Saggio di morale cristiana

Alessandro Verri
SAGGIO DI MORALE CRISTIANA [1763]

Testo critico stabilito da Pierre Musitelli – 2016 (Fondazione Raffaele Mattioli, Archivio Verri, cart. 484.3)
Indice de’ capi
Parte prima
Capo I. Della Sacra Scrittura
Capo II. Dell’amore di noi medesimi
Capo III. Dell’amore del prossimo
Capo IV. L’esser vero cristiano è vantaggio anche temporalmente?
§ I. Della ingratitudine
§ II. Della bugia
§ III. Della mormorazione
§ IV. Della avarizia
§ V. Dell’orgoglio
§ VI. Dell’ozio
§ VII. Della disputa

Parte seconda
Capo V. Del falso zelo
Capo VI. Dell’astuzia
Capo VII. Della ipocrisia e della superstizione
Capo VIII. De’ giudizj temerarj

Parte terza
Capo IX. Della economia domestica
§ I. Della educazione
§ II. Del matrimonio
§ III. Scelta dello stato
Capo X. De’ rispetti umani
Capo XI. Della severità de’ costumi

Viam sapientiae monstrabo tibi, ducam te per semitam aequitatis, quam cum ingressus fueris, non arctabunt gressus tui, & currens non habebis offendiculum.
Prov. cap. 4.

Capo I.
Della Sacra Scrittura

Niente v’ha di più interessante per l’uomo che il conoscimento di quelle azioni che Dio esigge da lui. Ma per un fatale destino della umanità più pensasi a conoscere gl’insetti che la religione; quindi vediamo l’Asia, l’Affrica e buona parte di Europa e di America in presa della superstizione, e strisciarsi indolentemente nel fango dell’errore i regni e le intere nazioni. Questa funesta letargia del genere umano in un punto così essenziale alla sua felicità dovrebbe diminuirci il concetto che abbiamo formato dell’angelico suo essere, se non si riflettesse che il volgo (cioè la massima parte del genere umano) nè ragiona, nè disragiona in materia di religione, eseguendo machinalmente i precetti di una ereditaria idolatria o superstizione. Mio pensiero non è di distruggere le false religioni o di ripettere le prova della mia. Non oso metter mano ad un sì grande e sì sacro argomento, ben sapendo che altrettanto nuoce alla verità l’oppugnarla co’ soffismi che il mal difenderla.

V’è chi scrisse che la Sacra Scrittura deve essere la norma d’ogni nostra azione, perchè miglior maestro di un essere infinitamente sapiente l’uomo non può avere, che ivi sono intieramente registrati i nostri doveri, e che d’altra legge noi abbisognare non dovressimo che di quella che il Legislatore de’ legislatori ha promulgata; che Iddio infinitamente buono non potea lasciare d’instruirci in tutto ciò che contribuisce al nostro vero ben essere, e che un ente sapientissimo, che non può fare alcuna cosa inutilmente, non potea instruirci più di quello che ci potea giovare; onde essere giusta conseguenza che in questo libro divino tutta la vera ed utile scienza si contiene. Non mi faccio lecito di dire altrettanto, ben sapendo quali scoglj circondino questo ragionamento; ma soltanto dirò a taluno quello che disse Gesù Cristo degl’ipocriti farisei. In vanum autem me colunt docentes doctrinas, & praecepta hominum, relinquentes enim mandatum Dei tenetis traditionem hominum. Non dovrebbe aprire alcun vero cristiano le Sacre Scritture senza sentirsi ogni volta internamente rinnovare i sentimenti di riconoscenza e di venerazione per un Dio che lo instruisce; e ben lungi dal volere far parlare al Creatore solo quella lingua che adula le sue passioni, egli dovrebbe sottomettere la debole sua ragione alla voce di un essere sapientissimo, e nella oscurità non prendere altro partito che di ammirare l’infinita distanza che v’è fra la creatura ed il creatore, e di ricordarsi che Dio non parla il linguaggio degl’uomini. Questi sì ortodossi principj e l’amore degli uomini, segno interiore del buon cristiano, mi movono la penna a ricordarli i loro doveri, cioè la strada della loro felicità, non già ch’io osi farmi maestro de’ miei eguali, dopo d’esser stati instruiti da un Dio,[1] ma soltanto racchiudo in poche carte un saggio d’evangelica morale, di vera altra non ve ne essendo. Io credo di rendere così un tributo alla mia religione col dilatare più che m’è possibile i suoi confini presentandola agli occhi d’ognuno in un amabile aspetto, qual è quello di una pura morale, li cui fondamenti sono le instruzioni di un Dio che ama infinitamente le sue opere.

Capo II.
Dell’amore di noi medesimi

Gli uomini in fatto di morale già da lungo tempo ignorano se stessi ed i principj delle loro azioni, e detraendo un piccolo numero d’eletti ragionatori, il resto del genere umano serve mecanicamente alle impressioni degli oggetti esteriori, dormendo in una profonda ignoranza o sognando le più ridicole opinioni. Basta leggere i scritti antichi sulla virtù e sulla felicità per ammirare la debolezza dello spirito umano, che sempre imbecille e sempre fecondo di chimere tentò di far servire l’inesorabile verità a’ suoi delirj.

Quindi vedettero gli uomini i Zenoni, gli Aristoteli, i Platoni, i Seneca tutti sforzarsi di attaccare idee giuste e d’insegnare cosa significhino i nomi di virtù e felicità. Sonosi ritrovate le leggi del moto, della gravità, le proprietà de’ numeri, quelle della estensione; ma le definizioni più interessanti della morale, anzi le necessarie primitive di essa furono consacrate per più secoli allo spirito di partito, ai paralogismi dell’aule, e furono più il soggetto d’un ingegnoso abuso della dialettica che lo scopo della verità. Varrone raccolse duecento ottanta opinioni diverse[2] sulla felicità, non meno divise furono le menti sulla virtù.

Puossi essere felice e virtuoso indipendentemente da queste opinioni, e senza sapere, esprimere o scrivere nè cosa sia virtù, nè cosa sia felicità; onde non m’avventurerò a questo immenso oceano, perchè le verità sono pericolose in quella parte della morale che può tanto facilmente urtare ed offendere quelle idee sublimi che devonsi più venerare che esaminare.

Sforzansi i filosofi di combinare l’utile e l’onesto; se questa unione fosse essenziale sarebbe ritrovato un perfetto sistema di morale, piacere e virtù divenendo sinonimi; ma noi lasciando indecisa sì gran questione seguiremo le massime evangeliche sicuri di non traviare raccogliendo quella luce onde la verità del Cielo discesa in terra ci ha illuminati.

Due fondamenti principali su cui appoggiasi la religione sono l’amore di Dio e l’amore del prossimo. L’uno stabilisce i rapporti fra Dio e l’uomo, l’altro fra l’uomo e l’uomo. Di quell’amore che dobbiamo all’essere creatore mio pensiero non è di parlare, e perchè egli è alieno dal mio argomento, non avendo immediato rapporto colla morale umana, e perchè lo scrivere degnamente su di un sì alto soggetto è riserbato a que’ pochi a’ quali è concesso d’accostarsi più del comune alla divinità.

Lo stoico eroismo che disprezza il dolore; gli severi precetti degli antichi che ripongono la virtù su di uno scoglio; il duro pedantismo che sparge la melanconia senza instruire, siano lungi da queste carte. Il solo spirito di beneficenza e di umanità v’abbia luogo.

