quanto hai scritto al proposito di Pittagora, dice che se avessi letta l’opera di Bruker avressi preso un’altra idea. Io gli ho risposto che credeva che Bruker l’avessi letto, per quanto m’era notto; egli dice che la coscia d’oro e tutte queste belle cose sono invenzioni di Plutarco smentite da Bruker. Malgrado tutto ciò la tua opera, incassettata e coperta attentamente di tela cerata, forse a quest’ora è a Genova, da dove senza spesa del s.re Aubert anderà a Livorno. Esso Aubert mi scrive in data del 27 dello scorso che aspetta con impazienza il Ms. ma che, per aver tardato alcuni mesi al di là di quanto s’era stabilito, esso ha l’edizione del Boccaccio e le Vite del Vasari, delle quali la prima essendo per conto non suo ha promesso di darla a un dato tempo, l’altra, per esserne già accettata la dedica dal Granduca, non può tardare. S’aggiunge che egli s’aspettava due tomi in ottavo ed ora vede cresciuta l’opera a due in quarto, dunque non potrà servirti con quella sollecitudine che avrebbe fatto se l’avesse avuta prima, però dice che darà un colpo al cerchio e l’altro alla botte e ti servità con cuore, quanto lo permettono i due impegni. Egli mostrerà il Ms. al revisore secolare: se gli verrà risposto che può stamparlo sott’altra data lo stamperà, caso che vi sia timore d’avere imbarazzi Aubert a proprio conto lo farà stampare altrove perché col nuovo Governo non v’è da scherzare; dovete però persuadervi anche in tal caso d’essere benissimo servito in correzione, in caratteri ed in carta, e le farò avere innanzi una mostra dell’edizione. Nessuna mutazione ho osato fare al tuo Manoscritto, fuori che una sola: ed è quando, parlando del popolo di Napoli che mal soffriva i Tributi, vi contrapponi le elemosine di 14 mila ducati raccolte da un Frate e vi aggiugni che se il Re le avesse domandate in tributo sarebbe nata sollevazione; io, da Fermiere, ho idee più adequate. Questa somma è un minimum, e pareva troppo a studio ricercato l’odioso paragone. Rispondimi dunque se vuoi qualche cosa da Aubert, che io frattanto gli scrivo di far rivedere il libro dal Secolare, senza che trapelli mai né il nome, né la Patria dell’Autore.

La descrizione che mi fai del carattere dei Enciclopedisti m’innamora; se la luce con cui splendi ne’ primi giorni è stata di riverbero, a quest’ora son sicuro che te ne conoscono della propria. Se il tuo saggio su Giustiniano è piaciuto ed è tradotto, perché non potressi fare un volumetto e stamparlo costì in Francese coll’unirvi il saggio sulle leggi civili, i Princìpi sul Diritto Pubblico e qualche altra tua cosa del Caffè, che facilmente si riducono al titolo di Idee sulla Giurisprudenza? Ricordati nella tua dimora in Parigi di procurarti la corrispondenza, o diretta o indiretta, col Giornale di Bouillon: esso è il solo che possa vendicare la ragione di alcuni pochi Italiani che hanno i Pedanti e i Fanatici nemici. È uscito dall’emporio delle belle cose da Brescia un libro contro i Pseudoletterati Anonimi d’Italia, io non ne so che il titolo; l’aspetto a giorni per la posta, ma dal luogo e dal titolo m’aspetto che sia in onore e gloria nostra. In questa settimana spedirò per una condotta a Parigi l’opera di Carli, quattro opere intere del Caffè, i tre fogli ultimi che ti mancano, il libro di Facchinei e qualche esemplare dell’Innesto che ho fatto stampare separatamente. Io vorrei sapere qual uso abbiate fatto de’ miei manoscritti e, sinceramente, quale idea abbiano destata in ogni caso. Ho cominciato a rifondere le mie Meditazioni sulla Felicità; ma, per dirtela, mi sento a mancare il coraggio ponendovi mano; vedo che vi pongo maggiore metodo e chiarezza, vedo che faccio un’operetta più voluminosa; ma forse perde quella vibratezza e que’ tocchi maestri isolati che fanno il suo merito; forse lo schizzo è più pittoresco del quadro finito; forse quell’aborto di libro dà idea ch’io possa farne un migliore solo che il voglia, e il libro disingannerà. Tutti questi maladetti forse mi hanno fatto riprendere il mio Democrito, che va avanti con prospero vento; io ci trovo più il mio conto coglionando col genere umano che ragionando seriamente. Odazzi mi ha letto uno squarcio di lettera dell’Abate Genovesi, il quale parla delle opere sue con una modestia che non può avere nel cuore; come crederò io ch’ei risguardi la sua Logica e la sua Metafisica per ridicole coserelle, se le ha ei medesimo fatte stampare? ei si lagna dei Don Chisciotti della Filosofia perché alzino la voce e, considerando da Politico le idee religiose, crede che distrutte queste in Europa sarebbe distrutta ogni difesa contro gli affricani di Tripoli, Tunisi e Salé, quasi che le loro rapine dipendessero più dall’Alcorano che dal bisogno dell’altrui, e quasi che il bisogno di custodire e sé e le cose sue non possa far fronte independentemente da ogni altra idea. L’esempio dell’Inghilterra e della Prussia provano abbastanza quanto alla potenza terrena bastino le instituzioni meramente politiche. Noi compiangeremo chi attacca la nostra Santa Religione e chi ragiona così di Politica. Amico, in Italia stiamo male.

Non scrivo a Beccaria in quest’ordinario, tu gli leggerai quella parte di questa lettera che crederai bene ma non quello che ha rapporto a sua moglie, perché non me ne voglio impicciare. Ella sta bene, benissimo, e t’assicuro ch’ella non s’è mai tanto divertita l’autunno quanto presentemente. Il Marchese Padre trova che con ciò essa non dà al marito quella prova d’amore che si meriterebbe, ma con lei ha dissimulato e dissimulerà costantemente. Esso mi ha raccontato che un momento dopo la vostra partenza è entrato in sua stanza e, vedendola in lagrime, cominciò per consolarla dicendole che in fine suo marito andava a star bene e che sarebbe presto ritornato; al che sapete cosa rispose? «Non piango perché dubiti di questo, piango perch’io non potrò vedere Parigi», Ora vedi il dissotto delle carte delle cose di questo basso mondo, e paragonalo col nostro amico, che fra i sassi della Savoia crede di vedere aperto l’orribile libro de’ Fati che condanna a morte la sposa!

Ho annunziato in Casa il felice vostro arrivo: ora cominciate a non essere più parole oscene; si sono digerita la relazione fatta, però in vece dell’accoglienza di Beccaria e di voi, della Traduzione di Giustiniano, ecc.; di più ho letta loro una lettera che il S. Sacchi da Lione scrive alla Somaglia, piena di rispetto e di lodi per tutti due; così si visse nella Grecia. Il Cav.re ha terminata la lettura de’ due Tometti che v’ho annunziati; vi saluta, e sempre più vi confermo quanto v’ho scritto e di lui e dell’Abate. Vi abbraccio. Salutatemi Beccaria e Frisi. PIETRO.

XV (8) A Pietro. [Parigi,] 25 Ott[o]bre [1766]

Ieri sera ho ricevuta la tua dell’11 Ott[ob]re. Mi dici che a Lione avrei ritrovate tue lettere alla posta. A dir vero io non vi ho mandato; ne ho bene avuta una da M.r Secco.

Ti sono obbligato della revisione della Storia, ti prego della continuazione. Per ora non ho tempo di farti una lunga lettera. Te ne ho già scritta un’altra. Farai l’adresse a l’Hotel de Malte, rue Traversiere, perché senza questo è inutile scrivere. Scrivo ancora a mio Padre.

lo qui mi trovo ancora vacillante e non posso gustare il bene di esistere a Parigi, mediante la continuazione delle idee dell’amico. Non voglio dir di più su questo doloroso e sempre memorabile articolo. È difficile che qui si fermi più di un mese. Ieri ha ricevuta lettera da sua Moglie, la quale ha riaceso un fuoco che sembrava alquanto sopito. Bisognerebbe che la Marchesina dissimulasse in questa occasione. Amico, non dimenticarmi. Sei il più grande e forse il solo vero amico ch’io m’abbia al mondo.

Ti dirò alcuna cosa delle mie circostanze. Mi strascinano da tutte le bande; l’Abate di Morellet è l’agente generale di tutte le cose nostre: io sono sensibile a tante finezze, ma mi dispiace il non avere un momento di quiete e l’avere fissata sempre tre o quattro giorni antecedentemente la vita che devo condurre. Sono schiavo fra tante cortesie. Tengo la lista de’ pranzi e degli appuntamenti e mi rincresce di vedermi così legate le ore e le settimane. Fin ora non ho potuto frequentare il Teatro. Ho veduto il Tancrede, ho veduto il Teatro Italiano. La truppa francese non è poi quella che mi figuravo. Le Quin è il primo attore. Faceva da Tancrede, ma ha l’aria troppo d’uomo per fare questa parte. Madame Cleron, disgustata di varie cabale, ha abbandonato il Teatro. Vi è successa una giovane che promette assai. È incredibile con quanta finezza giudichino costoro delle cose di Teatro. Conoscono, analizzano le minime differenze con estrema acutezza. Sono nati e nutriti in ciò. Noi altri siamo, in lor paragone, de’ svizzeri.

L’Arlechino, parlando Francese, non perde il suo ridicolo. È una terza spezie molto curiosa. La musica è affatto italiana. Non vi si disputa più la sua primarìa. Anzi è meglio talvolta che l’italiana, perché hanno preso il buono, e lasciato il cattivo, cioè i gottici ornamenti della nostra musica. I Francesi parlano con venerazione delle arti d’Italia. La nostra nazione e la nostra Letteratura è qui molto stimata. Conoscono i ceppi d’Italia, ma ancora il suo valore. Credono che l’Inquisizione possa molto da noi e ci compiangono; intanto essi hanno la Bastiglia, essi hanno proibizione di spacciare l’Enciclopedia, ch’è sequestrata, essi hanno molti rigori sulla introduzione de’ libri, e noi non abbiamo niente di tutto ciò. Il mio amico fa tutt’ora una brillante figura, è festeggiato e venerato. Non si può desiderare di più. lo non sono che il suo compagno; pure, il mio saggio su Giustiniano, ch’è stato tradotto, mi fa qualche nome. Ne parlano con gran stima e vedendomi giovine si stupiscono. È stato ancora tradotto il vostro saggio su Lo Spirito della Letteratura Italiana da M.r l’Abée Haineau, uno degli autori della Gazzetta Letteraria; il detto Abate mi disse che lo avea tradotto con voluttà. Piace assai, assai. Così pure è avvenuto lo stesso del Saggio sulla Musica. Morellet, malgrado un poco di perdonabilissima durezza di carattere, è un uomo di grandissimo cuore, è un ottimo amico. Egli, trovandomi modesto e timido, vuole cantar sempre le mie lodi. Tutte le volte che occorre una presentazione gli occhi sono primamente rivolti a Beccaria: Morellet ha la delicatezza di subito pormi in campo dicendo: «e questo è il Conte Verri, autore del saggio su Giustiniano e di molte altre cose bellissime nel foglio periodico intitolato il Caffè». Io veramente nel sistema attuale mi annoio nella Società. Non sono al primo rango, sono timido, isolato, incerto dell’esito delle cose; parlo poco. Veramente i Francesi sono chiacchieroni terribili. Vogliono parlare di tutto, filosofare di tutto, e portano nella conversazione la declamazione teatrale. Disprezzano la ragione mentre che sembra che ne vadino in traccia. Basta che non manchino parole alla conversazione, il che non succede mai: non importa come si parli. [cinque righe abrase]

Ti prego, non dimenticarti dei Libri che ci devono venire da costì, come siamo intesi. Mi farai poi una somma amicizia, terminato che sia il Caffè, a spedirmi qui alcune copie della opera intiera. Ella è ricercata: bisogna profittare del momento. Forse ciò può farmi molto ma molto bene. Non ti scorda de’ miei abbracciamenti agli Amici; saluta il mio caro Carli. Dammi nuove del lontanissimo Lungo. Bacia il Cavaliere ed abbandona il meschino Abate a’ suoi peccati. Povero lui! Sì giovine, e sì bestia! povero lui!

Ti ripeto, non mi lasciare senza lettere. Dettale piuttosto al Guelfi, ma non mi lasciare senza. Come potrò io trovar buon soggiorno Parigi, accanto di un melanconico, e se non trovo un amico che lontano centosessanta leghe? Ma sta a vedere che ancor io provo il male del Paese. Oh no, per Dio.

La tua Felicità è molto stimata. Mi prendono per 1’Autore, sono obbligato a difendermi dagli elogi. Il tuo nome è qui molto conosciuto.

È stampato tutto il seguito del fatto tra Hume e Rausseau: le lettere d’entrambi e tutta la narrazione delle cose. M.r Hume n’è 1’autore. Rousseau in tutto ciò vi fa la figura da pazzo cattivo. Qui ne parlano tutti con passione. Lo risguardano come un uomo cattivo e pazzo, senza talenti e merito alcuno, che al favore d’uno stile seducente ha sorpreso il pubblico. Mi pare ingiusto questo giudizio. Ma non c’è a dire. Non ascoltano ragione. Un’altra bella cosa. L’Ateismo è tanto alla moda che risguardano come imbecille chi non è di un così deciso parere com’essi lo sono. David Hume è ne’ suoi princìpi passato come un imbecille per questo. Non v’è rimedio, non si deve credere l’esistenza dell’Essere. V’è propriamente uno spirito di congiura. Ciò non mi piace. Questo tuono generale de’ Sapienti fa vari increduli: essi non sanno il perché ed il come lo sieno. Non perdonerò mai ad alcuno l’essere leggiero su questo importantissimo articolo. Addio, amico. Fatevi leggere da mio P[ad]re la lettera che gli scrivo. Vi è qualche cosa che forse vi potrà interessare. L’ho tutta scritta super generalibus. Addio, addio, addio, amico eterno, vero e carissimo.

P. S. Saluta il Corti: fagli vedere le mie lettere e ti prego di sapermi dire che pensino della melanconia del mio amico. lo non posso lasciare questo punto. Lo vedo adorato fuori di casa ed imbecille a’ miei fianchi. Il disotto delle carte è sempre così in questo mondo. Temo che l’amico abbia scritto a sua moglie cose di fuoco di me. Egli si lagna che io gli uso delle durezze; ma, per Dio, non troverebbe in tutto il mondo un uomo più paziente. lo l’ho sempre consolato, io porto tutto il peso della sua stravaganza, io faccio tutto, io, che sono venuto sotto l’ombra delle sue ali, ora debbo tenerlo sotto quella delle mie. Devo soffrirlo in casa e vedermelo anteposto fuori di casa. Non v’è molto da godere per me in questo sistema. Qualche volta ho avuta della impazienza, ma non è ella perdonabile nelle mie circostanze? Sono ventitré giorni che lo soffro, l’ho sofferto per un lungo e noioso viaggio, lo debbo soffrire intanto che mi amareggia la vita in una Città dove tutti vivono bene. Ma lasciamo un argomento nel quale non vedo mai fine di parlarne. Addio ALESSANDRO.

XVI (8) Ai Fratelli. [Milano,] 6 9bre [1766]

L’azardo ha voluto che questa lettera sia stata portata alla Posta troppo tardi e perciò tu debba diferire a riceverla. Ieri ho ricevuta la tua seconda lettera scrittami da Parigi al 25. La tua situazione è veramente degna di tutto il compatimento: tu devi sopportare tutto il peso del merito e del demerito dell’amico; fuori di casa la sua gloria, in casa la sua debolezza da ogni parte ti attaccano, e non hai con chi sfogarti che col solo Frisi. La tua situazione è tale che esigge un’anima ferma, ben appoggiata sopra se stessa: e tu l’hai. Io ti annunzio da parte della verità che ogni giorno tu anderai guadagnando terreno, e che fra poco ti vedrai nella stima posto al tuo livello; ciò non può mancar ti giacché sono disposti a leggere le cose tue e sempre più t’animeranno a parlare. Chi la dura la vince, in te sicuramente ciò deve accadere; ma lascia che la mia amicizia ti dia un ricordo. Guardati bene che non trapelli cosa alcuna che mostri gl’imbrogli che sono fra voi due; con somma facilità la malignità v’entrerebbe e si crederebbe in te gelosia, invidia e sì fatti princìpi mal corrispondenti alla bonomia che accompagna Beccaria in ogni sua azione. Tu mi scrivi ch’io comunichi a Corte lo stato delle vostre cose: io non lo farò perché nessuno al mondo fuori che la sola Isimbaldi e suo marito, gente secretissima -, nessuno sa il disotto delle carte, e mi crederei di rendere troppo cattivo servizio al povero Beccaria se lasciassi sapere questo rovescio della medaglia. L’Isimbaldi mi avverte che esso scrive alla moglie e dice di soffrire dei mali da quest’aria; io farò in modo che l’Isimbaldi medesima insinui alla moglie che non carichi tanto la mano nell’espressioni tenere. Per altro vedo dalla tua lettera che il fuoco era un po’ calmato prima che ricevesse le tenerezze coniugali: questo è un assai buono augurio; unisci a ciò la determinazione di partir solo o con un compagno dato dalla fortuna, il che suppone vigor d’animo, aggiungi che al ricevere di questa lettera la quarta parte di sei mesi d’assenza è già passata, e tutto questo unito io spero che la scena non scoppierà sicuramente. Vedo che tu nemmeno ne dubiti per te stesso; ma in ogni caso nessun pretesto d’amicizia potrebbe mai salvarti da un torto irreparabile, se tornassi con lui sì presto. So che questo è inutile lo scrivertelo; ma chi sa che una lunga e assidua azione non trasmetta mai nel tuo animo qualche parte di debolezza; so quale sia lo stato dell’animo d’un forestiere, giovane, sensibile, modesto, in una città clamorosa dove dal bel principio i suffragi non si distribuiscono con un tranquillo esame, ma sulla fede di uno o pochi che danno il tuono. Vero è che la durezza del Nord non è in Parigi; ma forse sotto la urbanità gallica non vi si asconderebbe mai l’originario carattere della Franconia? È pur qui la città dove Damiens ha avuto tanti spettatori! Capisco come ti debba essere di tedio l’affollamento degli inviti e il vederti con un moto involontario trasportato da una società in un’altra; chi ha saputo sentire le delizie d’una libera solitudine e d’una libera società deve provare quello che tu provi; le ore però della mattina io mi figuro che le avrai a te, e che hai un pretesto plausibilissimo, nell’ora del Teatro, di preferirlo ad ogni altro impegno; un forestiere che non si ferma molto ha ragione di voler frequentare quella scuola che dà una decisa superiorità ai Francesi sul restante dell’Europa. Mi piace quello che mi scrivi del Teatro e della musica. Le prove afrodisiache volgari che hai fatte m’interessano, so che hai giudizio; se t’innalzi un po’ sopra il volgo, scrivimelo. Io sono tuo rivale, già lo sapevi; tu sei assente, io innamorato, voglia il cielo che tu perda la causa, ma se anche dovrò andarne colla testa rotta, per tanta virtù, per un’anima sì nobile e cara, non avrò mai d’arrossirmene. Domani parto per passare altri quattro giorni a Gessate, dove vivo deliziosamente e dove passerò tutt’i giorni che potrò interrotamente avere liberi. Per i libri che aspetti, sicuramente dentro la ventura settimana ti saranno spediti, e al ricevere che farai di questa mia saranno in viaggio. Certamente che lo spirito di partito contro Rosseau oltre essere ingiusto non è nemmeno generoso. Rosseau consegnò alle fiamme le sue osservazioni fatte contro il S.r Helvetius, tosto che lo seppe perseguitato; un pover uomo, oppresso dalle infermità, bandito dalla Francia, rifiutato con procedure assai strane dalla sua Patria a cui non ha certamente fatto disonore, esposto al furor popolare ne’ Svizzeri e costretto a trovarsi un povero asilo in Inghilterra, sebben anche avesse torto non giustificherà mai quella società di uomini di lettere, che l’hanno un tempo associato ai loro lavori, di scagliarlisi contro come vedo che si fa. Il Contratto Sociale e le altre sue opere saranno una macchia presso i contemporanei imparziali, e più presso i Posteri. Di tutte le notizie letterarie che m’avete scritte ne ho fatto un transunto e l’ho scritto a Lungo. Il Sig.r Conte Firmian è già regolarmente informato dal P. Frisi. A quello che vedo, in Parigi la Religione è quale era in Roma ai tempi di Augusto e di Leone X: questo è un sonno, non una malattia, e convien sperare che un po’ di pietà unita a un po’ di vigore nella Corte tornerà a rimetterla nel suo vero splendore. Nell’Inghilterra la cosa è differente, a quello che m’imagino: ivi è amputata, e le membra tagliate non vegetano più.

Dirai a Beccaria che gli confermo tutto quello che gli ho ultimamente scritto; ch’io sono per lui in. una eterna agitazione; che tutti di sua casa stanno egregiamente, tutti, tutti quanti. Dirai che il Colo nello Kraitz gli scrive da Padova ai 16 ottobre. Egli ha letti il Mattino e Mezzodì di Parini, che crede di Beccaria o miei, ci fa mille elogi. Egli prende le acque e il latte di Padova. Fa cento saluti. Questo è l’estratto della sua lunga lettera scritta molto spiritosamente.

Nella lettera che sta alla Posta di Lione per voi, non v’è altro d’interessante se non la notizia, che vi dava in data del 4 scaduto, che la Principessa Maria in un gran circolo in quel giorno di Gala aveva rivolto il suo discorso al Sig.r Con[te] Regg[en]te commendando assaissimo l’approvazione da lui data al vostro viaggio, il che ha imbarazzato non poco l’amico. Sin ora egli è stato immerso nella disputa del cacatore, che non è ancora terminata. Oggi (giorno 7 novembre) parto per Gessate, dove sono incantato della cordialità di tutta la famiglia. Addio, caro e adorabile amico; la mia anima non è tutta con me, parte è in Parigi. Scrivimi, amami e riccordati d’avere confidenza in me in ogni occasione. Addio. Abbracciami il debole e rispettabile amico. PIETRO.

XVII (9) A Pietro. [Parigi,] 27 Ott[ob]re [1766]

Ricevo in questo punto la vostra lettera del 4 corrente. Ne ho ricevute prima due altre, l’una del 6, l’altra delli 11. Bisogna che l’ultima che ricevo sia restata alla posta di Lione.

Dunque mio Padre tace? Benissimo. È il miglior partito. Mi è piacciuta assai la scena passatasi a Corte. Oh, che spirito ha la nostra adorabil Principessa! oh, povera patria podestà, che diverrà ella mai! Ho scritto a mio Padre una lunga lettera. Fatevela leggere. Batto la campagna alla larga. Voi mi ponete in soggezione col registrare le mie lettere; ma vi sfido poi a fare in guisa ch’io vi ponga per ciò un minimo grado di attenzione. Registrarete, se così vi piace, molte ciarle. Io voglio dir tutto; ed ho fatto il mio conto che è meglio conservare la memoria di questo viaggio con lettere che non in via di giornale. Io l’ho fatto da Milano fin qui molto esattamente; ma in Parigi non è possibile prendere le cose in questo dettaglio, bisogna contentarsi di prenderle in massa.

Ecco l’attuale mia vita. Sono alloggiato passabilmente bene in due stanze disimpegnate da un piccolo corritore, pulitamente mobiliate, che risguardano la strada, nel centro di Parigi, vicino ai Teatri ed alla maggior parte degli Enciclopedisti, per un azardo fortunato. Pago di pensione sette Luigi, lo che è è bestiale: ma essendo arrivato tardi a Parigi ho dovuto far a modo del Maitre d’Hotel, altrimenti avrei dormito in istrada. Faccio altre diligenze e spero con cinque Luigi di esser benissimo alloggiato coll’amico Beccaria. Spesa di pranzo occorre di rado. Siamo sempre invitati. Abbiamo un servitore fra tutti due. Si paga 30 soldi di questa moneta. I fiacher sono la nostra carrozza. Sarebbe bestialità il prendere una voiture de remise: ella non è necessaria che andando da persone primipilari, colle quali noi avremo a fare meno che potremo; ed è necessaria non per il decoro, ma perché lo svizzero non lascia entrare i fiacher. Fanno compassione le riflessioni del milanese decoro su Parigi. Un uomo è un nulla in questo gurgite vastissimo. Basta esser decente, tutto il restante è ridicolo, è superfluo, nissuno ha tempo di osservare la vostra carrozza o la vostra abitazione o il vostro vestito. Cominciamo a mettere per principio, tanto per avere una idea della grandezza del Paese, che in Città v’è ad ogni quartiere il suo Burrau della Posta, affine di portare le lettere dall’uno all’altro sito di Parigi; mettiamo in secondo luogo ben cinquecento Hotel, o luoghi in qualunque modo di alloggio e di mangiare, che vi sono in Parigi; mettiamo in terzo luogo diecimila fiacher; questi fatti gli ho sentiti a dir qui in Paese co’ miei orecchi e, se sono esagerati, non lo sono di molto al certo. Dopo tutto ciò, per non dire di più, chi vi abbada se voi siete in fiacher od in voiture de remise? Chi, se avete un servitore, o mezzo? Chi, se avete un appartamento, o una stanza? Chi, se mangiate molto, o poco? Chi, se siete vestito gallo nato, o unito? Finalmente vedo le cose colle mie pupille e vedo le bestialità che si dicono da chi si forma delle idee di decoro affatto singolari. Tutto questo vi dico per il Lambertenghi, col quale ho avute delle dispute ed al quale ho promesso di dire il fatto mio a tempo e luogo: sappia egli adunque che è tutto falso ciò che è venuto nel suo capo dalla sempre memoranda Parrocchia di S. Damiano: sappia che sarebbe ridicolissimo un uomo che qui avesse quelle idee. Mi riservo a confutarlo più luculentemente su questo articolo, per la gran ragione che viene da S. Damiano. In tanto t’abbraccio. Mi riservo ancora a confutare il mio S.r Padre sul punto della Religione di Parigi. Vado ammassando tutti i fatti che provano il bigotismo di questo paese e glieli verserò tutti in un fiato.

Le case ch’io frequento sono queste. Barone d’Olbach; Madamoiselle l’Espinace: ivi trovo sempre Alambert. Madame Neker; la Contessa di Bouflers; l’Ambasciatore di Portogallo. Si sta bell’e bene da per tutto. Si mangia divinamente. Si parla molto: io poco, al mio solito; si ragiona come si può, ma il tuono è sempre di buona compagnia. Ho conosciuto M.r Marmontel: è un uomo assai buono, un poco rozzo nelle sue maniere, ma in somma uomo ottimo. D’Alambert poi mi sembra l’ottimo massimo Filosofo. Semplice ed amabile nella conversazione come un angelo. Io l’adoro propriamente. In generale questi letterati sono buonissima gente, e quello che più di tutto mi par che lo provi è che vivono assieme e sono amici. Le persecuzioni che hanno sofferte contribuirono certamente a condensarli, ma senza bontà di cuore non avrebbe bastato a questa costante unione una esterna cagione. Un’altra prova della loro bontà è il disputare di sbalzo e senza nessuna precauzione su di ogni oggetto fra di loro. Non temonsi, non sono sospettosi. Questa franchezza prova molto. Talmente è ciò vero che per lodarsi fra di essi o per lodare un terzo non cominciano già per dire ei sa la fisica o ’l calcolo, ma il est tout à fait bon garzon; il est bon homme; ils sont des bons gens, come ci dicono a noi; e queste frasi si direbbero di d’Alambert, di Didereau e di qualunque grand’uomo, nel tempo che lo rispettano assaissimo. Una sola cosa non so perdonare a questi uomini grandi: ed è di esser quasi fanatici contro gli Ortodossi: se lo potessero io credo che erigerebbero la Inquisizione contro di chi non è del lor parere. Vi sono varie persone satellizie di questa società che senza aver punto esaminata la materia hanno per aria di bel mondo abbandonato il sistema. Anche questo non mi piace. Il Barone d’Aulbac, i di cui elogi non si possono mai finire, è un uomo compito in tutte le sue parti, è un uomo sommo, sommissimo. Sapere, bontà e spirito sono in lui in gran dose. Ei per affari deve andare in Ollanda per tre settimane. Ci ha detto graziosamente che lascia qui M.r Elvetius per farci les honeurs de la Philosophie. Questo Elvetius non l’ho ancor veduto, ma mi dicono che è un uomo di un carattere dolcissimo ed amabilissimo.

Frequento il Teatro. Oh divinissimo piacere! questa sera ho ascoltato L’Electre o le furie di Oreste, di Volterre. M.r Le Quin faceva Oreste. Dio! Sono ancora pieno d’entusiasmo. Per altro non sono così delicati questi Parigini in tutti i punti del Teatro come mi figuravo. Battono indiavolatamente le mani ad ogni tratto che lor piace, e le battono talvolta per più minuti: lo che toglie l’illusione appunto quando è nel più forte. Mi par questa una sommissima barbarie. Di più, questa sera faceva da Clitemnestra una certa Madame Dumeny, vecchia famosa attrice de’ suoi tempi, ma che sicuramente questa sera ha recitato orribilmente male ed all’eccesso del ridicolo. Essa ha tutte le maniere comiche nel tragico. Niente più insopportabile. Eppure ha un partito favorevole, e gli si battevano le mani disperatamente. Uno di questi giorni M.r d’Alambert, amico intimo di Madama Clairon, ci proccura il piacere e la finezza sommissima di farci sentire essa madame a recitare privatamente. La festa è fatta a posta per noi. Ve ne darò in appresso il raguaglio. Vengo al materiale di Parigi. Ho veduto il grande osservatorio. Bellissima pezza di semplice e maestosa architettura. Egli è un Palazzo. V’è ciò di rimarchevole, che il pavimento lo taglia per mezzo, sicché tanto sorge da terra, tanto è profondo al disotto, avendo delle strade e cantine sotterranee nelle quali si discende con torcia a vento. Non v’è spiraglio di luce. Recano all’animo un sacro orrore. Mi pareva di andare ai misteri di Cerere eleusiana. Questi sotterranei altro non sono che i vuoti dei sassi cavati per fabbricare il palazzo. Vi si osserva, in una di queste strade sotterranee, uno strato di conchiglie. Egli è lateralmente e si stende quasi da per tutto. Anche ciò prova in favore di M.r Bouffon. Ho veduto ancora l’Hotel des Invalides, magnifico, vasto e bellissimo monumento della umanità di Luigi XIV, o di chi glielo suggerì. La Chiesa ha una cupola sovraimposta a un peristiglio ch’è un capo d’opera. Si troverebbe tale anche uscendo da S. Pietro. Comincio a pensar meglio dell’architettura del paese. Ho ancora veduto nella Chiesa de’ Carmelitani un quadro che mi ha interessato. Egli finge una Madalena che, pentita, si strappa d’indosso gli ornamenti, ma la fisonomia è madame La Vallière, maitresse, come sapete, di Luigi XIV. Esprime il quadro essa che, abbandonata dal suo Principe, lascia il mondo Vi assicuro che tocca il fondo dell’anima. Egli è del Brun. Ho veduta la Biblioteca Reale, sterminata raccolta di quanto di buono e di cattivo hanno stampato i Principini della natura. Ho ancor veduti i manuscritti. Ve ne sono moltissimi arabi, greci, chinesi, ecc. Non tutti possono entrare in questo sito. Egli è custodito con gelosia. Hanno, fra le altre cose, molte Lettere dei Re e gli atti originali dei loro dispacci, ecc. Ho veduto il carattere del Regnante Principe quando avea quindici anni. Si conservano questi suoi primi abbozzi con venerazione. Ho veduto l’immenso gabinetto di medaglie. Bellissimo, e custodito da un certo Abate Barthelemy che è il primo medaglista non pedante che forse sia mai stato al mondo. Parla della materia con leggiadria. Fa piacere ascoltarlo mentre che espone le sue medaglie. Vi darò delle nuove letterarie. L’Abate du Chaps che sta all’osservatorio, che è un astronomo pratico, per quanto io credo, pubblicherà un molto interessante Viaggio della Siberia fatto da lui con spirito filosofico. Ci ha fatto vedere i rami delle figure, costumi, abiti, ecc.: tutto vuol essere importante. Spero che conosceremo quel Paese. L’autore anderà al Messico nel 1768 ad osservare il passaggio di Venere. Credo che prima avremo il viaggio siberiano. Altra nuova. Volterre sta lavorando alla Storia universale anteriore a Carlo Magno. Altra nuova. Morellet trova assai bello il pezzo della Patria degl’Italiani inserita nel Caffè.

Vi ricordate che nella Enciclopedia vi sono moltissimi articoli del Cavaliere di Jauncourt? Ebbene, questo uomo veramente esiste, è disprezzato, passa per un solenne seccatore e mi dicono che se lo avessero lasciato fare avrebbe voluto far tutto lui. È un compilatore spaventoso. Non lo conosco ancora.

L’amico compagno seguita le sue immaginazioni. È risolto di ritornarsene. L’avrete costì al mese venturo. Meglio per lui e per me. Quanta pazienza! Stamattina facevo venire un sarto per farmi un abito di mezzo veluto, l’amico a tal proposizione s’infuria e mi rimprovera di volerlo ecclissare e fargli fare la figura da cameriere; mi dice che tutti quelli che viaggiano assieme hanno questa delicatezza, di non farsi superchieria negli abiti, ecc. ecc. ecc. lo, sorpreso da tale improvisa vivacità, dico a sangue freddo le mie ragioni, egli mi risponde «ebbene, fate l’abito, ma non verrò con voi», e tutto ciò perché egli ha l’abito di panno. Io per compiacerlo mi sottoscrivo a farne uno parimenti di panno: finalmente abbiamo risolto di farlo tutti due di mezzo veluto. Ecco la penitenza de’ miei peccati! Tali sono i trattamenti che ricevo da un uomo che quasi per un mese io soffro per un sforzo d’amicizia, se pure … non voglio dir di più. Fuori di casa primeggia, a casa bamboleggia ed in tutti due i casi (dirò il vero) mi dà fastidio. Voi lo conoscete: nelle sue fortune non ha una certa delicatezza. Gode, e si dimentica dell’amico. Poi viene a casa, ritorna a’ suoi pensieri e vuole nell’amico un essere passivo che porti tutt’il peso della sua tristezza. Depongo nel tuo seno i miei guai. Prenderai, nel rispondermi su di ciò, la precauzione di indirizzare a me propriamente le lettere.

Godo sempre più dei progressi del Cavaliere. Benedictus qui venit in nomine Domini. Te l’ho sempre detto. Il Cavaliere ha dello spirito, del cuore, della timidità: l’Abate della imbecillità, della asinità, della brutalità e della teologia.

Odazzi adunque mi rende giustizia? Oh, l’aspettavo a questo punto. Ve ne sono stati degli altri che, fermandosi alla mia corteccia, mi hanno giudicato come lui ed hanno finito come lui. Il mio cuore, i miei sentimenti hanno tanto di catenaccio: procul este prophani. Vi vuole un poco di noviziato per conoscerli. Ma Odazzi, poco prima, poco dopo, dovea finir così. Lo stimo e lo rispetto troppo per non meritare qualche cosa di simile anche da lui. Anche qui questi Sig.ri non hanno letto che piccole cose del mio. Finora non mi lamento, ma lo sdegnatissimo mio amor proprio ha molte pretensioni. Homo sum. Spero che se leggeranno e tradurranno anderà meglio. T’abbraccio con l’amico. Addio tutti. ALESSANDRO.

XVIII (10) A Pietro. Parigi, 2 9bre 1766

Muterete l’indirizzo delle lettere e porrete: Rue et Hotel des deux êcus. Abbiamo sloggiato dalla Hotele de Malthe perché era troppo caro il fitto. Qui stiamo a un di presso colla stessa comodità e paghiamo la metà meno.

Mi rincresce assai che non abbiate ricevute le mie lettere. Ve ne ho scritte da Lione una, e da qui almeno due altre. Spero che non saranno perdute. Sarebbe per me lo stesso che perdere le note del mio viaggio. Scrivo tutto a voi ed ho lasciato di fare annotazioni. Questo metodo mi è più comodo. Non ho tempo di far altro.

Io me la passo bell’e bene, quanto lo posso nelle mie circostanze. In niente me la intendo coll’amico. Ei stesso conosce di aver torto, ma esigge da me una pazienza infinita, perché infinitamente ei crede di meritarla nelle angustie in cui si ritrova il suo cuore. L’affare è con chiuso. Circa la metà del mese partirà per Milano. Chi l’avrebbe pensato quando andavamo insieme alla Stradella? Voglio ancor parlarti di questo strano avvenimento della mia vita. Il principio di questa passione è stato a Novara. La notte dormivamo nella stessa camera. Mi sento svegliare a mezza notte da una voce che mi dice «guarda, guarda!». Era l’amico che, pensando tra il sonno e la vigilia che alcuno montasse dalla finestra vicina al mio letto, me ne avvertiva. Io salto in pié dal letto, mezzo adormentato, tiro la tenda, veggo, com’è molto naturale, la finestra chiusa: dopo due parole torniamo a dormire. Cominciamo male, dissi fra me stesso, ed ho per disaventura indovinato. Varie cose mi davano fastidio nell’amico. La sua inquietudine e nello stesso tempo la sua inattività in agibilibus mi erano più sensibili in un viaggio. Non si arrivava all’osteria ch’ei non chiamasse subito una sella per fare il suo servizio; e lo faceva di notte in camera colla sua solita prodigalità. L’inesorabil natura faceva il suo effetto. La stanza era piena di cattive esalazioni. Non si poteva dolersene senza un affare di Stato. Per dar calma alla sua melanconia bevea molto ed il vino, invece di toglierla, gliela accresceva e rendevalo ancor più profondamente tristo. Chi era in tali circostanze che lo sollevava? Io. Chi portava tutto il peso di un lungo viaggio? Io. Chi faceva tutto? Io. Chi, anche adesso, fa tutto, regola i nostri piccoli affari? Io. Chi è destinato a sentire i sfoghi d’una lunga e monotona passione? Io. Chi riceve le attenzioni più distinte? Lui. Chi ha tutti i vantaggi del viaggio? Lui. Chi fa più a suo modo? Lui. Tale è il contratto che feci, avendolo per compagno. Adesso per altro sono vari giorni che sembra più calmato. Essendo deciso di ritornarsene è più tranquillo e vede vicina la sua moglie ed i suoi figli, i quali sono gli oggetti ch’ei sospira. Quest’anecdota fa l’elogio del suo cuore. Se lo faccia della sua condotta, lo lascio giudicare. Avrei delle cose tanto forti da dire su quest’argomento che non le voglio porre in carta. Sento qualche rimorso di scrivere con una certa energia i difetti di un rispettabile uomo ed amico. A voce mi sfogherei di più. Ho indotto l’amico a far parte a Frisio de’ suoi pensieri. Egli ha accolta la sua confessione con una risata: ma poi l’ho avvertito che le idee erano profonde e serie, onde è convenuto con me non esserci altro rimedio che il ripatriare. lo gli ho sempre detto, quando volea ritornare senza finire il viaggio: «Beccaria, tu non puoi troncare a mezzo questa gita e fuggire da un villaggio della Savoia a Milano senza fare una scena la quale decide della opinione comune contro di te. Con quale pretesto ritrovarti a Milano appena partito, con tanti sussurri, con tanta solennità ed aspettazione? Qual scena! Quanto non offri a dire a’ tuoi nemici ed a que’ tanti che aspettano l’occasione di vendicarsi della tua superiorità? Questo è un tratto che ti abbassa di un tuono per tutta la tua vita. Ardisco anche di dirti che forse i tuoi amici istessi non risguarderebbono questa scena con quanta compassione ti credi. Ella offre un lato che non si può in conto alcuno stimare. Dirò di più, che tuo Padre istesso ti guarderebbe come un ragazzo, e perderesti in casa tua gran parte di quella opinione che troppo ti è necessaria. Forse tua moglie istessa, la quale è cagione di tutto ciò, non ti saprebbe tutto quel grado, come pensi, di una debolezza che ti fa gran torto. Vedresti dipinto il disprezzo, il sorriso, la trascuranza su più volti che non pensi: ciò ti sarà insopportabile, dopo di essere avvezzo ad una straordinaria considerazione. Non voglio malignare. I tuoi amici ti stimano e ti stimeranno sempre; tua moglie, tuo Padre ti amano. Ma non è fuori della umana natura che in essi si diminuisca alquanto, o pochissimo, ma sempre qualche poco, l’opinione che hanno di te. È una scena assai forte. Non avrai il coraggio di sostennere le interrogazioni de’ molti maligni; dovrai stare ritirato, sentir cento dicerie; e fra le altre, forse, quella che sei fuggito per disperazione di non potere vivere con me». Egli rispondeva che ciò non gl’importava nulla, che non poteva più star lontano da sua moglie e che i suoi amici lo avrebbero compatito, e che finalmente la prima cosa è viver bene. Quanto poi alla pubblica opinione, egli non la curava, ed avrebbe fatta un’altra opera per far tacere tutti. Io rispondevo cento cose; ma sempre eravamo da capo. Finalmente meco convenne di strascinarsi sino a Parigi e di provare se quella vita che si era prefisso d’ivi menare, se gli enciclopedisti ed i piaceri d’una immensa città lo risanassero; da dove poi sarebbe presto o tardi partito, secondo avesse voluto. Volete conoscere se è possibile che qui si fermi? Ei non vi può esser meglio: è ricercato e venerato da per tutto e deciso per uomo amabile, eppure ha sempre il verme nel cuore. Volete di più? Avevamo stabilito, giorni sono, di andare a Versailles, quattro leghe da qui distante. È sopragiunto qualche ostacolo e ne ha avuto un gran piacere, perché Versailles è al di là di Parigi e così sarebbe sempre più stato lontano da sua moglie. Dopo ciò, giudicate della situazione sua e mia. Io per altro mi vado accomodando. Cominciano a tasteggiarmi, e vedono che sono all’unisono. D’Alambert, fra gli altri, comincia a famigliarizzarsi con me e mi abbada. Ha saputo che faccio certe spedizioni: ciò gli ha dato campo di conoscermi non così serio come sembro. Egli ama più parlare del basso ventre che della testa. È un gran ministro che è sazio di parlar d’affari ed è più grande di loro. Così sembrami ch’ei faccia colle scienze. Mi raccomanda d’aver giudizio: io gli rispondo «farò quello che posso». Parliamo un altro poco di quest’uomo. Siamo stati con lui ultimamente a pranzo in campagna da Watelet, che voi avete conosciuto a Milano. Egli è attualmente a Joly Moulin, bellissima casa di campagna di Madame le Comte. Con essa ei fu a Milano. Questo Joly Moulin è un capo d’opera di gusto. Figuratevi un piccolo, ma ben fabbricato e voluttuosamente distribuito e mobigliato casino, in mezzo di un’isola che fa la Senna. Tutta quest’isola è di Madama, e tutta è un giardino in cui vi sono venti giardini a colpo d’occhio, sempre nuovi e variati, sul gusto inglese. V’è un boschetto, poi una prospettiva di vari viali, poi vedute amenissime per ogni parte, poi ciò che non so descrivere, ma che forma la delizia di molti pittori che qui vengono a bella posta ad amirarne la natura di quest’incanto. Il corso della Senna, la coline che la circondano, i casini, i luoghi del contorno, tutti sembrano fabbricati per questo luogo. Madame e Watelet, suo grande amico, se ne stanno colà quasi solitari; ambi amano le belle arti, il disegno, la pittura, la fisica e la letteratura, e si occupano di questi oggetti. Non di altri certamente. Madama non ha gran diritto all’amore. È donna formata. Tutti due sono di un naturale felicissimo, fatti per esser felici. Watelet lo confessa. Egli si diverte di tutto e non conosce la noia. Mi ha parlato di voi con stima. Avea cominciata la traduzione della vostra opera. L’avrebbe terminata se non fosse stato prevenuto. Me ne ha fatto vedere il principio. Sono stato benissimo quel giorno. V’era con noi anche d’Alambert. Alla sera, ritornando a Parigi, ha parlato del Re di Prussia. Ne è entusiasta. Ci disse di avere avuto con Lui, il giorno che rifiutò decisamente l’invito fattogli di fermarsi a Berlino, una lunga ed interessantissima conversazione, della quale non parlerà giammai ad anima vivente. Lo risguarda come un uomo sommo. Ci disse in oltre Alambert che in Germania ha presa cattiva opinione degli uomini perché tutti lo guardavano con meraviglia, come un uomo straordinario il quale avea rifiutata una grossissima pensione offertagli dalla K[z]ara di Moscovia. Da questo modo di discorrere io lo decido per un uomo molto accorto nel suo mestiero. Ci ha voluto dire per via obliqua ch’egli è assai bene nell’animo del Re quanto si possa essere, e ci ha voluto far risovenire un rifiuto che gli fa sommo onore. Ei pensa in oltre di venire in Italia. La stima che sente aversi costì di lui. credo che ve lo induca.

Quest’oggi sono stato a pranzo da M.r di Montigny, Intendente delle Finanze: uomo di merito, così anco sua moglie. Vi sono stato bene. Quando questa Madama ha sentito a dire che io aveva fatto un comentario su Giustiniano si era perturbata e mi aveva creduto un pesante giurisconsulto: si aspettava un uomaccio con tanto di perruccone. Si è poi disingannata quest’oggi.

Madamoiselle l’Espinaçe, dove vado talvolta alla sera e che è il sito dove si ritrova sempre Alambert, il quale coabita con lei, vuole imparare l’Italiano e mi chiama instantemente la vostra Felicità, perché ha deciso che questo sarà il primo libro sul quale apprenda la nostra lingua. Tu piaci alle donne per fino in istampa. Gli ho detto che ti parteciperei l’onore di questa scelta. Sono contento d’aver meco portata una copia. Di queste donne buone, modeste, amabili e colte, se ne trovano varie qui a Parigi, chiavabili d’anima e di corpo, per quanto mi vado figurando.

V’è una nuova funesta ed importante per il commercio. Nel Porto della Città di S.t Pierre nella Martinica sono perite circa sessanta navi cariche di merci, per terremoto orribile che ivi è stato. La nuova è fresca dell’altro ieri.

Gatti ha avuto la sorte di molti altri uomini di merito in questo paese capricciosissimo. Egli è decaduto. Si pretende che a molti suoi inoculati sia venuto il vaiuolo. Chi nega, chi asserisce. Ci pensino loro. In questi gran vortici formati dalle vive e tumultuanti passioni d’una immensa moltitudine condensata in recinti di mura, un uomo è talvolta altissimo, talvolta bassissimo. Niente di mezzo. Qui tutto è o aimable o charmant, o detestable et effroyable. Così tutti mi dicono. In ogni cosa v’è un caldissimo spirito di partito.

Il Conte di Firmian gode una infinita riputazione. Lo risguardano come un uomo superiore ed accortissimo. Hanno ragione. Per lui sono qui. Che sia pur benedetto.

Un certo Cavaliere Lorenzi ha. chiamato conto di Carli. Salutalo caramente. Gli scriverò. Sono più affacendato di lui e non ho da far nulla. Frisi ti saluta mille volte. Ti scriverà. Lo trovo un ottimo amico. Ti dico una anecdota, e finisco. Da che è dipenduto il non vestirsi tutta l’Europa alla orientale? Eccolo. Da due dita di più di lunghezza della faccia di Luigi XIV. Egli invecchiava: gli cadevano i capelli. Provò se il turbante gli stava bene. Vide che no, perché avea la faccia lunga. Perciò pose parrucche, le quali s’inventarono in quella occasione. Me l’ha detto il Barone di Olbach. Addio. Addio.

Li 3 novembre. Aggiungo ancora una novità che ho saputa ieri. Il Re di Spagna ha pubblicato un editto nel quale esorta i suoi sudditi a riferire al governo le proposizioni de’ Predicatori le quali abbiano del sedizioso. Ciò, si crede, risguardo a’ Gesuiti, che sono in fermento in quel paese. Sarà quel che Dio vorrà, sempre per il loro maggior bene.

Io sto pensando a Londra. Vorrei andarvi quando l’amico partirà per Milano. Quanto alla Olanda, vi sono le sue difficoltà. Frisi me ne dissuade, fondato su ciò, ch’egli s’è annoiato, che non v’è gran fatto di vedere e che la spesa è terribile. Videbimus.

Imparo l’Inglese, così anche l’amico. Verrò a Milano in istato di proseguire da me stesso. Ma ho pochissimo tempo da studiare. Questa vita però così tumultuosa, e che lo sarà in, avvenire senza dubbio molto più, non lascia di annoiarmi.

L’ultima tua che ho ricevuto è in data del 21 ottobre. Sta’ sicuro che, per dieci, le lettere ti giungeranno. Se non mi servirà bene una strada ne piglierò un’altra, ma le lettere giungeranno.

Come va la lite del caccatore? Oh divinissimo articolo! Mi rincresce assai della febbre della Sig.a Madre; ella fa troppo onore ad un caccatore.

Tu dunque rifondi la tua Felicità? Rifondila, rifondila, amplificala, estendila, ingrossala che farai benissimo. Qui ella piace; credimi, non trascura queste vacanze di eseguire tal progetto. Vedo le cose sul fatto e te lo persuado. Ti stimano, ti stimano: dà loro un nuovo soggetto di parlare di te.

Povera mia Istoria, ella è adunque revista? Oh, labores mei inanes! non vorrei esclamare con tanti infelici autori di non letti volumi.

Ho dato il tuo Bilancio e quello di Carpani e l’opera tua e le Monete di Carli a Morellet; fin ora non gli ha ancor letti. Morellet ci ha comunicato un prospectus del suo Dizionario di Commercio. Lo pubblicherà fra poco questo prospectus. Io non so cosa sarà quest’opera. Ei pretende che non vi è mai stata la scienza della economia fin adesso; che i princìpi o non sono chiari o incerti o male applicati; e sembra che voglia tutto distruggere per alzare una nuova fabbrica a suo modo. Tutte le proposizioni sue di politica che sostiene nella conversazione hanno sempre l’aria di paradosso. A proposito della materia, vi dirò che taluni qui non stimano nulla gli Elementi di Forbonais; e mi si dice che esso Forbonais è un uomo di un pessimo umore, sempre tristo e da fuggirsi. Qual differenza fra gli autori ed i libri! Io ne ho sempre meco una prova. Elvezio, per esempio, è robusto e magnanimo e sublime nel suo libro, e nella conversazione è di una dolcezza quasi feminile, per quanto mi dicono. Ume è il più buono e semplice uomo del mondo. Lo trovate voi tale ne’ suoi audacissimi saggi?

Ho delle idee di commercio. Vi dirò dei fatti, e pensatevi. Qui le calze di seta fine, e delle migliori, costano dieci franchi. Per sapere che voglia dire un franco, ritenete che uno scudo di Francia vale sei franchi. Così, al mio conto, non costano un zecchino al paio qui in Parigi. Vi sarebbe condotta e dogana. Sono punti da esaminarsi. Altro punto. Qui con tre Luigi voi prendete un paio di manichetti i più belli che si possano vedere. Con la metà del prezzo ne prendete di parimenti belli e buoni per qualunque occasione. Sapete perché? perché in questo mare v’è una folla di gente che va in malora, e gli vendono a rotta di collo. Pensateci. ALESSANDRO

XIX (9) Ai Fratelli. [Milano,] 13 9bre 1766

Oggi ritorno da Gessate, dove sono stato cinque intieri giorni con vivissimo piacere, e al mio ritorno trovo due tue lettere, una del 27 ottobre, l’altra dei 3 del corrente: non vi voleva niente meno per farmi trovar contento del mio ritorno in Milano. Vedo che tu hai ricevute tutte le mie lettere, siccome io tutte le tue: qualche ritardo è sempre imprescindibile di tempo in tempo in questa distanza e non essendovi corriere immediato. Oh, quante cose e quanto interessanti tu mi scrivi! Le tue care lettere si trascrivono, come già ti scrissi, di volta in volta, su un libro che tengo sotto chiave per me solo; se avrò tempo domani io faccio conto di estrarre da tutte le tue lettere quello che v’è di visibile e darne una copia al Sig.r Conte di Firmian. La lettera che hai scritta a nostro Padre io non l’ho veduta perché egli non me l’ha esibita, e non potendo io fare altrettanto di quelle che mi hai scritte nemmeno ho voluto chiedergliela; in avenire mandamele aperte, che io le sigillerò. So per altro che egli si è compiacciuto della descrizione che gli hai fatta del viaggio e della immensa Città, che in Senato l’ha fatta vedere a Peci, che Monsignore la esalta, e tripudiano come polli per l’eleganza del tuo stile e la penetrazione con cui in pochi giorni hai potuto conoscer tanto di questo paese. Io ho loro detto quello che si poteva e già mi conosci abbastanza ho annoverato nel numero de’ tuoi amici anche il Sig.r Helvetius, poiché credo che a quest’ora lo sarà, ed ho veduto impallidire le pie fronti domestiche a questo nome: qual distanza fra le idee che ora ti scrivo e quelle che ricevi nel gran vortice in cui sei! Ma, prima di scriverti un mondo di cose che ho in testa, veniamo al punto che interessa più di ogni altro, cioè alla risoluzione che dai per fatta da Beccaria. lo compiango te stesso primieramente, ed assicurati che so perfettamente sostituire me stesso alla tua situazione e ne sento tutto il disgustoso e il difficile, mi pare di vederti costretto a startene immobile mentre sei ferito da ogni parte, l’implacabile e invincibile fantasia dell’amico ti pesa sul capo, la sua essistenza ti piomba addosso, ti vedi rubare i giorni che credevi i più brillanti e ameni per te, devi soffrire le sue lamentazioni e i suoi rimproveri, le sue gelosie e i suoi trionfi, e l’amicizia e la virtù t’incassano in un brevissimo spazio da dove non puoi uscire; ti vedi sul punto d’essere abbandonato da un amico e di dovere, solo, avventurarti in nuovo paese: in somma, sento in tutta la estensione lo stato tuo; ma con tutto ciò io non so giustificarti né giustificar Frisi perché abbiate ceduto alla fantasia di Beccaria e vi siate stancati di fargli guerra in un affare da cui dipende un ridicolo eterno per lui presso i suoi più cari. Io gli scrivo l’acclusa. Io ho scritto a Odazzi, che è colla Marchesina, non già svelandoli il mistero (che questo è riservato per la sola Isimbaldi e suo marito, gente imparlabile), ma confidandogli che la tenerezza per la moglie e il dispiacere della lontananza bilanciano in Beccaria la soddisfazione d’essere fra le accoglienze e gli applausi di Parigi; che io conosco la fantasia robusta e violenta di lui, forse m’inganno, forse indovino col temere che, accrescendosi un minimo grado questa tenerezza, ei non interrompa il corso del viaggio e non ritorni quando meno s’aspetta in Patria; che questa sarebbe una scena, come ei vede, troppo disgustosa per tutti. Forse (gli dico) io faccio torto all’amico supponendogli maggior debolezza che non ha; forse anco prevedo bene. Perciò confido a lui questo pensiero, suggerendogli che la calma a questo sentimento che prova l’amico nessuno può meglio dargliela che la Marchesina istessa, la quale forse vedrà che è dilicatezza talvolta il nascondere una parte del nostro affetto quando ciò sia di utile a chi amiamo. Presso poco un discorso consimile l’ho fatto col Marchese Padre, il quale però non sospetta nemmeno che possa fare la coglioneria di ritornare innanzi tempo: egli stima suo figlio, e gli scriverà, unicamente a fine di calmare il dispiacere in lui della lontananza, tutti stanno ottimamente, ma ottimamente bene. Quest’è quello che so e posso fare in questa distanza per impedire che un caro amico ed un uomo rispettabile non faccia una scena d’un ridicolo che nessuno gli potrà levare; caro Alessandro, per amore dell’amicizia hai sofferto tanto, soffri ancora, cerca d’aiutare la ragione in quella testa, raccomandalo a Frisi anche a nome mio, non lasciate che si converta in una risata di tanti ciarloni milanesi un viaggio che fa onore a voi tre e alla Patria, salva i giovani di merito da quest’esempio che tanti coglioni citerebbero per deprimere la Filosofia, fa’ delle opere di superogazione in Filosofia dopo aver compiti tutt’i più sacri doveri della virtù e dell’amicizia; è più facile il consigliarlo che eseguirlo sul fatto, lo so; ma forse sarei buono anche d’eseguirlo, come lo sarai tu, se lo vuoi: fa’ questo tratto degno della tua bell’anima; dissimula un po’ con questo amico infermo d’animo, celagli i frizzi delle tue passioni; egli alla fine è degno della tua cura, se lo vuoi son sicuro che riuscirai a impedirgli questa scena, temporeggia di quindici in quindici giorni, dà luogo al tempo, fingi d’entrare a parte della sua passione, fingi di desiderare tu pure la Patria: egli, vedendoti un po’ debole, non si sdegnerà della tua superiorità, vedendoti un po’ suo confratello in debolezza si fiderà di te, lo persuaderai facilmente, in somma cerca per amor di Dio di guadagnar tempo sopra di lui; t’assicuro ch’io non ho pace pensando a questa scena e che prenderò come fatto a me tutto il bene e tutta la pazienza che consacrerai al nostro Beccaria. Caro amico, te ne prego e ti scongiuro, fa’ di tutto; ma cerca d’impedire questa dapocaggine, la quale mi fa rossore al pensarvi. Non finirei più su questo proposito e ti scriverei un tomo se ti dovessi dire quanto mi sta a cuore, quanto funeste conseguenze ne prevedo e quanto pagherei per calmarmi; ma pure ho altre cose da dire, onde abbastanza su di ciò!

A quello che mi scrivete, vedo che i quartieri in Parigi sono anche più cari che in Vienna, dove con sette Luigi avreste al mese almeno 4 stanze delle meglio adobbate. Aveva preveduto che sarebbe stato bene, arrivando, il non prefiggervi un Hotel a dirittura, ma stare per un giorno o due sull’osteria e cercare e scegliere poi l’alloggio stabile, come avete fatto. Ora ai Due scudi spendete dunque meno di tre zecchini al mese d’alloggio, che, compreso il servitore in due, ascende a meno di sei zecchini per uno; con dieci altri zecchini al mese tra fiacher e piccole spese voi ve la passate, cosicché ha detto bene chi stabilì che con un filippo al giorno si può vivere in Parigi. lo non mancherò di far leggere a Luisino, subito che ritorni dalla campagna, la prova delle chimeriche sue opinioni sul decoro in cui si voleva riporvi. Voi sapete che ciò viene da S. Damiano. Chi avrebbe mai potuto immaginarsi che M.r di Marmontel, che è l’eleganza e la grazia medesima ne’ suoi racconti, fosse un po’ rozzo nel suo commercio? Chi avrebbe detto che il vigoroso e spermatico scrittore dell’Esprit fosse tanto dolce e pieghevole come me lo dipingete? L’uomo, per lo più, quando ha la penna in mano s’invade d’entusiasmo e rappresenta una pubblica scena sul teatro, ei si mostra quale vorrebb’essere o quale si deve essere per essere applaudito; lontano dal calamaio, egli ritorna quale sta comodo nel suo naturale. Questa verità forse l’hanno anche i volgari nel fondo del cuore, benché non la sappiano ridire; forse questa è quella che esprimono quando vogliono indicare la diversità della Teoria alla Pratica; forse è quella che impedisce che accordino la loro stima a chi per alcuni intervalli sa innalzarsi e pensare grandemente, sin tanto che non provi che la serie continuata de’ momenti della sua vita e delle sue azioni sieno d’un livello superiore al comune degli uomini; la statura d’un uomo non si misura nel momento in cui fa una capriola. «Taci, profano», mi direbbe ogni altro uomo di lettere, ma non il mio Alessandro, che sa amare la verità anche contro il mestiere. lo vedo dalla pittura che mi fai di questa illustre società, animatrice degli ingegni europei, che il sapere e le scienze, guidate dalla filosofia e dalla virtù, hanno abbandonata ogni gravità, ogni pedanteria ed ogni fasto personale; ancora una riforma vi resta a fare per il secolo decimo nono, ed è che abbandonino lo spirito di partito, il quale è troppo manifesto e contro il povero Rosseau e contro ogni sistema. Forse questo è l’effetto delle persecuzioni sofferte dalla filosofia, la quale ha costretti e compressi tutti gl’ingegni unisoni di questo centro d’Europa, ed ha imposto loro la necessità di agire con un moto uniforme e conspirante per reagire con effetto; da ciò sono stati piegati ad uno spirito di corpo che accende in tutti la forte passione di uno de’ capi: ottima cosa sin tanto che durava la necessità della difesa, pessima ne’ tempi tranquilli, ne’ quali la libertà delle opinioni e lo strofinamento d’esse fa vegetare la Filosofia; i Filosofi debbon essere piuttosto aleati che concittadini, per essere massima la loro azione.

M’avete fatto moltissimo piacere parlandomi del Teatro, dell’Osservatorio, del Palazzo degl’Invalidi e del ritratto della tenera La Valière. Così della Biblioteca e delle altre novelle delle lettere. La descrizione di Joli Moulin è seducente; mi ricordo assai bene di Mad. Le Comte e di M.r Vattelet: essa ha molto talento anche per il disegno; se i piaceri di questi due amici non sono i più vivi, sono certamente i più durevoli. Avete voi trovata qualche idea, in quell’Isoletta, che vi facesse risovvenire delle nostre Isole Borromee?

Mad.lle l’Espinace fa sommo onore al mio feto letterario. Fortunato l’autore che può dar voglia a una Signora amabile d’imparare la sua lingua, e più fortunato il fratello dell’autore che può essere scelto per maestro di lingua, e far servire il librettino suo nipote di discreto e comodo testimonio di cento deliziosi téte-a-téte.

Le mie fatiche letterarie sono assai interrotte dalle corse che faccio a Gessate, ma con tutto ciò lavoro ora al Democrito, ora alla Felicità ed ora alla Scrittura su il Commercio de’ Grani, la quale porterà certamente le idee più in là che non ha fatto alcuno da me letto. Mi farai molto piacere nel darmi un sincero riscontro del giudizio che Morellet dà delle mie cose economiche: se non conosce altri princìpi che quei che non sono stati detti sin ora naturalmente non sarà del mio parere; i fatti però almeno me li crederà; egli trova bello il pezzo sulla Patria degl’Italiani, ed io no. Tradidit mundum disputationibus.

Vengo a me. Io trovo nella famiglia Beccaria in Gessate tutta la più cordiale ospitalità e vi ho passati dolcissimi giorni; la Marchesina credo che sia a Turano, ed io ritornerò a Gessate dopo domani. II caro Cav.re è stato in mia compagnia, ti abbraccia di cuore; io gli comunico gli articoli delle tue lettere che non risguardano l’amico, ed egli è incantato del tuo cuore come già prima lo era del tuo spirito; questa è la progressione con cui ti sei destinato a manifestarti, così vedo che accade a tutti: chi ti conosce poco non sospetta nemmeno che tu abbia un’ombra di quella squisita sensibilità che hai per delizia de’ tuoi amici. Al Conte Monti è stato rubato nella sua camera per il valore di 11 mila lire; v’era un brillante e dell’oro: questa è la nuova della Città. A Robecco la Corte nostra è splendida e magnifica in ogni sua cosa e la Principessa si guadagna l’ammirazione e il cuore di tutti. Sento che sia giunto un dispaccio per cui tutte le cause incoate e particolarmente una grandiosa del Mapelli, per cui v’è stato assai discorso di disputa fra il Senato e il Consiglio, sieno tutte rimandate al Senato. Ilo sino al primo colpo d’occhio, e noi tutti, anzi, che abbiamo dato al progetto della erezione, abbiamo veduta l’incompatibilità di addossare le liti mercimoniali a un corpo che non sa la Giurisprudenza attuale, prima di formare un codice mercantile che stabilisse una nuova e chiara Giurisprudenza. Queste riforme mancate, che per necessità si debbono rettificare col ritorno al vecchio sistema, non producono altro effetto che rinfiancare i vecchi disordini e allontanare sempre più il possibile buon sistema. Io mi trovo in una nave che anderà come vuole il caso e di cui nessuno può prevedere l’esito; la Ferma è lo schiffo dove mi salverò, se posso restarvi sino al tempo di trasmettere un chiaro e limpido bilancio della mia annua amministrazione. La mia situazione è frattanto scabrosa e mi vedo riposto in una nave che conosco male fabbricata, dove non so come operare per avere approvazione, e vedo che dalla Corte non si sceglie altra strada che l’amputazione, per ridurre le cose alla simetria. Ma per questo perderò io la mia quiete e le mie ore di bene? Non sono tanto coglione: il meno che si può. Farò il mio dovere, quello che vuole la virtù e il cuore, e faccio il mio conto che in questo mondo vi si viene una volta sola e questa poca volta bisogna lasciarlo andare come va e starvi memale che si può. A Orio il Teatro, per tutte le relazioni che ne ho, riesce benissimo, e con sorpresa di tutti la Fogliacci ha potuto riscaldare anche le anime fredde de’ suoi compagni; essa mi scrive e vuole ch’io saluti Beccaria e te, di più mi dice che tu non sarai obbligato, nelle prime tue visite a Parigi, di startene alla formalità dell’en blanc, che le belle Signore te ne dispenseranno.

Ho ricevuta nuova lettera del nostro M.r Aubert dei 3 del corrente. Egli non aveva ancora ricevuto il pachetto spedito da Genova, ma non poteva nemmeno, in così poco tempo. Mi conferma quello che ha ultimamente scritto. Egli si fida che l’opera sia buona sul credito tuo e nostro, mi promette di riscontrarmi il giudizio che daranno sul Ms. l’Avv[oca]to Baldasseroni e l’Auditore Franceschini, uomo saggio e illuminato, revisore Regio, e che ha predetto l’incontro dell’opera di Beccaria come di altre, verificandosi sempre le sue profezie sul giudizio pubblico. Io a te ne darò relazione pontualmente. Egli ha obbligati i suoi torchi per sei mesi, ma promette di accrescer uomini e di far tutto alle occasioni per appagare il nostro desiderio; si lamenta perché abbiamo abbandonato il Caffè: ma come fare altrimenti? Gli esemplari del Caffè legati in rustico sono nella mia stanza, unitamente al Facchinei ed ai libri di Carli; Luisino è in campagna, sebbene fossimo d’accordo di ritrovarci in città in questi due giorni per unirvi la sua Relazione del Censimento e concludere il ballotto per Parigi, perciò resta diferito ancora per pochi giorni, ne’ quali o egli ritorna o io prendo una Relazione e spedisco da me il ballotto. Salutami Beccaria. Digli che la Sig.a Vanni ed i Sig.ri Dottor Manetti ed Abate Lorenzi, collettori dell’Ornitologia o raccolta di uccelli, hanno destinato un esemplare gratis per lui per gratitudine degli associati che ha proccurati loro. Che tutto è in pronto sino alla dozzina 7 ed aspettano ch’io indichi loro per qual mezzo lo debbono spedire a Milano. Di più mi ricerca i titoli degli associati poiché ora [oc]corrono le loro dediche.

È stampato dal Galeazzi il secondo Tomo dell’Estratto della Letteratura ed è giunto il Ms. per il terzo; sin ora gli affari della revisione delle stampe seguitano senza mutazione. A buon conto il Caffè è finito: ci pensi chi avrà a fare colla stampa.

Le idee che mi proponete di commercio sono da non trascurarsi. Cominciamo con poco. Le calze fìnissime a dieci Franchi il paio importano ciascuna lire milanesi abusive 14.3.4. Dodici para dunque sono L. 170. Un paio di manichetti de’ più fini a 3 Luigi sono circa L. 100; due para di un Luigi e mezzo l’uno sono altre L. 100. Tutto monta a L. 370, cioè circa zecchini 24. Fatene la compera per conto mio, ch’io al principio di dicembre esattamente ve ne trasmetto la cambiale. Voi frattanto pensate al modo di spedirmele al più presto. Frattanto non dimenticare di farti un buon corrispondente al quale dare ogni commissione anche dopo la partenza, che se questo primo tentativo va bene io mi farò mantenere a merletti e calze dai Milanesi. Ho conosciuto l’Abate di Loudron che guadagnava le spese de’ viaggi col commercio di scattole, fibbie, orologi ecc., comperati appena usati in Parigi e che spacciava per nuovi in Germania. Il Marchese Ximenes, toscano, faceva altrettanto; del guadagno vi deve certamente essere e molto, l’imbroglio si è di trovare l’esito, ma anche a ciò v’è strada.

Proccura d’informarti se il Manoscritto Orientale che Voltaire dice essere nella Biblioteca vi sia o no; cerca di sapere il vero carattere di quest’illustre Scrittore, di cui s’è detto e scritto tanto variamente. Egli lavorava contemporaneamente a te sulla Storia. Scommetto che molte delle tue riflessioni le troverai nella sua nuova opera. Vorrei pure che qualche cosa mi scrivessi intorno l’accoglienza che t’ha fatta il Conte di Mercy, pulito e onesto Ministro, per quanto l’ho conosciuto io. Amico, non ti dimenticare, in questo gran vortice, del tuo collocamento, tieni sempre una porzione della tua anima in sentinelle perché ad ogni lampo tu possa afferrare l’occasione; se t’è possibile il legare col nostro Ministro, tu vedi di qual vantaggio ti possa essere un giorno; il destino della nostra Monarchia è che chi viene da Parigi alla Corte abbia la somma influenza negli affari. Sul luogo, da uomo di giudizio, tu sceglierai; il mio cuore non mi permette di celarti queste viste, quand’anche ti dovessero parere chimere o seccature. Quanto volentieri t’abbraccerei, caro amico, fosse almeno per un momento, per rimbalzarti poi a Parigi! La tua assenza si fa sentire al mio cuore più spesso ch’io non vorrei; ma, cazzo, siamo uomini e non fanciulli: amiamoci, stimiamoci, ma non c’interrompiamo i nostri piaceri e il nostro bene.

Il Sig.r Secret[ario] Corti, che ti ama con tenerezza e che giubila per le buone nuove che gli ho date, ti saluta caramente ed è qui presente.

Una nuova per Beccaria. Il Corrispondente di Greppi, il quale da Moscovia gli ha chieste nuove riservatamente, come sapete, ora gli ha scritto precisamente per sapere se Beccaria è in Milano o in Parigi e informarsi s’egli sarebbe per ascoltare una onorevole proposizione di passare in Pietroburgo. Greppi ha risposto invitando a far la proposizione, la quale farà sempre onore. Diglielo a Beccaria da mia parte, e lasciagli cavare tutte le conseguenze possibili. Vuol egli stabilirsi sotto l’Orsa? Eppure si crede ch’ei sia capace di farlo, da chi non sa quello che sappiamo noi sotto sigillo.

Questa lettera è continuata nel giorno 14. Peci, al quale nostro Padre ha letta la tua lettera, ha partecipato al Castelli e questi ad altri l’artifizio col quale tu lodi i Gesuiti: t’assicuro che fai ridere e vedo che sei amato molto e assai più che non credi. Il dispaccio intorno alle cause mercantili non è poi tutto quello che mi veniva supposto e che t’ho scritto dissopra, ma è che dove v’è articolo l’affare spetti al Senato, ed al Governo il giudicare se vi sia articolo: s’aspetta poi chi definisca questa parola.

È accaduto un caso strano ne’ giorni scorsi. Il marito della bella Rossara ha dato un ricorso al Governo per avere riparazione da sua moglie, la quale gli ha fatto un regalo che i greci chiamano nobilmente gonorea; la moglie, sapendo ciò, ha dato un altro ricorso in cui accusa il marito d’avergliela regalata; in questo stato di cose la bella s’è rifugiata in Como in casa d’un suo zio, e il pubblico sta aspettando la decisione mentre gli adoratori pregano per la pronta guarigione della Signora. La Grianta ha perso il fiore del suo volto e la proprietà de’ suoi beni avendo fatto un vitalizio per stabilirsi a Modena, per dove è partita e dove fra poco sarà mal contenta; perdite tutte, le quali si fanno dopo il buon senso; i suoi progressi nelle cognizioni ora son guidati da quel celebre guercio frate suo cognato, il quale le ha persuaso che la Compagnia de’ Pugni non vale un fico: essa lo crede; Luisino ha vogato, io ne ho riso, voi altri forse non farete né l’uno né l’altro di ciò. Io parto domani per Gessate. Addio, carissimi amici; non mi sazierei mai di scrivervi, voi sapete la mia pigrizia, argomentatene il bene che vi voglio. Addio.

P. S. È ritornato Luisino per un momento. Domani si fa il ballotto e si spedisce colla prima occasione. Vi sono 4 interi esemplari del Caffè, un’intera opera di Carli, Tomi 4, un Facchinei, una Relazione del Censimento e sei Innesti del Vaiuolo. Luisino ti abbraccia, ti ringrazia del paragrafo per lui: egli è convinto ed abiura al decoro nelle forme. Se puoi sapere per qual azardo la Società Reale di Londra abbia scelto Boscovich, sarà una anecdota che ci sarà cara. Addio. PIETRO

XX (11) A Pietro. Parigi, 7 9bre 1766

Credo che questa sia la quarta lettera che vi scrivo da qui, se pure non è la quinta: ma non mi pare.

Io me la passo bene. Sono stato dall’Ambasciatore. Per dieci, non è punto tedesco: egli è un uomo assai pulito e ragionevole. Sono stato dalla Serenissima Duchessa della Marche (o meglio, Contessa), la quale ci ha accolti con bontà quantunque abbiamo tardato quindici giorni a presentarsele e sapesse che avevamo lettere per Lei. Ma non potemmo far di meno, perché v’era il lutto e non volevamo fare un abito nuovo per chicchesia. Non mi dimandate se mi sono annoiato in questa visita, perché questo sentimento abita sempre le Corti e le Semicorti. Mi sono per altro fermato un momento. La cerimonia della presentazione ha il suo merito. La Contessa Serenissima esce dal suo apartamento e vi viene essa all’incontro; voi dovete star fermo e ritto e ricevere una riverenza ch’ella ci fa accostandovisi vicinissimo, di poi voi vi ritirate un passo e fate una profonda riverenza. Così ci ha instruiti la Dama d’onore. Ella stessa confessa che la maggior parte de’ forastieri non possono star fermi quand’essa vien loro incontro, per far un mecanico moto di rispetto che li fa ritrocedere con una profonda riverenza.

Beccaria parte per Milano tra li 15 ed i 20 di questo mese. L’istesso giorno io partirò per Londra, ben fornito delle opportune lettere. Faccio questa risoluzione, I°: perché rimanendo qui io solo sarei ne’ primi giorni come vedovo. Erano troppo avvezzi a vederci insieme. Così dopo quattro o sei settimane ritorno, comincio una nuova vita ed esisto da me stesso. Oltrediché in tal modo mi sottraggo alle infinite interrogazioni che mi verrebbero fatte su i motivi di tal partenza. 2° motivo è che così prendo meglio le mie misure, dando di buon’ora questo forte e necessario salasso all’errario. Pensavo di passare anche in Olanda ma Frisi, che di là viene, me ne dissuade. Spesa e noia grande, niente più. Onde io seguo il suo parere. Mi sta molto più a cuore il portarmi, all’aprirsi della stagione, in Toscana dal mio Aubert e col mio Carlo Magno e co’ miei Romani e Longobardi dilettissimi, che mi hanno costato tante micranie e pillole e rabbie ed umori, ed i quali, se finiranno ad essere fischiati dal pubblico, come spero in Dio benedetto che tutto vede e prevede, avrò fatto un bel negozio. In ogni casò dirò, coi tanti non letti e non leggibili miei confratelli, che il secolo non ha gusto e che non stimano che i libercoli. Uno di questi giorni il nostro Morellet con una certa superiorità d’amicizia mi disse che, passati i primi tumilti di Parigi, bisognava poi mettersi a qualche studio. «Ho anche troppo studiato», gli risposi. «E che avete studiato?», mi replicò egli. Ed io allora, sfoderando tutto il fatto mio, l’ho un poco colpito col dirgli: «Ho in due anni fatta la quinta parte del primo tomo del Caffè e la metà del secondo; ho nello stesso tempo fatti trentaquattro pledoyers in difesa di processati, essendo io stato due anni Avvocato Criminale; ho finalmente fatto una Storia d’Italia da Romolo sino a noi, che sarà un buon volume in -4°». L’amico è rimasto a quest’ultima cannonata: e notate ch’io non gli aveva mai detto nulla de’ miei studi.

Siamo in seguito entrati in qualche dettaglio alla sfuggita, e sarebbe già pronto a tradurla, se non lo spaventasse la mole.

Monsieur Suard, uno degli autori della Gazzelle Litteraire dove sono stati tradotti vari pezzi del Caffè, mi ha molto lodato il vostro Saggio sul Teatro Italiano. In somma, le cose vostre piacciono assai. Scribe, scribe qui dormis inter pubblicanos! Ti darò una brutta nuova di questa Città e poi finisco.

Sono pochi giorni che un tale di cui non so il nome, preso da noia di vivere, è andato da un suo amico, il quale alloggia al terzo piano del Palais Royal, e di là si è rovesciato abbasso. Malgrado la grande altezza non si è che rotto un ginnocchio: è poi morto a letto. È qualche tempo che non ho tue lettere. Mi manca molto. Ti ho già avvertito di porre per adresse: rue et hotel des deux ecus. Se non la poni non mi arriveranno giammai. Se il corrispondente attuale di Ginevra non ti serve bene, eccotene un altro. Fa’ un invoglio a Ginevra coll’indirizzo a Monsieur le Cousin Bonnet ed un altro invoglio indirizzalo a me colla data di Parigi, ma aggiugni: Chez les Freres Bertina e Garbagni, rue Montmoranzi. T’abbraccio cogli Amici. Il tuo A[lessandro]. Benché vada a Londra, tieni lo stesso metodo quanto alle lettere. ALESSANDRO.

XXI (12) A Pietro. Parigi, 12 9bre 1766

Fin ora io [sono] stato un forte oppositore alla risoluzione del mio amico Beccaria di ritornare a Milano, fin ora io ho combattuto con lui con tutte quelle armi che danno l’amicizia e ’l buon senso, ma finalmente io stesso mi ritrovo vinto e non mi sento ben fondato a poterlo persuadere di ulteriormente qui trattenersi. Bisogna riandare in breve la serie di questa passione per convincervi di quanto vi dico.

Sappiate adunque che fino dalla sera istessa della nostra partenza questa passione ha incominciato; che a Novara, quella sera, fu inquietissimo la notte; che a poco a poco essa andò crescendo di giorno in giorno, finché a Lione scoppiò ed affatto si decise la sua forza.

A Lione, e prima anco d’arrivarvi, l’Amico sarebbe più volte ritornato e, se non avesse che ascoltate le voci del suo cuore, sarebbe infallibilmente ritornato per le poste più veloci; ma la ragione ha tanto potuto su di lui che, malgrado il sentirsi squarciar l’anima, malgrado l’estrema desolazione, si è strascinato fin qui luttando con se stesso fin dove non avrei sperato. Io l’ho veduto soffrire estremamente e compassionevolmente, eppure, vinto dalle mie ragioni, seguirmi come un uomo che va al patibolo. Se l’origine della sua passione ha forse un fondo di debolezza, il modo e ’l tempo in cui l’ha sostenuta e respinta mi pare il frutto di una costanza non ordinaria. Le ragioni che lo strascinarono, fra le angosce ed i tumulti dell’animo, fino a Parigi, sono quelle stesse stessissime che avete dette voi e quelle medesime che le abbiamo tutte quante riandate tra me e lui ne’ momenti di calma, con freddezza matematica calcolandole ad una ad una. Ciò abbiamo fatto sin ora più volte al giorno. Io poi in viaggio avea da aggiugnere due altre ragioni che voi ora non avete, e sono: 1°: che il ritornare o da Lione o da un albergo della Savoia era una scena ben più trista che il ritornare da Parigi, anche dopo breve dimora. 2°: che pazientasse per qualche giorno finché fossimo giunti a Parigi, dove si sarebbe provato se i divertimenti, gli applausi ecc. lo avessero contentato. Perché, io diceva, si tratta da sciogliere un problema, e questo è se voi possiate essister così bene a Parigi da non dover regrettare la vostra famiglia: questo problema non si può sciogliere che andandovi: andiamo dunque e vedremo.

Giunti adunque a Parigi rimaneva da vedersi in quale stato si ponesse l’animo suo. Erano sedeci giorni ch’eravamo in viaggio e la sua passione aveva sempre sussistito nel suo vigore in questo frattempo. Avea combattuto io, avea combattuto ei stesso contro la natura, ma invano. Dopo questa esperienza io speravo pochissimo in Parigi. L’esito ha comprovata la mia previsione. Che manca a Beccaria per esser qui diurnamente bene? Trovammo il nostro Frisi subito il giorno dopo; fummo subito introdotti, il giorno seguente al nostro arrivo, dal Barone d’Holbac, pranzammo, vedemmo i principali illustri uomini del Paese; il nome di Beccaria risuonava dapertutto: applauso, festa grandissima. I seguenti giorni succedé lo stesso nelle varie presentazioni che si fecero della sua persona. In fine, in una Città immensa come questa, dove un uomo è un attorno, si seppe l’arrivo di Beccaria in varie parti, e per fino nella diligenza di Lione è stato a caso riconosciuto da varie persone ed ha trovato chi li parlava di lui con somma stima. senza riconoscerlo. Sono avvenimenti ben lusinghieri per l’amor proprio. Ebbene: che succedeva di Beccaria in tanta gloria riposto? Non gustava nulla, avea qualche leggiera distrazione ma ritornava alla sua passione e sempre sentivasi il verme nel cuore che lo corrodeva. In fine va al Teatro e piange e si commove un momento alle scene che moverebbero una montagna e poi, per poco che la rappresentazione si raffreddi, cessa in lui ogni illusione e ritorna al suo dolore. Va nelle conversazioni più aggradevoli, è riposto in mezzo di uomini adorabili, è a una buona tavola, è alle Tuilleries, è fra i libri, è dove volete: niente lo consola, sempre, sempre la passione gli si solleva dal fondo del cuore e quelle circostanze che farebbero, esse sole distribuite su cento uomini, la felicità di ciascuno, fanno né punto né poco la sua. Volete ancor più? Oggi siamo stati a Versailles. Vi assicuro che è un oggetto da piacere a chichesia, eppure l’amico è sempre stato sepolto in una profonda melanconia. Io mi sono divertito assaissimo, egli ha gustato nulla, nulla affatto. Amico, sono cinque settimane e più che Beccaria sostiene questa lotta disastrosa e penosissima: ha egli ora torto di cedere? «Io, dic’egli, finché potei sperare che questa mia passione fosse vincibile, finché potei lusingarmi che fosse una passaggera idea, finché in somma non mi parve d’aver interposto mezzi efficaci per dissiparla, l’ho combattuta, mi sono sforzato, mi sono trattenuto con mio sommo sforzo: ma chi ora può chiamar la mia passione e la mia risoluzione leggi era ed immatura? Cinque gran settimane di prova non bastano forse? Coll’esistere orribilmente male per tanto tempo, non ho io acquistato il diritto di asserire che qui non posso esister bene? e se esisto male, perché fermarmi? Non son io qui venuto per divertirmi? e dovrò morire di melanconia? Niente mi compensa la mia famiglia, niente mi consola, la sola idea di fermarmi qui un mese mi opprime, sono cinque settimane che sono in tale stato, e perché fermarmi? per qualche diceria? Ella è minor male di quello che provo. Per i miei amici, moglie, Padre? Non meritano tal nome se non mi compatiscono e son sicuro del loro cuore. Che rimane adunque da fare? vivere qui sicuramente male o vivere a Milano sicuramente bene, o men male? Morire qui di melanconia od avere il coraggio d’incontrare qualche diceria di cui non m’importa?». Aggiugno ch’egli dice, e mi par giusto, che la scena non sarà nelle presenti circostanze così deforme come la sarebbe stata partendo o prima di qui venire o appena venuto. In fine terminerò colla carta, e dirò: Beccaria è venuto a Parigi per viver ci bene; atqui non può: dunque ritorni. La maggiore è manifesta, la minore si prova con una lunga e costantissima esperienza, dunque non si può che conchiudere per il ritorno. Tai sono le ragioni che mi disarmano: queste a voi propongo, e credo non altro rimanere nelle presenti circostanze alla vostra amicizia che di concorrere il più che possiate perché questa risoluzione apparisca agli occhi d’ognuno colla decenza maggiore. Sono il tuo amico.

Questa è la lettera destinata per te. L’altra è fatta per compiacere Beccaria. La tua autorità gli pesa molto, cerca di giustificarsi in faccia tua. Mi ha pregato di farne la relazione del male e di significarti il mio sentimento, questo è ciò che faccio. Credi, amico, che io che vedo le cose sul fatto sono convinto che Beccaria non può qui rimanere. In tanto egli non si amala ed ha di tempo in tempo qualche calma in quanto che la sua partenza è già risolta e disposta. Sarà il g[ior]no 22; nello stesso io andrò a Londra.

Avverti una cosa. Dallo stile istesso delle antecedenti lettere che ti ho scritto su quest’affare, avrai ben inteso ch’esse erano scritte segretamente. Mi fu necessario dissimulare coll’amico. La sincerità mia in questo caso non gli sarebbe stata utile ed io avevo un troppo gran bisogno di sfogarmi con un amico qual tu. Quest’avviso ti serva per tua regola nelle risposte. Ritieni che Beccaria pensa che ei è stato il primo a darti parte della sua melanconia coll’ultima sua lettera. Non sospetta ch’io ti abbia giammai scritto di ciò.

Ti darò delle notizie che mi vengono per la testa in confuso. Crederesti che in un Paese così vasto vi fosse un tal tribunale e regolamento di Police che i Magistrati di essa sanno che vi fa ogni forastiero nell’ultimo dettaglio? Eppure è così, né si potrebbe credere a che segno arrivi la sagacità di questo tribunale. Sono successi casi sorprendenti di persone le quali avevano bisogno per una lite di sapere la vita di un uomo sino a dieci e quindici anni successivi, e ricorrendo alla Police hanno avuto tutte le memorie bisognevoli. La Police sono persuaso che sa non solo il mio nome, ma che faccio, perché son venuto, dove frequento e tutto in somma il fatto mio da mattina a sera. Così succede d’ogni altro forastiero. Molti sono gl’impiegati a questa magistratura. Al che aggiungi un infinito numero di spie da per tutto. Il Paese è pieno di tal razza di gente. Per quanto mi si dice, bisogna temere una spia in ognuno. Seducono i servitori; nelle strade, alla sera, i Savoiardi che servono colle lanterne sono tutte spie: in somma non v’è generazione più abbondante di codesta in questo paese. Ciò non entra nel sistema della Police. Quello è saggio, questo è il frutto della politica di un ministro che vuole sapere i suoi amici ed i suoi innimici. Ciò almeno mi ha detto un Ambasciatore. Altri dice che tal sistema sia fatto per avere delle anecdote da contare al Re. Comunque sia, per chi vuol divertirsi a Parigi e cerca nulla, può dire in lungo ed in largo il suo sacro sentimento senza pericolo di sorte alcuna… [tre righe abrase]

Abbiamo parlato varie volte delle opere inedite di Montesquieu. Vi dico adunque che i suoi Viaggi esistono, ma che non sortono già perché sieno scritti con troppa libertà, ma perché il suo figlio è bastevolmente indegno di un tal Padre per esser geloso della sua gloria e sepellire nella oscurità un’opera che l’accrescerebbe. Così mi ha detto il Barone d’Holbach. L’opera poi che è stata in fallo abbruciata dal Segretario di Montesquieu è la Vita di Luigi Xl.

Monsieur Thomas, amabile ed ottimo genio, è stato ricevuto nella Accademia Reale delle Lettere. Qui si stima assai tal posto. Si diventa subito come un uomo di un certo rango, da essere ammesso nelle buone compagnie.

Sono stato a Versailles. Egli è, come quasi tutte le campagne de’ Principi, malissimo situato. Lor piace di vincere la natura. Ch’era Versailles al tempo di Luigi XIV? una casupola di caccia di Luigi XIII, riposta in un pantano. Ora è una città di ottantamila anime. Il Palazzo Reale è vasto, è bello, è sorprendente. Il giardino è sublime nel suo genere. Oh, soggiorno delle muse e delle grazie, che sarai questa primavera? Benché le piante sieno quasi decrepite e spelate, pur mi piacque sino al trasporto. Una cosa fra le altre mi ha incantato: quest’è una specie di bosco tagliato a lamberinto nel quale di tempo in tempo, a vari intervalli, vi sono delle piazzette dove, in figure bellissime di piombo, si rappresentano le favole di Esopo e giochi d’acqua. Questa dev’essere d’estate una divinissima cosa.