Egli è principio inseparabile dall’uomo l’amore di lui stesso, e mal intende la metafisica del di lui cuore chi detta e declama precetti contraddittorj a questa forza invincibile. Se la virtù sarà piacevole ella sarà abbracciata, s’ella contrasterà coll’amor proprio i precetti di chi la vuole insinuare altro non proveranno che l’ignoranza del maestro e l’inutilità della dottrina. Questa verità cavata dalla natura dell’uomo e dalla esperienza di tutti i secoli non è mai lecito di dimenticarla negli argomenti di morale, onde ella sarà sempre la nostra guida e quel punto di vista a cui ci sforzeremo sempre di mirare. Che se mai c’incontreremo in alcun caso non preveduto in cui bisogni dipartirci da questo principio, noi ne lascieremo di buon animo la gloria della soluzione a chi più di noi illuminato abbia il coraggio d’incaricarsene.

Per quante prove abbiano date gli uomini di essere capaci di qualunque stravaganza e qualunque paralogismo, a gran stento m’indurrei a dubbitare che combinando la virtù col loro ben essere non fossero tutti virtuosi. Ma pretendere che non vi siano ladri ed assassini laddove le leggi prottegono una estrema ineguaglianza di fortune e di forze, egli è un volere conseguenze opposte alle leggi medesime. Finchè insegneransi agli uomini delle vaghe e dure massime di severa virtù, finchè il disprezzo delle richezze, la fuga della voluttà, la costanza, il dovere saranno predicate e non persuase, potrassi tutto al più inspirare un strano fanatismo, ma non mai rendere i cuori più sensibili alla virtù. Il melanconico ed orgoglioso stoicismo ha prodotte grandi follie e grandi virtù, ma l’insegnare una volgare, pratica ed utile morale fu riserbato al Figlio di Dio.

Le parole evangeliche diliges proximum tuum sicut te ipsum sono l’epilogo di quanto si è detto. Siamo tenuti ad amare gli uomini come noi stessi, ma non più di noi stessi, e volendo l’eterno Legislatore che grande fosse la benevolenza nostra verso il genere umano, ci propose per modello quello che abbiamo per noi stessi. Quindi non sono nè conformi alla ragione, nè conformi all’Evangelo que’ rispettati ed orgogliosi assiomi di rinunziare a noi stessi per il vantaggio comune, di estinguere il nostro amor proprio, di vivere agli amici, alla patria più che a noi, e tant’altri che ponno tutt’al più inspirare un vano e passaggiero, ma non costante e persuaso eroismo.

Il solo amore di noi medesimi (quell’amore, m’intendo, illuminato e ragionevole, d’altro vero non ve ne essendo) è il principio di molte virtù di religione. Io prego il lettore a sospendere il suo giudizio su di questa proposizione insino a tanto che in poche righe ne abbia addotte le prove.

Egli è amare veramente se stesso l’amare la sua felicità cioè Iddio, ed amare gli uomini perchè Dio lo esigge da noi. Il desiderio di una eterna felicità, la fuga di una eternità di dolore, l’eseguimento de’ precetti dettati da una infinita bontà sono effetti del nostro ben inteso amor proprio: onde ben a torto crederessimo noi di amarci veramente anteponendo i beni temporali agli eterni, ed un breve spazio di bene alla sicurezza di fuggire un male infinito.

Per la qual cosa non amarono veramente se medesimi nè Adamo mangiando il frutto proibito, nè Davide l’altrui donna usurpandosi, nè Salomone divenendo idolatra fra le delizie e le lussurie, nè l’ostinato Faraone resistendo ai prodigj di Dio. Eglino non conobbero il loro vero interesse, che dovea insegnarli ad eseguire i comandi di un essere onnipotente che non puossi impunemente offendere. Il pericolo delle loro colpe fu maggiore del piacere di commetterle.

Capo III.
Amore del prossimo

Se dicessi agli uomini amate i vostri fratelli, darei il più salutare ed il più giusto di tutti i precetti, ma assai difficilmente farei un solo uomo virtuoso; se dicessi amateli perchè Gesù Cristo lo comanda, avrei la divinità vindice di questa legge; se dicessi amateli perchè tale è il vostro interesse, e mi riuscisse di persuaderli, mi lusingo che avrei molti uditori.

Per una deplorabile e lunga sperienza siamo convinti quanto deboli impressioni facciano sul cuore umano anche quelle verità che per l’origine e grandezza loro sono superiori alla ragione, se non siano insinuate per mezzo di oggetti sensibili e se non si dimostrino analoghe alle idee che hanno gli uomini della felicità.

Taluni hanno malamente scelti i mezzi d’insegnare le cose celesti o da più forti timori o dall’avvilimento dell’anima; altri ne diedero idee sì astratte e piene di un pio fanatismo, che parve che gli uni volessero istupidire gli uomini e gli altri farli delirare religiosamente. Di questi mezzi si sono serviti quegli ammirabili e perversi eroi che fondarono i regni e la schiavitù sulla imbecillità e sul fanatismo degli avviliti mortali.

Ma quanto la verità è opposta alla menzogna ed alla impostura, altrettanto sono opposti i mezzi con cui sono l’una e l’altra promulgate, onde il discreto ed illuminato cristiano farà più caso della sensibilità del cuore umano, del suo amore al bene essere, delle attrattive istesse che accompagnano le dimostrate ed utili verità che del timore o del fanatismo; mostri degni ben più di sparger tenebre che di apportar luce.

Non seguendo che le regole ordinarie della natura, sembra che il più tenace vincolo che possa legare i cuori degli uomini siano i vicendevoli bisogni. L’amicizia, l’amore, la beneficenza, la gratitudine e quant’altre virtù mai sembrano dolcissime a’ mortali, tutte traggono il loro principio da un ben inteso amor proprio, ossia da un principio di piacere. Se tutta la sensibilità dell’uomo è compresa fra gli due estremi di piacere e di dolore (giacchè un essere che non senta nè piacere nè dolore non sembra capace di sentire) e s’egli cerca l’uno e fugge l’altro, converrà dire che tutte le azioni abbiano per iscopo il piacere. Se taluno havvi che possa persuadermi che gli uomini amano o si decidono per il dolore, io sarogli grato d’avermi scoperta una verità a cui tutta s’oppone la più illuminata metafisica. Tali sono i confini della cognita natura; ma siamo ben lungi dal dubitare ch’essi possino oltrepassarsi da qualche anima fortunata che l’essere supremo istesso abbia prescelta per professare una virtù che puossi ammirare più che imitare.

L’amore dell’umanità, ossia del prossimo, è quel felice bisogno per cui gli uomini, cercando gli uni negli altri un vicendevol conforto, vengono a risentirne ciascuno i benefici effetti. Quindi il ben regolato amore di noi medesimi ci porta all’amore della umanità, fonte della felicità degli umani stabilimenti e massimo precetto della legge divina. Senza le scosse di questa fiamma celeste non avremmo ammirati di tempo in tempo quegli eroi alla più lontana posterità famosi, non già per sanguinose vittorie o per vane conquiste sempre fatali al genere umano, ma per quel puro ed utile amor degli uomini che infiammò Ambrogio il Santo quando chiuse le porte del tempio al crudele Teodosio, e che animò il Pontefice Alessandro III allor ch’ebbe il cristiano coraggio di sforzare Enrico II Re d’Inghilterra a chieder perdono in forma di penitente dell’assassinato di S. Tomaso di Cantorberi.

E che diverrebbero gli uomini se non avessero un reciproco bisogno di giovarsi? Simili, quanto alla vita mortale, alle scimie Americane, degradati dal loro essere poco inferiore all’angelico, erranti e vagabondi fra i boschi un’orrida vita fra l’ignoranza e la miseria menando, ludibrio delle stagioni, preda degli animali feroci, non riempirebbero i nojosi giorni che di abbattimento e di dolore. La compassione e l’umanità cospiranti col nostro ben essere per divina providenza impresse nel cuore di ciascuno furono quelle che ci unirono in società, che a renderci l’un l’altro utili ci spinsero; siamo da Dio e per natura e per legge legati con strettissimi vincoli, ed egli come giustissimo Padre ci ama tutti egualmente, e tutto il genere umano è per un Dio imparziale egualmente oggetto dell’eterno suo amore.

Pongasi il caso in cui taluno voglia godere de’ beneficj degli altri senza farne alcuno, credete voi che seguiterebbe lungo tempo ad essere gratuitamente beneficato? C’impose Iddio d’amare il prossimo come noi stessi, come s’è osservato, onde non è maggiore l’amore che dobbiamo agli altri di quello che dobbiamo a noi; per la qual cosa non sembra della natura dell’uomo ch’egli sia utile agli altri senza sperare ch’essi pure lo siano a lui; ma questo bisogno reciproco è un effetto mirabile della divina bontà, che facendoci dipendenti l’uno dall’altro ci unì con indissolubili rapporti, e ci obbligò ad aspirare, per una forza data a ciascuno, alla comune felicità. Quella infinita sapienza che impresse la forza di gravità ne’ corpi fra loro, onde conservano invariabilmente l’ordine e l’equilibrio stabilito sino dalla creazione del mondo, diede al cuore umano l’amore di se medesimo, onde ciascuno, cercando il vero suo bene, travagliasse alla universale felicità, ed in tal guisa si conservasse per mezzo di questa forza primitiva l’armonia ed il commercio degli umani stabilimenti.

Non v’ha cosa che il Divino Redentore più volte ci abbia comandata di sua voce e predicata coll’esempio di questo amore del prossimo, ed il nuovo testamento, legge di pace, spira in ogni parte dolcezza ed umanità: ella è chiamata il fondamento della religione, anzi l’aggregato d’ogni perfezione. Una nazione d’uomini che s’amano è una nazione felice; se il Re ama la nazione che l’ha eletto per suo primo magistrato, come potrà egli risguardarla come un suo patrimonio o come un gregge di schiavi, instrumenti machinali de’ suoi capricci? Come potrà un magistrato che dall’evangelica carità è animato opprimere i miseri pupilli, insultare col suo fasto l’indigenza de’ plebei, decidersi non per la verità, ma per il denaro, calpestare quella giustizia le cui bilancie gli sono consegnate dalla pubblica fede? E qual padre di famiglia vero cristiano abuserà di sua autorità o sulla moglie o su de’ figlj, darà al gioco, all’avarizia, alla sfrenatezza de’ costumi que’ pensieri che deve consacrare all’armonia della famiglia? E qual figlio lascierà languire nella miseria un cadente amoroso padre, non sosterrà la sua vecchiezza, non raddolcirà l’asprezza che accompagna un’età ripiena di travaglio e di dolore? Tutti i delitti fuggono dove regna l’umanità, tutte le virtù allignano dove regna l’amore del prossimo. Gesù Cristo, interrogato da un dottore qual fosse il più grande precetto della sua legge, rispose: Amerai il tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, questi è il primo e massimo comandamento; il secondo però è simile a lui: amerai il tuo prossimo come te stesso; in questi due comandi tutta la legge si racchiude.[3] Base d’ogni vera credenza e fondamento d’ogni umana ed immortale felicità è il riconoscere un Dio punitore e rimuneratore, l’esser giusto, benefico, compassionevole cogli uomini, massimo comandamento in vero, che dovrebbe esser impresso nelle anime nostre con un sigillo indelebile, legge che solo può esser promulgata da una infinita bontà, ruscello di una divina sorgente, che feconda e ristora la terra arida e squallida di mali! Sono dalla carità i miseri consolati, i mendici ristorati; ella rasciuga le lagrime degl’infelici, ella bandisce l’afflizione e l’abbattimento di spirto; ed ella sola basta a riparare tanti mali onde fummo ricoperti per la caduta del comun padre Adamo.

Non bastò al Divino Redentore d’averci detto d’amare il prossimo come noi stessi, ch’egli volendo dare maggiore energia a questo comando disse: Io vi do un nuovo comando, cioè che vicendevolmente vi amiate, come io vi ho amati.[4] Dobbiamo adunque amare il nostro prossimo con quell’amore che Gesù Cristo istesso portò a noi, così volendoci insegnare che infinita, per dir così, dev’esser l’umanità e la bontà nostra verso i nostri fratelli. E abbenchè non siamo noi capaci di un infinito amore, com’è quello con cui Dio ama il genere umano, pure egli propose una meta inarivabile, acciocchè mai non ci rallentassimo nel cammino.

È chiamata in oltre la carità segno distintivo del vero cristiano: in ciò conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete fra di voi una reciproca benivolenza.[5] E S. Paolo la nomina vincolo di perfezione: sopra tutto però abbiate fra voi una continua carità, perchè ella è il vincolo delle perfezione,[6] e puossi sperare d’avere Dio misericordioso, purchè non sbandiamo mai dal nostro cuore l’amore del prossimo. Amatevi prima d’ogni cosa l’un l’altro, perchè la carità copre la moltitudine de’ peccati.[7] E qui diremo di passaggio che ben a torto credono alcuni fra i cristiani di adempiere interamente la legge di Dio mancando loro il principio della perfezione ed il segno interno de’ seguaci di Cristo, il che chiaramente disse egli medesimo: L’amare il prossimo come se stesso è meglio che il fare olocausti e sagrificj.[8]

Capo IV.
L’esser vero cristiano è egli vantaggio anche temporalmente?

Il vero cristiano è uomo giusto, perchè seguendo egli la legge di un Dio giustissimo non può non esser giusto. Ora si può osservare che gli uomini di buona morale sono, generalmente parlando, felici: niuna nazione, niuna società ha giammai potuto susistere senza avere per base fondamentale l’amor del prossimo, vale a dire l’amore dell’umanità, tolto il quale gli uomini anzichè riunirsi in società sarebbero bestie feroci che si divorerebbero vicendevolmente; ed abbenchè indagando più vicino quest’amore della umanità possano gli occhi dell’attento e sagace metafisico scorgervi l’amor proprio, pure, qualunque sia la cagione per la quale siamo giusti, ella è sempre l’opera dell’infinita sapienza di Dio, che di questo amor proprio si è servito per moverci agli atti virtuosi. Così l’amore d’un’eterna fama fa vittima della patria Attilio Regolo e l’amor della gloria è maggiore in Orazio Coclite ed in Curzio del timore della morte; direte voi che non erano eglino uomini grandi per questo? Oppure direte che amavano i concittadini più di se stessi? Come mai può esservi una florida nazione nella quale non si rispettino da’ figli i parenti, non si punisca l’omicidio, i beni altrui e le altrui donne si usurpino impunemente, e nella quale la calunnia ed il testimonio falso sia permesso? Ed ecco come le nazioni anche prive della Divina Rivelazione dovettero adottare i precetti della divina legge del Decalogo, perchè senza buona morale non v’è società.[9] Dal nostro ben regolato amor proprio ne vengono la compassione, la bontà di cuore, la sincerità, la beneficenza, in una parola l’amore del prossimo. L’avere noi provati que’ mali che vediamo che gli altri soffrono, l’essere stati alcuna volta infelici ci fa compassionevoli e ci porta a togliere i nostri eguali dalla miseria e dal dolore. Egli è ben vero che questo nostro amor proprio ci trasporta alcuna volta fuori dal giusto cammino ed è cagione di qualche perversa azione; ma se bene esamineremo ogni cosa potremo facilmente comprendere che non ebbimo un vero amore di noi medesimi col farci colpevoli avanti a Dio ed avanti il prossimo, giacchè la vendetta di Dio è iresistibile e quella degli uomini di rado si può scansare; in somma se farassi attenta riflessione sulle umane azioni, vedrassi che l’uomo falso, menzognero, crudele, ingrato, in una parola l’uomo cattivo, pospone un bene stabile, fondato sulla tutela delle leggi e sulla considerazione che hanno i cittadini per l’incorotta probità e per gli uomini virtuosi, ad un presente utile, che, passato, lascia il rimorso e l’avvilimento nell’anima.