Ho veduto il Re, alla messa ed al suo ritorno. Gran consolazione! È un uomo piuttosto corpulento, grassotto e stupidamente buono. Alla Santa Messa pone bravamente i suoi occhiali sul clemente e poderosissimo suo naso cristianissimo, poi apre il suo ufficio della B[eata] V[ergine], o libro che sia d’altre divote preci, ed a ginnochio ascolta il sacrifizio incruento con gran divozione. Che Dio lo benedica. Beati francesi!

Avvegnadio che in Francia tutto sia il Re, così, perché il Re sta in ginnochio alla messa, tutti ci debbano stare, almeno nel tempo della consacrazione sino alla consumazione. Vi sono guardie da per tutto appostate nella Cappella Regia per questo affare. Io, non sapendo i divinissimi usi suggeriti alla risplendentissima fantasia della pia mente di S. M., me ne stavo in piedi in tal frattempo e subito la guardia mi ha militarmente fatto segno di pormi ginnochio, e non v’è rimedio, bisogna aver pazienza. Alcuni Inglesi hanno per ciò avuto de’ guai, ed hanno finito per doversi porre ginocchio.

Ho visto gran quantità di be’ quadri, tanto qui al Palazzo così detto di Lucemburgo come a Versailles; ho visto molto delle pitture del Poussin. Mi pare un mediocrissimo uomo. La sensazione che mi fanno i suoi quadri è questa. Sembranomi lavati dal Sigurtà! Così sono molti altri pittori francesi. Quanto alle belle arti, qui ci stimano assaissimo e non fanno cerimonie su tal conto. Abbiamo ragione. Siamo i maestri.

Qui l’Enciclopedia è soppressa. Lo spaccio è proibito. Se alcuno la vuole la manda fuori di Stato e poi la fa entrare di sfroso. Non è proibita la sortita. Hanno vari fatta questa maneuvre. Fa grand’onore al paese. Addio. Saluta Carli, Corti, ecc. ecc., tutti gli amici. Addio, addio.

P. S. Tutti i momenti che ho di ritiro li consacro alla santa amicizia e gli impiego in iscriverti. Quanto mi rincrescerebbe che si perdessero queste mie povere lettere! un giorno mi faranno piacere; vedrò cosa pensavo e facevo in questo tempo di mia vita per me interessantissimo.

Sono stato alla Accademia delle Scienze; v’era il nostro Frisio nel consesso in qualità di corrispondente. Gran fatto, che tutte le adunanze non sieno così rispettabili come lo promettono la solennità e la pompa con cui sono condecorate! Che pensate che sia questo scientifico sinodo in cui sembra condensata la quintessenza della ragione? Una potentissima seccatura. Figuratevi una gran Sala, un gran tavolone, gran seggioloni, calamaroni e pennacce e perrucche, e poi tre o quattro persone che leggono l’una dopo l’altra delle dissertazioni in un tuono nasale e noiosissimo; figuratevi che tal uno degli accademici dorme, molti nell’uditorio fanno lo stesso; figuratevi che la più gran parte non intende punto le dissertazioni perché piene di A + B = Y, ed avendo esse per lo più bisogno di figure, le quali restano sospese in un canto della sala e non sono visibili che da alcuni pochi che lor sono vicini, ne viene che giunga non altro all’orecchio de’ benigni ascoltatori che un inintelligibile impasto di parole. Aggiugni che tal consesso si tiene il dopo pranzo, tempo inchinevole al sonno ed alla inerzia. Con queste deliciose circostanze, appena dopo una gran mangiata, come soglio a codeste buone tavole, e pieno di generoso borgogna, mi sono ritrovato; e dirò con gran rossore che al mondo non ho provata la maggior seccatura quanto in quella ora che infelicemente ho seduto in quella sala delle muse. L’Abate Nollet ha letta una memoria su alcune sue esperienze sulla eletricità. Si è letta da un altro, nasalmente e coglionescamente, un’altra memoria sulla Geografia fisica della Francia; ed un’altra da un altro noioso uomo guascone, che pronunciava nel suo gergo in modo che pareva un milanese effettivo che parlasse francese. Dopo di che me ne sono fuggito e mai più vi torno. E ciò basti quanto all’elogio della accademia.

Il mio viaggio a Londra è differito sino alla fine del mese. Beccaria, le di cui passioni sono in oscilazione, è attualmente del parere di star qui tutto questo mese. Io aveva già fatte tutte le disposizioni, avea già così parlato a’ miei amici, tutt’era concluso: pure bisogna che segua la sua vaga incostanza. Più si ferma più farà bene, ed è quello che vorrei per la sua estimazione. Ma non mi comprometto che da un minuto all’altro non cangi e non sia preso da una forte melanconia di essere rapidamente a Milano per le poste. Ciò è sicuro: o l’amico si addatta (cosa, a mio credere, impossibile) e vivremo bene insieme, o non si addatta e starà male lui e peggio e diabolicamente io. È per me il supplizio di Mezenzio. Altronde egli è prodigo e mi obbliga ad un treno di vita e di spesa che non mi accomoda. Figuratevi che ha già spesi trecento zecchini in Libri, vestire, ecc. Di più ha comperata una sedia nuova di posta per correre a Milano furiosamente. Gli costa 28 Luigi. È stato lungo tempo che interrogava tutti quanto tempo vi voleva da qui a Milano correndo le poste, e di non altro parlava che di andarsene a gran volo notte e dì: dopo tutto ciò è strano il differire quasi tre settimane tutto in un colpo. Ma non spero. Egli, quand’anche volesse qui fermarsi, non lo può far più per avere già esaurita la massima parte dell’errario. La spesa attuale è forte. Ei vuole, fra le altre cose, la carrozza di remise tutti i giorni; vuole cento comodi. In somma, non ci accordiamo. Gli avvanzano tutt’al più i danari di star qui due mesi compreso il viaggio, se pure usasse economia in questo frattempo. Che dirà suo Padre dell’impiego di questi danari? È vero che porta seco robba, è vero che non gli ha male spesi quanto ai prezzi, essendo stato ben servito, ma pure, perché spender quasi tutto? Io non l’ho potuto impedire: voi lo conoscete, e mi avrete per giustificato. Chi può opporsi alle sue passioni? Chi lo poteva, massimam[en]te negli accessi della sua melanconia? Gli vado predicando di portar a sua casa più danaro che può.

Le ore più maladette di nostra vita sono ritornando a casa la sera. Beve talvolta l’amico alle cene; è profondamente tristo. Ed io son sempre l’incudine.

Nota per dove sopra parlo di Versailles. Vi è un piccolo lago, ossia piuttosto vasca, nel giardino, in mezzo della quale havvi una piccolissima isola. Essa vien detta Isle Royale perché Luigi XIV vi faceva alzar un padiglione e vi andava con una barchetta a tenere consiglio. Non si credeva sicuro, nel suo palazzo, che alcuno non venisse alle porte ad ascoltare. E di fatti mi si dice che veramente ciò succedesse.

Abbiamo qui nella nostra Hotele una buona compagnia di una Dama e di un Avvocato di Lione, buonissima gente che ci fanno mille finezze. Stiamo molto insieme, andiamo a teatro con loro. Sono in somma ottimi vicini. Bisogna che dica, perché ne sono convinto, di non ritrovare ne’ Francesi quel fiele, quella malignità, quella astuta freddezza che si ritrova in tanti di cotestoro.

I Francesi sono buoni, non hanno gran profondità ma sono amabili ed incapaci per lo più di far dispiacere, di invidia, di rabbiette e passionelle Menafogliesche e Dadesche. Amano l’allegria e l’uomo. Sono buoni, sono buoni, bisogna dirlo, ed io stesso stando qui mi sento a diventar più buono e mi sento addolcire, se pure non m’inganno. Il popolo è umanissimo di suo fondo, pronto a far servizi e gentilissimo. È vero che ha mangiato il cuore arrostito della Marescialla d’Ancre; ma non importa. I Francesi fanno presto a far le loro gran bestialità e poi finiscono e diventano buoni, laddove altri popoli hanno una maladetta egualianza e freddezza nel vizio, ch’è il peggior carattere del mondo. I miei Compatrioti meriterebber forse queste riflessioni? Addio. Volevo tre volte terminar questa lettera. Addio. Saluta tutti. Non vedo l’ora d’aver tue risposte alle lettere che da qui ti ho scritte. L’ultima tua che ho ricevuta è risponsiva alla mia di Lione ed è in data de’ 26 del passato. Lamb[ertenghi], Vis[conti], Odazzi, Calder[ari]…, Carli, Corti, vi saluto tutti quanti colle braccia aperte. Amicizia. Amicizia. Cavaliere, addio. Animo, da bravo. Forte in gamba e sempre avanti. Chi ha cuore, chi ha sensibilità ha tutti gl’ingredienti della Filosofia. ALESSANDRO.

XXII (10) Ai Fratelli. [Milano,] 26 9bre 1766

Sin ora ho ricevute tutte le tue care lettere e l’ultima, che ricevo oggi, è del 12, di tre fogli. Contemporaneamente ne ricevo una da Beccaria. Tutto ciò che concerne la nostra corrispondenza viene pontualmente trascritto, come già t’ho detto, in un libro arcano e custodito: onde sta’ tranquillo, che quando avrò il beato momento di abbracciarti troverai tutti i tuoi pensieri scrittimi in un sacro e caro deposito presso di me.

Il Frate Giornalista d’Iverdon mi ha spedito per la posta un esemplare della tracasseria fra Rosseau e Hume, ch’egli ha ristampato: alla fine v’è un’aggiunta e sono le osservazioni d’un imparziale, ch’io credo scritte dal Frate istesso: v’è della prolissità nello stile, un po’ di pompa pedantesca di citare testi latini e qualche amplificazione d’umanista; ma, togli questi vizi, l’imparziale è nel fondo un filosofo veramente imparziale, la sensibilità per il vero e per la virtù brillano da capo a fondo del suo discorso. Egli su i documenti istessi delle lettere stampate dai nemici del Gian Giacomo trova che la ragione è per l’illustre Genevrino e che la cabala lo inviluppa e cerca d’opprimerlo. Io non sono del tuo parere se trovi o imbecillità o pazzia nella lettera o nella condotta di Rosseau. Rosseau è uomo che ha l’ambizione di voler stare da sé, il suo cuore non conosce che se stesso, egli ha detto male delle scienze le quali fanno la gloria degli Enciclopedisti, egli sostiene la Religione Cristiana a suo modo, egli non ha voluto prender parte contro i Gesuiti, egli ha rinunziato al genere umano, egli fa vedere e lo ha sempre fatto vedere di non mendicare l’appoggio di alcun uomo o società; questa Repubblica di Filosofi ha, per quanto mi pare, molto dell’indole de’ Romani, molto fanatismo per la Patria e per la libertà propria e altrui, e con questi princìpi non è libera forse nel suo interno e opprime gli esteri che non vogliono entrare in aleanza.

Il fatto però certo che i fogli pubblici d’Inghilterra, prima che Rosseau vi andasse, non facevano che eccheggiare i suoi plausi e detestare la persecuzione e i persecutori suoi. La cosa è costante che David Hume è l’uomo che dà il tuono alla letteratura ed ai Giornalisti Inglesi; che la supposta lettera del Re di Prussia che pone in ridicolo Rosseau è scritta dal Walpole e da esso consegnata alle stampe de’ giornalisti mentre coabitava con Hume ed era suo amico. In somma, sarebbe lungo il trascrivere tutte le ragioni che mi persuadono: Hume è troppo freddo e troppo ragionevole in ogni punto di questa contesa vergognosa per la filosofia; un onest’uomo accusato da un amico e da un amico, Rosseau, accusato d’aver violate le leggi dell’amicizia; più, d’aver simulata con bassezza e falsità la sacra amicizia affine di rendere dispregevole e ridicolo un uomo di merito, quest’onest’uomo, dico, deve perdere la tramontana e deve o portarsi a intendersela in voce dall’amico, o scrivere delle ingiurie o delle ragioni con cuore e passione. Hume tratta tanto cavalieramente quest’accusa che si fa vedere più fino e accorto del suo avversario, ma d’un carattere ben diverso. Nota la contraddizione del mio umore. Tutti costì su questi documenti hanno giudicato in favore di Hume; io su questi medesimi mi trovo convinto in favore di Rosseau e non ho mai acquistata tanta certezza del suo cuore da’ suoi libri quanto da questa disputa, ch’egli non ha certo la vergogna d’aver pubblicata sotto gli occhi dell’Europa. Pròvati: leggi due volte questi atti della imbecillità umana e sarai convinto che Hume voleva avere in faccia dell’Europa la vanità d’essere il Dio Tutelare d’un illustre proscritto, e che, geloso del suo nome, voleva abbassarlo nella opinione comune per ogni verso.

Ma veniamo a noi. Dunque è deciso che Beccaria ritorna, ed al giungerti questa lettera non sarà più teco. Me ne dispiace; io ho fatto tutto il fattibile per impedirlo; io, malgrado cento ragioni in contrario, ho fatto movere la moglie a opporvisi; io gli ho scritto con libertà, e con durezza ancora, quale l’aveva nell’animo: il suo male era maggiore d’ogni rimedio. Non sarà però meno rispettabile e caro al mio cuore. Il mal suo è fisico come la febbre, e ne parla Wansvietten nelle sue Malattie delle Armate: si chiama il mal del paese, e vi sono de’ morti di questo male, cioè d’una profonda melanconia che logora le forze vitali e termina in consunzione, con una forte passione di ritornare alla Patria. La prima mia lettera era dettata dalla imminente paura che pochi giorni dopo il suo arrivo a Parigi ritornasse. Sfido tutti gli eloquenti del mondo a salvarlo dal ridicolo se ciò avesse fatto, ed io lo sentiva con tutta la forza, e con tutta la forza gli ho scritto. La mia seconda lettera è meno dura perché minore era il male tornando qualche tempo dopo. Ora mi pare possibile il rimediarvi dicendo che la passione sua per i libri e la premura sua per avere tutt’i comodi della vita gli hanno fatto spendere buona parte del denaro destinato al vostro pellegrinaggio; che tu, più misurato, hai di che veder l’Inghilterra e non ritornare sì tosto; ch’egli, vedendoti partire per Londra né potendoti seguire, piuttosto che soffrire quest’abbandono e rimaner isolato dai vecchi amici dopo averne fatti tanti nuovi illustri ed aver visto Parigi, dopo in somma aver ottenuto il fine del viaggio, anticipa il suo ritorno portando seco una provvisione di Libri in vece della memoria di Londra. Così si può salvar tutto e questo è l’aspetto sotto cui lo porrò. Prima però di spargere questa notizia io aspetto di ricevere nuova della sua partenza perché, a dirtela, io non mi so figurare che Beccaria voglia partirsene senza o te o Frisi o qualche amico di confidenza. Il momento di abbandonarti e di restar solo in viaggio per una settimana è più duro d’ogni altro momento passato in Parigi, e l’amico, che sente una sensazione per volta, sola e rare volte bilanciata dalla serie delle sensazioni a venire, ancora mi lusingo che rifiuterà il momento doloroso del distacco ogni volta che gli si presenti. Se può tardare ancora sino verso Natale, io credo che lo farai girare con te sino al ritorno. Basta; io son partito ieri da Gessate, oggi ho scritto al Marchese Beccaria; nella famiglia già, come ultimam[en]te t’ho scritto, la pillola è indorata e cercherò d’indorarla anche di più: egli non avrà, lo spero, niente da temere in casa; si farà di tutto perché niente l’inquieti fuori, ma sarà impossibile il far sì ch’ei non si penta di questa sua risoluzione. Il dovere mio era di fare ogni sforzo per impedirla e di mostrargliela nel suo vero aspetto prima che la facesse; fatta che l’abbia, sarà mio dovere l’abbellirgliela e giustificarla presso ognuno. Egli, applaudito dall’Europa, sarà più punto dalla disistima d’un milanese vicino, al quale non possa dare il titolo di coglione che dai suffragi lontani. Dopo domani faccio di nuovo una corsa a Gessate per due giorni.

Ad[dì] 27 d[ett]o

Oggi sono stato a pranzo dal Sig.r Conte Firmian, il quale mi ha mostrata la lettera di risposta che il Sig.r Conte Mercy gli scrive sul conto di Beccaria e di te, piena di frasi di onore per tutti due. Io ho già cominciato a lasciar correre il prossimo ritorno di Beccaria; nella lettera istessa del Conte Mercy viene ciò annunziato; in confidenza ho detto a Carli ed a Wilseck che l’amico, non potendo resistere alla tentazione de’ Libri, ha consumata buona parte del biscotto e che bisogna che si contenti di Parigi e che ritorni; tu vedi che questa spensieratezza non gli fa alcun torto ed io vedo che la credono e sorridono, senza verun scapito della stima.

Nel primo ordinario infallibilmente t’accluderò la cambiale dei 24 zecchini, secondo l’intelligenza. Ricordati del fiore di the. Di più, se trovi essenza di rose eguale alla mia a un prezzo discreto, provvedimela.

Bellissima è la descrizione che mi fai dell’adunanza della Reale accademia delle Scienze; io profetizzo che a misura che la ragione anderà facendo progressi le accademie diminuiranno: esse hanno fatto poco bene sin ora, nessun grand’uomo, nessuna grand’opera è nata per esse, le scienze non vogliono formalità e magistratura; un consesso in pompa di gente che non può far la fortuna o la miseria d’alcuno è sempre una cosa ridicola, e tutta la prevenzione e l’abitudine tutt’al più può renderla in vece noiosa. Mi sorprende quello che tu mi scrivi del Tribunale de la Police: si vede che i governi amano più la tranquillità pubblica che i costumi della nazione, i quali pure sono la base più sicura di essa.

Ti prego nel tuo libro di memorie di scrivere le mie comissioni. Eccone un’altra. Vorrei sapere se la circolazione de’ Grani nel regno sia libera e se vi siano difficoltà ad avere le tratte per l’uscita. Addio. Ti salutano Carli e Visconti; se Beccaria è teco l’abbraccio. Dammi nuova del giudizio che Morellet ha dato della roba mia, buono o cattivo: l’aspetto cattivo. Addio.

Lungo sta bene, mi scrive, t’abbraccia e t’invita a navigare da Marsiglia a Napoli, poi Roma, poi Livorno; dice che poco avrai a spendere. Dice che Morigia ecclissa tutti i giovani romani, e vi vuol poco. PIETRO.

XXIII (13) A Pietro. Parigi, 18 9bre [1766], e finita il g[ior]no 21 d[ett]o mese.

Rispondo alla tua del 19 8bre con una aggiunta del 6 corrente. Non trovo mai niente di più delizioso per me quanto il ritirarmi a casa e discorrerla con te. Vengo dal teatro e questa è l’ora che scelgo per il nostro colloquio.

Già mi figuravo, senza farti torto, che forse mi avresti creduto non molto sensibile alla partenza, perché gli oggetti ai quali andavo incontro potevano tutto occuparmi da non dar luogo, o pochissimo luogo, ad altri sentimenti. Ti sei ingannato, e n’ho piacere ed ho desiderato che t’ingannassi, perché il dolore che soffrivi non era buono per nessuno, ed era bene che in quella tristissima sera non mi fosti tanto amico, ed io ho avuto il coraggio di fare questa parte. Tu sai ch’io ho un gran timore de’ sentimenti, che dò il chi va là a tutt’i moti del cuore, che credo essere la sensibilità una sterminata catasta di zolfanelli, dalla quale bisogna tener lontano il fuoco. Non mi fido di chi molto parla di sensibilità e ne porta le insegne troppo al di fuori. Chi la conosce e ne sente una gran quantità in se stesso la teme, la nasconde. Forse questa è la metafisica del mio amor proprio; forse è vera. Ti dirò ancora che a Boffalora fui di umore malinconichissimo e che quasi mi venivano le lagrime agli occhi; eppure ho così dissimulato che l’amico mi ha trovato un’ottima compagnia, e di un ottimo umore. Non è egli vero, se quella sera cominciavamo niente niente ad incumbere l’uno sull’altro, e se cominciava la tenerezza a porsi di mezzo, che avremmo fatta una scena la quale lasciava ad entrambi tracce profonde di dolore? E a che ciò era utile? Così avesse anche fatto il troppo languido Beccaria! Il suo mal del paese viene in origine dalla scena lagrimosa fatta nel congedo di sua moglie. A rivederci, amico, ne’ princìpi di primavera. È dolcissimo per me il trasportarmi col pensiero a Boffalora. Là si vedremo: ricordatene. È ormai passata la terza parte del mio pellegrinaggio. Quattro mesi passano presto. Mi avrai pieno di cose da discorrere. La nostra santa amicizia prende in questa occasione una elasticità della quale ne sento in me vivamente le molle.

Tu conosci come se fosti qui la situazione critica nella quale m’ha posta la stravaganza dell’Amico. Quanto non ti ho già scritto di Lui, e quanto non dovrei io ancor dire, se tutte descriver volessi le sue ingiustizie, le sue fanciullaggini verso di me! Si diminuiscono molto agli occhi miei col partecipar tele e sfogarmi coll’unico vero amico che io abbia. Già ti ho scritto che la cosa è decisa. Qui non può rimanere di più. Si strascina di giorno in giorno, ma alla fine conviene che ritorni, se vuol guarire. In un momento di buon umore, questi giorni passati, ha determinato di qui fermarsi sino alla fine del mese: ma poi il termine è accorciato. Adesso pensa a partire li 25. È in ottima compagnia fino a Lione. Di là ne troverà dell’altra. In ciò è benissimo assistito da una conoscenza fatta qui all’Hôtel. Partirà con tutti i suoi comodi. In questo sempre memorabile viaggio non gli manca che la riputazione. Non mi trovare caustico. Beccaria mi ha dato, coi torti che mi ha fatto e mi fa, tutto il diritto di riporlo fra i pazzi pericolosi, e di questo diritto mi servo; né credo che avrà per l’avvenire altro posto nel mio cuore. Si tratta di un uomo che l’ha sofferto per ben quasi due mesi, che è stato il consolatore ed il confidente discreto e sensibile della sua imbecillità, che è stato il suo martire e la sua pazientissima incudine per lo spazio di quaranta e più giorni; dopo di ciò, questo tale uomo poteva pretender da lui molta amicizia e molti riguardi. Signor no. Beccaria sempre di me si è querelato e si querela; con me non si può vivere, secondo lui: sono di un carattere durissimo. Eppure è stato due mesi con me nell’ultime angustie. Se non fossi un buono e pazientissimo compagno, avrebb’egli tanto tempo resistito, nelle sue circostanze? Quel Beccaria istesso, i di cui difetti e la di cui puerile e tristissima imbecillità io sollevavo da mattina a sera, a Parigi, fra i divertimenti, in un tempo per me tanto prezioso, quel Beccaria istesso riposto in somma gloria, festeggiato da tutti, l’uomo alla moda quello, dico, mi odia, mi detesta, mi abomina con vero astio e, lontano dal volermi trarre dalla folla e di fare escire dalla oscurità i miei talenti, contribuisce all’occasione ad immergerveli. Ho voluto parlare de’ miei studi di criminale: ei tronca il discorso e non vi consente. Interrogato di ciò, mi risponde che mi stima troppo per non essere in questo geloso. Lo che io chiamo essere sinceramente un barone in letteratura, a dir poco; avvegnaché bisogna essere ingrato, abietto, senza generosità e senza memoria di quanto ho fatto per lui, per corrispondere ed agire in questa maniera, degna di un verme della Letteratura e di un fangoso insetto, non di un uomo riposto al di sopra di tali abominevoli gelosie. Così dite del restante. Non mai mi abbada se parlo. È sempre distratto. Voi sapete com’è quest’uomo: è come uno di que’ due mori di Michelino. Fa l’impertinente quand’è felice. Egli non mi perdona d’esser stato il confidente delle sue imbecillità. Gran delitto! Vi assicuro che non vorrei mai averlo commesso, tanto ne son pentito.

Le stravaganze sue; le contese che mi suscita ad ogni momento perché vorrebbe che tutto facessi a suo modo; la dispendiosa e poco utile vita ch’egli m’obbliga a menare; il gran battere e ribattere sulla mia pazienza; la sua ingratitudine e l’astio vero che per me dimostra, in varie arrabiate invettive che mi ammareggiano i giorni destinati con gran stento e spesa al piacere ed alla istruzione, sono tutte cose che su di me hanno, colla loro gran frequenza, tumulto ed azione, prodotto l’effetto d’avere esaurita la mia pazienza. Non possiamo più vivere insieme. Egli stesso mi ripete più volte al giorno questa verità: ed io la trovo una verità dimostrata. Il cuore umano ha i suoi limiti. Fino che Beccaria mi ha tenuto dentro di essi, ho resistito. Ora non ne posso più. Ho perduta per lui la stima e l’amicizia: credo entrambe con gran ragione. Faccia dei libri, ed io gli ammirerò. Ma farò sempre una gran distinzione dall’autore alle opere. Adunque io mi sono deciso di andare a Londra fra pochi giorni. L’altra sera venendo dal Teatro mi ha così duramente trattato perché volli ritirarmi a casa, e non andare con Lui ad annoiarmi in una conversazione nella quale egli è meglio di me, perché vi è festeggiato; mi ha, dissi, così duramente e delirantemente trattato, come se fossi una bestia indomita ed impieghevole, che vi assicuro che la sola riflessione mi teneva dal mostrarli quanto a torto la sua ubbriaca e pazza imbecillità insultasse un uomo che forse non la conosce. Eran cose da escire di carrozza per la disperazione: bastava la cinquantesima parte in un altro per, non dirò battermi con lui, ma darli dei pugni. Ora, così eccessivato com’io sono, non starei con Lui quand’anche si fermasse. Gliel’ho detto io stesso; egli in qualche intervallo dà torto a se stesso e mi raccomanda d’aver pazienza ancora per pochi giorni. Ma né qualche intervallo d’imbecille pentimento, piuttosto che di cordialità, mi compensa una quasi incessante noia, né di pazienza io san più capace. Dimani adunque vado dall’Ambasciatore, per lettera e passaporto; ed il 25 al più parto per Londra. L’istesso giorno Beccaria partirà. Nello stesso tempo che io mi sono determinato a lasciar Parigi, l’ho persuaso a qui fermarsi. Più tardi ch’ei ritorna è meglio. Ma, per un’altra stravaganza, né può vivere con me né senza di me: onde anch’egli se ne anderà verso di codesta sua tanto sospirata Donna, e Caffè dei Borsinari. Quam ridiculum consulem habemus! Io sarò sempre giustificato in faccia della ragione e della amicizia d’aver fatto il mio dovere in tutte le sue parti. Oso dire che nessuno avrebbe resistito. Dici bene che sono i travagli di Ercole. Dici male ch’io possa ritornare con Beccaria. Cielo! Non vedi in che aspetto risguardo questa scena? Mi credi capace d’imitare questa puerilità? Anzi: ella mi produce uno sdegno tale, che niente mi sembra più disconvenevole ad un uomo non volgare. Anderei, per ispirito di contradizione, in America. Ti sono obbligato della delicatezza colla quale mi proponi questo dubbio. Non pensare giammai questa coglioneria. Temo troppo il ridicolo, perché lo conosco: di mia natura resisto a me stesso, con successo, per lo più. Oltrediché io qui sto bene: perché fare l’arlichinata di ritornare sì presto? Oh Dio, mi sento coprir di vergogna solamente in pensare che direbbe la mia deliziosa famiglia, il governo, gli amici, gli Erba, gli Rosales e tanti altri cerini e cereux, che Iddio li benedica tutti quanti, i quali aspettano la favorevole occasione di riempire i loro vuoti giorni col divertirsi di Tizio e di Sempronio, se hanno il delitto del merito. Così pensasse l’amico! Quanti millioni di volte io non ho parlato come tu gli hai scritto! Sia adunque tranquillo ch’io farò le cose con giudizio, non farò scene, andrò a Londra, forse mi annoiarò ma vi andrò, vi starò un mese, ritornerò qui; starò meglio solo che lacerato da un così tristo compagno; ritornerò con Frisi all’aprirsi della stagione sino a Lione, da dove penso di andare a Marsiglia o a Genova per portarmi a Livorno, dare una occhiata al fatto mio e ritornare costì traversando un poco di Toscana. Non farò ragazzate, non farò ragazzate. Sono troppo mediocre per far cose tanto sublimi. Adoro per altro la tua amicizia. Non mi nascondere tutte le idee che ti vengano su di me. Saranno sempre ben ricevute.

Tu rifletti bene che forse questa scena di Beccaria decide della sua morale. Vorrei ingannarmi, ma se gli produrrà il disprezzo comune, io pronuncio con fermezza che la sua virtù è pericolante, per le ragioni da te addotte. Di fatti, perché ei conosce che non stimo e veggo intimamente i suoi difetti, non è egli verso di me mal onesto? Dove la sua grand’anima, dove la infuocata sua virtù con me? Se i suoi amici che ha qui potessero vedere una sola scena delle tante che si passano fra me e lui, io son persuasissimo che resterebbero stupiti all’ultimo segno. E tu dici, divinamente, dovermi io guardare dal non tener discorsi che mostrino poca stima di Beccaria o che mostrino le nostre piaghe domestiche. Questo non sarà giammai. Intendo troppo i miei interessi. Perderei la stima de’ suoi amici, i quali sono entusiasti di Lui, mi crederebbero un briccone. L’amico ha un’aria di buonomia che mi condannerebbe senza fallo ad esser messo nel ruolo degli uomini maligni e. Io ho l’aria più fina, ma meno buona. Eppure se sapessero, questa nobiltà riverita, quai basse passioni sieno sotto un aspetto da buonissimo uomo, qual fiele, qual gelosia, qual ingratitudine!…

Lasciamo questa funesta materia. Sapete che so odiare, perché so anche amare. Non m’incomodo a detestare per poco; e sono contento di esser fatto così. Nessuno per altro saprà tutte queste scene, se non se voi ed i più secreti nostri amici. lo ne sono il solo e vero testimonio di tutte quante: e voglio che per me nessuno le sappia. Non le direi tampoco a voi se non mi fosse necessario uno sfogo, e se non fosse necessariissimo che in così delicata occasione si sappia la mia condotta. Perciò sarà bene che gli altri amici di prima sfera ne sieno col tempo informati. Non vorrei essere accusato un giorno bestialmente d’aver mancato alla amicizia e d’aver contribuito a far ritornare l’amico. Chi vorrà conoscere la mia pazienza e la mia giustificazione potrà leggere le lettere di Beccaria. Non sono esse da frenetico? Ora, chi ha vissuto con un frenetico per più di 40 giorni è un uomo paziente e dolce, o no? A tal fine non perdete la lettera di Beccaria. Non cedete all’amicizia che avete per lui. Non abbruciate un monumento che voi non credete forse da conservarsi. Ricordatevi anche di me. Io prevedo che infallibilmente questa testa si lagnerà grandemente di me. Non cerco che si conservino le sue lettere per nuocere, ma per mia difesa. Sono giusto o maligno? Nol so: ma certo sono maladettamente irritato da una folla di vizi puerili. Ma lasciamo ormai questa pece. Ti stimo tanto che mi dipingo agli occhi tuoi qual sono, buono o tristo ch’io sia. Rispondo ad altri articoli della tua lettera e poi scriverò delle cose mie.

Quanto alla Storia, hai fatto benissimo a tòrre quella riflessione delle elemosine del Frate raccolte a Napoli, e ti sono obbligato di questa e delle altre mutazioni e pazienze tue infinite. Quanto alla stampa, pensaci tu. Vedo che dici che saranno due in -4°: non mi pare, a’ conti ch’io ho fatti, che debba riescir più di un in -4°. Scegli buona stampa, e fa’ tutto come vuoi. Farai egregiamente. Vorrei che il nostro Aubert non protraesse di troppo. Mi annoio di far lungo tempo anticamera al pubblico e forse alla fama, qualunque ella sia per essere. Stampato che ne fosse una discreta porzione bramerei di averla. E ciò basta quanto a tal punto.

Mi piace l’idea di tradurre e far un volume delle migliori mie cose del Caffè. Per non espormi a ritrovare un rifiuto in Morellet quanto alla traduzione, farò così. Col pretesto d’imparare la frase, la sintassi e l’ortografia francese tradurrò io stesso le cose mie e le farò correggere dall’Abate. In fine le farò stampare. Morellet è troppo occupato de’ suoi studi. Temo d’incomodarlo. Sono sensibile ad un rifiuto, anche politissimo e francesissimo, in questa materia.

Tu finisci la tua lettera con queste parole: «ricordati d’avere confidenza in me in ogni occasione». Le rimarco assai assai. Sono piene di cuore e di delicatezza. Che ti dirò io a tal proposito? Niente. Ti sfido a trovarmi ingrato un momento della mia vita. Ti dirò soltanto che tutte le apparenze mi persuadono che non avrò da ricorrere ulteriormente alla tua amicizia. Sono provisto abbondantemente. Basta avere un certo giudizio. Massimamente stando solo farò miglior economia, senza mancare di alcuna cosa né della convenevol decenza. Addio, adorabile uomo, amico il più analogo a me stesso ch’esista al mondo. E ciò serva di risposta. Ora vengo al fatto mio.

Trovo dei siti ne’ quali non mi annoio, anzi ne’ quali esisto bene. Ma nella maggior parte non trovo la dolce tranquillità della vostra camera. Forse si stimano troppo i beni assenti, ma forse ancora non v’è più deliziosa vita che amicizia, lettere, quiete e solitudine. Tutte queste cose avevo in Milano e, trattone qualche inconveniente assai grave di famiglia, io sono felice. Il turbine delle presentazioni e delle conoscenze mi trasporta, ma non mi reca piacere se non quanto all’avvenire grazioso ch’egli mi prepara. È molto importante per me l’esser stato a Parigi, l’esservi stato bene, l’aver fatte delle corrispondenze. Pranzo quasi mai in casa. Vi dirò le mie conoscenze. Poniamo il Barone in capo di lista. Domenica e Giovedì sono i giorni destinati al pranzo enciclopedico, periodicamente. Colà vedo il fiore degli uomini. Vado anche talvolta a cena. Sono ottima gente: si sta divinamente bene. Il venerdì è fissato per Madame Neker: amabile e buona, ma che non so ancora definire. Ha un marito di molta buona grazia. Anche questa è colonia di buona gente. Vi trovo sempre Marmontel, il quale fa delle terribilissime dispute con Morellet per tutto il tempo della tavola e dopo, sinché partono. Sembra che si attacchino come cani, eppure sono teneri amici e giammai non scappa loro dalla bocca la menoma durezza. Generalmente qui amano la franca e libera disputa. In principio sembra duro e strano questo costume, perché vi sentite a con tradire decisamente, senza cerimonie, ma poi lo trovate ottimo perché fate altrettanto e siete sicuro di non essere mai offeso con parole il men che siasi pungenti. Urlano, gridano come disperati, ma nel fondo sono d’una buona fede e di una dolcezza ammira bile. Credo che questo spirito disputatore mi si attacchi alcun poco. Forse riabbracciandovi mi troverete contradditore e senza cerimonia nelle questioni. Videbimus. Io per altro non disputo che rarissimo. Chiamo questi sussurri tempestes de resonement: taluno ha trovata buona questa espressione. Andiamo avanti nelle mie conoscenze. Càpito a pranzo dall’Ambasciatore: mi scuso da quest’onore il più che posso. Ultimamente si è ragionato quasi tutta la tavola della sublime scienza de’ cavalli. Vi fu tal uno che per entrare in materia col P[ad]re Frisi gli chiamò buonamente se l’algebra era buona per il calcolo.

Sono stato a pranzo dalla Contessa di Boufflers. Ella è donna di molta elevazione d’ingegno, corteggiata dal Principe di Conti. Perciò essa gode molta considerazione. Il nostro Morellet e Marmontel stanno in faccia di lei con molta modestia. È una donna che può far avere delle pensioni. Ma quest’aria di corte mi disgusta. Non ne facciamo nulla. Vi capitarò di rado.

Conosco Gatti: sono stato a pranzo da lui. È un galantuomo. Sta facendo un altro libro molto interessante sull’innesto. Ce ne ha fatto sentire uno squarcio. Fra poco escirà. Vi troverete sempre il medico-filosofo.

Vedo di spesso alla sera d’Alambert da Madamoiselle d’Espinace. Confermo quanto ho detto su di lui. Grande, accorto e brav’uomo. Parlerò di lui in appresso. Seguito il filo.

Ieri sono stato a pranzo da M.r Sejour, dove Frisi ci ha condotti. È una compagnia di matematici. Anch’essi sono buona gente. Vi ho veduto il famoso calcolatore la Fontaine. È il più semplice uomo del mondo. Parla poco. Mangia, vede, è tranquillo. Non sa niente fuori de’ suoi studi. Abita nella stessa casa e sta quasi sempre a pranzo con M.r Sejour (il di cui figlio, per parentesi, è Consigliere del Parlamento) Madamoiselle d’Ogier, la quale fu la maitresse di Cleraut. Ella n’era innamorata teneramente. Le ha infuso un poco di matematica. Parla sempre di Cleraut; e mi parve che facesse gran finezze al nostro Frisi. Ama in lui la matematica. Tant’è che cerca da per tutto qualche cosa di simile a Cleraut, e credo benissimo ch’ella sia innamorata del nostro P[ad]re D. Paolo, il quale non se ne cura un fico.

Dimani vado per la prima volta a pranzo da Madama Geofroin, famosa donna in questo paese per il suo spirito. Tutto Parigi va alla sua casa. Non v’è uomo di lettere che non l’abbia veduta. Ella è una buona ed amabilissima ed ancor bellissima vecchia, che viene d’aver fatto il viaggio della Polonia come una passeggiata. Il Re di Polonia è molto suo amico. Questa Dama di nessuna condizione è giunta co’ suoi talenti a contar moltissimo, e lo merita.

Sono stato da M.r di Montigny, Surintendent des Finances. Si sta bene. Sua moglie è molto amabile. Innamorata del Dottor Carburi, non san due mesi partito da qui per restituirsi a Torino. Mi ricordo d’averlo incontrato a Lione. Cenammo insieme da M.r Sacco. Il mio amar proprio fu quella sera sanguinosamente irritato. Carburi è un buon parlatore. Costoro mi annoiano moltissimo. Non perché mi dispiaccia il parlar bene, ma perché questi eloquenti la conversazione la voglion tutta per loro e vi mettono lo spirito in vece del cuore. Adunque io aspettavo, al mio solito taciturnamente, l’amico al varco per dire il mio bel detto che facesse ridere la conversazione. Si trattava dei verdi di Parigi. Carburi diceva che non gli piacevano perché gli alberi erano troppo fuori del loro stato naturale, e che a forza di tagliar loro i rami dal tronco facevangli cotanto crescere in alto che, non potendosi più sostenere, bisognava porci de’ pontelli. Allora dissi che non mi sarebbero piaciuti questi alberi avec les bequilles. Il detto, in quel sito, avea dello spirito. Che n’è successo? Io, che sono Fra’ Modesto, fui così buono per dire questa frase sotto voce; dopo un lungo silenzio non faceva parte della conversazione; ora ne avvenne che Carburi ripeté quel ch’io dissi come se fosse robba sua, e che tutta la tavola risuonò: oh, ça est biendit, oh, ça est charmant, les arbres avec les bequilles! e tutto in lode del Signor Dottore, e nessuno pensò a me. Carmina ego feci, ecc. Fu uno de’ più strani colpi che mi sieno successi in questo genere.

La vita che faccio è questa. Alla mattina prendo lezione d’Inglese, ben più come posso che come vorrei. La celebrità e la dissipazione di spirito di Beccaria ha fatto diventare il nostro appartamento, alla mattina, una bottega di caffè. Non si può far nulla. Appena svegliati, e prima talvolta, v’è gente che batte alla porta. Anche in ciò non siamo d’accordo. Io vorrei più quiete. Sortiamo a mezzo giorno, per lo più. Io desidererei di escir prima per vedere le cose del paese. Ma l’amico non ci pensa. Si mette tardi a letto, si leva tardi. Non v’è mattina, e quella poca è piena di seccatori che si tira addosso. Mi pare d’esser sempre in pubblico. Abbiamo un Servitore tra tutti due: ossia l’ha egli solo. Sapete il suo fare. Non si ricorda che il Servitore è anche per me. Ne dispone come se fosse solo. Sempre lo chiama, sempre grida. Per me è quasi inutile. Quanto poi a vedere le cose del paese, se stasse a lui non farebbe altro che andare dai Librari. Vedete anche in ciò se io posso accomodarmi. Si può vivere cento anni a Parigi così e non conoscerlo punto.

Esciamo quasi sempre a pranzo. Poi andiamo al teatro. A cinque e mezza comincia. Ve ne sono tre. V’è di accomodarsi. Poi, verso le otto e mezza, finito il teatro, andiamo per lo più a cena dal Barone o a chiaccherare qualche oretta da Madamoiselle l’Espinace. Io qualche volta ritorno a casa, lo che dispiace grandemente al compagno: per pura inquietudine, perché ciò non gli fa nessun incomodo al mondo. Egli sta a meraviglia senza di me in queste compagnie. Ma ciò non ostante, perché una sera invece di andare da Mad.lle d’Espinace ho voluto ritirarmi a casa, egli è dato fuori come una bestia, minacciandomi di separarsi da me o di partirsene subitamente, ecc. ecc.

Io amo di ritirarmi a casa dopo il teatro perché mi annoio in questi siti e massimamente dalla Espinace, ove la compagnia non è sempre ben assortita. Dal Barone per lo più vi sto assai meglio. Pur niente più mi piace quanto il vestirmi, dopo il teatro, colla mia pelliccia, e colla canna in mano e stivali in gamba fare una passeggiata nella strada più vicina di Sant’Onorato, la quale è la più bella a vedersi, la sera, perché non solo è illuminata colle lanterne come le altre, ma, essendo l’emporio dei Bijoutiers, le botteghe hanno le impennate di bei vetri grandi e nettissimi e sono illuminate all’indentro con grandi e risplendentissime lampade. Ciò fa un mirabil effetto. Quel chiarore in una bottega di bijours d’oro e d’argento si riverbera e fa la strada chiara ed amena al sommo. Figuratevi, per esempio, che la nostra contrada degli Orefici fosse alla sera tutta illuminata, e che le botteghe avessero l’invetriata di gran vetri di Germania de’ più belli e nettissimi, e che in esse botteghe risplendessero dei chiarissimi lumi, ed avrete un’idea di Sant’Onorato. Dopo di averlo fatto io me ne vengo a casa e scrivo le mie lettere e dò un’occhiata ad un libro, se n’ho voglia. E qual altro tempo ho se non questo? Ma ritornato che sia da Londra mi metterò ad un sistema più tranquillo: voglio vedere ed osservare. Se mi avvolgo nella dissipazione e nel gran vortice mi troverò colle mani vuote.

Ti ho promesso di parlarti di Alambert. Madamoiselle d’Espinace molte volte si ritira di buon’ora, onde restiamo noi due soli con Lui. Beccaria l’ha fatto parlare del Re di Prussia; li abbiamo cavato questo. Il Re di Prussia è, secondo lui, superiore alla gloria dell’armi, e risguarda con maggior piacere la pace che ha ottenuta co’ suoi talenti militari che la fama di averli. «Se voi sapeste, diss’egli a d’Alambert, da che dipenda e che sia questa gloria! Il caso, l’azardo ve la danno, ve la tolgono. Ch’è mai la gloria di guerra! quanto non è meglio l’aver fatta l’Atalia!». D’Alembert accorda al soggetto di cui parliamo talenti superiori nelle cose di guerra, ma non così in quelle di pace. Quanto ha idee nette e superiori negli affari dell’armi, altrettanto confuse e poco precise le ha in quelli di economia politica. I suoi sudditi sono perciò malcontenti. I di lui fratelli, non avendo né il suo spirito né la sua potenza, sono troppo malcollocati nell’amor proprio per essere suoi amici. Il Principe Ereditario, suo nipote ex fratre, non ha grand’inclinazione alle qualità che stima in un Principe il suo zio, perciò è da lui niente stimato e trascurato del tutto.

Nell’ultima sera che d’Alambert si licenziò gli disse il Re che andava a lavorare alle memorie di queste campagne. Rispose d’Alambert che ciò era ben interessante per la posterità. «Se non lo saranno replicò il Re per la materia, lo saranno per la verità con cui le scrivo». Ei conta i suoi vantaggi non sul proprio valore come sulla mala condotta de’ suoi nemici. Disse di avere passate delle terribilissime notti, in pericolo di perdere tutto, e che avea già fatti i suoi conti ed era disposto a vivere con 30 soldi il giorno.

Interrogato se sia felice, rispose di no. «Come – ei disse – volete ch’io lo sia, se quando le cose vanno bene io ricevo almeno dieci cattive nuove al giorno?». I suoi divertimenti sono la musica e le lettere. Conchiude col dire d’Alambert che il soggetto di cui si tratta conosce la virtù, ha un buon cuore, è un uomo ottimo e sensibile. Ciò è quanto io so da questa parte intorno al carattere di un uomo così interessante.

D’Alambert pensa a fare un catechismo di morale per li fanciulli. Riserva questo studio alla sua vecchiezza, che vede essergli imminente. I princìpi su’ quali fonderà le sue dottrine in tal materia saranno questi due = il bisogno che abbiamo degli altri uomini = la necessità di soffrire. Vedremo anche quest’opera. Mi pare che i fondamenti sieno sodi e ben scelti.

Dapoiché avea dati a Morellet i tuoi Manoscritti non me ne avea detto parola. Non ho sofferta questa indifferenza. Glieli ho richiamati con fretta, come se voi me gli richiamaste. Il buon Abate credeva che glieli avessi donati e perciò si riservava a leggerli con suo comodo. L’ho disingannato e mi ha pregato a lasciarglieli ancora per qualche tempo: ora si mostra premurosissimo di leggerli. Vi saprò dire che ne pensi. Forse non sarà del vostro parere. Ei nelle cose politiche è sempre di un parere ch’è tutto suo. Tutto quello ch’io sento da lui in tal materia mi sembra uno tessuto di paradossi.

Perdona, amico, il mio diffuso e lungo scrivere. È permesso di esser chiaccherone agli amici a cento cinquanta leghe di lontananza. Ti potrò annoiare, ma non dispiacere. Saluta gli amici. Frisi ti abbraccia: mi usa cento attenzioni. Senza di lui stavo fresco. Addio, addio, addio, fino che v’è carta, addio, addio, il tuo ALESSANDRO.

XXIV (11) Al Fratello. [Milano,] 3 Xbre I766

Prima che giunga la posta di Francia io comincio a scriverti e ti dirò quel poco che v’è di nuovo. Il Padre Castiglione, Cistersiense e Priore del Monastero di S.t Ambrogio, fratello appunto del nostro Abate Castiglione, è stato nella scorsa settimana sorpreso di notte nella sua cella da tre assassini i quali hanno svaligiata la sua cella del valore di lire novanta mila e lo hanno lasciato pieno di contusioni, mezzo strozzato e in uno stato che essi lo hanno creduto morto; forse potrà riaversi; frattanto si fanno grosse perquisizioni e si teme che i rei sieno in convento, perché hanno mostrata nel fatto una minutissima notizia topografica e non s’è trovata rottura, o porte per dove potessero entrare.

Ti darò un’altra notizia riservata, ed è che attualmente a Vienna vi sono due disperati, uomini da nulla per ogni riguardo e distinguibili soltanto per la loro audacia, i quali, per opera di alcuni nostri illustri Patrizi e segnata mente del Vicario di Provvisione, stanno cabalando per distruggere il contratto della Ferma e il Consiglio; s’è trovato modo di associare ad essi alcuni ricchi negozianti, s’è fatto un enorme progetto che è stato innoltrato al Trono non senza appoggi e brighe sorde. La macchina è tessuta di minutissime fila, al solito, D’Adda ed il Conte Giovanni Corio ne sono i primi motori; non ne faranno nulla e credo che questa sarà un’epoca alfine di disinganno per questi politici del secolo passato, se pure è possibile che l’uomo si muti, il che non lo accorda il mio Alessandro.

Finalmente è stato scritto al Greppi che si maneggi presso Beccaria acciocché faccia la sua domanda ed esponga le pretensioni sue per andare alla Corte di Pietroburgo. Tutto ciò non ha altro fondamento sin ora che la lettera d’un negoziante, però s’è sparsa questa nuova nella Città e fa onore a Beccaria ed a noi tutti; vedi quanto sono diversi gli oggetti, rimirati da diverse distanze! Io farò la proposizione a Beccaria, vedremo che ne accaderà; egli non dovrebbe esporsi a trattazione alcuna su proposizioni così poco autorizate; per altro, ricusando una offerta fattagli legalmente, potrebbe farsi un merito alla nostra Corte e cercare un impiego… Ricevo in questo punto la cara tua lettera di quattro fogli: che vuoi ch’io ti dica, amico adorabile: la pittura che mi fai del tuo animo, ch’io veggo aperto a faccia a faccia, mi comunica tutte le tue passioni; tu hai tutte le ragioni e Beccaria tutt’i torti; il tuo cuore è ulcerato dalla sua condotta, e tale è il mio; mi pare di ascoltar la virtù che mi gridi e mi obblighi a distraermi dalle riflessioni che fanno torto insigne al cuore di lui; ma forse che una più stretta e tenera amicizia non mi lega a te, e non mi dà diritto di saper male a chi ti avvelena questi preziosissimi giorni e ti amareggia un tempo destinato alla tua istruzione ed al tuo piacere? Tutte le stravaganze le perdono, tutte le indiscrezioni le perdono: so che è più facile il perdonarle a me che non le soffro, che a te che le porti sulle spalle; ma pure, passato questo tempo, gliele perdonerai tu pure. Ma la bassa gelosia del tuo merito; ma la dissimulazione e la fredda precauzione per soffocare le occasioni di farti valere e conoscere; ma in somma tutto quel fascio d’industrie italiane e letterarie che offendono l’amicizia, la beneficenza e la magnanimità degna d’un filosofo, lo rendono agli occhi miei ben dissimile da me; non v’è gloria letteraria che possa sollevare un uomo da questa abiezzione; abbia egli il nome di buon tessitore o fabbricatore di libri, non avrà mai della Filosofia che un esterno impostore, che accresce i vizi del suo cuore.

… Caro Alessandro, e sarà ciò possibile? E dovrem noi pure vedere una verità sì poco consolante? il mio cuore ha troppo interesse di non vederla, io voglio credere che tu ti sei ingannato, che la noia continua di soffrire le sue stravaganze ti ha fatto nascere un tedio ed una avversione per lui, che tu vedi tutto in nero perché ogni azione sua la associ colle altre tormentose per te, che di buona fede tu sei giudice prevenuto senza accorgertene: chi sa che la cosa non sia così? E, se può essere, perché darei il tormento di credere sì falso e complicato il carattere d’un uomo di cui il difetto ci è sembrato sempre quello d’ascoltare una sola sensazione per volta, e lasciarvisi strascinare? Forse la cosa è così: sospendo il mio giudizio; ma sebbene ciò sia sospeso io non lascio di sentire tutta la compassione di quanto hai dovuto soffrire, e di darti tutta la ragione; lo sfogo tuo che meco hai fatto è un tratto degno della tua sincera e libera sensibilità: io te ne ringrazio. Sia sicuro che tutte le lettere, anche di Beccaria, le conservo; il più corto sarà che di questa disgraziatissima epoca non se ne faccia contenzione dopo il ritorno, ma è sempre bene avere i documenti che ci giustifichino in ogni caso. Io ho tenuto religiosamente celato quest’anecdota ad ogni più intimo amico: né Lambertenghi né Corti né Visconti né persona alcuna ne sospetta nemmeno; sono piaghe domestiche da celarsi perché lo vuole l’amicizia passata, e lo vuole la convenienza di tutti noi. lo però prevedo una ben triste verità, ed è che fra te e Beccaria non vi può più essere piacere nel frequentarvi, e che Beccaria ne avrà poco a frequentar me; io sarò malcontento di lui, o sia egli o non sia geloso di me; nel primo caso ei mi proverà di mancare all’amicizia, nel secondo alla opinione che credo di meritare; posto che è decisa la invidia letteraria naturale al suo animo, ei deve averne qualche poco di me. Sappi che ho lavorato alcun poco sul soggetto della Felicità, sappi che ho scoperti alcuni princìpi sulla natura del piacere e sulle essenziali differenze dei caratteri degli uomini per rapporto alla Felicità i quali debbon essere fecondi di conseguenze; se il tempo e la voglia continuano spero d’entrare, con qualche industria, più indentro fra queste tenebre di quello che non vi sono andati gli altri; l’argomento non è tanto interessante il cuore e i Governi quanto quello de’ Delitti, l’eloquenza non vi può aver luogo né è il mio forte, ma la ricerca del vero e l’arte di presentarlo forse non mi mancano. Vedremo.

È accaduto un fatto a Lodi che fa poco onore al Conte Barni, il quale si è lasciato bastonare da un ufficiale, di chiaro giorno, sulla strada: quest’operazione è stata il frutto di diverse impertinenze fatte dal Conte a proposito d’una Ballerina, alla quale tutti due ne volevano; quest’uomo è, come vedete, perduto per sempre: imparassero almeno i cerin e cereux, ma anche queste poche bastonate saranno grazia di Dio perduta.

È stampato in Venezia dal Pasquali un Libro che ha il titolo Dodici lettere inglesi sopra vari argomenti: quest’è opera della stessa mano che ha fatte le Lettere di Virgilio agli Arcadi, t’assicuro che molte verità vi sono e scritte con maggior libertà che non il primo Libro; quest’uomo è sincero quando loda il nostro Caffè, vi sono alcuni pensieri che coincidono ed ei pensa sulla letteratura italiana con tale ingenuità e franchezza che osa stampare che non v’è Letteratura Italiana. Trovatemi la Filosofia Italiana, trovatemi una Tragedia, ecc.: mille potrete trovarne, bensì non una: in somma v’è della prolissità assai e del disordine, ma pure è un libro che spira libertà, che farà fremere i Pedanti, ed è una canna di più all’organo che fa rom ore in favore del buon senso da introdursi nelle nostre contrade. Conviene però celarne il nome dell’autore, che resterebbe martire degl’imbecilli se si sapesse, stante il vestito che ha indosso.

4 Xbre

Altre novità, ma tutte frivole: pazienza, ti dò quello che ho; tu sei nel mare, io sopra un laghetto. La notte scorsa si dice seguìto un furto di 18 mila lire nella bottega del Castellazzi, mercante di panni; ma alcuni sospettano che sia una finzione per esimersi da alcuni pagamenti che scadevano in questi giorni.

Nel gran vortice di Parigi non v’è tempo di giudicar d’un uomo per intimo esame: io mi figuro che in questa parte rassomiglierà a Vienna; chi ha minore sensibilità, e conseguentemente minor cautela d’avventurarsi nella conversazione, difficilmente è ecclissato; il merito modesto non può farsi strada che colla fama d’un libro che prevenga; due o tre lo giudicano, il rimanente eccheggia. Forse è un tratto di ottima politica il ritorno sollecito di Beccaria: non ha lasciato tempo che si stancassero di lui. Qui è stata sparsa voce che la quinta edizione francese del suo libro abbia corso pericolo d’essere proibita; la credo una ciarla, poiché tu non me ne dici nulla.

Tutt’i dettagli che mi scrivi sono interessantissimi e t’assicuro che i giorni di posta sono aspettati da me con impazienza, poiché pochissime cose a questo mondo mi sono tanto care quanto le tue lettere. Fralle altre anecdote quella della cena di Lyon col greco Carburi è veramente degna d’eterna memoria, basta questa a provare a quel segno d’impudenza possa giungere chi ha per primaria passione d’avere dello spirito ad ogni costo: ti ha preso per suggeritore ed ha avuta la fredda dissimulata gelosia di non soffrire che un giovane di spirito fosse conosciuto, a costo di vestirsi del suo. Carburi è amicissimo del Conte d’Adda. La conversazione con D’Alambert sul soggetto di quell’uomo interessante a conoscersi è importante; ma le verità in tali circostanze non si dicono che fra i mirti dell’Eliso: ogni pittore ha troppo interesse d’abbellire il ritratto, e chi sa d’avere avanti di sé un valente ritrattista non manca di mille arti meretricie per mostrarsi sotto un felice punto di vista. Se il tuo progetto è seguìto, questa lettera ti troverà a Londra, dove ti prego d’informarti distintamente di ciò che risguarda l’attuale esportazione de’ grani. Gli avvisi pubblici ci vorrebbero far credere che la nazione non pensi più come una volta su quest’articolo e che abbia ripreso i pannici timori delle altre, dopo aver osato un secolo fa allontanarsi la prima da questi pregiudizi; scrivimi su di ciò e informatene. Se puoi avere lo stato di esportazione de’ grani di quest’ultimi anni mi sarà carissimo.

Ricevi acclusa la cambiale promessati de’ 24 zecchini: ne farai uso quando ritornerai a Parigi. Il pachetto de’ Libri era indirizzato à l’hotel deux ecus rue des êcus: ora, acciocché non succeda imbroglio, si scrive In quest’ordinario a Lione perché lo indirizzino al Sig.r Bertina e Garbagni, i quali potrai avvertire.

Il nostro Abate Carlo è a Bussero da circa un mese credo senza un soldo e senza inquietudine; egli si dice un po’ innamorato della Bolognina Spagnuola, e corrisposto. Quest’era una parentesi da porsi fra Il Suddiaconato e il Diaconato, data la costruzione della sua testa. Il caro Cav.re, sempre buono, ragionevole e amabile, è stato con me a Gessate, dove torno domani per ricondurli tutti alla città; si fa voler bene da tutti, ha qualche cosa del tuo in alcuni tratti di spirito. Lambertenghi ti abbraccia caramente Carli ti saluta, Odazzi pure: di quest’ultimo io ti confermo sicuramente la definizione della sua mediocrità e credimela, che la troverai dimostrata trattandolo. Addio, caro amico del mio cuore; amami, che sei ben corrisposto. Salutami tanto e poi altrettanto il nostro caro Frisi; io ho cercato di esitare la medaglia ma nessuno la vuole: ne ho molto parlato al Conte Wilseck ma la renderò al Dottore suo fratello perché la venda per fondersi. Di nuovo, addio. Scrivimi qualche tua avventura afrodisiaca, e se stai bene di salute anche in mezzo ai passeggi de la rue S.t Honoré. Addio. PIETRO.

XXV (14) A Pietro. [Parigi,] 26 9bre 1766

Rispondo alla tua del 13 9bre; non a tutti i capi, ma ad alcuni, perché devo dire ancor io il fatto mio. Saluta adunque primieramente il nuovo carissimo onta del Signore Cavaliere, fratello in carne ed in filosofia. Gli getto le mie braccia al collo in segno di recezione.

La Fogliacci non può mai scrivere o parlare senz’essere graditissima. Ella, siccome voi, mi fate l’onore di suppormi naufrago nelle buone fortune. Voi conoscete il mio sistema. E dove più è egli comodo e ragionevole che in Parigi? La galanteria ha troppa lentezza, capriccio ed inconvenienti. Il beato, l’indipendente libertinaggio forse non ha i sublimi piaceri del tenero e terribile amore, ma certo non ha le sue tristezze, le sue inquietudini. Non ho provata la sua voluttà, è vero: ma così ho fatto il Caffè, l’Istoria; ho ficcate nella mia testa varie poche cose che mi distinguano dal volgo, se sarà possibile. Voi beato, che avete fatto e l’uno e l’altro! Io avrei fatto all’amore come ho studiato: cioè disperatamente, tutto il giorno. Quest’è il mio naturale. Adunque io me la passo con vari piccoli microcosmi non eccedenti la bella età quadrilustre, microcosmi di facile acquisto in questo clima, microcosmi che divinamente esercitano il loro offìcio, e microcosmi sicuri, per poco che si abbia di attenzione nella scelta. Io ne ho uno qui a due passi. Questo mi è il più comodo. Uno di questi giorni faccio conto di andare ad uno di quelli che chiamano Couvents. Sceglierò quello della Montigny come il migliore. Ditemi, amico, v’è egli bisogno di galanteria in un paese di tante risorse? Questa passione, qui, positivamente, non ha due dita di profondità. Non v’è stato di pensarvi. I bisogni della natura si fanno appena sentire, che vengono tosto saziati. Non si desidera tanto di saziarli, quanto di averli incessatamente: perché, dove vi fosse una squisita tavola sempre bandita, che altro si desiderarebbe se non l’appetito? Eccovi fatta la mia confessione di fede in questa importante materia.

Bella, bellissima, da galantuomo, la causa Rossara! Fortunato l’Ecc[ellentissi]mo Senato! Fortunati gli adoratori! E misera la p… ed il c… del Signore e della Sig.a, che impetrano colle lor lagrime compassione da giudici induriti e severi!

Le mie idee di commercio mi hanno troppo riscaldato il capo. Ma altro è parlare, altro è fare: andiamo adagio. Ti scrissi che le migliori calze qui vagliano franchi N° 10. Non è vero. Ne ho comprate a tal prezzo: fanno una bellissima figura, ma durano nulla. Le calze buone di Parigi, ora lo dico con cognizione di causa, non vagliano meno di franchi 13 in 14. Quelle di Nimes e di Gants vagliano circa un franco meno. Mi paiono più belle all’occhio: ciononostante, non essendo di durata come quelle di Parigi, non tanto si stimano. Se poi si volessero calze soprafine, ricamate al fiore, in tal caso si fanno fare apposta, costano anche più, non so quanto.

Per li manichetti ho forse anche ecceduto nelle espressioni. Con tre luigi ne avete di belli assai, ma non però de’ primissimi. Potete spendere sino a dieci e dodeci Luigi. In ogni caso, però senza rischiare una considerabil spesa, vi trasmetto un piccol saggio. Le spese sono fatte con giudizio, perché sono stato assistito da persona intelligente. Vi trasmetto acclusa la lista de’ prezzi e delle robbe. Da questa prova caveremo qualche conseguenza. Su questo articolo penso assai. Mi pare importante. Non mancherò d’industriarmi.

Tu mi dimandi come trovo Mercy? Buono e ragionevole. Ti ringrazio della insinuaz[ion]e che mi fai di non trascurarlo. Ma non vedo che questa sia la strada. La speranza da questa parte è lontana: e per esser conosciuto alla Corte, non mi varrebb’egli meglio l’amicizia di Greppi, di Castelli, di Carli, che non la tortuosa e fredda raccomandazione d’un ministro di Parigi? In ogni caso tengo di vista il tuo consiglio. Vengo a me.

Ho veduto finalmente Elvezio. Oh caro! Bello, grassotto, rossotto, con tanto di vermiglie guancie e due grandi occhioni cerulei a fior di testa, impetuoso, robusto, semplice, franco: porta il genio scolpito a gran caratteri sulla fronte. È un uomo, a mio credere, di circa cinquant’anni. Fin ora ho parlato poco con lui. Ma si fa presto amicizia. Due braccia al collo, un buon baccio dall’una parte e dall’altra, è il solito cerimoniale: Ne parlerò in seguito, conoscendolo meglio. Non l’ho ancora che veduto. Egli studia furiosamente. Perciò sta moltissimo in campagna. Ci ha detto, ma non dir niente, che sta lavorando ad un secondo tomo. Replico, non dir niente: così egli ci ha raccomandato. Ho anche veduta sua moglie. Mi pare così buona come Lui.

Questa mattina ho preso congedo di Alambert per Londra. Mi ha licenziato col dirmi: «Sic te diva potens Cypri, ventorumque regat Pater». Vi assicuro che si può amarlo come una ragazza. Veramente questo mi pare l’uomo massimo del Paese. Ha del genio e non conosce il fanatismo. Si confondono qui talvolta queste due cose. Vi sono delle teste calde maladettamente. A proposito di Londra: parto senza fallo Sabbato, colla diligenza di Lilla, giorno 29 del corrente 9bre.

Se volessi metter dell’ordine in questa lettera saprei come fare, ma farò più presto a tumultuariamente darti le mie notizie andando dentro e fuori con mio comodo.

Il Barone mi dipinge Volterre come un pessimo carattere. Alambert, al contrario, ne ha una grande stima. Il Barone dice che Volterre non può soffrire nessuna sorte di merito. Quando sortì lo Spirito delle Leggi diceva che Montesquieu era Arlechino Grozio. Quando sortì l’unde animi constet ecc., scrisse con molta stima dell’autore, ed in altre lettere sue a varie persone di qui scrisse con disprezzo e derisione. Ecco i fatti che cita il Barone.

La disputa fra Hume e Rausseau ha interessato Volterre. Ha pubblicata una lettera amara e causticamente spiritosa contro di Rausseau, che non mi par degna della umanità del suo autore. Tratta il Genevrino filosofo da coquin le plus vilain qui ait desonoré la Littérature. Dio! Quai scene per il fanatismo, che aspetta l’occasione di sorprendere i Filosofi luttanti fra di loro! Eccola. Se fossi l’Arcivescovo di Parigi mi sentirei in corpo a tumultuare una Pastorale.

A proposito di Hume. Speravo di vederlo a Londra, ma non mi sarà possibile, perché è ritornato ad Edimburgo, sua Patria, dove sembra essere per fermarsi stabilmente. Fa portare i suoi libri colà: dal che si ricava che non vuol moversi, per ora, e che pensa a lavorare qualche opera. Monsieur Hume, per quanto mi dicono, ha quella semplicità di maniere che piace infinitamente più della studiata pulitezza. Dal suo ritratto vedo una fisonomia lodigiana che non promette più del buon senso. È un buonissimo uomo. Non vi stupite di questo parco elogio. Qui si loda più la bontà che il sapere. Non ho ancora sentito a parlare della sapienza di un letterato o di un filosofo con entusiasmo, bensì con entusiasmo della sua bontà e semplicità di costumi. Questo è ciò che piace: almeno agli Enciclopedisti.

Ho sentito da M.r Wilches, che qui si ritrova attualmente e che è de’ miei amici, ho sentito, dissi, che l’Istoria di Hume non è sincera e però poco stimata in Inghilterra. È incolpato di esser partigiano dei Re. M.r Wilches adunque, per parlare anche di quest’uomo famoso, spera che fra poco la sua causa sarà terminata e di ritornare presto in Londra. Egli è un uomo di uno spirito infinito, di somma erudizione, amabile infinitam[en]te. Ha seco una sua figlia.

Ti darò altre nuove letterarie piuttosto interessanti. Monsieur Marmontel ha recitato in circolo dal Barone un suo poema che ha per titolo La Neuvieme de Venus, cioè nove canti lubrici e voluttuosi al sommo. Egli non stamperà quest’opera per non ruinare la sua fortuna, ma vi assicuro che non è punto, a mio credere, inferiore alla Pucelle.

Un’anecdota curiosa ho sentito. Mi vien detto che se Neuton ha comentata l’Apocalisse ciò avvenne perché da giovane fu obbligato a farlo per penitenza impostali dal suo maestro. Se ciò è, Neuton sarebbe stato sempre degno di lui.

Ti dirò un’altra anecdota, segretamente. Il Barone ci ha ieri ed oggi fatti venire di mattina, per tempo, a sua casa per leggerei una sua opera manoscritta, da lui gelosamente custodita. L’ha scritta in 18 mesi: sarebbero tre buoni volumi in -4°: sapete in che consiste? Non meno che in provare, con un calore ed una precisione a un tempo grandissima, che Religione è la principal sorgente dei mali degli uomini, e che l’idea di un Dio è la prima origine di tutto ciò. Per lo che distrugge questo incantato edifizio, a cui sostituisce la più pura e limpida morale, fondata sull’amor proprio e su i bisogni dell’uomo. Questo libro è fortissimo in ciò, che dimostra come l’uomo sociale possa far senza le opinioni, e come la sola ben intesa morale sia il mezzo di renderle inutili, facendo a un tempo la massima felicità delle nazioni. Ha fatto in via di catechismo il rassunto di tutta l’opera. Vi assicuro che non si può sentire la morale portata alla definizione ed alla dimostrazione meglio che ha fatto lui. Non stamperà quest’opera, perché non vuol sacrificarsi: ed ha giudizio. Ma la lasciarà da stamparsi per testamento. Di fatti egli la comincia col fingere se stesso che parla ai posteri dalla sua tomba. Siccome egli ha grandissime cognizioni di fisica, così di esse si serve mirabilmente nel corso dell’opera per provare nella materia un moto ed un’anima universale. Voi ne vedete le conseguenze.

Mi vien detto che l’origine del sistema del Barone e del suo calore in sostenerlo venga originalmente dall’aver veduta morire la prima sua moglie fra la più terribile con tradizione e fra gli orrori di una eternità di tormenti. Ciò l’ha fortemente commosso e gli ha fatta epoca nel suo cuore. D’allora in poi è divenuto ateista furiosissimo, per modo che bisogna guardarsi di avere altra opinione, altrimenti sospetta della vostra morale. Egli è persuaso che, dato Dio, vi vuole un culto; dato questo, vi vogliono de’ preti; dati questi, vi sono cento bricconate. Ad annonciare così il suo sistema, non sembra il più esatto del mondo: ma pure, in tre volumi ben fatti, e che sono una catena di ragionamenti, fa tutt’altra figura. Vi ricordate d’aver letto negli Elementi di Filosofia di Alambert come ei dica che lo spirito di geometria è quello che più d’ogni altro ha influenza a portar la filosofia in una nazione? Ebbene: la Spagna, dopo di ciò, ha proibito che s’insegni nelle scuole la matematica. Così egli mi ha detto.

Il Presidente d’Haineau, autore dell’Abregé Chronologique, vive ancora. Avete mai sentito parlare del Petit Prophete, la quale è una graziosa e delicata satira dell’opera francese? Ebbene, il suo autore è un certo Mons.r Grimes, tedesco qui stabilito, ed uomo di molto merito ed amabilità. Lo vedo spesso. Tenetevi da conto questi flores sparsi di Storia letteraria. Forse vi piaceranno. In ogni caso ve li scrivo per non dimenticarmi quanto vado di mano in mano imparando.

Vado sovente al Teatro francese: prova di che comincio già a perdere quella estrema sensibilità che avea ne’ primi giorni. Comincio a giudicare anziché sentire: veggo i difetti e porto lo spirito di esame sul teatro; laddove prima era strascinato dalla novità dello spettacolo. Sono già deflorato e sverginato in tal materia. A proposito del teatro, vi ricordate benissimo della comedia del Glorieux? Vi dirò su di ciò che qui v’era, qualche anno fa, un attore chiamato il Du-Frere, assai famoso in questa parte. Egli era nato per fare il glorieux: lo era in tutti gli atti della sua vita. Quando prendeva un Fiacher, smontando, soleva dire al suo servitore, con un gesto di sommo disprezzo: donez une pieçe de 24 sous a cet malhereux. Un giorno in teatro declamava troppo sotto voce: il parterre disse: plus haut!; et vous plus bas, rispose Du-Frene. Allora il teatro cominciò a fare un rumore terribile ed a cercare la scusa. Du-Frene la fece così: Messieurs, demain nous aurons l’honneur de vous donner le Glorieux, dans le quel moij’aurois le premier role; volendo così dire ch’egli era glorieux di suo temperamento.

Sono stato alla chiesa di S. Genevieffa, Santa qui di gran credito. Ho trovato de’ gran quadri, dove sono dipinti i Magistrati della città in toga e perruccone, colle braccia alzate al cielo: tutti questi gran quadri sono miracoli fatti dalla Santa, la quale alle preghiere di costoro ora ha fatto piovere, ora ha rasserenato il cielo, ecc. Dicasi poi che qui non v’è religione! Nelle strade di .Parigi, se tal uno non cavasse il capello quando passa il Santissimo, tosto una guardia gliela getterebbe per terra. Mi dicono in oltre che generalm[en]te i Confessori fanno un peccato di passare un mese senza assistere alla gran Messa.

Parliamo un momento [di] politica e poi finiremo. Mi si dice che la Città di Parigi rende al Re 40 milioni (40.000.000). I Fermieri Gen[era]li, per quanto mi vien supposto, sono persone sublimi nel loro mestriere e di lumi superiori in questa scienza. Taluno mi ha consigliato a conoscere alcuno per mia instruzione. I Fermieri avranno alloro comando venti mila uomini. Tanti sono i loro subordinati ed ufficiali.

Ti sovviene per avventura d’aver letto in Bouffon che non si dà legno impietrito? Ei sostiene di certo nella sua opera tal opinione. Ebbene, il Barone mi ha fatto vedere nel suo gabinetto una esperienza convincente del contrario, se pur fa bisogno di nuove esperienze per esser convinto di tal cosa. L’esperienza è un pezzo di legno impietrito che, dall’una parte percosso coll’acciaro, getta scintille come il selce ed ogni pietra dura, e dall’altra è tuttor legno, sicché, messo al fuoco, abruggia. Quante ciarle! Addio. Saluta Carli, Corti, Luigi, ecc. ecc. Scrivo a mio P[ad]re. Ti mando la lettera aperta. Tu la sigillerai. Addio. Sabbato parto per Londra. ALESSANDRO.

XXVI (12) Al Fratello. [Milano,] 13 Xbre 1766

Ieri sera è arrivato Beccaria; s’è fermato un giorno e mezzo a Lione, dove ha ricevute mille ospitalità da due suoi compagni di viaggio; essi gli hanno dato il loro servitore per accompagnarlo sin qui ed egli se n’è venuto di corsa, giorno e notte. Sta bene. La cara Sposa gli ha fatto mille lusinghe, gli ha impedito che non mi facesse avvertire del suo arrivo prima di questa mattina, gli ha impedito che non andasse a visitare la Isimbaldi. Che mire abbia quella testina non si sa. Io credo ch’ella è gelosa degli addobbi fatti alla Cognata, e della diversità che passa fra lo stato di essa e il suo; credo ch’essa frema vedendomi diventato amico e confidente del Marchese Padre e della Marchesa; ella vede che nell’animo del Marito vi sarà sempre in me uno che bilancerà le sue impressioni tendenti a distaccarlo dai sentimenti più dolci di Famiglia; essa freme per ciò a segno che per questa unica colpa appena mi saluta. Essa vuole che il marito accetti le offerte che gli si fanno d’andare a Pietroburgo, ed egli non le ricusa apertamente per non irritarla. Fatto sta ch’egli è innamorato, e mi ha detto apertamente quest’oggi ch’ei non ha al mondo persona che gli sia tanto cara quanto sua Moglie: il che, come vedi, è una verità poco obbligante, e vale per lo meno le altre che io gli ho scritto per distornarlo dal ritorno. Ma io ho cento cose da scriverti e non so con qual ordine verranno: pigliale come le piglio io. Di te egli dice che è partito amico, egli si lamenta, come ben potevi prevedere, della durezza del carattere e della incompatibilità degli umori; però queste lamentele le ha fatte con me, ed è disposto a non parlarne con alcuno; dal suo discorso medesimo io conosco che la ragione è tua. Se posso accorgermi di qualche mutazione seguìta in lui, è più dissimulato e copre meglio le sue passioni, di più egli non presenta più nella sua persona un uomo di gabinetto come prima, ed ha l’aria più di mondo che di filosofia; vedremo se questo continua. Oggi sono uscito con lui, siamo passati alla porta del S. Co[nte] Firmian, voleva condurlo a Corte e gli è scappato un tratto da cui vedo che, malgrado la vantata indifferenza sua per i suffragi de’ Milanesi, teme le interrogazioni sul suo ritorno. Tu gli hai consegnate due paia di calze per me e me le ha portate, su di esse farò subbito le diligenze per esaminare cosa conviene; so che gli hai consegnata della sabbia colorita ed egli non ha voluto portarla seco; un’altra cosa ho osservata, cioè ch’eglinon mi ha portata nessuna menoma memoria e che quest’oggi non m’ha detto una sillaba che mostri che alcuno sappia in Parigi ch’io sono al mondo, né per la Felicità né per altro. Questa precauzione mi fa piacere poiché vedo che mi tratta come faceva con te, ed ho sempre ambìto d’ispirargli gelosia poiché vedo che il merito produce in lui quest’effetto. Nella tua cara lettera, che Beccaria mi ha rimessa, tu mi accenni una lista di prezzi e robe che mi trasmetti, ma non ne so altro; nella scorsa lettera ti ho acclusa una cambiale al S.r Nicolò Verzera di 24 zecchini sborsati al S.r Tanzi; se la commissione de’ manichetti o delle calze non converrà, sarà però sempre bene che tu conservi questo fondo mio per altre commissioni a venire. La memoria tua di spedirmi le calze e la sabbia mi è carissima quanto poco lo è la trascuratezza dell’amico, che l’ha lasciata presso Frisi. Dunque torniamo a Beccaria: dal modo con cui egli m’ha lasciato travvedere che Morellet prende le cose mie, non ho ragione d’essere niente contento d’avergliele trasmesse; può anch’essere che il desiderio d’impedire gli atti contrari alla santa umiltà, della quale pare che voglia diventare l’apostolo, l’abbiano fatto tacere. In somma, fratello caro e amico mio intimissimo, il viaggio di Parigi vuol aver fatta una piccola rivoluzione nel mio cuore. Tu sai come io ho sempre pensato sul conto di Beccaria, nessuno de’ miei sentimenti t’è stato celato; tu sai se anche dopo i motivi che ti ha dati di malcontentamento io ho seguitato a fare in favor suo con te tutto quello che si poteva in questa distanza; s’egli continua così i miei sentimenti per lui svaniranno; egli dimentica troppo l’amor proprio altrui ed egli forse prende troppo la fortuna e l’aura degli applausi per termometro della distanza da uomo a uomo. Sento nel mio cuore le amarezze che tu hai provato e sento senza complimenti che ho senza paragone più tenerezza ed amicizia per te che per lui. Egli mi ha richiesto se tu m’avevi scritto di lui, io gli ho risposto che sì, ciò lo ha posto di mal umore e proccurava di celarlo; io poi gli ho detto che tu mi hai scritto il dettaglio della sua malinconia, cioè la lettera che per comissione sua m’hai scritta: egli non vuol crederlo, io glielo assicuro, come assicuro te stesso ch’egli non saprà mai da me che tu m’abbia scritto altro. Figurati che oggi a caso parlava della Senna e dei Quai che sono alle sponde; io soggiunsi nominando il quai des Augustins, notissimo a chiunque legga il frontispizio dei libri: egli s’è allarmato subbito e, come vi sono i Librai, ha creduto ch’io lo sapessi perché tu me l’abbia scritto. Oggi egli m’ha fatta la guerra per due miei reati. Il primo, per avergli scritto ch’egli ha un lato di puerilità nel suo carattere che gli fa torto, che ei cerca a coprirlo con de’ pezzi di un trasportato vigore che gli si vede imprestato ma che, con tutto ciò, si conosce e il male e il rimedio, e che la sola strada di guarirne è il resistere a questa passeggiata per l’Europa. Ei trova una durezza in me in questo tratto ardito d’amicizia, per cui ho voluto riscuoterlo e destar tutte le sue passioni a combattere una sola funesta che lo minacciava di rendersi ridicolo col tornare troppo sollecitamente. L’altra accusa si è d’aver io fatta confidenza all’Isimbaldi della sua irrisoluzione per ritornare, quasi che potesse ritornare senza che si sapesse. In somma, tutta la sensibilità di quell’uomo è in battaglia e bolle: vedremo che ne sarà per nascere. Naturalmente io dovrò parlarti di nuovo di Beccaria in questa lettera; ma frattanto ti darò le poche nuove del paese, frivole quali sono. Il furto del mercante Castellazzi è affare finito perché s’è ritrovato il danaro, e la cosa non lascia d’avere sospetto che siasi fatta ad arte, ma vedendo che il giuoco non riusciva e il pubblico sospettava, si sia disimpegnato l’affare col far comparire i danari supposti rubbati e pagare le cambiali scadenti; forse v’è della malignità in questo supposto, e forse della verità, non saprei definirlo. In questi giorni è stata rubata una lampada d’argento in Duomo; un pover uomo, naturalmente interpretando la beneficenza di Dio Ottimo Massimo, il quale è onorato egualmente e con tredeci lampade e con quattordeci, considerando il bene che v’è di riporre in circolo le masse stagnanti d’argento, il bisogno della sua famiglia, l’origine de’ beni ecclesiastici e simili luminosi princìpi, ha preferito di provvedere a’ suoi bisogni togliendo una minima cosa al padrone di tutto, anzi che angustiare alcuna famiglia. Questo si chiama, come sai, un furto sacrilego, ma non se n’è sin ora scoperto l’autore benché siasi ritrovata la lampada, di valore, sopra un letamaio. Altra novità: un briccone, già infame per altri delitti, ha uccisa una donna perché ricusavagli i favori suoi; costui è stato impiccato ieri, cioè otto giorni dopo il suo delitto; posto che si vuole assolutamente impiccare, questo caso lo meritava e la sollecitudine è stata lodevole; costui, che si chiamava Mantegazza, è morto con intrepidezza da uomo che decisamente si ride dell’altra vita, ed esso si è scagliato giù dalla scala prima che il carnefice ve lo spingesse; ciò che fa impressione nel popolo, il quale non ha idea che si possa morire se non tremando.

Il Senatore Pecci ha ricevuto dalla Corte l’accrescimento di più di 4 mila lire di soldo: è dichiarato Capo del Collegio Fiscale; tolta la facoltà ai Presidenti di citare un Fiscale più che un altro, ciò dipenderà dal Capo: esso avrà di diritto sessione in tutte le Giunte Governative, è disimpegnato dall’obbligo di sedere in Senato e d’aver cause commesse, eccettuate quelle che dal Governo o dalla Corte gli verranno addossate. Tu vedi con ciò ch’ei pare disegnato successore al Silva Consultare. È uomo di merito, e ne ho gran piacere.

Il Padre Castiglione di cui t’ho ultimamente parlato si è riavuto, ma degli autori dell’attentato non se ne sa nulla, e la freddezza di que’ Monaci nel sollecitare la Giustizia fa sospettare che siasi da essi scoperto che gli autori siano de’ loro frati. Se ciò è, sono ben disgraziati i rei: guai delle ire degli animi celesti!

14 Xbre

Oggi Beccaria mi ha date le penne temperate che mi hai mandate, e ne faccio uso attualmente; ti ringrazio tanto tanto: tutte queste attenzioni fanno ch’io abbia per te, dolcissimo amico, una tenerezza che quasi somiglia all’amore. lo analizzo i miei sentimenti per te e t’assicuro che non so bene svilupparmeli tutti. So che sei partito, solo, da Parigi per Lilla, e di là a Londra; un altro amico ne avrebbe inquietudine; io, che t’amo e t’amo teneramente, ne ho interno tripudio e godo di questo non volgare contrassegno della forza del tuo animo; dico non volgare, stante la educazione: questo tratto mi dimostra che sei buono a qualunque stato, che sei uomo, che farai fortuna, che sarai felice, che in tutto sei purgato dalla nativa coglionagine; e tutto ciò può sopra di me più assai che il pusillanime timore che afettano i nostri parenti per un viaggio in terra sconosciuta, in cui non ti può accadere alcun disordine rimediabile in Milano e che non trovi rimedio eguale.

Torniamo a Beccaria: oggi gli ho parlato sul conto mio, e gli ho detto che io doveva ben essere poco contento delle nuove ch’egli mi portava da Parigi, poiché trovava strana cosa che l’autore della Gazetta Letteraria che aveva tradotto un pezzo mio non me ne spedisse per mezzo suo un esemplare, e nemmeno mi facesse dare il buon giorno; trovava strano che l’abate Morellet, sulle istanze del quale per avere le notizie di fatto della Lombardia io aveva avventurato i miei manoscritti, nemmeno mi mandasse a dare il buon giorno; che finalmente, avendo ricevuto con parzialità il saggio mio sulla felicità, M.r d’Alembert nemmeno al suo partire si fosse ricordato della mia esistenza. Egli a ciò ha risposto che M.r Vattelet mi saluta, che egli poi non si ricordava ma che può essere che altri gliene abbiano data la commissione e che se andassi a Parigi vedrei che sarei bene accolto. Tu vedi che il suo silenzio era certamente qualche poco duro, e che se egli avesse detto a Parigi la decima parte di me di quello ch’io avrei certamente detto di lui se vi fossi stato in sua vece, il mio amar proprio e la corrispondenza della amicizia se ne starebbero meglio.

Proccura al tuo ritorno a Parigi di sapere se fra il Principe Kaunitz e d’Alembert sia successa qualche scena o mal intelligenza, poiché, anche per recenti notizie, il primo non consente a stimare né lui né i Soci.

15 Xbre

Gli arcani letterari che mi hai svelati mi sono preciosi. Il Barone fa come i ricchi avari, che pongono gli eredi nella necessità di desiderare la lor morte; questo sentimento è perdonabile in chi non lo conosce personalmente. Beccaria mi ha fatti vedere due nuovi libri, che per altra strada vanno allo stesso fine: che turbine, dio buono, che turbine terribile! Un’altra notizia mi ha data Beccaria, cioè che il Giornale di Bouillon abbia fatti molti elogi del bellissimo Libro dell’Abate d’Adda ed abbia parlato con assai disprezzo del povero Zoroastro. È egli possibile che questa società che vuol parlare anche delle Lettere Italiane o ignori che v’è la società nostra o la creda indiferente? E sarà pure possibile ch’ella sposi il partito dei Ferdinandi d’Adda e delle miserie che loro somigliano per umiliare il buon senso e quella poca ragione che comincia a risvegliarsi in Italia? Lungo, anni sono, ha scritto a que’ Signori, e non ne ha avuta risposta; io pure ho trasmesso ad essi di buon’ora Delitti e pene; Caffè e Felicità, senza risposta e senza che di nissuno si sia fatta menzione nel Giornale; in questo stato di cose io ti prego di porre da parte per un momento le idee europee e di farti rivivere le idee milanesi, e vedrai che è indispensabile per la dolcezza della vita nostra di sciogliere questo enigma. Il Giornale è troppo accreditato in Italia per dimenticarlo; o queste male intelligenze vengono perché si siano smarrite le lettere e non vi sia comunicazione fra noi e quegli autori – e tu proccura che fra gli utili di questo viaggio vi sia quello di portare una strada sicura di comunione, e cerca di prepararcela –, ovvero il S. Rosseau ha della inimicizia per noi, e allora bisognerà ricordarci che anche in mano nostra è l’Estratto della Letteratura Europea, sul quale potremo servire il Giornalista e far comparire in pieno giorno la passione o la venalità che diriggono la sua penna. Ti prego, non dimenticarti di quest’articolo, perché ne ho vera passione; mi pare una indegnità ed un obbrobrio che un libro noiosissimamente coglione, scritto bestialmente contro una facezia non affatto sprovveduta di senso e di spirito, debba essere annunziato con questo trionfo da uomini che presiedono ai progressi delle Lettere. Almeno su questo articolo scrivimi chiaro e netto; se io debbo stimare me medesimo dal tuono con cui Beccaria prende le cose mie e tue in questi giorni, io dovrei credere che le lettere e la filosofia non sieno fatte per noi, e che noi siamo oiles pulli nati infelicibus ovis; ma questo appunto mi pone in elasticità l’animo e il corpo, se mai il fine suo fosse di farmi perdere coraggio, egli l’ottiene perfetamente contrario: io non ho bisogno d’altro che degli ostacoli per far qualche cosa di buono, tu lo sai perché mi conosci, ed io sento la mia inquietudine risvegliarsi tutta e spingermi per ogni verso ad agire con vigore allor quando vedo che si teme o non si vuole indirettamente ch’io agisca. La maniera di farmi far nulla sarebbe col farmi credere che son creduto capace di far tutto.

Gli affari politici del Milanese sono in fermento più che mai; v’è alla Corte una Compagnia, ricca in contanti e poverissima di senso comune, la quale ha innoltrato un diabolico e ridicolissimo progetto per rescindere il contratto vegliante della Ferma e rimpastare il Consiglio col Magistrato straordinario abolito. La serie delle bestialità dette e scritte da costoro è infinita; pure, in questa distanza non si possono sentire tutti i loro assurdi, ed hanno in conseguenza un partito considerevole che gli sostene. La cosa per se stessa è tanto ineseguibile e rovinosa che sicuramente non potrà aver luogo. Ritieni però tutto questo in te solo. lo ho dovuto scrivere e lavorare ne’ giorni scorsi assai su questo soggetto, lavoro in politica analogo a quello avuto con Facchinei; tutto è secreto. Questo turbine svanirà, come vuol la ragione e la verità. Ma quello che t’ha fatto auditore va alla Corte subito dopo terminata la sua Magistratura, immaginati se va per divertirsi: io m’aspetto tutt’i riggiri e cabalette possibili, cosicché devo confessarti che la vita nostra è vita da cani, in cui, seguendo la ragione, la virtù e il cuore, non siamo mai sicuri da una graffiata improvvisa e siamo sempre alla vigilia di doverci giustificare da una calunnia. Di più, nel difenderei non siamo nemmeno liberi, perché in quest’ultima commissione ho avuto degli angeli custodi i quali hanno avuto tutta la cura di cancellare il meglio e disputarmi il terreno palmo a palmo.