L’invidia di Saulle contro di David lo rese più infelice dell’oggetto medesimo delle sue persecuzioni, ed i rimorsi interiori ch’egli provava nell’udire le popolari acclamazioni e nel vederlo degno del comune amore erano essi soli pene grandissime alla sua crudeltà.

Dopo che Davide divenne un Re ingiusto avanti a Dio ed avanti gli uomini, col violare una legge fondamentale della nazione, cioè col togliere ad Uria la sua moglie,[10] cominciò ad essere disgraziato e due rivoluzioni turbarono il suo regno, cioè quella fomentata da Assalonne suo figlio e quella di cui fu capo Seba. Anche indipendentemente dalla punizione divina, è nell’ordine delle cause seconde che non sia totalmente tranquillo quel Re che abusa del potere legislativo a segno di violare i primi patti che reciprocamente si fecero fra lui e la nazione: offendeva ciascun cittadino nella propria famiglia la prepotenza portata sino nelle mura domestiche; il dispotismo esteso sino alla usurpazione delle cose più care a ciascheduno è rare volte impunito. V’ha una certa forza nella natura per la quale vanno quasi da se stesse le cose all’equilibrio, e que’ delitti che sembra talora che debbano essere impuniti, perchè commessi da chi ha la forza, vengono inaspettatamente vendicati dal disordine. Così non si creda sicuro d’esser impunemente tiranno nemeno colui che è a capo di un’armata invincibile; un solo malcontento vendica alle volte la terra della schiavitù di più secoli, e tramanda alla più lontana posterità un esempio memorabile di fanatismo e della fragilità del più esteso potere. Un Tito, un Trajano, un Marco Aurelio sono e saranno sempre nomi venerati e faranno epoca alla felicità degl’uomini; i Tarquinj, i Neroni, i Caracala destano ne’ petti d’ognuno quell’orrore e quel trasporto d’anima col quale pare che Dio faccia risovvenire ai grandi di questo globo: Amate la giustizia, o voi che giudicate la terra.[11]

§ I. Chi rende male per bene avrà sempre la sfortuna nella sua casa[12]

Ingratitudine. L’uomo ingrato non può essere beneficato più volte, perchè la gratitudine è ricompensa de’ beneficj, e senza sperare questa ricompensa è difficile che ci potiamo risolvere ad essere benefici. Intende adunque male i suoi veri interessi chi corrisponde a’ beneficj coll’ingratitudine. Tolta questa mutua comunicazione di beneficj e di gratitudine, è tolto ogni adito ad una vera amicizia, e così è annichilato il vero spirito di società, che consiste nell’amicizia; quindi l’ingrato è un uomo diviso dagli altri, e che non può provare l’utilità de’ beneficj e la dolcezza degli amici; egli ha sagrificato per un presente guadagno il diritto di godere più volte gli altrui beneficj in avvenire.

§ II. Chi si sostiene colle bugie, egli si pascola di aria[13]

Bugia. La falsità è un vizio che punisce chi lo possiede; chi passa per bugiardo ha perduta la fede, e con essa tutti i vantaggj che ne risultano dalla fidanza che hanno gli altri in noi; questo vizio allontana gli uomini fra loro, li fa diffidenti, onde s’oppone a quella bontà di cuore che è l’anima della società. L’uomo vero si rende interiormente conto delle sue azioni ed ha in ogni tempo la soddisfazione di ritrovarsi irreprensibile agli occhj d’ognuno, e da qui nasce quella forza d’animo e quella modesta franchezza che è dipinta sul volto di coloro che hanno il cuore sulle labbra.[14] Guai adunque a coloro, che animati da un falso zelo, colla forza, che intimorisce anche gli uomini grandi, legano ed imprigionano la ragione altrui, in guisa che constringono gli uomini anche più onesti ad adottare un ragionato sistema di quasi necessaria falsità, e gli rendono colpevoli di un vizio abbominato da Dio, che è l’eterna verità.[15]

V’è un’altra sorta di falsità, ed è quella per la quale taluno non lascia traspirare i sentimenti suoi e sta sempre in guardia che alcuno non possa conoscere quale egli è; questa qualità talvolta è un’estrema moderazione, ma bene spesso quegli che fanno tanto mistero de’ loro pensieri non meritano d’essere conosciuti. La falsità è l’appanaggio delle nazioni deboli, e tali erano i Greci, e tali erano gl’Italiani, quando queste nazioni ebbero perduta l’antica loro forza. La piccola cabala, l’astuzia, e con essa gli enormi delitti del veneficio, de’ tradimenti, non si veggono nelle grandi nazioni, dove regna per lo più uno spirito di libera bontà e di cuore sincero. Piccoli e brevi vediamo esser i vantaggj della falsità,[16] e grandi e stabili quelli che p[r]oduce al uomo la grandezza e simplicità di cuore. La buona fede è indispensabile in tutte le nostre azioni, perchè ogni volta che ci manchiamo ci facciamo molti inimici, che ci ponno far pentire d’essere stati falsi. Il commercio, i depositi, gl’imprestiti e tutti i contratti in somma prendono anima e sicurezza dalla buona fede. Le leggi umane hanno veduta la necessità di punire gli uomini falsi, e dove v’era una legge penale non è utile al certo l’esser falso, ma se parliamo ancora di quella falsità che dalle leggi non è punita, com’è l’esser bugiardo, vedremo che il disprezzo e la fuga de’ concittadini sono venute in sussidio alla mancanza di leggi positive, quindi vediamo esser il bugiardo screditato su i teatri colle pubbliche beffe, ed applaudire estremamente gli spettatori all’avvilimento ed alla confusione del mendace, e confessar conviene anche co’ soli lumi umani che la bugia è una obbrobriosa macchia del uomo e ch’ella non si trova che sulle labbra di chi non opera per principj.[17]

§ III. Guardatevi dalla mormorazione poichè niente ella giova, e risparmiate alla vostra lingua la detrazione[18]

Maledicenza. La maldicenza, vizio sì contrario alla carità cristiana, s’oppone ancora al vero interesse del maldicente. Se vi credete che mormorando degli altri voi dobbiate acquistarvi stima, v’ingannate, perchè non si può stimare la viltà di dir male degli assenti, che non si ponno difendere. Se pensate d’acquistarvi l’amicizia o la confidenza altrui, nemmeno, perchè quegli che v’ascoltano devono ragionevolmente temere che sopra d’essi ancora non usiate la vostra mormorazione; v’ascoltano per togliersi dalla noja, o perchè avete una sorta d’eloquenza nello spargere il ridicolo su i difetti altrui, oppure perchè la maldicenza degli assenti è quasi un elogio de’ presenti, l’amor proprio di ciascuno cercando sempre i paragoni in proprio favore; ma quando poi si fa luogo alla riflessione devono temervi e diffidarsi di voi; così diminuite ogni giorno il numero degli uomini che vi ponno giovare ed accrescete quello de’ vostri nemici, col solo apparente utile d’esser un uomo amabile agli annojati, e col vero male di farvi delle inimicizie, che seco strascinano risse e contese.

§ IV. L’avaro non sarà mai pieno di danaro[19]

Avarizia. Per avaro io non m’intendo già un industrioso mercante che accresce splendore alla sua famiglia ed alla sua patria con un onesto guadagno, nè il desiderio di arricchirsi senza essere ingiusto, giacchè anche il popolo di Dio avea un florido commercio al tempo di Salomone e traboccava di ricchezze, come dalla fabbrica del tempio di Gerusalemme e dal fasto della corte si può vedere nel Libro de’ Re. Avaro io chiamo colui che accumula denaro senza farne uso col timore di mancarne in avvenire, e col trasportare la sua felicità che lo sfugge d’un giorno all’altro sino alla morte. Questa situazione dell’anima, piuttosto che vizio, si può chiamare pazzia. Il metallo, sia egli oro od argento, che ha l’impronto della pubblica fede, non è altro che la rappresentazione del valore delle cose, ed egli è un nulla a chi non se ne serve. Quell’infelice melanconico, che visita tutt’i giorni la sua cassa ferrata piena d’oro non mai cambiandolo in merci ed in cose utili alla vita, è egualmente ricco che se possedesse in luogo di metallo un pezzo di legno, aggiungendovi però le angustie ed il timore che accompagnano il pericolo di perdere l’unico oggetto de’ suoi voti. Considerando, dice il savio, ho ritrovata una sorta di vanità in questo mondo: v’è un uomo ch’è solo, non ha fratello, non ha figlj, eppure non cessa di lavorare, e gli suoi occhj non sono mai sazi di ricchezze, nè mai riflette dicendo a se stesso: perchè lavoro io risparmiando i beni all’anima mia? Questa è grande vanità ed una pessima afflizione.[20]

§ V. Fra i superbi sempre vi sono contese[21]

Orgoglio. L’orgoglio e l’alterezza s’acquistano l’odio di quelli che ci stanno d’intorno, anzi ben presto l’orgoglioso si ritrova fuggito e detestato. Ha ognuno un fondo d’amor proprio per il quale vede di mal occhio chiunque lo vuole umiliare. A quali beni conduce mai l’orgoglio? O voi siete orgoglioso perchè siete superiore di forze, di richezze o di spirito agli altri, e voi mal intendete i vostri vantaggi: il grande, il ricco ed il saggio essendo modesti ed umani, non solo sono superiori agli altri uomini, ma gli tengono intimamente legati a’ suoi intessi; il quale doppio legame rende stabile e soda la loro superiorità.[22] Così un Re umano è più sicuro sul trono del superbo, ed il filosofo modesto persuade e ritrova più sovente chi gli dia ragione dell’altiero, che usa indiscretamente della forza del suo spirito per dominare i cuori.[23] Se siete poi agli altri fisicamente o moralmente inferiore, a che vi fate degl’inimici senza aver forze per difendervi? Gli uomini di rado perdonano d’essere stati disprezzati, l’orgoglio ce gli fa nemici, e per quanto loro siamo superiori, chi può mai sicuramente dire: non temo niente dagli uomini?

§ VI. La pigrizia inspira il sopore, e l’anima dissoluta avrà fame[24]

Ozio. La pigrizia e l’ozio sono grandi mali rispetto alla religione e rispetto alla repubblica. Il giuoco, la maldicenza, la sfrenatezza de’ costumi sono conseguenze funeste dell’ozio. Il cuore umano ha un vero bisogno d’essere occupato in qualche oggetto che lo tolga dalla noja, inseparabile compagna dell’ozio. Quando manchiamo di un certo moto che agiti l’anima e la tolga da un letargo a lei naturale s’è di nulla occupata, siamo in una infelice situazione, che non ardirei chiamare propriamente vita, ma quasi vegetazione. L’esperienza ogni giorno più ci convince di questa verità, giacchè vediamo che nè l’abitare un superbo palazzo, nè il possedere grandi ricchezze, nè l’avere onori e dignità fa l’uomo felice, ma bensì l’avere nella maggior parte del tempo l’animo di varj e sempre piacevoli oggetti occupato. La mancanza di moto fa l’acque stagnanti e lorde e putride; così l’inerzia instupidisce ed infetta lo spirito. Quegli che hanno la mala ventura di far poco uso della facoltà di operare col corpo e collo spirito sono miserabili sfaccendati, che cercando in ogni parte qualche oggetto onde riempiere quel vuoto che hanno nella mente e nel cuore, sono molesti e molte volte infesti alla società, e sono a se stessi pena della loro infingardia. L’uomo ragionevole e cristiano, dando alla religione, alla famiglia, a’ suoi impieghi, alla cultura del suo spirito tutta la giornata, passa molto più felicemente il suo tempo di colui che fra gli agj e le ricchezze non sa fare un’ora di parentesi alla noja che lo accompagna al sepolcro. La vita di costoro è un continuo sonno, e la vita degli operosi è una serie di buone azioni e di piaceri. Così il letterato, il mercante, il pittore, lo scultore trovano nelle loro fatiche i giorni brevi, intanto che un richissimo sfaccendato tira ogni momento l’orivuolo dalla sua tasca, stupendosi della lunghezza del tempo e rimettendo sempre all’ora che vien dopo la briga della sua felicità.

L’industria ed il travaglio furono sempre i fondamenti della forza delle nazioni,[25] e sono destinate alla schiavitù le infingarde ed oziose. Il dispotismo già da tanto tempo in Asia stabilito ha forse per cagione l’inerzia e l’abborrimento della fatica che il clima inspira a que’ popoli; ed anche discendendo al particolare servono i pigri agli operosi, poichè o ricchi o poveri ch’essi sieno, sono nell’altrui dipendenza; se richi per esser tolti dalla noja, e se poveri perchè non si alzeranno mai dalla loro miseria. Ma per lo più l’ozio è una conseguenza delle ricchezze, perchè la povertà cogli incomodi che l’accompagnano troppo ci ferisce da vicino per poterla indolentemente sopportare. E se vediamo oziosi i mendici, lo sono o per esser fisicamente impotenti a sollevarsi dalla depressione, o perchè ovunque si volgano, vedono spenta ogni speranza di risorgimento; e questo è bene spesso difetto di legislazione, anzicchè difetto de’ cittadini, il che considerando dovrebbesi essere più umano con quella sì grande, sì disprezzata e sì infelice parte degli uomini chiamata volgo. I ricchi non sono nè in l’uno nè in l’altro caso, onde più facile è loro l’esser oziosi; ma non meno infauste loro sono le conseguenze. Il giuoco occupa in taluno d’essi la maggior parte de’ loro ozj, e se per un momento vorranno meco riflettere sopra se medesimi, dovranno confessare che passano le notti e i giorni fra una speranza inquieta ed un mordace timore. Pochi fanno molte ricchezze col giuoco, e que’ pochi sono ricchi a spese di molti infelici, onde non v’è proporzione tra i contenti ed i mal contenti che fa il giuoco; è più probabile adunque d’esser nel numero de’ secondi; e se quegli ancora che hanno le loro fortune stabilite sul giuoco diranno il vero, dovranno confessare che il guadagno non gli ha ricompensati de’ loro timori e del tumulto interiore che prova chi espone gran parte ed alcuna volta tutte le sue fortune all’azardo. Puossi in oltre cambiare il denaro che al giuoco s’espone in mille onesti piaceri, oppure in una onorata ed utile industria, può un onest’uomo sollevare gli amici, i poveri, incoraggiare le arti e i cittadini meritevoli con quel denaro che consegna alla sorte: e questi sono piaceri per i cuori sensibili alla virtù; può coll’industria migliorare la sorte della famiglia e di se stesso, invece di avere un giorno l’insuperabile rimorso di veder languire nella miseria gl’innocenti figlj vittime di una stolta passione, e di dovere arrossire in faccia ad una turba d’importuni creditori.