Covaruvias, seguendo le vicende comuni anche alle piccole Corti, con pretesto d’onore è destinato a Modena; lontano dal Duca la sua fortuna diventa più stabile, poiché è fatto Colonello del Regimento delle Guardie, ch’è stabile e originario; i suoi soldi sono assicurati così anche dopo la morte del Duca, ma egli sarà lontano dal suo Padrone; ciò però non si fa con alcuna violenza né dispetto; egli attualmente è alla Corte come prima. I Sovrani di tutto si stancano, come gli altri uomini, e non v’è altra strada di tenere pel ciuffo la fortuna che quella di diventare uomo utile; non si stancano mai, gli uomini, di chi è utile ai loro interessi; la vita del cortigiano è precaria; quella d’un buon Ministro è più ferma e somiglia più a un contratto che ad un beneficio.

Che dirai del disordine e della lunghezza delle mie lettere! Le tue sono piene di cose interessanti, le mie non possono averne altre che lo sviluppamento del mio cuore in faccia tua. Pare che la vicinanza di Beccaria comunichi l’aggitazione nell’animo, e tu ben vedi che l’effetto è nato in me dopo il suo ritorno. Egli pone in tumulto mille passioni, le quali non ce le possiamo svelare che fra noi due, benché fra queste vi sia di mezzo tutta la Francia e un canale dell’Oceano. Questa lettera dunque ti troverà a Londra, dove io m’aspetto che tu sarai contento della tranquillità che potrai godere in tua casa, e della ragionevolezza delle persone che conoscerai; ma io sto aspettando che la malinconia del clima e il fondo feroce degli abitanti ti disgustino, non meno che la spesa che bisogna fare per ogni minima cosa. Da te sapremo qualche nuova di Rosseau, di cui hai sentito parlare tanto a traverso in Parigi; sappi che Beccaria comincia a ritirarsi un passo dal giudizio dato ne, e sappi che quanti di noi hanno letto le cose ultimamente stampate sono decisamente per Rosseau, e risguardiamo il S. Hume come uomo che fa sospettare del suo carattere e sicuramente dimostra di non avere la delicatezza e sensibilità che merita di trovare in un amico il S. Gian Giacomo. Malgrado le cabale egli passerà ai posteri; così pure aspetto delle notizie sul libro di Beccaria e sulle traduzioni che si pretendeva che ne fossero fatte.

16 Xbre

Sempre più crescono le ragioni che rafreddano l’amicizia fra Beccaria e me; egli, invaso della sua Moglie, non ha altro fanatismo che lei, né altri riguardi che per lei; l’amar proprio ci sta male, e altronde io non sento alcuno bisogno d’essere strettamente unito con lui; egli ritornerà, svaporati che sieno gli effluvi parigini, sentirà il bisogno e mi ricercherà, ma avrà sempre perduta quella candida fiamma che aveva io per la sua gloria, e conseguentemente non avrà più né aperto né tutto il mio cuore. Da nessuno meno che da quest’uomo io m’aspettava che potesse farmi portare il peso di quella gloria che non avrebbe avuta senza di me, eppure egli vuole che lo porti; io ho avuta la generosità di contribuire a rendere un mio amico più grande di me, ho conosciuto quel che faceva quando l’ho spinto; l’amore del buono, il benefico fanatismo dell’amicizia sono stati i soli oggetti che hanno assorbito il mio amor proprio; l’Europa ha dichiarato ch’egli è più grande di me: il mio cuore dichiara tutto il contrario. Se io avessi fatto il viaggio a Parigi e Beccaria fosse restato in Patria con una mediocre fama, io non avrei certamente potuto resistere alla dolce lusinga di rendere rispettabile un mio caro amico, ed avrei voluto raccogliere la stima d’ognuno che ne avesse per me, anche per lui; io certamente … a cosa serve marcare la differenza fra quell’uomo e me? il suo cuore diferisce per alcuni gradi dai Parini e dai Baretti. È conosciuto, finalmente; teniamocelo detto una volta per sempre, soffriamo le lunghe dicerie che sul suo conto siamo in caso di scriverei per sfogo; e basta per ora così. PIETRO.

XXVII (13) Al Fratello. [Milano,] 29 Xbre [1766]

Io sono in molta inquietudine per te: nell’ultimo ord[inari]o ti ho fatto vedere il giubilo che ho provato per la tua risoluzione di partirtene solo per Londra; ora questo sentimento fattizio è superato da un altro più semplice e intimo, cioè il timore; mille idee tristi mi ha dipinta la fantasia, e non terminerà la mia aggitazione che colle tue lettere. Il descriverti cosa penso su questo articolo è inutile, perciò non mi abbandono a questa serie d’idee. Sono già 17 giorni ch’io non ho tue nuove, cioè dall’arrivo di Beccaria. Sul conto di quest’uomo ti dirò che un velo è caduto ai miei occhi; sono già sei o otto giorni che non ci vediamo, l’amicizia mia è radicalm[en]te tolta dal mio cuore; e questo caso è tanto più sicuro quanto che io non mi sento veruna animosità contro di lui, né posso nel mio animo fargli alcun rimprovero. Egli non mi ha mai mancato di parola e di riguardi; la colpa non è sua se io mi sono ostinato a volerlo credere capace di vera amicizia. Beccaria è un uomo deciso, incapace di tessere un inganno o di simulare, ei non reggerebbe alla fatica di farlo; egli gode dei piaceri che a lui sanno cagionare gli uomini, e, come gli amici ne cagionano i massimi, ei gode assaissimo dell’amicizia. Ma quest’uomo che non vive mai che il momento attuale, né può con tra porre la serie de’ futuri al momento presente, sceglie il piacere presente, s’allontana dal dolore presente e, come ei trova piacere alla fortuna che ha fatto ed alla superiorità che i pubblici voti gli hanno data su i suoi amici, egli ne vuol godere in tutta la sua estensione: gli amici se ne risentono; la vista di questo risentimento è dolorosa a Beccaria, per ciò gli fugge. Non s’è egli sempre lasciato vedere quale egli è, ubbidientissimo a una sensazione per volta? Ci ha egli promesso mai uno sforzo in favor nostro, nemmeno per imprestarci un libro? Da ciò nasce ch’egli non ha verun rimorso, esaminando se stesso. La funestissima catena della necessità dei fenomeni anche morali, catena che imprigiona ogni entusiasmo ed ogni sublime virtù, l’ha troppo bene conosciuta, ed il S. Helvetius, che l’ha sì bene disegnata col suo bel libro, l’ha pacificamente addormentato nella naturale sua passività. Tu l’hai descritto anni sono; io, benché tardi, pongo il mio riverito nome sotto la tua descrizione, e non vi sia mai più di disparere fra te e me su quest’argomento. Che ne averrà? Beccaria non farà l’opera che aveva cominciata, perché io non gliela farò più fare. Il mio genere di vita è mutato: non passo più le sere in casa, e questa mutazione verisimilmente durerà. Visconti e Odazzi sono da lui; Lambertenghi non già, che anzi è colpito dal suo nuovo contegno: gli manca la levatrice per partorire; egli ora è tutto moglie; questo stato è transitorio, si troverà isolato e allora conoscerà di avere altri bisogni; videbimus. Su questo proposito conchiudo col dirvi che nel pubblico questo suo innaspettato ritorno non è stato ricevuto senza ridicolo, che se ne parla conseguentemente, né può guardarsi anche dagli uomini raggionevoli senza sorriso un uomo che parte solennemente per stare assente almeno sei mesi e vedere Parigi e Londra, e se ne ritorna dopo aver passato un mese e mezzo a Parigi. Di te e della tua determinazione se ne parla bene, e il paragone al tuo ritorno sarà ben umiliante per Beccaria.

Io ti suggerisco, se puoi, prima di partir te ne da Parigi, proccurati una lettera del Conte Merci al S.r Conte Firmian; se puoi, anche di M.r de la Marche per il S.r Duca: san piccoli oggetti per ora, diventano grandi in Milano. Un’altra cosa ti suggerisco, ed è di portare a regalare al Conte Firmian qualche Libro o raro o nuovo e interessante; Beccaria s’è fatto molto onore portandogli il nuovo tomo dei Melanges di d’Alembert; se puoi portargli qualche nuovo Libro per commissione dell’autore è ancor meglio. Caro Alessandrino, dona all’amicizia questi dettagli de’ quali forse ne potresti far senza, ma io liberamente ti voglio scrivere quel che mi par utile.

Mi ritratto della nuova che t’ho data sulla partenza del Conte d’Adda per la Corte; egli improvvisamente s’è rivolto a cercare il provicariato del Banco, che aveva protestato di non volere, e l’ha ottenuto. Naturalmente avrà dovuto conoscere che dopo tante inconseguenze non si sta più a Vienna aspettandolo colle braccia aperte.

L’Abate fa all’amore colla Bolognina Spagnuola, e non cogliona; colui è in una perfetta contradizione co’ suoi princìpi: peggio per lui. Il caro Cavaliere, sensibile, capace d’entusiasmo di virtù, freddo ed esatto ragionatore, ha già tranquillamente fatto molti progressi nel regno della verità; il suo spirito è fatto per esaurire lateralmente quanto v’è, prima d’innoltrare un passo, così non v’è pericolo che ritorni mai da capo. Egli ha cuore eccellente e ti saluta.

31 Xbre

Ricevo due tue Lettere da Londra, carissime e sospiratissime. Io sin ora t’ho scritto al solito indrizzo de’ Fratelli Bertina e Garbagni e mi lusingo che essi ti avranno spedite le mie lettere; fra mille cose interessanti, hai omesso di scrivermi il tempo in cui tu pensi di partirtene da Londra. Siccome ho sempre numerizate le mie Lettere, così potrai conoscere se te ne manchino. [PIETRO.]

XXVIII (15) A Pietro. Londra, 9 Xbre 1766

Sono giunto ieri notte alle due dopo le 12. Sono bene alloggiato. Mi sono già presentato all’Ambasciatore: oggi vado a pranzo da Lui. Vedremo in somma come vanno le cose.

Il mio viaggio è stato buono. Non è poi così piccolo come si suppone. Sono sempre a buon conto 105 leghe, le quali fanno 315 miglia delle nostre. Il breve traghetto di mare da Calais a Douvre non mi ha fatto alcun male. Sono sette leghe che bene spesso si fanno in tre ore. La novità dell’oggetto non mi ha fatta impressione. Niente di più noioso ed uniforme che quest’immenso bacile di acqua salata.

Quanto io già non vi dovrei parlare di Londra! Figuratevi che Parigi mi è infinitamente decaduto nella immaginazione. Qui tutto è in grande, in Parigi tutto è gentile. Se Parigi è grande, Londra è immensa. lo non ne ho veduta fin ora che una piccola porzione, ma ne giudico da questo solo fatto, ed è che questa Città è illuminata di notte sei miglia all’intorno. Arrivando ieri notte, quando vidi delle contrade ben illuminate dissi «eccoci a Londra». Un compagno che aveva con me si pose a ridere e mi diede la nuova che v’erano ancora sei miglia. Ciò m’ha veramente sorpreso. Ma è così. I Soborghi di questa Città cominciano a sei miglia dal suo centro. Essa è poi illuminata come non ve n’è altra in Europa. Vi sono lampade d’ambe le parti, e lampade ben fatte, come lo sono tutte le cose che servono agli usi della vita qui in Londra. Parigi è male illuminato, perché lo è colle candele di sego. A proposito d’illuminazione: quando codesti buoni Milanesi vorranno poi, colla solita loro flemmatica prudenza, pensare a porre delle lampade di notte per tutta la Città, come sarebbe veramente opportuno, potrò citare per esempio Torino, Lione, Parigi, Lilla, Dunkerke e Londra, ch’io stesso ho vedute co’ miei occhi illuminate di notte. Ed avvegnaché in queste città ve ne siano di grandi e di piccole, così giova sperare che non avrà gran forza la difficoltà fatta anni sono, che Parigi era più grande di Milano e Vienna più piccola e che però non si poteva né punto né poco illuminare l’insigne nostra Metropoli. Quello ch’è sicuro è che in Milano si soffrono periodicamente cento vessazioni, sia per il corso delle carrozze sia per il chiaro da portarsi, e che tutto ciò sarebbe finito colla illuminazione, né il leggierissimo peso che ne soffrirebbe la città è paragonabile a questi inconvenienti de’ quali ci lagniamo sempre, come sempre anco de’ rimedi: nec vitia nec remedia pati possumus. Ma se vorranno i miei adorabili cittadini andar poi anco sempre col moccolo in mano e farsi dar la sua brava corda e farsi mettere in prigione non avendolo, sono padroni, che il Cielo gli benedica, e S. Carlo Benedetto, mio gran Protettore.

Ieri sera sono stato al Teatro Inglese. Qui ve ne sono tre. Due Inglesi e quello dell’Opera Italiana. Attualmente vi si rappresenta La buona figliuola. Il nostro Lovattini vi fa la prima parte. Al Teatro Inglese adunque si rappresentava L’uomo ciascuno nel suo umore. Io ho inteso niente ma ho riso assai, perché, se non altro, era una bella pantomima. Vi furono, secondo l’uso di questo teatro, quindici o venti attori, vi fu la moglie che va a battere ad una porta di una puttana per vedere se vi è suo marito; vi fu il marito geloso che accusa la moglie di adulterio e che finisce poi coll’accomodarsi, cosicché, ad insinuazione del giudice, si ritirano in iscena e ritornano allegri e si baciano. Vi fu Arlecchino travestito da donna che, preso in fallo, è invitato da un Milord a venire sul letto a chia … , e varie altre simili cose vi furono. Mi sono divertito infinitamente alla pantomima dopo la Commedia. Non si può vedere niente di più bello, massimamente quanto alle trasformazioni e decorazioni. Il Teatro è bello come certo non ve n’è a Parigi, dove sono pessimi. [sei righe abrase]

Amico, se hai da spendere danari a mobigliare l’appartamento, io ti consiglierei a farlo all’inglese. Il buon senso è impresso su tutt’i mobili inglesi. Sono prodigiosamente semplici, comodi e modesti. Ecco l’immagine che mi presentano. Su quest’articolo vedrò di portare o de’ piccoli modelli o dei dissegni. Ma bisogna che veda un po’ più di quello che non ho veduto.

Il nostro Baretti si ritrova qui. Non so ancor bene che si faccia. Alcuni mi dicono che fa il maestro di Lingua, altri che fa nulla ed è miserabile.

Mi voglio subitamente mettere in Frak alla inglese. Vestito alla francese non posso fare un passo in Londra senza il solito saluto di French dog. Adunque me la passerò con capellaccio e scarpacce e bastone.

Mi annoia un poco il non sapere questa lingua. Bisogna che abbia sempre meco il mio Interprete. Questo è un nostro Lombardo. Egli è Novarese. Ha viaggiata tutta l’Europa, è stato anco a Costantinopoli. Parla il Francese, l’Inglese, l’Olandese ed il Tedesco. È un Servitore poligloto.

Che fa Beccaria? Lo dimando con timore e tremore. Che dicono costoro? Che dite voi? Che dice suo Padre? Sono grandi interrogazioni e vorrei che fossero piccole. Feci quod potui, legem adimplevi. Beccaria istesso ne potrà far testimonio. Me ne rapporto a Lui. Ho combattuto all’ultimo sangue.

Se veniva meco le cose sarebbero andate peggio che mai. Le montagne della Savoia gli hanno fatta tanta impressione: che non gli avrebbe fatto il mare? Se si fosse trovato in quattro sole persone, com’io fui, su di un paquebot, di notte, sentendo a vomitare da tutte le parti, ed il grido della maneuore che, a chi non lo sa, annuncia sempre un gran pericolo benché non ve ne sia alcuno, sarebbe stato ben altro che i cattivi alloggi savoiardi: ed io sarei stato fresco. Così in vece ho cantato sul telliak quasi tutto il viaggio, ho bevuto, assieme del Capitano e de’ compagni, una bottiglia di vino, e mi sono riso e divertito di ciò che avrebbe resa tristissima quella grande immaginazione ch’io non gl’invidio punto.

Dirai cento cose alla gentilissima Zia Somaglia da mia parte. Le dovevo scrivere e ringraziarla della lettera ch’ella mi ha proccurata per la Ser[enissi]ma Contessa de la Marche; ma la stimo tanto che non la suppongo su quest’etichette. Che importa ch’io l’assicuri della mia gratitudine per una strada o per l’altra?

Cavaliere, Carli, Luigi, Peppe, Corti, Castelli, ecc., addio. Ti abbraccio teneramente. ALESSANDRO.

XXIX (16) A Pietro. Londra, 15 Xbre 1766

Questa è la seconda che vi scrivo da qui. Non ho ricevute ancor, da poiché qui mi ritrovo, vostre lettere. Non si può a meno che, movendosi da un sito all’altro, non succeda questa interuzzione nella posta.

Io qui me la passo di meglio in ottimo. Trovo Londra la Città a preferenza di ogni altra degna di esser scelta per vivervi. Che bella cosa il potersi qui tutti trasportare i Caffettisti! Vi assicuro che ci staremmo bene a un segno che non si può credere. Avremmo libertà e tranquillità perfettissima. Che vorreste di più? Non vi parlerò dei bisogni afrodisiaci. Qui è lo stesso che il bere un bicchiere di birra. Niente di più facile: anzi, niente di più difficile che il viver casto. Ad ogni passo vi sono i così chiamati Bagnio cioè Begneurs. Ivi i Bagni sono un pretesto di vero e real Bordello. Si entra, dì e notte sono sempre aperti, si chiama una ragazza. Immantinenti il padrone del Bagno la fa venire. Se piace, non occorre altro; se non piace, si rimanda, e questo non costa più che il pagare la portantina, poi se ne fa venire un’altra. Vi sono in oltre certe botteghe nelle quali si vende una sorte di gelatina per ristorarsi e disporsi all’atto afrodisiaco. In esse botteghe vi son sempre delle ragazze; con esse si pattuisce, si sceglie e poi si conducono o ad un Bagnio o ad una Taverna, sorte di osterie qui pulitissime e frequentatissime. Se ad alcuno poi prenda voglia di essere volgare in questi piaceri, vada un momento in istrada la sera. Le ritrova popolate di figlie: dico popolate perché scorrono qua e là a quattro, a cinque, s’affollano d’intorno alle porte de’ Bagnio e, se si va nelle strade più grandi e frequentate, s’incontrano più puttanelle che uomini. Così è precisamente. V’è chi di notte celebra l’atto pubblicamente nella via, un altro passa e gli dice «buon pro ti faccia». È comunissima cosa il fermare la sera qualunque donna, il dirli ciò che si vuole, l’accarezzarla e tosto parlargli in materia. S’intende che una donna o figlia che va a piedi alla sera è una p. . . Se come tale è trattata, peggio per lei, non può dolersene. Le donne inglesi sono belle come angeli, e pulite e monde come conigli. Il loro vestire è semplicissimo e modestissimo: ma cominciano a vestirsi bene dalla pelle e la mondezza loro è reale. Portano tutte un grazioso capellino, se lo pongono in capo con somma leggiadria, ch’egli è un ingannatore sommo, il quale fa credere belle tutte quante le donne.

Dopo di questa descrizione non sareste voi persuaso ch’io parlo per esperienza? Eppure non è così. Primieramente il santo timor di Dio, poi il non sapere la lingua del paese mi trattengono dal peccare, e fin ora su questo articolo, grazie al cielo, ho la coscienza tranquilla. Infandum, Regina, iubes!

Partirò io da Londra senza provare una Inglese?

Io mi sono messo semplicemente alla inglese, e trovo molto ragionevole e comodo il vestirsi così. Faccio grande esercizio. Il clima lo esigge e, generalmente essendo gl’Inglesi gran mangiatori di carne, hanno bisogno di molto moto. Che forma l’alimento della plebe qui? Carne di manzo e birra. Perciò sono grassi e ben coloriti, ma hanno anco della spessezza ne’ fluidi, io mi figuro, e la pinguedine loro impedisce la traspirazione. Ecco perciò la necessità de’ gran passeggi che qui si fanno e si raccomandano da farsi ai forastieri. Questo gran caminare non potrebb’essere forse la cagione della grossezza delle gambe, propria degli Inglesi? La grassezza, io dissi, impedisce la traspirazione: ciò è così vero che uno dei mali più pericolosi qui è un raffreddore mal curato.

Questo clima è assai più dolce del nostro. lo me la rido quando mi parlano della Italia come di un paese meridionale, dove si muore di caldo e non si ha mai freddo. Così pensano molti in Parigi. Il fatto è che fino che fui in Parigi non ho mai avuto più freddo che in codesta fri[gi]dissima Metropoli, e che qui a Londra, presentemente, alla metà di Decembre, è così temperata l’aria che si potrebbe stare senza fuoco. Tale è il solito freddo di Londra, eccettuate qualche gran freddo che per due o tre settimane viene improvisamente ed irregolarmente. Allora gela il Tamigi ed il clima è infinitamente rigido. L’estate, per quanto mi si dice, non fa mai gran caldo. Cosicché non si può dare più dolce temperatura di questa.

Non trovo vero quanto mi fu detto, che in Londra si veda il sole così di rado. È vero che la nebbia ed il fumo del carbone di terra ricoprono continuamente questo gran cumulo d’abituri: ma uno soffio di vento, frequentissimo accidente, fa uno squarcio in essa nebbia e fumo, e tosto apparisce il sole. lo l’ho veduto, dopo che sono qui, cinque o sei volte, cioè quasi tutt’i giorni. Quanto a ciò v’è poca differenza con Parigi: anch’esso è sempre ricoperto dalla nebbia. Come una vasta città, ove sono tanti camini, tante esalazioni ecc., può avere l’atmosfera purgata e libera?

Ho veduto varie cose del Paese. Ho veduto la Chiesa di Westminster. Ella era de’ Benedettini. È d’ordine gottico, e nulla più. È assai rimarcabile in ciò, che ivi sono molti mausolei di persone particolari e quegli dei Re. Vi ho veduto quello di Neuton. Non è vero che sia dove sono i sepolcri dei Re. Egli è dove sono tanti altri particolari. Fra questi mausolei ve ne sono di capi d’opera di scoltura, e costano somme immense. I sepolcri dei Re sono chiusi in capelle, né si possono vedere che pagando una piccola moneta. Vi è un Cicerone che ve li fa vedere, tiene una bachetta in mano, e con una serietà inglese imperturbabile vi va ripettendo le inscrizioni che stanno scolpite in gran caratteri, come se vi dasse delle notizie pellegrine e come se non sapeste leggere. Vi sono altresì le Statue delle Regine Anna ed Elisabetta. I loro visi sono di cera, cavati al naturale colla maschera. Anna è una bella donna, d’una buona fisonomia. Elisabetta è propriamente la fisonomia d’una bella vecchietta, né io la ritrovo meglio che in codesta immortale D[onna] Bianca Visconti.

Due idee inglesi rimarcabili mi si sono presentate in questi mausolei di Westminster. V’è il mausoleo d’un certo Duca Lost. Egli ha, al solito, la sua Statua giacente sul sepolcro. Alla sua destra ha la prima sua moglie, alla sinistra avea già fatto preparare, ancor vivente, il tumulo della seconda moglie, ma ella non volle esser sepolta dove avea disposto il marito. Sapete perché? perché non le avea lasciata la mano dritta: onde, per dispetto di doverla cedere alla prima moglie, si fé sepellire altrove. Questa è una; l’altra idea inglese è quella della Duchessa di Ricemond, la quale ha la sua statua col viso di cera cavato dal naturale, ed accanto di lei un Papagallo. Ella amò assai questo Papagallo, e dispose che presso di sé venisse in tal guisa collocato poiché fosse anch’egli morto.

Londra è una Città vastissima, lunga sei miglia, larga tre, eppure succedono pochissimi disordini. In apparenza sembra che non vi sia alcuna polizia ed in sostanza ve n’è moltissima. In Parigi si parla sempre di polizia (police), in Londra non se ne parla mai e tutto va bene; in Parigi vi sono, la notte, guardie ad ogni Inglese, produce quest’effetto, che non si soffra un delitto od una superchieria, ma che tosto ogni cittadino si presti per vendicarlo ed impedirlo. Così, nelle non rare lotte di pugni, il popolo fa circolo e freddamente assiste ai rompimenti di naso e di denti; uno prende il vestito, l’altro il capello ecc., e se lo tiene nel tempo della battaglia: ma fate che uno cada a terra e che l’altro lo voglia ancor battere, che tosto tutte quelle fredde persone diventano caldissime e gli piomberebbero adosso e lo percuoterebbero senza compassione. Vi sono vari Milordi dei più robusti che hanno fatto a pugni molte volte coi più miserabili. Un urto ne un po’ forte in istrada, una mezza parola che non va a verso ad un porteur, ad un crocheteur, basta perché inviti un Milord a pugni, ed il Milord deve battersi, altrimenti sarebbero fischiate ed insulti infiniti. Questa gran libertà è comodissima dal facchino sino al mercante, tutt’al più, ma incomodissima per chi abbia educazione e per chi non abbia braccia assai robuste. Chi non si contenta di esser uomo, ma vuol essere Conte o Marchese, fugga da Londra: qui bisogna assolutamente esser volgo per esser bene. Per fino i Servi tori non soffrono una mezza parola dai Padroni, e gli darebbero dei calci alla menoma minaccia. Talvolta si ha molta fatica a scacciarli di casa. O ricusano di andarvi, o vi vanno ed attruppano il popolo intorno alla porta, formano una spezie di sedizione che ha costretto alcuno de’ padroni a pagare un mese di più di salario per sedarla. Per fine, il popolo è libero, il popolo è il Sovrano, sente la sua libertà, manifesta questo sentimento con quella asprezza e licenza che gli è propria e cerca da per tutto nuove esperienze della sua indipendenza: tutto ciò è un ammasso di sentimenti umilianti per chi pretenda di occupare nella Società un posto distinto e per chi, nelle Monarchie e pattuglie, a piedi ed a cavallo, da per tutto: in Londra vi sono dei vecchi che non possono talvolta star in piedi, non sono armati che di un bastone, tengono una lanterna e sono distribuiti nella Città e gridano ogni ora, come Vakter di Germania, e questa è tutta la guardia notturna di Londra e tutto va bene; ciò non ostante si chiamano questi vecchi Wachman; sono scelti vecchi perché se fossero giovani farebbero di notte tutt’altro mestiere che di far la guardia. Se una figlia venga violentata o insultata, se alcuno venga in qualsivoglia modo offeso, grida Wach! ed al momento questi vecchi accorrono. Non hanno bisogno di forza per arrestare chicchesia. Il costume è tale che al vedersi di un Wach ciascuno sta quieto, e se lo vuol condurre prigione lo segue senz’altro contendere. Qui molto fanno i costumi, dove in altri paesi pochissimo fanno le leggi stesse ed i sistemi più meditati. Ma perché sì facilmente si lasciano condur prigioni? perché la prigione non è un luogo orribile, e perché anche in prigione son cittadini che altro non temono che le leggi. Di giorno poi non v’è in modo alcuno bisogno di guardie o di polizia. Il popolo istesso, co’ suoi costumi, regola tutto benissimo. Se un ladro è sorpreso lo prendono talvolta i primi che lo possono, lo legano ad una fune, lo tuffano nel Tamigi quattro o sei volte, poi lo lasciano andare; uno cava la spada contro d’un altro: tosto accorre Fabrizio e Sempronio e la prima cosa è di rompere la spada in due pezzi; poi chiamano che sia il soggetto della contesa. In somma l’Inglese ha idee e sentimento chiaro della giustizia, nato da ciò: che in quest’isola tutto possono le fredde e ceche leggi, e nulla l’uomo; questo sentimento di giustizia, comune e molto più nelle Aristocrazie, fu avvezzo a certi riguardi ed ha già resa l’anima bisognevole di essi. Per ciò qui non v’è altro, per non sentire questa umiliazione, che il diventar volgo. E così accade ai Milordi: sono villani che, mal vestiti e rozzi, escono da Londra, si ripuliscono a Parigi, si raddolciscono nella tenera e ridente Italia e poi, rientrando a questa cupa lor Patria, ritornano ad inorsire. Non è possibile ch’essi abbiano modi delicati e fine maniere in tale costituzione. I costumi di chi comanda sono sempre i dominanti.

Questa mattina ho veduto il Re. Il suo treno è tale. Egli è portato in una non molto bella portantina, preceduta da mezza dozzina di Servi tori non più che bene vestiti. Ecco il treno di S. M. il difensor della fede. È grasso ed ha la fisonomia del Duca d’York. Così gli altri fratelli hanno l’istesso fondo di fisonomia. A proposito di Duca d’York, mi si dice per sicuro da persona sicura che la Marchesina Beccaria abbia scritto al Duca d’York e gli abbia mandato il libro di suo marito. Esso Duca lo volle far tradurre, ma non se ne fece nulla. Il libro qui non è stimato come in Francia. La ragione è che le sue massime sono la maggior parte qui ricevute e da lungo tempo poste in pratica. Di fatti qui è stato stampato in Italiano dal Molini, in casa di cui io sono attualmente, il quale è Fratello di quel Molini che ha stampato lo stesso libro a Parigi, ma non ha avuto grande spaccio; cosicché ha mandate molte copie a Parigi dove poi si sono spacciate. Questo istesso Molini di qui, avendo avuto da me notizia del Caffè, ne ha ordinate a Venezia alcune copie. Vedremo che dicono i Lettori di Shwist e di Adisson.

La mondezza inglese nella abitazione non s’estende al mangiare. L’Inglese mangia male e generalmente, se non se alle tavole distinte, non si dà tovagliolo e si beve la birra nella stessa coppa l’uno dopo l’altro. Così servono alle osterie. In Francia eziandio non si danno coltelli, bisogna averne assolutam[en]te uno sempre in tasca. Vari traiteurs istessi di Parigi non danno coltello.

Il militare è poco stimato in Inghilterra. Non si stima un corpo di cui non si ha gran bisogno. Le forze dell’Isola sono nei Marinari. Perciò si piscia e si fa anche il suo servizio presso ad una sentinella, la quale, ben lontana dall’impedirvelo, vi lascia il suo luogo, se lo volete. Tampoco la disciplina è rigida. Una di queste sere ho veduta una sentinella che baciava una figlia nella sua garetta.

Abbiamo l’opera italiana. Si rappresenta la famosa nostra Buona figliola. Piace assai. Lovattini fa da Marchese.

Il nostro Zappa, sonatore di violoncello, è pure qui. Non l’ho per altro veduto.

Dammi nuove del mio Longo. Che fa? Sta o ritorna? Abbraccia lo stuolo dei dolcissimi amici. I miei rispetti alla Zia Somaglia. Beccaria in che situazione è? è egli contento del suo ritorno? Che parlano, che dicono i metropolitani? Salutalo e dilli con filosofica franchezza da mia parte che è stato bene per tutti due il non esser egli qui venuto. Cento leghe di più lontano da sua moglie, un Beccaria! Oh cielo! E poi il mare e poi viaggiare di notte com’io ho fatto, e poi cento cose. Addio, addio. ALESSANDRO.

XXX (17) A Pietro. Londra, 19 Xbre [1766]

Non ho ancora ricevute tue nuove da qui. Non mi piace l’aver di mezzo questo maladetto mare, sicché le tue lettere sono talvolta in preda dei venti. La posta di Francia non è per anco giunta. Bisogna che il vento sia contrario.

Io sto bene, veramente bene, e sempre più son contento di esser solo perché sono indipendente. Oh, quante volte ho benedetto il cielo di non essere accompagnato!

Che fate? che fanno gli amici? Il lontanissimo Lungo che fa? Salutategli tutti.

Per questa volta abbi pazienza di ricevere lettera breve. Non ho tempo di più. Ne scrivo una lunga a mio Padre, al quale di qui non ho ancor scritto. Ella è aperta e varie cose ti potranno forse interessare. Le avrei dovute ripetere scrivendo a te, onde tanto puoi estrarre quei paragrafi che ti tornano a conto e trasportarli al libro mastro di tante coglionerie che vado scrivendo. La ventura posta, cioè da qui a tre giorni, ti scriverò più luculentemente. Non ho al mondo maggior piacere. Credilo.

Nell’ultima mia [due righe abrase].

Ti abbraccio, in qualche pena di non sapere tue nuove. Maladetto mare, e poi maladetto! Ti abbraccio di nuovo. Addio; addio. Questa è la terza che ti scrivo da qui. ALESSANDRO.

XXXI (14) Ad Alessandro. [Milano,] 7 Genn[ai]o 1767

Dopo la tua lettera del 15 Dicembre non ricevo tue nuove in quest’oggi; con tutto ciò le spero di ricevere: forse la stagione ha fatto ritardare il corriere. Non so come anderanno le cose fisiche in Inghilterra: qui da noi, nel dolce Clima d’Italia, dove l’Architettura è in pompa e vastissimi alberghi si fabbricano per il piccolissimo nostro microcosmo, in questo dolcissimo Clima, di cui l’aria imbalsamata de’ fiori d’aranci lussureggiando mollemente su tutte le cose sembra animarle al piacere ed alla voluttà, in questo poetico nostro Clima il termomentro di Reainur è stato questa notte a dieci buoni gradi sotto il ghiaccio; quattro gradi di più saremo al freddo di Parigi del 1709. Se questo annientamento di vita continua alcuni giorni probabilmente le viti se ne vanno e molti alberi in loro compagnia. La mia cara stuffa mi pone in sicuro da questi mali, ma molti infelici ne muoiono e l’umanità se ne risente. Io quasi vorrei che gl’inconvenienti della nostra spensierata maniera d’alloggiare crescessero: tu sai che la mia testa desidera sempre che i mali vadano all’estremo, poiché son persuasissimo che gli uomini non pensano mai davvero al rimedio che allor quando vi sono giunti; se Arrigo ottavo non faceva provare agl’Inglesi il peso della capricciosa tirannia non ammireresti ora la sapienza delle leggi e l’idea della giustizia universale al popolo; la felicità d’un governo è sempre comperata colla estrema miseria degli antenati. Un inverno orribile può solo introdurre da noi stanze più raccolte, usci, finestre, cammini, stuffe e abiti destinati a preservarci dal tedio del freddo.

Dopo una novità fisica te ne darò una politica. Sai che la fabbricazione del Pane è stata dal Governo tolta al Monopolio civico. Tredici forni erano, per lo passato, i soli che avevan privativa di vendere in Milano il pane di frumento; ora sono ventidue. La Sovrana ha rinunziato a 40 mila lire che sul pane si riceveva in tante onoranze regie, e la saviezza del Governo nel nuovo sistema ha talmente limata la proporzione fra il frumento e il pane, e talmente abolite tutte le onoranze e indebiti lucri de’ civici, che tutto in complesso la città di Milano viene a guadagnare nel nuovo sistema più di 400 mila lire annue, cioè poco meno d’un mezzo milione. L’abate Castelli è stato il benemerito direttore di tutto ciò. Il pane del fiore di farina si è accresciuto il primo dell’anno di un quarto d’oncia e migliorato assai in bontà e bianchezza; il secondo pane, tutto pure di frumento ma di farina seconda, è .accresciuto di due once per pagnotta, cioè più del 25 per cento, più della quarta parte. Crederesti tu che il popolo sia contento di questa mutazione? No signori: il popolo corre a comperare il pane di seconda farina, risparmia un quarto di quello che spendeva prima, ha un pane saporito e migliore assai del vecchio, eppure il popolo mangia, gode, e in vece di dir bene della mutazione, del Governo e della benefica Sovrana, mormora e quasi vorrebbe l’antico sistema. Dimmi se è possibile l’amare questi porci mezzo lanuti dopo anche questo tratto.

8 Gennaro

Il freddo è diminuito quest’oggi notabilmente. Ricevo la tua cara lettera del 19 unita alla quale v’è la lettera per il caro Papà. Costoro non vogliono sentire a parlare di Londra: anni sono l’Inghilterra era una cosa ridicola agli occhi d’un Reggente del Senato, ora è cosa nefanda. Monsignore vi dà commissione di comperargli un paio di buone forbici eretiche inglesi, e tutt’in casa ti salutano.

Con Beccaria siamo su un piede tutto nuovo: quando ci vediamo ci trattiamo col tu come se fossimo intimi amici: il vederci però si ristringe a un quarto d’ora ogni Settimana tutt’al più; egli con me affetta disinvoltura, ma lo conosco abbastanza per comprendere che realmente egli è meco in orgasmo; io quasi non lo cerco, fralla giornata io sono sempre occupato in qualche modo e la sera regolarmente esco di casa, così tutto è mutato. Visconti e Odazzi sono i due suoi satelliti, ei dorme in braccio alla sua cara sposa mentre tutto il paese è pieno di dicerie sul di lui conto: in prima s’è detto che l’improvviso suo ritorno era effetto delle spese fatte in libri, poi s’è detto ch’era effetto di imbrogli nati con te questa seconda novella è stata sparsa per opera della Marchesina, la quale da molto tempo non è tua amica -, ora finalmente si dice che è ritornato per non avere trovato in Parigi l’accoglimento che si lusingava d’avere, e cento dicerie bestiali tutte si spargono e sul suo libro e sulla sua condotta. La sua lontananza da me comincia a dar nell’occhio; io parlo di lui come debbo a me medesimo e lo difendo come se il mio cuore avesse i sentimenti che più non ha. Lambertenghi, gli Sposi Isimbaldi ed altri sono assai malcontenti della sua condotta. Eccoti lo stato della nostra Società finita per sempre.

Veniamo ad un altro articolo. Dal principio del mese passato io t’ho spedita una piccola cambiale di 252 Franchi diretta al Sig.r Verzura di Parigi; a conto di questa ho ricevute le calze di seta che mi hai mandate con Beccaria; il restante tienilo per i tuoi bisogni. Con libertà degna di noi e della nostra amicizia, lascia ch’io ti faccia vedere una verità. Eccola. Probabilmente in vita tua non avrai più comodo o combinazione favorevole ad istruirti con un nuovo viaggio. L’esperienza ti deve convincere quanto questo giovi ad accrescere il sentimento di te stesso e l’ammasso delle tue cognizioni. Ti caderà adosso un impiego o civico o regio, sarai attaccato allo scoglio per sempre. Hai veduta la Francia, hai toccata l’Inghilterra, perché ritornartene senza vedere Napoli, Roma e la Toscana? Vedi se ciò è fattibile. Io infallibilmente ti trasmetterò una cambiale di venti ungheri al mese, comincerò dal presente, ed alla fine ti spedirò la cambiale per Parigi allo stesso S.r Verzura; alla fine di Febbraro ne spedirò una simile per dove m’indicherai, e così successivamente sino al tuo ritorno. Tu sai ch’io non resto povero per ciò, mi rimangono ancora trentotto ungheri per me, i quali sono più che bastanti a tutt’i miei capricci; altronde t’assicuro che la voluttà che provo d’essere uno stromento di bene e di piacere per te vale incomparabilmente più di vent’ungheri al mese, e se i denari son fatti per cambiarsi in piaceri questo è per me il più bene speso d’ogni altro. Ergo dunque, tu, che sicuramente faresti per me altrettanto se fossi comodo come io lo sono, accetta la mia proposizione senza altre repliche, non ve ne potendo essere che una sola, cioè che questo aiuto non basti al disegno, e allora scrivimilo che ti manderò tutto in una volta e pagherò poi rateatamente un Sovventore facile a trovarsi. Il povero Lungo t’aspetta a braccia aperte e forse potreste unirvi nel ritorno con lui. Avresti un compagno il quale né ti cacherebbe sotto al naso né vedrebbe l’orco nelle montagne come l’altro. Sia dunque questo un affare concluso. Anzi, ritornando a Parigi, se puoi aiutare Frisi farai bene: egli mi scrive una lettera patetica sulla sua situazione, esibiscigli del denaro anche per mia commissione a misura che lo puoi nel tuo stato e colla inviolabile sicurezza di quanto ora ti prometto.

Faccio trascrivere la lettera che scrivi a nostro padre: poi gliela consegnerò. Tu viaggi veramente da Pittagora e nelle tue lettere vedo i tratti più fini e interessanti per caratterizzare una nazione. L’entusiasmo con cui mi scrivi in favore del soggiorno di Londra, non posso io attribuirlo in parte all’assenza di Beccaria? non posso io pure attribuirlo alla libertà con cui esisti da te, pianeta qualunque e non più satellite ecclissato da un tuo eguale pei suffragi d’una Società non mai tranquilla, ma appassionata e capricciosa in ogni sua lode o biasimo? Ma, tolto anche l’entusiasmo tuo, i fatti restano, e questi bastano a darmi una idea d’una nazione a cui sta in cuore la giustizia e la libertà; ma lo spirito sociale, quello che tende a rendersi gli uomini scambievolmente grati e dolce il vivere, quello che fors’anca nasce dal sentimento di debolezza e dal bisogno de’ suffragi altrui: quello certamente non lo troverai in Londra comunemente. Quel fiore d’urbanità e di dolcezza nel commercio, ch’io ho veduto quasi universale ai Francesi, non l’ho ritrovato in nessun Inglese. I paragoni che ho fatt’io sono assai minori de’ tuoi, e poi un uomo assolutamente del popolo non esce mai dalla sua patria, perciò tu potrai liberarmi da un errore, se tale è la mia opinione sul fondo di ferocia che sin ora ho creduto essere la base del carattere degl’inospitali Britanni.

Ti dò un’altra commissione: altra volta t’ho pregato a portarmi, se vi sono, atti del Parlamento su i grani o cose concernenti a questa materia. Ora di più ti prego, se vi sono leggi commerciali in un Codice, e particolarm[en]te su i fallimenti, provvedile per me, che un traduttore si troverà sempre. Se le Leggi di Loche per l’America o di Pen per la Pensilvania sono comprabili, saranno rari e ottimi materiali per noi. Dammi nuove del Sig.r Scannabue nobilissimo.

10 Genn[ai]o

Noto la tua somma dilicatezza di non dirmi nulla della carezza del vivere di Londra: caro Alessandrino, sei degno d’avere tutt’i miei sentimenti, come gli hai e gli avrai per sempre. Ieri ho parlato col Conte Carli, il quale spontaneamente è caduto sul discorso di Beccaria, e sì esso che la Somaglia trovano che dopo il suo ritorno è notabilmente cambiato: egli sorride con moltissima superiorità alla maggior parte degli oggetti e protegge assai l’infelice specie umana. Si vuole che la sposa del nostro eroe sia gravida, ed io l’ho creduto o almeno sospettato sino dal punto in cui vidi fissato il suo ritorno e che tu m’avvisasti che le lettere della moglie lo toglievano dalla quiete nella quale quasi era riposto.

Non ho alcuna ragione d’essere contento di Visconti, né so che pensare di lui: ho ragione di credere ch’egli, col riferire e caricare alcune minuzie, abbia soffiato nel fuoco: meglio conoscerlo e romperla per sempre. Sin che Beccaria ha avuto bisogno d’un amico l’ha ritrovato in me: ora i suoi bisogni sono cambiati, ei cerca de’ satelliti e de’ protetti, tu vedi che in noi non può trovare quello ch’ei cerca. Verrà il tempo del disinganno per lui, ma quest’epoca non sarà una lezione, il mio cuore non l’avrà mai più né io potrò mai più trovar piacere nella Società d’un uomo il quale ha mostrata sì poca generosità e giustizia di volere a me medesimo far portare il peso della sua gloria, dopo che questa era opera della mia amicizia. Egli ha fatta la sua piccola fortuna con un libro e si dimentica che gli uomini sono capricciosi e forse da qui a pochi anni non gli daranno i suffragi che ora ha. Egli si dimentica che, se uno di noi due lo vuole, può dare un colpo maestro al tronco di quest’albero; io lo dico perché dalla propria sperienza so che in un mese di tempo dai Criminalisti posso trovar molto, e perché in Montesquieu, Helvetius e Voltaire ed in Grevio posso radunare tanti passi analoghi ai suoi di farlo comparire un plagiario. Ma a me basterà sempre il poterlo fare, né mai lo farò.

Ho finalmente notizia da Livorno che il Manoscritto è nelle mani del Sig.r auditore Franceschini: colla prima occasione mi verrà scritto qual giudizio ne dia; ma tu sai ch’io non ho bisogno di questo per decidere: la tua Storia, la prima di quante sono state scritte in nostra lingua, è un libro che ti darà somma gloria. Questa gloria tu la dovrai tutta a te solo ed avrai la forza e nobiltà d’animo di riceverla e non esiggerla da’ tuoi amici, ne sono sicurissimo: la fortuna non fa mai orgogliosi gli animi del nostro livello; il disprezzo, l’oppressione, gli ostacoli avviliscono gli altri e rendono noi alteri e attivi.

Ho fatto leggere alla Somaglia quanto mi scrivi per lei. Essa ti saluta caramente; così Carli, il quale mi chiede sempre tue nuove. La lista di chi ti saluta è lunghissima, perciò mi restringo ai pochi che singolarmente mostrano premura per te. La Marchesa Beccaria Madre, il M[arche]se Padre, il caro Luisino, la Contessina Isimbaldi, Corti: questi sono premurosi ch’io te li nomini. Il Cav.re nostro fratello ti abbraccia teneramente, egli legge quasi tutte le tue lettere, ti onora e ti ama. L’Abate ha cominciato a porre in contraddizione il suo temperamento co’ suoi princìpi: ora è indifferente su i princìpi, la Bolognina Spagnuola è la sua logica, ch’ei studia assiduamente e in cui approfondisce una materia inesauribile. Questa mutazione, se non gli concilia la mia stima, almeno lo rende più umano e socievole: ei ride, scherza, lascia fare, non è più grave né incomodo e Dio lo conservi.

Ritorniamo ancora un momento a Beccaria: quanto ognuno cerca di rendere ridicolo e malignare il suo ritorno, tanto vedo che si rispetta la tua risoluzione, il coraggio ed il giudizio della tua condotta; se prolunghi la tua dimora fuori di paese, se vai scorrendo anche l’Italia come ti ho proposto, tu fai una vendetta da maestro contro il tuo imbecille compagno; al tuo ritorno, più egli è distante dal suo, più è stato vasto il tuo giro, più è svantaggioso il paragone per lui. Non lo merita egli dopo averne fatti tanti e tanti a tuo svantaggio in Parigi? Io scriverò a Lungo salutandolo da parte tua e dicendogli il progetto che ti faccio di veder l’Italia: egli è stato il primo a proporlo, vedremo per quando egli pensi di ritornare; so ch’egli vuole veder Napoli e Venezia: forse sarà facile l’accomodare le sue viste colle tue, frattanto io tratterò. Addio, caro eterno amico. La tua lontananza mi pesa, ma che giova l’amicizia d’un semplice epicureo incapace di aver due sensazioni per volta? Questa è la sola essenziale diversità da uomo a uomo: io li divido in tre classi. La più vasta è degl’imbecilli, che hanno varie ma scolorite e istabili sensazioni. La seconda è degli entusiasti, che sono colpiti da un solo oggetto fortemente: questi sono o pazzi o eroi o fanatici o poeti, tutti uomini d’immaginazione. La terza classe è de’ saggi, i quali vedono distintamente anche più oggetti in una volta e sanno con tra porre le probabilità a venire agli oggetti attualmente feritori de’ sensi. Per un eccesso di modestia io mi sento in quest’ultima classe, e mi pare d’esservi in tua compagnia. Io vi starò sempre bene e volontieri dovunque. Prendi un bacio, che ti darei pur volontieri. Amami, dolcissimo amico, e credi che né la rea né la buona fortuna cambieranno mai i rapporti che mi uniscono a te. Addio. PIETRO.

XXXII (15) Al Fratello. [Milano,] 13 Gennaro 1767

Primieramente ti saluto a nome del Sig.r Conte Reggente, il quale non ti risponde per non aggravarti la posta, ma è contentissimo della lunga lettera che gli hai scritta; questa è girata per le mani di molti Senatori e del Cardinale, e tutti gridano vivat, vivat novus doctor, qui tam bene scribit! È una bella contraddizione quella di gloriarsi del tuo viaggio, come fanno, e non mostrare nemmeno verecondia di non contribuirvi: ma sono animali d’una specie diversa e non misurabili con noi. Di più ho commissione di scriverti che, se persisti nella intenzione di correre la strada della Toga, v’è una nicchia iniziativa per te. Sai, come t’ho scritto nella lettera 12, che Pecci è Capo del Collegio Fiscale; egli è disposto a prenderti e farti lavorare da volontario sotto di lui: con quella strada in breve ti vedi passare sott’occhio gli affari del Milanese, ti fai un merito, ti disponi a non esser nuovo nell’ufficio e dopo qualche tempo puoi essere dichiarato Fiscale sopranumerario ed entrare poi in posto alla prima vacanza. Quest’idea è del Sig.r Conte Reggente, il quale desidera un riscontro per darlo a Pecci. Io credo che Pecci lo desideri ed è molto naturale: e credo che sa ressi contento di lui. Scrivimene dunque qualche cosa.

Lambertenghino ti avverte, ripassando da Parigi, di vedere le case del Re ne’ contorni, e Marli e Compiennes e simili, perché Beccaria fa cattiva figura non rispondendo a molti che su di ciò l’interrogano. A proposito di Beccaria, io non lo vedo più affatto: egli sta la sera colla sua cara metà, con Calderari, Odazzi, Visconti e i due suoi fratelli, e sento che si sia dato al partito di giuocare all’ombre. Vedi le belle opere ch’ei darà al pubblico e il bel contratto che gli ha fatto fare la moglie, la quale sempre più si conferma che è gravida.

Il Senator Castiglione è ammalato, ha fatto testamento in cui lascia tutore nostro Padre. Spero che guarirà. La Barbarina nostra nipote è in casa da più di due mesi: buona giovine, semplice, e che spero non sarà sacrificata in un monastero.

Il freddo è calmato un poco, però vari giorni l’abbiamo avuto di 5, 6 e anche 7 gradi sotto il gelo nel Termometro di Reaumur; alcune notti è stato a 8, a 9, e la notte del g[ior]no 7 è stato a 10 gradi sotto il gelo; sarà caduta a quest’ora neve dell’altezza di un buon piede e mezzo parigino: forse potrai far paragone della diversità de’ climi con queste notizie. Non ho ricevute tue nuove dopo la lettera scritta a nostro Padre del 19 dello scaduto; questo è imprescindibile nella lontananza in cui siamo e con di mezzo il mare e nella presente stagione. Le mie lettere le troverai regolarmente numerizate, onde se alcuna si perde puoi avvertirmelo, anzi te ne prego: poiché, avendo io le copie di tutto, se v’è cosa importante te la posso ridire.

Abbiamo di nuovo il Pricipe Ereditario di Brunswich, il quale onora la nostra metropoli per amore della bella Tedeschina che balla al Teatro. Il Principe alloggia dal Questor Castiglione; si ritira per tempo la notte nel suo appartamento, d’onde poco dopo esce un uomo vestito in frak che tacitamente scende le scale e s’accompagna con un servitore di piazza; poco discosta v’è una miserabile vettura che lo riceve e termina a casa della Tedeschina; verso le tredici ore la vettura ritorna per la stessa strada e il frak ritorna all’alloggio del Principe: e così si vive. Il Duca Regnante di Wittenberg è a Venezia, ha degl’imbrogli co’ suoi sudditi e frattanto sta in quelle caste Lagune con trenta concubine condotte seco; egli s’accosta un poco al Re fatto secondo il cuor di Dio. Addio, caro, non ho più tempo, sospiro tue nuove; amami, acconsenti al progetto che t’ho fatto ultimamente. Ricevi un abbraccio anche a nome de’ cari amici. Addio.

17 Gennaro

Sono inquieto perché mi mancano tue nuove: da nove giorni non ne ho ricevute; v’è il mare, v’è tanta neve fra noi due che di questi disordini ne dobbiamo soffrire. Aggiungo quelle poche nuove che vi sono del paese. Il Marchese Fagnani ha sposata la figlia Brusati dopo molti contrasti e discorsi che parevano voler annullare questo partito. Io mi sono creduto libero a confidare a Luisino l’occorso fra te e il nostro generoso, nobile e sublime filosofo; la [una parola cassata] confidenza ho fatta al Segr[etari]o Corti; persino le Cameriere della pudica moglie dicono ch’io sono un boggierato, nel che s’ingannano almeno dal passivo all’attivo. Birbe, feccia di birbe, puttane d’anima e di corpo tutte quante: amen. Io sono stato l’ultimo a disingannarmi sul conto di Beccaria; ma ho fatto come le nazioni più tenaci nell’errore, che, se si rischiarano, in un secolo illuminato fanno velocissimi progressi e profittano in poco dei vantaggi acquistati lentamente dalle altre. Addio quella filosofia, addio quella morale, addio quella imbecillità originaria che condensa tutto il vigore in una penna d’oca: dò la mia trina benedizione a tutto questo ammasso di cose e gliela dò papale e perpetua; persino il mio ritratto a olio che era da Beccaria, col pretesto di fame copia l’ho ritirato; non vi resta del mio cosa che mi dispiaccia che vi sia. Intimo e dolcissimo amico, tu hai veduto sempre il mio cuore quale egli è; tu sai se io, anche in quest’ultima epoca, sono stato amico di Beccaria e se, sin tanto che ho avuto speranza di ricondurlo alla ragione, te l’ho raccomandato con cuore e sentimento. Ecco il bel frutto che ne ricevo: quest’è la ricompensa del mio fanatismo per lui! Io ho il cuore tranquillo: s’egli lo ha del pari su quest’articolo, male per lui e per il suo carattere. La cabala è giunta a segno che la Visconti Saxis medesima è partigiana di Peppe, malcontento di vedere che I’Isimbaldi preferisca me a lui, e non si faranno più accademie di musica. Evviva, evviva! Costoro fanno la guerra con piccoli schioppotti di sambuco e gettan palle di stoppa che attizzano l’inimico; se la mia morale mi permettesse di farlo, io darei fuoco a pezzi d’artiglieria col far sapere i fatti che sono seguìti. Addio: perdonami i miei sfoghi ma, cazzo, non posso essere né prudente né misurato con te. Un mese fa io doveva consolarti, ora tu devi far meco quest’uffizio: è cambiata la nostra parte sullo stesso argomento. Addio, cara creatura. Ama il tuo eterno e sincero amico. Addio. PIETRO.

XXXIII (18) A Pietro. Londra, 21 Xbre 1766

Da questo lido alteramente bieco | Del temuto Albione, ove fremendo | E rompe e spuma e mugge il tempestoso | Vastissimo oceàno, | Che pallido sudor unqua non spreme | Dalla fronte superba | Del suo Monarca, l’anglico Piloto, | Vola, de’ sensi miei nuncio fedele, | Sull’ali d’Aquilon, foglio, deh vola | Del mio tenero Frate infra le mani! | Ingrati venti delle aduste spiagge, | Tacete, rispettate | Le sante voci di longinqui amici, | Ché santa è l’amicizia, e dove volve | L’immensa mole sua l’astro del fuoco, | E nei profondi abissi, e ovunque sia | Qualch’attomo di vita. | E voi, gelidi soffi | Del bianchissimo Nord, | All’agil legno il tergo percuotete | E di propizio fiato equabilmente | Empiete i vasti lini. Apra dell’acque | rapida prora il sen, e dietro lasci | D’ondose spume duo strisce fuggenti.

Facit indignatio versus. Il ritardo di ben tre successive poste cagionato da’ venti mi ha così fatto andare in collera che son divenuto Poeta. Oggi ricevo le due tue del 21 e 26 Decembre, che mi hanno positivamente ristorato.

Tu mi parli ancora di Beccaria. Io te ne ho detto tanto che non dirò più nulla. Ho cominciato a viaggiare, a vivere, a respirare quando fui solo. Gli amari bocconi di fiele e di veleno che ho tranguggiati per sua cagione mi lasceranno cattiva la bocca per tutto il tempo di mia vita. Lasciamo questo tristo soggetto di molte mie lettere. Sappiami per altro dire come vanno le cose rapporto a lui.

Ritengo le commissioni del fior di the, della essenza di rose, delle notizie de’ grani, e saranno eseguite il meglio che potrò.

La cambiale de’ 24 zecchini non potrà essere impiegata come pensi e la ragione di ciò l’avrai già veduta nelle antecedenti mie lettere. Comunque sia, tal som. ma o non sarà impiegata o lo sarà bene. Non mancano maniere di vantaggiosamente spenderla in mercanzie. Ti darò avviso dell’uso che penserò di fame a Parigi ed in qual genere convertirla sia opportuno. Non saranno certo buttati al vento. Per fermarmi un momento in questa materia di commercio, nella quale io soglio scaldarmi il capo maladettamente per poi dire e fare delle minchionerie, io ti dirò che basta fare un passeggio in Londra per aver voglia da spendere un milliaia di Luigi: tante sono le bellissime e ricchissime botteghe dappertutto risplendenti e fornite di infinite bigioterie e mercanzie d’ogni genere. Ho scoperto che il nostro Chinetti fa da qui venire i maggiori capi delle sue bigioterie, e questo di fatti è il paese delle fibbie, de’ bottoni, delle spade e d’ogni sorta di travaglio in metallo, che si lavora ad una indicibile perfezione. Né sono ad un prezzo altissimo per chi abbia buon corrispondente. Le manifatture si fanno ne’ borghi e terre de’ contorni di Londra, ove la mano d’opera non è tanto cara come qui. Basta provedere in essi Borghi e Terre queste merci, che si hanno ad un 30 per cento meno che in Londra. Conosco il corrispondente del Chinetti. È un Genevrino per cui ho avuto una lettera di raccomandazione. In oltre io sono alloggiato in casa di due Mercanti Fiorentini che mi sono divenuti amici. Così io posso dire di aver gettati in Londra i fundamenti di una futura negoziazione. Rimane da vedere su che essa debba cominciare o possa cominciare. Io crederei certam[en]te che in fibbie, bottoni, forbici, coltelli, rasoi e simili non si fallerebbe. Vi dirò che con quaranta soldi di nostra milanese moneta si compra un buon rasoio. Io ne ho comprati sei con due scudi di nostra valuta e sono certo de’ migliori. Quest’è un fatto costante. Si può spendere anche dieci volte più, ma la lama è la stessa, a un di presso, e la differenza consiste nel manico, il quale è di tartaruca o di altra simile materia di lusso; i miei hanno il manico semplicemente di osso nero. Onde chi paghi il ferro e non il manico non spende più di 40 soldi l’uno. lo gli ho presi al magazzino che li rivende agli altri mercanti di Londra. Vi dò un fatto. Voi informatemi che costino costì i rasoi inglesi. Questo potrebb’essere un oggetto. Un buon rasoio è desiderato da tutti. Pure, per adesso mi limito ad informarmi ed a vedere i generi del paese nelle infinite passeggiate ch’io faccio. Scoperto che abbia un capo opportuno di negozio, sarò sempre a tempo a darne qui la commissione e sarei servito bene e fedelmente, senza dubbio. Vi sono all’occasione cento piccole cose le quali sarebbero di spaccio. Per esempio adesso v’è un artefice che ha inventata una chiave d’orologio da tasca la quale segna il giorno e le fasi della luna. Ciò avviene perché ogni orologio da tasca si monta con sei giri della chiave, ed essa è fatta in guisa che ogni sei giri avvanza di un numero del mese, e così quanto alle fasi lunari. Tal chiave qui varrà circa 10 paoli; della moneta inglese sono 5 scellini. Questa bagatella potrebbe forse far guadagnare qualche zecchino. Sono sicuro che il Chinetti l’avrà fra poco e la venderà almeno due scudi. Ecco come fa danari.

Voi avete prese le parti di Rausseau come un filosofo di cuore le prende. Avete ragionissimo nel dire che vi sia contro di Lui una persecuzione filosofica. Io la credo così. Rausseau ha una religione. Questo è un delitto imperdonabile. Vi ho già scrìtto di ciò. Quanto poi al libro che contiene gli atti di questa letteraria scandalosissima causa, io l’ho, ma non lo leggo. Non mi curo di veder questa gran piaga della filosofia. Lo leggerò con comodo. A Parigi, poco prima che partissi, escì una magrissima Apologia di un incognito a favore di Rasseau. Bisogna che non sia quella d’Yverdun.

Fate egregiam[en]te di indirizzare le v[ost]re lettere a Bertina e Garbagni. Seguitate così. Vengo a me.

Ti ringrazio delle generose tue offerte. Non senza qualche lagrima di tenerezza mi ricordo de’ tuoi benefici e della disposizione tua a farmene sempre di nuovi. Per altro sono bastevolmente fornito. Se avessi bisogno, ho troppo confidenza in te per non aver coraggio di domandare. Tu sei mia moglie e sono come coloro che non sanno chiav … che sua moglie. Con te sono così a mon aise che sempre mi sento in pronto. Non ti faccio il torto di esser con te soverchiamente delicato. Ti ringrazio di quello che hai fatto e di quello che vorresti fare.

L’ultima mia è stata breve e ti ho posposto a mio Padre, a cui ho scritta una vastissima epistola, con disinvoltura e da viaggiatore contento, come avrai veduto. L’ho fatto per caricarlo sempre più di debiti. Non mancherà mai di mie lettere, spruzzate sempre da qualche affettuosa espressione. Quanto è amabile a mille miglia! e tu quanto lo sei daddovero a questa distanza, per un altro verso. Caro, a rivederci ed abbracciarci presto a Boffalora! allora io sarò colui qui mores hominum multorum vidit et urbes.

Non ti replicherò quanto ho scritto ultimamente a mio Padre. Ho lasciata aperta la lettera ed avrai potuto estrarla quasi tutta, perché ella poteva la maggior parte indirizzarsi anche a te. Ti sono tanto obbligato che registri quanto scrivo. Avrò un gusto squisitissimo a leggerlo nella calda stuffa del sacro asilo di codesta tua sospirata camera. Vedrai poi anche le confuse e stravaganti mie note di viaggio da Milano a Parigi e da Parigi a Londra. Alla sera ed al pranzo scrissi sempre tutto; ho rapidamente fatta qualche riflessione, ma il più consiste nel dipingere di mano in mano lo stato dell’animo mio quand’era tranquillo, quando contento, quando m’annoiavo, per vedere poi me stesso allorché sarà finita tutta questa peregrinazione. In tal guisa io da soprafino Aristippo ho fatto servire le mie stesse noie a piaceri futuri. Mi compiacerò di rimirarmi come in uno specchio poiché sarò costì, e mi compiacerò di farti vedere in quale stato d’animo mi ritrovavo nella tale e nella tale situazione.

Qui è verissimo che nessuno parla mai di religione. A Parigi questo succede sino alla noia. In Londra il Quachero, l’Anabatista, l’Anglicano, il Metodista, il Cattolico, il Greco Scismatico, il Protestante va a due ore dopo il mezzo giorno alla borsa col suo frac, seriamente, fa i suoi negozi e ritorna pacificamente a casa, va alla chiesa, ecc., non si chiama mai di che setta sia un tale. Io credo che la freddezza inglese non tanto dipenda dal clima, quanto propriamente perché molte verità qui sono già gittate dietro le spalle. In Parigi v’è un grandissimo entusiasmo di Filosofia, un grandissimo calore di animo perché la Filosofia e le sue verità sono perseguitate: ciò forma un urto ed un fermento strepitoso, lo spirito umano è in rivoluzione e nelle rivoluzioni si sviluppano e si mostrano le grandi qualità, e l’uomo grande diventa grandissimo: in tutto è fuoco di filosofia, tutto è sublime, le passioni hanno, per lo contrasto, una grande elasticità. Ma in Londra chi può scaldarsi il sangue? Volete creder nulla? Siete padrone. Volete creder poco? Siete padrone. Volete credere nella tal maniera? Siete padrone. Volete fare una Setta? Siete padrone. Volete dire che il Re è un c…? Siete padronissimo. Il mio Servitore lo dice cento volte il giorno. In somma qui la libertà, non soffrendo l’incitamento degli ostacoli, è tranquillissima. Non v’è minchione che non possa stampare il suo savio sentimento su tutto, ed una truppa di Scozzesi scrittori di fogli non fanno altro tutto il giorno che di cogl…are il governo e la Corte. Dopo di ciò, che gusto avvanza per chi abbia delle passioni? Chi ha sete in una cantina di vino? Chi non si sazia delle donne vivendo in un bordello? Io, che ho tanto gusto, quando sono a Milano, a burlarmi un poco del Senato e de’ Magistrati ecc., qui non ne ho alcuno. È lo stesso che parlare della pioggia e del bel tempo. Nitimur in vetitum. Oltre di queste cagioni della freddezza inglese trovo anche questa, che veramente alcune verità qui sono comuni, sicché non formano più oggetto di sorpresa o di entusiasmo. La tolleranza delle opinioni, che nella filosofia fa tanto rumore, qui è una verità che sanno tutt’i facchini, ed è massima di governo. Ogni Inglese sa questa altrove sublime ma qui trivialissima verità: che, per esser libero, il cittadino bisogna che sia suddito non dell’uomo, ma della legge; perciò ogni Inglese dice il mio Sovrano è la legge; e, per conoscere se una azione è lecita, chiama v’è egli una legge che la proibisca? Se non v’è legge con chiude che la può fare, ed è così secondo il sistema. Queste due massime cardinali e grandissime qui sono volgari. Esse suppongono molte altre verità che qui sono egualmente comuni. Tacerò gli oggetti della politica e del commercio, che qui sono notissimi. Dopo di ciò come volete che vi sia grande entusiasmo per il vero, se il possesso del vero è tranquillo, se libero e non proibito è l’acquisto?

Sono stato alla Chiesa de’ Quaqueri. È una stanza non grande ove stanno seriamente seduti, gli uomini divisi dalle donne, taciti e quasi dormienti, aspettando l’affiato dello Spirito Santo. Egli per lo più si degna di visitare i vecchi e massimamente le vecchie: difficilmente è ispirato un robusto e sano giovane od una bella ragazza. Vedresti l’inspirato, prima di parlare la voce di Dio, oscillare e come fremere sulla sua banca, finalmente alzarsi e, d’un tuono piangente e nasale, far la sua predica. Tutti si alzano e stanno raccolti ad ascoltarlo.

Sono stato ad una Chiesa del rito Anglicano. Due o tre Preti propongono de’ salmi da cantare. V’è l’organo, ed il canto è sovente a voce così dimessa e divota e d’una cotanto sacra armonia che inspira propriamente la compunzione.

Vado sovvente al Teatro. Ho vedute varie tragedie. Non hanno gli abiti di costume. Il Greco, il Romano, il Perso si veste come all’antica forma italiana: un piccolo giubbone e sopra un mantelletto che non passa la metà della coscia; in capo un cappello alla spagnuola con piuma; alle scarpe, che sono della stoffa del vestito, al luogo della fibbia un nastro. Non v’è nobiltà di espressione. Se devono abbracciarsi teneramente due amici, si abbracciano da facchini, prendendosi l’un l’altro a traverso del corpo con grandissima forza; se devono fare una invettiva gridano come disperati, fremono co’ piedi, si percuotono il petto. Nello stesso tempo che si mostrano così delicati, gl’Inglesi, che non soffrono di veder il suggeritore o peggio di sentirlo cosicché o non ne hanno od hanno alcuno nascosto fra le scene -, nello stesso tempo, dico, si sente ad ogni tratto suonare il campanello, non solo per le mutazioni di scena ma ancora per chiamare un attore che sia pronto. Niente più distrugge l’illusione. In mezzo di una scena interessante sentite un colpo di campanello che v’annuncia come un attore sta per escire. Ecco tolta la sorpresa e caduto l’interesse. Sono affatto barbari in paragone de’ Francesi. Dove sono o eguali o forse superiori, a mio credere, è nella commedia. L’Inglese ha un ridicolo più marcato e profondo che non il francese, forse troppo delicato e metafisico in ciò. Ho veduta qualche scena di commedia inglese in vero d’un ridicolo e d’un comico sommo. Di fatti, osservate le tante carte inglesi di figure strane e ridicole e paragonatele a quelle del così famoso Calot. Ebbene: è lo stesso il vedere quelle carte che le commedie e le pantomime inglesi. Il comico inglese è più in massa. lo incontro per le strade, esposti nelle botteghe, dei rami che mi farebbero ridere dei giorni intieri sino alla esaminizione, certe figuracce, certi costumi così matti, tanto ridicoli, condensati in uno, che non si possono vedere pitture più allegre al mondo. Qui avrei da imparare nel mio genere di caricature. Torniamo al Teatro Tragico. Una gran prova della sua mediocrità è che gl’Inglesi istessi se ne interessano poco. Non succede come a Parigi di sentire né meno un respiro quasi tutta la tragedia, ed in certe scene di sentire i singhiozzi di chi piange, ed alla fine d’ogni atto, quando si leva un momento in piedi, di vedere le lagrime quasi su gli occhi di tutti; vi vogliono dei Corneile e dei Voltaire a far questi prodigi, e poi vi vogliono degli attori di gran scuola, come in Francia. Qui in Londra non si vede umido l’occhio che di qualche tenera ragazza: gli austeri Milordi se ne stanno con i loro marmorei visi, imperturbabilmente prestando la presenza del rispettivo individuo allo spettacolo, sbadigliando sovente e facendo nell’entrare ne’ palchi strepito grandissimo per abbassare quella porzion di sedile che, corrispondendo alla entrata, sta rivolta con una specie di cerniera. Entrano nel palco e con un brusco colpo, sia pur la scena più interessante, fanno rumoreggiare tutto il Teatro.

Ho veduto il Museo pubblico. Egli è della nazione. Consiste in una mediocre libraria, in una vastissima raccolta di manoscritti, di conchiglie, minerali, animali, ecc., tutto ciò in somma che forma un compitissimo gabinetto di Storia naturale, e questo è creduto il più bello de’ conosciuti. Vi ho rimarcato l’Orangoutan. Egli non è più grande che una Scimia delle solite. Vi ho rimarcato il Paresseu: egli è nello spirito di vino, in un vaso di vetro. Non è più grande di un gattino; vi ho rimarcato un grandissimo Cocodrillo di vent’uno piedi di lunghezza, e grosso in proporzione. È un maladettissimo Lucerto[lo]ne.

Sono stato ad una piccola antica fortezza di Londra che si chiama la Torre. Vi è l’arsenale di terra, ove si possono al momento armare cento mila uomini; vi è l’arsenale di mare, che non si lascia vedere. In quello di terra si ritrovano molti cannoni, fra i quali uno sterminatissimo di ferro, fatto in Iscozia. È celebre questa gran macchina per una anecdota, e questa è che un uomo chiavò una donna dentro di lui: ciò prova tanto la industria ed il vigore di quel tale uomo, quanto la vastità della bocca e la mole del cannone. Vi sono in oltre in questo arsenale vari Re a cavallo, fra i quali Henrico 8°: essi tutti sono armati di ferro da capo a piè; quando chi fa vedere tutte queste cose arrivava ad Enrico 8°, se v’erano delle donne lor diceva ch’era tempo di cangiar le spille, lo che detto alzava la cazziera di S. M. Enrico 8° e si mostrava tanto di membro difensor della fede. È poco tempo che fu levata così augusta ed edificante sorpresa. Vicino alla Torre si ritrova un seraglio di Lioni, Tigri, Pantere, Liene e tale cattiva compagnia. Il Lione che rugge fa orrore. La Liena è a vedersi d’una ferocia e di una voracità che fa ribrezzo. Nelle stalle della regina si ritrovano due miei cari amici Elefanti, buonissime creature. Vi è altresì un bellissimo Asino selvatico delle Indie Orientali, detto Zebra. È grande come un asino grosso. Il suo pelo è bianco fondo, rigato a color castagna oscuro. Se ne può vedere in Buffon la figura. Capisco come Omero chiami talvolta un eroe bello come un asino. Non si è potuto mai disciplinarlo a portare sul dorso un uomo. Se ciò si potesse fare sarebbe una bella cosa.

Non trovo nessuna usanza contraria alla libertà inglese che la sforzata recluta de’ Matelotti che si ordina in tempo di guerra, quando ve ne manchi. Pure anche in ciò v’è un’ombra di libertà. Se colui che viene così sforzato ammazzasse quello che gli fa violenza andrebbe impunito, e ciò perché non v’è legge positiva di far queste forzose reclute. È risguardato l’ingagiatore in tal caso come un nemico da cui è lecito diffendersi vim vi. A tal fine sono ben pagati, questi plagiari d’uomini: hanno quattro ghinee per preda: fanno più di otto zecchini.

Quanto si disse un pezzo fa delle rote de’ carri è vero. Esse sono triplicatamente più larghe delle ordinarie. Ne vedo tutt’i giorni una gran quantità. Con tutto ciò le strade di Londra sono pessime. Sono pavimentate di grossi ed ineguali sassi. A piedi si va benissimo. V’è da per tutto un magnifico marciapiedi di vivo sasso. Di notte Londra è bellissima. Illuminata con profusione e popolata di bellissime figlie. Vi assaltano alla strada, talvolta mezzo ubriache di punc, e col pretesto di vezzeggiare vi rubbano l’orologio, la borsa, il fazzoletto ecc., e così si vive. Ti abbraccio e ti bacio. Addio. Saluta gli amici tutti. Cavaliere, addio. ALESSANDRO.

XXXIV (19) A Pietro. Londra, 25 Xbre 1766

Io sto bene; sempre più contento di Londra, perché faccio una vita che rassomiglia assai a quella che facevo costì: la mattina gran passeggiate, vedere le cose del paese, qualche visita, qualche piccola spesa; poi a casa, a pranzo co’ miei ospiti, buonissima gente; poi andavo a Teatro, ma non intendendo me n’è passato presto il gusto, onde ora o faccio, raramente, qualche visita, o il più sovente faccio un passeggio per la città, ch’essendo tutta benissimo illuminata, e nel quartiere ove sto popolata di figlie, mi offre uno spettacolo agradevole quanto mai. Passeggio di spesso con uno de’ fratelli Molini, miei ospiti, il quale porta l’ospitalità sino a procurarmi tutto ciò ch’è necessario a 25 anni. Quindi ritorno a casa, scrivo, leggo tranquillamente. Una occhiata sola che dia fuori della finestra mi consola. Veggo una gran strada che d’ambe le parti è illuminata di risplendenti lanterne; veggo, se è l’ora che finisce il teatro qui vicino, fiacher, carrozze, fighe e uomini, torce a vento, portantine, tutto in mucchio, al che aggiugni uno strepito proporzionato a tutto questo tumulto di cose.

Questo tenore di vita mi accomoda assai, né in Londra si può farne altra: non v’è Società se non se fra i ministri forastieri qui residenti e qualche altro forastiero che qui si ritrovi. Ma questa Società non mi accomoda gran fatto. Fui a pranzo dal nostro Ambasciatore Conte Seilder e, quantunque vi sia stato bene anche per il mio amor proprio, perché è facile brillare, venendo da Parigi, fra i Tedeschi e gl’Inglesi, pure il tuono non è quello che mi piaccia. Vi tornerò a prenderne il mio passaporto per Parigi, tanto per viaggiare sotto la tutela del diritto delle genti. L’Ambasciatrice è una buonissima Signora. Ne giudico freddamente perché è vecchia. Ma è una donna che mi piace, di un carattere dolce ed obbligante. Vado qualche volta dal Marchese Caraccioli, Ambasciatore di Napoli, uomo che ha nelle vene la lava come tutti que’ di sua nazione, ed oltre a ciò uomo di vero merito e cuore, per quanto in poche visite ne posso giudicare. Frisi gli ha scritto cento cose di me e la sua amicizia gli ha dettate tante lodi che mi ha posto nella sempre incomoda situazione di esser letterato e, quello che è più, uomo di spirito. Gli ha scritto che sono profondo nella erudita Giurisprudenza, che godo molta stima nella mia Patria, che ho stampate delle cose molto applaudite e che ho sotto il torchio un’opera interessante. Dopo tutto ciò mi pare di presentarmi a un cannone di sessanta a presentarmi al Sig.r Marchese Caraccioli. Egli è assai vivo, benché vecchio, e vuol parlare sempre Lui e, se non sono troppo maligno, non è gran fatto disposto a lasciar brillare un giovane che sospetta aver la testa troppo piena. Sono stato a pranzo da Lui; gli ho fatta qualche visita, ma non mi pare che si scaldi molto per me come Frisio mi prometteva. Avevo varie lettere per alcuni Milordi. Essi sono sempiternamente fuori di casa. Le ho lasciate: nessuno compare. Peggio per loro. Gl’Inglesi sono già discreditati quanto alla ospitalità. Non so perdonar loro di essere così ingrati con noi. Ricevono cento finezze in Italia, un Inglese è festeggiato, è accarezzato, e qui un forastiere è l’ultima delle loro cure. Fino i visi di costoro che qui vedo in frak passeggiare le strade sono diversi da quando vengono in Italia. Ho qui vedute delle fisonomie che mi sovvengo aver vedute a Milano, ove erano pure umane ed aventi qualche tratto di urbanità e di dolcezza, ed esse in Londra sono tutt’altre: dure, orsine, triste e brutali. Quando gl’Inglesi sbarcano a Douvre tornano sì fattamente Inglesi che non sono più quelli ch’erano a Parigi ed in Italia. Tutte queste ragioni fanno ch’io abbia scelta quella specie di tranquilla solitudine in cui mi ritrovo, che è conforme al mio naturale, ed a cui sono ridotti quasi tutti i forastieri che qui vengono. A Parigi mi minacciavano che avrei avuta la tentazione almeno una volta d’impiccarmi a Londra: ma essi non sanno il mio umore. Se questa solitudine m’impedisse di vedere e di conoscere il paese, io l’abbandonerei; ma tanto dimoro qui con profitto stando ritirato, come se fossi ad annoiarmi in qualche assamblea dove si gioca e si sbadiglia ecc., e dove è difficilissimo di potere avere accesso.

Ho assistito ad una Sessione della Società Reale delle Scienze. Bisognava vedere anche questo tribunale della Sapienza umana, come ho veduto quello di Parigi e come qui ho veduti i Lioni, il Zebra, gli Elefanti e Sua Maestà. Questa Società, benché si chiami Reale, non ha gran protezzione dal Re. Sono alcuni particolari che, spinti dall’amor delle Scienze, pagano ciascuno tanto del loro per le comuni spese di quanto occorre per l’in trattenimento d’una Accademia. Era indirizzato al Dottore Morton, ch’è un Accademico. Egli m’invitò a pranzare co’ Soci il giorno della Sessione. M’aspettavo un buon pranzo dal Presidente. Signor no. Il Dottore mi condusse ad una Taverna, ove venne il Presidente e li Sig.ri Accademici; si pranzò, si fecero un mondo di brindisi al Sig.r Presidente ed al Sig.r Conte Verri, il quale ne fece altrettanti a tutta la compagnia, si mangiò, si bevé, si parlò, non si rise mai – com’è giusto che si faccia in Inghilterra –, e poi alla fine della tavola il garzone della Taverna andò in giro con un piatto a fare pagare a ciascuno la sua porzione, ed il Sig.r Conte Verri, ch’era innocente come Metello e che avea avuti tanti brindisi, pagò come gli altri i suoi bravi tre schellini e mezzo, costituenti la somma di sette paoli romani. Così si visse in Inghilterra l’anno del Signore 1766, lo mese de Dicembre. Tale è qui l’uso e così s’invitano a pranzo i forastieri: e se uno in Italia avesse avuta la libertà di empiere tutti i ventricoli degli Inglesi, venendo qui non avrebbe altra accoglienza. Codesto Sig.r Conte di Firmian, che ha tanta tenerezza per gl’Inglesi e che tanto gli accarezza quando gliene capitano, se facesse una passeggiata qui io son sicuro che partirebbe molto disgustato. Ho adunque veduta la Sessione, e l’ho veramente veduta perché le memorie che si lessero erano in Inglese. Per altro anche questa Sessione ha la semplicità inglese. A Parigi è una vasta sala con un vastissimo tavolone: qui è una piccola camera con tre sedie ed un piccolo tavolo. In mezzo sta il Presidente, dalle parti credo due segretari. Tutto consiste in ciò. Vi sono due dozzine di persone che stanno presenti e che al solito dormono almeno la metà. Il ritratto del gran Neutono è in questa camera immediatam[en]te alla sinistra della porta entrando.

Mi sono informato dal Dottore Morton perché Boscovik fosse chiamato e come. Egli mi assicura, e gli credo, che la società lo ha scelto pel suo merito e che lo ha fatto prima interpellare, e che ciò è l’effetto di essersi fatti molti amici dell’Accademia quand’era qui. lo l’ho confessato bene e tale è il risultato della mia conversazione con Lui. Saluta i cari amici. T’abbraccio. Ti scriverò tutti gli ordinari. Da qui a quattro giorni ti torno a scrivere. Addio. Addio. Il tuo ALESSANDRO.

XXXV (20) A Pietro. 29 Xbre 1766, Londra

Rispondo alla cara tua dei 3 corrente, che è la undecima, come vedo essere segnata, e che mi prova che nessuna delle tue mi manca. Io sto benissimo. Il soggiorno di Londra mi piace sempre più ed a conti fatti spendo meno che a Parigi. Tutto è caro del quadruplo d’Italia, ma non vi essendo né lusso né vita brillante si spende poco, né più né meno. Penso di essere a Parigi alla metà del venturo Gen[naio]. La maladetta vita che vi ho fatta a cagione dell’altissimo soggetto di mie eterne querele mi ha fatta concepire una spezie di antipatia per quel Paese, sicché stento a distaccarmi da Londra. Londra affumicata e trista, ma libera, ma fatta pel soggiorno d’un mezzo misantropo qual io mi sono.

Mi ha toccato il cuore l’avventura del Priore di S.t Ambrogio. Il fratello Abate come l’ha sentita e che fa? Io, che so amare i fratelli, ne prendo una parte grandissima. Anche questa è una funesta prova che dovrebbe ormai convincere che si devono illuminare le strade in tutte le grandi città e che vi devono essere delle guardie e che, in somma, vi vuole police dove sono condensati molti migliaia d’uomini. Quei bricconi o sono del convento, e dopo il fatto non avrebbero potuto fuggire carichi di preda, o sono esteri, e non avrebbero potuto dar l’assalto alla porta senz’esser veduti, tutto ciò se si volesse spendere un paolo all’anno per testa. Ma il paolo è certo e le disgrazie sono incerte, dicono costoro, e così si lascia andare il mondo di per sé. Su questo punto non so darmi pace ed a costo di passare per un cattivo cittadino voglio dire il mio parere su di ciò quando farò il mio solenne ingresso in codesta alma capitale, che a mille miglia io detesto ancora di tutto il mio cuore. La mia Patria è dov’è Pietro. Vieni qui, vieni a Parigi, vieni sulla cima del monte Senis: tutte queste saranno mie Patrie e vi starò benissimo. Te lo dico di cuore, perché così sento.

Buono, buonissimo! La Milanese Oligarchia sta per ricevere l’ultimo tracollo a cagione della troppo apertamente bestiale condotta di codesti poco accorti Marii, Coriolani e Pompei: buono, buonissimo! È ormai tempo che invece di tanti piccoli aspidi vi sia un gran Cocodrillo. Io sono per il gran Cocodrillo. O dispotismo, o libertà. Niente di mezzo. Andiamo a questo stato di gran galoppo, e per me dò una frustata perché si vada più presto che si può. Non temo nulla, egualmente che tu, di questa nuova e ridicola congiura. Possibile che la mano di Dio sia cotanto pesante sul capo di questi patrizi, che abbiano perduto il cervello? è possibile che i peccati loro abbiano così offuscata la bella mente, che in un affare della estrema destrezza, in un affare ove vi vorrebbero i più accorti e fini uomini, abbiano scelto due bestie? Ma chi sono queste due bestie? Desidero saperlo. Bisogna ben essere nativo del tanto celebre Cordusio e del famosissimo Verzé per arrivare a tal segno di perfezione nel maneggio degli affari.

Tu mi hai consolato col prendere parte nella mia passione. N’ero sicuro e lo merito. Ti stupisci e dubiti che la condotta di Beccaria verso di me non sia stata precisamente così? trovi nuovo nel suo carattere la gelosia letteraria e tutti gl’ignominiosi di lei effetti? Credi che la passione m’ingrandisca i suoi torti? Amico adorabile: questa gelosia è già da qualche tempo conosciuta, per rapporto a me massimamente. Tu sai quanti torti egli ha con me, già da più di un anno, su questo punto. Tu sai il tratto che mi fece ultimamente, di dissimulare il merito del mio Commentariolo, per tacere di altri simili tratti. E poi, quanto alla dissimulazione letteraria, non riceveva egli a Parigi le lodi che venivano date all’Apologia della sua opera senza mai darne alcun pregio a te ed a me, che ne siamo i veri autori? Di cento volte ch’io ho sentito a lodargliela in mia presenza, una sola volta l’ho sentito dire: bisogna che confessi che i miei amici mi hanno aiutato a farla. E perché l’ha detto? perché le lodi crescevano a dismisura, ed io era in circolo e tacevo ed era faccia a faccia con Lui, ed egli lasciò scappare che l’Apologia l’ebbe fatta in soli cinque giorni. Onde allora fu come sforzato, e dalla mia presenza e dalla brevità del tempo, a far questa dichiarazione. Oltre di che, la conversazione aggirandosi caldamente sull’esaltare questa Apologia, ei non poteva dir meno, me presente. Ma l’uomo buono, quanto egli è aparentemente buono, avrebbe fatto tutt’altro; mi avrebbe nominato come uno degli autori, e te massimamente, ed avrebbe per fine data la gloria di chi è. lo non dico ch’ei dovesse esporre le cedole in Parigi ed avvertire il pubblico di quest’anecdota, ma dico che nessun uomo sincero avrebbe potuto soffrire di fare in tal guisa l’Arlichino Principe e di ricevere brillantemente i plausi delle altrui fatiche. Questo era un tratto necessario, me presente: od almeno bisognava, quand’era meco a casa, parlarmi di ciò ed in certo modo chiedere dalla mia amicizia questo sagrifizio, e compensarmene alle occasioni col cercare di rivolgere per altre parti su di me gli sguardi di que’ Filosofi: nel che egli non ha fatta gran fatica. Vi sono cento maniere, conosciute da chi ha l’animo delicato, di accomodare tutti gli amor propri in simili congiunture. Ma Beccaria non vede che il suo. Io positivamente ho cominciato ad essere conosciuto gli ultimi giorni, perché il mio saggio su Giustiniano era stato letto da pochi. Que’ pochi mi stimano, ma gli altri non mi potevano stimare che per onest’uomo, e ragionevole tutt’al più. Beccaria brillava, Beccaria era ascoltato, Beccaria era di moda, come tutto suol essere a Parigi, ove si va agli estremi, ed il meschino Verri era in un canto, tacito e non curato. E Beccaria, riposto in questa situazione, talvolta, al dopo pranzo, non senza qualche allegria di vino (ch’io ben lo conosco), qual risguardo avea per me, il quale l’ho portato sulle mie spalle da Torino a Parigi? Nessuno. Si abbandonava, al suo solito, alla gloria, alla bella conversazione, maladetta quella volta che mi dasse campo di parlare, e tirava di lungo. A casa poi soffrivo il restante per un altro verso. Qui non v’è da farsi illusione. Io ho sempre creduto Beccaria un uomo di gran merito, di gran difetti e di qualche vizio: l’ho detto e lo ridico. Ed in quanto alla letteratura, verso di me ha dei tratti ch’io ho chiamati e chiamo vizi, veri e reali. Non v’è bisogno di congetture. I fatti lo provano. Non vi ho io scritto ch’egli stesso me lo disse a Parigi, ch’era geloso di me, quando mi dolsi perché destramente un giorno m’abbia troncata la conversazione che s’aggirava sul dritto-criminale? Questo è un fatto, e non sta in nessun conto d’accordo colla morale, non che colla amicizia e colla gratitudine. Il carattere di quest’uomo l’ho scritto son già quattro anni. Voi lo sapete. Non mi sono mutato di parere. Ora è accaduto che l’incomodità de’ suoi difetti e de’ suoi vizi io l’ho sentita vivamente: ne parlo perciò vivamente, ma in fondo io lo definisco come l’ho sempre definito. Può essere che il tempo, come ha fatto cadere il Colasse o e Persepolis, scemi anco in me la vivacità con cui sento i suoi torti; ma ciò è certo, che la lunga e funesta esperienza di già più di due anni e l’ultima più d’ogni altrami ha geometricamente dimostrato che non siamo fatti per esser amici. I buoni uffici di voi, che vorreste portar la pace da per tutto, potranno mettere un dito di cenere su questo fuoco, ma il fuoco vi sarà sempre. Io questa verità la vedo, come vedo questa carta su cui scrivo e come vedo la vostra cara immagine qui presente alla mia mente. Voi credete di difendere Beccaria col dire che il suo male è organico e che si chiama mal del Paese. So che v’è questo male, e l’ho detto io stesso a Lui. Ne troverete anca un articolo nel Dizionario di Sanità, se ben mi ricordo. Ma, amico, i vizi tutti si riducono all’organico, né la necessità delle azioni scusa, in filosofia come in teologia. Oltrediché io l’ho compianto quando vedevo in Lui un amalato, ma non quando ho veduto il geloso di spirito, l’ingrato, il feroce, il dissimulato: lo che non è punto mal del paese, ma mal di cuore. Caro Amico, scusa la vivacità con cui scrivo, ma credimi, che quando ripiglio quest’argomento mi si affaccia alla memoria una serie di sensazioni le più disagradevoli ch’io abbia giammai provate, e che tutte le piaghe del mio cuore stillano sangue e mi dolgono acerbamente. Se mi fossi meno amico non ti scriverei con questa franchezza. Voglio che ti paia piuttosto di vedermi e di ascoltarmi che di leggermi. Lasciamo quest’argomento su cui scriverei senza fine. Rispondo ad altri capi della tua lettera.

Quanto alle tue commissioni. Il fior di the qui non è stimato né in uso, né alcuno mi dice che si usi sulle navi. Ciò è sicuro, che il the in Londra è in uso come l’acqua da noi e che se ne beve più volte il giorno da ognuno. Si stima il the delle Indie, io credo, il quale viene dalla parte della Moscovia. Un servitore del nostro Ambasciatore Mercy me ne ha offerto a Parigi una boetta che sarà, io credo, forse una libra, e voleva un Luigi. Era del vero, perché Mercy viene da Pietroburgo: era eccellentissimo, ma anche un Luigi è eccellentissimo.

L’essenza di rose di Persia, per le informazioni che ho prese, è rarissima e carissima.

Quanto ai Grani, ecco ciò che mi ha detto un mercante di Grani. Il sistema è una totale libertà di esportazione cominciato col famoso atto di gratificazione che voi sapete. La gratificazione sono 5 schellini per quartiere. Il quartiere sarà circa tre moggia dei nostri, perché mi si dice ch’egli è il vitto annuo di un uomo, pesa 480 libre. 5 schellini sono 10 paoli romani. Quando il prezzo del grano arriva a 48 schellini il quartiere cessa la gratificazione, ma la libertà della estrazione continua. Quando poi il prezzo è altissimo, e che il paese scarseggia di grano, suole il governo chiudere affatto le porte, come attualmente accade. Presentemente l’estrazione è proibita sino a tutto Marzo e si sono fatti scaricare i vascelli ch’erano in Porto pronti a far vela. È altresì presentemente permessa la importazione de’ grani forastieri, lo che è proibito per sistema. Questa proibizione di esportare, come attualmente, è succeduta altre volte, né muta il fondo del sistema. Negli ultimi vent’anni questa sarà la terza volta che ciò accade. Hanno adunque torto codesti Gazzettieri di gracchiare com’essi fanno. Questa primavera, se la campagna si mette bene, vi sarà libertà e gratificazione come prima. Non v’è nessuna mutazion di princìpi. Ecco quanto io so. Fin ora non m’è riuscito di avere la precisa esportazione de’ grani, ma fra poco mi lusingo di averla. Il Parlamento ordina di tempo [in tempo] che le sia presentata. Niente di più facile, perché nessuno sfrosa la dogana, essendavi la gratificazione: così tutto è registrato sino alla ultima grana. Attualmente il Parlamento ha dato ordine che si faccia lo stralcio dei registri e che si presenti lo stato della esportazione. Forse fra pochi giorni lo vedrò stampato in sei gran fogli pubblici che sortono ogni giorno. Altrimenti cercherò altrove d’informarmi.

Quando sarò a Parigi sarete servito per rapporto a quel Regno.

Ho ricevuta la cambiale de’ 24 zecchini. Ho fatta una risoluzione, e bisogna farla perché a Londra non si va più d’una volta in vita. Non abbiate paura del mio calar di testa nel commercio. Ho risolto di fare così. Convertirò questi danari in rasoi, forbici, fibbie di metallo e qualche altra chincaglieria. Se ci perderete bisogna che ci perdano tanti centinaia che fanno questo commercio per l’Italia, come è evidente e come so di certo, e ve la prenderete con me. Ma qui è d’uopo rompere il giaccio. Vi imbarco qui una cassettina di queste merci che vi giungerà da Genova fra due mesi tutt’al più. Ho già comprati de’ buoni rasoi a 16 schellini la dozzina, che fa il prezzo ciascuno di soldi quaranta, moneta di Milano. Ne ho comprati degli altri assai più fini e di acciaro gittato, che sono i migliori, lucidi come uno specchio, col manico di tartaruca, costano schellini 30 la dozzina, lo che fa il prezzo di mezzo filippo di Milano per cadauno. Questi sono veramente buoni e magnifici. Gli vedrete con gran piacere. Ho comprata una dozzina di forbici veramente belle e buone al prezzo di 20 schellini, lo che fa ciascuna soldi cinquanta milanesi. Trovereste anca dei rasoi a quattro schellini la dozzina, che sono paoli 8, ma essi sono buoni per gli Americani, dove si mandano; così anca le forbici potrebbero valere molto meno, ma voglio star di mezzo fra i prezzi sublimi e gl’inferiori. Malgrado il gran denaro del paese, queste robe, come vedete, non sono carissime, perché si lavorano alla campagna; altronde io le compro ai magazzini che vendono all’ingrosso e passo per commissioniere, ed in tal caso fanno agevolezza per non perdere la posta. Sono assistito dal mio Servitore Interprete che è molto al fatto di queste facende, e quegli a’ quali ho fatto vedere le mie compre tutti dicono che sono a buon prezzo. Veramente quando si compra all’ingrosso difficilmente gl’Inglesi ingannano chichesia, perché ben vedono che per un piccolo guadagno perdono un buon aventore. Adunque Lei si lasci ruinare per questa volta, che tutti i suoi 24 zecchini hanno da diventare tanto ferro e tanto prencisbecco. Ti manderò anche due nuove invenzioni del paese. L’una è la chiave dell’orologio di cui ti ho ultimamente parlato; l’altra è una forma di cavaturacciolo di bottiglia con cui con somma facilità si tira qualunque conficatissimo turacciolo. Te ne manderò un paio ciascheduno, nulla di più. Così di giorno in giorno anderò formando la cassetta, scorrendo Londra da tutte le parti. Ho poi gettati degli altri semi. Il mio Padrone di casa e, se potrò, il corrispondente del Chinetti, saranno qui i miei corrispondenti. Ho quasi convenuto col mio ospite Molini (anzi due, perché sono due fratelli) di mandar loro del formaggio parmigiano, de’ stracchini e de’ nostri salcicciotti, se resisteranno fin qui. Questo negozio potrebbe andare avanti, come tu vedi. Vi sono poi degli altri capi di negoziazione di progetto, de’ quali prenderò i più distinti ragguagli per mio contegno in caso che convengano. È bene aver veduta Londra, aver riverito il Marchese tale ed il Conte tale, ma è meglio aver preparato un negozio, in un paese che ne fa venir voglia più che ogni altro. Basta: vedremo. Intanto tieni per sicuro che almeno almeno, alla peggio, i tuoi 24 zecchini ti torneranno in borsa: sarebbe la peggio davvero e mi pare impossibile questo caso. Ma le brutte figure che ho fatte ne’ miei poveri zuccheri mi hanno reso timido anche troppo. Bisogna essere insensibile per non risolversi a comprare merci di acciaro e di metallo in Londra, che n’è piena da per tutto. So di molti altri che vengono qui, che ne fanno compre grandissime; ed in Italia, donde vengono i stagni e la più gran parte delle chincaglierie, se non da qui? Ciò è sicurissimo. Dunque, facciamo quello che fanno tanti altri con gran profitto. Voi avrete il vantaggio questa volta di non pagar provisione.

Tu mi hai chiamato più volte che pensi Morellet della tua opera ed io per innavertenza non ti ho mai risposto, perché aspetto che lo proferisca. Beccaria ti avrà già messo al fatto di ciò. Onde me ne rapporto a lui.

Dopo che sono partito da Milano, in tutte le tue lettere v’è sempre quest’antifona: vengo da Gessate; vado a Gessate. Come va questa faccenda? che bricconata! Oh, poveri assenti! ma te la perdono; credimi che né a Parigi né a Londra è possibile di avere gelosia o profondi sentimenti in amore: il libertinaggio, in ambi cadesti oceani di uomini, è un gran vortice che impetuosamente strascina seco la gioventù e le offre più piaceri che non possa aver desideri. Massimamente qui in Londra l’essere più abietto è la donna. Ne ho incontrate, la sera per istrada, delle ubbriache, al solito, di ponc (bevono molto per resistere al freddo perché girano quasi tutta la notte), che quasi mi violentavano, e bisogna scacciarle con degli urtoni, alla inglese. Un’altra sera ho veduto un fachino affrontarne, passando, tre o quattro, buttarle in mucchio contro la muraglia dicendo cos’è mai una donna! e poi andare per la sua strada. Un’altra sera una mi disse: Signore, poco fa sono stata chiav… da un gentiluomo vestito di scarlatto, galonato d’oro. Un’altra sera ho incontrata una che si lamentava di alcuno il quale l’aveva interrogata se essa aveva la f… (le con in francese) e diceva che si meravigliava molto di questa domanda, e ch’ella piuttosto doveva interrogarlo se avesse il c…, se la peste gliela aveva lasciato. Un’altra sera una diavolaccia mi prende pel braccio e mi dice: voglio guadagnare uno scellino; e questa sera, finalmente, sono stato assaltato da una bella ma ubbriaca la quale positivamente mi avrebbe strascinato, se non fossi stato più forte di lei. Così qui vanno le cose. Non sono due giorni che ho sentiti due ragazzi a chiamare ad un altro, qui fuori della mia porta: dov’è il gran bordello?; Signori, egli è là, rispose cortesemente; come di fatti è qui vicino: ma non mi curo di profittare di questi comodi. Non so la lingua, e la peste è probabilmente probabiliore. Questi sono i due gran perché. Ma voi direte come, non sapendo l’inglese, ho capito i discorsi fatti per istrada come ho detto: ed io vi rispondo che aveva meco chi me li tradusse. Del resto, quanto all’inglese, io balbetto qualche parola delle più usuali e vedo che sei mesi di dimora mi basterebbero. Così mi dicono tutti. Ho veramente passione per questa lingua. Mi sembra dolcissima. Le donne la parlano con una grazia infinita. Quel th, ch’è come il teta de’ Greci, è armoniosissimo alle mie orecchie. S’impara più coll’uso in un giorno che in un mese di scuola. L’uso insegna la lingua colle immagini e coi bisogni: la scuola non ha questi gran vantaggi. Una parola imparata sul dizionario o sulla grammatica tiene a nulla, è come isolata ed ondeggiante nella testa; una parola imparata da una serva, da un servitore nella tale occasione, quando avevate bisogno di essa, vi si attacca fortemente al cervello. Gl’Italiani che si stabiliscono qui sogliono, per imparare la lingua, andare alla campagna per sei mesi per essere obbligati a parlarla ed impararla dalle serve e dai ragazzi: e questi massimamente sono i migliori maestri di lingua, perché parlano adagio e chiaramente e perché hanno le prime e più necessarie voci soltanto. Sono anch’essi principianti ed insegnano meglio a’ principianti. A proposito degl’Italiani vi dirò che qui ve ne sono moltissimi, e che si chiamano cazzi. Per altro sono la feccia della nazione. Sono frati sfratati ed apostati; sono avventurieri e birbanti la più gran parte. Non ve ne sarà una dozzina di onesti. Questa è anche la ragione per cui l’Inglese generalmente odia il forastiero. Qui, per lo più, non si ricovra chi sta bene a casa sua. Questa è un’isola in un canto d’Europa ove approda ogni birbante per far fortuna.

Dirai ad Odazzi che legga meglio Bruker, prima di parlare con chi lo ha letto e si è, ardisco dire, mezzo rovinato in questi studi. Dirai ch’egli legga da mia parte quanto scrive su Pittagora, e vedrà che dice quanto io scrissi, tanto è lontano dal dire quello che Odazzi, che non l’ha letto, crede che dica. Dirai che prima di giudicare esamini, prima di condannare giudichi, prima di parlare pensi. Beccaria ha portato seco Bruker, ove potrai, cercando sull’indice alla parola Pittagoras, trovare di che far tacere il troppo corrivo Napolitano. Io ho pianto alle sue lettere ed ho riso alle sue critiche. Qual rabbia ha egli con me? Mi condanna per puro astio. Mi pare che il mio stile un po’ superiore non gli piaccia. Che gl’importa che Pittagora sia un beccofotuto? È egli Pittagora? È egli suo fratello o cognato o cugino? Dunque che gl’importa della sua riputazione? Quello poi che è bestialissimo è quel dirmi Legga Bruker e vedrà che sono calunnie di Plutarco ecc. Come? dirmi «legga Bruker» quando non solo l’ho letto, ma ne ho fatto l’estratto? e poi, dirmi «legga Bruker» con tanta maestà di pedantismo è dirmi una bestialità, perché Bruker dice chiaramente quello che dico io, talmente che posso esser tacciato non da novatore, ma da plagiario. Vi dò licenza di leggere tutto questo paragrafo al Sig.r Odazzi, a cui dico in oltre che, se su altri passi della mia: opera proferirà così inconsiderato giudizio, si ricordi che ha a fare ad un uomo che sarà sicuramente di mediocre giudizio ma non di mediocre pazienza, onde può rispondere di tutto quello che ha detto e scritto col citar sempre classici e sommi autori. Ma è più facile dire una bestialità su di un libro che il farlo. Ed io, che vi ho sagrificato la mia adolescenza, ne sono persuasissimo. Lasciamo Odazzi.

Sono stato a Greenwich, ch’è un sito distante da Londra circa due leghe. Ivi è il famoso Ospitale degli Invalidi. È una magnifica e sorprendente fabbrica. Credo che da Greenwich sino a Roma non vi sia di mezzo niente di eguale. Per me è la più gran pezza d’Architettura che abbia veduta. A’ suoi piedi scorre il Tamigi, ed è un buon colpo d’occhio il vedere i continui e molti vascelli che vanno e vengono. Ivi per altro il Tamigi è la quarta parte di larghezza di quello che sia a Londra, perché ciò che lo rende vasto è la marea. Il flusso e riflusso dell’oceano produce quest’effetto, che il Tamigi nel tempo del flusso scorre verso Londra, nel tempo del riflusso scorre verso la sua foce: in oltre è sensibilissimo il flusso e riflusso nel fiume istesso, sicché scemono e crescono le acque visibilmente ai soliti periodi del mare. Il Tamigi adunque è sostenuto dal mare e quest’è ciò che lo fa vasto quanto il nostro Po ov’è più largo. Questo Ospitale degl’Invalidi è degl’Invalidi di marina. Si annovera tale instituzione fra le prime cagioni della forza maritima di quest’Isola. Gl’invalidi vi stanno molto bene. Ve ne sono attualm[en]te due mila, oltre altri duecento, che, per non esservi sito nell’ospitale, sono pensionati in altri luoghi. Gli ho veduti tutti a pranzare. È un refetorio ben popolato certamente. V’è in oltre a Greenwich il Parco Reale. Egli è pieno di Daini che non essendo mai cacciati sono domestici; nel Parco v’è l’osservatorio della Società Reale. L’ho veduto. Non è gran cosa. Vi ho osservata la famosa macchina che ha ottenuto il premio per la longitudine. A destra dell’osservatorio v’è un parapetto ed ivi avete un colpo di veduta come io non ho mai goduto al mondo. Si vede Londra, si vede Greenwich abbasso, si! vede il corso del Tamigi, si vede l’Ospitale in faccia, in somma non saprei esprimere tutto quello che si vede, ma è tanto veramente incantatrice questa veduta che vi starei dei giorni intieri. Ne porterò il rame. Ne avrete un’idea. Di tai vedute mi si dice che abbondi la campagna d’Inghilterra, ch’è d’una squisita amenità.

Ho vòtato il mio sacco. Addio: ti abbraccio. Ho passato benissimo il mio tempo scrivendoti. Mi pare di essere con te in un tete a tete. Vi sarò fra tre mesi al più. Salutami Carli, Castelli, Secchi, Corti, Calderara; gli altri da salutarsi gli sai meglio di me. Testimonia a Castiglione la parte che prendo nella funesta avventura del fratello. Addio, addio; non finirei più. Al caro Cavaliere un abbraccio. Il tuo ALESSANDRO.

XXXVI (16) Al Fratello. [Milano,] 20 Gennaro 1767

Dopo essermi lagnato della disgrazia di stare senza tue nuove per più di nove giorni, ecco che ieri ricevo da Ginevra tutt’ad un tratto tre epistole del caro Alessandro del 21, 25 e 29 dello scorso, tutte piene di cuore e di cose giudiziosissime, interessantissime, che sono la vera gioia dell’amicizia. Nulla mi sorprende di ciò; ma tu mi scrivi de’ versi, oh cazzo, sul margine del nebbioso Tamigi; fralla taciturnità inglese e il sonno della sapienza resa indolente per troppo alimento, in mezzo alla fredda e ricca ragione, da quella tiranna dell’immaginazione ti si svegliano le immagini della poesia, e immagini vivissime, oraziane! e degne del cantor d’Odino! Io te ne faccio complimento di congratulazione e t’assicuro che i tuoi versi mi son piaciuti assai e debbo farti riparazione del giudizio altre volte dato.

Vengo ai capi che mi proponi per il commercio. Certamente che tutte le quincaglierie sono capi di commercio di grande utilità, se si ha la fortuna d’avere un corrispondente onesto e di un certo tal qual gusto che non vi carichi di fondi di bottega. A conti fatti i rasoi, le forbici e le altre mercanzie che tu mi scrivi si venderanno il doppio del prezzo primo che tu le hai pagate; è vero che v’è la condotta e i dazi. Avrai veduto però nelle mie ultime che quella cambiale, come le altre che regolarmente ti spedirò ogni mese, sono destinate a te e per tuo uso, e ti prego di convertirle a ciò poiché le tue cognizioni, i tuoi piaceri sono beni maggiori di qualche passaggero utile che può cavarsi dalla vendita di poche mercanzie. Hai fatto bene questo saggio poiché poco si avventura e, se riesce, al tuo ritorno prenderemo delle misure e potremo cavare un tributo dalla balordagine di questi Insubri nostri dilettissimi paesani; ma férmati, per ora, e serviti a’ tuoi bisogni e per dilatare come t’ho scritto il tuo giro de’ denari che possiamo avere, ché l’occasione forse d’esser libero non ti capiterà più in vita. M’è dispiaciuto il sentire che alla metà di Gennaro tu pensavi di ritornar te ne a Parigi: forse dunque ora sei già in viaggio per Parigi; pazienza; almeno dimoravi un po’ di più e visita[vi] le cose da vedersi anche ne’ contorni. Scusa la seccagine che ti dò: so che non hai bisogno de’ miei consigli, ma perdonali alla mia tenera amicizia e alla premura che ho che tu possa brillare e farti onore al tuo ritorno.

Il Cav. re Isimbaldi fu che mi assicurò l’uso che su’ bastimenti inglesi si fa del fior di the, ottimo afrodisiaco e ottimo per impedire l’ingrassamento del microcosmo. Se l’essenza di rose è così cara non occorre, perché io cercherò di regalare qualche curiosità all’amico Laugier e averne così di nuovo. Di quelle stampe buffone inglesi ne avrei pur volontieri, se ancora tu fossi a tempo! Mi ricordo d’un seguito di rami che rappresentano la vita d’un giovine spensierato, me ne avrai udito parlare: se è possibile averle a un prezzo discreto, mi saranno carissime; anche in ciò non sono figlio del Sig.r Conte Reggente: egli ama gli oggetti orribili per mobiliar le stanze, io gli amo allegri.

Che deliziosi trattenimenti non mi prepari tu per il tuo ritorno! Io mi anticipo la dolcezza di essi colla immaginazione; qui, nella nostra buona stanza, lontani da ogni rumore, con tanto di catenaccio alla porta, io riandrò con te l’Europa e sarò a parte delle sensazioni che hai provate successivamente, mi ricorderò il tedio che ho sofferto per la tua lontananza, il bisogno di te, che sento più frequentemente che non t’immagini, e mi consolerò di vederlo soddisfatto. Santa, pura, virtuosa amicizia, unico conforto de’ mali della vita! Nella condotta di Beccaria un altro avrebbe ricevuto un terribile disinganno sul conto dell’amicizia: or sappi come son fatto, il fanatismo dell’amicizia in me è cresciuto; io sono così contento che sia finita in tal guisa con Beccaria; l’ho trovato nella depressione, senza gloria, senza viste di acquistarla, senza nome, senza opinione e senza comodi; lo lascio con tutti questi beni e in ciascuno di essi io ho avuta buona parte per farglieli conseguire; io non ho temuto di spingerlo più alto di me, sapendolo e volendolo, ho saputo raffinar l’amor proprio a segno di trovar piacere in quest’opera; egli non ha potuto reggere al lampo della fortuna, ha lasciato entrar nel suo cuore la bassa gelosia, è diventato uomo del mestiere, avvilito nelle disgrazie, ingrato nella prosperità; egli mi fa sentire che sono assai più grande di un autore d’un gran libro; egli può affettare non curanza di me: io l’ho di lui nel seno del cuore; i suoi talenti hanno la mia stima, la sua anima ha la mia compassione, mista a qualche disprezzo. Il mio orgoglio in tutto questo sta ottimamente. Per fortuna non ci vediamo più. Egli ha venduto a Calderari la sua sedia di Parigi, sento che con que’ denari egli voglia venire a soddisfarmi di quaranta zecchini che mi deve; io non ne ho mai parlato ad anima vivente e forse nemmeno a te: ora che mi paga te lo dico, perché non vi resta più conto. L’anecdota che mi scrivi intorno l’Apologia a Facchinei è, secondo me, più forte di ogni altra, poiché si vede chiaro ch’egli, che deve tutta la sua gloria alla mia amicizia, è disposto non solamente a non proccurarmi della gloria, ma a celarmi, ma a rubarmi la gloria mia. E dopo ciò non sarò io assai più grande di lui? Il confronto è talmente consolante per me, che mi paga con usura tutti gli atti d’amicizia passati, e benedico la mia illusione nel punto medesimo in cui la veggo svanita.

Ti assicuro che sono incantato delle riflessioni che mi scrivi su questa nazione e sul Teatro, e sulla sazietà di ragione, la quale cagiona la freddezza universale degl’Inglesi! Certamente che tutt’i piaceri della vanità, della galanteria e dell’entusiasmo svaniscono, tosto che si sia scoperto un dato numero di verità. Gl’Inglesi le hanno già scoperte: se queste ricompensino o no non saprei indovinarlo, certamente che l’Inglese non ha mai nel cuore il terribile verme del timore degli uomini armati di potere, egli non è obbligato a piegarsi e fingere stima e deferenza per chi non ne ha, egli possede il suo e non può temere che la fisica per distruggerlo; questi son beni grandi, o, per dir meglio, assenze di grandi mali; ma la non infelicità è eguale alla non esistenza; una gran folla d’illusioni sottrae l’uomo dalla noia e può dargli un moto, una elasticità, una rapidità d’idee piacevoli che gli rendano sensibile e agradevole la vita. Io suppongo un Inglese non povero: s’occuperà egli ad ammassare ricchezze? No, perché non vi essendo lusso cessa l’occasione di desiderarle. Diventerà egli filosofo entusiasta? No, perché difficilmente si può annunziare una verità importante che sia nuova e faccia stupore. Amerà le donne? Sono avvilite e, rientrando nello stato di natura, son ritornate animali più deboli di noi e perciò di nostro servigio. Cercherà onori e cariche? Nemmeno, perché non vi essendo da uomo a uomo quasi distanza, egli, con tutto ciò, dovrebb’essere confuso col volgo e perdersi in un formicaio di uomini suoi eguali. Cosa farà l’Inglese in tal situazione? vivere un giorno dopo l’altro, annoiarsi, soddisfare i bisogni al momento, invecchiare e farsi sepellire. Io sono servitore umilissimo alla ragione se mi conduce a vivere così la vita; io amo che il popolo sia meno illuminato di me, amo a far de’ paragoni consolanti il mio amor proprio, e se dovessi diventare non più che una frazione centesima milionesima d’Europa io m’impiccherei. Dopo il tumulto di Parigi per altro capisco che ti deve essere soavissima la tranquillità di Londra.

Mi hai pur fatto ridere colla tua Statua d’Arrigo VIII! Gl’Inglesi conservano religiosamente l’ordigno della riforma e certamente da mezzo alle gambe di quella Sacra Maestà difenditrice della fede è partito l’attuale sistema dell’Europa, il commercio, la filosofia e tutto in somma l’equilibrio delle cose presenti. Anche il tuo pranzo co’ Soci della Reale Società mi ha fatto ridere.

I due campioni che sono alla Corte e che, calunniando i Fermieri e proponendo un mucchio di bestialità fondato sopra una voragine di fatti tutti falsi, sperano di far fortuna, sono un certo Abate Seravalle ed un certo Carlo Radaelli. Il primo è un nativo de’ Feudi Imperiali vicino a Sarzana, che è stato qualche tempo curiale in Milano e, non facendovi fortuna, si è innoltrato a Vienna; l’altro è un miserabile, stato frate Somasco, scacciato dall’ordine, ricoverato nella fabbrica de’ Fratelli Rho dove per mancanza di 150 zecchini è stato licenziato e di là è andato a Vienna e firma i progetti. Eccoti soddisfatto su di ciò. Non dubito che, dopo tutto quello che s’è! scritto per illuminare l’affare, coloro non debbano partire poco contenti, ma non perciò umiliati, perché son gente che non ha che perdere. Questi due eroi onagri veramente sono quei medesimi che hanno il partito de’ patrizi a sostenerli, ed una Compagnia di negozianti responsabile di più milioni: il che fa vedere che è più facile aver dei denari che aver della testa.

Ti ringrazio degli ottimi dettagli che mi hai trasmessi intorno i grani e della disposizione in cui sei di trasmettermi lo stato d’esportazione di quest’ultimi anni. Il tuo capitolo sopra Odazzi non glielo voglio leggere perché non sono con lui in nessun grado di confidenza. Io già t’ho scritto quello che penso su tal proposito. Egli è uomo mediocre e forse mediocrissimo, non è né sarà mai al tuo livello; non v’intenderete mai e poi mai insieme; del suo carattere io non ne so nulla di male, se pure non lo è, nelle sue circostanze, l’essere sconosciuto: e poi il carattere di chi non ha idee chiare non è mai sicuro.

Il nostro illuminatissimo popolo comincia a soffrire con rassegnazione il flagello di mangiare un pane migliore e più grosso del passato; a buon conto presentemente mangia e non mormora. S’è sparsa voce che il Duca sia per risguardare la Principessa Melzi con quegli occhi co’ quali già un tempo mirò la Simonetti: si pretende che il Sacramento sia vicino a cadere su di essi; io credo però tutto ciò una favola delle tante, sebbene moltissime circostanze si adducono per confermarlo.

21 Gennaio

Nel tuo viaggio avrai avuto occasione d’informarti della pretesa disalazione dell’acqua marina, di cui i fogli pubblici hanno tanto parlato due anni sono e di cui non si sente parlar più; l’oggetto è di assai importanza pel genere umano, dimmi quello che ne è. Ieri sera v’è stato bal paré alla Corte per il principe di Brunswich che presto parte verso Londra a ritrovar la moglie. Siamo affatto sprovveduti di novità; una ve n’è sul conto del nostro Luisino; un suo compagno di scuola s’è fatto Capuccino, da alcuni anni non si sono veduti, finalmente il buon fratino è venuto a ritrovarlo; memori dell’antico costume hanno cominciato a far delle ragazzate l’un l’altro: uno comincia a prendere un po’ di neve dalla finestra, l’altro scende le scale per essere più al largo, il frate prende la neve dal cortile e l’avventa a Luisino; Luisino affronta la batteria nemica e scende pure nel cortile; il Capuccino si ritira in buon ordine, sempre combattendo, e senza avvedersene esce dalla porta e va in mezzo alla strada, dove v’era copia di munizione; Luisino dal mucchio del cortile, il Capuccino da quello della strada prendono le loro granate e segue di bel mezzo giorno un vivissimo combattimento, in cui i campioni erano talmente riscaldati che non rifletterono al luogo né agli spettatori; il feroce Luisino sempre avvanzando terreno venne sulla porta e il Capuccino, volendosi ritirare a proporzione, mentre s’abbassa per raccogliere nuova neve urta terribilmente in due zoccolanti e allora dalle grida della moltitudine il povero Capuccino si avvide del sito in cui era e della bella comparsa che faceva fare al suo serafico capuccio. Questa avventura fra un filosofo e un Capuccino che per istrada fanno le pallottate di neve è degna d’osservazione. Addio, caro. Ti ringrazio del bene che mi vuoi e ch’io conosco sempre più dalle care tue lettere, ei fa la felicità del tuo PIETRO.

XXXVII (17) Al Fratello. [Milano,] 24 Gennaro 1767

Ti accludo la cambiale promessa al fine d’ogni mese, la quale regolarm[en]te ti sarà da me spedita, sicché tu puoi farvi i tuoi conti senza pericolo d’accidente. Ti dò una nuova, ed è che nostro Padre ieri mi ha parlato della tua esenzione di Collegio, la quale vuole trasmetterti a Parigi, e s’è dichiarato che vuole mandarti del denaro per soccorrerti. Io non ho risposto a tal proposizione: nel fondo del cuore mi dispiace che gli atti d’amicizia miei sieno comuni ad un uomo che non posso stimare per nessun capo; ma questa è una mia debolezza e, pensando tranquillamente, vedo che debbo compiacermi che s’accresca il fondo de’ tuoi piaceri e della tua istruzione. Tu né lo puoi né lo devi rifiutare senza una aperta ribellione, la quale caderebbe in discredito tuo e mio; non mi dare in qualche scartata eroica, prendi i quattrini che ti manderò e godili; io m’immagino che saranno cento zecchini, numero tondo e discreto; in ogni caso non vi contar sopra di essi sin che non gli hai. Ho scritto nello scorso ordinario al caro Frisi, gli ho detto che t’ho data commissione di soccorrerlo di denaro: ti prego, subito giunto in Parigi, di fare in modo ch’egli non ricusi quest’atto della nostra cordialità. Io gli ho toccato qualche cosa riguardo a te ed alla passata tua situazione con Beccaria: son sicuro che egli non risparmierà attenzione perché ti venga resa giustizia e son sicuro che, ora che sarai solo e senza un confronto in cui il fanatismo filosofico francese doveva rovinare chiunque, sarà contento il tuo amor proprio.

L’altro ieri Beccaria è stato a visitarmi; egli conduce sempre seco Odazzi, sia che la moglie glielo consegni per restar libera, sia che egli tema una dichiarazione de’ miei sentimenti restando solo con me. Egli è venuto per pagarmi alcuni zecchini che mi doveva. Erano realmente scritti da lui su un suo confesso che a forza mi ha voluto lasciare partendo: 42; me ne ha pagati in saldo totale 32. Io gli ho presentato il suo confesso già stracciato, acciò vedesse in quale stato io teneva le armi contro di lui; egli, colla sua solita furia, ha terminato di lacerar tutto né ha voluto darvi un’occhiata, così anche in questo io ho perduto dieci zecchini senza che egli medesimo sappia che gli ho perduti. Questo è certamente effetto di Duro sbaglio ed azardo: ma tutti questi azardi e sbagli in ogni sua azione sono sempre di scapito a’ suoi amici. M’ha richiesto delle nuove, io gli ho date le tue di Londra sul Teatro, sull’Ospedale de’ Marinai di Greenwic, sulle figlie, sulla freddezza inglese, ecc. Le osservazioni tue su quest’ultima, massimamente, degne d’un Filosofo e d’un dilicato osservatore, non hanno riscosso alcuna approvaz[ion]e da lui mentre io ben l’osservava; finalmente gli ho detto che in breve contavi di ritornare a Parigi. Oh, per Parigi poi, interruppe egli d’un tuono enfatico, ora che v’è l’Abate Spalenzani (forse stropio il nome) non v’è più speranza che un Italiano brilli: egli offusca chiunque. Vedi se si poteva dare una proposizione più coglionescamente gelosa di questa! «Se voi vi foste, soggiunsi io, sareste dunque offuscato?». Questa interrogazione lo imbrogliò e se ne cavò col dire che certamente in un circolo lo sarebbe stato, ma poi, a una finestra, al tu per tu, come si suol fare dal Baron d’Olbac, egli avrebbe trovato il modo di non essere ecclissato. «Ebbene, gli soggiunsi io, vi saranno delle finestre anche per mio fratello, e dei tu per tu anche per lui». T’assicuro ch’egli m’ha fatto venire il fiele in bocca; non si può essere più ridicolo fastosamente di quello che lo è diventato questo bell’idolo alla cui gloria abbiamo tanto travagliato. S’è parlato in seguito della scandalosa disputa fra Rosseau e Hume, all’occasione che Odazzi mi rese il libro d’Iverdun (questa apologia non è certamente quella sparsa in Parigi: il titolo della mia è Le rapporteur de bonne foi). L’evidenza del torto di Hume è posta nel suo gran giorno in quello scritto. «Ebbene, diss’io a Beccaria, che ve ne pare?». «Io sono, rispos’egli, non pertanto sempre del mio primo sentimento, che Rosseau sia un matto». Io ho parlato per qualche tempo ripigliando il filo de’ fatti e ragionando in modo che non v’è risposta. Egli, freddamente e menafogliescamente, altro non replicò se non che non per ciò si mutava di parere. Io terminai questa noiosissima conversazione dicendogli ch’io ho sempre pensato da me e che avrei sempre da me pensato per tutta la mia vita, senza mendicare le opinioni di alcuna compagnia del mondo, e me ne andai. Non è possibile essere più offeso dalla ingratitudine altrui di quello ch’io lo sono dall’impostorissimo Beccaria. Lungo è stato informato, non so da chi, delle male intelligenze che passano fra di noi; si sospetta che sia nata una rottura fra te e lui a Parigi; io scrivo tondo e chiaro a Lungo il fatto come sta: se Beccaria m’offende al vivo, e nella mia persona e nella tua, se la sua sposa ha parlato in guisa di pregiudicarti facendoti passare per un cattivo amico, io ho ragione di svelare questa obrobriosa piaga ad un amico e dargli il filo per misurare il livello di tutti noi. La Somaglia è stata informata dal Lungo ed io ho informata Lei: la mia morale mi limita a nascondere il procedere di Beccaria a chiunque non sospetti della tua o mia morale; ma, nato che sia il dubbio per colpa sua, io mi trovo in diritto di dire il fatto come sta: se la sua reputazione vi va di mezzo, peggio per lui. Il nostro Lungo è pieno di tenerezza per te, mi scrive cento cose ed io ne rispondo altrettante per tua commissione; gli faccio sperare di vederti a Roma.

Veniamo ad altro argomento. Quelle carte inglesi buffone mi tentano indiavolatamente. Mi ricordo d’un seguito di alcune carte intitolate Le mariage à la mode, vedute dall’amico Laugier, che mi vanno all’anima; se è possibile nella tua economia di proccurarmele, le avrò con piacere; se costano troppo libamus eas domino.

Ieri il Principe di Brunswic è partito, viene a Parigi; egli ha dormito regolarmente colla Todeschina, le ha regalati 800 zecchini: l’ha fatta da uomo di giudizio, senza apparenza e con sostanza. È un principe amabile e gentilissimo, come lo sono quasi tutt’i Sovrani di Germania, massimamente i Protestanti.

Ho riscontro da Vienna che la Consulta del Sup[remo] Cons[iglio] da me fatta sull’affare de’ scimuniti progettisti ha avuto ottimo incontro nel Supremo Dipartimento e che se ne faceva un estratto il quale servirebbe di rapporto a S.M. Que’ due disperati seguitano non pertanto a correre dal Ministri presentando nuovi scarabocchi alfabettati: non hanno che perdere. Credo però che naturalmente verrà loro detto di partirsene da Vienna, e si potrebb’anco senza ingiustizia incarcerarli come solenni calunniatori; ma la Corte nostra è dolce, ed a noi basterà che finischino una volta d’inquietarci.

Aspetto il riscontro da Livorno dell’esame fatto della Storia; t’assicuro che ne sono impaziente perché ti deve far conoscere per quel che sei e darti una riputazione non minore di quella di Beccaria, e più durevole. Tu non perderai gli amici acquistando la fama; il tuo cuore è nobile, l’anima tua è vigorosa, e non ti girerà il capo colla opinione altrui. Mi amerai sempre, ti amerò sempre e sarò sempre e poi sempre amico e interessatissimo per la tua gloria. Addio. T’abbraccerò pur volontieri un giorno! L’ho tanto desiderato, Addio. PIETRO.

XXXVIII (21) A Pietro. Londra, 1 Gennaro 1767

Buon capo d’anno. Volat irreparabile tempus, dice codesto orologio che qui avete sotto il portico. I bei detti bisogna in questo misero mondo non si fanno presto le cose non v’è più tempo da farle. È un minuto secondo della eterna immensità de’ secoli che noi veniamo su questo meschino pugno di fango a fare orgogliosamente una breve passeggiata. Perciò, figliuolo mio caro, quando sarete nei contorni di Casa Litta ricordatevi di questo mio salutare precetto. Il cielo, che tutto vede e provede secondo i vostri voti, e la Beata purissima Vergine sia la mediatrice di questa grazia, perché, siccome dice S. Bernardo citato dalle famose sette allegrezze, non si fa grazia qui in terra che non passi dalle santissime sue mani. Dicebam. Così io mi vado consolando di non avere ricevute tue lettere coll’ultima posta. Queste benedette Alpi e questo benedetto mare che ci dividono, inesorabili creature che non sanno cosa sia l’amicizia, mi tolgono il piacere di avere periodicamente tue nuove, piacere che mi è piuttosto un bisogno, perché non ne posso star senza. Io adunque, lasciando che le poste vadano come vogliono, ti indirizzo la mia solita gazzetta e sono qui spiritualmente in codesta tua calda e carissima camera a far teco la mia conversazione.

Io sono pazzo, al mio solito, col mio commercio. Andando per Londra non osservo che le botteghe, cosicché non ho niente imparato le strade, né so fare da me due passi. Sono stato in due de’ primi magazzeni di lavori di acciaro ed in tre di bigioterie; compro qualche bagatella, confronto i prezzi e prendo notizia del valore delle merci: compro poi dove mi torna meglio. Domani voglio andare dal corrispondente del Chinetti: spero di cavarne delle utili notizie. Ho già stabilito con Lui che occorrendo mi qualche provisione mi servirà. Io gli darò la mia firma, lui la sua adresse e così le cose vanno benissimo. Ho già provisto de’ rasoi, delle guarniture di fibbie di prencisbecco, delle catene d’orologio da donna tanto di prencisbecco che di aciaro. Chi le vede le trova a buon prezzo. Io compro come un mercante comissioniere che comincia a fare delle prove. In tal caso i mercanti dicono l’ultimo prezzo perché vogliono tenere da conto una nuova posta che non sanno se possa essere grande o piccola. Ma, senza ch’io mi lodi tanto e prometta tanto, vedrete la roba. Alla prima occasione l’imbarco: in due mesi la potrete avere. È un bello spettacolo da vedersi la borsa di Londra il martedì ed il venerdì. Ella è un edifizio quadrato non molto vasto, nell’interiore del quale v’è, tutto all’intorno del cortile, un portico. Esso è distinto in vari quartieri e ciascuno è assegnato alle differenti nazioni. Questo è de’ Francesi ed Italiani, quello de’ Tedeschi, Svezzesi, Danesi, ecc. Non che il portico, ma la corte tutta in que’ giorni è pienissima. Vorrei avere l’ottavo per cento de’ negozi che vi si fanno.

Vi darò una idea del modo in cui Londra è fabbricata, come potrò col mezzo della sola scrittura. Le strade sono vaste, e non fissano l’attenzione per essere fiancheggiate da grandi edifizi, ma perché le case sono fabbricate l’una dietro l’altra con molto amore dell’ordine. Vi sono de’ gran tratti in linea dritta, tanto il muro che l’altezza e le finestre. A parte a parte non hanno gran merito; ma quel tutto fa un mirabile effetto. Questa regolarità rende Londra così eguale da per tutto che difficilmente s’impara a caminarla da sé solo. Almeno io provo quest’effetto. Dall’una parte e dall’altra vi sono de’ larghi e bellissimi marciapiedi, alti più della strada un palmo; la strada poi di mezzo è pessimamente pavimentata. A questi orribili pavimenti io attribuisco la invenzione delle molle alle carrozze, le quali sono comunissime. Di queste molle ve ne sono di varie sorte e sovente la stessa carrozza ne ha di due o tre spezie, le quali l’una dopo l’altra elidono le scosse. L’una è per esempio a coda di gambaro, l’altra a guisa di spiraglio, ecc. La forma delle carrozze è molto semplice, come tutte le cose inglesi. Sono, al vedersi, sottilissime, sicché sembra che debbano rompersi facendo un miglio. Ma sono solidissime. I Fiacher poi sono pessimi perché non hanno molle. È lo stesso ch’esser in borasca. Anche le portantine, che sono in grand’uso, non riescono meno incomode. Sia che i portantini vi trovino più il loro comodo, sia l’usanza, sia altra cagione ch’io non so, essi fanno saltare in quella cassetta come se si trottasse a cavallo. È precisamente la stessa cosa. Non tutti potrebbero accomodarsi a questo ballo. Alcuni forastieri patiscono. Per altro qui le più delicate Dame vanno generalmente in tal vettura. Ma torniamo alla descrizione di Londra. I tetti non hanno quella che chiamiamo gronda. Non porgono in fuori più di qualche dito. L’acqua è raccolta in tubi che vengono lungo il muro a portarla sul pavimento della strada. Non vi sono porte di carrozze. L’accesso delle case è così. V’è una porta, o meglio un uscio, con una colonna per parte e sopra un architrave, tanto perché abbia un’aria di porta; si montano due o tre gradini e si è già nell’anticamera de’ servi tori, che suol essere immediatamente la prima camera. Le porte sono sempre chiuse, notte e giorno. Si batte quando si vuol entrare. I gran Signori, se vanno a far visita, battono forte e molti colpi, e di mano in mano che la persona visitante è di rango più basso diminuiscono i colpi. Vi sono le sue regole. Anche a Parigi succede così, Andando a far visita, sarebbe impertinenza il battere più di una volta. Non è che il Padrone di casa che si batta più volte.

I sotterranei sono una parte considerabile di Londra. Tutte le cucine e luoghi di servizio sono sotterra. Perché possino avere la luce si fa, d’intorno la casa, alla distanza di un buon braccio, un rastello di ferro, altrimenti io credo che il continuo passaggio della gente la impedirebbe. Sia questa od altra cagione, questi restelli vi sono e fanno il cattivo effetto di restringere talvolta troppo i marciapiedi. A proposito di marciapiedi, io dirò che vedo veramente che chi comanda in Londra sono piuttosto quegli che vanno a piedi che quegli che vanno in carrozza, perché si è benissimo pensato a caminar bene a piedi, e niente a chi va in carrozza. Non tutta Londra è bella. La nuova Città di Westminster, che è un buon terzo del tutto, corrisponde a quanto ho detto; ma la Città vecchia è sudicia e generalm[en]te brutta. La gran quantità di legni con cui sono fabbricate le case le rende facilmente incendiabili. Così si usa di assicurarle dal fuoco, come un vascello. Credo si paghi poco più dell’uno per cento. Molte sono assicurate e si vede fuori di esse un cartello col numero del registro.

Sono due ore dopo mezza notte. Ti abbraccio. Mi sento una specie di aridità di spirito, sicché positivamente sono ben capace di dirti cento volte che ti voglio bene, ma mi pare di esser sciocco ed ho stento a scrivere. È forse il frutto de’ miei gran peccati. Addio, amico adorabile. Dimani, cioè oggi, perché è passata la mezza notte, giorno 2 Gennaro 1767, parte la posta. Al primo venturo ordinario, che sarà martedì prossimo, ti scriverò, né mai lascierò di periodicamente non lasciar vuota una posta. Mi pare di parlar teco come il buon Mosè parlava all’Altissimo, facie ad faciem. Caro, ti abbraccio. Saluta codesti miei dolci amici. Che fa Beccaria? Come vanno le cose? Desidero furiosamente queste nuove. Addio, caro, e poi addio, addio: il tuo buon ALESSANDRO.

XXXIX (18) Al Fratello. [Milano,] 25 Gennaro 1767

Nell’ultima mia ti ho spedita la cambiale del mese, che avrai ricevuta; spero che a quest’ora avrai pure ricevuto il pachetto de’ Libri che t’ho spedito a Parigi sino dalla metà di Novembre. Vi sono 4 esemplari del Caffè. L’opera di Carli sulle monete. Sei esemplari del mio Innesto sul vaiuolo. Una Relazione del censimento ed un Facchinei. Questo pachetto è stato diretto ai Sig.ri Garbagni e Bertina.

Io sono niente contento dell’Abate Morellet; la mia generosità di confidargli le notizie originali per il suo Dizionario, quali nessun altro gliele poteva dare; la mia fiducia, colla quale mi sono abbandonato a lui senza veruna speranza di propria mia gloria, meritavano qualche corrispondenza, o almeno qualche ringraziamento. Giacché tutto va a Parigi per fanatismo e per capriccio, io non amo d’essere adoratore di queste divinità; perciò mi preme moltissimo che tu ti faccia ristituire la roba mia, e sollecitamente. Non ho bisogno del parere del S.r Morellet per sapere che conosco il mio paese meglio d’ogni altro, e che so le verità della Economia pubblica per dare un voto ragionevole all’occasione. Io ho creduto di contribuire ad una grand’opera e di mostrare stima per un uomo di merito, dandogli un materiale per il suo lavoro; ora mi resta a desiderare per i suoi lettori ch’egli intenda le materie economiche meglio di quello che intende la cortesia. Tu vedi che sono assai malcontento della mia bonomia, e vedrai nel tempo medesimo, lo spero, che non ho torto. L’Abate non troverà in nessuna parte del globo un Bilancio del Commercio fatto colla esattezza e chiarezza del mio, e le relazioni d’un milione d’uomini col restante del genere umano sono sempre un dato il quale, con un po’ d’industria, può essere fecondo anche di Teorie generali: vi va una sorta di trigonometria anche in questo. Ma, ti ripeto, riprendi la roba mia, ch’io non voglio che le mie figlie restino in bordello o ricerchino la protezione di alcuno. Forse Beccaria mi fa vedere in nero le cose, forse sono io ingiusto; forse io attribuisco troppo a questi Signori il cambiamento di Beccaria. Tu vedimi qual sono e disinganna sopra tutto il S. r Morellet, se mai avesse creduto che i miei scritti sieno stati trasmessi a lui o per esser corretti o per avere la sua protezione, che non è così.

Torniamo al nostro eterno argomento di Beccaria. Il cambiamento accaduto in quest’uomo è il più sensibile, il più marcato che si possa dire. Ti basti il sapere che il Principe Triulzi, il quale né sa né può sapere alcuna delle cose seguìte, uno de’ scorsi giorni interpellò il Conte Carli se vedesse Beccaria. Gli disse di sì. Che vi pare – soggiunse il Principe – di quell’uomo? Dopo il suo ritorno da Parigi mi pare divenuto matto. Egli porta in volto un’aria di franchezza e di superiorità somma, decide sempre e non ragiona mai, pare che si sdegni di discendere sino alla ragione, in somma ognuno vede un altro uomo coll’istesso nome. Io quasi dopo di ciò sarei tentato di dar ragione ai vecchi del paese che dicono che i viaggi pregiudicano alla maggior parte. Quest’è quell’uomo che predicava quietem et nihilum, questo è quello che ripeteva il paenitet me di Newton, questo è lo stesso che, facendosi I’Epitafio, vi pose il minus ambitiose quam tranquille vixit, ed ora si pasce del solo fumo d’un’aura che forse scemerà, ed ora, scrivendo a suo padre, ardisce dire i suffraggi d’Europa che tengo in pugno. In conclusione, preparati al tuo ritorno di vederlo pochissimo e di trovarlo diversissimo da quell’istesso che lo hai lasciato in Parigi. Sai che la cosa va a segno ch’io in alcuni momenti temo non sia cosa fisica e non possa terminare in pazzia? Io mi risovengo che tu, nelle avventure del viaggio, lo hai temuto. In quel caso meriterebbe tutta la nostra compassione.

In mancanza di nuove politiche, ti dirò che il freddo continua assai più rigido degli anni scorsi e sul termometro di Reaumur spessissimo la notte discende a 7 o 8 gradi sotto il gelo. Nella Lombardia è caduta una insolita quantità di neve, noi a quest’ora ne avremo due piedi parigini incirca. In Vienna pure è caduta neve assai, e i giudiziosi Tedeschi la fanno servire ai loro piaceri; qui, se non vi fosse stato un Capuccino e Lambertenghi, sarebbe caduta tanta neve per nulla.

T’ho già scritto che la figlia Barboni si è sposata con Fagnani; ora ti dirò che s’amano molto, cosa naturale assai ne’ primi giorni. A proposito d’amore, tu mi stimoli a spiegarti cosa voglian dire le mie frequenti gite a Gessate dell’autunno passato. Io lascio a te considerare questo fenomeno, come pure la mia regolare serata che passo co’ sposi Isimbaldi. Se l’ho taciuto sin ora era per delicatezza: conosco l’umore di V. S. Ill[ustrissi]ma, ma posto che siam lontani e che l’abbondanza ti fa svanire la gelosia io ti dirò che ho una vera passione, che sono già mesi ch’io san fedele a chi non mi dà pane, ch’io farò la bella morte delle zucche, che divento grasso come un idropico, e tutto ciò ti proverà che amo davvero. Quando sei preso dal cuore unito allo spirito e che trovi una vivissima sensibilità ed una noncoquetteria decisa, resista chi può. Avverti però che su quest’articolo non ci canzoniamo e al tuo ritorno m’hai da lasciar vivere.

L’abate che deve offuscare chiunque a Parigi è Galliani, non Spezzani, come per errore ho scritto ultimamente.

27 Gennaro

Ho ricevuta la cara tua lettera del p[ri]mo del cor[ren]te; ogni tua lettera è una consolazione per me; il tuo cuore, i dolci sentimenti della tua amicizia sono un balsamo nella lontananza in cui mi sei. Credi che ho propriamente bisogno di te, cento cose non ho a chi confidarle e mi pesano, o non mi fido o non ne aspetto sensibilità da altri o non sono inteso, in somma ho più volte al giorno bisogno del mio Alessandro. Nostro Padre si comincia a scaldare sul conto tuo, mi vien detto ch’egli, giorni sono, si sia lasciato scappare di bocca ch’era ben meglio per te che in vece di andare a Parigi e Londra tu fossi andato a Vienna e, per quanto so, forse non è lontano dal proporti questo viaggio dandotene i mezzi. Io non dico Cose sicure, ma dubbi fondati. In questo caso io non saprei consigliarti. La tua figura è giovine, ottima per le donne, pessima per il Ministero austriaco; la inurbanità e l’orgoglio di quella Società ti ributterebbero certamente, al principio; ti senti tu la vocazione per affrontare tranquillamente e costantemente la noncuranza e il fasto di que’ Signori? Se questa costanza l’hai, puoi vincere ed avventurarti; se mai ti manca e che tu debba, amareggiato dall’accoglienza, ritirarti a vivere tranquillam[en]te nel tuo quartiere, fuggendo le seccature, rifugiandoti nella libertà, io non ti consiglio di andarvi, perché da Vienna a Milano si sa tutto e si penserebbe male della tua maniera di viaggiare, e termineresti colla bocca amareggiata questo tuo pellegrinaggio, senza avere ottenuto il tuo fine. Se il tuo umore è quale era prima di partirtene io non ti consiglio di accettare questa esibizione, qualora ti sia fatta, e parlo per esperienza, perché so quello che ho passato io; se poi sei divenuto un po’ più granatiere per affrontare la marmorea insensibilità e piegarla a replicati colpi di mazza, allora trotta pure al Danubio. Gli amici ti abbracciano. Addio di fretta. PIETRO.

XL (22) A Pietro. Londra, 6 Gennaro 1767

Ab Aquilone omne malum. I venti di Settentrione dominano in questi giorni e non lasciano venire la posta di Calay. Siamo ereditari di due poste. Io però ti scrivo, secondo il mio sistema.

Ho finite le compre di bigioterie che ho fatte per tuo conto. In questo mese saranno imbarcate per Genova. Le avrai in Marzo. In altra mia ti darò l’esatta lista di tutto.

Io sono indeciso quando debba lasciare Londra. Mi piace questa tranquillità. La spesa, come io vivo, è assai discreta. A Parigi non si può vivere con questa mercantesca parcità che tanto mi conviene.

Abbiamo del freddo anche straordinario per questo clima. Eppure non supera certamente quello di Milano. Vengo in questo punto dal parco di S. Giovanni (St. James) dove v’è a lato un canale d’acqua gelato su cui gran quantità di mondo sdrucciolava coi patin; è uno spettacolo agradevole. Vanno come il vento, facendo mille giri e ragiri senza mai urtarsi l’un l’altro, quantunque sieno moltissimi e come affollati sul giaccio. In quelle vicinanze v’è ancora il così detto Parco del Fieno. Questo è il sito di correre a cavallo. Alla mattina Dame, Milordi, moltissima gente corre a cavallo in esso Parco, e corre come non ho mai veduto, velocissimamente.

A proposito di sdruciolare sul giaccio: la gazzetta d’oggi racconta che un tale si esebisce a fare una scommessa di duecento lire sterline (sono circa quattrocento zecchini) di correre sul giaccio coi patin un miglio in un minuto. V’è chi l’ha accettata. Vedremo.

La gazzetta di due giorni fa narrò tal fatto. Una compagnia di sei o otto birbanti industriosi vollero rubare un tale buon uomo. Gli si misero d’intorno amichevolmente finché un giorno lo indussero a fare una curiosa partita. Questa fu di scommettere dieci ghinee in tal modo. Si posero tutti d’intorno a un tavolo, in una stanza, ciascuno mise su esso tavolo dieci ghinee. Chi avesse riso o parlato le perdeva. Ognuno doveva star sodo e muto. Fu fissato il tempo di un’ora. Questi buoni amici non avevano orologio ed indussero il Sig.r tale a mettere il suo sulla tavola per misurare il tempo. Incominciò adunque il gioco, quando, sul più bello del silenzio e della tranquillità universale, uno di questi Signori prese, sodo sodo, tanto l’orologio che le dieci ghinee del Sig.r tale, e sodo sodo se ne andò. Il Sig.r tale, furbo quanto mai, pensò che questo fosse un tiro di finezza per farlo parlare. Onde seguitava a star duro peggio che prima, né mai proferì parola. Quando poi osservò che più non ritornava l’amico, se ne avvide. Gli altri buoni amici fecero apparenza di maravigliarsi moltissimo di tal sorpresa.

Le nostre Gazzette parlano di guerra in Italia perché un gran Potentato vuole turbare la di lei tranquillità. Non so poi se parlino con fondamento.

Uno di questi giorni voglio cercar conto di M.r Sterne. Non mi perdonerebbero di partir da Londra senza averlo veduto.

Amico, questa volta ti scrivo magramente. Ieri ho avuta la mia solita micrania per la prima volta dopo la partenza di costì, ed è passata, ma la sede della bella mente non è tanto robusta. Per questo non voglio stancarmi per poterti nel venturo ordinario scrivere una delle mie, che non sogliano esser brevi. Salutami tutti gli amici. Io t’abbraccio e ti dico mille volte addio. Il tuo ALESSANDRO.

XLI (23) A Pietro. Londra, 8 Genn[ai]o 1767

Le nevi delle Alpi, i venti settentrionali m’impediscono di ricevere tue lettere. Io imperterritamente ti spedisco le mie. Sento che anche Frisio mi scrive da Parigi che non ha lettere d’Italia. Frisio mi scrive questo paragrafo che voglio ricopiarti: Non voglio differirvi sino a Parigi la notizia che il martedì sono partito da Beccaria nel punto in cui pensava di ordinare i cavalli. Poco dopo ha accordato alla Signora (per intelligenza di ciò sappiate che una tale Madame la Salle di Lyone alloggiava nella nostra Hotele, ed avevamo fatta amicizia con Lei) di fermarsi sino a mercoledì ed un momento dopo si è pentito della parola data ed è stato nelle smanie tutto il giorno. Per compimento dell’opera ha voluto il giovine Morellet (questo è quello che fu a Milano col Duca de la Rouchefaulcaut) a dormire la notte nella stanza vicina, e casi si sono rese pubbliche le smanie notturne, e le smanie erano degne dello spedale de’ pazzi. Non occorre riferirvi quanto s’è detto dopo la sua partenza. Vi dirò solo che in questa occasione ho avuto la soddisfazione di sentir parlare benissimo di voi. Da qui giudicate come stavo io, che soffrivo sempre le sue smanie notturne e la mia discrezione di non averne lasciato trapellare nulla ad anima vivente. Beccaria è stato fortunato d’avermi avuto per compagno, quanto io sfortunato d’avere avuto Lui. È stato anche fortunato di partirsene prima che l’entusiasmo del suo merito non si scemasse. Ciò sarebbe sicuramente accaduto in poco tempo. Egli era acro ed inquieto e già aveva detta qualche durezza a Morellet, l’Abate. Bastava che niente niente la cosa andasse avanti ed avrebbe veduto. Tutto è di moda in Parigi. Quanto a me, era sul mio buono quando partii. Cominciavo ad esser conosciuto. E, se avessero rivolti gli sguardi sulla mia persona, mi avrebbero sicuramente rifatto d’una specie di trascuranza in cui mi avevano lasciato. Ciò è naturale. Trovandomi al livello di Beccaria e di tutti loro, si sarebbero come stupiti, perché la mia modestia mi nascondeva. Questo sentimento io l’ho veduto nell’Inviato di Ginevra, il quale, avendomi parlato al lungo in carrozza andando a Versailles, mi disse che mi aveva conosciuto più in quel tempo che se m’avesse trattato un anno nella conversazione del Barone. «Voi andate ben in alto, mi diss’egli, ed io vi ho conosciuto». Di fatti in seguito mi usò cento finezze. Così Morellet, avendo mi sentito discorrere seco di qualche punto di erudizione, si è come stupito del dettaglio delle mie notizie, e mi disse che al mio ritorno da Londra volea imparare da me l’erudizione. Parimente Madama di Geofroin, dama di gran stima in Parigi, io so che mi vuol bene, e mi fu detto da tal uno che la frequenta: je vous donne la nouvelle que vous avez fait la conquete de Mad.e Geofroin. Ella è vecchia, intendiamoci. Da tutto ciò potrete vedere che io era sull’aurora e Beccaria sull’occaso. Se questa rivoluzione fosse accaduta, Beccaria, come suole, l’avrebbe accellerata cadendo in una spezie di avvilimento. Quand’è lodato è pazzo di vanità, ha dello spirito, è brillante; fate che si cominci a trascurarlo ch’egli, per lo stesso principio, si abbandona e mette la coda in mezzo le gambe come un bambino. Questo avrebbe decisa la sua decadenza. Non sarebbe mai stato disprezzato, ma sarebbe passata la sua moda. Onde replico: fortunato di esser partito a tempo.

Vengo dal teatro inglese. Vi ho sentito un’opera buffa. La musica è italiana e buonissima. Gl’Inglesi non cantano male. In paragone de’ francesi sono angeli. I Francesi hanno gli accenti nasali, che sono insoffri bili nella musica, ma la lingua inglese si piega benissimo al canto. A proposito di questa lingua, io vi dirò che è una solenne impostura quanto si dice da noi della difficoltà di pronunciare il th cotanto famoso. Qui abbiamo molti Italiani che parlano bene l’Inglese e pronunciano egualmente bene il th. A molti Inglesi a’ quali ho parlato di questa supposta difficoltà io ho provato a pronunciarlo, e m’hanno confessato che lo pronuncio benissimo. Il Segretario della Società Reale, il Dottor Morton, quando gli dissi s’era così difficile quest’accento mi rispose alla Inglese, succintamente: io ve lo faccio pronunciar subito; ponete la ponta della lingua alla punta de’ denti superiori ed in tal positura pronunciate una zitta, e voi avrete pronunciato il nostro th. E così è precisamente. Io non vi dirò che tutti i forastieri lo prononcino benissimo: vi dirò che molti lo dicono come un Inglese e molti altri l’hanno un po’ stentato, ma la difficoltà è, come tanti altri accenti, che in età adulta si stentano a profferire così bene come un nativo. Egli è ben vero che in certe parole riesce più difficile che in certe altre, e ciò dipende dalla posi tura in cui si trova la lingua quando deve prononciarlo, ma è sempre vero che questa lettera è dolce e niente più difficile di molte altre in tutte le lingue per un forastiero. Impostura, impostura, impostura.

Questa sera all’opera buffa inglese v’era il Re e la sua famiglia. Quando S.a Maestà od alcuno de’ Principi compare si battono le mani, ed esso Re o Principi fanno una riverenza rispettosa al perterre. Così anco la Regina e le Principesse. Se non la facessero rischierebbero di sentire delle fischiate. Ho osservato che, partendo, la famiglia tutta torna far la riverenza al pubblico ed il parterre risponde colle mani, né si sono cavati il cappello che tutti avevano in capo, essendo già in piedi per escire dal Teatro. Non vi sono tante cerimonie. Le infinite satire pubblicate contro Sua Maestà, in rami i più matti, ridicoli ed osceni del mondo, sono raccolte in un libro e si vendono pubblicamente. L’Inglese volgare non definisce la libertà in altro modo che la facoltà di dire e scrivere, cominciando contro Dio sino al Facchino, tutto quello che gli piace. Ma, se pure io posso pronunciare sul destino di questa gran nazione senza conoscere a fondo il suo sistema, io dico che questa è licenza piuttosto che libertà, e che mi pare di vedere i sintomi della decadenza in questa insolente indipendenza, perché tale è stato ancora il fato di Roma. Il popolo fu schiavo poco dopo che faceva strascinare in prigione pel collo i Consoli. Quand’era veramente libero, non fu licenzioso. La continua inquietudine che v’è nel ministero, il continuo creare e deporre Magistrati prova che il popolo è sovrano: ma questo sovrano, a forza di [non] temere i Magistrati e di volere esercitare questa sua libertà, spegnerà alla fine la semente de’ buoni cittadini, e nessun uomo grande e fatto per ben servire vorrà esporsi all’oceano de’ popolani capricci, che sempre in tutte le repubbliche democratiche sagrificarono qualche gran vittima. Allora tutto è perduto. La venalità e l’imitazione de’ vizi popolani cominciano a procurare i voti. Qualche scaltro cittadino si oppone alla corte in tutte le cose solo per secondare il popolo, entra nelle sue passioni ed a poco a poco si sostituisce una vera tirannia ad una temuta. Che libertà è questa di ingiuriare il loro Re? Perché tenerlo sul trono se meriti tanti insulti? Se non gli merita, perché farglieli? Se gli merita e non potete deporlo, dunque siete costretti ad avere un cattivo, un ridicolo Re. Quale eccezione alla libertà non è questa? Sarebbero gli sfoghi d’uno scolaro battuto dal suo maestro, non quelli di una nazione in cui il Re non sia che un magistrato. Se l’ammiraglio Bing è stato sacrificato, come alcuno mi dice, al furore del popolo, non è egli vero che due o tre di questi esempi allontaneranno i grandi Ammiragli dal servire la patria? Quest’è quanto io sospetto sul fato di questa Isola, e sarei contentissimo di fare a pugni con un orgoglioso Inglese che non fosse più robusto di me per provargli che poi non tutti sono cani francesi i forastieri. Così io scrivo perché questa sera sono in collera coll’Inghilterra. Guardate se noi altri, discendenti da una Repubblica che appena sanno imitare codesti Inglesi, potiamo soffrire di esser chiamati cani! Bisognerebbe tornargli a spedire un Giulio Agricola. Vi fu un Italiano, credo l’anno passato, che nel Parco di S.t James si urtò con un Inglese: sapete che disse questo? Dovreste però far luogo, quando passa un Inglese. Se venisse a passeggiare al Parco l’anima dell’Imperatore Severo, che morì in Iork, che direbbe di queste buffonate di libertà?

L’uno di questi giorni sono stato in cima della cupola di S.t Paolo, da dove si vede tutta Londra, cioè quanto ne lascia vedere il fumo. Non è mai possibile di vederla tutta. Quel giorno vi era un vento furiosissimo che poco mancò non mi gettasse per terra al primo piano della cupola, onde il fumo era scopato: pure non si vedea che pochissimo.

Vado sovvente sul Tammigi. Si vede Londra, di là, in vari bellissimi prospetti. Sul fiume vi sono dei Cigni. Appartengono a vari particolari. Hanno la figura di grandi ocche.

Due ponti vi sono sovraimposti. L’uno detto di Londra, l’altro di Westminster. Fra poco vi sarà il terzo, che si sta fabbricando, e sarà più bello del famosissimo di Westminster. Il ponte vecchio di Londra è pericoloso a passarvi sotto in battello, perché i pilastri degli archi sono circondati e palizzati da molti piloni, lo che ristringe il passaggio dell’acqua, ed essa acquista una somma rapidità. Vari di questi battelli vi periscono in capo all’anno e si è calcolato che a quest’ora vi è perito un tal numero di gente e di merci che si potrebbe, con quel denaro, fabbricare più di un ponte nuovo. Ciò non ostante ne fanno un nuovo in un’altra parte piuttosto che pensare a rifar questo. Benché, come dissi, quel ponte sia pericoloso, sempre vi passano battelli, e ne ho veduti io stesso moltissimi: e ciò per risparmiare un piccolo tratto di strada. Gl’Inglesi non temono nulla.

Anche qui, come a Parigi, si credono i Pattagoni. Il Segretario e secondo Segretario della Società Reale, Dottor Mortori e Dottor Mattys, lo credono, come credono ch’esiste il sole. Secondo essi le relazioni sono sicure e ripetute. Non v’è nulla a dire. Questo è ben vero, che qualche tempo fa è stata spedita da qui una nave senza sapersi mai la sua destinazione. Si pretende ch’essa facesse questa scoperta. Comunque sia, a Parigi dicono che è un Francese Capitan di nave che ultimamente gli ha veduti, e qui dicono ch’è un Inglese. Così accade anco intorno la dissalazione dell’acqua marina, di cui s’è tanto parlato. I Francesi dicono ch’è un M.r Poissonel, gl’Inglesi dicono ch’è un Inglese. Quanto a tal affare la cosa è che veramente l’invenzione sussiste, ma la macchina è troppo dispendiosa ed in molto tempo distilla pochissimo. Perciò è stata negligentata. Si potrebbe per altro averla per un’occasione.

Addio, amico adorabile. Saluta codesti miei cari amici. Dammi tue e loro nuove. Ti abbraccio al traverso del mare e de’ monti. Credo che sarò a Parigi alla fine del corrente. Oh Londra, Londra! Se vi potessi portar qui vedreste se ho ragione di amar Londra. Me ne ricorderò sempre. Addio, caro, sono il tuo ALESSANDRO.

XLII (19) Al Fratello. [Milano,] 2 Febb[rai]o 1767

Prima di rispondere alle tue care lettere dei 6 e 8 del passato, che ieri ho ricevute, comincierò a vuotare il mio sacco. Primieramente dunque ti dirò che nostro Padre è ammalato, presso poco come lo è stato l’anno passato. V’è febbre e raffreddore, gli hanno due volte cavato sangue; oggi sta meglio e il male, per sé, non è serio in conto alcuno; verisimilmente sarà un intrico ancora per un paio di settimane.

Ricevo da Aubert una lunga lettera dei 26 dello scaduto; la risultanza è questa. Il Sig.r Auditore ha letto con molto piacere il tuo manoscritto, l’ha ristituito a Aubert, non gli ha detto di non stamparlo (il che accade quando un libro lo crede degno di censura), ma gli ha detto di farlo leggere anche al Sig.r Avvocato Baldasseroni; esso lo legge attualmente e lo trova buonissimo; egli vive in mezzo ad una magnifica Biblioteca ed è versatissimo nella erudiz[ion]e; vi ha trovati alcuni pochi fatti ch’egli crede sbagli, ne fa una notarella: sono assai pochi questi fatti e ti potranno servire. Aubert t’aspetta in quaresima perché vuole cominciare l’edizione sotto gli occhi tuoi. Aubert vorrebbe che tu aggiungessi una particolarità alla congiura de’ Pazzi, cioè che dopo aver riferito come l’Arcivescovo Salviati fosse allora impiccato, dicessi ancora che i Fiorentini in tal occasione con un Sinodo de’ loro vescovi scommunicarono Sisto IV: il che consta da un manoscritto della Biblioteca Strozzi che Aubert conosce, e, crede, anche dalla Storia di Macchiavello.

Mi scrive Lungo ai 21 del passato ch’io ti comunichi il suo progetto sul viaggio d’Italia. Egli non è legato a partir da Roma più in una settimana che in un’altra, perciò puoi prenderti i tuoi comodi. Ti propone che da Marsiglia tu passi a dirittura a Livorno; ivi farai le disposizioni che ti occorrono per il tuo libro. Passerai dopo a Firenze e di là a Roma. A Roma alloggerai con Lungo, in casa d’un Curiale, con poca spesa; egli ti consiglia di non annoiarti nelle conversazioni e di non cercare in Roma che l’architettura la scultura e le belle arti: piovono Cardinali da ogni parte, dopo la promozione. Dopo il soggiorno di 15 o 20 giorni partirete per vettura insieme verso Napoli, ivi propone di fermarsi dodici giorni: tutt’i viaggiatori illuminati gli assicurano che è inutile il prodursi in quella società di Covielli e Pulcinelli. Di là partireste per altra strada, cioè Capua e Monte Cassino, poi, radendo la costiera dell’Adriatico, passando per le molte città della Romagna, propone che vediate Bologna, poi voltiate a Venezia da dove per Padova, Vicenza, Verona e Brescia tornate alla cara Patria. Egli ti dice di non temere la spesa: egli sarà tua scorta, tuo compagno, e né è prodigo né può esserlo. Se vorrai essere conosciuto (dice) lo sarai dovunque, se non lo vorrai sarai libero; la Società dell’Italia meridionale non merita l’incomodo d’essere conosciuta: per quanto sciocchi e formalisti sieno i Romani, i Napoletani lo sono anco di più, quella nazione è fatta (dic’egli) per la commedia, cioè per figurarvi e far ridere gli spettatori. Bisogna dunque che tu mi scriva le tue risoluzioni su questo progetto e, di più, che presso poco m’indichi il tempo acciò io possa prevenire il nostro caro Lungo, il quale a Napoli preverrà per avere un allogio dai Teatini. Ei ti promette la consolazione spirituale di sentire la sua Messa nella Santa Casa. Finalmente conclude dicendomi: «S’il contoit de voyager en Seigneur, je lui dirais franchement que je ne suis pas en etat de l’accompagner. J’attend donc sa reponse et te prie de lui comuniquer cette lettre au plustôt». Io credo che, per poco che tu abbia di scorta, co’ venti zecchini al mese che avrai regolarmente tu possa accettare questo piano; se poi prevedi che ti faccia bisogno maggior somma tutta in una volta, parlami chiaro, che io te la faccio trovare a Livorno al tuo sbarco; e non perdere l’occasione di far questo viaggio con un amico come Lungo, col quale stringerai sicuramente di più l’amicizia in quest’occasione per i piaceri che ti proccurerà la sua cara compagnia. Eccoti detto quello che m’occorreva: ora vengo a risponderti.

Signor no, prima diciamo qualche cosa di Beccaria. Il sistema costante è che noi non ci vediamo più; egli, per quello ch’io so, passa la sera con Odazzi, Visconti ed i suoi due fratelli; la Moglie va in Teatro con Calderari, egli se ne sta in sua casa; colla compagnia che gli resta non ha certamente alcuno al suo livello per comunicare le sue idee; so ch’egli per lo più è come sopra pensiero e tristo. Il giovedì egli va da Carli quasi regolarmente, ma ha sempre seco Odazzi, fors’anco per evitare ogni téte-a-téte. Siccome s’è cominciato a vociferare che fra te e lui vi sieno stati degl’imbrogli, così io mi sono creduto in libertà di confidare alla Somaglia una idea di quanto è accaduto. La sua lontananza da me dà assai nell’occhio, né v’è più alcuno che creda il suo precipitoso ritorno da Parigi effetto de’ libri comprati, come io aveva sparso; egli medesimo ha smentita questa voce dicendo di non avere spesi che trenta zecchini in tutto. La Somaglia, dunque, in circolo di Carli venendo la palla al balzo, è entrata sul punto della morale degli uomini di lettere e dei vizi di cuore che contaminano troppo spesso quegli uomini che pure, di lor mestiere, sono i maestri degli altri; a questo proposito s’è riscosso l’amico vivissimamente e, parlando sempre in generale, fa vedere o almeno vuol far vedere d’essere persuaso che i vizi del cuore sieno nostri. Dico nostri, perché non si può bene distinguere se a me o a te ne voglia. Il tempo ci farà vedere più chiaro; la cabala certamente ora è ordita tutta e condotta dalla moglie, la quale lo guida e signoreggia interamente.

Ho ricevuti da Beccaria i tuoi libri, cioè: otto tomi della Gazetta Letteraria, un esemplare dei Delitti e pene francese, un libro sulla unione della musica colla poesia, un demelé fra Rosseau e Hume, una brochure sulla, Police des Grains, un libro sulle tele dipinte ed un elegantissimo almanacco d’Iconologia. Io li custodirò sino al tuo ritorno, frattanto ho già cominciato a leggere con voluttà la Gazetta Letteraria. Le mie Meditazioni vi sono annunziate nella maniera la più onorevole e graziosa: se conosci l’autore che mi ha tanto abbellito ti prego di fargli i più sinceri miei ringraziamenti. T’assicuro che dopo l’asinesco giudizio del Giornale di Bouillon e dopo l’umiliante silenzio di Beccaria aveva di bisogno di questo conforto letterario per riprendere vigore. A proposito di quel bestiale giudizio del Giornale, ricordati di quanto t’ho già scritto, proccura di leggere tutte le bestialità che ivi sono sul proposito dell’Abate d’Adda che ivi (a quello che mi vien detto) si annunzia come un ristoratore della filosofia e del gusto d’Italia, mentre si vuol far passare Zoroastro per un vandalo, apostolo dell’ignoranza e della barbarie. lo credo, e da questo fatto e da alcuni altri, che abbiano costoro un corrispondente in Milano il quale li faccia servire alle sue passioncelle; cerca di verificare questo fatto, e se credi che sia bene ch’io stesso scriva al Sig. Rosseau o a chi dirigge quest’opera, dimmelo ed indicamene la strada. Se quei Scrittori cercano la verità, il bene delle lettere, l’avvanzam[en]to della coltura, l’imparziale riputazione del loro giornale, non possono ricusare la nostra corrispondenza e in Lombardia non ne avranno una eguale; se poi la cabala o la venalità li degrada e se fossero mai tanti Baretti colla urbanità di vernice francese, allora io sono del parere che già t’ho detto altra volta, di ristampare in Milano con note ed aggiunte la loro opera, far un servizio all’Italia e toglier loro gli associati di qua dalle Alpi; sei o otto facciate in francese ogni 15 giorni non sono un gran peso. In questo caso io mi raccomando a te perché mi trovi il mezzo d’avere il giornale per la posta: sai che non mi costa nulla e così potremo distribuirlo prima che giunga agli altri; qui giunge sempre un mese e mezzo più tardi della data.

Godo che tu abbia prolungato il tuo soggiorno in Londra, anche perché non ti sei messo in viaggio fra i rigori della stagione; tu sul luogo giudicherai se ti convenga fermarti poco a Parigi, io però crederei che fosse bene il fermarviti perché possa rifarti della nebbia che t’ha gettata intorno Beccaria; da te solo vedrai forse che non ti sarà tanto dispendioso il soggiorno, e poi ricordati, cariss[im]o me stesso, che la tua gloria è un bene prezioso per me e che, se per una mal fondata e immaginata pudicizia tu trascuri di acquistartene un grado solo, mi dai un vero e irrimediabile dispiacere. Scrivimi liberamente di che hai bisogno, cerca di lasciare un nome, di farti conoscere, e stabilisci i fondamenti per i quali, ritornato che tu sia, possiamo da noi due soli esistere anche nel mondo letterario.

Il paragrafo della lettera di Frisi che mi hai trascritto mi consola propriamente. Vedrai che in Parigi al tuo ritorno tutto anderà meglio per te; le fanciullagini dell’amico si sono bastevolmente fatte conoscere anche con Morellet; dici bene, se egli si tratteneva ancor poco a Parigi le stravaganze sue avrebbero spento ogni entusiasmo per lui; non è facile il trovare la tenacità mia nell’amicizia e la pontualità mia di contraporre incessatamente le buone qualità ai difetti nel giudicare. In fatti io sono stato il primo, il più stretto e l’ultimo degli amici di quest’uomo. I suoi deliri, le sue stravaganze, le sue non compiacenze per gli amici non hanno mai superato presso di me il merito della sua mente e la schiettezza del suo carattere; finalmente egli m’ha assalito con una serie di torti essenzialissimi fatti a te, e in ultimo con una serie di fatti che m’hanno dimostrato ch’egli è nemico della mia gloria e mi vorrebbe satellite suo; la dissimulazione, la cabala letteraria, la imprestata freddezza, il fasto sono entrati in quell’anima in luogo della bonomia, della ingenuità, dell’entusiasmo per il merito e dell’amicizia; dimmi, come poteva io conservare nel mio cuore i sentimenti di prima? Sono io colpevole, in faccia alla più pura virtù, d’avere del disprezzo per questa poco generosa sua mutazione? Eppure conosci il mio cuore: insino che in Beccaria ho veduto il fasto e il trionfo dell’aura felice io l’ho odiato e mi sono sentito animato contro di lui; ora che sento che non è di buon umore, che lo vedo o almeno lo sospetto in preda a qualche rimorso, sappi che ne provo pena e che, per poco ch’io possa conoscere quell’uomo malcontento d’avermi trattato così, io forse non potrò resistere, e converrà ch’io vada il primo ad aprirmi con lui. Ma no: avressimo troppo dure cose da direi e son sicuro che il giuoco che m’ha fatto questa volta lo rifarebbe, ritornando in fortuna. Basta, la mia testa dice di no, cosa sarà per succedere non so persuaderlo.

Ho letto nel primo tomo della Gazette Litteraire a pag. 287 che v’è un magnifico rame rappresentante M.elle Clairon da Medea: se puoi a un prezzo discreto averlo mi farà piacere; così pure i ritratti che potrai avere degli uomini illustri di costì.

3 Febb[rai]o

Per azardo ho inteso da Lambertenghi che i libri che ho ricevuti per mezzo di Beccaria sieno a me donati dagli Autori. Mi schiarirò di questo dubbio; se ciò mai fosse sarebbe poi dalla parte di Beccaria l’estremo della gelosia letteraria, non solamente non portarmi le memorie d’alcuno uomo di lettere, nemmeno interrogato e istato sopra di ciò, ma occultarmi persino la mano che mi dona ed espormi a passare per un asino. Se ciò è, io ti prego dei Caffè e degl’Innesti miei di farne un dono da mia parte reciprocamente a chi m’ha regalato, e scriverò in ringraziamento; basta, per ora: questo è immaturo: nell’ordinario che viene vedrò come sia la facenda.

Nostro padre sta molto meglio e non v’è niente afatto di serio; egli al suo solito vorrebbe di riverbero fare continui rimproveri a’ suoi figli perché non abbiano cuore per lui; quella non è la strada di farlo certamente nascere. Se i figli facessero a lui il rimprovero di avere spenta nel loro cuore la sensibilità per lui avrebbero ragione. È una contraddizione terribile quella di vedere nella stessa persona uniti il padre e l’inimico inconciliabile, ed essere noi costretti a fingere, per convenienza, dei sentimenti che ci sarebbe dolcissimo di provare nell’animo. Io continuo a vivere bene co’ due fratelli; l’Abate è mutato interamente, i suoi cambiamenti si fanno con rapidità e con poco esame, egli è un essere paziente che, come i fluidi, prende la figura del recipiente in cui è versato. Non v’è nulla di nere in quell’anima. Il Cav.re è mosso assai dal Teatro e dal bello, tutti due sono più occupati dell’arte di viver bene cogli uomini che della sublime e indipendente di viver bene con noi stessi; il sentimento del grande non s’è sviluppato ancora, né vedo quella attenzione e delicatezza, compagna delle virtù sociali, che non fa pesare la nostra esistenza a chi vive con noi. Sono due buoni giovani, ma, per dire la verità, non possono ancora pretendere né al nome di giovani di spirito né a quello di giovani di genio; forse le machine non sono sviluppate affatto, forse una serie d’idee, sopravvenendo, li renderà tali; ma ne dubito, perché non vedo né contenzione o bisogno sentito di farne acquisto, né una sorta d’elasticità che accenda l’entusiasmo per le cose grandi e belle. Onestà, indolenza e comodo sono le droghe che compongono que’ due individui; all’Abate aggiugni la voluttà, della quale non dà indizio il Cav.re. Caro Alessandro, figurati s’io ho bisogno di te; t’assicuro che penso spessissimo al delizioso momento in cui ti potrò abbracciare, quest’è uno de’ miei vaneggi favoriti e voluttuosi; potrò rivederti, potrò dirti cento e cento cose delle quali ho fatto magazzeno nella tua assenza, avrò un confidente delle mie idee, delle mie seccature ministeriali, dei sentimenti del mio cuore; e frattanto taccio perché non ho chi m’intenda o di chi possa liberamente fidarmi. Tu ritornerai dal Colombirolo e non da Boffalora, se ascolti il progetto di Lungo, ed al Colombirolo o a Vaprio sarà il nostro incontro, si tornerà a redificare la Gerusalemme con te, Lungo, Lambertenghi e me, potremo forse riprendere un’opera periodica, se tu porti buoni corrispondenti potremo forse intrapprendere un Giornale il quale faccia vedere all’Italia come si debba imparzialmente giudicare delle produzioni letterarie; questa occupazione è certamente più facile che non il Caffè, perché la materia prima del lavoro non manca mai. Basta, vedremo; sia ciò o non sia per succedere, sicuramente saremo un piccol crocchio d’amici che a vicenda proccureremo di renderei grata la vita e di progredire nelle scoperte del vero. La mia vita comincia ad essere un po’ meno annoiata e più libera, perché le cose si sono in gran parte poste a livello, onde avrò più tempo per i miei amici. Il viaggio con Lungo ti attaccherà sempre più a lui: egli non è imbecille né prodigo, né smemorato, né fastoso, né abbattuto, egli dividerà con te gl’incomodi e i beni, e finirai, lo spero, il tuo filosofico pellegrinaggio tanto deliziosamente quanto l’hai cominciato male. PIETRO.

XLIII (24) A Pietro. Londra, 12 Gennaro 1767

Comincio dal darti la lista delle spese che ho fatte a conto dell’ultima tua cambiale. Prima di parlare dei prezzi parliamo della moneta e spieghiamoci. Una Ghinea è lo stesso che un Luigi di Francia. La Ghinea vale ventuno Schellini: lo Schellino si divide in dodici soldi. Quest’è quanto necessario che sappiate per vostra regola. Vedrete a conti fatti che lo Schellino è qualche cosa di più di due paoli. Io parlerò sempre di Schellini, cioè della ventunesima parte di una Ghinea.

Lista delle Merci. La prima cifra indica Schellini, la seconda Soldi.

                                                                                                                                                       Schell.     Soldi

Mezza dozzina di forbici ……………………………………………………………………………………….. 9          –

Altra idem più belle …………………………………………………………………………………………….. 10         –

10 rasoi col manico di osso nero comuni ………………………………………………………………   13         4

Questi sono solam[en]te 10 perché due ne ho tenuti per mio uso. Vagliono 16 Schellini la dozzina.

4 rasoi di aciaro gittato col manico di tartaruca ……………………………………………………… 10         –

N’aveva comprati mezza dozzina in ragione di Schellini quindici, ma ne ho rivenduti due al Molini che li desiderava.

6 guarniture di bottoni per camiscia di vetro colorato leg[a]ti in arg[en]to ……………….. 10         6

3 guarniz[io] ni di bottoni di camiscia di metallo liscio dorato ………………………………….. 4         6

altre quattro guarnizioni di metallo ed arg[en]to con smalto …………………………………….. 6         –

altre due idem di metallo ………………………………………………………………………………………. 2         –

Due catene di orologio da donna di prencisbecco …………………………………………………… 12         –

due idem di acciaro …………………………………………………………………………………………….. 16         –

altra idem di acciaro …………………………………………………………………………………………….. 8         –

Due catene di orologio da uomo di acciaro ……………………………………………………………. 10         6

due altre idem ……………………………………………………………………………………………………… 6         –

due altre idem ……………………………………………………………………………………………………… 4         8

Equipaggio dell’orologio

Uncino di acciaro …………………………………………………………………………………………………. 1         –

Cavaturaccio ……………………………………………………………………………………………………….. 1         6

Pistola con uncino ……………………………………………………………………………………………….. 3         –

2 trombette …………………………………………………………………………………………………………. 3         –

Un paniere d’uova ……………………………………………………………………………………………….. 3         –

Bottiglia ……………………………………………………………………………………………………………… 3         –

4 cuori da capelli …………………………………………………………………………………………………. 8         –

Sei sigilli di figurine di smalto …………………………………………………………………………….. 18          –

Fibbie

12 guarniture di fibbie di tombaga ……………………………………………………………………….. 30        –

3 di metallo dorato ……………………………………………………………………………………………… 30       –

2 fibbie di colletto liscie dorate ………………………………………………………………………………. 4        6

altra idem lavorata ……………………………………………………………………………………………….. 3         9

un paio di fibbie di metallo liscie ……………………………………………………………………………. 3         6

altro idem lavorate ……………………………………………………………………………………………….. 5         6

altro idem ……………………………………………………………………………………………………………..5         –

un paio di orecchini da donna di granate leg[a]te in metallo ……………………………………. 11        –

altro idem ……………………………………………………………………………………………………………. 7        –

Totale Ghinee                                                                                                                                   14.  3.  9

Dal totale voi vedete che ho speso circa quattro Ghinee al di là della vostra cambiale. Ma credo che non sieno mal spese. Le sei catene di orologio da uomo di acciaro le ho comprate da M.r Baumgarter, corrispondente di vari milanesi e fra gli altri del Chinetti, e me le ha date al suo costo. Di fatti, se osserverete, il prezzo mi pare ben ragionevole. Vi assicuro che le troverete belle. Le bigioterie dell’equipaggio dell’orologio mi sembrano a un prezzo non così discreto, pure le ho comprate coll’assistenza del fratello dello stesso Baumgarter. Sono raccomandato a Lui: né posso supporre Egli inganno: è ricco ed onesto, per quanto mi sembra. I sei sigilli di figuri ne di smalto, piuttosto, a tre schellini l’uno, mi paiono buon mercato. Sono assai belli. Comunque sia, videbimus. Non si parli a nessuno di questi negozi. Tutto bisognerà fare segretamente. In Milano v’è, fra le altre belle qualità, quella di parlare a torto e a traverso di tutto. Direbbero cento bestialità se sapessero queste negoziazioni. Io porrò ad ogni merce il numero del costo in schellini. Così sarà una specie di ciffra che non intenderete che voi. In questo mese le spedirò per Genova. Bisognerà confidar questi affari, a mio credere, al Ghelfi. Egli sarebbe ottimo per spacciare queste robbe. Un altro genere proficuo di commercio sarebbero le merci della China e delle Indie: fazzoletti, porcellane indiane, stoffe di seta e lini, ecc. lo so che il Baumgarter ne spedisce costì a vari Mercanti. Si prendono al Magazzino della Compagnia delle Indie qui in Londra. Ma bisogna cominciare un po’ all’ingrosso, perché in tal caso v’è una gratificazione alla Dogana. Quest’oggetto è troppo vasto per le vostre e molto più per le mie finanze. Gl’istromenti matematici ancora per gli Agrimensori ed Architetti sono un altro oggetto, così pure candelieri e servizi di tavola di stagno ed ogni sorta di lavoro di metallo, che qui si lavora ad una perfezione più che in ogni altro paese. I corami d’Irlanda sarebbero ancora un altro capo. In somma, ve ne sono cento. Questo paese risuona commercio da per tutto. Dove però io starei molto sarebbe nel genere di acciaro e metallo, fibbie, catenelle, forbici, rasoi, bottoniere, ecc. Tai robe si fanno alla campagna e massim[amen]te ai due siti famosi in ciò di Birmingham e di Sheffield. Comprando a queste fabbriche si ha il vantaggio di tutto il guadagno che fanno i mercanti di Londra che tirano di là le merci. Ma siccome che v’è almeno cento miglia ad andare a que’ luoghi, così, se non si tratta di una grossa commissione, non conviene pagare il viaggio al Commissioniere. Bisognerebbe almeno arrivare alle cento Ghinee. Lasciamo il commercio.