Altri si tolgono dalla indolenza colla intemperanza, come unico oggetto a cui attaccarsi nella penuria di pensieri in cui sono, ed infatti è ben naturale che chi ha le facoltà dell’anima torpide ed oziose debba adoperare quelle de’ sensi: ma grandissimi sono gl’inconvenienti della ghiottoneria. L’incommodo di una difficile digestione, mille mali che sopraggiungono fanno cadere la bilancia dalla parte del male, e puossi conchiudere, e come medico e come cristiano, che l’intemperanza è da fuggirsi.

Conchiudiamo adunque che siccome al corpo è utile un moderato moto, così una moderata attività è utile, anzi necessaria all’anima, e la tiene in una continua forza ed energia che la fa accorgere d’esistere piacevolmente; dico moderata, perchè l’agitazione ed il tumulto dello spirito non si ponno chiamare stati di felicità: onde la vera contentezza del cuore sta fra due estremi, della inerzia e della troppo violenza di moto.

§ VII. L’uomo sapiente, se disputerà con lo stolto, rida egli o s’adiri non avrà riposo[26]

Disputa. Lo spirito di disputa è il flagello del buon umore della società, e la contenzione di spirito nella diversità di parere, se si usa indiscretamente, produce risse ed odj contrarj alla carità cristiana ed alla pace ed armonia, che lega gli animi e sparge su i nostri giorni la serenità e la calma. Infelice è lo stato di colui che si sforza di persuadere ad un ostinato alcuna verità, ed il savio ci avverte di non parlare cogl’ignoranti, perchè disprezzeranno la dottrina delle sue parole.[27] La tristezza succede ben spesso agl’inutili sforzi di chi vuol persuadere. La buona fede è il carattere della disputa ragionevole, ma ben di rado ella vi ha parte, essendovi in sua vece per lo più non l’amore della verità, ma un mal inteso amor proprio, che ci fa credere essere un disonore il confessare di essere in errore. Le dispute che non hanno per iscopo l’amor del vero lasciano l’amarezza nell’una e nell’altra parte, ed in vece di mai unirsi di parere, sono come due lati divergenti che giammai non si toccheranno in un punto. Questo modo di disputare ha tenuti gli uomini sepolti nell’ignoranza per più secoli, giacchè niente più s’oppone al dilatamento delle arti e delle scienze che la cavillazione e l’ostinazione nella ricerca della verità. Egli è ben più grande il rinunziare ad una privata ed abbietta passione per amore del vero che il volere combatterlo inutilmente co’ soffismi. Coloro però che sono superiori al volgo per le loro cognizioni, se amano di rendere gli altri proclivi a’ loro pareri e d’indurli a ricevere la verità, usino di moderazione e non affettino un’alterezza che di rado l’amor proprio degli uomini perdona. L’esser amabile nella società[28] è un massimo bene che può acquistarsi il letterato ed il filosofo, purchè non sia nè pedante, nè orgoglioso. Che se poi a quelli che lo Spirito Santo chiama stolti voi prendete briga di ragionare, sovvengavi che gli stolti sprezzano la sapienza e la dottrina[29] e che è un fare ingiuria a noi stessi l’instruire un derisore.[30] Così non avendo altro frutto della vostra imprudente ragionevolezza che quello d’esser ridicolo, poichè il riso abbonda nella bocca de’ stolti, e de’ stolti è infinito il numero.[31]

Eccovi la maniera con cui devesi disputare per la ricerca della verità e per non avere i dispiaceri che vengono in seguito delle contenzioni scolastiche. Ve la insegna S. Girolamo in una sua lettera a S. Agostino: Disputiamo fra di noi senza veruno rancore di stomaco, ed o emendiamo il nostro errore, o facciamo vedere che l’altro in vano ci ha ripresi. La tua prudenza sa molto bene che ognuno abbonda nel suo parere, e che è una ostentazione puerile ciò che altre volte soleano fare i giovanetti, cioè di accusare gli uomini illustri per acquistar fama al loro nome; nè io sono sì stolto che mi creda offeso dalla diversità delle tue interpretazioni, nè tu ti offendi se noi siamo di diverso parere.[32]

Conclusione

Eccovi come varie azioni opposte allo spirito di carità ed alle sacre scritture produchino cattivi effetti sopra di chi si fa colpevole, cosicchè converrebbe anche senza il massimo bene della rivelazione schivarle per amore al nostro ben essere:[33] quanto ne staremo noi lontani dopo che la voce del cielo ha parlato?

Non ho fatto parola di quelle azioni che sono punite dalle leggi civili, perchè suppongo ognuno persuaso che è sempre maggiore il danno che il bene che se ne ha col commetterle. L’omicidio, il veneficio, il testimonio falso e tanti altri mali che infestano la terra sono vendicati dalla società in maniera che non v’ha alcun utile a farsene colpevole. Ho parlato soltanto di quelle azioni che le leggi non puniscono e che non lasciano di sturbare l’armonia della società, come sono l’ingratitudine, la bugia, la maldicenza, l’avarizia, l’orgoglio, l’ozio, la disputa. Felice colui che può persuadere agli uomini che l’esser onesto è un vero bene.[34] Felici gli uomini quando intenderanno questa verità.

Fine della prima parte.

PARTE SECONDA

Del falso zelo
Capo V.

Abbiamo già veduto che il carattere distintivo del vero cristiano è la fraterna carità; a questa direttamente s’oppone il falso zelo.

Il vero zelo è un vivo desiderio della gloria di Dio e della dilattazione della Cattolica Religione. Da questo è ben lontano un fanatismo indiscreto, che non avendo per fonte un purissimo amore di Dio e del prossimo, ma soltanto il proprio orgoglio e la voglia di dominare gli spiriti altrui, si scaglia contro di quegli che più che l’ira nostra meritano la nostra compassione perchè sono vittime dell’errore. Gli Apostoli, che erano infiammati di un santo zelo, quanto forse non lo fu dopo di loro alcuno, portarono la verità della nascente Chiesa in tutto il mondo predicando un Dio di pace,[35] e le loro epistole sono piene de’ dolcissimi nomi di carità e di amore del prossimo; e quel Paolo, attroce persecutore che volea sostenere la sua opinione coll’armi e colla forza mentre era in errore, dopo che la voce del Dio di misericordia e la voce di tutti i secoli gli fu rivelata, divenne un Apostolo di dolcezza. E chi oserà seguire una strada opposta a quella degli Apostoli per esser Apostolo? La Chiesa Cattolica è madre pietosa, e come tale detesta i odj e le dissensioni; i martiri hanno sigillato coll’innocente lor sangue la vera credenza, ben lungi dallo spargere l’altrui. La carità cristiana dissipa le tenebre onde ingombrano la terra gli pseudo-profeti, come fugge la notte all’avvicinarsi della immensa luce del sole. Così si distingue il vero zelo dal falso, che il primo è una furiosa passione che seco strascina la ruina ed il disordine, ed il secondo è quella fiamma celeste che rischiara le menti e persuade i cuori colla dolcezza e colla carità, che accompagna sempre la pacifica verità contenta della propria evidenza.