Me la passo bene, penso di partire tra i 25 e i 30 del corrente. Frisio è contentissimo di me perché ho assistito alla sessione della Società Reale e sono stato a vedere le fabbriche del paese. Si rallegra di cuore con me perché sappia viaggiare come si deve. Io sono obbligato al suo buon cuore e faccio la corte alle sue passioni, che ben lo merita chi veramente in questo mio viaggio mi ha assistito con tutto il calore. Devo a lui le utili lettere che ho avute per Londra. Le ha scritte con grandissima premura. Non si può raccomandare con più amicizia. Questo Marzo ritornerò con Lui nelle tue braccia. Facciamo conto di passare da Ginevra e forse di vedere Voltaire, il quale, si mi farà l’accoglienza di Morigia, lo abbandonerò subito. Sono avvezzo ai Didereau, agli Elvetius, ai d’Alambert, ecc., ed ho poi veduto che non sono cannoni i grandi uomini. Si può presentarsi loro senza tremare, e devono restare obbligati che si venga a far loro omaggio. Sono pazzi ed ingiusti ed indegni che alcuno abbia entusiasmo pel loro merito, se accolgono freddamente o malamente un uomo che casca a’ lor piedi. In tal caso non meritano altro che una solenne voltata di spalle.

Abbiamo un freddo grande, quale non è stato da sei anni in qua. Il Tamigi è pieno di gran pezzi di ghiaccio che vanno e vengono secondo che monta e scende la marea. La navigazione e la pesca è impedita. I pescatori hanno portate qui nella Città le loro barche e le reti, vi si pongono dentro nella strada e cercano l’elemosina. Non mi fiderei a partire in questi giorni. Da qui a Douvre si passano varie montagne, le quali non sono attualmente praticabili per la neve. Ma tal stagione qui non suol durare che pochi giorni. Presto saranno finiti tutti questi guai.

V’ho ultimamente scritto intorno una scommessa qui seguìta, di correre coi patin un miglio in un minuto. Tre giorni sono la scommessa fu effettuata e la corsa fu fatta in 57 minuti secondi. Un miglio d’Inghilterra non è minore de’ nostri. Questa velocità sorprendente suppone 60 miglia all’ora. È volare.

Ho dimandate ulteriori informazioni intorno l’essenza di rose. Quella di Persia si ha per fortuna, ma da cinaria non mai. Non se ne trova. Se ne fa di quasi egualmente buona a Firenze. Vi costerà sette o otto zecchini l’oncia. Potete informarvene.

[sedici righe abrase]

Il giorno che fui alla Sessione della Società Reale fu presentato un bellissimo rame che rappresenta la deposizione della croce di Gesù Cristo. Sotto v’era questa iscrizione, parimenti in rame, in Italiano:

Un Francese, trovato un suo figliuolo che scriveva un trattato contro la Religione Patria, mostratogli un Crocifisso disse: «Ecco il fato di un Riformatore». Disegnato e intagliato ad acqua forte l’anno 1767 in Londra, dallo schizzo di Antonio Van Dyck della stessa grandezza, dipinto sul legno a olio in chiaroscuro, nella collezzione di Tomaso Stollis Inglese.

Credete voi che facesse qualche spezie all’accademia questo bel detto? Nessuna affatto. Fu veduto e letto da tutta l’udienza senza che la imperturbabilità inglese dasse segno di meraviglia, di riso o di scandalo. Io, quando la vidi, non potei a meno di ridere assaissimo. Massimamente mi pare curiosissimo quel tirar di lungo dicendo: disegnato e intagliato ad acqua forte ecc. Non è già che molti non intendessero l’Italiano. Il Presidente ed i due Segretari hanno subito intesa la inscrizione. Non vi fu che il Dottor Morton che vi disse: «V’è una inscrizione a quel rame che bisogna che vediate». Gl’Inglesi si stupiscono di nulla. Niente gli sorprende. T’abbraccio.

13 d[ett]o

Ricevo in questo momento la cara tua dei 13 Xbre. Ella è piena di cose per me interessantissime. Primieramente mi scrivi con tal sentimento che mi par di sentirti parlare. Ti sono obbligatissimo che malgrado i tuoi affari mi scrivi lettere lunghissime, ch’io sto sempre aspettando a tutte le poste come la Manna. L’ordinario venturo ti risponderò più al lungo perché ora mi rimangono pochi momenti avanti la partenza delle lettere. Tu dunque trovi Beccaria come l’ho trovato io, e ciò me l’aspettavo. Figuratevi quanto la sua gelosia di spirito e l’alto sentimento che ha di se stesso dovevano essermi incomodi a Parigi, dove tutti due eravamo su un teatro. Costì in Milano il suo voto e la sua trascuranza non mi avrebbe piccato tanto, ma a Parigi era crudelissima. Beccaria finirà a perdere i suoi Amici, dal primo all’ultimo, e ad essere il pusillanime bamboccio di sua moglie. Merita sdegno e compassione, il suo carattere. Non credere un fico quando ti vorrà dipingere la freddezza che si ha in Parigi per te. Tu sei stimato, e la tua presenza accrescerebbe moltissimo questo sentimento. lo sono stato molte volte preso in fallo per te come autore delle Meditazioni, e mi si accostavano e mi complimentavano con tanta stima con quanta lo facevano con Beccaria. Non ti maravigliare che nessuno di que’ Signori ti abbia mandato a dire addio. Ti assicuro che quando ritornerò ti porterò i loro complimenti. È naturale che io, come fratello, sarò destinato a quest’uffizio gratissimo. E poi, in quel turbine di Parigi e colla velocità con cui Beccaria è partito, non v’è tempo quasi di dar queste commissioni. Ti parlo per esperienza e ti ripeto che a Parigi sei conosciuto e stimato. Credilo, credilo, credilo, Non ti maravigliare tampoco che gli! Autori della Gazzetta Letteraria non ti abbiano mandata una copia di essa. Eglino non sono ricchi, e sono otto gran tomi in ottavo. Me ne hanno per altro data una copia, che ho costì trasmessa per mezzo di Beccaria, e cercane conto. Così gli ho pur consegnato qualche altra brochure della quale non mi ricordo. In somma, non credere nulla affatto alla letteraria politica dell’Amico perché egli è fatto per avvilire ed umiliare, dopo che ha prese le grandi arie di Tosonista della filosofia. Vi ho sempre detto ch’è impertinente come un musico, e ve lo ridico. Chi avrebbe creduto che così dovessimo esser ricompensati dell’amicizia con cui, massimamente tu, l’hai portato a quella gelosia che tanto ci pesa! Non ho più tempo che di abbracciarti.

P. S. Dalle mie lettere che avrai già ricevute scritte da qui, avrai potuto conoscere lo stato dell’anima mia. Vedo che tu mi accenni che in casa fa qualche spezie l’esser io partito solo alla volta di Londra: ed io vi dico che vi sono tanti coglioni che vanno soli da Napoli a Londra e che non vi vuole il minimo grado di coraggio per viaggiare in Europa. In verità che da Milano a Londra, adesso che vi sono stato, io vi andrei colla stesssa facilità con cui vado a Biassonno. Non mi loderò mai d’aver avuto quella forza d’animo ch’è troppo necessaria ad un uomo e che ho comune con infiniti altri. Tranquilliateli su questo punto i miei genitori troppo cordiali. Il viaggiare per la Francia e per l’Inghilterra è lo stesso che passeggiare: tanto da per tutto vi sono ogni sorte di comodità. Replico: bisogna esser coglione per non sapere andar solo. Meglio mille volte che male accompagnato. ALESSANDRO.

XLIV (25) A Pietro. Londra, 15 Gennaro 1767

Fin ora ti ho scritto da qui due volte la settimana, cioè il martedì ed il venerdì, giorni di posta per l’Italia. Sono arrivato a Londra il g[ior]no 8 Decembre, onde presto si possono fare i conti per vedere se, come spero, tutte le mie ti siena pervenute. Ora rispondo più precisamente alla cara tua de’ 13 Decembre.

Beccaria è ben venuto a rotta di collo, portandosi da Parigi costì in giorni nove, fermandosi ancora uno e mezzo a Lyone. Vedete che maladetto mal di moglie! Vedo che tu entri tanto nelle mie passioni quanto lo comporta la somma analogia delle anime nostre. Tu riguardi Beccaria col mio occhio: e qui ti aspettavo. Ben mi rincresce ch’egli amareggi il tuo amar proprio come ha amareggiato il mio, e di veder ti riposto in orgasmo per la pochissima cura che suol sempre darsi di non offendere il sempre delicato amar proprio degli uomini sensibili. Ne prendo quella parte che l’amicizia ch’ho per te e lo stesso male che tuttavia sento altam[en]te nel cuore devono necessariamente farmi prendere. Mi fanno vera compassione le sue arie parigine: io, che l’ho veduto riposto a’ miei fianchi nella più vergognosa e ridicola imbecillità; io, che l’ho veduto con tutti i vizi della fanciullezza e con nessuna delle sue virtù; io, che l’ho veduto collo stesso occhio con cui ho veduto il Sig.r Antonio quand’era di settimana a codesto S. Vicenza, non posso a meno di sdegnarmi e di ridere, nello stesso tempo, che un tal uomo conosca sì poco e se stesso e ’l maggiore de’ suoi amici da tenere la pazza condotta ch’ei tiene. Poenitet me fecisse hominem, voi potete dire. Ciò che m’ha sempre reso, ardirò dire, abominevole quest’uomo stravagante è la sua imbecillità, unita ad una pazza ferocia, che cento volte ci ha messi, tutti noi due, all’orlo fatale di buccarsi il ventre, con eterno rimorso del feritore, o, il che è orrore a dirsi, dell’uccisore: è quella distrazione che arriva sino alla più decisa ingratitudine; è quel vedere gli oggetti uno alla volta, lo che lo rende parimenti ingrato; è quello spirito di suismo ragionato che lo rende un inutile amico; è quel fanciullesco e misero timore delle tenebre notturne che lo rende brutale e lo renderebbe crudele ne’ suoi accessi; è quel fondo di bassezza ch’io sospetto nel suo cuore pel danaro e per li miseri, benché abbia tutt’altra anima quando scrive; è quella guerra che finalmente ha dichiarata all’ingegno altrui ed all’ingegno de’ suoi amici, degli amici adoratori del suo, degli amici che gliela hanno sviluppato; e per fine quella vernice di buonomia che ricopre queste grandi macchie del suo cuore. Non mi aspetterò da questo carattere dei grandi delitti: no, i fanciulli non ne fanno. Ma di tutti i delitti del timore, della ingratitudine e della gelosia letteraria io non mi stupirei che ne fosse l’autore. Egli ha tal volta dei tratti di genio semplice che mi piacciono, ma un momento dopo mi si presenta in uno di quelli aspetti e mi distrugge quella leggieriss[i]ma traccia d’amicizia che aveva mi impressa. Io ho ritrovato a Parigi, e l’ho dissimulato, che mi sospettava di cattiva amministrazione della cassa comune. Da alcuni tratti, ch’io ben so valutare, mi avvidi di ciò. Non mi ricordo precisamente dell’esatto dettaglio di quest’affare, ma mi ricordo chiaramente che ciò è avvenuto. Questo sospetto non gli fa grande onore.

Forse a quest’ora la tua passione è sminuita e forse qualche tratto de’ buoni e qualche ritorno all’antica amicizia non ti fanno vedere più quest’uomo com’io lo vedo. lo ti confesso che, non essendo niente geloso né temendo giammai che tu lo preferisca nel tuo cuore a me, vorrei pure che vi fosse, piuttosto che distacco, fra voi altri due, della sola freddezza, e questa anca insensibilmente vi venisse di mezzo, e che la cosa, in faccia del pubblico, fosse nel piede di prima. Parlo di freddezza perché, per amicizia, tu non ne avrai più per lui, come più non ne avrò io. Vedo questa verità con una geometrica persuasione; noi siamo così eguali, nel grosso del nostro carattere, che quae sunt eadem uni tertio, sunt eadem inter se. Un uomo che tu detesti non sarà mai mio amico e così viceversa. Vi potranno essere dei lucidi intervalli e nulla più. L’amore che hai del grande e del sublime ti farà anche baciare i suoi scritti, potrai anche gettare in quel momento le braccia al collo all’autore, ma poi ti mostrerà dei suoi lati o deboli o mostruosi e ritornerai alla indifferenza. Egli è fatto o per innamorare o per disgustare eccessivamente. Nulla di mezzo. Il suo carattere è troppo ineguale e tumultuoso; le sue passioni sono molte e veementi e ciò esclude da lui quella costanza di cuore, di officiosità, di attenzioni, di riguardi, che sogliono essere l’alimento e le cagioni delle eterne amicizie. Amico, le nostre parole non arrivano l’un l’altro prima di due settimane, pure io mi faccio illusione e mi fingo nella tua camera e voglio dire i miei pensieri in questo affare. Vi vuole un uomo della tua delicatezza, della tua condotta e della tua virtù, e non vi vuole meno, per istar bene nella situazione in cui tu sei nella famiglia Beccaria, fra il Padre e la Madre e la Sorella e fra una capricciosa nuora ed un imbecille marito. In tal guisa è positivamente la casa del Diavolo, per quanto io desidero che così buona gente abbia la maggior pace. L’amicizia mi dà diritto di far l’impertinente con te e di suggerir ti di guardarti che la passione giusta e grande che tu hai per l’aperta preferenza che Beccaria dà a sua moglie su di te, non ti faccia scappare qualche tratto che ponga in ridicolo questa sua imbecille propensione, oppure che tenti di distoglierlo da Lei con fame una poco vantaggiosa pittura. Io non ti conoscerei, e non conoscerei me stesso, se credessi possibile che tu facessi l’una o l’altra di tai cose, decisamente e fortemente; soltanto, io ho un lontanissimo dubbio che tu, delicatamente ed inavertentemente, possa ciò fare. In tal caso tu passeresti per un disseminatore di discordia e una parola sola diverrebbe un discorso ed una tracasseria disgustosa, attesa la vivacità delle passioni della Dama e la imbecillità del marito, che in quest’affare è tutto [una parola abrasa] dalla cima del suo sublimissimo genio sino a quella de’ suoi diti grossi de’ piedi. Altronde io prevedo, non so poi se bene o male, che il Padre, la Madre e la Isimbaldi faranno un partito e la Nuora un altro, fra i quali Beccaria sarà ballottato colla sua solita prudenza, ed in fine starà sempre colla moglie, ragione o torto ch’ella abbia: è troppo manifesta la sua passione per lei. Quest’ultimo tratto lo dimostra. Prevedo che il Marchese P[ad]re perderà molto la stima e l’amore che aveva per suo figlio, dopo la ridicolagine della sua venuta, dopo d’aver buttata una considerevol somma di denaro; di più, le arie parigine lo renderanno forse troppo al di sopra del livello della famiglia, mancherà forse, colla sua musicale impertinenza e per le insinuaz[io]ni muliebri, ai riguardi che deve a suo Padre, il quale, finalmente, se mai scopre il segreto che con tal carattere bisogna far muso duro, muterà sistema. Ma questo non mi pare molto verisimile nel Marchese. Ben credo piuttosto che se Milano ritroverà Beccaria ridicolo per questa venuta, allora il Marchese anderà dietro ai voti della moltitudine, ed in tal caso Beccaria non sarà più l’idolo ch’era nella famiglia. In tal situazione l’irritato amor proprio di Beccaria, troppo avvezzo a grande alimento, lo renderà agitato, e farà qualche solenne coglioneria, aiutato e mosso da sua moglie. Chi sa che non si risolva di andare a Pietroburgo, per poi fare un’altra fanciullagine in qualche altra maniera, o perdere il suo credito! Questo credito ha così piccola e debol base in lui, ch’io penso che lo perderà. I suoi libri hanno un vero merito, ma egli non ne ha che misto di vizi e di grandi difretti. Non è possibile che tal carattere, se si espone a qualche pubblico impiego, non finisca con perdere di molto il suo nome. Per ritornare dunque al mio proposito, io ti chiamo se tu non temi niente dalle tue passioni in quest’affare. Tu sei innamorato, amico, irritato da persone della stessa famiglia. Non è egli pericoloso l’esser di mezzo a tal famiglia e di poter sempre metter pace e schivare questi scogli? Replico, non vi vuole un uomo meno di te. Io ho detto quello che mi passa per la testa: tu giudica, tu sei sul fatto. Quanto a me, che ho la bella prerogativa di lasciar andare le cose di questo mondo com’esse vogliono, quando ritrovo molte difficoltà a parvi rimedio, e che sono piuttosto buono di vincere una sola grossa difficoltà che di resistere alla noia di guerreggiare giornalmente con molti minuti intrighi, nel che non mi propongo come un modello di beneficenza, prenderei, al vostro posto e supposte le dette circostanze, il partito di esser l’amico il più intimo che potessi della Isimbaldi e l’amico parimenti del marito, del P[ad]re e della Madre, non ricordandomi della Nuora e poco anche di Beccaria. Io non mi sento capace di star di mezzo a questa borasca, né ho l’esperienza ed il talento vostro, già deciso come ottimo pacificatore delle famiglie. Ne avete ben due illustri esempi. Ho vôtato il mio sacco a tal proposito. Attribuitelo a quella franchezza che ho di dirvi tutto ciò che penso, bene o male.

Beccaria si lamenta della durezza del mio carattere: ciò doveva essere. Sento che si lamenta anche della tua durezza con cui gli hai scritto. Siamo dunque rei dello stesso delitto. Da qui giudica s’egli ha ragione. Bisognava essere al suo bassissimo livello, bisognava sospirare a primo, e secondo con lui, ed essere un fanciullo di trentott’anni come lui per esser dolce. È egli ciò possibile? Vedrai che più che parlerà di me, più si farà torto. Ne sono sicurissimo.

Possibile che i Milanesi non facciano nessuna maligna riflessione sul ritorno dell’amico? Io me ne aspetto di ogni genere, e delle più bestiali, al solito. Questa sarà una grand’epoca per la condotta di Beccaria. Se cominciamo a disprezzarlo, egli s’avvilirà. Lo conosco. Non è egli quello che non ardiva passare la piazza del Duomo se non ben vestito?

Io non ben mi ricordo della lista delle robbe che ti ho inviate per suo mezzo. Quella lista non è giusta perché credo di avervi messo anche de’ manichetti di merletto, che non ho poi comprati per esser merce troppo pericolosa, se non a’ più fini conoscitori. Io stesso sono stato coglionato dalla officiosiss[i]ma bricconeria parigina. Avendo già sigillata la lettera e non avendo tempo di mutare la lista ho pregato Beccaria a darti ragione di ciò. E questa è che riguardo a’ manichetti se ne prendono de’ bellissimi a due Luigi e mezzo, stando in attenzione di comprare robba già portata qualche volta e venduta da giovani dissipatori, ma il mestiere non è per me e bisogna intendersene molto. Io chiamava bellissimi un paio di manichetti veramente tali che avea comprati a tal prezzo, ma erano di moda così vecchia che non si potevano più portare. Per altro chi me gli ha venduti me gli ha cambiati. Beccaria ne ha presi qualche para, fra gli altri uno a ponto di Malines, come gli chiamano, al prezzo suddetto. Fateveli vedere. I miei, dello stesso genere, allo stesso prezzo, sono anche più belli. Trovo nelle mie annotazioni che la roba che ti ho spedito per Beccaria è, in fatto: para 2 di calze di seta, uno a franchi 13, l’altro a Franchi 14, come vi ho messo nel piccolo bigliettino che vi ho cucito; N° 4 scartozzi di sabie a vari colori; N° 2 mazzi di penne; N° 4 di canne di cera lacca.

Quanto al giudizio di Morellet sulle cose tue io ti dirò, senza le irritanti reticenze di Beccaria, che non te lo devi aspettare favorevole e che non per questo ti devi né punto né poco commovere. Morellet è un uomo buono, ma così assurdo nelle sue opinioni politiche ch’io l’ho sentito cento volte disputare, massimamente con Marmontel, ed essere ridotto a dir delle minchionerie e finire col dire che il suo parere era fondato su una lunga meditazione in quella tal materia, e che per bene renderne conto bisognava che riandasse una lunga serie d’idee per le quali era passato, lo che non si poteva fare in conversazione. Molte volte l’ho sentito cavarsi d’intrigo così. Io ho veduto il piano e la prefazione del suo Dizionario la quale prefazione mi sembra molto miserabile e consiste in provare che finora non vi sono princìpi in politica e che non v’è scienza, perché gli uomini sono ancora appena all’aurora di queste materie. Per ciò provare, egli prende la politica pel suo debole, sceglie le equivoche, false o incerte massime di questo e di quello, prescindendo dal buono che si è detto in questa materia, e poi gloriosamente conchiude che non vi sono princìpi e viene egli in campo come il Giovan Battista della Economia politica. Io vi dico evi sostengo che quella opera non sarà stimata, ch’essa vuole esser piena d’infinite notizie, perché Morellet non ha fatto altro, nel suo viaggio d’Italia, che informarsi di tutto minutamente, e da lunghi anni lavora come una bestia a compilare e leggere, ma sarà vuota certam[en]te di giudizio: e di ciò ne sono sicurissimo. Egli ha dello spirito e molto più del cuore, ma ha un Iato di vera pazzia ed è una testa a assurdi, e come tale è conosciuto da’ suoi stessi amici. Egli in oltre è caustico non già nelle espressioni ma nel tuono della disputa, cosiché tutti, nello stesso tempo che rendono giustizia al suo veramente angelico carattere, lo chiamano anche un peu facheu. Vi ricordate del tratto della carrozza del Marchese d’Adda? Ebbene, la sua carrozza in Parigi è certo più comoda, perché va a piedi colle soprascarpe ed il parapioggia quando piove e si contenta d’un fiacher meschinissimo ed incomodo quand’è cattivo tempo. Non gli succede forse due volte all’anno di andare [con] una carrozza comoda. Io dunque vi dico e vi sostengo che non ha idee chiare in queste materie, benché ne abbia di molte per i gran studi che ha fatti: e vi basterebbe vedere, com’io ho veduta, la sua prefazione che stamperà in breve e sentire una delle sue dispute, per non importarvi un fico del suo voto. Avanti ch’io partissi non aveva ancora data una occhiata a’ vostri rnanoscritti perché, pensando che glieli avessi donati, si riservava a leggerli con comodo. Ciò è naturale in un uomo che ha cento altre cose continuamente sul tavolo; e ciò gli è naturale, perché so che, avendoli Carpani mandato il suo Bilancio manoscritto, egli non l’ha mai letto né ringraziato, quantunque sia suo amico. Io adunque, sdegnato da questa non curanza, ho mostrato che voi volevate i vostri manoscritti perché vi abbisognavano, ed egli mi ha pregato allora con gran premura a lasciarglieli per qualche tempo, il che io gli ho concesso come per grazia. Subito ha cominciato a leggere la tua opera. Quando partii aveva dato di mano alla prefazione. Sul che mi disse che vedeva che voi facevate gran conto degli autori che avevano scritto fin ora e, senza che più si spiegasse, ho capito ch’egli, secondo il suo sistema non stimando chi ha scritto fin ora, non può essere del vostro parere. Credete voi che a Parigi gli Enciclopedisti, che hanno messo nel Dizionario gli Elementi di Commercio di Forbonais, lo stimino? Nulla affatto. Lo risguardano come un solennissimo sragionatore e ne ho sentito parlare con sommo disprezzo. Generalmente io vi dirò che que’ Signori sono tutti massimi Filantropi ed uomini buoni e benefici al sommo, ma che, quanto alla precisione del ragionare, in quante dispute io vedeva tutti li giorni, erano tutti superati di gran lunga nella Logica da Beccaria, che sovente riduceva a minimi termini un mare di parole e di sragionamenti, e né d’Alambert istesso né tutti gli altri, per quanto io ho ascoltato, hanno la sua precisione né la vostra né, fors’anche dirò modestamente, la mia. Il fatto è certissimo: Beccaria lo potrà attestare ed io stesso glielo dicevo a lui. Se osserverete bene, il calore con cui scrivono annuzia il vero, ma sminuzzate e pesate le loro idee e vedrete delle cascate accanto al sublime. La Poesia e la bollente immaginazione di quella filosofia produce di spesso quest’effetto. Sono verità, codeste, e voi stesso le avreste vedute con meraviglia, come le ho vedute io; ma sono verità tanto fatte. Adunque aspettatevi un giudizio da Morellet che sarà un mondo di obbiezioni, fra le quali forse qualcheduna ragionevole e le altre bestiali. Se mi riesce di farglielo mettere in iscritto, vedrete che il vostro amor proprio non sarà offeso. Sapete voi che Didereau ha dato a Beccaria una breve scrittura di obbiezioni fatte da un tale contro il suo libro, come potentissime, e delle quali si mostrava premuroso di sentirne la soluzione: eppure esse erano compassionevoli e miserabili? Chiamatelo a lui stesso, che credo che non siasi tampoco data la pena di rispondere. Egli stesso se n’è meravigliato. Posto tutto ciò, non siate in gran pena di questi altronde sommi voti. Se foste in mezzo di que’ uomini, quante volte direste la famosa giaculatoria del Correggio! Ve lo assicuro. Ciò che li rende rispettabilissimi è il cuore, l’umanità, la semplicità loro. In questo meritano adorazione.

Quanto poi alla vostra Felicità, ella è stimata, stimatissima, e ve lo posso nuovam[en]te assicurare, come è stimato quanto avete scritto nel Caffè. Vi replico: se andaste a Parigi vi stareste sommamente bene ma bene, troveresti delle anime angeliche che ti adorerebbero e saresti stimato ed avresti tanti riguardi da farti infinitamente rincrescere il ritorno. Io, che conosco te e loro, te lo assicuro chiaro e netto. Mi figuro che ti chiamerebbero l’aimable Comte, le doux, le bon garçon du Comte de Verry; avez vous vue le Comte de Verry, Madame? il est bien charmant et d’une tres grande profondeur et precision dans ces idées. Il a une neteté de raisonement surprenante, ecc. ecc. ecc. Non direbbero che avete del genio e che siete un gran uomo perché non usano questi vocaboli. La cosa andrebbe così sicuramente e sareste contentissimo. Il dire il est bon garçon tout à fait è una lode che darebbero a Neuton.

Mi rallegro tanto col Fisco della promozione del degnissimo Senator Pecci. Ad maiora. Lo spero e ne prego vivamente il nostro S. Carlo ed il nostro S. Ambrogio, i quali, se non ci fanno venire a Milano una mezza dozzina di Pecci, non saranno certamente Ciambellani di settimana. Passatene le mie congratulazioni sincere. Come politico ch’io sono mi preme di tener da conto le persone impiegate. Senza burle: n’ho quel piacere che deve avere ognuno che conosce il suo merito ed i disordini del Collegio fiscale. Dio benedetto, tutto va sossopra in questo Milano! Che visi fanno i Padri della Patria, cioè gl’ingordi figli della Patria?

Non mi ricordo che il Giornale di Bouillon ti abbia fatto torto. Ma se Beccaria lo dice lo avrà inteso. Non ti scaldare il sangue neanche per questo. Non credo che avrà preso decisamente il partito dell’Abate. È troppo bestiale. Pure, tutto è possibile. Questo giornale è poco stimato a Parigi: non se ne parla nemmeno. Alle volte ancora un giornalista ragionevole si rapporta a’ suoi corrispondenti e dice le loro bestialità. Egli è un grosso affare un giornale, sovente per troppa fretta si proferiscono de’ cattivi giudizi: poi si disdicono. Che credi? Osserva nella Gazzetta Letteraria, in verbo all’Indice Delitti e pene, e vedrai con che freddezza ed anzi con qualche tratto di critica abbiano parlato. Io l’ho veduto, ma non ne dissi nulla a Lui per non porre dissapori. Si sono poi formalmente disdetti. M’informerò di questo affare come desideri.

Il libro di Beccaria si traduce attualmente in Inglese per la prima [volta], ed è interessato nella stampa il mio ospite Molini. Ne porterò meco una copia a Parigi perché esce alla luce fra pochi giorni. Tornando a leggere la tua cara lettera vedo che Beccaria ha l’alto tuono del ministero filosofico. Egli è un pazzo come non ne conosco nessuno. Se ci fossi io, abbasserebbe forse un poco la coda di pavone. Oh, che bestia! Non credere, poi, che fino a un certo segno la figura che ha fatto in Parigi. Ti torno a dire ch’era sul decadere, come di tutto avvenir suole a Parigi. Così è avvenuto di Gatti, che dopo aver fatta una figura brillantissima ora è nulla: si pretende bestialmente che vari inoculati abbiano avuto la seconda volta il vaiolo, e non lo diffendono neppure i suoi amici. Tutte bestialità. Egli ha ragione di fremere della leggerezza de’ sentimenti parigini e della moda che s’insinua da per tutto. Stamperà un’altra opera, che forse lo farà tornare a brillare, secondo che sarà la moda in que’ giorni. Mi scrive Frisio che questo povero Gatti ha perduta la vista di un occhio. Ecco un uomo che ha ch…te le prime Dame del Paese, che ha brillato come non si può dire e che finisce guercio e trascurato senza aver perduto il suo merito. Beccaria doveva stare anca tre mesi e poi me lo avrebbe saputo dire. Quand’egli partì era ritornato da Napoli, dov’era andato per qualche tempo, l’Abbate GalIiani, Segretario di Ambasciata di quella Corte. Quest’Abbate, che ha cento spiriti e neppure un quarto di cuore, è l’uomo alla moda di Parigi, è ricercato, è conosciuto da per tutto. Si sapeva ch’ei ritornava appena che cominciò a porsi in viaggio, e se ne promulgava la fausta novella giubilando. Io e Beccaria si siamo trovati a pranzo con Lui da Mad.e Geofroin, e vi assicuro che l’Abbate brillò sempre, e niente Beccaria, a cui ha date lodi molto parche. Il ritorno di quest’Abbate, per cui sono pazzi, avrebbe facilmente rivolto l’entusiasmo di Beccaria su di lui. Quest’è certo, che Galliani andava in tutte le nostre compagnie e che dov’egli è tutti tacciono e lo lasciano brillare. Beccaria avrebbe sicuramente dovuto fare come gli altri la parte di uditore, come l’ha fatta all’occasione. Ma, quanto all’occaso che stava per avere l’amico, ne ho in altra mia parlato. Taciamo finalmente.

Saluta Carpani. Se v’è maniera di presentare al Conte di Firmian i miei rispetti colle frasi le più orientali e di umilmente ringraziarlo della memoria che si degna avere di me, io ti prego di quest’ufficio, quando ti si presenti l’occasione. Se non posso far senza di scrivergli, dimmelo. Mio P[ad]re fa vedere le mie lettere? Sto a vedere che si metteranno in quadro, come quelle di S. Carlo. Ma quale è il fine di queste sempre sospette giubilazioni? Sarebbe mai il nobilissimo e generosissimo principio viva chi vince? Per dirla, è stata ben forte quella della Principessa detta in circolo a corte. In verità non la trovo giusta. Chi vorrà esser P[ad]re, se il legislatore co … na in pubblico chi è stato co … to da suo figlio? Io non vado poi fin là, nelle mie pretensioni. Non la trovo giusta né decente. Il mio voto vale qualche cosa, non sono almeno sospetto di parzialità.

Mi è riuscita assai nuova per un Milanese la morte del Mantegazza. Vorrei che tal coraggio non fosse proprio che della innocenza oppressa. Io, a tal proposito, materia per materia, vi darò la relazione del modo di farsi appiccare alla Inglese. Ieri mattina se ne sono eseguiti quattro; vi volli esser presente perché è un modo di morire tutto nuovo. Non mi sento il menomo rimorso di ciò: questo spettacolo qui non aspira l’orrore come da noi. Ho avuto qualche momento di fremito ma poi, senza che si offenda l’umanità ed essendo sensibile, non si soffre moltissimo a tal fonzione. Vedrete l’apologia del mio cuore nella breve seguente narrazione che vi faccio.

I Rei erano dunque quattro: due falsari di lettere di cambio, due ladri di strada. I due falsari, uno Avvocato, l’altro Capitano d’Infanteria. I ladri erano un marinaio ed un villano. Tutta Londra è in gran moto per tal fonzione, della quale sono curiosi gl’Inglesi anca più di noi. Vi sono de’ gran palchi di legno dall’una e l’altra parte del patibolo, per montare su i quali si paga un tanto. Sono sempre pienissimi. Adunque m’incaminai verso il sito della esecuzione, che è appena fuori di Londra, e per la strada correvano sempre palle di neve che il popolo si divertiva di scagliare alle carrozze ed a’ pedestri incessantemente. Questa si chiama libertà. lo non ne ho avuta nessuna per gran miracolo, perché il mio compagno Molini ed il mio Servitore n’ebbero tre o quattro nella testa. Le carrozze che passavano alzavano gli scuri di legno che qui si usano per difendere gli specchi; i cocchieri ed i servitori stavano fresco, ed alcuni del popolo montavano senz’altre cerimonie dietro le carrozze per farsi condurre più comodam[en] te. Altri tiravano palle di neve dai tetti ed in somma era una continua batteria per un gran tratto di strada che conduce al patibolo. lo era vestito affatto alla Inglese, che se avessi avuta la minima aria francese m’avrebbero servito di cuore. Mi guardavo dal parlare per la stessa ragione. Questa non era già una ribellione o un perturbamento della pubblica tranquillità: questa era una allegria ed una festa, e tanto rideva chi tirava come chi riceveva. Arrivato con questa pompa decorosamente al sito, montai sulla galleria. Tardarono una gran mezz’ora a comparire i Rei, e questa fu riempiuta di palle ancor di neve da tutte le parti. Venti o trenta facchini o marinai si divertivano così del pubblico ed era una delizia perché nissuna, in tanta moltitudine, andava in fallo. Fra gli altri, fu preso di mira un certo francese, ciarlatano famoso da tutti conosciuto, chiamato Comus, e gli fecero una guerra caldissima. Era su un palco e soffrì un assalto di palle infinite. La cosa andò a segno che fu scagliato anche un bastone. Allora le guardie, che stanno intorno al patibolo e che altro non sono che Borghesi i quali per torno fanno lo sbirro, non d’altro armati se non se di un grosso bastone, andarono qua e là per far finire questa faccenda e trovar quello del bastone. Ma in vano. Esse tornarono al loro sito: e la guerra di neve seguitò con riso ed applauso universale. In torno il patibolo non v’è altro riparo che questi sbirri del bastone, laonde, quando la folla ristringe troppo lo spazio per l’esecuzione, essi danno delle bastonate sul capo della gente, le quali le ricevono e fanno largo. Si vedono tal volta tutti questi bastoni a menar giù sulle teste disperatamente. Eppure l’impertinentissimo Inglese lascia fare: e non si rivolta contro un uomo così male armato perché teme le leggi, le quali non proibiscono di tirar palle di neve, ma bensì di rivoltarsi contro di un sbirro. Il timor delle leggi è grandissimo, e presiede alla conservazione di esse piuttosto la opinione della loro giustizia che la forza. Finalmente comparvero i Rei. Il Capitano era, secondo l’uso, su di una carretta di quelle che conducono le vettovaglie in Londra comunemente, i due ladri erano su un’altra carretta. Esse entrambe avevano il di dentro ricoperto d’un panno nero. L’Avvocato era in una carrozza tutta a lutto. Questa è una grazia che non è stata accordata da 15 anni in qua. Cominciò adunque la carretta del Capitano, tirata al solito da un sol cavallo, a venire sotto il patibolo, a segno di mettervi precisamente sotto il paziente. Egli era legato pochissimo, con una leggier fune sotto le spalle; era in mezzo di un amico e di un predicante e, comeché egli era Irlandese cattolico, si crede che l’amico fosse un Prete. Quando fu vicino al patibolo si voltò indietro (perché sono posti nella carretta colle spalle rivolte al cavallo) e guardò intrepidamente e freddamente il patibolo istesso, poi l’uditorio. Poi si alzò, quando fu sotto, e vidi un bel giovi ne, di un’aria nobile e vestito molto decentem[en]te; aveva il cappello in capo abbassato per davanti, aveva nelle mani un fazzoletto con cui si ricopriva la bocca dal freddo. Ne’ suoi moti, nel suo gesto, nel suo contegno era freddissimo, come dovesse prendere una tazza di caffè. Quando fu in piedi, il Carnefice, ch’era venuto sulla carretta con Lui, gli si accostò: ed egli mise egli stesso a terra il suo cappello, tirò i guanti, levò il colletto come se dovesse fare una delle solite faccende, poi aiutò il carnefice ad applicargli il capestro, come si aiuta il servitore a porci il colletto: e tutto ciò fu fatto sempre disinvoltamente parlando col Carnefice, coll’amico e col Predicante. Quando egli fu così accomodato, l’altra carretta ov’erano i due ladri si accostò a quella che già era sotto il patibolo ed in essa vennero. Anch’eglino si levarono da sé ed uno de’ due, appena alzato, slacciò i calzoni e pisciò su un lato della carretta, come quando si de’ fare qualche faccenda che importi lungo tempo. Dopo la sua pisciata osservò il popolo e scioccamente anche sorrise un poco. Questi due furono posti a sinistra del Capitano col laccio al collo nella forma suddetta. Quindi l’Avvocato, ricevuto l’avviso ch’era tempo, sbalzò di carrozza e fe’ la riverenza e l’addio a’ suoi amici che l’avevano accompagnato, poi si portò francamente al patibolo. Egli aveva in mano un libro aperto di preghiere, col quale smontò, e che seguitò sempre a leggere sino agli ultimi momenti. Fu anch’egli applicato come gli altri al capestro. Quando così tutti furono allacciati cominciarono i due Predicanti l’ora di preghiere che si fa prima della esecuzione, in questa positura. Mi faceva pietà questa lentezza: durarono anche più d’un’ora le preghiere, le prediche al popolo, ai Rei, ed avresti veduto quei quattro stare ben una grand’ora in piedi e cantare col capestro al collo i Salmi col predicante, e l’avvocato legger sempre il suo libro. In tanto di tempo in tempo non lasciava di correre qualche palla di neve ed una fra le altre colpì il predicante, nel mentre ch’era infervoratissimo, nella fronte. La palla passò vicinissima alla testa dell’avvocato. Ma questa fu una brutalità dissaprovata al momento da tutta la moltitudine. Nessuno rise e molti gridavano che si pigliasse chi l’avea gettata. Allora il Predicante fece una calda arringa contro chi lo avea colpito, dicendo che forse alla prima esecuzione quel tale sarebbe stato sulla carretta. Si smaniava e si accendeva grandemente. In tanto l’Avvocato seguitava la sua lettura, il Capitano stava tranquillo col suo fazzoletto alla bocca, gli altri due stavano attenti alla predica e pregavano. Di tempo in tempo l’Avvocato e ’l Capitano si dicevano qualche parola. Forse si facevano gli ultimi addii. Finalm[en]te furono abbandonati da’ Preti, che discesero dalla carretta. Allora il Carnefice pose sul volto di ciascuno una beretta, in modo che tutto lo ricopre. Il Capitano avea la berettta, ma non volle coprirsene il viso. Ben tirò fuori i suoi guanti e se gli pose, sempre tenendo il suo fazzoletto in mano. Gli altri davano segno di pregar Dio, ma questo Capitano fu sempre freddissimo. Il Carnefice diede adunque una piccola frustata al cavallo, la carretta andò avanti piuttosto lentamente ed i quattro paizenti caddero e furono sospesi. Il Capitano, poiché erano forse tre o quattro secondi ch’era già appeso, si tirò dal volto ben fortemente la beretta, poi stese le mani, morì. L’avere il volto coperto ed il non essere martoriati dal Carnefice scema di molto l’orrore di questo spettacolo. Stanno appesi un’ora, a capo della quale i parenti e gli amici gli vanno a prendere. Il Capo della giustizia, il Gran Scheref, è presente a tutta la fonzione. Gli Amici dell’Avvocato erano pure a pochi passi, nella carrozza, e mandarono a chiamare il Carnefice per avere la relazion della morte. Dato che ha il segno il Scheref che si possa staccare, molti del più basso popolo arrampicano sul patibolo a tagliar le corde, perché rimangono a chi fa quest’uffizio. Si ripose l’Avvocato e ’l Capitano in una cassa e su di un carro ammantato a lutto furono portati via. Uno de’ ladri nessuno lo prendeva: alcuni soldati lo presero sulle spalle e lo portarono a seppellire. Nel mentre che tutte queste cose si passavano, v’è chi vende dolci come ad una festa. Si contano casi singolarissimi della maniera di morire alla Inglese. Talvolta, avvanti di mettersi il capestro, fanno una circolare riverenza al popolo, come per congedo; talvolta fanno una predica; talvolta è accaduto che se il paziente è giovine le sue vengono in carrozza alla fonzione ed egli dalla carretta le saluta ed è risalutato cordialmente, e si danno così gli addii; accadde un’altra volta che ad uno cadesse il cappello e che il popolo tumultuasse vicino alla carretta per coglierlo: egli si pose a ridere, benché avesse il laccio al collo, di questo tumulto e, colle mani legate come aveva, prese anche la perrucca e la gittò abbasso seguitando a ridere. Non è già uno sforzo che facciano ad avere questa freschezza, ma è propriamente insensibilità, nata, a mio credere, parte dall’abuso della pena di morte, parte dalla natura istessa del clima, del governo e della religione, che fanno gl’Inglesi molto tranquilli in faccia della morte. Gli timori d’una vita avvenire non sono qui molto profondi.

Ma io ho quasi fatto un trattato, piuttosto che una lettera. Perdona se t’ho parlato lungamente d’un lugubre soggetto: ma ho creduto che ne dovessi avere distinto racconto, benché forse ti possa destare melanconia. Così ho voluto fare ancor io; è un costume de’ più curiosi da conoscersi a Londra. Addio, amico caro. Saluta gli amici e ti abbraccio. Partirò verso la fine del corrente mese. A rivederci a Marzo. ALESSANDRO.

XLV (20) Ad Alessandro. [Milano,] 8 Febbraro 1767

Prima di rispondere alle tue deliziose lettere dei 12 e 15 del passato, ti dirò che questa mattina ho presentati al Sig.r Conte Firmian i tuoi rispetti, e che ho veduto quel Signore che veramente tripudia quando parla di te; ti saluta e ti ringrazia; egli mi ha detto con molta premura che vorrebbe che tu ti mostrassi alla nostra Corte ed io ho travveduto, nella sua fisionomia e nelle maniere che ha, una sorta di compiacenza, che si veda a Vienna quai giovani si formino in Milano sotto il suo governo. Io gli ho detto che t’aveva consigliato il viaggio d’Italia, egli lo ha molto approvato e vede con piacere questo progetto, ma vorrebbe che al terminare di questo tu ti spingessi a Vienna. Gli ho fatto vedere che le nostre forze non sono tali d’eseguire quest’idea graziosissima se nostro Padre non somministra il fondo, ch’egli giorni sono spontaneamente si mostrò inclinato a far qualche cosa, e che una insinuaz[ion]e del Sig.r Conte avrebbe fatto eseguibile quello che per ora non è. Egli è prontissimo a tutto. Da ciò cavane queste legittime conseguenze, cioè che il Sig.r Conte Firmian ha moltissima stima di te, che ti desidera del bene e che difficilmente un altro Cav.re Milanese avrà da lui quelle raccomandazioni presso la Corte che avrai tu se secondi quest’idea. Tutto è nato spontaneamente in Lui. Nota che a Vienna il difficile è il primo abordo, il quale talvolta dura dei mesi, il difficile è far accorgere di meritare distinzione dagli altri uomini; col corredo di buone lettere di questo Ministro questo è fatto, al punto in cui arrivi. Nota che il concetto e il momento di potere del Sig.r Conte è fortissimo attualmente alla Corte e presso la Padrona e presso il Supremo Dipartimento d’Italia. Ma a Vienna ti bisogna una carrozza stabile, un Servitore con livrea, abiti sempre decenti, mancie e cento altri pesi della società; sessanta Zecchini il mese appena ti bastano; ivi bisogna proccurare d’aver la chiave di Ciambellano, il che importa 250 Zecchini; tutto ben calcolato, questo viaggio non lo puoi fare utilmente e con decenza a meno di ottenere cinquecento Zecchini, ossia mille filippi. Il viaggio già fatto ti servirà infinitamente, perché vi giungi europeo e non milanese. Amico, in queste circostanze io non vedo alcuna ragione per cui tu trascuri d’accettare questo buon vento. Quando nella mia lettera (18) t’ho dissuaso di farlo, t’ho supposto nel caso di dovere da te solo affrontare l’asprezza e l’indifferenza degli Austriaci; ora che vedo il ministro desideroso spontaneamente di farti andare là per farti onore, son sicuro che e la Padrona ed il Principe di Kaunitz ed il S.r Sperges e quanti hanno influenza saranno assicurati del tuo merito, senza che questa fatica la debba fare palmo a palmo. Esamina dunque te stesso; vedi se hai coraggio di vivere in quel vortice senza sottraerviti per un paio di mesi e così proccurarti una stabile fortuna per il rimanente della tua vita; se ciò puoi, come lo credo, scrivimi liberamente, poiché, mentre tu farai il viaggio, che spero e desidero, per l’Italia, io parlerò al Ministro, ed una semplice risposta basterà a farlo agire presso di nostro Padre. Ecce tempus acceptabile: amico, la tua gloria e la tua felicità le amo come la mia, se pure il mio sentimento non m’inganna, o almeno le amo immediatamente dopo la mia; io avrò piacere d’averti chiavato come lo son io e ministrato al pari di me, sicuro che tu non mi farai mai portare il peso né della tua gloria né della tua fortuna. Perdonami, non dovrei nemmeno farti questa dichiarazione, la generosità del tuo animo non me ne farebbe nemmeno antivedere il pericolo; ma quello che m’ha fatto soffrire di fresco un amico poco grato rende perdonabile il mio pensiero e tu me lo perdonerai. Dunque aspetto la tua risoluzione, e spero che se mi dici un sì tutto si farà.

La Isimbaldi ha partorito un maschio questa mattina: egli è di sette mesi, ma ben fatto e proporzionato, ed è tanto lontano ogni pericolo che non si è battezzato ancora. Essa sta debolissima ed ha sofferto un male violento al sommo, ma breve, come le aveva predetto. Essa vuole ch’io ti saluti in suo nome. Oggi ho veduto da Lei la Cognata, che è diventata ai miei occhi una quintessenza di sciocchezza; figurati che, forse volendo imporne, non s’è degnata rispondere alla inclinazione di saluto che le ho fatta, per il che con tuono catedraico io le ho ben pronunciate queste parole italiane: Signora Marchesina, io le presento la mia rispettosa ubbidienza, al quale scongiuro ho veduto la fantasima sconcertarsi. Questa coglioncellina ha dimenticato il mio umore e non sa che, volendolo, io saprò imporre a Lei, non che ubbidire alla sua impostura.

Ho fatto sapere a Beccaria che la sua opera è tradotta in Inglese e fra pochi giorni sarà pubblicata, e nello stesso tempo ho incaricato il Marchese Padre di fargli capire che la sua gloria mi fa piacere e che godo d’avere congiunture di annunziargliela. Il March[es]e non sa nulla della ragione per cui gli ho incaricato di fare questo complimento. In riscontro ho avuto dei ringraziamenti. Egli non sapeva nulla; colla naturale sua ingordigia de’ piaceri avrebbe voluto incaricarmi di fargliene venire un esemplare, ma la moglie gli ha suggerito che, avendo egli tanti amici in Parigi, era meglio che ricorresse ad essi; così sono io esentuato da questa briga. Le riflessioni che tu hai fatte sulla mia dilicata situazione nella famiglia Beccaria sono degne del tuo bell’animo, e le osservazioni che vi fai ed i consigli che mi scrivi sono un caro contrassegno del tuo cuore per me. Io ti abbraccio e ti benedico cento volte. Hai ragione di prevedere che se il M[arche]se Beccaria avesse continuato a vivere con me, ulcerato com’io sono nel fondo del cuore dall’amicizia mal ricompensata da lui per opera d’una pettegola, malgrado la cautela e la morale sarebbe facilmente scappato da me qualche tratto contro di lei parlando al marito, e questo, ridetto colla solita saviezza del marito, avrebbe portato una tracasseria disgustosissima per me e si sarebbe cercato di caratterizzarmi come autore di dissensioni domestiche; ma, appunto perché tal situazione era troppo violenta e l’emozione del mio animo troppo forte, io ho contribuito a sciogliere ogni legame di commercio con Beccaria, e la sua freddezza, il suo fasto, la sua aperta ostilità per la mia gloria mi hanno irritato talmente l’animo che ho lasciato travvedere in me freddezza, non curanza e disistima proporzionata al merito; perciò, come già sai, non ci vediamo più, saranno già tre buone settimane che non viene in mia casa; ed ecco tolto ogni seme di ulteriori dicerie; io vivo da amico colla Isimbaldi, col M[arche]se Padre e la Marchesa; al Padre ed alla Madre mi faccio un dovere di accrescere sempre più i torti di suo figlio: e sai come? col cercare continui pretesti per giustificare le disattenzioni che loro usa e col rilevare incessantemente tutt’i tratti di cuore che scappano a suo figlio. In questa guisa, essendo io il perpetuo avvocato del figlio presso i parenti, essi sentono sempre più il torto che ha di avere dimenticata la mia amicizia per causa di sua moglie; dico dimenticata, poiché essi nemmeno sanno che l’abbia offesa. Questo sistema non mi costa veruno sforzo e sono sicuro di conservarlo. lo vado sempre predicando questa ch’io credo una verità, cioè che Beccaria ha cuore e tenerezza per suo Padre e che qualche combinazione può assopirla per qualche tempo bensì, ma sradicarla non mai. Alla Isimbaldi poi io parlo chiaramente, come l’ho nel cuore, e non posso temere alcun inconveniente. Tale è lo stato mio e con questo piano vedrai che sono sicuro. Con Beccaria, te lo ripeto, è rotta per sempre: non solamente non vi può più essere amicizia, ma nemmeno posso soffrire di passare il mio tempo con lui, la sua presenza mi sveglia nel cuore dei sentimenti troppo amari. Vedo anch’io che era meglio per gradi terminarla, ma non bisognava aver le mie passioni e tante e sì vive per ottenerlo; ora siamo ridotti unicamente a trattarci con una vernice di familiarità quando ci vediamo per un momento. Siccome nell’inverno le nostre unioni erano in casa, così nessuno del pubblico può conoscere mutazione; questo verrà all’occhio la primavera, quando non saremo più insieme al Teatro; ma, qualunque sia il genere dei discorsi da nascere per ciò, san sicuro che i Milanesi ne vorranno più per me che per lui: del che per altro non me ne importa un fico. Io l’ho rotta anche e con quello stupido di Visconti e col Sig.r Odazzi; non già che sia accaduta alcuna scena, nemmeno ch’io sappia ch’essi abbiano cattive disposizioni con me; ma io mi figuro che sono due satelliti di q[ue]sta pettegola, e questo basta, perché nel mio animo ne è nata una avversione che non m’è possibile il soffrirli. Cabale, bassezze, intrighi; becchi cornuti indegni della ragione, della virtù, del cuore, io ho rotti e romperò tutt’i fili che possano tener comunicazione fra me e loro.

9 Febbraro

La descrizione che mi hai fatta de’ quattro impiccati è interessante: che differenza fra l’Inglese e il Lombardo! Direm noi che abbian torto di guardarci con fasto e di ordinare ad un Italiano di far luogo quando passa un Inglese? Amico, al nostro amor proprio è naturale che rincresca la nostra nazionale inferiorità, ma pur la ragione sta per gl’Inglesi, essi hanno una superiorità decisa su tutto il continente d’Europa e non hanno torto di guardare i forestieri come schiavi, giacché la maggior parte lo sono, per le instituzioni della Politica europea, e conseguentem[en]te ne hanno tutt’i vizi nell’anima. L’Inglese è più grande quando si fa impiccare di quello che lo sia un nostro giudice quando condanna ad essere impiccato. Se il mare fra Calais e Douvre si ritirasse, o l’Inghilterra diverrebbe in Europa quello che fu Roma o sarebbe annientata. Il paragone fra la libertà d’un popolo e la soggezione dell’altro, cioè fralla opinione della propria sicurezza che hanno gli uomini in Francia ed in Inghilterra, è talmente sensibile che se due nazioni si comunicassero per confini dovrebbero porsi a livello; o l’insolente Inglese deprederebbe i vicini, gl’insulterebbe a segno o di riscuoterli alla libertà o di soggiogarli per dettargli poi leggi chiare e custodi della libertà; ovvero l’Inglese resterebbe oppresso dalla reazione de’ vicini. Un tratto di mare impedisce tutti questi rivolgimenti. La politica è come l’elettricità, perché ve ne sia diversità fra due corpi bisogna che sieno concordati ed isolati; se comunicano, l’equilibrio presto si forma. Che pensi tu del mio vaticinio intorno la libertà delle nazioni? Che te ne ha fatto pensare questa tua passeggiata sul globo? Sai come io ragiono: la forza d’uno Stato è il piede militare, al dì d’oggi; questo è proporzionato al denaro; questo al commercio; e questo alla libertà civile. Dunque, o deperire ed essere oppressi dalle forze esterne, ovvero dare la libertà civile ai popoli: questa è l’alternativa in cui si trovano gli Stati d’Europa. L’Inghilterra è quella che l’ha formata; sin che i Governi fra di loro stavano in equilibrio di dispotismo la cosa era altrimenti; ora che una nazione lo ha rotto succede quello che accade quando fra alcuni monopolisti uno abbassa il prezzo, cioè che la preferenza sia per lui e che gli altri, per non fallire, sieno costretti a ribassare tosto o tardi a proporzione. La Filosofia deve contribuire assai a questa mutazione; essa non sarà mai fra il popolo se non come un barlume, ma quando la generazione ventura sarà alla sua virilità vedremo nelle cariche dei Filosofi, i quali non solamente non faranno all’umanità i mali che dipendono dall’errore, ma stabiliranno i confini perché non si facciano in avvenire. La Padrona ha pubblicata ne’ Stati ereditari ultimamente una legge con cui proibisce dar la tortura ai maghi ed alle streghe, molto meno poi la morte; forse l’avrai veduta su i fogli pubblici, come ve l’ho letta io. Fa molto onore al Regno di questa Principessa. Se i Sovrani si riduranno a fare ai popoli quei mali soli che ridondano in beneficio della Sovranità, i popoli saranno liberi e felici; non vi saranno Bastille né Inquisizioni: tutto dipende dai progressi della ragione.

Tu mi hai consolato sull’articolo dell’Abate Morellet; io m’aspetto il suo giudizio barocco e non me ne preme più un fico; basta ch’egli non s’immagini ch’io abbia trasmessi a lui i miei scritti né per l’approvazione né per correzione, ma semplicemente come un materiale di fatti per accrescere la sua collezione. Se gli Elementi del Sig.r Forbonnais non sono stimati da lui, lo sono assaissimo da me, che li guardo come la migliore opera sortita sin ora in questo genere. Cerca dunque di riavere le mie due povere verginelle che ho avventurate sconsigliatamente; quel mio entusiasmo per il merito altrui e per le opere grandi mi fa dimenticare troppo me medesimo; è tempo ch’io mi contenti d’essere giusto senza fare tante opere di supererogazione, come eccellentemente s’esprimono gli ascetici; se un Francese qualunque m’avesse affidate delle notizie utili ad un’opera che avessi per le mani e m’avesse data una prova di stima, di fiducia e di premura per me, io sarei stato nell’entusiasmo per quel Francese. Io riserberò in avvenire i miei entusiasmi per la gratitudine e non mi porrò mai più nel caso di aspettarla da un estraneo. Amen.

So che Beccaria dice di lavorare a due opere oltre la grande che aveva già per le mani; naturalmente il progetto di queste due sarà nato in Parigi, poiché nella compagnia in cui vive attualmente non può trovare recezione ne’ suoi uditori; tu ne saprai qualche cosa: soddisfane la mia curiosità. A quest’ora io ti suppongo a Parigi e non vorrei che le mie precedenti lettere, che ho tutte indirizzate al Sig.r Bertina e Garbagni, si fossero da essi innoltrate a Londra. Mi fa una dolce illusione quest’avvicinamento che succede fra noi due e quel potere avere nuove del mio caro Alessandro dopo otto giorni. Io sento nel cuore le obbligazioni che ho per Frisi, il quale è un ottimo amico, all’occasione, spero ch’egli avrà ricevuta la mia lettera e che tu avrai dato quel soccorso che gli abbisogna per le spese da lui fatte nella non prevedi bile malattia, e spero che questo viaggio che mi ha disingannato d’un amico mi darà la compensa di stringere sempre più l’amicizia fra me, te e lui.

Io ho già letti in questi giorni i tre primi tomi della Gazzette Litteraire, scritta assai bene: forse v’è un po’ di prevenzione nazionale, massimamente contro gl’Inglesi e qualche volta contro di noi; dell’opera del P[adre] Cavalli, che nessuno legge, stampata in un angolo di Milano, derisa dai pochi che ne hanno avuta notizia, i Giornali di Bullion e la Gazzetta ne parlano e la credono degna d’essere annunziata all’Europa; del Libro di Cocchi, dei Discorsi del Soria, delle dodici Lettere del Bettinelli (il nome dell’autore è un secreto che non paleserai) e d’altre simili opere, come la collezione de’ Scrittori d’Idrostatica, ecc., non se ne parla; è una fatalità; o che stanno male a corrispondenti, ovvero che v’è una gelosia nazionale contro di noi; noi siamo i primi a conoscere il basso livello a cui sono generalmente le cognizioni della nostra Patria, ma alcune punte s’alzano pure da questo pantano, ed a queste vuole il bene della repubblica delle lettere che i giornalisti si volgano. I Cavalli, i Facchinei, i Baretti e simili scarafaggi nemmeno leggono i buoni giornali, né v’è speranza di raddrizzarli con una sferzata di ridicolo; ma i giovani e gli uomini d’ingegno, derisi e negligentati in Italia per lo più per la superstizione e l’ignoranza nazionale, meritano e per giustizia e per beneficenza d’essere prescelti dai giornalisti forestieri ed essere presentati alla Società de’ pensatori d’Europa come loro confratelli; ciò consola, rianima e spinge gli uni a proseguire, gli altri ad imitare, e si accellerano i progressi della filosofia. Se poi in un giornale vuolsi dare un canto anche per gli autori da mettersi alla berlina, sia, ma ciò debb’essere un oggetto secondario e come la Petite Piece del Teatro.

Ho ricevuto la lista delle robe provvedute in Londra co’ loro prezzi; io credo che dell’utile vi sarà sicuramente. Io veramente aveva destinata per te quella piccola somma, ma le tue compere sono state fatte prima che ti giungesse il mio nuovo piano. Tu pensi di farle esitare dal Ghelfi: io vi ho qualche difficoltà per essere egli impiegato nella Ferma, dove il buon regolamento vuole che si proibisca ai subordinati ogni traffico. So che ciò non si osserva, ma desidero che chi particolarmente dipende da me serva di modello. Penserei dunque a sostituirvi Costantino, al quale farò avere il primo Botteghino di Tabacco che potrò, così egli avrà 25 soldi stabili al giorno e molte ore di libertà e, se comincia bene con questo saggio, potrà far utile a sé ed a noi. Per altro le tue idee di commercio sono ottime, quando non ve ne sieno di migliori per te: e tali credo quelle del ministero. Avanti che tu guadagni mille scudi l’anno in questo traffico vi vogliono degli anni, del pericolo ed infinite dicerie; il viaggio di Vienna ti può dare altrettanto senza alcun inconveniente, anzi cogli omaggi del pubblico.

10 Febb[rai]o 1767

Nostro Padre è in salute. Tutti stanno bene. Il tuo Domenico m’è venuto in grazia assai dopo la tua partenza: primieramente egli è un uomo attaccatissimo a te, poi è un uomo attento e buono; s’ubbriaca un po’ la sera, ma mi fa ridere; con lui parlo sempre di te, egli ti saluta e ti desidera, io proccuro di rendergli men dura che posso la sua condizione, egli mi serve regolarmente alternando con Filippo, è un buon uomo assai. Costantino pure ti bacia le mani. Ghelfi fa lo stesso.

Una idea m’è venuta in mente, assai graziosa, cioè che facendo tu il viaggio d’Italia e terminandolo a Venezia, se riesce d’indurre nostro Padre a mandarti alla Corte, tu da Venezia te ne vai in una velata a Trieste, e da Trieste in quattro giorni tutt’al più sei a Vienna, per la più comoda e bella strada che si possa fare delle quattro che ho fatte io. L’idea è che a Venezia possiamo vederci, perché considero che tu vi giunga verso il principio di Giugno; la prima metà di quel mese è piena di ferie: io facilmente ottengo il permesso per quindici giorni, me ne vengo col corriere, senza servitore né altri impicci, spendo poco, andiamo tutti due ad alloggiare alla «Regina d’Inghilterra», dove un certo Sig.r Cristoforo dà da mangiare eccellentemente, passiamo otto giorni insieme con te e Lungo, avremo cento cose da direi e sarà un congresso delizioso; poi prendo meco il nostro Abate, me lo conduco a Milano, e tu ci volgi un paio di spalle ancora per tre mesi. L’idea mi piace, ma sono impaziente di sapere le tue determinazioni. Addio, fratello adorabile. Ti salutano gli amici soliti e di più l’Abate, che me ne ha data comissione. Egli legge Voltaire e gli piace assai. Addio. Castelli ti saluta, così Corti, Somaglia, Carli, ecc. ecc. Ama il tuo PIETRO.

XLVI (26) A Pietro. Londra, 20 Genn[ai]o 1767

Ricevo in questo punto la cara tua dell’ultimo dell’anno. Ella cominciava in una maniera che mi ha messo una mano al cuore. Era qualche tempo che mancavi di mie lettere e mi dipingevi al vivo la tua inquietudine, e Dio sa cosa t’immaginavi del tuo povero Alessandro, il quale, come hai poi veduto dalle mie lettere, sta benissimo. Ti sono obbligato che mi abbi dissimulata la tua inquietudine, perché ti assicuro ch’io al primo periodo di questa tua lettera fui molto di mal umore. Vedo in fine che hai ricevute due mie in una volta; e quell’ultimo paragrafo mi ha consolato. Che situazione sarebbe mai quella ch’io fossi sano e contento a Londra e tu accorato ed affannato che mi possa essere occorso qualche accidente! Questo è uno de’ pochi mali della amicizia, la quale ci fa tanti beni. Io mi metto in ginnocchio avanti del tuo cuore, ed intanto che ne adoro i sentimenti lo prego ad esser sempre di buon umore sul conto mio, perché da Londra a Parigi, da Parigi a Milano, v’è tanto pericolo come da S. Celso a S. Dionigi. Stanne sicuro.

Nell’ultima mia ti ho tanto scritto di Beccaria che non voglio dirne più una sola parola, se pure è possibile non parlare moltissimo delle nostre passioni. Mi pare anche d’averti fatto un po’ troppo il maestro addosso. Tu piglierai quanto scrivo come prendi tutte le cose mie.

Ti sono obbligato, ma veramente obbligato, degli utili ed amichevolissimi suggerimenti che mi dai di proccurarmi lettere del Conte di Mercy e della Contessa della Marche e di portare qualche letterario presente a S[ua] E[ccellenza]. Hai ragione, e non mi scorderò di questo tuo pensiero. Faremo quello che potremo per servirla.

Il Conte d’Adda, non andando più a Vienna, mostra che la sua anima ha tuttavia la triplice teologale facoltà di ricordarsi, d’intendere e di volere: perché io sospettavo assai che le due prime le avesse perdute, quando sentii che andava alla Corte. Bisogna aver perduta la memoria per non ricordarsi della figura che fin ora vi hanno i nostri rappresentanti; bisognava non intendere ch’era bestialissimo progetto il rovesciare un sistema nuovo, in cui è interessato l’onore di un Ministro di grand’amor proprio quanto di gran lumi, ed a sostenere il quale vi sarebbero dei Consiglieri che sanno scrivere, dei Fermieri che sanno spendere e, più di tutto, la verità. Dopo massimamente il discredito che simili illustri vittime d’una fratesca oligarchia si sono fatti nella buona fede teutonica, la risoluzione del Vicario era mirabile in tutte le sue parti.

L’Abbate fa dei peccati per poi piangerli questa quaresima. Me ne rallegro assai. Anche questa è una bestia curiosissima. Io vado pensando che lascierà la teologia a Bussero e che, per la sua naturale leggierezza, come testa di lodola ch’egli è, tornerà a darsi le arie di ragionevole per ricadere nuovamente nel trattato De Grafia et de Trinitate e fare il suo viso teologicamente lungo un braccio da falegname alla prima occasione. Anche questo è da gettarsi sempiternamente nella bassa corte, colle ocche e le galline. Il caro Cav.re mi dà gran voglia di abbracciarlo. Assicuratelo della mia amicizia. Mi vedo in faccia una vita felice con due così cari fratelli. Ti metto sempre per il primo, intendiamoci. Sarebbe stata una maladetta casa, la nostra, se il Cav.re somigliava al Teologo. Così siamo tre. Il pazzo, solo, non farà male che a se stesso. Sono veramente contento di trovare nel Cav.re un buon amico. Gli ho sempre avuto inclinazione. Mi ricordo d’averlo veduto appena nato e mi ricordo ancora che fra i miei pensieri fanciulleschi vi fu che, essendo io nato prima, sarei anche morto prima di Lui e che ne avrebbe di ciò avuto dispiacere, perciò me ne affligevo. Non avevo forse sette anni quando così pensava, eppure era detto il Neroncino da mio Padre. Vedi quasi un presagio della amicizia! Al contrario, per l’Abate ho sempre avuta della antipatia, e si siamo graffiati il viso parecchie volte, e quanto a pugni non ne parliamo. Per queste mie bricconate sono stato confinato a Santa Cristina, di eterna recordazione.

Non porterà nessunissimo inconveniente il non averti io dato di buon’ora l’avviso della mia partenza di Londra. Ho disposto il tutto in modo che le tue care lettere mi giugneranno sempre a tempo. Io partirò da qui, da queste libere ed amate sponde del Tamigi, alla fine del corrente. Ho già dato vari ordini per trovare un compagno che parta tra i 25 ed i 30, e lo troverò. Sono venuto per Lilla colle Diligenze, ma mi sono potentemente annoiato. Ho trovate compagnie orribili, né l’economia è grande. Spero di spender meno nel ritornare per posta con un compagno. Io adunque sarò a Parigi quando tu riceverai la presente. Seguita, quanto all’indirizzo delle lettere, il solito sistema. Tutto è ordinato da me: tu non ci pensa. Non si perderà una lettera sicuramente.

Non vorrei che codesti miei dolci amici Lambertenghi, Carli, Secchi, ecc., mi credessero raffreddato perché loro non scrivo. Bisognerebbe che ricopiassi le stesse cose più volte per dare le nuove a tutti. Tu vedi che imbarazzo. Oltrediché molte cose sono da dirsi a tu solo. Fa’ in modo, io te ne prego, che mi sieno sempre amici. In ogni caso, se è veramente bisogno ch’io scriva ad alcuno, dimelo. Sappi che tutte le volte che mi dai dei suggerimenti non offendi il mio amor proprio, ma mi fai un atto di vera e soda amicizia. Su questo certissimo principio ti potrai regolare in ogni caso.

Ti abbraccio e ti dò una specie di gazzetta.

Ieri è stato appiccato un uxoricida. Ecco la proporzione fra i delitti e le pene in Inghilterra! Pochi giorni prima fu appiccato un Capitano, come vi scrissi, che ha fatta una falsa cambiale di 20 ghinee. Così è lo stesso rubare venti ghinee ed ammazzare la moglie. In questa parte non ammiro codesta Legislazione. La storia di quel povero giovine Capitano è degna di gran pietà. Il suo regimento fu cassato: ciò lo ripose in strettezze. Di più, non gli rimanendo che 50 ghinee per tutto il suo avere, ne impiegò 40 di esse a torre di prigione una sua giovane conoscente che vi era per debiti. Le dieci ghinee restanti furono presto consunte ed il povero Capitano fu strascinato al delitto che lo condusse al patibolo. Ha tolto, alla fine senza violenza, 20 ghinee ad un ricchissimo mercante. La donna giovane da lui beneficata lo ha sempre assistito in prigione con somma premura. Il complesso di tai circostanze tocca il cuore. Ma qui le leggi fredde ed indifferenti condannano, e non gli uomini o le loro passioni. La legge dice «muoia il falsario»: non v’è interpretazione né diversità di caso. Non si può chiamar tiranna che la legge. La forma del giudizio è quella di scegliere i giurati, com’è noto.

I fogli pubblici si lagnano di molto delle grandi conversioni de’ Protestanti al Papismo, come qui dicesi. Narrano che nel Principato di Galles un Prete cattolico per nome Carpenter ha convertito, nello spazio di due anni, cinque mila persone al Papismo; e che un rispettabile prelato (che si dice il Vescovo Cattolico) ne abbia convertito, negli ultimi anni, ben ventimila. Perciò nell’assamblea del Clero Anglicano, che fra poco si terrà, si penserà al modo di opporsi ai progressi di questo zelo. Egli è certo che il cattolicismo qui guadagna assaissimo. Venti anni fa si trovavano in Londra venticinque mila cattolici: ora si crede che per lo meno ve ne siena quarantamila. Così in proporzione nel restante dell’Isola. So che alla Corte tanto gl’Italiani come i Cattolici sono discreditatissimi. Ultimamente la Regina, che sa bene ed ama la lingua nostra, voleva farla insegnare ad una sua figlia. Fuvvi un Ambasciatore (egli è il Marchese Caraccioli, Amb[asciato]re di Napoli) che ne propose uno molto onesto, ed a proposito il Re gli rispose: non mi parlate né di Italiani né di Cattolici, perché sono tutti birbanti. Lo stesso Marchese me lo ha detto.

Abbiamo freddo straordinario, che ha agghiacciato in varie parti il Tamigi. I grossi pezzi di gelo ch’ei strascina impediscono la navigazione. Una piccola barca, essendosi azzardata qui a Londra a passare il Tamigi, è rimasta nel ghiaccio che la strascinava e stava per rovesciarsi. Due persone che vi erano dentro per salvarsi presero il partito di smontare sul pezzo di ghiaccio nel quale era impegnata, e quindi, industriosamente saltando dall’uno all’altro secondo che la corrente del fiume glieli presentava più comodamente, giunsero a riva; ma colle gambe così effreddate che non avevano più moto, e furono condotti allo spedale.

Un altro battello era pericolante parimenti per l’urto de’ ghiacci. Un Capitano di nave, che stava all’ancora sul Tamigi a poca distanza, gli tolse a questi estremi con spedire loro un cane suo fidissimo con una corda allacciatagli al collo, l’altro capo della quale era raccomandato al vascello. Il cane, nuotando fra i ghiacci, giunse al battello, in esso fu riposto; gli si slacciò la corda dal collo e, con tirandosi verso il vascello, giunsero a bordo le persone ed il battello. Ho sempre detto bene dei cani, massimamente barboni, e so quello che dico. Sono brave creature.

Malgrado questi gran freddi è caduta qui in Londra della grandine una settimana fa, ed a Newcastel vi fu neve, fulmini e tuono nello stesso tempo.

A Bridgewater, lontano circa sessanta miglia, è successo questo fatto. Un ferraio andò a caccia. Trovò una gran truppa di corvi sparsa sulla neve: tirò un colpo e ne uccise due. Immantinenti tutti gli altri alzarono il volo e lo circondarono e lo assaltarono furiosamente, graffiandogli il viso e beccandoli il capo, lasciandolo mezzo ruinato, sicché se ne sta molto male. Ciò fu il 25 passato Xbre. Io dò ragione ai corvi. Se comincieranno a farsi portar rispetto saranno presto illustrissimi.

Il celebre M.r Whilks, ch’è a Parigi da qualche tempo, fu ultimamente assaltato da uno scozzese detto M.r Douglas. Whilks tirò la spada come lo Scozzese. Questi fu ucciso, Whilks è ferito nel braccio sinistro. La ragione di questo insulto dello Scozzese si crede essere perché Whilks abbia detto male della sua famiglia: almeno tal era la ragione ch’esso Scozzese disse a Whilks, avendolo chiesto per qual motivo lo insultasse. Così scrivono i fogli di Parigi. Me ne dispiace assai per Whilks, che conosco per uomo di merito. Avrà almeno o da ritirarsi dalla Francia o da soffrire una procedura criminale. Fine di questa lettera. Addio nuovamente. ALESSANDRO.

XLVII (27) A Pietro. Londra, 23 Gennaro 1767

Poche righe, perché non ho tempo di più: tanto che la posta non vada senza che ti dia il buon giorno.

Me la passo benissimo, incerto se fra pochi o molti giorni mi lasceranno partire le nevi ed i ghiacci onde sono rese impraticabili le strade. Sono sulle mosse ed aspetto un paio di giornate temperate.

Trovo su i pubblici avvisi di Londra che il Monte Busti di Milano viene accresciuto dalla Imperatrice della somma di 3.000 fiorini ed in oltre viene annesso al Banco di Vienna. È egli vero?

Le tue Meditazioni sulla felicità ho poi saputo che sono state molto lodate in un giornale di London intitolato Mothly Review, cioè mesuale revista.

Frisi mi scrive da Parigi in data del 16 andante che Beccaria a nome del Conte Carli lo consiglia di ritornare a Milano al più presto. Possibile che Beccaria si dimentichi di tutto a segno di non ricordarsi che il povero Frisi è realmente amalato di una gamba, come ha potuto vedere a Parigi, e come io so, che ultimamente è stato malissimo e non può attualmente uscir di casa? Cred’egli Frisio un impostore? Si scorda a segno dei riguardi che gli deve, da non farsi carico del suo male e tacitamente accusarlo da impostore, come non mancherà fra i maligni chi lo creda? Io vi assicuro che Frisio non può muoversi, ed egli stesso vi deve aver scritto sulla ultima ricaduta che ha fatto. Ma perché mai questa repentina chiamata? Vi è forse qualche insubre cabala?

Frisi in oltre mi scrive di Beccaria: Sull’articolo di lui, credete pure ch’è partito ad entusiasmo finito, dico finito appresso quel numero di persone che lo hanno avuto una volta. Voi ne giudicherete a Parigi per voi medesimo.

Addio, amico carissimo: la ventura posta scriverò al mio solito. Questo non è che un biglietto di visita per abbracciarti e dirti che sono il tuo ALESSANDRO.

XLVIII (28) A Pietro. Londra, 27 Gennaro 1767

Sto aspettando buon tempo per abbandonare la mia cara Londra. Figuratevi se non devo amarla. Vengo d’aver dialogato da solo a solo con una delle più belle creature e più vezzose che mi abbia mai vedute.

Oh bella Venere figlia del giorno!

ne sono tuttavia incantato. Non ho mai provata la forza della bellezza come in questa occasione, e nulla ho veduto di più bello. Il ben pascersi che fanno di squisite e sugose carni le Inglesi, il non avere un sole cocente e spesso semicoperto dalla nebbia, il clima dolcissimo del paese, le fa di una freschissima carnagione e di una rotondità e palpabilità di gote, di mento e di collo affatto seducente. Ogni viso feminino qui significa qualche cosa. Sono tutti animati. Oh, cari e poi cari.

Conosco qui un vecchio Toscano, da molti anni stabilito a Londra. Egli è il S.r Vincenzo Martinelli, Autore della Storia della vita civile. È venuto a farmi ultroneam[en]te visita, io gliel’ho restituita e siamo entrati in qualche famigliarità. Ei fu a Milano, tre anni sono, con Milord Spencer; fu anche dal Conte di Firmian. È buon vecchio, ma vivissimo: sempre si loda e vuole esser lodato. Io, perdonando alla sua incoreggibile vecchiaia questo difetto e secondando per pura umanità le sue passioni, mi cattivai la più grande sua amicizia. Gli ho detto che Beccaria lo stima: ciò lo fa giubilare. Egli è per altro come tutti i nostri letterati italiani: curante dell’armonia dello stile; mediocrissimo ragionatore; di qualche spirito, che impiega a dir male del merito; senza entusiasmo; pedante parlatore; divorato dalla vanità, dall’invidia; mordace per brillare; impertinente come un virtuoso. Malgrado questo corredo di vizi, ch’io credo accompagnare sempre i nostri Dotti, egli ha del fuoco e del cuore.

Quanti birbanti italiani non vi sono qui! V’è un tale Abate Giulio Cesare Fioretti, miserabile avventuriere, il quale fu bastevolmente impudente per spacciarsi per qualche tempo autore dei Delitti e delle pene e, ciò ch’è più, fu creduto tale: quasiché dando un’occhiata al libro ed una all’autore non si dovesse subito conoscere la impostura. Vari però non gli credettero, fra i quali un tale Sig.r Badini, Gesuita sfrattato, che soleva dire a tal proposito che il Fioretti era bensí autore dei delitti, ma non delle pene.

Il nostro caro Baretti, come vi ho detto, è qui insieme di tanta altra canaglia che disonora la nostra nazione. Poco mancò ch’ei non fosse qui fatto bastonare dall’Inviato di Baviera e poi da quello di Sardegna, ambi malcontenti della sua maldicentissima lingua. Il Martinelli lo tenne per carità alcuni giorni in casa per salvargli le spalle.

Sono stato dal Newton della eletricità, il famoso Franklin. È uomo di oltre cinquant’anni. Mi ha fatto vedere un istromento di sua invenzione. Voi sapete che, premendo e slisciando con un dito bagnato sul lembo di un bichiero di vetro se ne cava un suono. Egli ha fatto l’istrumento su questo principio. Ha infilate su di un perno, ossia asse comune, tante campane di vetro quante corrispondino al numero de’ biscari di un cembalo, proporzionalmente degradate: il perno gira per mezzo del pié sinistro con una rota, come fa un Arruotino; nello stesso tempo si toccano con le dita, a guisa d’un cembalo, le campane, che girano come ruote, bagnate in prima leggiermente con una sponga: se ne cava una melodia che va al cuore. Non ho sentito suono più significante. Ho chiamato al Franklin se conosceva il P[ad]re Beccaria di Torino. Lo conosce ed è in corrispondenza con lui. Gli ho chiamato se sapea che in Italia alcuni pensavano che fosse suo plagiario: egli mi ha risposto che è assaissimo contento di lui e mi ha fatto vedere una di lui rispettosissima lettera scrittagli. Ei disse che gli ha mandato, esso P[adre] Beccaria, due volumi in quarto sulla Elettricità e che in essi fa sempre menzione delle anteriori scoperte di Lui, con buona fede e somma lode. Egli in somma n’è contentissimo ed è suo corrispondente. Per altro non conosce del P[ad]re Beccaria che que’ due volumi. Se adunque vi fosse qualche altra opera nella quale questo Padre fosse plagiario, e pubblicata prima di quella, sarebbe un’anecdota da schiarirsi. Sappiatemelo dire.

Fui ancora alla bottega del famoso d’Olond. Egli è morto: v’è suo figlio. Con una Ghinea si ha uno de’ suoi cannocchiali di Teatro della ultima invenzione. Vedete se codesto Baillon è discreto! Un perfetto cannocchiale, d’invenzione novissima, preso da chi solo lo sa fare, in una città ove tutto è carissimo, vale la metà di quanto lo vende un mezzo optico di una città ove il danaro vale cinque volte più che non a Londra.

Monsieur Rausseau fu per pochi giorni qui in Londra, sempre vestito alla orientale. Ora da qualche tempo è a Wotton, villaggio nella provincia di Derbyshire, lontano da qui 150 miglia in circa. Quest’è quanto so di Lui. Le sue opere sono stimate.

Fui di nuovo ad una sessione della Società Reale. Si presentò la testa di un vitello, nato ultimamente in Ispagna, con due bocche, due nasi e tre occhi: cioè una testa che si dirama in due. Visse quattro giorni. Ho veduto il libro de’ Soci dell’Accademia, ove ognuno vi pone la sua soscrizione. Vi ho venerata quella di Newton, di Loke e del Regnante Duca di Modena. Nella piccola Sala dell’Accademia vi sono due ritratti di Newton, da uomo e da vecchio; ed il suo busto inoltre è in faccia di quello del Re Carlo 2°, fondatore dell’Accademia. Ho veduto nell’anticamera di essa accademia il primo orologio a pendolo, fatto circa cento anni sono. V’è un Museo di storia naturale, non molto vasto ma scelto. Egli è dell’accademia. V’è una preziosa libreria, pervenuta da Matteo Corvino, Re di Ungheria. Ella è preziosa perché composta di antiche stampe. Non v’è collezione simile in tal genere. Le più antiche stampe che vi si trovino sono del 600, ed è una discreta camera tutta ripiena.

Narrano i fogli che v’è a Parigi un Capitano di nave inglese il quale vive con tale splendidezza che ha colpito il Re, per modo che un giorno a Corte lo complimentò e gli disse qualche cosa su questa sua magnificenza: Sire, gli rispose il libero Capitano, rendo a’ vostri sudditi parte di quel sangue che gli ho tolto nella ultima guerra. Sua Maestà rispose sorridendo: Son ben contento di trovare in un mio nemico tanta buona conscienza.

La cassetta delle bigioterie è preparata e partirà fra pochi giorni. Sono almeno sei settimane di navigazione. Sarà indirizzata al Sig.r Siro Matteo Cassati nella contrada de’ Bergamini e da Lui dovrai mandarla a prendere a suo tempo. Vi ho aggiunti sei altri ottimi rasoi, che vagliono in tutto nove Schellini. Addio, carissimo. Sono senza tue lettere, e mi pare che mi manchi la molla per iscrivere. Finisco col foglio baciandoti. Salvete, amici. Il tuo ALESSANDRO.

XLIX (21) Al Fratello Alessandro. Milano, 14 Feb[brai]o 1767

La Posta di Ginevra non mi spedisce mai una sola lettera del mio caro Alessandro: sono sempre per lo meno due e talvolta tre, come in questo ordinario in cui ho ricevute le tue lettere del 20, 23 e 27 Genn[ai]o passato. Il Cielo e l’amicizia ti benedicano e ti restituiscano piaceri che cagioni a me. T’assicuro che sono per me momenti di delizia quelli ne’ quali ricevo e leggo le care tue lettere: il cuore, lo spirito, la curiosità, la filosofia, tutto vi è in moto e tutto vi è dipinto con una franchezza di colorito che ti fa vedere gli oggetti. I tratti leggibili io gli comunico agli amici, cioè ai fratelli, a Lambertenghi, alla Somaglia, a Carli, a Corti, e in tutti le cose tue fanno la stessa impressione. Io aveva formato il progetto di estrarre dal tuo commercio epistolare le cose impunemente leggibili, di darvi un ordine e soddisfare alla curiosità di chi me ne ricerca, ma poi ho riflettuto che in tal guisa io ti guastava il materiale per un libretto assai interessante, con cui potresti farti onore dopo il tuo ritorno. Troverai tutto il nostro commercio registrato fedelmente e ricopiato in carattere chiaro: comodamente potrai ripassare tutte le tue lettere, esse ti serviranno di norma per risvegli arti una serie d’idee che sul fatto hai potuto omettere o per la fretta ovvero per il precipitato giudizio de’ primi giorni dopo lo sbarco, e potrai regalare all’Italia un libretto delizioso, istruttivo e interessante per ogni verso.

Lungo mi va battendo ogni ordinario e vorrebbe il riscontro da me prima ch’io l’abbia da te; ei non calcola il tempo e la distanza; è impaziente di averti ed io spero che soddisferai la di lui impazienza: scrive alla Somaglia, scrive a me. Io aspetto colle prime tue lettere due cose che m’interessano: l’una è questa, della tua risoluzione a veder l’Italia; l’altra è il tuo arrivo a Parigi, che desidero per molte ragioni: lo desidero per una chimera, ed è quella di calcolare un minore spazio fra te e me, e questa chimera può moltissimo nel mio animo; e lo desidero perché sono sicuro che vi starai meglio e che farai le tue espiazioni e vendette dell’insultante dittatura del compagno. Il caro Frisi mi scrive e lo vedo impegnatissimo per te.

In riscontro del tuo vitello di due musi e tre occhi ti dirò che pochi giorni sono è nato a Lodi un mostro umano il quale in tutto è simile ad una bambina, fuori che ha due colli e due teste, perfettamente finite, che escono parallele dal busto; ha due mani che sbucano fuori dalle spalle ed ha una coda di due pollici circa, la quale, sebbene non abbia internam[en]te le vertebre, pure ha una sostanza quasi ossea. Questa bambina è vissuta alcune ore o, dirò meglio, sono vissute, sono state battezzate tutte due. Ora si conservano nello spirito di vino. Magistretti crede che la supposta coda sia una informe gamba, giacché dal collo in giù non ha di più delle figure ordinarie che le due mani alle spalle. Se si fosse potuto fare la dissezione, sarebbe da vedersi se vi siano due polmoni, se internamente vi siano le braccia dalle quali provengono le due mani della schiena, se la coda proceda dalla spina del dorso ovvero da una gamba interna, ecc.; mille curiosità v’erano per un Anatomico, ma non si sono potute soddisfare senza distruggere questo fenomeno. Il Padre è venuto a Milano ed ha lasciato sull’osteria, in pegno di tante polpette, queste sue gemelle. La gola, il sonno e le oziose piume hanno dal mondo… con quel che segue.

È verissimo che il Monte Busti è stato accresciuto di 500 mila fiorini e che è una dipendenza dal Banco di Vienna, come hanno scritto i fogli di Londra; questa novella è talmente piccola e indifferente che non te l’ho scritta, per altro la cosa è così.

Beccaria ha torto d’essersi incaricato della commissione di richiamare il nostro Frisi; egli ha torto di più, e ne sono io testimonio, di non avere appoggiato con cuore e con impegno la verità alla tavola di S[ua] E[ccellenza] quando ne parlò. È vero ch’ei disse che era ammalato; ma, vedendo il silenzio del S.r Conte ed accorgendosi che ciò nasceva da diffidenza del fatto, come se n’è accorto egli doveva non lasciar cadere il discorso; io perciò, all’arrivo del S.r Cons[iglie]re Landriani o Lampugnani, non ho omesso di fargli intendere la necessità che v’era di toccar questa corda, e glielo dissi una mattina che era invitato a pranzo da S[ua] E[cellenza]; egli, pieno di indignazione per questi dubbi immeritati e mal collocati, avrà parlato come doveva e credo che ogni dubbiezza sia svanita. Non temere, perciò, che vi sia cabala alcuna contro il nostro amico; per quello ch’io so il nodo dell’affare è questo: Boscovick vorrebbe, partendo per l’America, lasciare un sostituto; si vorrebbe negarglielo e forse disporre della sua catedra; l’esempio di Frisi più si prolunga più è forte, quest’è il dissotto di quest’affare; puoi confidarlo all’amico, ma tenetelo in voi. Ora Carli è persuaso e forse pentito di avere data una indebita amarezza al nostro Frisi, e son sicuro che non è mai stata questa la sua intenzione. Quest’affare dunque non lo guardare in nero per nessun verso, perché né il nome, né la convenienza, né l’interesse dell’amico non sono in verun pericolo. Quel Beccaria è divenuto, a quel che mi pare, un pittore di tinte caliginose e tetre, ed ha acquistato il talento di portare l’amarezza, il fiele e l’inquietudine nel cuore di chi ha avuto amicizia per lui. Si vede che quest’è l’ultimo atto della sua scenica rappresentazione e si dispone a passare il resto della sua vita nel parterre. Il Marchese Gorini sta molto male e probabilmente dovrà soccombere a un violento attacco al petto: perdiamo un uomo di cui i difetti innocui hanno fatto l’argomento delle maldicenze milanesi per più di trent’anni, e di cui le eccellenti qualità sono state sempre dimenticate. L’ospitalità, la cortesia, una qualunque stima del merito, la compiacenza della felicità altrui, la toleranza teologica, la buona fede con cui ha tentato d’aleare opinioni e ragione, la generosità del suo animo, l’ingegno al dissopra del volgare malgrado i suoi errori, sono tutti motivi per i quali si può perdonargli i suoi libri, i quali, poi, non fanno torto a nessuno, se non a chi gli ha fatti. Forse al ricevere di questa lettera egli sarà morto e t’assicuro che me ne dispiace. Son sicuro che lo stesso succederà in te; forse non troveremo più una ospitalità tanto comoda come quella di Bussero, e per me singolarmente.

I nostri amici Carli, Lambertenghi, ecc., t’amano, ti stimano, sono entusiasti per te; ti ringraziano della memoria che hai di essi e ti dispensano dallo scriver loro, contenti di quanto sanno di te per mezzo mio.

Tutta la famosa compagnia dell’Abate Seravalle e del Radaelli di Vienna termina con quel ridicolo che avrebbe dovuto avere sin da principio. Il M[arche]se Bolza e gli altri negozianti di fondo, che sotto la direzione di quelle due teste da parucca avevano avventurate somme di vari milioni, ora si sono ritirati; restano dunque due matti ridicoli meno otto milioni. La mia Scrittura ha fatto un bel colpo; ti dirò per altro che coloro hanno avvanzato tanti fatti supposti, hanno progettate tante proposizioni assurde, rovinose e ineseguibili, che non v’è merito grande nell’averli posti al vero loro livello. Ora si vedono venire le proteste da varie parti, di non essere entrati in questa lega il tale o la tale, chi per vergogna, chi anche per timore. Viva chi vince. Quest’epoca, siccome è il massimo degli attacchi bestiali che potevano farsi alla Ferma e che è smascherato luminosamente, così sarà la pace di Costanza per la Ferma e porterà la noia e il discredito in compagnia di chi ulteriormente la voglia stuzzicare. M’aspetto che Seravalle e Radaelli, tornando a Milano, vengano a pregarci di prenderli fra i Scrittori nostri. Ti ricordi tu d’un certo Abatino Curiazio di Casa Pallavicini, che è venuto un anno fa a propormi due progetti, uno sulla seta, l’altro sulla lana, per formare due compagnie le quali facessero un monopolio di tutte le importazioni ed esportazioni di queste materie prime e loro manifatture? Ebbene, quel ridicolo progetto è stata la prima scintilla di quest’incendio, di cui le vampe hanno girato intorno al Trono ed ai più favoriti Ministri e Cortigiani. In una parola, si voleva fare una Ferma Commerciale la quale, oltre ai diritti della Ferma attuale, avesse la privativa di tutto il commercio dello Stato, diritto d’eriggere ogni fabbrica, coattiva ai fare tutte le condotte delle cose commerciabili essa sola, in somma una di quelle bestialità delle quali ne compaiono poche in un secolo. È poca gloria il vincere con simili contrasti, ma è una trista occupazione dover combattere seriamente. Greppi mi parla sempre di te, egli pure vorrebbe il tuo viaggio di Vienna e m’esebisce ultroneam[en]te ogni possibile assistenza. Aspetto il tuo riscontro, il quale (se pure attualm[en]te sei a Parigi) nol posso avere che a Quaresima, e allora, se ti risolvi, io parlo al Ministro per ottenere l’aiuto da nostro Padre; se vi mancherà qualche cosa vi sarà modo da supplirvi, tanto che tu possa sempre stare senza inquietudine. Io non vedo l’ora di rivederti, ed interpongo sempre i mezzi per prolungarla; vedi se non è vero quel che dicono poi i Preti sulle due parti inferiore e superiore.

Sono stati fatti due nuovi Ciambellani milanesi. Morigia e lo sposo Fagnani. Morigia è a Napoli e forse questa primavera passerà in Francia. Ha preso possesso nel Sup[rem]o Consiglio il S.r Lottinger, che in prima era Console Im[peria]le a Genova. La Grianta sta a Modena, credo pentita di esservi. L’Isimbardi sta bene, allatta il suo bambino ed ha affrontati i pregiudizi con coraggio e costanza non comune. Il Cardinal Durini sarà il Padrino del battesimo in supplemento del M[arche]se Isimbardi, che s’è spiritosam[en]te disimpegnato.

Il genere di vita di Beccaria diventa sempre più ritirato e noioso per lui; egli quasi non scrive, passa la sera in casa con Odazzi, Visconti e i suoi fratelli, legge la Gazzette Litteraire, è quasi sempre di cattivo umore: quest’è quello ch’io so di lui; da Moscovia non è venuto altro riscontro, verisimilmente nemmeno verrà. I suffragi pubblici sono assai diminuiti sul suo conto. Il suo ritorno improvviso gli ha fatto torto grande, universalm[en]te; s’accorgerà poi che i suffragi del paese in cui si vive non sono mai indifferenti ad una anima sensibile. lo m’era posto nell’alternativa: o comandare o partirmene, e ciò lo dicevo mentre aveva uno scelto numero d’amici attaccati a me. Figurati se un isolato ambizioso, e pieno di personali diffetti che fanno ridere i volgari, può essere felice così! A considerar la cosa nel suo verso, egli ha fatto un contratto assai ridicolo colla sua condotta, perché non ha fatto che perdere. Io lo riguardo come un uomo che, mentre gli dormiva accanto con piena fiducia, mi ha dato una stilletata: per fortuna lo stile era di carta d’argento, ma non è merito suo se non sono stato ferito. Egli di sbalzo volea ch’io, contento dell’onore d’appartenergli, dimenticassi la mia propria esistenza. In somma, è cosa che oggi mi fa da ridere. Sappi che se il viaggio di Russia avesse luogo Calderari sarebbe del convoglio.

Prima di chiudere questa lettera ti dò migliori nuove del M[arche]se Gorini, che ho ricevute in questo punto; io però non me ne fido, i mali di quella natura, come aventi la sede in un viscere insensibile quale è il polmone, non si misurano né dal dolore né dalla febbre. Oggi è in calma, ieri aveva il Confessore.

Ti raccomando l’affare del Giornale di Bouillon: la giustizia, l’onestà, la ragione vogliono che non resti questo vituperoso trionfo d’un matto solitario sopra un uomo ragionevole, né d’un libro insignem[en]te noioso, pedante e antilogico sopra una bizzeria che non manca di verità e d’una sorta di merito. Il Giornalista, se è uomo di merito, deve non avere difficoltà di pubblicare che il giudizio l’ha dato sulla relaz[io]ne altrui. Che gli scritti di Pietro Verri tendino a sommergere la sua nazione nella barbarie e quegli dell’Abate d’Adda a promovere la filosofia, è una proposizione che non fa onore a chi l’ha detta. Ne ho positivamente su quest’affare una passione, e tu prendine parte. O si riducono le cose a un dovuto risarcimento, e bene; o no, e sai il mio progetto, io impedirò che quel giornalista non sparga ulteriori coglionerie in Italia con una ristampa e note. Tu avrai mezzo a Parigi per fargli intendere la ragione. Mi preme assai. Addio, caro Alessandro; amami e eredimi eternam[en]te il tuo e poi perfettamente tuo PIETRO.

L (29) A Pietro. Londra, 29 Gennaro 1767

Io sempre più mi trovo incerto del giorno della mia partenza. Aspetto l’occasione di un compagno. Ma, per dirla: chi sta bene non si muove. A Parigi bisognerà che mi lasci strascinare per collo da Morellet e da cento altri e mi annoierò sicuramente. Laddove in Londra io non ci posso star meglio; né la spesa sarà minore a Parigi, se fors’anco non sarà maggiore.

Sono stato l’altro ieri sera ad uno de’ tre teatri, ove rappresentavasi un’opera buffa in Inglese, nuova, che ha per titolo il Cymon. Essa consiste in una maga che s’innamora di Cimone, giovine sciocco ed insensibile a’ suoi vezzi, perciò la maga lo ripone in un delizioso giardino, dove ballano gli amori e v’è ogni sorta di voluttà, ma il buon Cimone dorme in mezzo di tutte queste delizie; non è però insensibile per un’altra bellissima villanella che anzi, ritrovatala dormiente, se ne innamora ed essa, svegliatasi, è egualmente colpita dalla fisonomia del giovine Cimone. Esso Cimone è perciò, come pure quella villanella, perseguitato dalla maga, la quale chiama in suo soccorso dall’inferno le Erinni vendicatrici, lo che forma un bellissimo ballo. Finalmente, dopo varie persecuzioni della maga, la villanella vien presa e da lei confinata in un castello fatato. Allora viene in campo il mago Merlino, protettore della innocenza, il quale prende le parti di questi due infelici amanti, e succede la più bella cosa ch’io abbia veduta sul teatro, cioè che il Castello fatato si cangia al momento in un superbissimo porticato come tutto di colonne trasparenti, sicché il teatro ha uno sfondo grandissimo e resta tutto imboscato di grandi colonne che lo fanno sembrare infinito. Non vi saprei esprimere la sorpresa che fa questa lucidissima, vastissima e magnifìcentissima scena dopo l’orrido e ’l buio di un Castello situato in una rocca di montagna. Comincia poi dal fondo del teatro una marcia di vari cavalieri vestiti alla antica, in numero di ben 50, ed in fine il teatro finisce per esser popolatissimo, e si compisce l’opera col venire Cimone e la sua cara villanella (che, mi ricordo, chiamasi Silvia) su un carro trionfale tirato dagli Amori. Quindi v’è l’ultimo ballo. Questa cara Silvia è una bellissima Inglesina che canta come un angiolo. Tutta l’opera è in musica, se non che usano, come i Francesi, di non cantare i recitativi ma di dirli senza melodia, come ogni altra parte di commedia. M’è sempre dispiacciuta questa usanza. Fa una cascata troppo grande il passare dalla declamazione ad un’aria.

I Teatri di Londra sono contrari precisamente di tutti gli altri teatri. I nostri e que’ di Francia sono fatti a ferro di cavallo; questi sono più larghi nella facciata opposta al palco, per modo che la massima larghezza è in faccia al palco e si stringe successivamente nella minima larghezza, ch’è in fine del palco istesso. Questa struttura fa contenere moltissime persone nella sala: perché, massimamente in faccia, vi sono due vastissime gallerie l’una sotto l’altra e fatte a gradini, come gli anfiteatri romani, acciocché il capo di uno non impedisca chi gli sta dietro di vedere; e queste due gallerie contengono moltissime persone. La voce poi de’ cantanti arriva da per tutto, perché non sono così immensi questi teatri come i nostri.

Ieri fui ad un pranzo inglese ad un caffè. Vi furono, al solito, infiniti brindisi e qualche mezzo ubbriaco, ma, in fondo, molta semplicità ed allegria. Vi sono delle contraddizioni nella mondezza inglese. Vi pongono superba tovaglia di finissimo lino damascato, vi danno buoni coperti d’argento, vi danno il punc, il the, il caffè in buone porcellane, vi cambiano infallantemente coperto ad ogni piattanza, ma primieramente non vi danno tovagliolo, e poi si beve tutti, sia birra sia vino, in un vaso comune. Quindi v’è in mezzo della tavola un gran vaso di massiccio argento, con due grandi manubri laterali per comodamente prenderlo, ed è riempito di buon vino di Portogallo o di vino con delle droghe e mischiato colla birra, lo che è squisitissima bevanda, e questo vaso passa dall’uno all’altro successivamente. Così pure il vaso di birra è benissimo d’argento finissimo, ma va dall’una all’altra bocca senza complimento. Pure usano generalmente di dar da lavare bocca e mani dopo pranzo. Al pranzo il numero de’ piatti è di tre o quattro e sovente anche di un solo, ma abbondantissimo pezzo di arrostito. Dopo tavola cominciano le bottiglie ed il ponc; si leva la tovaglia e si comincia la imbriacatura. Perciò è nato l’uso che le donne partano dopo tavola e lascino gli uomini celebrare da sé soli la qui seriissima fonzione d’imbriaccarsi. Cominciano adunque i brindisi agli assenti, ed al pranzo ch’io fui il primo fu fatto alla fica, senza cerimonia. V’era un Presidente del pranzo che destinava questi brindisi; si passa parola e si beve. Dopo molte bevi tu re ed un mondo di coglionerie insorse una disputa per mezza ghinea di spesa: subito tutti passarono dalla maggiore illarità alla maggiore serietà, e con libertà inglese si fece una specie di camera di comuni. Chi voleva parlare s’alzava in piedi ed intimava silenzio e si rivolgeva al Presidente; veniva interrotto da un altro che egualmente si alzava ed intimava silenzio, e tutto ciò con un vigore, con una libertà ed una serietà indicibile. E tale è il tuono della camera de’ comuni: ond’ecco sin dove vanno i costumi. Il Presidente non si alzava mai. Finì la disputa: e ritornarono alla primitiva giocondità. Questa compagnia è un Klob: così qui si chiama una scelta coteria di amici, e ve ne sono moltissime. Hanno le loro leggi e dei Presidenti per turnum. Fra le leggi di questo ove fui v’è che non si possa, dopo pranzo, prender caffè od altro che non sia vino che sortendo dalla tavola, e ciò perché questi imbarazzi non impediscano il corso della bottiglia, che suol farsi passare dall’uno all’altro.

Sono stato da Stern. È carissimo. Vi tornerò. Aspetto con impazienza tue lettere, le quali mi daranno alimento e me ne faranno scrivere di lunghissime. Ho positivamente bisogno di dialogo. Addio. Addio. Questo Marzo ti aspetto a Boffalora. Il tuo ALESSANDRO.

LI (30) A Pietro. Londra, 2 Febbraro 1767

Rispondo alla tua de’ 10 Gennaro prossimo passato, la decima quarta che mi hai scritto, e per mia e tua consolazione le ho tutte quante.

Seguirò nel risponderti l’ordine tuo. Primieramente io alzo da queste sponde terribili e felici le mie mani al cielo ed invoco tutte le sue benedizioni sul Sig.r Abate Castelli e tutte le maledizioni sui Milanesi. Invece di uomini come Lui, meritano dei Bernabò Visconti, dei Governatori spagnuoli, degli Olivera e de’ Caroelli e dei Conti Porroni. Sia maladetta questa razza di vipere, che non conosce il bene e sa far tutto il male, incapace di gratitudine, fanatica, ignorante: estinguerà alla fine tutt’i sensi di benefico Patriotismo. Inchina i carnefici della Patria e gli chiama Padri: tratterà forse da cattivo uomo l’illuminato e filantropo Segretario. Se, per lo più, i Milanesi non fossero un gregge di porchi, che si raduna, grugna e si urta al fischio di alcuno de’ suoi guardiani, sicché fa più compassione che sdegno, io farei subitamente rivivere l’antico sistema, ed il milanese vada pure come prima a comprare più piccola e più cattiva pagnotta. Ma io desidero che nessuno buon cittadino sia ributtato da così ingrata accoglienza. Bisogna persistere costantemente a far del bene ed in pochi anni sarà vinta la causa della verità. Risguardo questa riforma come di gran conseguenza. La mano d’opera dovrebbe divenir più buon mercato. Vedendo l’Abate Segretario, vi prego di significargli i miei voti alla sua immacolata virtù ed al benefico suo discernimento. Castelli vi vogliono: Castelli, inesorabili nemici dei lupi togati e delle volpi parruccate. Se mai io avrò la sorte di militare sotto queste insegne, debolmente, da tamborino, io darò, insieme di codesta legione d’illustri granatieri del pubblico bene, le mie gran sciabolate; e, se per esser nano non arrivarò alla testa di queste idre voracissime, arriverò però almeno alle gambe. Bisogna seguitare, non perder coraggio, e l’Oligarchia sarà presto distrutta. La crassa ignoranza del popolo milanese io non l’ho trovata in Francia; molto meno qui in Inghilterra. Non v’è paragone. I Milanesi sono scimiotti. Se si potesse in questa occasione stampare nelle gazzette pubbliche l’apologia delle benefiche riforme ed avere in ciò una menoma porzione dell’anglicana libertà, quanto presto non sarebbe il popolo rischiarato, e quanto presto non perderebbe la sua forza l’occulta cabala! Per questo un Inglese diventa dotto e politico senza avvedersene, né v’è pericolo che sia guidato da false apparenze di utilità.

Gran fenomeno di morale è la condotta di Beccaria. Che bogera sarebbe se la moglie lo avesse fatto correre le poste come un pazzo per porre il formaggio su i macheroni già cotti! Io non so dove diavolo abbia a finire questa facenda. Il pazzo è de’ più pericolosi e noiosi del mondo. Almeno il mio Sig.r Antonio, di felice memoria, mi divertiva. Io credo che o Beccaria ritornerà, con un colpo d’entusiasmo, alla amicizia, o che a poco a poco diventerà un becco fotuto. Nil medium, è la sua insegna. Ha troppa forza di testa e di passioni per esser mediocre. Ma, ripeto, gran fenomeno! Lo dico io, che l’ho sempre creduto appresso a poco quello ch’egli è. Ma che arrivasse poi a dimenticare il più entusiasta e divino amico a questo segno, io non lo credeva. lo credo che se la cosa va avanti egli sarà sicuramente alloggiato in culo di tutto il mondo. Lasciamolo là.

Frisi mi scrive di essere in grandissime angustie per non aver lettere né da casa sua né da te, a cui dice di aver scritto lo stato de’ suoi interessi. Vedo che tu mi annunci che di fatto hai ricevuta una sua patetica lettera. Amico caro, scrivigli, che n’è degno. Mi ha usate cento amicizie delle più cordiali e mi è attaccato quanto mai. Vedi da impegnare o far fondere la sua medaglia, perché si deve trovare allo stretto. Io gli ho già esebito il mio cofer-fort ed ha in mano de’ miei denari a sufficienza. Non v’è da temere che manchi di soccorso, attualmente: ma per sua quiete vedi un po’ perché i suoi fratelli non gli danno risposta, e rompi questo giaccio. Scusa la libertà. Fammi questo servizio.

Tu attribuisci l’entusiasmo ch’io ho per Londra alle private mie passioni. Credo che in parte abbi ragione: ma in fondo l’ho io. Tu supponi feroce il popolo di Londra, ed io ti dico che non è pulito né grazioso, ma è umano quanto forse non lo è nessun altro. Che importa che abbia il viso duro, che vi dia un urto, che vi dia delle pallolate di neve, s’egli odia il sangue e la superchieria? Rarissimi sono, in un milione d’uomini che stanno in questa infinita città, gli assassini e gli omicidi. L’Inglese rubba di buona grazia e sovente da coglione, quest’è il suo vizio; ma tradimenti, massacri, ferocie sono enormità ch’ei non conosce. Ciò è sicurissimo. Per pugni non dico. Questa lotta è permessa dalle leggi, e talvolta la si fa non tanto per rissa che per scommessa. Ultimamente un Carrettiere ha fatto a pugni con un Porteur ed un di loro è morto. Non è tanto difficile che un colpo nelle tempia o nello stomaco ammazzi; pure, questa battaglia è permessa dalle leggi, quando si tratta di scommessa; quand’è rissa, l’omicidio pugillare non è punito di morte, ma se l’aggressore è ingiusto avrebbe la pena dell’esiglio in America, per quanto mi pare d’aver inteso. Per tornare all’elogio del popolo inglese, dico ch’egli è troppo illuminato per esser brutale, né bisogna prendere per brutalità la sua franchezza e ’l sentimento che ha d’esser libero. Egli non fa tanti complimenti come i Francesi, ma non sa ingannare il forastiero, com’essi fanno superlativamente; egli non è così urbano, ma è più giusto: egli dà de’ pugni, il francese ammazza; ed a buon conto questo è infallibile, che il sangue fa orrore ad ogni Inglese e che non soffrirebbe che un gigante facesse la menoma superchieria ad un nano. Se uno tirasse la spada od un coltello contro di un altro ch’è disarmato quel tale potrebbe contare di essere strangolato dal popolo al momento; ché se tutti due si levano l’abito e si pongono od alle bastonate od a’ pugni od a qualunque arma eguale e non sanguinaria, il popolo fa cerchio, sta cheto e non è pronto che a difendere l’uno che dall’altro sia superchiato. Se cade in terra e l’altro seguitasse a percuoterlo starebbe fresco. I ladri istessi di strada sono la più brava gente del mondo. Non si ha memoria che uccidessero. Vengono a cavallo a rotta di collo, vi pongono una pistolla montata al corpo, la quale è talvolta vuota, voi loro date tre o quattro ghinee, vi ringraziano e se ne vanno. Se avete con voi donne che si spaventano, li pregate a non intimorirle con minaccie ed essi subitamente si addolciscono. È una elemosina sforzosa non altro; eppure se sono presi sono appiccati, e per un funesto ma giusto raziocinio dovrebbero uccidere, perché rederebbero più difficile il convincergli del delitto, né la pena sarebbe maggiore. Il di più in tal caso sarebbe di esser consegnato il corpo a’ Chirurghi per l’anotomia, lo che non è grande incomodo. Le puttane istesse, del qual genere abbonda moltissimo Londra non fanno mai una bricconata. Dopo di ciò ditemi se qualche rustichezza del popolo inglese non sia perdonabile. Quanto poi alla inospitalità, ella risguarda i Signori piuttosto che il popolo, il quale non è in istato di esercitarla. E questa è verissima, perché i Signori sono sempre fuori di casa per i forastieri. Pur fra di essi se ne contano moltissimi insigni per somme beneficenze e per la protezione delle belle arti. In questi freddi che qui ebbimo ultimamente, le gazzette erano sempre piene di cospicue elemosine fatte ai poveri, e non tanto per alti motivi, quanto per terreni, perché quelli sono poco profondi ne’ cuori anglicani, generalmente. I Mercanti, ancora, sono infinitamente di più buona fede che a Parigi. Non v’è paragone. Quanto poi ai divertimenti tanto vantati di Parigi, essi si riducono a tre teatri, ad un passeggio nelle Tuilleries e sul Boullevard: in Londra vi sono parimenti tre teatri; il Mercoledì un concerto, il Giovedì un ballo ad una magnifica Sala di una Italiana, la Sig.a Pompeiati; una volta la settimana, in un’altra Sala detta d’Halmac, assemblea e ballo; il giovedì un concerto del Sig.r Giardini, sommo violonista; un altro concerto, detto di Hay, nella Sala di Hiskfort, il venerdì; poi, finito il freddo, verranno le delizie del Faksal, pubblico giardino ove alla sera v’è musica, cene, illuminazione stupendissima; poi le grandi feste d’un altro gran Salone, detto il Renelà. Vedete se si manca di divertimento.

Vengo al capo principale della tua cara lettera. Che vuoi ch’io ti dica? Mi agisce fortemente sull’amor proprio il confronto che tu mi fai della condotta di Beccaria alla mia: questa ragione è quella che mi fa più impressione. Vorrei prolongare il mio viaggio a questo fine. La vendetta è dolcissima. Amico, la proposizione mi seduce positivamente e vi entro con rimorso di esserti troppo grave. Io non voglio toccare il punto della mia gratitudine. Tu mi conosci. In verità, quando vi penso mi pare di essere oppresso dai tuoi benefici. Io adunque, poiché a dirtela desiderarei io stesso di fare il viaggio che mi proponi per abbracciare il caro Longo, ti farò la confessione generale delle spese, perché vedi in che mare entriamo. Sono partito da Milano con 180 Luigi in cambiali e 26 nella borsa: fanno in tutto Luigi 206. 13 Luigi m’è costato il viaggio a Parigi, 12 quello di Londra; 14 Luigi il comprarmi calze e manichetti e qualche piccola riforma degli abiti; 3 Luigi e poco più il vestirrni alla Inglese qui a Londra; dettrate queste spese singolari, io trovo che in 42 giorni che fui a Parigi ho speso per il mio mantenimento, compresi tutti i divertimenti, Luigi 38, e in 56 giorni ch’io sono a Londra ho spesa la stessa somma di Luigi 38: ecco perché mi san fermato lungamente. A Parigi ho speso di più benché avessi un compagno che divideva le spese dell’alloggio, del Servitore e della carrozza. Essendo solo spenderei forse anche più. Il vortice in cui mi ha posto il nome di Beccaria non mi ha permesso di vivere mercantilmente. Eravamo nel fiore del mondo, bisogna[va] necessariamente prendere carrozza di remise e vivere in somma come forastieri brillanti. I Fiacher sono villanissime carrozze e sporchissime. Non può servirsene che chi fa vita mercantile. Oltrecché talvolta ne’ tempi più cattivi non se ne trovano perché sono impegnati. E poi, in fine, andando anche in Fiacher solo, spenderei tanto come ad andare in carrozza di remise accompagnato. Adunque, a conti fatti, a Parigi bisogna starvi poco. Non sono incognito da potervi vivere parcamente. A conti fatti io mi trovo attualmente con 74 Luigi in tutto; 18 ne ho meco, 50 ne ho a Parigi in mano di Frisio, 6 ne ho di credito per commissioni che porto a Parigi, che mi saranno sicuramente pagati. Ecco il mio avere. Sicuramente in Italia spenderò infinitamente meno: massime con Lungo. Ciò è sicurissimo. Ma ecco i conti ch’io faccio. Bisogna ch’io parta presto da qui e poi anche presto da Parigi, per portarmi a Roma prima de’ gran caldi e prima che ulteriormente si scemi l’errario. Se posso partirò con un compagno fra pochi giorni per Parigi. Vorrei tutt’al più esservi per la metà del mese presente; ecco allora 20 Luigi spesi per il viaggio e per queste due settimane: ne rimangono 54. Con quattordici Luigi io spererei di stare a Parigi comodamente 3 settimane, vivendo al mio modo economo ed instruttivo: ecco rimangono 40 Luigi. Con questi vado a Lione, di là a Roma col corriere, ed a conti fatti non vi arrivo a meno di 20 Luigi. Sono adunque a’ piedi di Sua Santità con 20 Luigi. Tutto questo conto non è molto largo e piuttosto credo di sbagliare nel poco che nel troppo. I venti ungari al mese non mi sembrano bastare, da quello che vedi. È ben vero che unito a Lungo è incredibile qual sia per essere la nostra economia; ed in Italia bisogna fare tutt’altri conti che in Francia ed in Inghilterra. Quando vedo che sono vissuto in Londra a 20 Luigi al mese mi stupisco, perché in vero pochi lo possono fare. Con 20 Luigi, ossia Ghinee, io non faccio che mangiare, abitare ed avere un servitore. Non conterò gli afrodisiachi: non montano, dalla mia partenza da Milano finora, a 8 Luigi. Qui in Londra vado raramente al Teatro; sto vestito in frak e non faccio che le necessarie spese. Ho stimato economia il fermarmi qui perché vedevo che spendevo meno che a Parigi. A conti fatti io tornava a Milano alla fine di Marzo, cioè del semestre, senz’altra soccorso di danaro; ma ora bisogna fare tutt’altri conti: bisogna abbandonare Londra e la Francia subito e non perder tempo, e piuttosto fermarsi o in Roma o in qualche città della Toscana dove si viva con poco. Mi preme anche una certa lunghezza di assenza per le ragioni che tu mi adduci. Io credo adunque che potrei prolongarla tutt’al più di altri quattro mesi, cioè sino alla fin di Maggio; credo che 20 ungheri mi basterebbero, unito a Longo, ma vi sono i viaggi, e ’l solo da Roma a Napoli importerà una mesata. Per parlare freddamente in questa materia, nella quale mi sento tutto fuoco di riconoscenza, ti dirò che mi sentirei troppo il cuore stretto dal non avere che il preciso necessario, e che sarebbe meglio fare una sola cambiale di 100 Zecchini, per questa ragione, che s’essi son troppi si restituiscono al mio ritorno o si mettono a parte, ma se sono pochi si trova in angustie orribili, massime per viaggio, e credi pure che tra me e Longo poco basterà. Lo vedo chiaro, ma non ho coraggio di viaggiare che al largo: non per i comodi, che sono piuttosto stoico, ma per la quiete de’ casi possibili. lo mi sento positivamente rimorso di scriverti con questa franchezza e, sia una certa delicatezza che non saprai condannare, sia altro, provo una specie d’imbarazzo a parlarti di danaro. Ma ti ho voluto parlar chiaro, e ti dirò per epilogo che il viaggio propostomi mi piace assai, massimamente per l’umiliazione di Beccaria; che ti sono, non saprei dir quanto, grato di questa proposizione, e che, quanto alla esecuzione del progetto, ti ho dette le mie circostanze e la mia esperienza.

P. S. A buon conto fammi sapere subito la adresse di Longo, il sito del suo alloggio, perché smonterei da Lui. Vado pensando che se non potrò allongare il mio soggiorno a Napoli, a Roma ed a Venezia in tutto più di due mesi e mezzo non importerebbe: se le spese sono forti, si va più velocemente da un luogo all’altro. Lo desidero vivamente, questo viaggio, e non te lo dissimulo. Ma vedi a che ti metti.

Per le mie commissioni intorno al sistema de’ Grani, farò le diligenze. In tanto prendi anche tu una commissione mercantile. Se puoi trovare edizioni di libri latini, greci, italiani del 1400 e principalmente quelle del principio della invenzione della stampa fino al 1480; edizioni ancora degli Aldi, del Valgrisi di Venezia, de’ Giunti di Firenze, de’ Maximis di Roma, degli Stampatori di Magonza, degli Elzevir di Olanda, dei Stefani di Parigi: tutte queste edizioni, se i libri non abbiano macchie o tarlo o margine [in]sufficiente, si possono spacciare con gran profitto qui in Londra, ove sono ricercatissime. Sono già d’accordo col mio ospite Molini, che ha bottega di libri, su quest’articolo. Adunque previeni Lambertenghi, se mai avesse da vendere, che mi riservi questa sorta di libri; e così, capitandotene, comprali senz’altro, purché sieno ben condizionati, che sono argento rotto per Londra. Volendo si può guadagnarvi una discreta provisione. Sarebbe molto giusto di farlo, tanto per l’anticipazione del danaro quanto perché anche il Molini, all’occasione, non farebbe le mie commissioni senza la sua provisione. Porterò una lista dettagliata de’ libri che sono di spaccio qui: per ora mi basta di avertene prevenuto generalmente. Così, se mai ti si presentano tai libri, poco stimati dalla nostra letteratura, potrai regolarti. Particolarmente però tre libri si desiderano, e sono: il Boccaccio del 1527; Macchine del Ramelli; Palladio del Carampello. Potresti forse far qualche diligenza anche presso Aubert. Trovando tai libri, bisognerebbe darmene notizia col prezzo, perché allora lo farei sapere, ovunque fossi, al Molini, non volendo io mandargli robba prima ch’ei approvi che gliela mandi, per non avere dispute dopo il fatto. In ogni caso, se i Libri hanno queste tre qualità, che non sieno macchiati, non tarlati e che abbiano buon margine, si possono provedere a colpo sicuro.

Bacia le belle mani alla Sig.a Zietta e testimoniale i miei sentimenti di cordiale nipotismo, di tutt’altra specie che quello di Sua Santità. Il caro Carli lo abbraccio teneramente. Salutate la Marchesa e Marchese Beccaria stimatissimi; l’amico vecchio del Luisino delicatissima anima; il Corti amicissimo; il caro alunno della Filosofia, il Cavaliere; e per fine, trema e palpita, saluterai la Isimbaldi, la di cui dolce memoria io non rammento senza una riverente tenerezza. Gran bell’anima, e gran bell’alloggio ch’ella ha! Ti condanno adunque ad esser ministro di questo mio sentimento. Ma tu mi fai girare il mondo, bogerato che sei, ed intanto ti passi dolcissime serate con quell’anima cara. Ti ringrazio dell’uno e ti desidero l’altro.

L’Abate torna filosofo, come lo era una volta e cogli stessi mezzi: che pazzo curioso! A rivederci quando avrà a dir messa. Ma, per Dio Santissimo, se non se lo taglia avrà sempre a luttare la sua testa co’ suoi testicoli, quantunque a un di presso l’una vaglia gli altri.

Lo Scannabue si vede pochissimo al Caffè d’Oranges, ch’egli suol frequentare, e si crede che stia lavorando a un Dizionario Italiano, Inglese, Francese. Qui è creduto un Birbante insigne.

Il Sig.r Antoniotto ho saputo che è morto appena sbarcato a Douvre. Il tuo ALESSANDRO.

LII (22) Al Fratello. [Milano,] 2 I Febb[rai]o 1767

Avrai veduto su i fogli pubblici annunziato il Terremoto di Genova, accaduto la mattina del giorno 7 dell’andante; sebbene non vi siano periti che due fanciulli, pure la costernazione è stata generale nella Città, si sono aboliti tutt’i spettacoli profani ed aperti tutt’i sacri; si crede che per poco che avesse durato Genova non v’era più. Quello che v’è di strano si è che in Milano questo fenomeno non è stato sensibile che a due o tre per azardo. Il popolo di Genova non ha mancato d’inventare alcuni racconti superstiziosi anche in questa occasione: più sono grandi gli argomenti perché l’uomo si creda piccolo, e più cresce in presunzione e vuol credersi importante. Vi sono delle apparenze che fanno temere non destituita affatto di fondamento la novella sparsa sui fogli d’Inghilterra sui pericoli di guerra in Italia, e questa rivoluzione politica pare voglia avere il suo fuoco giusto vicino a Genova, cioè per la piccola Città di S. Remo, che l’Imperatore finalmente, dopo lunghe istanze e repliche, ha dichiarata independente da’ Genovesi e sotto l’immediata tutela dell’Impero. La Francia, protettrice di Genova, pare che non voglia acconsentirvi; la dignità d’un rescritto cesareo non permette di lasciarlo ineseguito; è venuto spedito al Maresciallo Serbelloni, giorni sono, il Capitano Barzena dalla Corte in 5 giorni con una lettera; nessuno ne ha penetrato il mistero; v’è da sospettare di qualche torbido forse fomentato dal politico usciere delle Alpi, al quale non è mai potuta piacere l’alleanza fra le due case d’Austria e di Bourbon. Si vuole che la Francia abbia delle truppe in Provenza e che comperi de’ grani a Genova. Queste sono le nuove vaghe e dubbie che ora corrono.

Vengo alle nuove milanesi. Gorini è risanato e ne ho molto piacere. Lambertenghi, mosso dal suo cuore, è stato l’altro ieri a visitare Beccaria: due ore è durato il suo congresso, finalmente lo ha fatto parlare. Che credi tu che sia il risultato di questo discorso? Accuse tronche, reticenze, esclamazioni, lagrime agli occhi, sospiri, declamazioni, nessuna prova e l’asserzione di queste due belle tesi che ci risguardano noi due. Prima: ch’io sono un carattere falso, finto, che non ha avuta amicizia per lui, ch’egli è illuminato da non poterne più dubitare e per conseguenza tranquillissimo sul suo giudizio. Seconda, che tu sei un ragazzo senza sentimenti, senza cuore, senza carattere, del quale nemmeno vale la spesa di parlarne. Tutto ciò, accaduto testa a testa e con parola di Luisino di non parlarne, non mi dà adito a terminare la scena come son risoluto di fare tosto ch’io possa saperla. Di più, Beccaria ultroneamente giorni sono ha abordato sua madre per prevenirla contro di me, assicurandola che la mia frequenza coll’Isimbardi le avrebbe fatto sommo torto, poiché le mie passioni sono molte e non conosci bili facilmente. Nemmeno di ciò posso farne uso, perché diverrei lo stromento d’una tracasseria domestica. Io so che Beccaria ha avuta una lunga conversazione con Secchi e che pareva che Secchi entrasse a parte de’ suoi sentimenti. Ciò non pare strano a me, che non ho mai creduto Secchi né sensibile, né amico mio, né conoscitore di nessun genere di merito, ma testa e cuore leggerissimi, che sfiorano la superficie, sorridono e vanno avanti. In questo stato dunque di cose io ho passata ieri tutta la mattina con Luisino: egli era nella terribile alternativa di credere un cattivo carattere o in Beccaria o in me: ho voluto che ne uscisse. Gli ho mostrata tutta la serie delle lettere di Beccaria, tue e mie, che risguardano questa vergognosissima epoca, tu sai che basta vederla per toccar con mano da qual parte sia la sensibilità, la ragionevolezza, la discrezione e l’amicizia. L’anima di Luisino è stata perfettamente illuminata ed accesa dalle conseguenze che devono nascerne. Luisino vuole abordare di nuovo il nostro ingratissimo e vilissimo calunniatore; gli dirà che io, informato de’ discorsi che sul mio conto tiene sua moglie e persino le sue cameriere, vedendolo allontanato per attaccarsi alla moglie ho creduto ch’egli abbia addottati i di lei sentimenti, che perciò mi trovo autorizato a mostrare ad un amico intimo quale Luisino il dissotto di questo affare, acciò conosca una verità che non m’è lecito di tenere nascosta ulteriormente; che perciò io gli ho mostrato tutto il carteggio seguìto dalla sua partenza sino al ritorno; che da questi documenti egli ha conosciuto demostrativamente in noi due fratelli una costanza d’amicizia, di benevolenza e di virtù che lo convince a priori dell’inganno di lui ne’ suoi giudizi. Che o dunque gli provi con fatti chiari ed espressi le asserzioni che ci fa, ovvero lo sciolga dal legame del silenzio, poiché egli, che è nostro amico, non può lasciare d’istruirci altrimenti d’una cosa la quale ci offende tanto intimamente. Vedremo il risultato; se io posso sapere queste indegnità senza che sia compromesso l’onore d’un amico, io ti prometto che quanto prima ti scrivo d’aver fatta passeggiare sulla piazza del Duomo la filosofia a piedi nel culo. La mia frase è poco decente, lo so; ma posso io essere misurato, nel momento in cui mi cade questo terribilissimo velo dagli occhi; nel momento in cui tocco con mano che un uomo originalmente da nulla, senza credito, senza comodi, senza i bisogni fisici, senza opinione, senza nome, senza gloria, a forza d’una entusiasta amicizia coperto ne’ suoi vizi e ne’ suoi difetti, rilevato e rialzato da me nelle sue buone qualità, dopo avere avuto per opera mia la riconciliazione co’ suoi parenti, l’asilo nella casa paterna da cui era esigliato, i comodi della vita che gli mancavano, il concetto della sua patria, la celebrità d’un nome interamente sollecitata, progettata ed ottenuta dal calore della mia amicizia; dopo che ogni bene di cui gode gli deve far risovvenire di me, o direttamente o indirettamente, e vedo che con una vergognosa ingratitudine calunnia il mio cuore con generali dicerie, e con perfida reticenza non sa addurne alcuna prova? L’onestà di Beccaria non si può salvare in nessun verso, se non colla cavata di sangue e co’ Bagni; s’ei non è pazzo è un briccone de’ più grandi. T’assicuro ch’io mi sveglio come da un sogno e mi stupisco d’aver potuto sognare per tanto tempo. Beccaria è l’uomo il più duro e disumano co’ servitori, egli sceglie tutte le occasioni per insultare i deboli, testimonio quel povero storpiato che vende le galanterie in Teatro e il povero Padella del Caffè de’ Borsinari, i quali sono i due soli co’ quali egli ha dato in trasporti di collera. Beccaria non sa fare un passo fralle tenebre. Dimmi un uomo solo beneficato da lui; dimmi un amico solo a cui egli abbia tolto un quarto d’ora di dolore o d’afflizione; dimmi un tratto solo che provi la nobiltà o la beneficenza del suo cuore. Non lo trovi, per Dio. L’anima sua è vile, abietta; la invidia, la gelosia sono le sue passioni, tanto più colpevoli e raffinate quanto che ha l’arte di coprirle con una apparente bonomia. Egli in ciò è diverso dalle anime sue consorelle, cioè che ha l’arte d’eccitarsi de’ sentimenti fattizi, e con una vivace immaginazione scrive come avesse realmente la virtù e la beneficenza nel cuore; ma tanto sono estranee queste qualità a lui che dopo avere scritto una mezz’ora deve tralasciare; abbattuto dallo sforzo e dalla febbre d’anima, ricade colla sua fìbbra infloscita nel suo naturale livello. Io so che uno de’ tuoi piaceri più deliziosi si è il fare elemosina ai poveri; io so che la vista dei miseri ti eccita una sì forte emozione che ti sdegni contro chi sospetti fingerne le apparenze per abusare del tuo sentimento; io so che, avvocato de’ rei, tu gli hai difesi ed assistiti come tuoi amici e che, tu che potevi disporre di me, non hai sollecitato verun impiego che per un miserabile padre di cui avevi senza successo difeso il figlio; so che un amico afflitto è un oggetto d’inquietudine per te, che attualmente tu mi solleciti a favore di Frisi, di cui le strettezze ti fanno pena; che un minimo male di capo ch’io abbia tu t’impieghi per liberarmene; so che se un tuo amico è attaccato tu lo difendi, e così hai combattuto meco per Beccaria contro Facchinei; so che i tuoi discorsi e le tue lettere non portano mai la desolazione, il fiele o l’avvilimento nel cuore de’ tuoi amici; so che io ho dovuto combattere con te per farti ricevere i denari del viaggio e che la tua discrezione e parsimonia non hanno esempi: questo io so di te, che Beccaria vuol dipingere come uomo senza carattere. Io t’assicuro che sono ferito nel cuore da questi tratti e che freddamente guardo quell’uomo come un vile immerso nella putredine; egli, per quello ch’io so, non ha ricevuta nessuna risposta alle sue lettere di Parigi; conviene che sia veramente finito l’entusiasmo, come te lo scrisse Frisi, e lo merita: lasciamolo rientrare nel fango che si meritano il suo cuore e i suoi bassissimi sentimenti; io non gli desidero alcun male, ma desidero ch’egli non sia mai più in caso d’avere per sé i suffragi d’Europa che tengo in mano, come mi scrisse forse un po’ enfaticamente, e che non sia mai più in situazione di formare il progetto di opprimermi colla gloria che gli ho proccurata io. Questo tumore in qualche guisa deve scoppiare; io non lascerò certamente ch’egli attacchi il mio carattere dopo avere tanto attaccata e la mia tranquillità e il mio amor proprio, che ho avuto la virtù di sacrificare al suo. Dopo ch’egli ha potuto vedere languire e morir miserabile il gobbo Calchi, suo creditore di cinque mila lire e suo benefattore nel tempo delle angustie, io non mi aspetto verun rimorso dal suo cuore; l’unico sentimento a cui so che è molto accessibile è il timore, e per questa strada anderò a lui; scene cercherò che non accadino in faccia del pubblico, vedo che io ci perderei, ma vi sarà modo di parlargli da solo a solo in buon Italiano: fidati di me. Io ho voluto aprirmi con te perché quest’affare risguarda anche te stesso, perché non ho secreti col mio Alessandro, perché tu comunichi tutto ciò a Frisi, perché tu faccia la causa della virtù e della ragione come e quando ti parrà che convenga.

Ho ricevute le tue care lettere dei 29 Gennaro e 2 del corr[ent]e: la descrizione del dramma di Cymon è bella assai e potrebbe servire anche sui nostri Teatri d’un felice soggetto, ma vi vuole spesa, e questo è un ostacolo invincibile. La descrizione del pranzo fatto al Caffè è interessante, vedo che nell’Inghilterra leggi e costumi sono paralleli, anzi cospiranti all’istesso fine; da ciò mi pare che se ne possa dedurre la durevolezza del sistema: alcuni pochi e parziali cambiamenti il tempo li fa dappertutto, ma il nessuno spirito d’imitazione per gli usi forestieri, la ragionevolezza de’ propri, la filosofia distribuita persino sulla plebe per quella porzione che ne può ricevere, la forza d’animo naturale, l’amor delle leggi e simili princìpi radicati e universali, pare che promettino l’eternità a questa forma di costituzione; l’Inghilterra non ha bisogno né soffre, per contenersi nell’interno, altra forza che quella della opinione, e per difendersi al di fuori ha la forza marittima, la quale non è terribile per l’interno. Gli altri Stati devono avere milizie grandi per essere rispettati al di fuori, e milizie grandi possono stabilire, quando lo vogliano, la tirrania domestica; qui v’è una felice eccezzione alla regola; l’Inghilterra, senza far conto del militare, colla sua marina comanda alle altre potenze; la forza terribile dell’Inghilterra non può rivolgersi che contro i forestieri: a meno che una conquista non distrugga e frammischi la razza di questi uomini, il dispotismo non vi può comparire mai più che per minimi intervalli. Non v’è da temere un dispotico interno in un paese dove ogni fanatismo religioso è tolto; se il fato dell’Inghilterra ha da distruggere questa bella organizazione sarà per una innondazione di una nazione straniera; a ciò pure conducono le vicende del capriccio popolare, le quali allontanano gli uomini di merito dal servire la Patria. Un Cromwell ed un Arrigo VIII sarebbero ridicoli e non terribili a questa nazione. Io ti scrivo forse delle pazzie, ma ti dico cosa io credo.

In quest’ordinario io pensavo di trasmetterti cento gigliati con lettera di cambio a Parigi; il contante effettivo è già nel mio scrigno, ma il cambio perde il cinque per cento a Parigi, dunque io sospendo a spedirteli sino a tua risposta. Dai conti che mi hai scritti tu non puoi essere in angustie a Parigi e puoi partire per l’Italia senz’altro aiuto. Se l’esperienza e i casi non preveduti si piegano al tuo conto, sarà meglio che la stessa somma te la faccia pagare in Livorno, dove appena l’uno per cento si perde; scrivimi dunque come te la debba far avere: se il bisogno è attuale, vi vorrà pazienza a sacrificare questi cinque zecchini e te li trasmetto, tutti i cento gigliati, a Parigi; se poi li vuoi in Toscana o altra Città d’Italia scrivimelo, che frattanto io li conservo intatti, come roba che è già tua. Con questa intelligenza io non ti spedirò l’altra piccola cambiale del mese, poiché è meglio non trasmetterti queste piccole somme separate e darti più essenziali soccorsi per volta, acciocché tu stia col tuo cuore largo, il che mi preme assai; ricordati di prevenirmi sempre anticipatamente e con libertà, se io potessi prevedere o sospettare la menoma inquietudine nelle tue circostanze sarei troppo ammareggiato e mi convertiresti in veleno il piacere che ho di questo tuo viaggio. Dunque scrivimi dove vuoi ricevere i cento zecchini che ho, e scrivimi dopo ingenuamente se ti occorrerà ulterior bisogno. Aspetto il piano del tuo viaggio d’Italia; dall’ultima tua pare che non ti curi di Livorno come vorrei: la tua Storia merita la tua presenza almeno per vederla incamminata, ed Aubert nella quaresima t’aspetta per cominciare. Da Marsiglia a Livorno, ovvero a Genova, sarebbe la strada meno dispendiosa e più naturale. Pure, esamina tu e risolvi.

Don Antonio di Casa Somaglia mi ha già data una lista di Libri di vecchie Stampe co’ loro prezzi: te la trasmetterò, vedrai se convenga. Io ho voglia sempre di scriverti molto e sempre ho delle seccature che non me lo permettono; tu, che sai il mio naturale, conoscerai l’amicizia che ho per te dal tempo che cerco d’impiegare ne’ dolci dialoghi del nostro commercio. Ti assicuro che il momento in cui mi si portano le tue care lettere è una delizia per il mio cuore; non so per qual ragione sempre ne ricevo due alla volta dalla parte di Ginevra. Ora sono impaziente di saper ti di ritorno a Parigi: mi piacerà d’avere nuove più recenti del mio caro Alessandro e d’avere meno intervallo fra noi due. Addio, caro, non ho più tempo, ama che sarai eternam[en]te amato dal tuo Pietro, che ti desidera tutt’i beni. Addio.

P. S. Ricevo, prima di chiudere questa lettera, l’esenzione del Collegio di lire 132, soldi 16, denari 6, che ti trasmetterò colla prima cambiale, unitam[en]te ai gigliati 100, per dove m’indicherai. Dall’avere nostro Padre a me diretto il Bidello argomento ch’egli non sia più del parere di aiutarti a Parigi, come s’era lasciato intendere. Meglio. Così v’è una ragione di più perché paghi il tuo viaggio a Vienna, per cui aspetto il riscontro. Addio. PIETRO.

LIII (31) A Pietro. Londra, 6 Febbraro 1767

Questa credo che sia l’ultima che ti scrivo da qui; almeno sarà certamente la penultima. Faccio conto di partire per Parigi il giorno 10. Di là con Frisio partirò per l’Italia al principio di Marzo: così poco mi fermerò nel per me divenuto noiosissimo Parigi. Sono d’opinione di andare a Lione e di là col corriere tutto in un colpo a Roma.

Ti faccio un progetto. Codesta Ferma non ha buoni tabacchi. I Corrispondenti la servono male. Io suggerisco di provedersene qui in Londra, come l’emporio delle Americhe e del mondo tutto, e come fanno quasi tutti i paesi d’Italia, Napoli, Torino, Genova ecc. Mi riservo in altra mia a darti più distinta notizia di questo affare, coi prezzi e tutto quanto fa bisogno ad un ben smassato progetto. Per ora ti prevengo che insieme delle merci già enunciate riceverai le mostre de’ differenti tabacchi coi loro prezzi. Tutto ciò sarà indirizzato da questo Sig.r Baumgartener a Genova al Sig.r Francesco Valentino Rossi, il quale ne disporrà come gli ordinerete. Così ho io fatto perché, trattandosi di tabacco, quantunque sieno semplici mostre, prendiate le vostre misure. Questo è un colpo da tentarsi. O cadesti Impresari cercano in buona fede tabacchi buoni, e qui li troveranno infallibilmente, o v’è della dissimulazione, e si scoprirà con questo progetto. Io ti darò ottimo corrispondente, dettaglio de’ prezzi e delle qualità che soglionsi spedire in Italia: per fine ti mando le mostre. Così non mancherà niente al compimento del progetto.

Io me la passo assai bene: e la posta non mi lascia tempo che di abbracciarti cogli amici. ALESSANDRO.

LIV (32) A Pietro. Londra, 10 Febbraro 1767

Questo è l’ultimo giorno che sto a Londra. Alle cinque dopo mezzanotte parto per Douvre, solo soletto al mio solito, in una delle molte ed ottime diligenze che da qui partono tutt’i giorni. Arriverò alla buonissima osteria di Douvre alla sera verso le sette, cosicché si fanno in un giorno 72 buone miglia al prezzo di 10 Schellini, che sono venti paoli. Può egli essere più buon mercato? V’è poi il baullo, che costerà forse altri 10 Schellini. Dopo poche ore che sarò arrivato partirà il Paquebot delle lettere: m’imbarco così, per le misure che ho prese, subitamente; e presto sono a Calais dove, trovando un compagno, verrò per le Poste a Parigi; altrimenti vado colla Diligenza per Dunkerke e per Lilla, come sono venuto. Tutto ciò va benissimo, e nel viaggiare, checché ne dicano i pedanti viaggiatori, la fatica è de’ cavalli che strascinano: ma, per Dio, chi si fa strascinare non ha poi a lodarsi molto di questa bella impresa.

Ho tre tue lettere a cui rispondere, e sono la 15a, 16a e 17a. Le ultime due le ho ricevute ieri, e divorate; l’altra l’ho ricevuta appena che avea spedita l’ultima posta. Ricevo, acclusa alla 16a lettera in data de’ 20 Gennaro, la tua cambiale. Te ne sono obbligatissimo: e su di ciò ti ho già scritto. Mi dici che il caro genitore mi voglia mandar danaro: siena i ben venuti, non farò cerimonie; le tue ragioni mi persuadono, anzi, a Parigi gli voglio scrivere un immenso letterone ripetendo molto di quanto t’ho già scritto. Adesso che so che le mie lettere girano per tante mani, bado a quello che scrivo. È cosa seria l’opinione che fanno nascere di me. Godo assaissimo che ciò succeda: anche in questo mi si apre un campo di mortificar Beccaria, al quale scopo io ora rivolgo tutti i miei pensieri. Perciò io salto con le mani e con i piedi nel progetto di andare a Roma e mi ci presto come una monaca farebbe ad una fotitura. Bisogna farla questa gita. Bisogna ritornare pieno di diritti di pisciare addosso a quel perfidissimo buffone, ch’io ho veduto caccare ne’ calzoni, ch’io ho veduto pazzo, ch’io ho veduto piangermi adosso cento volte come un ragazzo e che ora, col suo bestiale contegno, mi sdegna a segno che desidero niente più quanto d’avere le gambe lunghe mille miglia per dargli da qui un grandissimo calcio nel culo. È affare finito. Quello è il massimo de’ becchi fotuti perché, essendolo moltissimo, ha tutta l’apparenza del monarca degli onesti uomini. Ma se ne deve pentire assai assai, il coglione. L’imbecillità è troppo altamente radicata nel suo carattere per non provare fra poco qualche momento di debolezza, e ritornare alla amicizia. Allora vi vuole un grandissimo urtone e cacciarlo al suo diavolo. La mia virtù è odiare ed amare, e so far bene tutte due queste cose: e credo un mio dovere di abbassare l’infame orgoglio di Beccaria per tutte quelle vie che giudiziosamente mi condurranno a questo fine. Frisi mi scrive sempre più la conferma della decadenza del nome di Beccaria a Parigi; mi scrive essere escita una piena confutazione del suo libro fatta da un Avvocato del Parlamento di gran stima, e che fa impressione nel pubblico, e mi dice che vedrò al mio ritorno in che stato è locata.

Quanto al progetto di entrare in figura di volontario nel Collegio Fiscale, io ringrazierò mio Padre di questa idea e ti dico che quando Pecci istesso, senza equivoci, se ne mostri contento e premuroso, non vi ho difficoltà; ma per poco ch’ei sia freddo ve ne ho moltissima: perché non sono bastevolmente modesto per far la figura di semplice lavorante di Bottega, ma almeno voglio far quella di primo lavorante e quasi Socio. Se Pecci ha la bontà d’ammettermi nel suo studio, niente mi potrà compensare quest’affitto del mio cerebro liberissimo che una certa fratellanza da tavolino e niente di superiorità o di aria di lavoro mecanico, e perciò tutto dipende dal vedere come la prenda Pecci. Io sono sicuro che saremo in poco tempo fratelli e che, per Dio, non mi, troverà un coglione, ma appunto perché non sono tale non mi sottoscrivo a niente di servile e subordinato: dei coglioni che fanno lo scuolaretto se ne trovano, ma chi ha un giusto e nobil sentimento delle sue forze è in istato di servir bene, ma vuole vari riguardi, che l’uomo delicato e giusto sa conoscere. Pecci sa tutte queste cose perché è un uomo di vero merito. Pure talvolta potrebbe avere altre idee. Io mi decido adunque secondo che esso Pecci mostri freddezza o premura su quest’affare. Vengo ad altro.

Oggi per la prima volta sento dalle care tue lettere il desiderio che hai delle carte buffone inglesi, ed io, con capellaccio, bastonaccio e pastranaccio te le ho subito provedute e te le manderò per Frisio. Ho preso il Mariage alla moda. Sono sei carte. Così varie altre che ti piaceranno infallibilmente. Non costano moltissimo. Il Mariage à la mode, tutte le sei carte, non vagliono più di 8 Schellini. Così in proporzione le altre. Ti ho preso anco la raccolta delle leggi commerciali e spezialmente de’ fallimenti, estratta dagli atti del parlamento. È un libro in grosso 8°. Quanto alle leggi di Pen per la Filadelfia, sono. così rari gli esemplari che non è possibile averli. Quanto a quelle di Loke per l’America, tutto il mondo mi dice che non esistono. Quanto ai grani raccolta di Leggi non v’ è, e per l’esportazione annua non l’ho potuta avere, malgrado molte diligenze per ogni parte, e, se osserverete nella Storia del Commercio della Gran Brettagna tradotta dal Genovesi, che voi avete, vi troverete le sicure notizie in quest’affare. Io non potrei servirvi meglio. Si è rimarcato che il grano da vari anni va scemando di prezzo e che in quelle annate che più ne esce è sempre a più buon mercato, perché la grande escita prova l’abbondanza: così qui si pensa.

M’è piaciuta a farmi morir di ridere, perché anche a Londra qualche volta si ride, la feroce battaglia nevale fra il procerissimo Luisino e ’l Frate. Mi par di vederla e mostro tutti i denti della mia anima tanto risibile.

Le Chincaglierie saranno spedite, insieme delle mostre di tabacco, in un coletto a Genova, segnato P[ietro] V[erri] N° 1, verso i 20 del corrente con nave il Re Brittanico all’indirizzo del Sig.r Francesco Valentino Rossi, in Genova, da questo Sig.r Luigi Baumgartner, a tua disposizione. Il viaggio porta sei settimane. V’è tutto il comodo. Darai avviso quando vorrai a quel Sig.r Rossi che venendo te la spedisca, e come.

Io t’abbraccio con vera tenerezza e crederei molto inutile di rinnovarti i sentimenti della mia gratitudine. Questa lettera, benché sia in data di Londra, la porterò io stesso a Parigi, perché parto il giorno della posta e faccio la sua strada.

Tu lodi i miei versi! Ah, che ne dici, briccone? Non sono poi una tiorba di Parnasso. Io non so come, gli oggetti grandi mi hanno fatto divenire un ottavo di Orazio, per un momento e senza fatica: mi ricordo che non poteva tenermi da scrivergli; era positivamente in una spezie d’inspirazione. Sia benedetto il Signore Iddio e maledetto il foglio che finisce. Tienmi da conto i miei cari Amici. Il mio vecchio amico Luigi. Oh, caro: addio. ALESSANDRO.

LV (33) A Pietro. Parigi, 16 Febbraro 1767

Appena sbarcato ti scrivo. La posta di Londra non poteva venire prima di me perché io sono partito da Douvre col Pachebotto delle lettere, e poi, da Calais a qui, sono caminato giorno e notte con un corriere che era pressatissimo. Sono partito da Calais Sabbato al mezzo dì, 14 del corrente, ed ora giungo alle ore 8 della mattina. Io primieramente sto bene, benissimo: ma, a dir vero, il passaggio del mare è stato cattivissimo, di modo che uno che lo ha passato ben più di quaranta volte mi assicurò che mai provò un tempo simile. Sortimmo da Douvre con qualche agitazione di mare; pure, il vento essendo favorevole ed essendo già due notti ed un giorno che si aspettava un soffio per esci re dal porto, si pose il Pachebotto in viaggio. Ci portammo, con gran vento e non mediocre agitazione, in sette ore, alla vista di Calais; le onde erano forti; io, che ho voluto stare sul ponte a cielo aperto per non soffrire il vomito, era tutto lavato dall’acqua del mare. Pure, quantunque la nave andasse a galoppo e di grandi ondate la percuotessero, non avea idea di pericolo, non me ne inquietai, e di fatti credo che non ve ne fosse. Scesi finalmente nella camera, perché il freddo diveniva intollerabile. Allora fu che un furioso vento di terra si alzò e dovettersi abbassare tutte le vele, eccetto la più piccola, e subito guadagnammo l’alto mare per timore delle rive della Francia. Io me ne stava steso per terra nella camera, involto nel mio tabarro, pure talvolta la veemente agitazione del legno mi commoveva fortemente. Tutti andavano dimandando al Capitano se v’era pericolo: egli, buonissimo uomo ed abile marino, diceva di no, come sogliono sempre dire per non porre in desolazione l’equipaggio e così disturbare anche la manodopera. Ma il fatto era che l’alzarsi e l’inabissarsi della nave, il fremere del vento e delle acque orribilmente ben faceva capire a tutti che v’era di nuovo. Si aggiunse un’acqua a diluvio, che percuotendo le vele faceva uno strepito terribile, e le tenebre della notte rendevano anco più spaventosa questa scena. Finalmente, dopo un’ora e mezza di cattivo tempo, il vento scemò e si mutò per la volta di Calais, che guadagnammo in poco tempo. Fummo fortunati, perché appena giunti il vento riprese la sua forza. lo in tutto quest’affare ebbi la mia buona parte di paura, e credo che non vi sia nulla al mondo che possa maggiormente abbattere qualunque grand’anima come quella immensa unione di fluido e quello essere abbandonato ai venti ed alle acque. Per me confesso che terrore simile non ho mai provato e che, quantunque non mi ritrovi imbecille, tremo e palpito in mare. Così m’è anche successo quando andai a Douvre, benché senza ragione, non vi essendo pericolo: ma questa volta fu tutt’altra facenda. A Calais, poi, per ultimo refrigerio, erano chiuse le porte e dovetti dormire la notte su di una panca in una cattiva taverna, comodissimo letto dopo una buorasca. Tali sono state le mie trentatré arlechinesche disgrazie nel viaggio: e perciò non più mare. Lungo non l’ha provato e perciò mi consiglia a viaggiare per questa via. Non sa quello che dica. Nessuno è stato in mare, anche poco tempo, che non conti più volte d’aver pericolato. lo per me gli sono buon servitore. Che può un insetto contro la irata natura? tale è l’uomo su di un vascello in tempesta.

Frisio non sembra disposto a partire prestissimo. Teme le nevi delle Alpi. Pure, un mese tutt’al più staremo qui. Laonde, quanto alle cambiali, puoi senza ritardo farmele avere. Su di che mi raporto alle mie antecedenti. Ho gran piacere che non vi sia più il mare fra di noi. Gran boggera ch’è il mare. Non tacerei più su questo argomento. Ti abbraccio. ALESSANDRO.

LVI (23) Al Fratello. [Milano,] 26 Febbraro 1767

Per quanto mi sieno preziose le tue lettere, nessuna lo è stata tanto quanto quella che ho ricevuto ieri, cioè quella che mi dà nuova del tuo arrivo a Parigi. S’era sparsa voce generalmente in Milano che un terremoto orribile avesse rovinata Londra sul principio di queso mese: l’ultima tua era del 2, veramente molte inverosimiglianze mi consolavano, ho fatto pratica dal Tanzi e da altri Negozianti, i quali non ne avevano alcuna notizia, il Sig.r Duca nemmeno: pure ti puoi immaginare se era quieto; mi sento attaccato di cuore più che mai alla nostra cara Somaglia: l’inquietudine, la premura che ha mostrato di te in questa occasione è somma; credimi che bisogna assolutamente che tu le doni la tua amicizia, è una buona anima. Io ho voluto informarla comodamente di quanto s’è passato fra te e Beccaria; sono andato a casa sua una mattina tutta destinata a questo fine, vi sono andato col mio bravo libraccio, dove sta il nostro commercio epistolare; le ho letti i paragrafi tuoi che riguardano quell’uomo fanciullo, le ho lette le mie risposte, quel poco che Beccaria medesimo ha scritto ed ho fatto conoscere a quell’anima giusta e sensibile il fondo dell’affare. Essa ha definito il nostro uomo per un’anima realmente vile e senza virtù; te per un cuore eccellente e ottimo amico, e me pure. È animata da’ torti fatti a te, e ieri sera, avendo in palco la Marchesina Beccaria, ho saputo dall’Abate che ha parlato di te con tanta stima e entusiasmo che la damina impallidiva: tu sai che ella sa prender fuoco all’occasione. Carli è stato informato pure e pensa uniformemente. Il discorso di quel dappoco mi ha dato diritto di smascherarlo in faccia alle due sole persone di rango ch’ei poteva contare fra i suoi amici. Ora si tenga i suoi Odazzi e Visconti, e dica di me quello che gli pare, a que’ due. Nell’ultimo ordinario t’ho scritto con fuoco perché l’aveva, ora ti scrivo con flemma e ti dò parte che, trovando io tanta sensibilità e nella Somaglia e in Carli e in Luisino per la mia ragione, e vedendoli decisissimi a credere Beccaria un birbante come è, non ho più animosità contro di lui, tanto più che l’altro ieri, al battesimo di Casa Isimbardi, dove v’erano tutt’i parenti, io l’ho veduto non più fastoso e pompeggiante, ma imbarazzatissimo, dimenticatissimo da ognuno e come avvilito in faccia mia; egli mi si è accostato in un circolo per chiedermi tue nuove, io gli ho ficcato in corpo l’amicizia che hai fatta con Franklin, Morton, Maty e gli altri Soci della Reale Società di Londra, e l’ho scongiurato sì bene che non ha potuto resistere sino alla fine del mio racconto. Credimi che la scena è mutata interamente per lui; in Parterre, al Teatro, non accade più come in prima, ora non sa con chi parlare, nessuno lo aborda e perciò egli quasi più non vi va ed è ridotto a passar le sue ore in casa, fra una fica che è tutta per lui solo e la noia che naturalmente dividerà su i suoi compagni. Io so che egli s’aspettava un esemplare delle Serate di Belisario e non l’ha; di più, egli non ha sin ora ricevuta una lettera da Parigi, il che mi conferma ad evidenza quello che ha pensato il nostro caro Frisi. Eccoti dunque il Sig.r Marchese Cesare Beccaria che discende dall’apice della sua fortuna, privo dell’entusiasmo degli enciclopedisti, della stima de’ suoi veri amici [di] un tempo, della opinione de’ suoi cittadini, vede diminuirsi la fama del suo libro e rilevarsene da un ragionevole Scrittore le macchie; gli resteranno la sua pudica sposa, la sua debolezza originaria e la memoria delle fortune e delle pazzie. Io non contribuirò mai a diminuire l’opinione di lui se non mi sforzerà per giustificazione mia a farlo; ma ho vero piacere che sia abbassato d’un tuono, per la ragione che, dopo aver data una spada in mano altrui, vedendo ch’ei la rivolge a me ho piacere che la spada si spunti. Questo è lo stato vero e reale, senza ipocrisia, in cui è il mio animo. Aspetto con somma curiosità le lettere che tu mi scriverai, son sicuro che dei discorsi del tuo fu compagno ne dovrai ascoltare, in questa compagnia degli Enciclopedisti, e son scuro che non me ne risparmierai alcun dettaglio. Per mezzo di Frisi mandami poi un esemplare inglese dei Delitti e le critiche fattevi costì.

Io dovrei rispondere in dirittura al nostro Frisi, ma per risparmiare le lettere scriverò a te quello che scriverei a lui. Se avessi saputo il tenore della lettera che mi ha acclusa per i suoi fratelli, l’avrei trattenuta presso di me. Digli che quei poveri giovani sono desolati, sono buona gente, sensibilissima al cuore ed all’onore, e l’amico gli ha posti in un orgasmo violentissimo. Io credo che il nostro Frisi questa volta abbia torto. Ei si lamenta perché i fratelli non gli abbiano trasmessa la cambiale per le strade che ha loro indicate, del M[arche]se Bagnesi e di me. Il fatto è che Frisi, al principio, quando gli ha incaricati di spedir la cambiale, ha ordinato che si prevalessero di Lambertenghi, e così prontamente hanno fatto; tre lettere almeno, consecutivamente, gli hanno mandate col mio mezzo; altre ne hanno mandate per altre strade ed hanno avuti riscontri di Lione e di Ginevra; in ciò non hanno certamente mancato. Il conto della medaglia è questo, Pesa once 5, den[ari] 21, gr[ani] 6. Gli orefici ne esibivano lire 110 l’oncia, i fratelli hanno fatte diligenze molte ed hanno trovato lire 120 l’oncia. La medaglia in tutto è risultata dunque in lire 706.5, cioè gigliati 44. Frisi ordinò che se ne spendessero 14, dunque ne restavano 30, e tanti appunto ne furono dati all’Uboldi, Banchiere, il quale fece la lettera di cambio di lire 325.9.3 tornesi, perdendo il cambio per Parigi su quella somma lire milanesi 19. Anche su quest’articolo io li trovo giustificati, tanto più che 30 zecchini appunto Frisi ha richiesto da essi. Finalmente si lagna Frisi perché non gli diano i Fratelli avviso d’aver ricevute certe carte dal Cons[iglie]re Landriani; essi non l’hanno fatto perché non le hanno ricevute; le hanno bensì chieste al Landriani, secondo l’aspettativa loro, ma ebbero riscontro che il P[adre] Frisi s’era mutato d’opinione e le avrebbe portate con sé. Questi poveri Fratelli sono desolati, essi hanno scritte otto buone lettere a Frisi da Novembre a questa parte; ricevi per esso la terza di cambio che trasmettono e che consegnerai a Frisi. Dì dunque al caro Frisi ch’io capisco benissimo che un galantuomo ammalato, costretto da lungo tempo a stare nella sua stanza, mancando di lettere che sospira di giorno in giorno, sensibile alla convenienza e in pericolo di mancare di denaro, capisco, dico, che ragionevolissimamente ha da avere dei quarti d’ora di mal umore e che, se a ciò s’aggiungano le sgarbate notizie che gli sono state scritte da Milano per sciocchezza altrui, io lo compatisco facilissimamente, digli che tutti questi punti di vista ho fatto presenti ai suoi fratelli e gli ho consolati e rivolto il loro animo a pensare ai costanti benefici che ha fatti loro, non a questa lettera scritta in un momento diverso dai soliti; se ei trova giustificata la condotta loro scriverà in maniera di calmarli perfettamente; poveri giovani, lo amano, lo onorano e sono impastati di onoratezza, meritano che t’interessi a questa facile riconciliazione.

Se v’era il nostro autore nel tuo passaggio della Manica stavate freschi! Povero Alessandrino, la descrizione de’ tuoi travagli marittimi m’ha fatto pena e poi, siccome tu racconti le tue disgrazie, quando non hai passione, sempre con una tinta buffona, così mi hai fatto ridere; hai mandato a far boggerare il mare: vada pure, viaggerai dunque per terra. Forma dunque il tuo piano; se ritorni sino a Torino per la stessa strada con Frisi, tu passerai per la Stradella per andare in Toscana, e là ti dò un rendez-vous: se dovessi vederti almeno due ore mi sarà di somma consolazione, t’abbraccerei, e poi vanne al Campidoglio ed al Vesuvio. Ricordati della tua Storia: non me ne mostri più memoria, donde ciò? Non ti capisco. Aubert t’aspetta nella Quaresima per dar mano all’opera.

a[ddì] 28 Febbraro

Ho fatto alcune diligenze per i Libri di Stampe antiche che mi domandi; per ora ti accludo due brevi cataloghi co’ loro prezzi in Paoli Romani. La nota più grande, segnata A, è di D. Antonio di Casa Somaglia, la nota piccola B è del Sig.r Antonio Agnelli: quest’ultimo ti lascia arbitro di ribassare anche il 10 per cento, puoi trasmettere al Sig.r Molini e vedere.

Dalla tua ultima vedo che hai premura d’aver la cambiale, da un’altra di Frisi ho inteso che ti sei fatto trasmettere a Londra buona parte del capitale che avevi in Parigi, ergo non stiamo più all’intelligenza della mia ultima, ma, senza badare alla perdita del cambio, ti unisco la cambiale di cento Gigliati, nella qual somma vi ho unita la tua esenzione del collegio di lire 132.16.6, così ti troverai un po’ allargo. Aspetto con somma curiosità le tue lettere perché conterranno delle anecdote sulla opinione che s’ha costì di Beccaria, e conterranno de’ discorsi che alcuno di questi filosofi ti farà sul conto di lui. Credo che in questa seconda tua apparizione si faranno un dovere di risarcirti e d’espiare qualche passata distrazione.

In quest’ordinario non ho tempo di dirti di più. Amami. Io andrò facendo frattanto ogni mese risparmio; se non ti abbisogna altro me ne servirò per rimborsare chi mi ha anticipato del denaro; se poi ti abbisogna, scrivimi liberamente che o a Roma o a Napoli o dove sarai ti manderò il denaro che ti occorrerà. Sta’ col cuore tranquillo e non ti ridurre mai a un prossimo pericolo di strettezza, ma previeni. T’abbraccio. Abbracciami il caro Frisi ed assicuralo della mia vera e costante amicizia. Ti aggiungo un fatto che è bene il sapere. Beccaria al suo ritorno mi disse d’aver egli pregato M.r D’Alembert che gli desse un esemplare per me dell’ultimo Tomo de’ suoi Melanges, questo tomo Beccaria l’ha poi regalato a M.r La Salle,ed io non ne so altro. Se mai M.r D’Alembert avesse avuta l’intenzione di darmi una memoria, con ciò, della sua bontà per me, contagli il fatto e ringrazialo; ma Beccaria mi ha assicurato che M.r D’Alemb[ert] vi si è indotto a sua sollecitazione. Addio. PIETRO.

LVII (34) A Pietro. Parigi, 22 Febbraro 1767

Ricevo le tue care lettere 19 e 20 e loro rispondo.

Sono contento del giudizio proferito sulla mia opera. Scrivete ad Aubert che s’accinga alla stampa più presto che può, non aspettando la mia venuta. Questa non serve a nulla e sono premuroso della pubblicazione. Raccomandategli di nuovo il silenzio. Aspetto con impazienza la lista de’ sbagli. Ve ne saranno certamente, ma credo di piccoli, e mi può esser molto profittevole il correggerli. Quanto all’affare di Sisto IV che fu scomunicato, non avendo io qui il mio Ms. non saprei come inserirvelo. Voi che possedete il mio primo abbozzo potete farmi questo servizio. Meno parole che si può, ed il fatto puro.

Rinnovo la mia accettazione per il progetto d’andare a Roma: e spero di partire alla metà di Marzo con Frisio, passando per Ginevra. Di mare non ne discorriamo più: chi è stato in pericolo trema a vederlo. Bisogna avere avuta una borrasca nella Manica, cioè nel più orribile dei mari, e poi consigliare di andare per acqua. Io vi ho perduto coraggio: e molti altri ne ho conosciuti, di Douvre e di Calais, che non farebbero due leghe di mare per tutto l’oro del mondo. Nessuno ha avuto che grandissime sensazioni disagradevoli in mare, ed io non cerco che il mio divertimento e la mia instruzione. Più mare, più mare: non tocchiamo questo ponto. Prima di muovermi mi bisognerà ricevere la cambiale dei 100 Zecchini della quale ti ho scritto. Giacché tu esiggi da me franchezza in questo affare, io l’adopro, nel tempo che la mia gratitudine non dovrebbe aver più coraggio. Amico, che che tu dica, fai una gran piaga alle tue finanze: se non vi fosse una vendetta su Beccaria, che può esser ti anche utile perché tutto ciò che lo umilia concorre a vendicarci entrambi, io non farei due miglia di là da Milano. Ma l’idea di far vedere la differenza che v’è tra me e Beccaria mi seduce a segno che non posso resistere. Del resto il mio caro Longo non creda che il venire da Londra a Roma sia una passeggiata. Vi vuole il suo tempo. Il Monte Senis per ora non è praticabile. Se alla metà del venturo lo sarà, me ne parto con Frisio. Quanto alle sue idee di economia e di vivere, siamo d’accordo. Non vi sarà la menoma disputa. Mi preparo a vivere deliziosamente con lui.

Di Beccaria ti dirò in breve che arrivo io stesso ad essere scandalizzato del modo con cui ne parlano i suoi entusiasti. Morellet lo chiama un matto, ed esclama: «Oh che matto, oh che matto!». Egli ha scritto ad esso Morellet una lettera piena di complimenti ed un’altra di due righe. Anche questo lo fa ridicolo. Il Barone lo risguarda come un uomo da nulla, un uomo da poterne far niente: sa ch’egli ha pianto la ultima notte; in somma mi chiamano tutti con sorriso se ho nuove di Lui, e per me non vorrei per tutto l’oro del mondo aver lasciata a Parigi la sua fama. Tale è lo stato delle cose. Quanto a me sto benissimo senza quella bestia. Il mio amor proprio non può esser meglio. Mi risguardano come un giovine di fondo e di giudizio; e, se non mi lusingo, lascierò degli amici in Parigi, avrò de’ corrispondenti, laddove Beccaria difficilmente potrà continuare il suo carteggio, per essere disprezzato positivamente. Così è, così è senza la menoma esagerazione: e così è l’umor di Parigi. Per me, se mai diventassi l’uomo di moda, me ne andrei tosto a rotta di collo.

Ho veduto il rame della Clairon nella Medea. Costa due Luigi e non vale un franco al mio gusto. Non è spesa da farsi. Quanto ai ritratti sarai servito.

Tu sospetti che i libri ricevuti per mezzo di Beccaria ti sieno donati dagli Autori: questo non è, per la pura verità. Per altro ho qualche dubbio che una copia della Gazzetta Letteraria e qualche brochure di Morellet fosse per te. Non me ne ricordo, perché di tutto quello che appartiene a’ tempi di Beccaria ne ho idee confuse, tanto era agitato dì e notte dalla sua pazzia che non mi lasciava mai quieto. M’informerò di quest’affare. In ogni caso tu devi scrivere qui a qualcuno di questi Signori una lettera che ti faccia conoscere, ossia che faccia parlare di te, perché veda nella risposta se è vero quello che ti dico, che sei stimato. Questa lettera la scriverai a M.r Suard, se ti ha mandato una copia della gazzetta, o all’Abate Lenau suo compagno, che suppongo esser quello che ha annunciata la tua opera. Forse converrà scrivere anche a tutti due. M’informerò dei fatti e poi ti saprò dire a chi devi scrivere a dirittura.

Quanto al progetto di Vienna scriverò un’altra volta: per questa non ho tempo. Parigi è tutt’altra vita che Londra. Qui mi avvanzano pochi momenti. Per questo sono laconico, come vedi.

Rallegrati colla cara Isimbaldi e Cavaliere gentilissimo del primogenito. Quel Cavaliere dà dei colpi veramente da Marino.

Le due opere che dice di lavorare Beccaria, una mi sovvengo essere lo Stile, sviluppando quanto ha scritto nel Caffè; dell’altra non me ne ricordo, ma dev’essere, io credo, di morale. Ma non ne farà nulla.

Passerai a mio Padre i miei umili ossequi e le mie congratulazioni cordiali del suo ristabilimento. L’ordinario venturo gli scriverò. Ora non ho tempo.

Abbiamo un libro del giorno: e questo è il Belisario di Marmontel. Egli è un conto più lungo degli altri ma, a mio parere, il peggiore di tutti. Ciò non ostante fa grandissimo strepito e se ne sono spacciate due mille copie in pochi giorni. Per qualche proposizione è proibito ed ha un guaio colla Sorbona. Bestialità enormi, perché il libro fu stampato colle dovute licenze de’ Superiori e, post factum, si fanno queste cicane. Marmontel, che ha giudizio e non vuole guai coi preti, è sensibile a tutte queste seccature e lo compatisco.

Questa sera ho interrogato Alambert se aveva conosciuto qui a Parigi il Conte di Kaunitz. Egli mi ha risposto che sì e la cosa fu, in somma, ch’esso Conte, dopo due anni ch’era qui e stando per partire, volle conoscere Didereau e d’Alambert. Marmontel fu di mezzo in questo trattato. Gli rispose Alambert un biglietto, appresso a poco in questi termini: Il ne reste donque plus a Monsieur K…z que de voir, pour la derniere curiosité de Paris, Didereau e moi? Quant’a moi, je vous dirois que je ne vois plus que des livres et des bouffons. Così disse perché altro non faceva che studiare e andare qualche volta ai ballerini di corda italiani.

Addio, caro; oggi sono stato più occupato di un ministro: sono quasi le due dopo mezza notte, è tempo di abbracciarti.

Senti, se mai Beccaria parla indegnamente di me, io lo servo subito colla stessa moneta. Scrivo i fatti passati e presenti a Carli ed alla Somaglia, quai sono, con somma freddezza.

Salutami i miei dolci amici. Addio, addio, addio. ALESSANDRO.

P. S. Ricevo in questo ponto un’altra tua del 18 che mi ritorna da Londra. Così ho tutte le tue care lettere. Il pacchetto di Libri non l’ho per anco ricevuto. Non so come sia, questa faccenda.

Morellet, quanto alla commissione di Tabacchi, gli ho detto di sospendere. Meglio non farne nulla. Ei ti servirebbe male perché non sa il mestiere e poi è troppa spesa per lui. Ti manderò notizie su i Tabacchi come ti ho promesso. [ALESSANDRO.]

LVIII (24) Al Fratello. [Milano,] 6 Marzo 1767

Ho ricevuto la tua del 22 scaduto. Ho scritto ad Aubert perché mi trasmetta la lista de’ sbagli marcati, perché solleciti l’impressione anche prima del tuo arrivo e faccia ei stesso l’aggiunta per Sisto IV, con poche parole e il solo fatto, come mi ordini. La cambiale dei cento Gigliati più la tua esenzione, in tutto di Franchi 1172.14.9, te l’ho spedita nello scorso ordinario, diretta dal Tanzi al Sig.r Verzura in data 28 Febbraro: tutte queste minuzie te le ripeto perché, caso mai fosse accaduto di quella lettera ciò che è accaduto al nostro Frisi, tu possa indirizzarti al Sig.r Verzura immediatamente, il quale avrà ricevuta la lettera d’avviso e ciò non ostante ti sborserà il denaro. Dalla tua lettera non posso capire qual sia la strada che pensi di fare in Italia; vedo che ti proponi di passar per Ginevra e poi trovi difficoltà del Monsenis, il quale non devi passare venendo da Ginevra; così non mi parli di Livorno: aspetto che per mia consolazione tu mi faccia il piano di questa passeggiata. Se il mare ti dà incomodo e sensazioni disgustose, hai ragione di non voler ne sapere altro; nel piccolo mio traverso che ho fatto di mare non ho provato che la noia della prigione; ma io non ho avuta borasca.

Quanto mi scrivi sul conto di Beccaria mi consola, confesso ingenuamente il sentimento del mio animo; dopo aver io amata la sua fama, egli ha voluto annientarmi sotto il suo peso: godo che il mio nemico sia indebolito. Egli di fatti non ha sin ora ricevuta alcuna lettera da costì, e se ne stupisce; il fasto suo letterario, che presentava a chiunque, ora s’è sensibilmente diminuito, egli fa vedere nella sua persona un uomo occupato di pensieri torbidi e imbarazzato; non ha scritto una sola riga dacché è ritornato; rare volte si lascia vedere anche in Teatro, e l’altra sera ha messo in moto una parte della platea poiché, non si sa a qual proposito, s’è immaginato che un lampadario cascava, e prima s’era immaginato che cascasse una candela. Questi fatti, amico, mi fanno quasi quasi temere che l’affare non sia fisico e non possa diventare un oggetto di medicina. Beccaria, posto nuovamente alle strette da Lambertenghi, non sa dire altro che questo: che o io o lui, uno de’ due dev’essere un B[ecco] F[ottuto]; ch’egli sa di non esserlo, ch’egli non può entrare in nessun’altra spiegazione perché v’è di mezzo la sua fede e la parola data. Lambertenghi per farlo pur parlare gli ha detto: «e se Verri venisse da lei e le ricordasse d’averlo cominciato a conoscere nell’annientamento e nella miseria, d’avere colla sua amicizia operato e per riconciliarlo colla famiglia e per proccurargliene i comodi, d’avergli, coll’aiuto, collo stimolo, coll’entusiasmo suo fatto schiudere i talenti e proccurato un nome, un credito, una ammirazione pubblica alla quale da sé nemmeno avrebbe sognato di pretendere, d’averlo tante volte sollevato dalle afflizioni del suo animo, diviso il peso del suo abbattimento, d’averlo difeso contro Caro, contro Facchinei, d’avergli dati tutt’i più costanti e vigorosi contrassegni d’amicizia; dopo ciò, se Verri dicesse “voi siete mutato con me: ricerco da voi una giustificazione di questo cambiamento; enigmi, discorsi vaghi non vi giustificano in faccia d’un amico; dite chiaramente di che avete a dolervi di me; vi chiamo un ingrato se non trovate giusta la mia richiesta”; che risponderebbe a ciò il Sig.r Marchese?». «Allora (diss’egli), allora sarei costretto ad esser falso e l’assicurerei di non aver nulla con lui». Lambertenghi gli ha detto d’aver letto tutto ciò che si trova nelle lettere tue, sue e mie, che abbia relazione a quest’affare, ed all’intendere questa bagatella è stato colpito come dal fulmine ed ha concluso brisons la dessus, quest’è un discorso che non si può ultimare. Tale è la maniera con cui quell’uomo parla e si giustifica. Io dò l’affare per finito e l’eroe della Commedia, il nostro Arlecchino Principe, lo dò per morto e sepellito; così lo è nel mio cuore, nella memoria con un po’ di tempo lo sarà; la Somaglia e Carli sono perfettamente informati, come t’ho detto, e difficilmente potresti tu informarli di più con una lettera, a meno che non abbia dei fatti che non mi hai scritti, poiché la descrizione del viaggio e de’ trattamenti che ti ha fatti in Parigi 2 sono noti a questi due, dei quali ha perduta sicuramente ogni opinione.

Ti accludo quello che ho fatto stampare nell’Estratto della Letteratura Europea sul proposito del bestiale giudizio del Giornale Enciclopedico, che non posso digerire; te lo accludo perché faccia in modo che qualche tuo amico corrispondente di quel Sig.r Rosseau glielo mandi: credo che non potrà accusarmi di inurbanità o di irragionevolezza; mi raccomando a te: quest’affare mi preme e, come ti ho detto altra volta, ne ho passione; se hai mezzo di fargli pervenire una mia lettera e che la credi a proposito la scriverò; sarà a proposito se il giornalista è onest’uomo, se poi fosse un Baretti allora penserò a coglionarlo come già ti ho scritto. Mi raccomando a te caldamente.

Sento che nella nuova aggiunta del Sig.r D’Alembert su i Gesuiti vi sia un elogio del Delitti e pene: dimmi in che tempo sia scritto, se dopo la partenza di Beccaria. Egli, anche per nuove che ora ricevo, è agitato per non ricevere lettera da Parigi e, colla nobiltà solita del suo pensare, egli sospetta d’una cabala di noi due, o di me, che gli fermi le lettere alla posta. Il tempo lo illuminerà anche su questo punto. Lambertenghi ti saluta e ti commette per suo conto un Almanac Iconologique.

7 Marzo

Perdonami se ti torno a seccare per Beccaria, ma non posso essere tranquillo e ragionare freddamente sul conto di Lui. Eccoti un’altra bassezza ch’egli ha fatta pochi giorni sono. Calderari gli ha regalata l’opera dell’Abate Bagnier: tu l’hai veduta, è stata in mia camera. Dopo averla riposta fra suoi libri Beecaria l’ha venduta al Francese, e Calderari, che ne voleva un’altra, l’ha ricomperata da lui; Beccaria l’ha venduta per 18 Zecchini e Calderari l’ha ricomprata per 24. Vedi qual mutazione anche in ciò, e qual bassezza e dapocaggine ad un tempo! Ti assicuro che tutti gli animali implumi e bipedi che lo vedono lo trovano sensibilmente mutato, ha fatta impressione persino su un prete di Campagna. Al suo ritorno da Francia egli aveva il fasto d’un Principe: elegante nel vestito, affabile nelle maniere ed occupato della propria gloria; ora ha l’esterno d’un uomo avvilito che freme, è torbido, inquieto, spensierato nella persona, dimenticato dal genere milanese e costretto a non avere che Odazzi per incudine, Visconti qualche volta e Secchi, il quale lo credo prevenuto da lui contro di noi due. Il primo castigo del cielo sarà il conoscere che non per cabale o sotto mani, ma per la natura stessa delle cose non gli restano entusiasmi a Parigi, questo in breve deve toccarlo con mano; Marmontel non gli manda il Belisario, d’Alembert non gli manda la nuova opera su i Gesuiti, i corrispondenti non scrivono: la cosa verrà in chiaro. Il secondo castigo sarà il leggere la confutazione del suo libro, se è ben fatta; io non desidero nemmeno di averla perché non voglio mai ch’ei mi creda vile a segno di spargerla o di vendicarmi di lui attaccando il suo libro dopo d’averlo fatto nascere. Il terzo sarà il non avere ulteriori spinte di Pietroburgo, ed anche ciò deve accadere, per poco che vi sia corrispondenza fra quella Corte e Parigi. Allora il nostro Arlecchino finto Principe tornerà al suo livello. Vedi se Aristotele aveva ragione di dire che alcuni nascono per la schiavitù! Colui ne è una prova, egli è un Caligola, ottimo satellite, pessimo padrone; duro, insultante, crudele co’ suoi amici nelle prosperità; docile, tenero, amabile quando ha bisogno; vile, inetto e ridicolo nella disaventura. Addio, caro amico. Abbracciami il mio Frisi e consegnagli questa lettera. Addio. Tutti gli amici ti salutano. Ricordati di nominarmi la Somaglia, essa ha entusiasmo per te. Generalmente tutti parlano bene del mio Alessandro, non v’è un cane che ti biasimi; la tua risoluzione, la tua condotta hanno ottenuta la stima universale. Te lo dico per la pura verità. Addio. [PIETRO.]

LIX (35) A Pietro. Parigi, 25 Febb[rai]o 1767

Scrivo a mio Padre una lunga lettera perché faccio la corte alla sua borsa, bricconescamente, alla italiana. Tu avrai pazienza di poche parole per questa volta. Il tempo è più prezioso di quello che si possa mai immaginare in questo tumultuoso Parigi.

Rispondo al progetto di Vienna così. Il Conte di Firmian è un Signore che, per dire delle cose obbliganti, promette assaissimo. Non so poi se alla occasione mi troverei cotanto meritevole del suo alto patrocinio. Adunque comincio a dubitare di questa sua gran premura per me. Questa è una. L’altra è: senza il soccorso di mio Padre non si può fare questo viaggio; se lo faccio, lo faccio per essere impiegato: tutto il mondo sa che vado alla Corte per cercare. Ma che? e quale impiego mi resta attualmente a Milano, avendo un Fratello nel Consiglio ed un Padre in Senato? dove debbo ficcarmi? Adunque, sarebbe molto di ritornare da Vienna con delle speranze, sempre incerte a motivo delle vicende del Ministero. Mio Padre, dandomi i danari di questo viaggio, acquista su di me il diritto di rimproverarmi sempre di non essere riuscito e di averglieli fatti buttar via inutilmente. Lo conosco, ed avrei vessazioni continue. Di più, se Firmian ha tanta premura per me, se è tanto possente alla Corte, qual bisogno ho da muovermi da Milano? Egli può fare la mia fortuna col propormi alla Corte in cento maniere. Ed in tal caso io m’addrizzerei a Lui. In massima poi, esaminando me stesso, trovo che non sarei felice coll’essere impiegato. Se lo sarò, lo sarò perché voglio piuttosto essere martello che incudine. Ecco cosa penso su quest’affare. E in vero mi par di pensare molto bene.

L’articolo delle Meditazioni sulla felicità nella Gazzetta letteraria è fatto dal Padre Jaquier, celebre matematico che stava a Roma ed ora è a Parma, come tu saprai meglio di me. Egli l’ha spedito qui a Parigi come corrispondente degli Autori della Gazzetta e lo hanno stampato come fu spedito.