Egli è nel carattere di tutti gli uomini che facilmente s’arrendano alla tranquilla insinuazione della verità e che si disgustano dell’alterezza di chi vuole sforzarli a cambiare di opinione;[36] per il che mal intende il cuore umano chi fa violenza all’altrui ragione, e mal intenderebbe pure i vantaggj della religione chi usasse questi mezzi inefficaci a dilattarla, e che pur troppo le storie c’insegnano che furono fecondi di funeste conseguenze. Quel zelo fatale, o piuttosto quel fanatismo per il quale per più di due secoli si scagliarono le nazioni l’una contro l’altra, animando col sacro fuoco della religione l’ambizione de’ pochi il fanatismo de’ molti, altro non produsse che la miseria e la spopolazione d’Europa, il macello di ben quattro millioni d’innocenti cristiani, ed accrebbe la aversione de’ miscredenti per la santa religione, così ponendo sempre maggiori ostacoli al dilatamento di quella verità a cui stanno sempre a lato la pace e la misericordia.

Non meno terribile fu il fanatismo di Carlo IX, celebre per la giornata di S. Bartolomeo, la cui memoria vorrebbe a ragione che perisse il Presidente de L’Hopital, che scrive: excidat ille dies. Sessantamille infelici furono scannati, e non si fece un ortodosso; vennero in seguito a questo zelo crudele stragi e guerre tanto più sanguinose quanto che erano animate dal fanatismo. Si credette di combattere per Dio, e si combattè per l’umana ambizione. Altri fatali esempj di sanguinario fanatismo ci forniscono le storie, che hanno gli encomj dalla crudele ignoranza e che il mansueto filosofo compiange nel segreto del cuore, e vorrebbe che fossero o biasimati o scordati o non mai successi.

Ben diverso da questo spirito distruttore è lo spirito evangelico, e basta aprirlo per incontrarvi la divinità che disaprova queste pie carnificine.[37] Con questi mezzi non è stato conquistato il Paraguaj, ma la dolcezza, il buon esempio, la carità e l’esercizio della virtù costantemente praticate da’ missionarii ammollirono que’ selvaggj e vinsero la diffidenza e ferocia loro. Vennero spesse volte volontariamente ad implorare che loro s’insegnasse una religione che facea gli uomini sì perfetti, si sottoposero alle sue leggi e si unirono in società. Nulla fa più onore alla religione che d’avere civilizzata questa nazione e gettati i fondamenti di un impero con non altre armi che con quelle della virtù.[38]

Questo spirito di mansuetudine c’insegnano gli Apostoli, destinati a mondare la terra dalla sordidezza di culti non rivelati ed a illuminare le genti avvolte già da lungo tempo nelle tenebre d’una ereditaria ignoranza. Fu davanti a questa face del cielo, che rendea inestinguibile la carità ed a cui dava alimento il desiderio di far gli uomini beati, che fuggirono i fantasmi delle false religioni, che essendo opre ed imposture degli uomini non poterono far fronte un sol momento all’opere ed allo spirito trionfatore di Dio. Furono i primi promulgatori di questa santa incoruttibil legge pescatori e plebei, acciocchè imparassimo che Dio sparge la verità colla semplicità di cuore e colla mansuetudine. Lo spirito di Dio è spirito di libertà,[39] onde a Lui non piaciono che i volontarj sacrifizj, e non sono a Lui accetti gli olocausti, che non partono dal cuore sincero, ma da un cuore occupato dal timore.

Egli è nel carattere delle falsità d’appoggiarsi alla forza non avendo per fondamento che l’impostura e l’orgoglio umano. Gli Maomettani desolarono l’Asia, gli Anabatisti l’Alemagna, gli Ussiti la Boemia, Enrico VIII la Inghilterra. La vera religione abborrì sempre il sangue e le stragi, e siede come reina in suo trono sulla verità e sulla carità, e se l’ambizione d’alcuni osò por mano al suo sacro velo per coprire le prave intenzioni d’un cuore superbo ed inquieto, ciò fu sempre perchè suo malgrado; e bisogna fare una gran differenza dalla intenzione degli uomini fanatici e dalla intenzione della Chiesa; e per fine devesi accuratamente distinguere l’abuso della religione dalla religione. Distinzione importantissima per non confondere le opere degli uomini con quelle di Dio, e per non sfregiare d’increduli que’ rispettabili scrittori che rispettando le leggi del cielo fanno guerra agli abusi ed alla superstizione.

Grande pure è il male che fa il falso zelo, se s’insinua nelle private famiglie e se fa che alcuni si ergano in giudici severi delle azioni altrui, caricando d’indiscreti rimproveri la vita ed i costumi degli altri. Questo zelo melanconico non rende alcun servigio alla religione, anzi è cagione di scandali e di dissensioni. Il zelo deve fermarsi quando urta la carità del prossimo, perchè nissuna virtù è opposta ed indipendente dalla medesima. Consultiamo sempre adunque questo principale fondamento d’ogni virtù, e non ci permettiamo l’esame o la correzione delle azioni degli altri che per quanto si confà coll’amore che dobbiamo al prossimo. Seguendo i precetti di una illuminata e prudente carità cristiana, ben pochi sono i casi in cui puonsi riprendere i nostri fratelli, ma se pure l’occasione ci arrivi, quale sarà il metodo che dovremo adottare?

Sia prima d’ogni cosa lungi dal vostro cuore, dirovvi con S. Pietro, ogni malizia, ogni dolo, ogni simulazione, ogni invidia ed ogni dettrazione,[40] ed allora sarete degni che Dio v’infonda nel cuore quel zelo che conviene molto meritare e di cui Dio non è prodigo. E chi oserà mettersi accanto a’ Mosè, a’ Profeti, agli Apostoli e de’ pochi eletti ad insegnare agli uomini la volontà dell’eterno creatore senza una speciale vocazione?

Se tali qualità non avrà il zelo, noi lo riporemo fra tante infelici passioni che hanno per origine l’orgoglio e l’inquieto spirito di dissensione, benchè coprano quest’impuro fanatismo co’ più sacri e venerandi vocaboli, e s’usurpino i nomi destinati a rappresentare le virtù più atte di religione.

Ogni vero cristiano, che sentir deve la sua piccolezza in faccia dell’essere degli esseri, userà di una estrema precauzione e di un lungo ed imparziale esame di se stesso prima di credersi in diritto di vestire il sacro carattere di Apostolo, qual è il zelo dell’onore di un Dio felicissimo, e sempre si diffiderà che non lo tradisca il piacere di dominare le menti altrui,[41] e quel non mai vinto principio di alterezza, che tenta per ogni strada d’arrivare al dispotismo sino della più libera porzione dell’uomo, la ragione osando d’interessare talvolta la divinità nella sua impostura. Chi da questi principj si allontana, fa senza avvedersene l’apologia del zelo di Calvino, di Maometto e di Lutero, essendo ben spesso vero che il nostro amor proprio in gran parte de’ nostri ragionamenti non ci fa vedere il pericolo della ritorsione.