Monsieur Suard, uno de’ due Autori della Gazzetta, mi ha parlato cento volte di questa tua opera con moltissima stima. L’Abate Leneau, suo compagno, mi ha parlato molte volte parimenti con grandissima stima delle tue cose del Caffè che ha tradotte nella gazzetta, come potrai vedere nell’8° volume, cioè l’ultimo. Anzi, attualmente le tue Meditazioni sono tradotte da una Dama di spirito e fra poco si stamperanno. Così mi ha detto M.r Suard. Procurerò di sapere chi ne è la tradutrice. Da qui vedrai se devi credere alle strambe freddezze del pazzissimo Beccaria, di cui qui tutti mi parlano con sorriso e burla quasi scandalosa. E ti dirò che alcuni, a’ quali mi sono presentato dopo il mio ritorno, subito mi hanno complimentato come autore delle Meditazioni, ed io e me ne devo difendere, e ne soffrirei nel mio amor proprio se non fossi amicissimo della tua gloria.

Senza Beccaria faccio un mondo di cose. Ho veduto Condamine e fui a pranzo da Lui. Ho veduto Buffon. Ho veduto Duhamel da Monceau. Ho veduto Nollet. Ho veduto Needham. Ho veduto Mad.e Boccage: in somma faccio il giro di questo museo filosofico. È bene vedere da vicino tutte queste creature. Ti abbraccio; saluta gli amici. E ricordati del tuo ALESSANDRO.

Alla metà del mese venturo penso di partire.

LX (36) A Pietro. Parigi, 1 Marzo 1767

Ricevo con sommo piacere la tua cara lettera vigesima e sono pieno di vanità per quanto mi dici delle mie lettere. S’esse ti cagionano qualche piacere, non mi cagionano un inferiore le tue, che soglio divorare come un affamato appena mi giungono alle mani.

Oggi sono stato da Madame Boccage a pranzo, e fui in mezzo dell’Abate Mably, fratello di Condiliac, e dell’Abate Coyer. Tutti due questi nomi ti sono bastevolmente noti.

Sono anca stato a pranzo da Elvezio e vi ritornerò: vi assicuro che è un angelo di bontà. È un uomo semplice, franco, niente ciarlatano, e in somma ha quella semplicità di costumi che fa stupire, paragonandola ai suoi talenti ed alla sua gloria. Così è anche Didereau, così è anche d’Alambert. Eppure hanno avuto tanti applausi quanto Beccaria, e loro non è girata punto la testa. Di lui ti confermo sempre più quello che ti ho scritto. Il est tombé.

Ho ricevuto la cassa di libri pochi giorni sono. Ella è costata di porto più di un Luigi e mezzo. Ho dato a Morellet da tua parte in regalo la Relazione del censimento e ’l codice censuario, il libro dell’Innesto; e le note su i Delitti e le pene per parte di Beccaria. Mi sono fatto restituire il Bilancio, che ha letto, ma per l’altro libro mi ha pregato di lasciarglielo leggere assolutamente. Egli ti manderà il prospetto del suo dizionario, quando sarà pubblicato. Vedrai che testa è l’amico. Gli ho ancor dati, dalla parte di Carli, la sua opera sulla moneta; darò un libro sull’innesto a Condamine; un esemplare del Caffè agli autori della Gazzetta letteraria, e proccurerò di far bene questa distribuzione.

Varie cose mi restano ancora a dir di Londra, argomento ben più vasto per me che Parigi, come avrai veduto dalle mie lettere.

Ti ho scritto, seguendo quanto dicevano i fogli pubblici, che Wilks ebbe qui un affare, ma non è vero: ed i fogli medesimi se ne sono disdetti.

Ti ho scritto che Newton non è, come dicesi, sepellito nel sepolcro dei Re, e te lo confermo. Egli è ben vero che il suo Mausoleo è in luogo de’ più distinti e che il sito gli fu concesso gratis quandoché per gli altri mausolei, e massimamente per quel luogo, si doveva pagare una gran somma di danaro. In essa Abbazia di Westminster vi sono sepolti Chardin e S.t Evremond, ciascuno con mausoleo. Pochi giorni avanti ch’io partissi v’era stata in una taverna una disputa su questo soggetto: se la mascella con cui Sansone uccise i Filistei fosse vecchia o nuova: la cosa andò a segno che il calore de’ disputanti disturbava tutta la taverna, la di cui Padrona fu obbligata a ricorrere al giudice; furono condotti avanti di Lui i contendenti e gli rilasciò osservando, come diceva la gazzetta, che non si aspettava di vedere tre tali asini avanti di sé.

Dicevano ancora questi fogli pubblici che un giorno, non so quale, del mese passato, il Sole era sorto quattordici minuti prima e perciò che si doveva sentire il parere de’ primi astronomi. Si spacciano queste minchionerie in una nazione nella quale è proibito per atto del Parlamento, ch’è quanto dire per legge, il mettere predizioni astrologiche sugli almanacchi, dando ne per ragione ch’esse disturbano l’agricoltura ed empiono di errori il popolo. Quest’atto del parlamento si ritrova alla fine di tutti i Lunari e per fino di quelli di un foglio attaccato agli usci. Onde in Londra neppure le Serve credono punto alla Luna.

Mons.r Sterne mi ha detto che sta facendo il Viaggio sentimentale d’Italia. Mi disse che molti lo pregano continuamente di farlo e che a questo, prima di avere scritta una sola parola, avrà unite per associazione 1000 Ghinee. Non ha scritte memorie, viaggiando l’Italia, ma lo comporrà a suo capriccio: vuol contare molte avventure successegli in Milano, cioè le vuole fabbricare di pianta. Non mi stupisco delle 1000 Ghinee. Il nostro Bach, maestro di musica, è attualmente a Londra come Maestro della Regina e non guadagnerà meno di altrettanto all’anno; né questi casi sono rari in quell’oceano di ricchezze. Egli faceva 12 concerti in 12 sere in una sala famosa d’una nostra Italiana, la Sig.a Cornelia detta Pompeiati, e in queste dodici sere mi ha detto che guadagnava le sue 500 Ghinee. Mi condusse a questo concerto ed ivi ho veduta la società inglese. Vi sono delle centinaia di persone e nessuno fa rumore. Gl’Inglesi sono tranquillissimi a tutti i spettacoli. Vi era il Duca d’Iork ed il Duca di Cumberland, che vi stanno e sono trattati come particolari perfettamente. Ho veduto poco rispetto per le Dame e, da buon Italiano, n’ebbi un santo scandalo. Se alcune giungano tardi e le sedie sieno occupate dagli uomini, non gli cedono perciò il luogo, ma le stanno in piedi accanto degli uomini, i quali tampoco loro badano. Esse Dame guardano da ogni parte per esplorare se vi sia un sito, si vede che sono in disaggio, eppure i Signori sono tranquilli e seduti testimoni di questo loro imbarazzo. Non ho veduto un solo che contasse fioretti ad una madama: tutto è calma, tutto è silenzio.

Ti ripeterò alcune cose che ho scritto a mio Padre perché si registrino nel famoso mio Libro. È nota la forma de’ giudizi de’ Pari in Inghilterra. Vi sono in Londra 12 Giudici Giurisconsulti che uniscono essi Pari. Fanno continuamente il giro dell’Isola per la spedizione delle cause e, quando arrivano in qualche sito, il militare ne esce alla distanza di 20 miglia. A questi Giudici, detti di Pace, ogni uomo è soggetto. Non si conosce in quel Paese il Status in Statu. Le leggi non hanno accettazion di persona. Gli Ecclesiastici e ’l militare non hanno altre leggi ed altro foro di quello de’ Portantini e de’ Facchini. Perciò non si vede impertinenza militare o gravità ecclesiastica.

Se occorra qualche sollevazione le leggi vogliono che, prima di far tirar de’ colpi di fucile da Soldati su i sediziosi, il Giudice di Pace debba loro leggere ad alta voce la legge contro tal delitto per tre volte. Quasi sempre è accaduto che questa lettura facesse l’effetto che le minacce del militare non avevano fatto. Ultimamente vi furono grandi sussurri, eccitati da’ Lavoratori di Seta, i quali volevano che si proibisse la importazione delle Stoffe forastiere. Furono assaltate, insultate e rotti i vetri a varie case, fra le altre a quella del Duca di Betford, che essi credevano opporsi alle loro dimande. La lettura dell’atto del Parlamento dissipò questa truppa di disperati, anzi, essendosi fatti degli insulti ad alcuni mercanti di Stoffe forastiere che non avevano nessuna colpa in questi guai, gli ammuttinati si quotizzarono e pagarono del loro i danni gravissimi che que’ mercanti avevano sofferti. Non sono tratti piccoli. Qual altra nazione n’è capace in Europa?

Fui al Parlamento de’ Comuni e de’ Pari. Vidi quella Camera che faceva nell’ultima guerra tremare l’Europa. Ella non è molto grande ma, essendo fatta a Teatro, capisce moltissima gente. Addio, caro, sono il tuo F[rateIlo] ALESSANDRO.

LXI (25) Al Fratello. [Milano,] 13 M[ar]zo 1767

Abbi pazienza e lasciami parlare di Beccaria anche quest’oggi. Ieri è comparsa la terza tesi che da lui e da’ suoi satelliti Visconti e Calderara si spargono sordamente. La prima si fu ch’io avessi simulata amicizia per lui solamente per poter chi avare sua moglie; ma i fatti si opponevano, la risposta a Facchinei, il ritratto in rame, la mediazione mia per il suo viaggio e simili sono prove d’amicizia date dopo terminata ogni corrispondenza alla ninfa; di più, per poco che mi si accordi di senso comune, si trova che avrei interposti mezzi troppo incomodi e complicati per ottenere un bene che tanti altri hanno partecipato senza far diventar celebre il marito. La prima tesi dunque s’è sostenuta per pochi giorni; venne in campo la seconda e Visconti la appoggiò a Lungo con una dettagliata letterona di più pagine; questa si fu ch’io fossi autore delle discussioni della famiglia Beccaria e che a Gessate, profittando della cordialità del Marchese e della Marchesa, io abbia soffiato fuoco contro il figlio e la nuora; anche questa calunnia, di cui Visconti istesso più d’ogni altro deve sapere la falsità, è caduta, perché non v’è mai stata nella famiglia un’ombra di disparere, né una parola, né un atto che mostri mala intelligenza, onde io sarei autore d’un delitto che non è in natura rerum; altronde il Marchese e sua moglie e l’Isimbardi e tutti quanti parlerebbero chiaro per la giustizia, perciò anche la seconda tesi va a farsi boggerare. Ieri dunque, come dissi, è venuta a mia notizia la terza accusa, ed è questa. Ch’io per malignità abbia rotto il concerto di Beccaria con Visconti per andare a Parigi, e ciò affine di porti ai fianchi di Beccaria, della di cui gloria era geloso; che Beccaria si sia dovuto accorgere a Parigi delle cabale tue di mia intelligenza e sostenute con secreto carteggio, e queste cabale erano per discreditarlo presso questi uomini di lettere e far loro credere clandestinamente che il libro dei Delitti fosse roba più nostra che sua; il che tanto più facilmente riuscì quanto che Beccaria delle cose che scrive talvolta non sa renderne buon conto parlandone. Eccoti lo stato della morale di que’ geni sublimi. Son sicuro che ne stupirai come ne sono io stesso sorpreso. Ieri dunque, servendomi del diritto competente all’onest’uomo di difendere la propria reputazione e quella degli amici, io ho pregato Secchi a voler passare la mattina con me, e questa fu impiegata a leggergli tutti gli articoli che sul conto di Beccaria mi hai scritti da Parigi nel tuo primo viaggio, e tutti gli articoli miei a te diretti su tal proposito; tutte le stravaganze del nostro pazzo bassissimo gli sono giunte nuove e l’hanno sorpreso: il cuore, l’amicizia, la virtù che si vedono nel nostro carteggio (il quale era un sincero aprimento di cuore, che nessuno poteva antivedere dovesse servirei di giustificazione), l’hanno talm[en]te colpito ch’egli mi ha protestato che, se non avesse conosciuto il carattere di noi due in prima, lo avrebbe intimamente conosciuto dalle lettere che ha esaminate e vedute; egli è deciso per la verità e credo che tutte le cabale preventive di Beccaria, che in più discorsi ha cercato di carpirselo, sieno svanite per sempre. Sto aspettandomi che, tosto che sappiano coloro che tu t’accompagni a Lungo per il giro d’Italia, dicano che anche ciò sia una cabala per carpirlo e distaccarlo da essi. Chi può prevedere le iniquità nuove che usciranno da quella spelonca latronum? A me basta il metterti regolarmente al fatto di quanto accade; fanne parte al caro Frisi, egli mi scrive delle lettere che partono dal Cuore e vi vanno; abbraccialo da mia parte e digli che voglio bene a lui, alla sua gloria, alla sua pace, alla sua fortuna, ma non gli scrivo perché non mi resta tempo.

La tua lettera al S.r Conte Reggente è stata consegnata dopo che l’ebbi trascritta nel mio album: io credo che non farà né il giro né il rumore dell’altra, e la ragione si è perché tu lodi troppo l’Inghilterra e parli male di Gius Romano; questi scorpioni si tengono nascosti; l’unico paragrafo che ha letto ai fratelli è quello del progresso della nostra Santa Religione nell’Isola, ed ha poi a voce fatto parte non che tu preferisci gl’Inglesi ai Francesi, ma che sei finalmente disingannato dei Francesi; tu vedi che questo vuol dire che il viaggio intrapreso è tempo perduto, nel suo linguaggio. Sono alquanto di mal umore su quest’articolo, perché l’Avvocato Bizzozero ha terminato il suo pasticcio nell’Archivio e credo che delle iniquità per defraudarci tutti quanti ve ne siano: l’Avvocato è troppo festeggiato in casa, e dal Reggente e da Monsignore e dalla Sig. a Contessa, la quale dubito che con ogni mistero gli abbia regalato il tavolo eguale al mio. Quel mistero proverebbe molto. Di più si vede una sorte di sorriso e di tranquillità sul loro volto; di più s’è parlato chiaro ai due fratelli, dicendoli che gli uomini si comprano e che un altro giorno si pentiranno d’essere stati miei amici; anche in questa occasione si è ricorso alla solita figura retorica, minacciando che sul punto dell’interesse io non sono amico de’ miei fratelli, ecc. ecc. L’unica consolazione si è che, siccome coloro hanno tanta dose di sciocchezza quanta di malignità, così spero che ci coglioneranno in una maniera sì cogliona che finiremo per coglionarli. Dio lo faccia, come lo desidero di cuore.

Sul punto del progetto di Vienna mi hai convinto: non si può ragionar meglio di quello che tu hai fatto, ho provato abbastanza cosa siano le accoglienze, quando si ritorna senza impiego, e domestiche e civiche; me ne son vendicato ma per quattro anni le ho sofferte. Nel fiore [dei] tuoi anni, sicuro di non soffrire mai per mancanza d’un decente patrimonio, sicuro d’un nome acquistato co’ tuoi talenti e nella indipendenza, il bisogno d’un impiego non è grande, son sicuro che sarai in carica perché si avrà bisogno di te senza che tu faccia il postulante. Ti ringrazio per tutto quello che m’hai scritto di veramente interessante sull’Inghilterra. Ho piacere che finalmente ti sia giunta la cassetta de’ libri; hai fatto bene a presentare in nome di Beccaria il Facchinei, sebbene costi i miei quattrini per la prima spesa e i tuoi per il trasporto; ti raccomando di riavere assolutamente tutti i miei manoscritti da Morellet.

La Gazzetta Letteraria tedesca di Gottinga, al N° 126, 28 Ottobre 1766, così parla del Caffè: = Brescia. È pubblicato dal Libraro Milanese Galeazzi un foglio periodico intitolato il «Caffè», distribuito da Giugno 1764 sino a Giugno 1765. Si vede chiaramente dalla data dell’edizione che l’autore ha voluto dire cose che non sperava di poter dire a Milano con permissione. In fatti ei pensa liberamente e non serve alla opinione; se la ride delle scienze favorite dagl’Italiani, del purismo, della servile poesia, della filosofia scolastica: egli onora le matematiche, i tentativi, la disamina della natura, della morale e della ben ragionata politica. È vero che ei non osa trattare di alcune materie, ma quelle che prende per le mani le maneggia con una libertà di pensare ed una vivacità di stile particolare. Non ci fa maraviglia l’applauso che ha avuto.

A[ddì] 14 Marzo

Ti scrivo con ogni economia di carta perché Carli mi ha consegnata la acclusa per il caro Frisi; se il vostro progetto s’eseguisce e che partiate poco dopo la metà di questo mese le ulteriori mie lettere non vi giungeranno: con tutto ciò ti scriverò, e se si perderanno è poco male. Vorrei sapere quale sarà il punto di menoma distanza in cui tu passerai da Milano, se per Voghera e la Stradella ivi mi vedrai, forse, almeno per due ore; mi figuro che per Milano non passerai per non rinnovare tutte le seccature domestiche che non sarebbon poche. Carli, Lamb[ertenghi], Secchi, Corti, i Beccaria Seniori, gl’Isimbardi, i fratelli tutti ti abbracciano. Il Sen[atore] Pecci ti riverisce; Castelli, Carpani, ecc., tutti mi domandano del mio caro Alessandrino, che abbraccio. Addio. Ama: il tuo PIETRO.

LXII (37) A Pietro. Parigi, 4 Marzo 1767

Rispondo alla deliziosa tua vigesima seconda e primamente al doloroso capitolo di Beccaria. In questa distanza non posso che dire sinceramente il mio parere. Il tratto di Lambertenghi è degno del suo delicatissimo cuore; ma mi rincresce il secondo passo ch’egli vuol fare per costringere Beccaria a provare le sue pazze asserzioni. Questo è lo stesso che il divenire Feciale di una aspra ed aperta guerra fra te e Lui, e questa guerra io non vorrei per tutto l’oro del mondo che ci fosse mai. Quanto a me, benché sia trattato da ragazzo senza carattere ecc., non vorrei bassar la visiera contro di lui, perché lo considero come un pazzo, punito dalla sua pazzia quanto merita, e che sarà infelice e discreditato fra poco. Io mi aspetto qualche bestiale tratto di melanconia da questo uomo e ho un certo presentimento che gli debba accadere qualche cosa di funesto. Io posso dire di conoscerlo più d’ogni altro ed ho una serie, pur troppo lunga, di esperienze sulla forza della sua immaginazione, e predico ch’egli fra poco o impazzirà o sarà avvilito. Con questi princìpi io guardo come almeno inutile ogni passo che si faccia per farlo rientrare in sé. Anzi, niente di più facile che il far delle scene, attesa la Marchesina che vi è di mezzo. Ed in quel caso l’andare sul teatro del maldicentissimo Milano e ’l far la figura di gladiatori o pubblico divertimento sarebbe disgustosissimo, e le dicerie che in quel caso si farebbero ti dispiacerebbero molto più che non i discorsi che presentemente tiene Beccaria. Amico, io temo nulla dal tuo cuore, e tutto dal tuo temperamento. Beccaria tenta di toglierti l’Isimbardi: guardati che questo tasto non agisca troppo sull’animo tuo. Il pubblico non ha le nostre passioni, ed il portare al suo tribunale questi guai è esporsi a sentirne i giudizi i più bestiali. Beccaria è un uomo fatto per far perdere il giudizio ad ogni persona ragionevole. Testimonio ne sia l’averci messo tante volte all’orlo di buccarci il ventre per pure inezie; e testimonio ne sono io, che m’ha data voglia di ricolmarlo di calci e di pugni cento volte in quest’alma capitale. Ma guardiamoci da queste coglionerie. Se si trattasse di un uomo men fatto per discreditarsi, di un uomo che non fosse, com’egli lo è, all’orlo della pazzia e dell’avvilimento, io direi: fatelo rientrare nel suo niente a calci nel culo; ma si tratta di un uomo che ha lasciato dietro di sé il ridicolo a Parigi e che lo ha portato con sé a Milano, ed il quale è ridotto senza amici, a riposare in braccio della moglie ed a giuocare a tarocco. Se mi credi, non mescoliamo questo affare, lasciamo andare le cose da loro stesse. Tutt’al più io farei una critica al suo libro, non mai mostrando fiele, ma soltanto comparando, come un buono e franco cittadino che dice il suo parere su una materia pubblica. La farei con tutto il secreto: la farei stampare per circuitum facendo comparire qualche giovine studente, in somma con tutte le precauzioni, e questo sarebbe il colpo massimo, e vi penso. Non è egli quel generoso autore che sospirava e piangeva al tempo di Facchinei? Appunto perché adesso è impertinente, diverebbe vilissimo con una fredda, accorta e giudiziosa critica. Questo colpo ne vale cento. Ma il segreto sarebbe dell’ultima necessità. Questo è quanto io penso su di ciò. Se son libero nell’opinare e nel dirti quanto si passa nell’animo mio, è perchè niente ci ho di nascosto per te. Tu farai poi come a mente fredda ti sembrerà opportuno. Ma, perdonami, guarda che sia veramente a mente fredda. Non vorrei che facessimo una nuova scena come fra Rausseau e Hume. Il pubblico aspetta con impazienza la occasione di dir male, e questa ne fornirebbe fecondissima materia. Le anteriori relazioni che sono passate fra te e Beccaria, l’anteriore tua amicizia per lui e sua moglie darebbero campo a spargere infinite dicerie. Io ti assicuro che se Beccaria potesse conoscere che pensino di Lui il Barone, Morellet e questi altri Signori impazzirebbe, perché si accorgerebbe quanto egli declini allorché scrive di tenere in pugno i suffragi di Europa. Sapete che bisognerebbe fare del suo libro? quello che ha fatto Condilliac dello sviluppamento delle idee dell’uomo di Bouffon e quello, dirò anche, che ho fatto io delle sue cose in varie occasioni. Tra tutti due siamo capacissimi di buttare a terra quest’idolo e, se ne abbiamo da far una, dev’essere questa e non altra. Ella sarà la più forte di tutte e la più sicura. Per me, non mi perderei in altre bagatelle. Questo è l’essenziale. Egli, poltrone ed abbattuto, non sarà capace di rispondere e rischiamo di pelarlo affatto delle sue orgogliose piume di pavone. Lasciamo questa sempre abbondantissima materia.

Non sapevo il terremoto di Genova. Vi darò in contraccambio la nuova che qui a Parigi è caduta una casa e che sette persone vi sono perite, oltre le varie altre che ne furono offese.

Quanto alla guerra d’Italia, tanto meglio: egli è il nostro migliore commercio attivo.

Hai fatto benissimo a non spedirmi la cambiale colla perdita del 5 per cento. Frisio mi cederà una che ha d’avvanzo di 40 zecchini e ciò mi basta, io spero, sino a Roma. Onde su di ciò ti saprò poi dire in viaggio dove mi possi favorire gli settanta altri zecchini. Giacché i 40 bisognerebbe rimborsarglieli costì al suo ritorno. Caro Amico, perdonami il modo franco con cui dispongo della tua borsa. Incolpane te stesso, che mi hai fatto sfacciato su quest’articolo. Quante obbligazioni io mi sento verso di te! Mi sarebbero un peso intollerabile con tutt’altr’uomo.

Dei libri che ho ricevuti, del Caffè e dell’Innesto ne ho fatto quest’uso. A Morellet il Censimento e l’Innesto a tuo nome. Egli te ne ringrazia tanto, perché alla fine, malgrado la sua testa, è buono uomo. Finalmente scriverà a te e a Carli. Gli ho pur dato Facchinei. I quattro esemplari del Caffè, l’uno a Suard, l’altro all’Abate Haineau, Autore della Gazzette Litteraire; il terzo a Watelet; il quarto a un tal Marchese di Condorcet, giovine carissimo, coltissimo nelle matematiche e che intende la nostra lingua. Così mi pare d’aver distribuito bene. Ho poi mandato una copia d’Innesto a Condamine ed una a Gatti. Non va bene così? Ti dirò che dicano.

Mons.r La Lande ti saluta; fu da me questa mattina. Facciamo conto di partire alla metà del corrente. Il nostro itinerario è questo: Lione, Genevra, Torino; poi, io solo: Genova, Erizzo, Livorno, Pisa, Firenze, Roma. Frisio conosce questi Paesi e sa i conti a lire, soldi e danari, e mi fido per esperienza moltissimo di lui. Addio, Amico adorabile.

Caro Cavaliere, il tuo paragrafo m’ha portata l’emozione nel fondo dell’anima. Vogliami bene. Se la semplicità e sensibilità di cuore hanno diritto alla benevolenza, tu non puoi negarmela. Giacché siamo fratelli di corpo, siamolo anche di anima. Ti abbraccio. Sono il vostro, e sono le dodici ore della notte.

P. S. Vi sono varie cose da pensare per il mio viaggio; primieram[en]te la cambiale de’ 60 Zecchini la potrei trovare a Torino e mi pare che converrebbe così, perché perderesti o nulla o pochissimo di cambio e questo sarà il ponto più vicino a Milano ch’io toccherò. Che ne dici del mio progetto di venir ti così vicino e non veder ti? È meglio. Un nuovo congedo ci sarebbe di un nuovo dispiacere. Penso anche ai miei abiti d’estate. Ho due abiti di veluto né so se questi saranno di stagione alla fine del corrente, essendo in Firenze o Pisa o altrove. La mia guardarobba d’estate è meno ricca. Mi bisognerà facilmente un abito. Comunque sia, potresti mandarmi a Roma, a Longo, senza ritardo ma con spedizione mercantile di poca spesa, il mio abito di percurienne, un abito griggio di camellotto e, per ogni caso, l’abito di taffetas e, se v’è, qualche altra roba passabile nel mio magazzino. Te ne prego. ALESSANDRO.

LXIII (26) Al Fratello. [Milano,] 17 Marzo 1767

Ti scrivo all’azardo poiché, secondo il tuo piano, devi essere già partito da Parigi, ma, ad ogni buon conto, siccome l’uomo propone e Dio dispone, così può darsi che questa lettera ti ritrovi ancora costì. Io ho scritto a Frisi a Ginevra indirizzandomi al Sig.r Cousin Bonnet, non dimenticarti di ricercare quella lettera perché vi è il biglietto per Frisi che lo esentua da ogni seccatura alle nostre Dogane; se col suo mezzo manderai a Milano il tuo equipaggio inutile farai bene. Ho scritto a Genova al Sig.r Fran[ces]co Valentino Rossi per il colletto, passandovi ne puoi cercar conto. Ho piacere che ti disponga a presto visitare Aubert e la tua Storia: gliene dò avviso acciocché inutilmente non mi trasmetta le osservazioni sopra di essa, come gli aveva scritto. Accontentati di poche righe perché non ho tempo. T’abbraccio e sono sempre il tuo.

P. S. Quanto al progetto di fare una critica ragionata al libro di Beccaria, sinceramente ti dico che non lo approvo, son sicuro che tu stesso non lo puoi approvare a testa fredda. Abbandoniamo quell’ingrato all’avvilimento nel quale s’immerge, e non moviamo la guerra ad un’opera ch’egli ha pubblicata a nostra insinuazione e che abbiamo sostenuta tanto. Tutt’al più si potrebbe consegnare a lui medesimo le nostre osservazioni manoscritte, sarebbe un tratto di fulmine tanto più forte se non le comunicassimo a nessuno che a lui, sotto pretesto di rimediarvi in una nuova edizione. Addio di nuovo. PIETRO.

LXIV (38) A Pietro. Parigi, 8 Marzo 1767

Arrivo pochi momenti sono da una buona scorsa in campagna. Ho veduto in questo giorno quello che gli altri vedono in due giorni. Sono stato a Marly, S. Germano, Versailles, Trianon. Mi trovo veram[en]te alquanto stanco per aver fatto qualche miglia a piede come da Marly a Versailles, ch’è una lega, oltre il continuo moto per vedere tutto ne’ vastissimi giardini di Marly e di Versailles, i quali sono un molto comune soggetto delle lodi de’ viaggiatori, ma in verità sono mirabili. E tali mi sembrano in questo tempo nel quale non offrono allo sguardo se non se viali e piante spelate ed infeconde e calve. Qual delizia non sarà il vedere boscherecce incantate e che sembrano destinate al tenero e furtivo amore, tutte ricoperte di bellissimi e freschissimi verdi? Ho voluto ritornare a Versailles perché essendovi stato con Beccaria non avea, al solito, veduto nulla come si deve. A Marly mi sono avveduto che i costumi inglesi mi hanno fatta qualche impressione. Era condotto dallo Svizzero, a ciò destinato, per gli appartamenti del Castello del Re. Il buon Svizzero ed il mio servitore tenevano il capello in mano, io inglesamente tenni inchiodato sempre mai il mio anglicano vastissimo pileo sulla testa, entrai nelle camere dove dormono i prìncipi reali, dove la Regina, dove per fine S. M. Cristianissima; mi accostai freddamente al letto felicissimo e risplendentissimo che ha l’onore d’accogliere le stanche membra di un uomo che comanda a 19 milioni d’uomini, guardai ben bene la stoffa ond’è composto e, sempre col mio capello a suo luogo, tirai di longo. Scometto che nessun Francese è capace di resistere a tenere il capello in testa accostandosi al tremendo letto del Monarca. Di fatti lo Svizzero n’ebbe grave scandalo e chiamò al mio Servitore s’io era Inglese; gli rispose che sì. Quanto a me, ho fatto tutto ciò machinalmente, non essendo persuaso che si debba cavare il capello alle mura ed al pagliaccio dove dorme Sua Maestà. Bisogna aver bene l’Idolatria Monarchica sino nelle midolla per esser suscettibile di queste impressioni. A Londra ho veduto il Re in portantina al Parco di S. James (che, per parentesi, vuol dire di S. Giacomo, non di S. Giovanni, come vi devo aver scritto) passarmi da vicino ed io, confidenzialmente, in rodengotto, gli ho appena cavato freddamente il capello. Un altro giorno per istrada mi passò avanti la Regina, in portantina anch’essa, ed io, non essendo d’umore, non le cavai il capello. E di queste minchionerie non se ne parla tampoco a Londra.

Madama la Delfina sta molto male, ed oggi ha ricevuta la estrema onzione. Questa è la nuova ch’io porto adesso da Versailles, d’onde vengo.

Sono stato gli ultimi giorni del Carnovale una sera al ballo dell’opera, ch’è il ballo pubblico e magnifico del paese. Che crederesti? è molto più bello il nostro ambrosiano. La nostra Sala è più vasta, oltre di che v’è lo sfogo del ridotto. Ma qui altro non v’è che la Sala da Ballo, dove realmente non si può ballare in conto alcuno, negli ultimi giorni di carnovale, perché è tutta piena di gente che appena si possono muovere. Questo è il gran divertimento. Si urtano tutta la notte, si guardano, vanno come nuotando avanti ed indietro, non possono fare un passo di minuetto ed in somma non si balla punto, e questo è il gran ballo dell’opera di Parigi. Le maschere non sono brillanti. La maggior parte sono molto comuni. Ho per altro trovata una maschera assai comoda e molto comune, e questa è di mettersi in veste da camera, colla sua rispettiva beretta di notte in capo ed una maschera qualunque in viso. Più comoda di così non può certamente essere. La maniera con cui si forma questa sala di ballo è di alzare il parterre a livello del Teatro. Lo che riesce benissimo e forma una bella sala, ma né bastevolmente brillante né bastevolm[en]te capace per tal città.

I passeggi delle Tuillieries, essendo calmato il freddo, cominciano a divenir popolati. Alla sera non vi manca mai una generazione di manostupranti femine, le quali vi si presentano col vago detto M.r volez vous vous amuser? Altro non occorre che di porsi su una delle molte panche e celebrare, a grande edificazione del suo prossimo, il piccolo atto. Nessuno bada ai fatti altrui. Quelli che sono al passeggio in quell’ora sono tutti peccatori che si compatiscono vicendevolmente l’un l’altro. Nell’estate vi sono anche i Socratici, né mancano molti Alcibiadi, tanto che nessuna delle belle arti non sia in Parigi, dove questa massimamente è in gran fiore.

Mi sono informato da M.r Suard se ti aveva mandato un esemplare della Gazzette litteraire, ma non è così, né io so che altri di que’ libri che aveva Beccaria come miei fossero destinati per te. Egli è ben certo che sono tuoi, perché sono miei. Onde in questo Beccaria è giusto. Mons. Voltaire ha stampato o scritto o detto ad alcuno, non so poi come, che l’Ecole de Milan fait des grands progrès. Così chiama la nostra compagnia. Addio, addio. Sono stanco del viaggio.

P. S. Partiremo verso il giorno 16 del corrente, onde siamo sulle mosse. Nell’ultima mia credevo che i 40 zecchini della cambiale di Frisio glieli avesse mandati suo fratello, ho poi saputo che glieli hai mandati tu. Questo spiega l’equivoco che ho preso quando ti ho ultimamente scritto da rimborsargli a Frisio. Resto nella intelligenza che questi 40 zecchini gli riscuoterò qui prima di partire. Addio. ALESSANDRO.

LXV (39) A Pietro. Parigi, 13 Marzo 1767

Rispondo alla cara tua vigesima terza in data de’ 26 Feb[brai]o. Capperi, tu mi credevi sotto le rovine di Londra! Chi ha mai inventata una sì bestiale novella? Londra è il sito del mondo meno soggetto a’ terremoti. Se ciò non fosse, non vi si fabbricherebbe con così poca solidità. Non v’è stata la minima scossa. Caro ed adorabile amico, i tuoi sentimenti in questa occasione non mi sono riesciti nuovi. Io stesso gli proverei, come ne sei persuaso, e fui varie volte inquieto in mancanza di tue nuove. Molte volte m’è accaduto costì di essere in grande agitazione perché alla sera non eri a casa all’ora solita. Tutto ciò mi prova che non sono indegno di queste tue inquietudini. Basta, la cattiva nuova è passata, ti abbraccio sano e salvo, e sta’ di buon cuore che tutto va bene in questa valle di miserie, fuorché il mare: oh, il mare è una grossa bestia! Non ne può aver idea che chi vi è stato. Ti ricordi del passaggio da Trieste a Venezia? Ti ricordi d’avere generosam[en]te tremato? Eppure sei uomo di cuore, che venivi dalla guerra. Io ho un servitore fiamengo che è stato alla guerra ed in tempesta di mare, e mi dice ch’è il mare cento volte più terribile dei canoni. Questa è stata la grande avventura di codesta mia passeggiata. Veramente non ne posso parlare che pateticamente. Vi fu qualche altra piccola bagatella andando a Londra. Arrivato a Rocester, l’oste mi disse che v’erano de’ ladri nelle vicinanze e che si era trovato un cavallo nella strada, ucciso apparentemente da un colpo di pistola. Erano le nove ore della notte quando ebbimo queste nuove. Mi trovavo con un Inglese ed un Francese. Questo voleva fermarsi la notte, quello volle ad ogni costo partire. Con tali vaghe notizie, che ci furono confermate da varie altre persone, seguitammo il nostro viaggio. Io, benché avessi grande opinione di que’ valent’uomini de’ Ladri inglesi, pure non mi trovava molto comodo in tale situazione. Io e l’Inglese stavamo colle pistolle pronte, si eravamo intesi fra di noi di non far cerimonie ma di subitamente tirare il passerino contro il primo che ci si avventasse, quando, presi da soave sonno, entrambi colle pistolle in pronto, dormimmo saporitamente sino a Londra. Ivi mi ricordo che, quantunque fossero le due della mattina, smontando dal Molini trovai due ragazze subito pronte a favorirmi. Oh, per questo poi Parigi è castissimo in paragone di Londra.

Io ti prego di manifestare all’adorabile mia Zia Somaglia i sentimenti di vera riconoscenza per la premura che ha mostrata di questo suo buon nipote in occasione del preteso terremoto. Gli bacerai cento volte le belle mani da mia parte. Bisogna bene ch’io vaglia qualche cosa, se cuori così ben fatti s’interessano per la mia esistenza! Quello ch’è sicuro è ch’io mi sento una tenerissima cordialità per chi mi dà tali non equivoche prove di bontà e d’amicizia.

A queste persone io dò senz’altro il mio cuore in mano. Sono parimenti molto sensibile alla premura colla quale la Zia carissima assume le mie parti del tristissimo affare Beccaria; né altrimenti mi potevo compromettere dalla sua virtù e dalla mia troppa immacolata amicizia per un uomo che non n’era degno. Basta, in codesto negozio, esser dotato della minima porzione di buon senso e di virtù per irritarsi positivamente contro Beccaria. Pure, un voto così rispettabile mi consola sempre più. Così pure il mio caro Carli mi trova giustificato in faccia della ragione e dell’amicizia. Anche il suo suffragio mi allarga il Cuore. Laonde di Beccaria non ne parliamo più, e vedo che anche tu sei venuto nel mio parere e ti prego a non mutarlo, perché mi sembra il solo ragionevole. Io non voglio lasciare di replicarti che quell’uomo ha un non so che di funesta impetuosità nel suo carattere che lo deve strascinare in qualche scena forse terribile. Sono stato pur troppo con lui per conoscerlo. Credo di non ingannarmi. Talvolta mi sveglia compassione. Anch’oggi il Barone ne ha parlato a tavola con sommo disprezzo. Ha sostenuto che Beccaria non è mai stato a Parigi, perché pensava sempre a sua moglie, che perciò non ha niente veduto, e che a Milano attualmente deve dire: io mi sono sognato di esser stato a Parigi, e come ho potuto sognare si lungamente? Venuto poi all’articolo della sua passione per la moglie, egli sosteneva che Beccaria non era capace di farle quel servizio tutt’al più che due volte la settimana. «Non avete veduto, diceva egli, come è grasso e grosso, a guisa di un castrato? ». Al che si aggiunsero le solite frasi, che non è buono a nulla, che non farà più nulla. A tutto questo discorso io assisto con silenzio imperturbabile, talvolta sorrido un poco, oppure faccio tronca ed equivoca apologia. Così mi pare che convenga. Il mostrarmi suo nemico mi farebbe torto, dopo la figura di suo amico fatta in pubblico; e questi sorrisi e queste mal fatte apologie lo difendono assai male. Io credo che il Barone sia piecatissimo del poco conto che ha fatto di Parigi e della sua compagnia un uomo il quale, appena giunto, parlò di partire, ed il quale non fu mai coll’animo a Parigi, come si vedeva manifestamente.

Quanto al Belisario che Beccaria si aspetta, egli non l’avrà ultroneam[en]te, a meno che ne dia la commissione. M.r Marmontel non è mai stato degli ammiratori suoi. Lo ha sempre lodato con somma parsimonia. Morellet per altro risponderà a Beccaria: ed in oltre scriverà a te una lettera assai pulita e della quale sono sicuro che sarai contento. Io in quest’affare non vi ho avuta parte, come puoi ben pensare. Queste attenzioni non vagliono un fico se non sono spontanee.

Frisi ha letto il paragrafo della tua lettera che lo risguardava. Egli ha preso l’affare come mi aspettavo e come fanno le anime buone. Si pose a ridere, come un uomo che si accorge di esser stato troppo di mal umore, e disse: in somma io ho torto, e non occorre altro. Mi ha detto che scriverà a’ suoi fratelli. Un uomo ch’è stato due mesi amalato e confinato nella sua camera è compatibile di esser qualche momento aspro. Egli stesso presentemente ne ride. Sono piccole male intelligenze che si finiscono con una parola fra buoni amici. Onde non se ne discorra più.

Ho ricevuta la tua cambiale di Lire Tornesi 1172.14.9. Caro amico, provo un vero rimorso di esaurirti in tal guisa. Ti porto via il frutto de’ tuoi sudori di un anno. E per far che? per divertirmi. Tu t’annoi delle ore in Consiglio e nella Ferma; hai mille disturbi; travagli come un drago al tuo tavolino, ed io devo godere il tuo salario? E quando e come ti potrò io pagare? E come tu pagare alcuni tuoi debiti? Questo è lo stato dell’animo mio, fluttuante tra il piacere di veder Roma e Lungo e, più di tutto, di fare un confronto della mia condotta, umiliante per Beccaria, e tra il rimorso di aggravar ti di spese in una maniera che mi pare assolutamente indiscreta. Intorno a questa cambiale ho disposte le cose in tal modo. Mi sono servito di quella che hai spedita a Frisi di 40 Zecchini, i quali ho riscossi, non avendo ne egli bisogno. La cambiale dei cento zecchini te la rimando per mezzo di Frisio, ed in ciò non hai che d’avvertirne il Sig.r Tanzi. In tal maniera non si butteranno al vento cinque zecchini. Noi partiremo, come ti ho scritto, il giorno 16. Giorno più giorno meno, non conta. Ti scrissi già il mio itinerario. Vedi se l’uomo è pazzo? Tornerò in mare da Genova a Larizzo. Ma quello è un mare da ragazzi, perché si va a remi e si costeggia. Il diavolo sono quelle vele che vi portano dove vuole il vento. M’intendo un poco di marina ed ho delle grandi arie per esser stato in borrasca. Su questa mia navigazione sta’ pure tranquillo, sulla mia parola. Mi pare di esser dottorato in acqua come in gius civile. Adesso che l’affare è passato ho gusto di aver veduto anche questo fenomeno.

Tu mi parli di vederti alla Stradella. Io lo desidero quanto te. Non saprei se questa fosse la strada per andare a Genova. In ogni caso la partita è fatta e ti abbraccio anticipatamente. Vieni coll’Ammiraglio delle battaglie nevali, il caro Luigi. Desidero di abbracciarla. Ti darò l’avviso del giorno da Torino. Non ho ancor parlato a Frisi, non so se la Stradella sia dentro o fuori di strada, ma so che ti voglio vedere e tanto basti. Ti raccomando quanto mai posso il segreto in quest’affare. Non dire ch’io venga tampoco a Torino. Se mai si trapellasse da mio Padre che ti vedo e che lo fuggo, non vedi che preferenza e che ostilità? Caro amico, stiamo sodi in questo punto. Non parlare ad anima vivente. Colora la tua partenza meglio che puoi. Inganna chicchesia, piuttosto che far una confidenza che mi sarebbe dannosissima. Non mi posso giustificare avanti di nessuno di esser venuto vicino a mio Padre 30 miglia, dopo di esserne stato lontano qualche centinaia per sei mesi, e di sfuggire da Lui come dal fuoco nel tempo che vedo un fratello. Caro amico, entra, ti prego, nella importanza di questo segreto. In tutta la serie di questo mio viaggio voglio che il torto sia affatto dalla parte di mio Padre. Questa circostanza basterebbe a giustificarlo. Gliela forniremo noi? Spetta adunque alla tua consiglieresca prudenza a disporre le cose in modo che il nostro congresso sia occultatissimo. Se vuoi che venga solo, è sempre meglio. Non ho finora detto nulla a Frisio.

Manderò a Londra le liste de’ libri di D. Antonio e del S.r Agnelli. Vedremo la risposta. Ora vengo ad alcune cose mie.

Secondo i suggerimenti di Luigi ho fatto in due giorni il giro delle case di campagna ne’ contorni di Parigi, come a Marly, Versailles, Trianon, S.t Cloud, Bellevue, Meudon. Io ho fatto questo giro da capuccino col mio buon Fiamingo servitore. Andai alla macchina di Marly con una vettura, poi di là a Marly, che vi sarà un miglio, e poi di là a Versailles, che vi è una lega a piedi, poi di là in una vettura a Parigi. Questa fu la prima giornata. La seconda fu tutta a piedi, a S.t Cloud, Bellevue, ecc., lo che formò il vago passeggio di sette brave leghe; mediante che non ho fatta gran spesa. Qui ci voleva Beccaria! Il mio Servit[or]e portava l’ombrella per tutti gli accidenti di acqua. Onde io me ne andava come un eminentissimo. Arrivammo entrambi in quest’alma capitale zoppi, io per essermi rotte le piante de’ piedi ed il serv[itore] per un callo. Pure zoppicando, io di più feci un passeggio nelle Tuilleries e poi, arrivato a casa, sortii nuovamente per comperare de’ melaranci sul ponte nuovo. Quanto a Compiegne, non è breve strada, essendovi ben dieciotto leghe, e quanto a Chantilly, venendo da Londra vi ho data una occhiata al chiaro della Luna ed anch’egli è distante quanto Compiegne. Queste non sono passeggiate, ma viaggi. Così pure a Fonteinebleu vi sono quattordici leghe.

Sono stato da M.r Bouffon. Egli è bell’uomo e molto pulito, ma ha una certa gravità letteraria ed ha una certa magistratura dell’Isteria naturale che non mi piace. Per altro è uomo di giudizio più di molti altri. Sta del partito della Corte, non fa gridare la Sorbona e l’Arcivescovo e gode le sue brave pensioni, e con esse una illustre fama letteraria. Egli capita dal Barone una volta all’anno.

Sono stato dal Presidente Hainault, il quale è un vecchio e rispettabile magistrato pieno di modestia e di dolcezza. Sta per dare una corretta e molto accresciuta edizione del suo abregé cronologique. Mi ha regalato il suo ritratto, che ti manderò assieme di quegli altri che ho potuti ritrovare.

Tu ti stupisci perché io non parli della mia Storia. Vi penso per altro qualche volta. Ma, in questo turbine di Parigi non avendo bisogno dei suffragi degli uomini come nella piccola mia patria, non m’interesso tanto per un’opera che forse me li può acquistare. Nelle città grandi l’animo è distratto, e le sue passioni dissipate non si condensano su un solo oggetto. Nelle città piccole e meno clamorose, dove né vi strascinano i piaceri né avete risorse incessanti contro la noia, si ha un bisogno infinito di stima e di autorità. Laonde, sieno questi sublimi princìpi metafisici, sieno altri, egli è certo che non sono più tanto innamorato della mia povera Istoria; salvo il diritto di tornarvi a pensare giorno e notte quando sarò ripatriato e che la sfera degli oggetti si restringerà maladettam[en]te, o che i frati, i preti, le monache e gl’Imbonati mi faranno disperare colle loro critiche e bestiali giudizi su un lustro di travaglio immenso. Morellet, a cui solo ne ho fatta confidenza, vuole che stampata che sia la metà gliela mandi, perché la tradurrà o la farà tradurre immantinenti.

M.r D’Alambert ci ha data una lettera per Voltaire: onde vi andiamo solennemente. Io però dubito che forse Frisio si muterà di parere. Egli teme Voltaire come un uomo pericoloso e teme che la minima proposizione non la stampi. Di fatti non v’è molto da guadagnare, per chi ha il suo abito, a discorrerla con un tal uomo. Ciò non ostante io in tal caso vi anderei. Non ti dar per inteso di questa incertezza di Frisio. Voltaire deve avere o scritto o stampato ultimamente che l’ecole de Milan fait des grands progrès, volendo parlare di noi altri. A proposito di tal uomo, ho sentito a dire a Londra ch’egli volle vedere tutto con somma curiosità e che per fino pranzò da solo a solo con un Quaquero per ben contemplare i loro costumi. Un giorno il popolo, conosciutolo per un Francese, cominciò, al suo solito, ad insultarlo nella strada. Voltaire, senza scomporsi, montò su di una panca vicina ad una bottega e cominciò la sua arringa ad populum, in Inglese, così: Gentiluomini di taverna, ascoltate la ragione; e seguitò facendo vedere quanto ingiusto ed inumano fosse l’usare queste durezze con un onesto forastiero, ecc. ecc. Che credete che ne succedesse? Tutti lo ascoltarono con flemma anglicana, trovarono che diceva bene, lo applaudirono e si disciolse la truppa. Così è l’Inglese, e ben lo conobbe quel finissimo spirito.

La nuova del giorno è che la Delfina sta molto male, che si sono ordinate pubbliche preghiere ed interdetti gli spettacoli.

Ieri sera fui a trovare una serva del Signore che non era indegna dei desideri d’un povero peccatore che avea fatte sette leghe a piedi. Ella avea la sua Sig.a madre o nutrice ch’ella fosse. Comincio ad accingermi alla celebrazione del grand’atto, e mentre stavo esaminando le fortificazioni mi scappò di bocca: amica, come stiamo di salute? La nutrice, ch’era nell’anticamera, sentito questo mio dubbio cacciò fuori dell’uscio vivamente la testa e gridò: Monsieur, je vous en repond, je vous en repond, e poi colla stessa vivicità ritirossi. Questo tratto mi ha fatta una sorpresa tale che ter patriae cecidere manus, e ho riduto per un pezzo. Per ultima instruzione di questo mio viaggio anderò dopo dimani da Mad.e Montigny, famosissima ospite di gallanteria, com’è noto.

Noi veramente partiamo il g[ior]no 16, come Frisio ti dice nella sua lettera. La diligenza di Lione è già incaparrata per quel giorno per i nostri due posti. Onde è sicura la nostra partenza. Ho fatto parte a Frisi del progetto di venire io alla Stradella. Non potevo fargliene mistero senza una ostilità; e poi, come nasconderglielo? In tal caso passo da Piacenza. Ma, vederci alla Stradella, ti replico, in ogni caso si vedremo. Sono contento di lasciar Parigi, quantunque debba dire con verità non esservi paragone fra questo mese che fui solo e quelle terribili sei settimane avanti l’andata a Londra. Ciò non ostante son troppo Inglese per amare Parigi. Posso ben dire di lasciarvi un buon nome e degli amici di cuore, io, ragazzo senza sentimenti e senza carattere, di cui non vale la pena di parlarne, laddove l’illustre Beccaria è partito ridicolo e disprezzato presso i suoi entusiasti medesimi. Giacché parlo di lui, ti dirò una cosa che sempre mi sono dimenticato. A Torino mi seccò moltissimo perché temeva ch’io parlassi del Conte Wasco, famoso allora ribelle della Corsica; ei tremava di avere dei guai colla Corte o di esser messo prigione come amico del Conte Wasco, e cento altre belle cose su questo gusto. E tutto ciò dove? a Torino, cioè la terza giornata del sempre memorando viaggio. Non essendo io impazzito in questa occasione sono positivamente inoculato di questo male, né più v’è pericolo.

Ho un Frate Francescano irlandese, perfetto onest’uomo, che m’insegna l’Inglese. Gli ho fatta confidenza della condotta di Beccaria, a cui pure insegnava l’Inglese; gli ho letto quanto dice di me. Vi assicuro che quell’uomo, il quale ha della stima di Beccaria, ossia l’aveva, si è messo in entusiasmo e senza complimenti lo ha trattato da birbante, ed è scandalizzato all’ultimo segno com’egli parli così di un uomo che tanto gli fu attaccato. Il buon Irlandese, che ha veduta la mia attenzione e compiacenza, non sa darsi pace del contegno di Beccaria e mi va raccomandando di non far scene e di non farne un affare cavalleresco al mio ritorno, essendo nella opinione ch’io non possa trattenermi e che il caso lo meriti. Ma l’ho disingannato. Egli in oltre mi ha fatto ricordare che, un giorno che Beccaria parlava della Apologia come se fosse sua, colla solita franchezza, si avide ch’ei non diceva il vero da alcuni tratti del mio volto, benché vedesse nello stesso tempo ch’io dissimulavo e tacevo.

Se il voto di Freron ti fa qualche sensazione io te lo trascrivo. Così egli ha giudicata ed annunziata la tua Felicità nel N° 30 del prossimo anno scorso. Se trovi che non dice benissimo, ricordati ch’è una gran lode in Freron un piccolo biasimo. Di Beccaria ha detto cento cose: l’ha chiamato le tendre amis des rompus et des pendus. In oltre, a proposito del suo linguaggio geometrico, non disse male che in quel libro si predica l’umanità come se fossimo tutti cannibali e, nello stesso tempo, con uno stile così scientifico come se fossimo tutti geometri. Anche lo stesso d’Alambert, nell’ultimo tomo de’ suoi Melanges, non lascia in una nota di dargli su questo punto la sua leggiera frustata. Frisio poi vi porterà il complesso delle critiche stampate contro i Delitti ecc.: esse sono di Freron, d’un Avvocato del Parlamento e di Monsieur Maltet, Presidente del Parlamento di Dijon. Quest’ultima è piena di urbanità e di forza ed è la sola che significhi qualche cosa. Ma tu stesso vedrai quanto è stampato, oltre a cento difficoltà manoscritte che Morellet ha consegnate a Beccaria istesso. Ti copio il giudizio freroniano per dirti tutto ciò che ti appartiene: Pensées sur le Bonheur, traduites de l’Italien. C’est le titre d’un petit brochure in d’environ 64 pages. L’Auteur commence par donner une idée de ce qu’il entend par le bonheur et par le malheur. La mesure de celui-ci consiste dans l’excedent de nos desirs sur notre pouvoir; pour etre heureux il faut retrancher cet excedent ou aujouter en proportion a notre pouvoir. L’egalité des deux moyens est absolument necessaire. C’est notre sensibilité qui fixe la somme des nos desir: le pouvoir depend des loix phisiques et de la volonté des ètres pensans. On etablit ensuite ces principes. Tous nos désirs tendent a fuir les maux et a nous procurer les biens, ecc., e cita sino alle parole: qui a pour objet l’augmentation de notre pouvoir. Quindi aggiunge il Giornalista vari altri pezzi e finisce per dire: Il y a de l’esprit dans cette production; quelquefois l’Auteur quitte le raisonnement pour se livrer a son imagination; en general ses reflections sont sages; il n’apprend rien de neuf, mais il presente avec boucoup d’ordre et de clarté des idées qu’on retrouve dans plusieur écrits, ou elles sont noyées dans des longueurs et souvent obscurcies par un appareil metaphysique. Questo è tutto quello che ne dice ed è tutto quel bene che ne può dir Frerone. Io ti dò tutto questo come una nuova che ti appartiene, sicuro che non ti farà né caldo né freddo. Volevo ricopiare tutto il foglio, ma era troppo lungo, e ti ho detto il sostanziale.

Bisognerebbe farmi il servizio di fare i miei complimenti alla Contessa e Conte Monti. Salutami gli Amici. Questa sarà naturalmente l’ultima che ti scrivo da Parigi. Addio: voglia mi bene. Sono il tuo.

Finita a un’ora doppo mezza notte. Vado a dormire: ma ancora due parole.

1. P. S. Cavaliere, ti abbraccio.

2. P. S. Fate anche un saluto di sbieco al lussuriosissimo Don Carlos. Oh, quello poi sarà sempre testa di lodola. Di cervelli leggieri non mi fido. Aggiungo una cosa. Sono obbligato alla Zia del fuoco con cui assume le mie difese. Ma non egli troppo ed inutile? ALESSANDRO

LXVI (40) A Pietro. Parigi, 15 Marzo 1767

Dimani parto con Frisio. Quanto al progetto della nostra entrevue Frisio ti scrive come vedrai. Tutto dipende dal tuo riscontro ch’io aspetto a Torino. Andiamo colla diligenza.

Morellet ti scrive e Frisio ti presenterà la lettera. Vedrai che pensa di Beccaria e che di te. Vi parla delle follies di Beccaria e lo raccomanda alla tua saviezza perché lo tenga in riga. Questa mattina fìnalmente ho aperto il mio cuore per la prima volta a Morellet, che trova molto equivoco il carattere di Beccaria e molto prudente la mia condotta. Ho fatta l’informazione della infinita serie delle sue pazzie con un certo giudizio. In somma l’Abbate si è posto in orgasmo al mio racconto e, se prima credeva Beccaria un pazzo, ora è all’orlo di crederlo un birbante. Gli ha fatta qualche specie la sua frase: i suffragi di Europa che tengo in pugno, ed ha detto che bisogna che li tenga molto stretti, perché alle volte scappano. Egli in somma ora risguarda quell’uomo come un da nulla che non farà nulla, come un pazzo e come un carattere strano ed equivoco assai assai, e tal sospetto egli mi ha detto che lo ebbe fino dai primi giorni che lo conobbe. Ora poi è tutto fuoco per i torti che mi ha fatti quel sublime pazzo e, quando l’ho messo al fatto di quanto attualmente dice di te e di me, è dato in escandescenza, ed il giovine Morellet, a cui ho fatta la stessa narrativa due giorni sono, fu così sdegnato delle infamità beccariesche che esclamò: ma cazzo, questo è un uomo da ammazzare! Morellet scrive anche a Beccaria, la sua lettera non ho veduta. Ma se la paragonasse alla tua, da quanto so, sarebbe ben mortificato. La mia discrezione, la mia pazienza, il mio silenzio colle pazzie dell’amico mi fanno risguardare da Morellet come un prodigio di saviezza. Nota bene che la lettera che ti scrive l’Abate è anteriore al discorso ch’io li tenni sul conto di Beccaria, svelandogli tutto l’affare. Onde conchiudi dal molto che ti ho già detto che quell’uomo, se ritornasse a Parigi, sarebbe sicuramente ridicolo e forse abominevole. Passiamo ad argomento più lieto.

Ieri sera fui finalmente dalla famosa Montigny. Ecco l’affare in breve. Si batte alla porta: essa si apre; montate le scale; trovate una sala, e tosto ci fanno venire 15 o 20 ragazze, più, meno, secondo che sono in libertà. Esse si sedono in circolo e vi si schierano sotto gli occhi. Scegliete, entrate nella vicina stanza e fate il fatto vostro. Date qualche cosa alla ragazza e 6 franchi ad una serva che vi fa lume e riceve il danaro per Madama. Le stanze sono molto proprie, le figlie ancora. V’è un’aria di regolamento grandissimo, e ’l tutto è sulla forma di un monastero, onde questi luoghi si chiamano couvents. I Fiaker vi conducono senza far difficoltà. Alcuni la fanno talvolta, e saranno forse i Fiaker giansenisti, ma i Fiaker molinisti vi menano a scaricare nella vagina quanto volete senza obbiezioni. Io ho trovato un Fiaker molinista.

La Delfina è morta.

Ti bacio, abbraccio e saluto un milione di volte. Contentati per questa volta di poco. D’Alambert e Morellet ci hanno date lettere per Voltaire. Siamo sicuri di ottimo accoglimento. Sono il tuo.

P. S. Riverisci la Zia adorabile. Saluta il caro Carli, Luigi ecc. ecc. ALESSANDRO.

LXVII (27) Al Fratello. [Milano,] 24 Marzo 1767

In risposta alla tua cara lettera del 13 comincio dal progetto di vederci a Casale, al quale bisogna ch’io rinunci perché partire senza che si sappia e dal Governo e dal Consiglio e dai molti della Ferma non è possibile; afettare mistero in casa sul luogo per dove parto e sul fine, ciò pure è impossibile; dunque le condizioni che vuoi non si possono ottenere; vedo che la tua delicatezza va a segno che non vorresti che nemmeno si sapesse che tu vieni a Torino: ciò non è spera bile, poiché dalla Francia non puoi venire in Italia altrimenti per terra senza passar vicino in qualche punto a Milano; io veramente t’avrei abbracciato pur volontieri a Casale, avrei conosciuto Cocconati e Ghisella, cento anecdoti avrei sentiti da te: sacrifico alla tua precauzione tutti questi beni; tu vuoi che nostro Padre non abbia motivo di rimproverarti cosa alcuna: questo tuo desiderio, il quale non impedirà mai ch’egli in tutta la sua vita rimproveri e te e gli altri suoi Figli, è un desiderio ch’io non posso disapprovare o combattere; dunque a rivederci a Giugno e a direi tutto allora in una volta. In conseguenza di ciò io non prevengo di nulla il Conte di Cocconato di quanto m’ha scritto Frisi, sarete a tempo anche da costì a farlo se Frisi solo lo vuole, tu te ne anderai per la tua dritta a Genova e Frisi verrà a portarmi le tue care nuove.

A proposito di te, io sono alquantissimo malcontento del S[enator]e Reggente: egli l’altro ieri a tavola, profittando dell’attenzione che gli faceva di pranzare con lui, ha cominciato a dirmi d’aver parlato col Sig.r Conte di Firmian, il quale gli aveva detto che sarebbe stato meglio, in vece di fare il viaggio d’Italia, andare a Vienna; nota che sono già alcuni giorni che stava spiritosamente mettendo in ridicolo l’Inghilterra, la Francia e i viaggi in genere, perché su i libri si trova tutto e perché le amicizie degli uomini di lettere sono inezie ecc., e simili bei propositi i quali provano la bestialità di chi lo dice e il desiderio suo di far passare me per un uomo senza testa, che senza testa dirigge, aiuta e fomenta una perdita di tempo da uomo senza testa. Con tutte queste idee in mente mi sono sentito veramente pieno di fiele al discorso tenutomi e glielo ho fatto rientrare in gola, poiché alla presenza di tutti gli ho detto che era troppo strana questa proposizione del S.r Conte di Firmian perché non sospettassi che vi fosse un equivoco, che il S.r Conte meco s’era mostrato contentissimo che tu facessi il giro d’Italia, ch’egli l’aveva approvato intieramente e che m’aveva soggiunto il suo pensiero di mandarti poi alla n[ost]ra Corte, ch’io gli aveva risposto che per assisterti a viaggiare per tua semplice curiosità e istruzione io aveva volontà e forza bastanti, ma che per darti i mezzi di andare alla Corte, questo non lo poteva fare che mio Padre e che, in conseguenza, questo e non altro può essere il senso della proposizione del Ministro. Allora il Reggente ha voltato le carte e, ritiratosi un passo, accordò che il Sig.r Conte aveva detto soltanto che dopo il viaggio d’Italia sarebbe stato bene di mandarti a Vienna. Queste bassissime chicane mi seccano veramente. Sul conto tuo dovrebbesi ormai tacere, perché quell’uomo, che ti ha fatto in tutto il gran regalo ultimamente di 30 zecchini con una cambiale, dovrebbe arrossire ricordandosi di te. Signor no, ne parla, con cento bestialità va dicendo alle monache che stai facendo gli esercizi spirituali a Londra, a Parigi; va lagnandosi perché abbia studiato la legge senza di lui, va in somma cercando di annerire e avvelenare tutto come lo dev’essere il suo cuore, se pure ne ha; io sono seccatissimo veramente.

Di Beccaria non ne so più nuova poiché dal battesimo della Isimbardi a questa parte non l’ho più veduto, credo ch’egli non oserà più venire da me; so per altro che Annibalino declama contro di me e dice che non sa intendere come il Marchese e la Marchesa permettino ch’io tratti sua sorella, che essa perderà il credito per trattarmi, che il mio cattivo carattere è stato pienamente conosciuto dal Marchesino e da sua moglie; questi sono i tratti che escono da quella compagnia. lo ho piacere che Morellet gli scriva, vedrà con ciò che non v’è cabala alcuna intermedia fra lui e gli enciclopedisti e naturalmente conoscerà qualche diversità nell’entusiasmo dalla lettera istessa.

L’affare del Radaelli alla Corte ora è perfettamente finito; colle lettere dell’ultimo ordinario si sa che la Padrona è convinta della impostura grossolana che pure s’è lasciata sul tapeto da Agosto a questa parte; que’ due birbanti meriterebbero almeno un pubblico bando da Vienna, ma non l’avranno, per la troppa dolcezza della Corte.

La Somaglia è a Orio e le ho ricopiato il tuo paragrafo per lei; vedi se so far bene ogni ufficio per gli amici; farò di tutto, ma pensa a lasciarmi stare una persona sola al tuo ritorno, va’ a fare il toppè a’ Cardinali, sfògati ma lascia poi stare il mio, perché mi daresti troppo dispiacere e san sicuro che il mio Alessandro non me ne vuol dare.

Lungo fa continue interrogazioni alla Somaglia sul tuo arrivo, tempo e intenzione, se vuoi essere nel gran mondo ecc. ecc.; cento volte gli si è risposto di no su quell’ultimo articolo, che vai a Roma per vedere quello che merita la curiosità d’un galant’uomo, antichità, architettura, fonzioni pubbliche e qualche uomo di merito, se v’è, e qualche ragazza; io torno in quest’ordinario a ripetergli la lezione e il tuo arrivo lo fisso a un di presso per la fine di Aprile. A Aubert ho scritto che t’aspetti verso il 10 o 12 d’aprile e che tenga pronto un torchio, se può, perché tu veda cominciare sotto gli occhi tuoi e siena pronte le osservazioni. Molte lettere dovranno fare un giro, in questo tuo viaggio; la prima che ti scriverò sarà a Genova, l’altra a Livorno, poi a Firenze, e sarà bene che dove arrivi a buon conto tu mandi alla posta: è più facile che le tue lettere venghino a me che le mie alla tua mobilissima persona.

Ogni cosa è accomodata in casa di Frisi, t’assicuro che que’ buoni giovani mi hanno mosso veramente il cuore; sai tu qual sentimento si sia in essi sostituito al primo d’irritazione? Il dispiacere d’aver ragione e il dolore che il nostro amico, conoscendo le loro giustificazioni, non ne avesse troppa inquietudine; io ho parlato ad essi assicurandoli di tutta la persuasione e cordialità di D. Paolo, essi ringraziano lui e me e l’aspettano a braccia aperte come la cosa più cara che hanno al mondo, come l’uomo che amano, onorano e rispettano sopra ogni altro. Questi sono i veri loro sentimenti che comunicherai al caro amico, troppo cauto e discreto nel non aver voluto fare alcun uso della mia amicizia: ma al suo arrivo voglio e pretendo che me ne faccia riparazione. Abbraccialo caramente in mio nome e digli che appena giunto mi faccia avvertire, ch’io verrò da lui, sono impaziente di abbracciarlo.

Lungo ha trasmessa la Carta Topografica con cui tu potrai nel deserto di Roma trovare la sua tana, ed io te la invio.

In questo punto ricevo la tua carissima del 15 con quella di Frisi. Per il rendez-vous di Casale non ne facciamo altro per le ragioni già dette. Aspetterò che Frisi mi dica dove vuoi la cambiale, se a Livorno o come, per prontamente spedirla. Mi hai veramente consolato colla notizia di esserti aperto con Morellet sul conto di Beccaria: hai fatto benissimo, colui se lo meritava. Egli avrà persa l’opinione in pena d’aver persa la morale. Addio, caro, amami; a rivederci a Giugno. PIETRO.

LXVIII (41) A Pietro. Lione, 23 Marzo [1767]

Siamo arrivati il ventuno, partiamo il venticinque. Siamo alloggiati colla maggiore possibile ospitalità in casa dell’Avvocato L’Oiseau, che già fu parimenti ospite di Beccaria. Di lui dice quello che ne dicono tutti gli altri, cioè essere un pazzo con cui non vorrebbe vivere per tutto l’oro del mondo. Anche Madame la Sale, che lo conobbe, pensa l’istesso. Ella e l’Avvocato vennero con lui da Parigi a qui ed hanno infinitamente sofferto per tutte le sue stravaganti inquietudini. Ne avrete il dettaglio da Frisi e da me nel nostro abboccamento, che sempre ritengo debba succedere a Casale, non avendo contrario riscontro da voi a Torino. Ivi, cioè a Torino, saremo il giorno 31 del cor[ren]te, e di là accomoderemo il nostro congresso. Da Genevra non si passa più. Dalle più esatte informazioni ricaviamo che non vi si può andare, stanti le presenti turbolenze, senza un passaporto del Re di Francia. Mi rincresce, ma vi vuol pazienza. Ti prego portarmi i miei abiti d’estate. Ho scritto al Bertina che, ricevendo lettere dopo la mia partenza, le rimandi a Milano a te. Te ne prevengo e potrai portarmele a Casale. Ti abbraccio e aspetto con impazienza il momento di vederti facie ad faciem. Mons.r Sacco è malcontento di Beccaria, il quale è passato da qui senza vederlo. Il tuo ALESSANDRO.

LXIX (28) Al Fratello. Mil[an]o, 30 Marzo [I767]

Lungo scrive alla Somaglia una lunga lettera sul tuo proposito: egli è consolatissimo per il piacere che si aspetta dalla tua cara compagnia; si vede un uomo che ti ama e credo che ne’ suoi sogni vi abbia gran parte l’idea di passare il tempo col caro Alessandro. Lungo ti ha già disposto un letto ed una stanza nel suo quartiere dal curiale Cherubini, vicino alla Maddalena, passati gli Orfanelli e Piazza Colonna: vivere te dunque insieme anche a Roma. Ti avvisa di prevenirlo, se puoi, sul giorno preciso in cui arriverai a Roma, perché ti vuole venire incontro colla carrozza, e così schiverai tutte le seccature delle Dogane alle porte; ti avverte di non lasciare nel tuo baule libri del minimo sospetto perché sono severissimi quei revisori: se ne hai, ponitili in saccoccia, ovvero nella carozza di Lungo. Esso ti scriverebbe ma non sa colpirti dove sei, ti guarda come un uccello che si deve prendere al volo. Io poi, per i tuoi abiti da estate, sicuramente da qui a venti giorni te li darò a Roma per mezzo del Corriere Dell’Acqua, che vuole incaricarsi di portarteli; ed ecco fatte tutte le disposizioni domestiche che sono del giorno.

Quanto mi scrivi sull’eterno proposito di Beccaria dimostra rigorosamente che la sua pazzia exivit per omnem terram; egli è discreditato a Parigi, egli lo è a Lione: veram[en]te ha allargato il pugno e i suffragi dell’Europa sono svaporati. Si va ripetendo in paese che la cagione della rottura sei tu, poiché a Parigi cercavi di far credere che il libro dei Delitti sia tutto materiale tuo e mio, al quale non ha dato Beccaria che lo stile e l’ordine. Alcuni sanno ch’egli si volle apropriare anzi l’Apologia e lo dicono: fra questi ragionevoli v’è Anguissola, persuaso dal caro Luisino. Secchi è interam[en]te persuaso e mi è amico; Beccaria ha i suoi satelliti, Odazzi, Visconti e i due fratelli, nessuno de’ quali gl’invidio; ma il suo libro d’oro sicuram[en]te è chiuso. La Marchesina è talmente gravida che si vede all’occhio: essa non potrebbe essere di più di tre mesi e mezzo, computando il ritorno di suo marito, ma al volume pare di più; tutta la Compagnia Litta e Calderari, tutt’i nemici e del suo muso e del suo fasto e della cattiva sua educazione e del suo merito stanno col lunario in mano, pronti a calcolare questo parto, il quale, fissando il ritorno dello sposo ai 12 Xbre, deve cadere verso la metà di Settembre; eppure s’aspetta al principio di Agosto; che un uomo onesto e di merito abbia una moglie galante è cosa che non è strana e non pregiudica alla comune opinione; ma che un uomo abbia una moglie galante, di cui il pubblico sa ch’ei non può ignorare la galanteria, e presso la quale sta un giovane di cui le spese dispiacciono ai parenti, e intorno la quale vedesi una eleganza e lusso che eccedono le forze conosciute del suo stato, ciò pregiudica assai nella comune opinione e suppone mancanza di elevaz[ion]e e nobiltà ne’ sentimenti, la quale viene poi pagata col ridicolo e col disprezzo degli uomini, e in ciò s’uniscono i colti e saggi co’ volgari.

Io mi figuro che una delle cose che cercherai di sapere a Napoli sarà la storia del S.r Odazzi: egli ne ha detto così poco che ci dà diritto d’esserne curiosi, e chi sa cosa troveremo! Un giovine di merito che ha amici illustri in Napoli s’addormenta in Milano a fare il parasita di Calderari! Non cerca di sottrarsi da questa precaria situazione, non cerca o un collocamento ovvero di rendersi utile al suo generoso protettore e di guadagnarsi i suoi benefici! Ti assicuro che vi trovo dell’enigma, e forse tu lo scoprirai; avanti credere ad un Napoletano vi vuole molto, io pure sono del parere di Lungo.

È stata una disgrazia del tuo viaggio quella di non aver potuto vedere Ginevra né M.r di Voltaire, come m’immagino; questo celebre uomo ha stesa la sua beneficenza sino a Milano: M.r Jore, che disse tanto e tanto male di lui, ha ricevuto la gratificazione di 400 annui fiorini genevrini dalla borsa del Sig.r di Voltaire; ho letta la di lui lettera: si lagna delle strettezze sue cagionate attualmente dai dissidi di Ginevra, dove i suoi villani portavano a smaltire i viveri ed ora non lo possono per un cordone di truppe francesi postovi al confine: perciò tutto, in quel circondario di Francia, è nella miseria. Egli ha dovuto spendere per il matrimonio della nipote del gran Cornelio ed ora mantiene il marito, si lamenta d’un grosso numero di domestici che ha e del peso di mantenersi collo splendore che gli conviene; termina poi, con buonissima grazia, pregando Jore di aggradire il poco che fa assegnandogli quella pensione che vorrebbe poter accrescere. In somma è scritta assai bene e da Signore. Jore ora è divenuto il Panegirista del S. r di Voltaire, come fanno i pari suoi. Dopo il male che ne ha detto non poteva senza viltà accettare questo beneficio.

V’è una piccola novità politica ed è l’erezione d’un Dipartimento araldico, con un nuovo dispaccio con cui prescrivesi che nessuno che ha titolo di Conte o Marchese ecc., e non ha feudo, possa usare del titolo se dentro un dato tempo non acquista un Feudo; che tutti i Feudatari e le mogli loro siena ammessi a Corte ed ai Balli. Lo spirito di questa instituzione è di vendere una quantità di Feudi vacanti che sono in Camera: si pone un tributo sulla vanità, ma se ne diminuisce l’incentivo, coll’aprire l’adito così a chiunque e con poca somma; le Dame strileranno, le nuove dame soffriranno molte mortificazioni, sin tanto che, venendo un giorno la Corte, saranno naturalmente escluse.

Il nostro caro Secretario Corte è chiamato a Vienna per mettere ordine a quell’archivio d’Italia, commissione gelosa, dopo la quale difficilmente credo che lo lasceranno partire: ei però lo crede; io vedo quel galantuomo sopra una gran strada e vaticino che sarà in caso di giovare agli altri galantuomini e suoi amici.

Il Sig.r Conte Firmian giorni sono mi ha nuovamente chiesto di te e mi ha con piacere detto di aver parlato a nostro padre: vedi se la interpretazione del Sig.r Reggente è stata sincera! Ti dico, non per tua consolazione ma per tua notizia, che qui in paese tutti quei che parlano di te ne parlano bene, e che il tuo viaggio e la risoluzione con cui lo fai ti hanno conciliata la opinione.

La nostra nipotina Castiglione è stata posta in S.t Agostino; mi dispiace, perché serviva ad interrompere la solitudine terribile d’una cattiva famiglia, massimamente a tavola; credo ch’ella non si farà monaca.

Tutti stiamo bene. L’Isimbardi allatta il suo bambino, coraggiosamente e da buona madre; queste sono le poche nuove che ora ti posso dare. Una copia di questa lettera te la spedisco a Genova, ad ogni buon conto. Cerca le mie lettere a Genova, a Firenze, che ve ne saranno. Addio; t’abbraccio e sono il tuo.

Questa è una copia, l’originale te lo indirizzo a Genova, unito ad una lett[er]a per il Sig.r Pompeo Neri; a buon conto ti indirizzo questa a Torino. Addio, caro; il tuo PIETRO.

LXX (42) A Pietro. Turino, li 31 Marzo 1767

Arrivo in questo punto e ricevo la cara tua vigesima settima in data del 24 scadente. Ella mi porta l’amarezza nel fondo del cuore per il contegno di mio Padre. Ma me lo sono sempre aspettato. Tu sei in orgasmo, tu sei ammareggiato, questo basta perché lo sia ancor io. Dalle derisioni, per altro, e da tutto quel corredo di sempiterne ed immortali ostilità, io vedo che il Conte di Firmian sta nel progetto di mandarmi a Vienna. Appunto dal parlare e da’ sfoghi domestici io lo capisco. Di questo progetto io non sono persuaso, come ti ho già scritto. Che ne pensi, amico? Sei tu del mio parere? Dimene qualche cosa. Non è egli vero che il Conte può far la mia fortuna, se ha tante buone intenzioni per me, e che se fossi a Vienna dovrei venire a Milano per esser sotto i suoi auspici, come quello che è benissimo nell’animo di S. M.? Torniamo all’argomento importante. Tu ti ritrovi fra tuo Padre e fra Beccaria, e da una e dall’altra parte si urta e si commove guerra sopra guerra. Quanto a n[ost]ro padre, certamente non può lasciare di amareggiarti il suo discorso sul mio proposito, ma in fondo tu sei sempre in piedi: impiegato, indipendente, bastevolmente ricco e sull’ascendere a miglior fortuna; vox, vox. Il Diavolo è quanto a me, che non ho che speranze ed incertezza. Basta: vedremo se l’essere attaccato a Pecci comincierà a ripararmi da qualch’uno de’ continui morsi. Ho anche l’idea di succedere a Croce nella Cattedra delle instituzioni, in caso ch’egli venga promosso. Sono tutti progetti. Intanto io sempre più mi dispongo l’animo a quella cautela che m’impedisca di sentire in tutta la loro estensione queste domestiche vicende, perché esse son fatte per far perdere il giudizio e stancare la più robusta prudenza; ma forti in gamba, bisogna non perder mai il sangue freddo per esser buon soldato. Questa è quella condotta che ti ha finalmente fatto sopra nuotare a tante borrasche. Per me mi aspetto cose stupendissime quando escirà l’opera di Livorno. Sicuramente vi saranno tutti gli sbagli e le eresie dell’universo. Sento da te che mio Padre mi ha spedita una cambiale di 30 zecchini. lo non ho ricevuta, e ricevendola renderemo le grazie dovute a tanta liberalità. Bisogna che la lettera sia a Parigi, dove ve ne devono esser giunte 3 dopo la mia partenza, perché l’ultima che ivi ho ricevuta da te è segnata 23 e questa che ora ricevo è segn[ata] 27, dunque mancano le 24, 25, 26. Le avrai ancora a Milano, come ho pregato il Bertina di fare.

Quanto a Beccaria, ti ho tanto scritto che ne avrai bastevolmente per conoscere ch’egli ha lasciato da per tutto la fama di un pazzo e di un equivoco carattere. Lascia fare agli Annibalini, che se questa cabala cogliona non casca da sé mi lascio tagliare il capo. Ella ha per fondamento la falsità e la pazzia. Il Marchese e la Marchesa non ti faranno mai torto. I voti delle persone ragionevoli, de’ tuoi amici, di Carli, della Zia, di Corti, di Luigi ecc., sono decisamente ed arrabiatamente contro di Beccaria; dunque come può star in piedi questa cabala? La Isimbaldi e suo marito non sono in tuo favore? Dunque, qual vantaggio non hai sull’impostura destituita di soccorso? Sono, senza dubbio, maladettissime situazioni, ma in fondo hai cento compensi. I voti che ti premono sono in tuo favore e que’ del pubblico anche, di sopra più. Nella tua carica, ne’ tuoi quattrini (cioè ne’ futuri, non negli attuali, che hai sagrificati a me), nelle tue occupazioni, nelle tue fondate speranze, in somma in una costante superiorità e fortuna tu puoi trovare compenso a queste inquietudini. Ah, cazzo, viviamo! Andiamo un poco in collera, ma poi tiriamo dritto, mangiamo, beviamo, ecc. ecc.

Pazienza. La nostra assemblea di Casale è ita; pazienza. Io con Frisio per altro andremo ciò non ostante a Casale. Non allunghiamo la strada che di mezza giornata ed abbiamo il vantaggio di veder Radicati e Grisella e di viaggiare anche un poco insieme. Ho fatto leggere a Frisi la tua lettera. È commosso da quanto si passa nella nostra cordialissima Famiglia e da quanto si passa nella sua, ma di commozioni differenti. Fra due o tre g[ior]ni partiremo, lasciandoci a Casale, io per andare a Genova e lui a Milano. Avrai gran piacere di abbracciarlo. Egli è pieno come un uovo di notizie di Parigi, ov’è stato da Principe ed ha lasciato un nome qual pochi lo lasciano. A Genova, a Livorno, a Firenze e dovunque manderò alla Posta.

Per dirla, mi fa paura la inquietudine di Lungo, che sempre chiama e richiama se anderò nel gran mondo. Tem’egli di essere ecclissato? Cred’egli che Parigi e Londra m’abbiano alzata la vanità di un sol dito? Che gli passa per il capo? Sono così fortunato ne’ viaggi che temo di tutto, massimamente in materia di compagni. Ma spero che tutto anderà bene. Non mi ridurrò per altro in Roma ai soli archittravi ed alle ragazze. Qualche buona conoscenza e qualche altra ancora bisogna pur farla, per viaggiare con profitto e lasciare delle onorevoli ed utili corrispondenze. Io considero questo l’articolo più importante del viaggio. Per esempio, a Parigi, quanto non mi vale la conoscenza del Barone, di Elvezio, di Morellet e del Conte di Mercy e di Gatti, ecc. ecc., che tutti posso dire aver lasciati contentissimi di me? Così, a Londra, quanto non mi vale il March[es]e Caraccioli e ’l Dottor Morton, Segretario della Società Reale? Chi trascurasse di far simili corrispondenze viaggerebbe come un baullo. Sono sempre fili se non altro di qualche speranza e sempre di molta utilità, se non foss’altro per il sentimento gratissimo d’avere sparse sul globo delle persone che hanno qualche amicizia per voi. Credete, per esempio, che non vaglia la spesa di annoiarsi un poco presso di una bestia porporata per imporne agli uomini nocevoli? Le colonne, il Panteon, il Colosseo non fanno all’occasione nessun servizio. Mi piace assai il piano che Longo mi manda del suo quartiere. È una idea curiosissima. Non bastava forse dire il nome della Strada o quello della ubicazione?

Addio, caro amico: tu m’inspiri le tue passioni e mi ritrovo in qualche agitaz[ion]e per quelle istesse ragioni per le quali tu lo sei. Spero che questa mia ti troverà più in calma. Intanto lasciami dire, colla apostolica nostra libertà dell’amicizia, di guardarti che non ti facciano troppa impressione le dicerie che tendono ad allontanarti l’Isimbaldi. Ti conosco, adorato bene: ma hai troppo giudizio. Addio. ALESSANDRO.

LXXI (29) Al Fratello. [Milano,] 3 Aprile 1767

Gl’inviti di Moscovia per Beccaria si vanno sempre più realizando: ultimam[en] te è stato scritto al Greppi dal suo Negoziante corrispondente che, se il Mar[chese] Beccaria è l’Autore del libro dei Delitti, S. M. la Imp[eratric]e delle Russie lo vedrà con piacere e può essere sicuro che non perderà nulla per il viaggio, che poi a Pietroburgo si potrà discorrere sull’ufficio e convenienze che egli desiderasse, ma che in ogni evento non avrà a suo carico la spesa di questo viaggio. Chi scrive è un uomo denaroso e che potrebbe risponderne. A tale proposizione inclina Beccaria e, sebbene non abbia data risposta assoluta, credo che la darà per il sì. Bisogna aspettare il parto della sposa, la quale è cosa decisa che se si parte sarà del viaggio. Di più credo che vi sarà Calderari, per quanto ho inteso tempo fa. Ecco l’epoca, per i volgari, della somma gloria di Beccaria; ecco l’epoca agli occhi miei della perfetta rovina sua e della moglie. Io la credo tanto infallibile e forte che ne ho dispiacere. Sua moglie dovrà soffrire tutte le inquietudini e pazzie che tu hai provate; essa in Milano lo tiene nella subordinazione perché i mezzi sono in sua mano; essa qui non riceve nulla dal marito e gli dà qualche cosa e gli fa molto sperare; fuori di qui il protettore, l’astro, il cassiere diventa lui, al momento guarderà la donna come un peso, come una pianta parasita; naturalmente, avendo denari, diventerà geloso di Calderari, succederanno mille pettegolezzi in Polonia e nella Russia; a misura ch’ei diventa fortunato diventa tiranno, eccoti il fiele e la dissensione nel piccolo convoglio. Alla Corte, poi, che figura dovrà far Beccaria se te lo ripongono a scrivere il codice, come sento che voglia fare quella Sovrana: cosa scriverà? Ei scriverà i precetti per fare un codice ma non saprà certamente come cominciare per farlo; egli è un ballerino colla podagra che scrive un trattato sul ballo: se lo poni su un Teatro che figura ti farà? Io credo che le sue stravaganze fuori di patria non fossero altrimenti effetto della passione per la moglie, tu ne potrai giudicare meglio di me perché ti sono presenti tutti i minuti dettagli, ma a me pare impossibile che un uomo che lascia per più e più mesi intatta una giovane moglie ne sia innamorato. Né credo che un’anima d’un così basso livello sia capace di sentimento d’amore. Credo piuttosto che, pieno nel fondo del cuore di pusillanimità, di milaneseria e di simili analoghi sentimenti, penetrato dal bel detto se fa magher i verz via del verzée, pretestasse moglie, figli, amici, che lo richiamavano presso Padella ai Borsinari. S’egli era falso parlando de’ figli e degli amici, perché non lo sarà parlando della moglie? gli è attaccato, è vero, la cagione anche si vede; ma, ch’egli abbia amore per lei, io o non lo credo affatto, o poco. Se questo mio discorso cammina, dunque tutte le stravaganze nel viaggio di Parigi si rinnoveranno in questo più lungo e incomodo della Russia, dunque ei va a passeggiare la sua pazzia sino alla zona fredda, e ne lascerà una striscia sul meridiano. Sa il Cielo quante e quante bestialità hanno da succedere, il termine delle quali sarà poi il ritornarsene avvilito affatto. Più un imbecille viene riposto in alto e più vi sta a disagio e si scredita: tale è lo stato ch’io vedo il suo. La sola cosa ch’io vorrei sarebbe d’avere un corrispondente fedele e disapassionato che da Pietroburgo m’informasse delle anecdote di quest’uomo, del quale non so vaticinare niente di felice. Egli, cred’io, abbraccerà questo partito da disperato, troppo è mutata la sua situazione altrimenti, né sarebbe facile l’accomodarvisi. Io ti ho voluto scrivere tutto ciò perché tu me ne dica cosa ne pensi, tu che l’hai da vicino veduto ne’ lunghi accessi della pazzia.

In tal infinito proposito ti dirò che giorni sono la Isimbardi, informata dei discorsi infami che ha tenuto del mio carattere Annibalino, fratello del n[ostr]o Eroe, ha profittato d’un testa a testa avuto con lui per parlargli così. «Voi siete uomo onesto, conseguentemente non siete capace di calunniare. Avete sparlato del carattere di Verri; naturalmente non l’avrete fatto sulla fede altrui: le passioni, i capricci, gli errori degli uomini ci obbligano in ogni cosa essenziale di assicurarci da noi medesimi. Io credo Verri un onesto e virtuoso carattere, come tale lo risguardo; s’egli non lo fosse sarei esposta a pentirmene; prima che alcun disordine non accada desidero che voi, mio amico e fratello, mi apriate gli occhi e mi diciate un fatto costante il quale mi convinca; ho sempre un canto della mia mente riserbato per la verità, anche in mezzo all’amicizia; convincetemi, ovvero cessate di calunniare». A questo discorso sensato e detto pacatamente Annibalino non ha saputo rispondere che proposizioni vaghe e generalissime asserzioni, ch’io sono un cattiv’uomo, che sono stato conosciuto, che dovrà pentirsi dell’amicizia che ha per me, ch’io non ho amicizia per nessuno, che Visconti è un galantuomo, ch’ei non può dire di più, che le cose ch’io ho fatte non si possono dire e sorpassano l’immaginazione, poi piangeva, poi sospirava, poi baciava la mano alla sorella protestandole una somma amicizia, poi parlò sempre da vero fanatico, senza che mai se gli potesse cavare un’ombra d’un fatto contro di me. Vedi a che segno siamo e quanto debbono aver declamato que’ due coniugi onoratissimi e quell’onoratissimo don Peppe per inspirare in quelle anime innocenti e giovani un sì fatto fanatismo, degno della Santa Inquisizione. Io non degrado l’anima mia a fingere con questi vilissimi uomini; Visconti l’ultima volta che l’ho veduto mi è venuto all’incontro con un cara gioia, stendendomi la bella mano; io, come il Sig.r Tartaglia alla vista del figlio del Pantalone, sono stato contento d’un padron mio sodo sodo, duro duro. Oh, che birbanti! Oh, che feccia di gente! Caro Alessandro, che te ne pare, l’avresti tu potuto immaginare?

Sempre più ti confermo che in Milano si parla di te non solamente con approvazione ma con entusiasmo, si fa già comunemente il confronto fra te e Beccaria ed ognuno dice «oh, quello si è che ha avuto giudizio, quello è un giovane di spirito, quello fa onore alla Patria e tornerà pieno di cognizioni». Questo è il linguaggio comune della nobile metropole.

Ad[dì] 4 d[ett]o

Ho ricevuto due care tue lettere, una da Lione, l’altra da Torino. Mentre ti scrivo tu mi sei vicino quaranta miglia perché, secondo il computo fatto, sei a Casale, e ti vedo inpuntabile nel mantenere i tuoi progetti. Aspetto il caro Frisi con impazienza anche per sapere lo stato della tua borsa, che temo attualmente esausta, e per porvi immediato rimedio. Dalle ultime nuove Beccaria ha preso il partito di consultarsi col Sen[ato]re Pecci sul suo viaggio; so che Greppi gli ha parlato da onest’uomo e gli ha fatto vedere che l’incontro nelle Corti è opera del capriccio, che s’egli non l’avesse e ritornasse senza essere adoperato pregiudicherebbesi nella comune opinione. Non so più prevedere quale sarà la sua risoluzione.

Se Bertina mi rimanda le lettere io te le spedisco, e quella colla cambiale di nostro Padre la farò diriggere in vece in Toscana o a Roma, secondo il tempo in cui potrò averla. Qui a Genova ho scritto al Sig.r Valentino Rossi per la cassetta, puoi informarti se v’è nuova della nave Re Brittanico; ora che Costantino è impiegato nella Ferma come Ghelfi darò a Ghelfi da esitare quelle Mercanzie, lasciandogli un tanto per cento sugli utili: egli è onesto, disinvolto e farà bene i nostri affari. Addio caro, t’abbraccio e sono il tuo PIETRO.

LXXII (30) Al Fratello. [Milano,] 7 Aprile 1767

Accontentati di queste poche righe perché ho poco tempo. Sto aspettando Frisi a momenti, ho dati gli ordini ai confini e alle porte della Città perché le finanze dieno prove di rispetto al sapere ed alla virtù; sarò avvertito al momento del suo arrivo. Quanto non parleremo di te! Non abbiamo novità alcuna. Beccaria si è innalzato nuovam[en]te per l’invito di Moscovia, sebbene questo non sia autorizato dal nome o dalla firma d’alcun ministro. Egli, consigliato così da Greppi, è stato a confidarsi col Senat[or]e Pecci, dandogli commissione di parlarne a S[ua] E[ccellenza]. L’altro ieri e oggi va ivi a pranzo; tutte queste cose bastano a far di nuovo girare quella testa; egli ha parlato alla Somaglia del silenzio de’ suoi corrispondenti di Parigi, senza nemmeno sospettare che vi sia chi lo abbia conosciuto e perciò meno stimato. Anche l’arrivo di Frisi l’aspetta come d’un intimo e caro amico suo partigiano. Di Lungo parla presso poco altrettanto: un pazzo più sicuro non v’è. La Casa Calderari è in desolazione perché il viaggio non siegua, la Marchesa si teme che non ammali per il rammarico che prova nel pensarvi e Beccaria istesso va dando parte che, se va, Calde rari sarà del convoglio; l’opinione pubblica la va perdendo per ogni verso. Addio, caro. Ti scriverò a Livorno col primo ordinario. Addio. PIETRO.

LXXIII (31) Al Fratello. [Milano,] 10 Ap[ri]le 1767

Il giorno 7 è arrivato felicemente il nostro Frisi; ho avuto subito una lunga conferenza con lui, egli è stato dal Sig.r Conte Reggente e dalla Sig.ra Contessa dicendo loro cento cose sul credito del mio Alessandro, sugli amici rispettabili che s’è fatti, sulla opinione che lascia di sé, sul giudizio con cui s’instruisce di tutto; in somma egli parla in modo che fa piacere. Il Sig.r Reggente ha subito messo in campo il discorso della cambiale spedita (tacendo però la grossa somma di 30 zecchini) e afettava inquietudine perché tu fossi partito da Parigi prima ch’ella ti giungesse: darà ordine al Banchiere di pagartela a Roma. Frisi mi ha date immediatamente le carte e il caro Alessandro ha fatto passare alla Isimbaldi e a Pietro una serata graziosa anche lontano, perché una ad una s’è esaminata con moltissima allegria: Il mariage alla moda, Le ore del giorno e le due militari sono capi d’opera di poesia; le vedute di Londra mi hanno veramente data una idea della magnificenza e bellezza di quella Città: t’assicuro che non ho mai avuta tanta voglia di vederla quanta ne ho presentemente, ma desiderium peccatorum peribit. Ho ricevute le sabbie colorite e queste sole ho divise; le carte, secondo gli ordini tuoi, le conserverò tutte nella loro integrità; capisco che debbono essere preziose, a te singolarmente poiché ti faranno una dolce illusione, come il ritratto d’una persona cara; fidati, che le troverai tutte in mia mano.

Di tante e tante cose poi ch’io m’aspettava da Frisi sul proposito di Beccaria io non ne ho saputa nemmeno una: in generale so quello che m’avete scritto, cioè che ha dato in mille pazzie e a Parigi e a Lione. Frisi mi pare malinconico e disgustato della vita, parla degli Enciclopedisti come d’una Società di persone che studia poco, se ne eccettui D’Alembert, fanatici tutti contro il sistema a segno che sperano di distruggerlo prima di morire, gente fralle quali nessuno, fuori che Diderot, hanno letto l’Enciclopedia, gente esclusa da ogni buona compagnia di Parigi. Di Freron ne parla presso poco come se fosse diverso dagli Enciclopedisti soltanto per il partito, essendo egli alla testa del Clero; pare in somma disingannato del sapere umano, del pensare umano, della gloria, e tristamente sensibile ai piaceri della tavola, e non più. In somma, un uomo a cui resti ancora qualche avvanzo di entusiasmo per il merito e per la filosofia non se la può intender bene con Lui. Io gli ho esibito la mia borsa, immaginandomi che sia in bisogno, ma in vece mi ha pagati tre Luigi ch’io devo a te ed ha ricusato ogni soccorso. Lo vedo d’una precauzione e d’una cautela straordinaria; mi dice che sin prima della partenza egli aveva dovuto conoscere che Beccaria e sua moglie non avevano organi per l’amicizia, ma non mi dice di più. Anzi egli attribuisce queste tracasserie ad una cagione che non è né ragionevole né consolante, cioè alla frequenza colla quale ci trattavamo; che da essa ne possa nascere una sorte di tedio lo capisco, sebbene con te io veramente non l’ho provato mai un momento; che poi ne debba nascere un desiderio di calunniare e d’essere bassamente ingrato, io a dirtela non so capire, e credo difficile assai il capirlo; malgrado tutto ciò egli è buon uomo; lasciamogli le sue opinioni, nell’essenziale ei sa essere buon amico, ne ha date le prove, e tanto basta perché io sia sempre amico suo; ma quello che è certo si è che una mezz’ora di conversazione con lui basta a fare svaporare la gioia dall’animo di chiunque e a gettargli nel cuore l’angustia. Tutto è male, tutto va male, la ragione è una cosa ridicola in faccia agli uomini, la forza sola regola tutto e regolerà sempre: questo è il fondo del suo pensare.

Ho ricevuta la lettera per te del Marchese Caraccioli: l’ho aperta, credendola del Bertina con entro qualche mia di ritorno; te la trasmetto. Capisco come egli sia amico di Frisi: che diabolica maniera di pensare s’è mai introdotta, posso io credere che gl’Inglesi manchino di stima verso il profondo pensatore David Hume? Che hanno essi di meglio da citare al Tribunale d’Europa in favore della Ragione? Non si vogliono stimare che i fatti! Ho a vedere che si dimenticano che vi siano idee. Malgrado l’interesse degli uomini mediocri, i quali possono, se il vogliono, gareggiare con qualunque a fatti ma non a idee, né le idee utili possibili sono esaurite dalla mente umana, né cessa mai l’utilità di ripetere incessantemente molte idee già prodotte; le scienze dovranno dunque ridursi a un semplice catalogo, come la libreria dell’Abate Palazzi? Per gli uomini freddi, indolenti e mediocri, questa certamente è la più comoda letteratura, ma non è né la più rispettabile né la più utile all’uman genere, né la più degna d’un’anima grande. Dicano che vogliono, questi popolari letterati, ch’io guarderò sempre D’Alembert, Voltaire, Helvetius, Rosseau e David Hume come uomini d’un ordine Superiore e destinati a passare ai secoli a venire. Perché mai gli uomini savi e dotti non debbono trattar mai le materie della Religione: influisce ella negli Stati? Influisce nella morale e felicità del genere umano? Mi pare di sì, moltissimo; mi pare, di più, che nessun’altra serie d’idee v’influisca tanto quanto quella delle religiose; gli uomini savi e dotti, che altro possono essi co’ loro scritti, che rettificare e accrescere le idee delle menti umane e diriggerne la organizazione al comun bene? e perché non dovranno mai toccare il registro principale? Nell’Inghilterra tutto è tranquillo su questo punto, nella Francia non già; sarebbe ridicolo chi volesse predicare agl’Inglesi per correggerli dai vizi de’ Francesi, che non hanno; ma non deve un uomo ragionevole, perché sta a Londra, ridere d’un Francese perché cerca di migliorare la sua Patria. Dio mi guardi dall’approvare mai chi attacca la nostra Santa Religione; ma nemmeno approverò mai chi pretende che gli uomini saggi non l’esaminino e non ne parlino mai; per un privato, certamente accordo che è partito più saggio il non entrarvi; ma chi vi entra a toglierne gli abusi e le superstizioni merita lode, e per il suo Patriotismo e per il suo coraggio. Un Portoghese che scriva contro gli orrori della Inquisizione non deve far ridere un Italiano che sta a Londra, e ciò per la bella ragione che in Londra non vi sono gli Auto da fe. La Logica del tuo Caraccioli non è la mia né la tua; mi ricordo di quanto già m’hai scritto sul conto di lui. Sai, caro amico, che questi paragoni fra gli uomini sono consolanti per il piccolo nostro amor proprio. E Morellet, che mi scrive una graziosissima lettera che tu hai veduta a Parigi e mi rende i miei Manoscritti senza averli sicuramente letti e, per frutto di tant’anni di meditaz[ion]e sulle materie di economia pubblica, viene a dirmi che la intera libertà d’entrata e uscita da uno Stato d’ogni mercanzia è il sistema migliore di ogni altro per proteggere l’Industria nazionale! Abbiamo vicini gli Svizzeri, paese povero e industrioso, dove la mano d’opera è a bassissimo prezzo, nessuna manifattura nostrale potrebbe sostenere la concorrenza, nemmeno prima di staccarsi dal telaio in Milano, se non vi fosse un Tributo sulla Svizzera; il livello vi si porrebbe quando, colla libertà del commercio, fosse colato tanto danaro da noi ai Svizzeri quanto basta all’uguaglianza, cosicché, divenuto raro il metallo da noi come dai Svizzeri, la man d’opera fosse allo stesso prezzo. Non so se quest’effetto, che infallibilmente dovrebbe accadere, farebbe onore a chi ha sì lungamente trattato queste materie. Per altro io sono contentissimo dell’Abate Morellet e gli risponderò con mille espressioni: se le meritano il suo cuore e la stima con cui risguarda e te e me. Egli ti ha definito un giovane amabilissimo ed un savissimo uomo, rara combinazione: ed ha ragione. Unita v’è la cambiale di zecchini cento per Livorno, cioè pezze 246.2.9. PIETRO.

LXXIV (43) A Pietro. [Genova,] 7 Ap[ri]le 1767

Arrivo in questo punto. Mi sono diviso da Frisio a Casale, dove ho conosciuto il Marchese Cocco nati, uomo di vero merito. Ha poi una moglie oh Dio, che moglie! Non ho conosciuta Donna della giustezza sua. Ha molte cognizioni senza pedanteria, ha dell’ingegno senza pazzie, è semplice, è buona, è tranquilla; oh Dio, che moglie!

Genova mi ha sorpreso. Dalla parte del mare è superbissima. Credo che la nostra Italia vaglia assai più che non pensavo. Non c’è paragone fra le nostre città e quelle d’Inghilterra e di Francia. Veniamo a’ nostri affari.

Qui mi fermo due o tre giorni, poi m’imbarco per Livorno. Ivi aspetto la cambiale de’ 100 zecchini che, come ti avvisai, non ho riscossa a Parigi e che conservo per restituirla, se il Tanzi la vuole. In ogni caso mandi avviso al suo corrispondente a Parigi che questa lettera è nulla. Io aspetto adunque a Livorno senza fallo questa cambiale.

Ti ho parlato di tabacchi. Ora ti fa il progetto in breve. Insieme delle merci di Londra ti verrà una cassetta di mostre di tabacco, della qualità e prezzo come vedrai dalla lettera B, scritta di proprio pugno dal mercante che la spedisce. Ti mando anche la lettera A per maggiore informazione. Avverti che nella lettera A si parla di peso e moneta di Genova e nella lettera B di peso e moneta di Londra.

Il Marchese Cocconati mi ha di nuovo parlato con stima delle Meditazioni sulla felicità. Addio. Vogliami bene. Frisio ti porta tutte le nuove. Io, alquanto disossato dalla Bacchetta ed arrostito dal benigno sole, non ho gran facondia. Sono per altro alloggiato deliziosamente. Ho una terrazza sulla quale passeggiando vedo il porto e l’immenso mare, ch’ora mi fa piacere, e non vedo l’ora di essere in barca.

Giura il nocchier che al mare Non presterà più fede

con quello che vien dopo. Addio di nuovo.

P. S. Ho veduto ad Alessandria il P[ad]re Menriquez. L’ho trovato più freddo che non pensavo; né avea lasciata la Magistratura della Rettorica. È buon uomo, ma è mezzo pazzo. Ora me ne accorgo.

Il Dottore Bartoli, antiquario di S. M. a Torino, avendomi creduto l’autore della Felicità, mi ha abbracciato con entusiasmo. «Così giovine!», esclamò egli. L’ho poi disingannato.

Ricevo prima di chiudere la presente due tue carissime, 28 e 29. Ti saluto, e non ho tempo di rispondere. ALESSANDRO.

LXXXV (32) Al Fratello. [Milano,] 16 Aprile I767

Ho ricevuta la cara tua di Genova del 7. Conservo le liste dei tabacchi sin che sia giunta la scattoletta colle mostre. Sono inquieto sin tanto che non ricevo tue nuove da Toscana: quel maladetto mare non mi accomoda; spero forse oggi di riceverne.

Frisi è ritornato amabile; l’altro ieri ho pranzato per la seconda volta con lui dal S.r Conte Firmian; abbiamo avuto una lunga conversazione, lo vedo deciso a trattare con molta sobrietà il nostro pazzo cattivo. Ho letto la confutazione dell’avvocato del Parlamento: la trovo, in tutta la sua estensione, una bestialità: egli scambia lo stato della questione, suppone che il libro de’ Delitti sia una satira della giurisprudenza della Francia, e quando ha provato che nella Francia non v’è tal uso crede d’aver dimostrato che l’autore combatte una chimera. Sulla interpretazione delle Leggi, sulla Tortura e simili, l’avvocato si dimentica che v’è l’Inghilterra, la quale prova la possibilità dell’opinione dell’autore. In somma io trovo quella dell’avvocato una poverissima e imbecille Scrittura. La lettera poi al traduttore nel principio promette assai: stringendola, poco vi ho ritrovato. Qualche osservazione ragionevole vi è, e il punto più forte e filosofico mi pare sia quello: data la definizione della virtù nella benefica disposizione verso il genere umano, pare che se ne allontani chi condensa la compassione sopra una piccolissima parte di esso, nella quale si racchiudono tutt’i disturbatori del bene generale. Mi si dice che l’autore magnanimo stia coll’intenzione di rifondere l’opera: io costantemente credo che gli mancherà la lena e che quello ch’è fatto è fatto e non più; se mai poi io m’ingannassi in questo, non m’ingannerò certamente col dire che scriverà degli errori. Ti ricordi di quello squarcio di sofismi sulle accuse secrete? Le leggi dunque non lo difendono abbastanza, e vi saranno sudditi più forti del Sovrano, ecc. ecc.: così egli scriveva a Gessate, lontano da noi. Ma io credo che non scriverà. Egli compera libri a furia e pare che si allarghi nelle idee in questo genere; egli ha comperato il Glossario del Du Change, vuol comperare la Bibbia del Calmet, e se v’è già riempiuto il gabinetto di libri. Tutti lo vedono la mattina dal Libraro Francese a mercanteggiare per Calderari: pare ch’egli abbia per gloria di farsi vedere arbitro della borsa di quel giovine, egli compera per lui grossi pachetti di libri appena arrivano. La gravidanza della moglie è visibile ad ognuno e la reputazione di Beccaria è per la metà perduta e per l’altra pare che dorma, perché nessuno gli abbada o parla di lui.

Un’altra bestialità è vicina a succedere e sarà la bell’opera del virtuoso D. Peppe Visconti. Egli vuol dare alle stampe le sue scoperte ottiche e su i Barometri, con calcoloni sterminati per i quali Galeazzi sta fondendo le ciffre. Frisi mi assicura che colui non sa un principio di calcolo né di Aritmetica: si farà un bell’onore.

Beccaria risponde quest’oggi all’invito della Moscovia in questi termini, ed io ho veduta la lettera a Greppi: ch’egli è dispostissimo a venire a’ piedi della Clementissima Sovrana delle Russie anche come semplice viaggiatore; ma che, essendo figlio di famiglia, egli non può intrapprendere questo lungo e disastroso cammino se la beneficenza della Sovrana non gliene dà i mezzi. Ch’egli ha una moglie giovane che non può lasciare in Patria, ed ha già parlato al Governo per ottenere la permissione della Corte. Non vi farò comenti: tu ve ne puoi fare.

Oggi arriva la nuova della espulsione de’ Gesuiti da tutt’i regni della Spagna clamorosamente eseguita, forse a quest’ora si saprà anche in Toscana. Si dice cosa confermata da tutte le lettere di Genova e circostanziata. Frattanto il P[adre] Melzi dà alla revisione delle stampe, per le nuove leggi della confraternita della Missione, nelle quali si prescrive una perfettissima subordinazione e ubbidienza de’ congregari al P[adre] Missionario, a cui dovranno ubbidire come a Dio medesimo. Vedi che furbo che è quel P[adre] Melzi!

La Marchesina Crivelli è stata assai male, ora è fuori di pericolo; t’assicuro che sono stato assai inquieto per lei. Il Conte Scotti figlio è morto di febbre. Queste sono le nuove fisiche; delle politiche v’è poco: il March[es]e Colla è fatto Consigliere e capo della Cancelleria segreta con accrescimento di soldo. Il nostro segretario Corte, non so se te l’abbia già scritto, è chiamato con un dispaccio assai onorevole alla Corte per adoperarlo in quell’Archivio. Io prevedo bene e per lui e per gli onesti uomini in questa destinazione.

Mi figuro che tu sarai tutto nella tua Storia, e sono impaziente di sapere cosa pensi delle annotazioni fattevi e dello spirito toscano. Amami sempre. Ricevi i saluti de’ Fratelli, di Luisino, Carli, Secchi, Castelli, e del S.r Conte Firmian, che particolarm[en]te me lo ha incaricato. T’abbraccio e sono il tuo PIETRO.

LXXVI (33) Al Fratello. [Milano,] 18 Aprile 1767

Il giorno 22 di questo mese parte il Sig.r Dell’Acqua per Roma e ad esso ho consegnata la scattoletta che ha i tuoi tre abiti da estate ben imballati; il g[ior]no 29 o 30 sarà dunque in Roma: io gli ho fatto il ricapito al M[arche]se Lungo, presso la Maddalena passato gli Orfanelli, con tutto quello che segue; se mai al tuo arrivo non la ritrovi, falla cercare all’albergo de’ corrieri milanesi, che è notissimo.

Aspetto di vedere qual sensazione ti farà Roma, ancor grande e magnifica ne’ sassi e piccolissima nelle teste umane che vi abitano; non so se io debba le mie idee quali sono al tedio del Collegio Nazareno, so che non vivere i in Roma a nessun conto per la memoria che me n’è restata.

Dal giorno 7 a questa parte non ho più tue lettere, ho bensì tue nuove perché il Sig.r Celesia ha scritto da Genova il tuo arrivo: ti qualifica per un bel giovane e che rende ottimo conto del suo viaggio. Spero di ricevere oggi tue lettere, vorrei sentirti fuori del mare. Io continuo a indirizzare anche questa al nostro S.r Aubert, il quale saprà dove fartela avere se più non sei a Livorno. La prima lettera che ti scriverò l’indirizzerò a Firenze.

La nuova de’ Gesuiti è sicurissima, si sta aspettando altrettanto da Napoli; si vuole che siasi fatta insinuazione dal Re di Spagna anche alla Corte di Toscana perché si scaccino: se ciò è, ecco terminato anche questo lugubre imperio, e il P[adre] Porro e il P[adre] Melzi, col lor bravo collarino da Preti, a passeggiar per Milano. Queste sono potentissime scosse nella mente del popolo, ei vede fatto in polvere un colosso che gli pareva indestruttibile, dichiarati cattivi ipocriti quelli che lo guidavano; queste idee sono connesse ad altre, vi resta lo addentellato per nuova fabbrica; speriamo poco, ma non disperiamo affatto di lasciare i nostri eredi meno infelici di noi.

Non ho alcuna novità. Ricevi un abbraccio e un ricordo d’amarmi sempre. Addio. PIETRO.

LXXVII (44) A Pietro. Livorno, 13 Ap[ri]le 1767

L’altro ieri giunsi a Livorno. Venni da Genova su di un battello a sei remi. Io solo. Così era il Capitano di Nave, e faceva tutto a mio modo. Per altro il passaggio del golfo della Specia e, qui, le vicinanze del Porto, non furono senza de’ buoni soffi di vento. Già è destinato che non vada in mare senza qualche guai.

A Genova ho conosciuto il Marchese Agostino Lomellino, ex Doge e Senatore Perpetuo. Egli è un uomo di merito infinito, e già lo conoscete di riputazione. Mi ha ancora parlato delle vostre Meditazioni con somma lode, chiamandole estratto e quintessenza d’infinita lettura e filosofia. Varie altre persone a Genova credendomi l’autore di esse Meditazioni me ne hanno fatto i soliti complimenti, da’ quali ho dovuto difendermi.

Sono in casa del Sig.r Gius[epp]e Aubert, che mi ha sforzato ad esser suo ospite. Gran buon galantuomo, per verità. Peccato che ha il difetto di balbettare. Vi vuole un quarto d’ora ogni parola. La mia opera è in mano dell’Avvocato Baldassaroni. Avuti alcuni congressi con lui ritorno a scorrerla e poi la stampo. Saranno trenta fogli in quarto di stampa Algarotti, e vi vogliono due mesi. A me basta d’incamminarla. L’Auditore Franceschini me ne parla con stima. Il suo voto mi fa piacere. Fra tre settimane vi sarà a Pisa il famoso gioco del Ponte, e vi sarà la Corte. Sono molto tentato di fermarmi qui sino a quel tempo. È rara questa occasione. Longo abbia pazienza. Intanto ricordati della cambiale de’ sessanta zecchini, supplemento de’ quaranta ch’ho già avuti da Frisio. Ritieni ch’io ho la lettera del Tanzi; la straccerei, ma non si sa mai, può venire una occasione, e prima di averne un’altra non lo voglio fare. Ti ho già scritto su di ciò più di una volta e siamo intesi. Sai che faccio questo giro di cambio per non perdere il cinque per cento. Se la cambiale di Parigi è nulla e me ne dà un’altra qui per Livorno, tutt’al più sarà l’uno per cento. Ecco il nodo dell’affare.

Guasco è qui. Si guarda bene di andare a Torino. Suo fratello è in Castello.

Addio, amico cariss[im]o. Saluta Frisio. Digli che ho veduto Pigni, Gentili, e che vedrò gli altri. Ho mandato alla posta e non ho trovate tue lettere. Saluta gli miei amici. Ti abbraccio. Scrivo questa lettera nella Dogana di Livorno perché a casa sono sempre disturbato da visite. ALESSANDRO.

LXXVIII (34) Al Fratello. [Milano,] 22 Aprile 1767

Gaudete et exultate. Aleluiah! Aleluiah! Monsignore, nostro amorosissimo Zio, si dispone a mandarti … indovina? treccento scudi romani, che riceverai in Roma. Ecco l’erario del nostro fedele aleato Alessandro, eccolo diventato quello del ricco Epulone; io te lo scrivo nel momento in cui ne sento la buona nuova da Monsignore medesimo, che m’incarica di dirtela; ma a condizione che non se ne parli e che quei di casa non ne sappiano nulla. In verità che questa nuova mi piace assai e che quasi mi pone in contraddizione e sul carattere di lui e sul voto ch’io debbo fare per te. Io sono per esempio doppio, ti vorrei presto con me ed ho piacere che con comodo tu impieghi i tuoi denari per divertirti ed instruirti viaggiando. In questa contraddizione non potrei scrivere che cose di poco buon senso, onde lasciamola là.

Ho ricevuto nuova dal Sig.r Valentino Rossi di Genova che la cassettina è in Porto e che presto me la inoltrerà. Io faccio conto di far esitare tutta questa mercanzia per mezzo del Ghelfi ed incassarne il prodotto per convertirlo immediatamente in saldare debiti; già sino al tuo ritorno non si può dare nuova commissione, frattanto l’esperienza ci proverà l’utile che si può cavare da questo commercio e, se farà bisogno di capitale per impiegarvi, lo troveremo subito. Che ne dici, non va bene?

Nell’ordinario scorso io t’ho indirizzata a cotesta Stamperia Coltellini una lettera di nostro Padre colla sua grossa cambiale di 30 zecchini; aspetto che mi renda quella di Tanzi per Parigi perché io gliela riconsegni e non resti fuori un duplicato.

Tu sei alloggiato dal nostro S.r Aubert: egli è il miglior galantuomo che SI possa immaginare, ti prego di riverirlo tanto tanto da parte mia; ti sarà comodo anche per la tua edizione. Cerca d’informarti del s.r Odazzi, il quale dev’essere stato alcuni mesi in Toscana prima di scrivere a Milano, e non lo dice.

Il Marchese Beccaria Padre ti saluta caramente: egli vorrebbe che tu cercassi qualche notizia a Firenze d’una famiglia, ed è Muzzi ovvero Mossi: da essa è uscita la madre della Marchesina sua nuora, ossia la moglie del Tenente Colonello Blasco. Vedi se me ne puoi dare qualche riscontro. Le mie seccature vengono a più alla volta: informati dal S.r Aubert se il S.r Dottor Manetti abbia ultimamente ricevuto dal corrispondente del Galeazzi il pagamento delle ultime sei dozzine di rami di uccelli speditemi per mezzo del S.r Cons[iglie]re Lottinger; sin ora io ho le prime otto dozzine, se ve ne sono delle altre proccura che mi si spediscano per il S.r Aubert, che ha la strada di Genova.

Tutti stiamo bene; aspetto tue nuove e della tua incominciata Storia. Gli amici tutti ti abbracciano. Addio. Caro. PIETRO.

LXXIX (45) A Pietro. Livorno, 15 Aprile 1767

Ho risolto di andare a Pisa pel giuoco del ponte. Da qui a dieci giorni circa ci andrò. Non ritardo la mia venuta a Roma più di una ventina di giorni da quanto doveva essere. lo stesso scriverò a Lungo.

Qui me la passo benissimo. V’è un numero considerabile di colte e buone persone e già mi accorgo che la Toscana è la miglior parte d’Italia.

La mia opera comincia a stamparsi sotto i miei auspicii. Sarà un volume di circa 500 facciate in -40 della stampa del Gazzettiere Americano.

Salutate il P[ad]re Frisio e ditegli ch’io vado disperatamente salutando tutti questi Signori, che tutti lo conoscono e lo stimano. Ditegli che ritrovo Filosofo a nativitate Franceschini, erudito Baldasseroni, ottimo Rothefort, misantropo ma finissimo Pigri.

Si dice – e per sicuro – che i Gesuiti siano cacciati anche dalla Spagna.

Quantunque la buona fede sia l’anima del commercio, ciò non ostante ella è assai decaduta in questa piazza, composta da una truppa di birboni che l’un l’altro si coglionano. Gl’Inglesi chiamano Livorno un nido di ladri. I fallimenti, le furfanterie sono incessanti. Pure, il commercio non decade. Così è anche a Genova. Ciò prova che tra certi effetti e certe cagioni alle volte v’è un gran spazio. Livorno è così piccolo come Monza, ma bello. Farà al più quarantamila abitanti. Questo numero, ristretto in piccolo spazio, lo rende popolatissimo, ed è uno spettacolo grazioso l’andare in via grande e vedervi Turchi, Capuccini, Arabi, Orientali e Barnabiti. È una mascherata unica!

Addio: ti abbraccio. Aspetto la cambiale, sia qui, sia a Pisa; indirizzala qui. Saluta gli amici. Il tuo ALESSANDRO.

LXXX (46) A Pietro. Livorno, 20 Aprile 1767

Rispondo alla tua del 10 andante. Il 25 vado a Pisa per il giuoco del Ponte, mi fermo otto giorni poi vado a Roma per Firenze, dove farò breve dimora.

Ricevo una cambiale di 100 Zecchini e rimando l’altra. Ma come va la facenda, amico? Non ti ricordi che ho già ricevuti da Frisio 40 zecchini? Te ne ringrazio, con tutta quella tenerezza e sentimento che danno i benefìzi a’ cuori ben fatti.

Che dici delle carte? Non sono esse bellissime? Mi piace che sieno di tua soddisfazione. Esse sono propriamente tue perché rappresentanti un danaro tuo e, quand’anche fossero mie, sarebbe lo stesso; ma ciò non ostante, in via di testamento arlechinesco, proibisco l’alienazione di questi beni usque in infinitum a maschi ed a femine.

Del nostro Frisio te ne parlerò in altra mia. Egli è venuto a Milano di mal umore, come in un paese di cabale e di cattiva gente. Non ha torto. Le ultime puerilità di Beccaria hanno finito di renderlo sopra pensiero. Terrà un tuono lugubre quale m’imagino ed avrà preso il partito di dir né bene né male di Beccaria. Quanto a ciò che dice degli Enciclopedisti, in parte è vero, in parte esaggerato.

Il Marchese Caraccioli ti farebbe perdonare le sue opinioni se lo trattassi. Ha un fondo di vero merito, con sopra due dita di lava del Vesuvio. Sai che di queste mescolanze se ne danno. Non ti pareva egli tollerabile il Marchese Visconti a Vienna? Caraccioli l’ho ritrovato pieno di cognizioni, di spirito, ma assai ineguale nella logica; di cuore poi eccellentissimo e buono, sino all’eccesso di lasciarsi coglionare da un uomo di spirito che lo prenda da quella parte.

Di Morellet, poi, sai che t’ho già scritto e lo confermo. Avrai per altro veduto come parla di Beccaria.

Il Dottor Cei, l’Innoculatore, mi ha parlato con molta stima di quanto tu hai scritto sulla medicina, gli piace assaissimo e desidererebbe che ti stendessi maggiormente sulla guerra che i cattivi medici fanno a’ buoni.

Il Dottor Pigri mi ha parlato della Novella Indiana come di una cosa che gli è moltissimo piacciuta. Così altre delle cose tue.

Il Saggio sul Galileo è ristampato in certa opera continente gli elogi de’ Scrittori Toscani e v’è una nota in cui si loda detto saggio ed il Caffè.

Giacché ho tempo parlerò di Frisio. Dalla mia esperienza così deffinisco il suo carattere. Ha un fondo di buon cuore, ma è vano ed obbliquo dove si tratti d’interesse. È capace, per politica italiana, d’ingannare il primo de’ suoi amici quando è questione di fare quello ch’egli chiama sua fortuna. Ha certe voltate e certe sorprese che sono inerenti al suo carattere che ha un lato, come dissi, di obliquità. Non lascia di aver della inimicizia col merito, perché la sua vanità è offesa da lui. Ha della buonomia che lo farà aver sempre degli amici, massimamente fra i ministri e gli uomini di mondo, perché questi sfiorano e non profondano i cuori. Facendo sembiante di esser superiore alle cose, è più minuto, più attento, più esatto di molti altri in tutti gli atti della vita, è fatto per umiliare gli altri colla negligenza e compassione colla quale giudica de’ studi e del merito; pure, nessuno fatica ed ha faticato più di lui, e nessuno valuta più i voti degli uomini. Adunque la sua virtù è il buon cuore, è sensibile; il suo vizio obbliquità. Voi ne avete qualche prova in occasione che venne da Pisa costì, e sapete come andasse tutta la cosa. Io ne ho avute delle altre, avendomi persuaso di cercare presso il governo di togliere al Collegio la cattedra d’Instituta, quando io gli facevo confidenza che la desideravo per la strada legittima, parlando prima a Croce ecc., come sapete; in oltre mi ha confessato che se a Pisa crescevano l’appontamento piantava Milano. In somma fa un gioco ed un’asta. Non v’è tutta la limpidezza e nobiltà possibile. In queste regioni non è amato e quasi tutti pensano di lui come io. Se i fatti che raccontano sono veri, provano assai la già detta vanità ed obbliquità che produsse poi l’inimicizia del merito e le sotterranee persecuzioni e cabale. Vi si aggiunge il tuono superiore e disprezzante che ha finito di disgustare. Io parlo chiaro con te, a cui non taccio nulla: non è solamente adesso che penso così di questo soggetto; molto prima avevo tali nozioni, ma confuse; ora qualche tempo di consuetudine mi hanno schiarite le idee. Onde per me sarebbe uomo di pranzo, di passeggiata, fino a tal segno ottimissimo; poi non esiggerei altro da lui. Vedrai che non sono in contraddizione. Non ti ho mai scritto grandi elogi della sua virtù. È bensì capace di far delle attenzioni e me ne ha fatte assai. Ora però che vedo ch’egli tiene un certo contegno di mistero con te, ti parlo chiaro, lasciando però che tu abbia la tua opinione su questo punto, e pronto a convertirmi. Ma ci vedo bene, ne’ cuori. Ho fatta una imprudenza, una sera a Aiguebelle nella Savoia, perché era ubbriaco, come soglio alla sera di spesso. Tu lo sai. Si venne in discorso, non so come, della figlia Somaglia; io diceva che sua madre faceva male ad offrirla sul bacile, com’ella fa, a tutti i giovani; e, non ricordandomi con chi parlavo, volete altro, gli dissi, ella ha fatto esebire un anello alla tale che sapete, se concludeva questo negozio, e soggiunsi: anzi, Beccaria ne fu piccatissimo. In vino veritas. Il momento dopo mi ricordai de’ nominativi e restai di sasso. Egli la portò con disinvoltura. Finisco e ti abbraccio. Il tuo A…

P. S. Ho una idea immatura, nella quale farò quello che mi consiglierai. Vi sono molte cattedre vuote a Pisa: dipende dal Presidente Neri l’averne una. Trovo di godere qualche stima per quanto ho stampato. La logica, la metafisica, la morale, l’ius pubblico e privato e criminale mi convengono e posso mantenere la parola. In Milano con mio Padre non si può vivere; è una ira eterna, è una immortale voglia di nuocere: guerra perpetua e crudele! Aspettare impieghi è anticamera lunga, e poi mi sento positivamente opprimere dalla idea di una spezie di schiavitù che mi toglie alle lettere, verso le quali mi sento rapire dalla inclinazione. Più vi penso, più vedo che la mia felicità è tranquilla vita, e libri. Dalle informazioni prese, con 100 zecchini di vestiario, con qualche aggiunta per le spese di servitore, ecc., che cessarebbero nella famiglia, con 150 scudi di pensione i quali anche in seguito crescerebbero, si vive discretamente bene a Pisa. Sei mesi dura la lezione: gli altri sei sarebbero di libertà per tornare a Milano. Mi tiro dalla famiglia, dove si sta fresco, non perdo gli amici. Un partito bisogna pigliarlo. Che ne pensi? Sono indeciso, ma vedo che dalla famiglia bisogna escirne: gli ultimi tratti paterni me ne hanno convinto dimostrativamente, ma dell’ultima conviozione. Non v’è partito medio. Tanto gl’impieghi quanto la famiglia mi faranno morire di noia e di rabbia. Non perdo il mio Pietro. Sono sei mesi di vacanza. È un progetto. Consigliami. Non mi piccar tanto su di un impiego nella Patria. Mi conosco. Non son fatto per gl’impieghi ed essi non mi faranno mai e poi mai felice. O negoziante o Lettore: sono i posti più liberi del mondo. I Frati ed i figli di famiglia dovrebbero sempre pensare ad una lettura. Ti abbraccio. Dimmi che pensi. Farò ciò che mi consiglierà il Consigliere del Supremo Consiglio. Sono tutto tuo. ALESSANDRO.

Vienna, Vienna e poi Vienna.

LXXXI (35) Al Fratello. [Milano,] 24 Aprile 1767

Eccoti acclusa la cambiale e la lettera del Zio; in verità che quell’uomo mi pone con questo tratto in una nuova contraddizione: che dirò di lui? egli quindici giorni sono a tavola faceva eco con nostro Padre per sostenere che sia ridicola cosa il viaggiare; ora ti scrive su questo punto da uomo ragionevole e discreto; egli è divenuto uomo generoso e benefico dopo sei anni ne’ quali pare che facesse studio di avvilire il merito e portare la sciocchezza in trionfo; egli ti fa un bene e un bene sensibile, e te lo fa con buonissima grazia: che partito deve ora prendere il galantuomo? Io ho preso questo, di dire l’atto onesto ch’egli ora fa, egli è giusto ch’io non lo defraudi della stima che concilia il suo fatto, e tacio sulla definizione di lui, la quale non può essere favorevole se prendo in complesso la serie delle sue azioni. Mi preme d’avere pronto riscontro sopra di questa ricevuta; sono privo di tue nuove dopo la prima del tuo arrivo a Livorno.

Il Corriere dell’Acqua è partito il giorno 22 per Roma con una scattola in cui sono bene impachettati i tuoi tre abiti da estate, essi saranno in Roma il 29 o 30 del corrente: vedi se faccio bene le tue commissioni!

M’immagino che avrai scritto a Lungo; egli è incessantemente occupato di te, ne scrive a tutti, ti aspetta con trasporto d’amicizia, è pronto a farti conoscere tutti quei che brami ed è persuaso che t’annoierai in due o tre conversazioni, tanto che le pianterai come fanno quasi tutti i forestieri, ed io credo che Così sarà, per la memoria che ho di quel paese; la Società milanese è molto più soffribile della romana: tu la proverai e ne aspetto la relazione. Per altro assicurati che non puoi temere in Lungo alcuna ombra di gelosia, egli ne è lontanissimo naturalmente e poi sta per abbandonare Roma per sempre, né vi ha alcun interesse.

Ho letto il Belisario, che m’è venuto in posta trasmessomi dal De Felice d’Yverdon: in paese ancora non v’è. Tutto in complesso è un ottimo libro, pieno di virtù robusta, di beneficenza e di umanità, tocca in alcuni tratti il cuore, teneramente; vi sono de’ difetti guardandolo come romanzo, poiché vi sono delle inverosimiglianze, più d’una; forse egli rende a un Principe troppo austero il dovere e perciò lo fa disperare di soddisfarvi, il che è un gran vizio; tutto insieme è un ottimo libro, lo ripeto e tale è il parer mio. Ne pensi tu altrettanto?

Frisi ti saluta caramente; egli ti dice che il Sig.r Duca ha parlato seco di te con molta stima; io ti replico quello che molte altre volte t’ho detto, cioè che tutto il paese parla assai bene di te, la tua risoluzione e la tua condotta ti conciliano l’approvazione d’ognuno; persino nella bottega del Chinetti ho sentito un panegirico del mio caro Alessandro; il suo corrispondente Baumgarter gli scrive un elogio, desiderando che i Cavalieri d’Italia che viaggiano ti somiglino in qualche modo, almeno per sostenere la reputazione nazionale. Sono già alcune settimane che non si parla più male di te in casa; questo lo attribuisco al mio allontanamento di venti e più giorni da tavola dopo il sciocchissimo discorso che hai letto a Torino nella mia lettera.

L’Abate non ha più che fare colla Spagnoletta: sai perché? Perché le ha presentato il Cav.re; egli ha avvertito che poteva sopra di lui quella figurina e che voleva non più vederla, l’Abate s’è ostinato a volere che la vedesse, egli di nuovo ha protestato d’innamorarsene e diventarne poi geloso; l’Abate s’è sottoscritto ad ogni condizione purché seguitasse; la profezia s’è verificata, il Cav.re è innamorato furiosamente, l’Abate sta lontano del tutto; io vedo che quella Signora ha molta bontà per la famiglia e, siccome i periodi suoi non sono molto lunghi, così m’aspetto che Alessandro al suo ritorno forse monterà la guardia; io ho toccato questa corda al Cav. re, ma non vuole scherzi: fra poco vi si accomoderà, ella è coquette e lo è apertamente; quando avrà conosciuto che non è possibile esservi solo non gli dispiacerà più che si parli d’un successore. Videbimus: ma questa commedia domestica mi diverte assai, tanto più che vi sono delle circostanze assai lepide, ch’io non voglio scrivere.

Addio, caro; scrivimi, amami, abbracciami M.r Aubert; ricevi gli abbracciamenti de’ tuoi amici, Luisino, Secchi, Corte, Castelli, Pecci, Carli, Somaglia, vecchi Beccaria ed Isimbardi. Addio. PIETRO.

P. S. 25 Ap[ri]le

Ricevo due tue carissime lettere in una volta de’ 15 e del 20. Fai benissimo a diferire in Livorno, avrai potuto incamminar bene il tuo libro, avrai veduto il giuoco del Ponte di Pisa, avrai seguito la Corte a Siena, dove vi dovevano pure essere cose belle, in somma hai fatto da uomo di giudizio anche questo. Ricevo la cambiale che mi restituisci del Tanzi e così è finito l’affare. Il carattere che mi fai del Geometra è somigliantissimo: io mi vi sottoscrivo interamente. Vengo al punto che più m’interessa, cioè alla proposizione della Cattedra di Pisa. Molte difficoltà vi sono. Primieramente la tua presenza è necessaria in casa, e per te e per noi; io, distratto dal mio ufficio, impaziente di certe fatiche, ignorante delle sottigliezze del foro, non sono in istato di difendermi dalle cabale essenziali che possono farsi nella sostanza del patrimonio; ho ragione di temere tutto: le lunghe dimore dell’avvocato Bizozero in archivio, il regalo clandestinamente e misteriosamente fatto a lui da nostra madre d’un tavolo eguale al mio, cento piccoli anecdoti in somma mi fanno temere delle occulte sorprese. Nostro Padre ha detto chiaramente ai due fratelli che s’accorgeranno un altro giorno il cattivo negozio che hanno fatto attaccandosi a me, e che gli uomini si comprano, e ciò contemporaneamente a i lavori che si facevano in archivio; viene supposto che alcuni acquisti sieno in testa di Monsignore; né Carlo né il Cav.re sono buoni a far argine alla espillazione della sostanza; io prevedo che si vuole impinguare nostra madre e nostro zio a spese nostre; vedi, caro Alessandro, che tutta la nostra difesa e la tua sono nella tua persona, e che la tua assenza, se accadesse qualche mutazione in famiglia, sarebbe un colpo fatale forse irreparabile. Tu non devi temere una cattiva vita abituale in casa; quattrini da spendere per i tuoi bisogni non te ne sono mancati, grazie alla tua saggia economia; meno te ne mancheranno ora che io sono comodo assai. Si riduce nelle 24 ore del giorno a una mezz’ora per adequato di vedere persone che non ci convengono; dopo il tuo viaggio tu imporrai indiavolatamente, siane sicuro; tu sei aspettato a braccia aperte da Peci, questo imporrà tanto più; il S.r Conte di Firmian t’inviterà a pranzo; una tinta di ministero l’hai subito arrivato, un fiscalato scommetto che l’hai quanto prima perché Peci lo desidera e il Governo è prevenuto per te; non è tanto l’amicizia per te che muova, quanto la persuasione della utilità d’impiegarti. Io queste cose le vedo così. Una discreta occupazione con Peci ti lascia luogo alla libertà delle lettere e poi, deposito per deposito, è meglio frattanto quello di Peci che una lugubre Cattedra nella solitudine di Pisa. Non ti fingere il diavolo più brutto che non è: dal tratto di Monsignore spontaneo vedrai se ne imponi e se s’avranno i risguardi che ti sono dovuti; sei o otto volte l’anno ascolterai delle bestialità, cospetteremo insieme, poi passa e si vive. Addio, caro. Amami, e lascia la risorsa di Pisa a un disperato, vieni vicino ai tuoi amici e ai tuoi interessi e vivremo bene e meglio che non hai fatto per lo passato. Addio. PIETRO.

LXXXII (36) Al Fratello. [Milano,] 29 Aprile 1767

Frisi, nella lettera che t’ha scritta ieri e che ti accludo, ti parla d’una baronata dell’Avvocato Dragoni: io te la voglio scrivere perché forse ne avrai curiosità. Il P[adre] Melzi, Gesuita Missionario, ha pensato d’erigere in corpo i coadiutori laici della Missione e, da Licurgo, ha scritte le leggi di questo corpo di cui egli è il capo. Fra queste leggi ve ne sono alcune comode assai per il capo, come quella che ciascuno de’ confratelli debba professare una cieca ubbidienza e subordinazione in tutto e per tutto al Padre ed eseguire quanto imporrà come se fosse la voce stessa di Dio che parlasse. Questo corpo di leggi è stato presentato all’Arcivescovo per la di lui approvazione, e nel memoriale destinato ad ottenerla diconsi i confratelli a’ Piedi della vostra sacra persona ecc. Con questo bel manoscritto il Reverendo è venuto alla revisione del Dragoni: esso ha ricusato il vidit ed ha consigliato al Galeazzi di ricercarlo dal P[adre] Frisi; il Galeazzi vi fu; Frisi, non trovando in questo Ms. altro se non quello che comunemente si pratica nelle altre congregazioni, vi ha fatto il suo vidit, e con esso ottenne dal Consiglio l’Imprimatur. Frisi non sapeva nulla di quanto s’era passato con Dragoni; eccoti allora l’avvocato che viene a fare il zelante e, in vece di dirne una parola a Frisi, va dal suo parente Consigliere Pecis, il quale riferisce questo disordine al Consiglio, ed eccoti, il Consiglio sequestra il Ms. che già s’era cominciato a stampare e si determina a innoltrarlo al Governo con una consulta; se io non v’era, la convenienza di Frisi era di mezzo, e compariva mancante in munere ed accusato da un Tribunale. Io proposi che si facesse scrivere da Frisi una lettera al Presidente in cui dicesse d’aver avuto questo Ms. alla revisione, non avere potuto negargli il vidit perché non v’aveva trovata cosa contraria alle instruzioni ricevute ma che, altronde, potendovi essere oggetti degni della superiore osservazione del ministero, egli ne avverte il Sig.r Presidente prima che se ne eseguisca la stampa; il mio parere prevalse e così Frisi compare salvo, anzi esattissimo nell’ufficio. Doveva Dragoni o tacere o parlare a Frisi; doveva Pecis, che da tanti anni dice d’essergli amico, parlare a lui prima di riferire al Tribunale; doveva il Presidente pensare anche da sé a salvare da una tracasseria un uomo finalmente di merito; in tutta questa serie di cose non v’è stato che il tuo Pietro che abbia fatto qualche cosa di buono, e per una straordinaria combinazione è stato ascoltato. Vedi per altro il profondo giudizio di quel frate Melzi! In questi tempi, voler nuovi laici che giurino ubbidienza cieca! Quello è un vero matto, e quando sarà il. Sig.r Abate Melzi, il che spero vedremo anche noi, allora lo conosceranno tutti, ma sin che ha quell’imboccatura di corno da caccia al collo pochi lo conoscono.

L’Abate Ferdinando d’Adda ha dato alla luce il suo secondogenito, ed è un Tomo in -8° di 535 pag[in]e. Il titolo è: Considerazioni dell’Abate Ferdinando Conte d’Adda sopra lo scritto che ha per titolo «Dei pregiudizi del celibato»; io ne ho fatto l’estratto; non dice nulla degli Almanacchi, né della Geltrude né dei Coppieri di Giove, ma ragiona al solito. Per provare che è bene che i Preti non abbiano moglie egli comincia dal provare che la filosofia è una cosa buona, che questo secolo è filosofico, che Società è una unione tendente a un fine, che la società ha diritto di tendere al suo fine, che perciò ha diritto di far leggi che vi. conducano, che la Chiesa è una società… Oh, non finirei mai più, ti basti sapere che nove decime parti del libro sono sciocchissime disquisizioni estranee al soggetto, la decima parte, poi, risponde male alle obbiezioni. Scommetterei nondimeno che in Roma deve piacere; vedrai che bestie vi sieno ad abitare la patria di Lucullo, d’Attico, di Cicerone e dei Scipioni! Ricordati di vedere il Collegio Nazareno, non perché meriti v’è la statua di Cesare per contro alla porta e una vasca nel giardino con rane, quest’è quello che v’è da vedere -, ma va’ in quel sapientissimo Liceo dove il tuo Pietro è stato giudicato un coglione senza nessun talento, va’ in quell’emporio di sapienza e di avvedutezza, tanto per poter dire d’esservi stato. Oh se sapessi le noie, le fatiche, le afflizioni che ho sofferte in quella casa; sono certamente i dieciotto mesi più terribili della mia vita che ivi ho passati.

Di Beccaria non se ne parla propriamente più, egli è circoscritto alla società della moglie, Cald[erari], Visc[onti] e i due Fratelli suoi e Odazzi: questi sei viventi sono il suo genere umano, col quale vedi quanto si debba divertire! Per lena di scrivere nuove opere, non è possibile che in quella società la trovi, e così eccotelo con gradi accellerati a ricadere presso poco nella oscurità che ben si merita la bassezza del suo cuore.

M’immagino che t’accorgerai d’una sensibile differenza fra la nazione di questa penisola e le altre di là dalle Alpi. Qui troverai molta malignità, molta impudenza, e tutte le tracce d’una nazione spiritosa, corrotta ed avvilita dai pregiudizi; l’architettura e la pittura in trionfo; ma l’arte di vivere, la educazione tendente a renderei comodi agli altri, la cura di compiacere all’altrui amor proprio non la troverai. Brama di vedere se tu sia del mio parere.

Colla rimessa che t’ha fatto Monsignore io già m’aspetto che non ti rivedrò tanto presto; t’assicuro d’una verità, ed è che almeno tre volte al giorno io ti desidero sicut cervus ad fontes aquarum: la mattina allo alzarmi, poi ritornando a pranzo, poi la sera; vedo che la perdita tua non è ripara bile e te lo dico con freddezza filosofica; il confidente dei miei vedovi sospiri è il nostro Domenico, buon uomo e che mi è divenuto caro dopo che sei partito: veramente se lo merita la sua attenzione, ma nei sentimenti che ho per lui credo che v’entri molto l’essere un uomo che ti appartiene.

A Napoli naturalmente vedrai l’Abate Genovesi; egli mi ha regalato la sua prima parte delle Lezioni di Commercio, stampate in Napoli due anni sono, bisognerà che gli scriva e lo ringrazi: vedi se ti vuoi incaricare di questa lettera, se no la manderò per la posta a dirittura. Così pure il Sig.r D. Giacinto Dragonetti, Cav.re aquilano, mi ha regalato il suo libro Delle virtù e de’ premi, il che è una imitazione stentatissima del libro Dei delitti e pene, pure bisognerà ringraziarlo e dirne bene. Credo che a Napoli siano teste curiose: tu me ne darai nuova. Frattanto abbracciami il mio caro Lungo, digli che ho letto quanto scrive sul mio conto all’Isimbardi, la quale ti saluta caramente, e digli che lo ringrazio di tutto il mio cuore del bene che le dice di me; io la onoro e la amo più che non vi so dire e più che non credete, aspetto dalla vostra amicizia che su questo sensibilissimo articolo non avrò mai amarezze. Addio, caro; amami e credi mi sempre il tuo PIETRO.

LXXXIII (47) A Pietro. Livorno, 23 Aprile 1767

Egli è dallo studio del dottissimo Sig.r Avvocato Baldassaroni che rispondo alla cara tua de’ 16 Aprile corrente.

Sento senza stupore tutte le vaghe operazioni del nostro autore. La risposta alla Moscovia produrrà l’effetto di porre tutto a monte. Si dà troppa importanza.

La nuova della espulsione de’ Gesuiti è certissima e v’è qui in Livorno chi ha veduto il decreto del Re di Spagna, anzi è venuto ordine all’Avvocato Baldassaroni, ch’è Sopraintendente alla Sanità, di non lasciarli sbarcare quando venissero: ed è ordine di Sua Altezza, come puoi ben pensare.

Tu mi chiami nuove dello spirito toscano ed io ti dico che finora ne sono contentissimo, che sono buonissima gente ed assai colta. Professo molte obbligazioni al Sig.r Avvocato, il quale mi va pelando da alcuni sbagli con buonissima grazia. Non è del mio parere sul poco conto che faccio de’ nostri Italiani e sull’entusiasmo con cui parlo de’ Francesi, ma non importa. Io non lascio la mia robustissima guerra che ho già solennemente dichiarata alla nostra mediocrità.

Oh, il P[ad]re Melzi stampa le sue pandette da confraternita; e la Spagna scaccia i Gesuiti: ed ardiremo poi dirci colti e chiamare Barbari gli Spagnuoli? Quanto a questa espulsione non aggiungo parola, perché le gazzette te ne instruiranno sufficientemente. Dopo domani vado a Pisa a mettere la mia coccarda di Sant’Antonio o di Santa Maria, secondo che mi verrà in capo. Non bisogna esser savio fra i matti.

Non è poi vero che sieno vacanti a Pisa delle Letture. Quando ve n’è una di vuota, corrono in folla co’ memoriali. Non ho per questo rinunziato a quella idea. Confabuleremo su di ciò.

Sono del tuo parere sulle scritture francesi contro dei Delitti. Credo di aver te ne già scritto. Se non che stimo qualche cosa più di te quella indirizzata al Tradutore. L’altra non vale un fico. È degna di un Beolchi, di un Croce, di un Ambrosis e di simili grandi uomini milanesi.

La mia Istoria comincia ad esser premuta. Oggi si è tirato il primo foglio. Porto meco a Pisa il Ms. per seguitare a dargli una ripassata.

Ho qui trovato il figlio dell’Avvocato Piombanti, il quale mi ha dimandate tue nuove.

Non ho lasciato anche in Toscana un colpo [due parole abrase]. L’altro ieri l’ho solennizzato passabilmente bene.

Ti saluto. Ho qualche rimorso di quanto ti dissi nell’ultima mia di un tale che sai. Mi pare che le sue attenzioni mi tolgano il diritto di pensare con certa libertà, e molto più di scriverne sul suo conto. Eppure i buoni guadagnano, i cattivi perdono coll’esame, onde stiamo sodi, se vogliamo aver buoni ed eterni amici e non esser la vittima del nostro cuore. Per me in queste materie voglio libertà di coscienza.

Addio: ti abbraccio. Non mancherai di umiliare i miei rispetti a S[ua] E[ccellenza].

P. S. Ricevo prima di chiudere la tua de’ 18 corrente: l’accuso e ti saluto di nuovo. ALESSANDRO.

LXXXIV (48) A Pietro. Pisa, 26 Aprile [1767]

Questa mattina sono arrivato. Farò una .scorsa a Lucca, poi Domenica ventura me ne vado a Firenze, dove sarò Lunedì.

Mi ritrovo in mezzo de’ pazzi. Non è credibile quanto faccia girare il capo a questi Pisani il giuoco famosissimo del ponte, che si celebrerà Domenica ventura con straordinaria pompa, per essere la prima volta che i Sovrani lo vedono. Te ne darò la descrizione quando l’avrò veduto. Per ora vedo coccarde a grandissimi nastri nel capello di tutti, secondo le varie squadre e partiti; le persone ben vestite e per fino gli abati hanno questa cresta nel capello, e sono figure veramente buffone. Si vedono tutto il giorno sventolare vesilli spaventosissimi dall’una e l’altra parte dell’Arno. In somma, immaginatevi un popolo di pazzi. E, se si volesse minchionare, se la prenderebbero in serio.

I Sovrani sono amatissimi e lo meritano. Sono di ottimo cuore: due angeli, due colombe. Non è vero quanto di stravagante si disse in principio sul loro conto. Il paese gli adora, e gli adora con tenerezza.

La correzione del mio Manoscritto e qualche piccolo ritocco che in questi pochi giorni di Pisa gli voglio dare malgrado tanti tumulti m’impediscono di scriverti a lungo, onde ti abbraccio, pregandoti di salutar Frisio dalla parte del Dottor Pigri. Amici ed amico, addio.

P. S. Anche qui varie persone mi prendono per te. Il tuo nome è conosciutissimo. Voi e Beccaria passate per i migliori spiriti d’Italia: se ne parla con vero rispetto, come ancora della Società del Caffè, della quale per altro siete considerati come capi.

Mio Padre mi ha consigliato di scrivere alla Sig.a Madre e Zio. Questo consiglio, unito a 30 Zecchini, mi ha fatto ubbidientissimo. Addio. ALESSANDRO.

LXXXV (49) A Pietro. Pisa, 1 Maggio 1767

Il giorno 3 è il giuoco del Ponte, onde tutti sono già pazzi; e vi sono tante pazzie da vedere e da fare che mi lascierai esser breve.

Sono stato a Lucca il giorno 28 del passato Aprile; non vi sono stato che poche ore e sono ritornato a sera qui a Pisa. Ho veduto l’esercizio militare di que’ Repubblicani, ch’è veramente un capo d’opera. Altro che Milanesi e Miliziotti e Modonesi! Non c’è paragone. Io ho dovuto andarmene perché creppavo dalle risa e temevo di perdere il rispetto a quella gran Repubblica. Mi sono incontrato altresì in un giorno nel quale il maggiore degli Arnolfini, stati già a Milano se ve ne ricordate, prendeva moglie. Confuso nella folla, ho avuta la consolazione di vederlo giungere alla Chiesa del Duomo con lungo stuolo di altri Signori e Dame, e con tutta quella pompa e gravità la quale si ritrova ne’ piccoli paesi. Parlano tanto del lusso di Parigi e ve n’è molto più in Italia. Singolarmente quanto al vestirsi e a certi apparati non v’è proporzione.

Che debbo pensare della generosità di Monsignore? Sento della gratitudine per lui, ed accidentalmente gli avevo già scritto quando ricevetti la nuova de’ 300 Scudi Romani.

Mi faresti un piacere di conservarmi una delle migliori catene di orologio da uomo di acciaro per mettere all’orologio di Beccaria che mi ha imprestato, avendo rotto la sua.

Sto rivedendo la mia Istoria la quale, con tua pace, meritava assaissimo questa riveduta. Ho levata la punta troppo acuta ad alcuni tratti contro il Pedantismo e contro gl’Italiani, massimamente nell’ultimo capo. I Francesi non mi sarebbero obbligati di tanto lodarli, e gl’Italiani mi prenderebbero tutti in quel servizio. Vedo come si pensa qui in Toscana e, se ho da proccurarmi i voti della Etruria, non bisogna offendere tanto il suo amar proprio. In parte anche aveva torto. Saluta gli Amici, ed amami. Non so se partirò per Firenze prima del 6. Difficilmente potrò prima. Addio, il tuo ALESSANDRO.

P. S. Salutami la Sig.a Zia e Carli.

LXXXVI (50) A Pietro. Pisa, 4 Maggio [1767]

Due righe, perché sono occupato nella mia opera. Sto bene e ti voglio bene. Ieri fu il giorno del Ponte, la di cui esatta relazione sarebbe troppo lunga. Se ne vorrai essere informato ho il libro che ne tratta, e le disfide e tutto ciò che appartiene a questa feroce pazzia. Ma qual pazzia! Uno è morto poche ore dopo, fracassato il capo dalle targonate, altri stanno male, altri furono feriti e si vide del sangue e degli orrori, cosicché la gran Duchessa non puoté resistere e si ritirò a mezzo il giuoco, e si spera che il Gran Duca toglierà finalmente anche questa ignominia al vituperio delle genti. Ne sono stomaccato ed amareggiato. Battersi come cani, rovinarsi, stropiarsi, uccidersi per una bestialità simile. E poi Homo est animal rationale!

Partirò, se troverò cavalli, che sono quasi tutti già destinati al servizio della Corte, il 7 o l’8 per Firenze.

Sono stato contento di Livorno: vi ho lasciati molti amici e sono buona gente. Di Pisa non saprei che dirne, perché in questo vortice non ne posso giudicare.

Ho veduto Soria. Ha pubblicati ultimamente tre volumi. Lo stimano tanto, ma non so che vi ritrovino di grande. V’è un dialogo tra un Inglese ed un Italiano che mi pare una bestialità.

Salutami Carli, la Zia, Corti, Luigi, ecc. ecc.; fa’ i miei abbracci e la mia apologia a tutti quanti, ed amami. Il tuo ALESSANDRO.

LXXXVII (37) Al Fratello. [Milano,] 9 Maggio 1767

L’altro ieri ho ricevuta la cassettina che m’hai spedita da Londra; sin ora poco posso dir ti sulla risultanza di questo commercio. Primieram[en]te ti avverto che v’è uno sbaglio nel tuo conto: tu mi poni totale ghinee 14.3.9 e rifacendo la somma trovo in vece che il totale è sterline 12.13.3. Ho voluto impazzire, perché ho cominciato a fissare il valore della sterlina: questa è lire milanesi 32.10. Dunque lo schilino sarà L. 1.12.6 e il soldo equivarrà a soldi due e 9 circa. Incordato così lo stromento, ho ricopiata la tua lista e tradotti i prezzi m moneta nostra; la somma mi risulta in lire milanesi 411.10.9. Ora, sterline 14.3.9 (quali sono la tua somma) darebbero L. 461.2.3. Trovando, dopo replicati conteggi, quest’errore di L. 49.11.6, m’è venuto finalmente in capo che la tua somma fosse fallata, e rifacendola ho veduto ch’io aveva fatta una dissertazione sul dente d’oro; ma contentati ch’io mi prevalga del nostro Ghelfi per terminare questa lettera. Dunque, tornando alla cassettina, ho trovate belle tutte quante le catene da orologio sì da uomo che da donna, e i prezzi di esse discreti. Le fibbie sì da colletto che da scarpe, per dirtela schiettamente, mi piaccion poco, e dubito che non ne caveremo il capitale. Sarebbe stato meglio prenderle d’acciaro. I bottoni anch’essi vaglion poco. Le boccale di granate sono assai belle. Le sei figuri ne d’orologio sono una buona mercanzia. Le forbici e i rasoi buonissimi. Per ora io non ti posso dire che il mio parere. L’esperienza c’illuminerà. lo ho consegnato buona parte di questo capitale al Ghelfi, che ti riverisce. Gli ho dati i prezzi originali e faccio a metà degli utili con lui. Questo è quanto ti posso dire per ora.

Sono vari giorni ch’io non ti scrivo, perché sono stato affacendatissimo a mettere in ordine il progetto sull’Annona, per la perfezione del quale il Governo va stimolando il Consiglio. Io son contento di quello ch’ho scritto. Ho trattata la materia nella sua ampiezza, ho cominciato esponendo il sistema attuale nostro, poi son passato ad esaminar la legislaz[ion]e de’ Romani e l’irragionevolezza nostra di averla presa per modello; in seguito ho esposto i vizi de’ Prammatici nella pubblica Economia; poi ho esaminate con qualche industria le cagioni delle carestie e i veri princìpi che dovrebber regolare l’Annona; ho aggiunte le autorità de’ più classici autori, le quali uniformemente sono del mio parere; ho aggiunto l’esempio costante delle Nazioni, dal quale provasi che la libertà e abbondanza, vincoli e carestie vanno a due a due. Ho fatto veder che tutte le modificazioni della libertà son cattive, perciò escludo magazeni, registri, notificazioni, ecc.; in somma io credo d’aver scritto più convincentemente di qualunque altro che ha sin ora trattato questo argomento e di essere andato forse più in là a priori. Cosa ne nascerà? Dopo molta fatica e molte vogature, un libro e non più. Vi vuol vigore e coraggio più che non ne abbiamo per preferir l’evidenza a radicati pregiudizi e il bene dello Stato agl’interessi di tanti Ministri, Ufficiali, dipendenti e Monopolisti che profittano del disordine attuale. Piaccia a Dio che, se viene mai a notizia del Pubblico questa mia fatica, io non debba ascoltare gli ululati alzarsi contro di me, come è accaduto quando ho commesso l’enorme misfatto di asserire che i Milanesi discapitavano nel Commercio. Basta: cabale e riguardi io non ne ho. Scrivo quel che penso, ingenuamente, per il servigio del Prencipe e per il bene de’ Popoli; mi basterà sempre la stima di qualche uomo ragionevole che per azzardo esamini questa mia scrittura.

Hai ragione d’essere sdegnato contro le pazzie de’ Pisani. Il Dott.r Soria a me pure è sempre parso un filosofo da madrigali: cioè per brevi lampi, non mai per un seguito d’un sistema; l’Apologia al libro di Beccaria me lo ha fatto vedere.

Aspetto che tu scriva a Monsignore una lettera dettata dal tuo cuore. Il tratto di lui è generoso e fatto nobilmente. Egli ritornerà domani da Rho e gli consegnerò la tua lettera. Nostro Padre credo che in quest’ordinario ti mandi il tuo semestre con qualche aggiunta, in tutto circa cinquanta zecchini; così nel viaggio d’Italia stai col tuo cuor largo, e ne ho piacere. Ricordati però in ogni congiuntura de’ nostri patti.

Ho piacere che tu mi tocchi alcuni punti della tua Storia, ma temo che non ti si attacchino dei rispetti umani vedendo da vicino, come ora tu fai, i pregiudizi dell’Italia; mi fido della tua anima robusta, che oserà dire la verità. La guerra ai Pedanti ed agli Irnmitatori è quella che ora si deve fare da chiunque ha cuore per i progressi delle lettere d’Italia. Amami e ricevi un abbraccio, e fallo al caro Lungo. Addio. Il tuo PIETRO.

LXXXVIII (51) A Pietro. Firenze, 10 Maggio [1767]

Alla lettura non ci penso più. Fiat voluntas tua. Un certo Abate Nicoli, che va a Parigi come Segretario di Legazione di questa corte, mi consiglia di andare a Vienna e di cercare, dopo un anno in cui impari il Tedesco, di essere mandato presso di un Ambasciatore come apprentif. Con pochi quattrini vi si può stare, perché l’Ambasciatore dà alloggio, tavola e carrozza; dice esser facile ottenere questa incombenza e che ne hanno anzi bisogno e la Corte e gli Ambasciatori. Ma non bisogna avere il capo di legno. Quest’Abate è di molto credito qui in Toscana, ed ha del vero merito e della pratica degli affari. Che ne pensi?

Fra sette o otto giorni parto per Roma, dove troverò i Gesuiti. Ci sarebbe mai un poco di persecuzione contro di loro? Tutti gli scacciano e nessuno prova concludentemente che sieno un ceto così terribile e velenoso. I Templiari sono un grand’esempio.

Longo mi scrive, e la mia robba è già a Roma.

Trovo l’Italia bellissima e non v’è paragone colla Francia e forse nemmeno coll’Inghilterra. Ma gli uomini vi sono tristi più che altrove. Il Francese e l’Inglese è più buono di noi cento volte; e per me vorrei che una nazione fosse composta di caratteri mezzo francesi e mezzo inglesi, e poi metterla in Italia. Allora sarebbe il più bel paese e la miglior nazione.

Addio. Non ho più tempo. Comincio a sentire il peso della posta. Mi lascio dietro molte corrispondenze, che mi fanno essere molto tempo con questa penna d’oca in mano. Addio.

P. S. Leggi, sigilla, rimetti l’acclusa al Sig.r Zio. Il tuo ALESSANDRO.

LXXXIX (38) Al Fratello. [Milano,] 16 Maggio 1767

Ti voglio dare una commissione presso la Santa Sede, e sia quella di ottenere che la facoltà di celebrar messa al nostro oratorio domestico, la quale ora è ristretta alle sole persone di nostro Padre e nostra Madre, s’estenda anche a noi fratelli; credo che facilmente potrai ottenere questa ampliazione, altronde per me comodissima, avendo sempre pronta la messa quando ne posso far senza, e non avendola mai quando ne ho bisogno. Proccura dunque di fare quest’opera pia e nel tempo medesimo portami un’indulgenza in articulo mortis, che mi sarà di grande consolazione spirituale massimamente nelle presenti afflizioni, mentre vedo i poveri Gesuiti tanto perseguitati e prevedo l’esilio de’ frati tutti quanti: e poi, come anderà la santa fede? Oh, caro Alessandro, vanno male le cose, e Dio faccia che sia cattivo profeta. Per altro, a dirla schiettamente, pare anche a me che i Gesuiti sieno perseguitati piuttosto che castigati, e non mi son mai trovato meno lontano dall’amarli quanto ora lo sono; così sono fatti gli uomini: mordono come i cani il sasso che li ha percossi e dimenticano la mano che lo scagliò. I Gesuiti sono un effetto alcune volte inconseguente della cagione, e nelle inconseguenze modificano in favore del genere umano; pure, sono i primi a cader vittima, perché si sono fidati troppo della passata fortuna ed hanno creduto che il mondo dovesse piegarsi ai loro usi, anzi che questi ai tempi: solito paralogismo de’ corpi fortunati una volta, d’attribuir tutto alle leggi proprie, considerate non come relazioni, ma come cagioni independenti; mutato, il vento bisogna cambiare la disposizione delle vele, e questo non l’ha inteso mai alcun corpo politico, ch’io sappia; una sola legge è immutabile ed è questa: conformarsi ai tempi; ma l’uomo è un animal tenace, perché pigro nel ragionare e scegliente sempre la strada più corta e sbrigativa, a costo di qualunque assurdo. Ho letta la appendice del Sig.r D’Alembert su questo argomento e ne sono contentissimo, come lo sono del libro. Concludendo, io dico che quest’epoca entrerà nella Storia di questo secolo, e sarà un punto divergente; chi può prevedere sin dove si stenderà la influenza di ciò? Roma dovrebbe una volta aprir gli occhi e vedere che le resta il Campidoglio ma non l’opinione d’Europa; Parigi, Londra, Madrid non sono più foborghi che ricevono le ordinanze urbis et orbis. A Versailles, a Choubrun, a Aranguez non si pensa più tanto a farsi un partito nel Conclave: converrebbe dunque pensare a comandar meno in casa d’altri e comandar più in casa propria, pensare a lasciar mangiare liberamente il pane ai poveri sudditi e a non spingere di più i pregiudizi sino al forno, a costo di carestia, la quale pure dovrebbe insegnar qualche cosa; si dovrebbe pensare a qualche sorte di marina, di truppe proporzionate e non avvilite per la pubblica sicurezza, animare la popolazione, l’agricoltura, togliere l’incertezza della proprietà, rendere amabile e dolce il governo ai popoli e meno ridicolo ai vicini. Questo sarebbe ora il tempo di farlo; ma non si farà, per le ragioni dette dei Gesuiti. Abbandoniamo dunque tutta questa monarchia azima e celibe al suo destino.

È qualche tempo ch’io non ti parlo di Beccaria, perché il tumulto del mio animo è di molto scemato e pochi parlano di lui; egli va al Teatro co’ suoi satelliti; una di queste sere si rappresentò Il Marito alla moda: generalmente piaceva; egli, in mezzo al parterre, esclamava altamente contro l’indecenza della commedia; tu lo conosci, annoiava potentemente tutti gli astanti, poco mancò che non gli venisse detto che se gli dispiaceva di vedersi dipinto al naturale poteva andarsene, ma non disturbare l’attenzione altrui. So che molti se lo sono detto fra di loro; il di lui credito è affatto dimenticato, almeno qui in Patria la cosa è così ed egli è precisamente ritornato al posto dove era prima del suo libro; il fanatismo anche di molti corrispondenti è svaporato, egli so che dal suo ritorno di Parigi a questa parte non ha scritto una riga: questo vuol dire che non ne scriverà mai più. Da Moscovia sin ora non v’è ulteriore riscontro; se questo cade, eccolo morto, sepellito per sempre, come si merita la nessuna generosità del suo animo.

I Tabacchi che tu mi hai mandati gli ho provati: sono materia prima per farne del rappè, ma non per macinarsi in foglia schietta, come la richiede la nostra Provincia; hanno tutti un odore ed un colore che non si smaltirebbero; per il prezzo altronde ci converrebbe. Ghelfi va a poco a poco vendendo la mercanzia: è troppo presto ancora per dartene nuova.

Se puoi farmi trasmettere da Livorno per la posta i fogli della tua Istoria a misura che si vanno stampando mi farai piacere; ma il far questo dipende dal vedere se la francatura a Livorno sia cara, nel qual caso non incomodiamo quel galantuomo di Aubert.

La tua lettera al Zio è degna di te, vi si legge la grand’anima sensibile; io l’ho trascritta di mio carattere sul nostro Album, perché mi pare un gioiello, e l’ho rimessa. Pare che Monsignore voglia accedere a noi quattro aleati; i due fratelli son buoni giovani: non ti aspettare la delicatezza raffinata, ché non l’hanno, ma onestà molta e una tinta di urbanità superiore al livello milanese; essi fanno all’amore e Dio li benedica, leggono poco, non s’è ancora schiuso in essi il sentimento della stima, meno poi dell’ammirazione; giudicano poco e freddamente, ma son buoni e non ci saranno mai nemici, forse sviluppandosi potrebbero diventare anche amici della nostr’anima: non bisogna disperar mai de’ giovani.

Ricevo una cara lettera da Lungo; io non rispondo perché farai tu le mie veci. Abbracciamelo di cuore.

Quanto al progetto di andartene a Vienna per diventare satellite d’un Ambasciatore, non credo che ti conduca al ben essere: ecco ne perché. Bisogna prima di tutto avventurarti a stare un anno o due in una città dove per i primi mesi ti annoierai mortalmente e incontrerai durezze, disattenzioni, stupidità da avvilire il merito. Perché ciò? Sulla eventuale speranza che un ministro sia spedito a una corte; 2°: che questo ministro voglia incaricarsi di te. 3°: che a te convenga l’umore di lui. Affittarsi così ad un uomo, rendersi a discrezione, essere alimentato alla di lui tavola, alloggiato in sua casa, non è poco legame. Se la fortuna ti dasse un uomo rarissimo sarebbe una delizia, ma se non è tale è cosa d’avvilire chiunque, né potresti decampare senza una scena o un demerito. Perché esporsi poi a tanti azardi? Sulla speranza di essere spedito, da qui a 10 o 12 anni, a qualche piccola Corte, dove il soldo non ti basterà per fare buona figura; gli Austriaci non lasciano mai i buoni bocconi ai forestieri, se li tengono ed han ragione. Belgioioso può farlo perché ha molti aiuti domestici ed oltre ciò ha un piede nel militare, onde, ritornato dalla comissione, gli resta una nicchia per asilo; ma chi non è militare né ha già posto nel politico d’alcun dicasterio, ritornato che sia è un zero. Vedi dunque che non ti conviene né per il tempo presente né per le speranze a venire. Pensa a tornartene a casa, caro Alessandro. Io non ti adulo col dirti che hai la stima generale della tua patria e, di più, vi sei amato; hai un numero d’amici di cuore; la povertà non la proverai certamente nella tua vita; la fama ti corre dietro e sempre più l’avrai; un impiego non ti può mancare; cosa vuoi fantasticare tanto per trovarti un asilo, l’avrai in casa, e migliore che non l’hai avuto; credimi, non ti pentirai della tua condizione dopo ritornato, e vedrai che il tuo giro ne ha imposto per tutt’i versi. Addio, caro. Sarò sempre il tuo.

P. S. Dimmi presso poco il piano del viaggio che ti resta da fare, e quando pensi di portare fralle mie braccia il più caro amico di cui sento l’assenza senza potermivi mai accostumare. Addio. PIETRO

XC (52) A Pietro. Firenze, 15 Maggio [1767]

Dopo dimani faccio conto di andarmene a Roma col corriere di Milano che da qui passerà, quando non abbia compagni.

A Pisa ho veduto Soria, del quale io non altro vi saprei dire se non se è un ciarlatano di buona grazia. Egli ha l’arte di parlar di tutto, ma come si può parlare di tutto, cioè a dire, sapendo inserire industriosam[en]te in un mare di parole spruzzate di qualche immagine alcuni generali princìpi di zibaldonica filosofia. Per altro è di buon garbo, è gentile, è amabile e non pedante, ma è poca cosa, per quanto mi è sembrato nelle sue opere e nella sua conversazione; pure è stimato un oracolo, e conosco il P[ad]re Pentolini, Barnabita a Livorno, l’Abate del Turco, l’Abate Nicoli, che ora va a Parigi in qualità di Segretario di Legazione del Gran Duca di Toscana, e così vari altri, i quali hanno fatto il suo Scrittore. Gli proponevano una materia ed egli estemporaneamente dettava; lo scritto non rimase presso di Lui, ma presso chi lo scrisse. In tal forma Soria non ha niente del suo, ma questi suoi segretari posseggono gran volumi dettati da esso, e se li tengono come tesori.

Ho veduta la Galleria. Gran cosa! Quanto sono belle le belle arti! Ritratti d’uomini illustri, statue, pitture. Gran cosa! Non ho mai veduto niente di simile. In questo noi siamo giganti, ed i Francesi ed Inglesi sono nani.

Ho qui conosciuto il Dottore Perelli, il quale mi sembra una pezza grossa; ed egli ha ciò ch’è raro fra gl’Italiani, molta semplicità e buonomia. Massimamente in Toscana ritrovo rarissime queste due doti esimie della Sapienza. Generalmente i Letterati italiani sono di un amor proprio incomodissimo. Alla prima visita che loro fate vogliono spiegarvi dissertativamente il fatto loro, e la ciarlataneria è comunissima. Temono grandemente che si manchi a quella stima a cui pretendono, perciò sono frettolosissimi di conciliarsela. In somma il primo abordo dell’Italico Letterato suol essere noioso. Dopo poi si può anche vivere con loro.

V’è anco un non so che del pittore e del virtuoso nel carattere di queste persone: molti sono stravaganti, altri affettano od hanno realmente un poco di pazzia da cervellaccio, altri hanno del buffone e del curioso, e simili. Così per esempio è il Martinelli di Londra, il Dottor Gentili di Livorno, l’Abate Nicolini e questo Dottor Perelli, ai quali, lasciando altri, convengono tutti gli elogi sopradetti, parlando in massa.

L’amor proprio italiano è terribile ed inquieto. Siamo sensibili e vivaci e non abitiamo città grandi, piene di risorse all’amor proprio e piene di distrazioni alle passioni che ci pulsano continuamente con energia grandissima. Perciò l’ammasso di queste zulfuree passioni si diffonde in cento minute porzioni e su tutti gli atti della vita si disperde e si dirama, onde ne avviene che lo spirito italiano esala in motteggio, in mormorazione, in cabale, in miserabili sintomi d’un desolato amor proprio. Nelle grandi e tumultuose città, per lo contrario, l’uomo è più buono perché è distratto, e non si converge in se stesso né si tormenta e languisce, ritrovando alimento continuo al suo amor proprio, od almeno di che dimenticarsene. In somma, per conchiudere questa bella dissertazione dirò che nelle italiane città v’è molto ozio, perciò molta inquietudine e minutezza e miseria di passioni. Laddove in Londra e Parigi l’uomo o ha affari o divertimenti, sussurro ed oggetti grandi che lo distruggono, lo divertono, ond’è più buono, più franco, e più… col resto che daremo nell’ordinario seguente, perché sono passate le undeci ed è vicina la mezza notte. [due righe abrase]

Oh non c’è male, sai! Ho qui meco un monaco basiliano dell’isola di Patmos, dove fu scritta l’Apocalisse, il quale è vestito colla barba ed abito nero come un mago, pure è buon uomo, ma mi annoia col parlare fuori di proposito de’ suoi dogmi. Egli ha molte cognizioni della letteratura greca, e lo sento volontieri, ma mi rincresce ch’entri in certi argomenti. È fanatico per le sue opinioni. Ho qui alla stessa Locanda il nostro grosso e buon Spada, e non vorrei che dicesse costì aver io trattato di molto con uno scismatico. Temo l’ignoranza.

Ho veduto Lami. Non se ne può giudicare. Parla bene. Ho trovato questo talento più in Italia che altrove. I Francesi non sono così eloquenti. Se non avessi trovato in Italia che molti si ascoltano di troppo, direi che siamo un popolo eloquentissimo. Vi manca un po’ di naturalezza, ma l’eloquenza ci è. Abbiamo una lingua così bella, una imaginazione così viva che prendiamo facilmente un gran gusto a parlare. Tali sono l’Avvocato Baldasseroni, il Cav.re Nelli, il Soria, il Nicolini, per tacer d’altri: i quali, lasciandoli parlare, non tacerebbero più.

Anche qui varie persone mi prendono per l’autore delle Meditazioni. Conosco il Sig.r Giuseppe Pelli, corrispondente di Beccaria. Egli è buon giovine e pieno di buona volontà, e credo d’aver finito il suo elogio. V’è qui anco D. Agostino Casa ti già da sette mesi. Mi usa delle attenzioni ed è buon uomo. Ma che fa egli qui? Certo ha qualche fine.

Fammi il piacere di mandare al suo destino l’acclusa. Addio: vogliami bene. Fra poco abbraccerò il mio Lungo in amplitudine cordis.

Saluta la Sig. a Zia, Carli, Corti, Secchi, Luigi, Castelli, Pecci, il di cui fratello Tenente di mare ho riverito a Pisa, ecc. ecc. ecc. Il tuo F[ratello] ALESSANDRO.

XCI (39) Al Fratello. [Milano,] 23 Maggio [1767]

Dalla carissima tua di Firenze vedo la pittura fedele della Letteratura Italiana quale l’aveva presso poco anch’io in mente; forse, trattando un po’ più a lungo, avresti trovata della malignità maggiore e nessun cuore. Non m’inganno certamente, credendo che il restante del viaggio non ti darà mai il piacere che hai provato fuori d’Italia; curiosità infinita de’ fatti altrui, teste circoscritte al proprio orizonte, che credono l’apice del globo, maldicenza, scurrilità, seccatura: ecco cosa presentano gl’Italiani ad un viaggiatore; se la natura e l’antichità non risarcisse, sarebbe intollerabile la peregrinazione in questa penisola. Io m’aspetto di più, ed è che troverai i Milanesi preferibili alla maggior parte degl’Italiani e meno ridicoli di essi nel fondo. Vedremo se indovino. Frattanto ti dico che le tue nuove e le tue riflessioni mi sono sempre care. La tua ultima lettera del 15 è da stamparsi; cresce sempre più il volume secondo del nostro Carteggio e ci farà piacere negli anni a venire il rileggerlo.

Dì al caro Lungo che ho ricevuta la sua letterina, che l’ho spedita a Orio, alla Somaglia, per prevernirla sulle inquietudini sue intorno alle inquisizioni di cotesta posta romana. Abbraccialo da mia parte.

L’altro ieri, essendo ammalata la M[arche]sa Beccaria Madre, io fui a visitarla; sopravenne, non so se a caso o apposta, il nostro Eroe; egli era un po’ imbarazzato, io no; si tenne una conversazione naturalissima; ci siamo trattati col voi; gli è scappata la frase di caro amico, e mi sono accorto che se ne avvide e con qualche ribrezzo; egli non mi ha detto cosa alcuna che mi sia dispiacciuta, né io a lui. Egli mi pare un uomo abbassato di più tuoni da quello che venne da Parigi, cerca d’indorarsi la pillola ma lo cerca troppo spaccatamente; s’è parlato del discorso sulla Giurisprudenza Criminale che tu conosci, cioè quello del Servant, avvocato al Parlamento di Grenoble: ivi v’è un bellissimo quadro che immagina il Re sostenuto dalla Giustizia, dalla Religione e dalla pietà, in atto di dettar leggi alla immortalità con volto spirante la maestà del Legislatore e la tenerezza d’un padre, il delitto incatenato a’ suoi piedi col rimorso in faccia, e l’umanità che allontana colla destra la morte e colla sinistra presenta al delitto gli stromenti degli utili lavori, calpestando gli orribili ordigni de’ supplizi. Tu vedi che questa pittura è ben altra cosa che il rame posto in fronte del libro; eppure egli delira a segno di dirmi che aveva quell’avvocato preso tutto da lui, persino il suo rame. Io naturalmente gliel’ho contrastato. S’è parlato della critica di quel criminalista, tanto vantata da Frisi e ch’io non stimo, come non la stimi tu pure; s’è parlato della lettera al Traduttore, e a tal proposito gli ho detto che in essa vi è un tasto maestro col quale si possono prevenire i lettori a non lasciarsi vincere dall’eloquenza del suo libro, ed è quello di risvegliare la virtù contro la sua causa e far vedere che la sensibilità, essendo tanto più virtuosa quanto tende a beneficare un maggior numero, dobbiamo spingerla verso la intera società, non abbandonarla ai di lei nemici. In somma s’è parlato assai tranquillamente, e il risultato è che lo trovo più modesto, e occupato a farsi illusione, talmente che dubito ch’ei riponga una parte della propria felicità nel farsi credere persuaso di possedere l’opinione degli uomini come prima.

A proposito di quel discorso sulla Giurisprudenza Criminale, io ne ho fatto l’estratto, il quale si sta stampando assieme ad un altro che ho fatto del Sig.r Thomas nella recezione all’accademia e ad un terzo estratto dell’Abate d’Adda sul celibato de’ Preti: nell’ordinario venturo te ne manderò un esemplare; ora ti accludo due altri miei estratti, de’ quali t’ho mandata copia a Parigi, ma troppo tardi: vedrai come ho risposto al bestiale giudizio del Giornale di Bouillon. La Letteratura Europea da qui in avanti si farà tutta in Milano, e tu sei aspettato e Lungo pure come due colonne sostenitrici di quest’edifizio. Io attualmente lavoro l’estratto de’ versi sciolti de’ tre Poeti, Lettere di Virgilio e Lettere Inglesi, tutta roba buona, raccolta in un volume che i pedanti vorrebbero sepellire per sempre e ch’io voglio far suonare tant’alto quanto potrò: bisogna preparare una generazione per i posteri migliore della nostra, e ciascuno vi travagli a misura della propria virtù e forze.

Sarà bene che tu lasci in Roma un amico che levi le tue lettere anche dopo la tua partenza e te le spedisca dove sarai, altrimenti succederà delle mie che ti scriverò a Napoli quello che è accaduto di tre altre che hai lasciate a Parigi e che non mi sono mai più ritornate. lo penso che è bene scriverti a Roma e che di là il tuo corrispondente te le innoltri o a Napoli o a Ancona o dove ti troverai, sin ch’io poi sappia quando ti dovrò scrivere a Bologna o a Venezia. Ricordati, fammi sul luogo un lungo piano e sicuro.

Vedrai dall’acclusa di Monsignore ch’io gli ho consegnati in tuo nome due rasoi col manico di tartaruga ed una forbice, come se fossero state spedite sole in un involtino per lui. Ghelfi non ha potuto sin ora vendere nulla. Io non so come sia la faccenda; figurati che quel piccolo crochet d’acciaio che a te costa un Schillino, cioè trentadue soldi e mezzo di moneta nostra nel corso abusivo, si vende dal Chinetti a 14 o 15 soldi, eguale egualissimo. Le fibbie sono carissime, ho paura che avremo fatto un cattivo negozio. Videbimus.

I tuoi tabacchi costeranno, condotti in Milano, circa Soldi 7 e dan[ari] 8 la libra nostra, il che è meno di quello che ci costano le Albanie, Carradà e Ingé; tutto sta a vedere se sieno una buona polvere, presa così colla semplice macinazione, senza fermento o preparazione come lo vogliono i Milanesi: alla maggior parte non piace l’odore che ha; ne farò fare un saggio dal fabbricatore e giudicheremo.

Ho scorso il nuovo Tomo dei Melanges del Sig.r Voltaire; vi sono due Tragedie, gli Sciti e il Trionvirato: tutte due mi piacciono assai, ma so che la prima non è riuscita sul Teatro di Parigi: peggio per i Parigini.

Ti saluto a nome dei due fratelli, di Luisino, del M[arche]se e M[arche]sa Beccaria, del Corte, di Secchi e di cento che mi domandano di te con cuore. Non credo che vi sia un giovane milanese che attualmente posseda la stima e l’opinione pubblica quanto la possedi tu; Beccaria in confronto tuo è un zero nella estimazione generale. Non abbiamo cosa di nuovo se non la scusa che in grande formalità ieri ha dovuto fare D. Gio[vanni] Villa alla Princip[essa] Resini per alcune parole indiscrete che in di lei casa ha dette a D. Anna Visconti; la cosa è stata trattata con tutta la ridicola importanza dell’impegno italiano; il Conte Gio[vanni] Corio è stato il Padrino di questo vituperio e abuso della debolezza d’un coglione; v’è stato quasi invito per rendere solenne questo bel spettacolo; è venuto in villa pallido e tremante a rappresentare la miserabile sua scena di commedia; s’è avuta la viltà di lasciarlo pronunziare tutte le umilianti frasi preparate, fralle quali questa, di aver esso meritato d’andare prigione, in somma sono feccia di gente e la soddisfante Principessa e il mediatore e i generosissimi astanti, e mi stupisco che non vi sia entrata la confraternita nobilissima di S. Giovanni alle Case Rotte. Abbraccio te. Abbraccia Lungo. Amatemi tutti due e venite a consolare il vostro eternamente PIETRO.