Dell’astuzia
Capo VI.

La magnanimità e l’energia di spirito hanno fatte cose grandi, l’astuzia ed i raggiri sono condannati ad ottenere piccioli fini con molto pericolo. Filippo II, il più gran Re del mondo, se la potenza misurasi dalla estensione de’ regni, ed il più politico al dire de’ Spagnuoli ed Italiani, ne è un esempio ben convincente. Considerisi la sterminata mole del suo impero, le sue immense ricchezze, il valor militare de’ grandi capitani ch’egli ebbe, e sembreranno un paradosso gli effetti di sì eccellenti ed efficaci ragioni. La mia proposizione acquisterà nuova forza, se Filippo si paragoni al suo grand’emulo Arrigo IV. Chi potendo andare per una strada diritta e spaziosa cerca i vicoli ed i sentieri occulti e tortuosi, fa vedere che non ha coraggio di fare nè il bene, nè il male. Non è tanto difficile il difendersi da coloro che hanno forza d’animo anche nell’iniquità, come il guardarsi dalle insidie di quegli, che essendo e mal-onesti e vili, vanno strisciando come i serpenti, cioè radendo terra e descrivendo un curvo cammino.

Il fanatismo e l’imprudente ardimento mutarono molte volte la faccia delle nazioni, l’astuzia esercita la miserabile sua tirannia fra le tenebre ed i nascondiglj, e limita le sue imprese alla piccola e di rado impunita vendetta. La politica delle grandi monarchie è la verità, perchè chi ha la forza non ha bisogno d’intrigo, la politica delle piccole nazioni è l’astuzia, perchè l’inganno tenta di supplire alla mancanza di forze reali. L’istesso è di ciascheduno degli uomini, ma la sola vera politica, e de’ piccoli e de’ grandi, e della forza e della debolezza, è la costanza e la verità. La politica di Machiavello non può fare gli uomini felici. La politica di quell’adorabile cittadino l’Abbè Saint Pierre è buona morale ed è buona politica; qualità inseparabili per comandare stabilmente agli uomini.[42] Il rigattiere seduce gli avventori ed il ricco mercante è di buona fede; la povertà del primo lo fa astuto, la ricchezza del secondo lo rende superiore ai vantaggj pericolosi della frode. Così i pretesi uomini di maneggio pospongono il vantaggio dell’altrui fede ad un malinteso presente guadagno, ed i grandi e veri politici hanno per base coll’onestà la pubblica fede. Eccovi l’enumerazione di alcuni tratti d’astuzia ch’io credo dover pubblicare, acciocchè sempre più si rendano inutili i sforzi dell’inganno col sviluparne i precetti e la nascosta arte, giacchè ella perde la sua forza quando si fa palese, ed a guisa de’ pipistrelli mal soffre la luce e s’aggira fra le tenebre.

Suolsi mettere fra le astuzie che si osservi attentamente il volto di quelli con cui si parla, per conoscere dall’esteriore lo stato interiore del cuore, ed è precetto dell’arte che non si fissino sfacciatamente gli occhj, ma si abbassino modestamente di tanto in tanto.

V’è un’altra sorta di astuzia, ed è quando volendosi prontamente ottenere qualche cosa, si trattiene in prima la persona con cui si ha a fare con uno straordinario discorso e con racconti che la distraggano, acciocchè venendo poi all’affare, ella abbia la mente preocupata e non sia pronta agli scrupoli ed alle obbiezioni; così ancora quando taluno propone un negozio, allorchè la persona con cui si tratta ha premura di qualche altra cosa, nè può soffrire la noja di fare attenta rifflessione.

Taluno volendo far argine a qualche affare si finge bene affetto al medesimo per disturbarne secretamente il successo.

Suolsi da alcuno [per] inspirare la curiosità ne’ circostanti di sentire qualche discorso che a lui preme, che si incominci, e poi finge di trattenersi, quasi che fosse trascorso colla lingua inavertitamente.

Altri di questi gravi politici insegnano che se ci preme che alcuno c’interroghi d’una cosa onde vorremmo essere interrogati, componiamo il volto in maniera che diasi occasione agli altri d’addimandarci cosa significhi questa mutazione di viso; e di tutto questo la gran ragione si è perchè sta più impresso nel cuore quello che si chiama agli altri con desiderio che quello che gli altri ci dicono spontaneamente.

Nelle cose ambigue ed odiose usa l’astuto di far incominciare il discorso da alcun altro di minore autorità, e risparmia le sue parole e la sua autorità come un corpo di riserva all’occasione.

Nel far palesi quelle cose delle quali taluno non vuol esser l’autore si ha costume di dire: è voce comune, si dice pubblicamente.

Vi sono alcuni i quali scrivendo le lettere sogliono porre per post scriptum quell’affare che più loro preme, quasi che fosse cosa di poco rimarco e che improvvisamente loro venisse in capo.

Taluno v’è ancora, il quale avendo a cuore il parlare d’alcuna cosa ad altri, finge di partire, come se finito fosse ogni discorso, e poi ritorna, cerca o propone quello che desidera come se dimenticato se ne fosse in prima.

S’usa da alcuni un altro artifizio, ed è quando mormorano degli altri obbliquamente e per ripercossa, dirò così: cioè facendo l’elogio di noi medesimi e dicendo che noi non facciamo tal cosa che vogliamo rimproverare negl’altri.

Altri tante graziose narrazioni hanno preparate, che niente v’è ch’essi vogliano insinuare che non involghino in una istorietta, e con questo mezzo sanno pure rivolgere e distornare a tempo il discorso dove più lor piace.

È precetto d’astuzia di porre nella bocca altrui la risposta che vi piace d’ottenere.

Alcuni usano una improvvisa interrogazione per iscoprire il nome, la qualità d’una persona.

Ella è una sorte d’astuzia assai maligna il lasciarsi fuggire dalla bocca quelle parole che vorremmo che fossero ridette da taluno per poi servirsene in suo svantaggio.

Queste ed altre sono per lo più inutili armi dell’astuzia, e malgrado l’importanza che alcuni consumati politici gli hanno voluta dare, cominciano ad esser conosciute e derise come aborti di politica e monumenti della malignità e della piccolezza dello spirito umano. Sarebbe bene che un più numeroso catalogo si facesse di queste ingegnose sciocchezze, acciocchè diventino precetti volgari di una frivola furberia.

Chi tali raggiri ha inventati ha troppo disprezzati gli uomini, e gli ha creduti troppo creduli e suscettibili d’inganno. Chi di loro si serve disperi di far grande fortuna, poichè con piccoli ingegni non si muovono corpi grandi, nè con piccolo intrigo puossi di molto migliorare la nostra sorte.

Onde la vera politica è la verità e la giustizia, sola politica degna del cuore d’un cristiano, che deve abborrire ogni finzione ed ogni dopiezza. Chi non ha un cuore impenetrabile agli sforzi che fa continuamente ed in mille maniere l’ingiustizia e la finzione per insinuarsi ne’ nostri cuori, non creda di essere nè buon cittadino, nè buon padre di famiglia, nè uomo grande, nè molto fortunato, nè sopratutto buon cristiano.

Dell’ipocrisia e della superstizione
Capo VII.

La religione è suscettibile di eccesso e di difetto, non di sua natura, ma per l’inclinazione degl’uomini a corrompere ogni sistema. La superstizione, l’ipocrisia, l’impostura ed il fanatismo sono in continuo e violento moto, e preparano sempre nuove catene alla ragione e nuove miserie agli uomini; mostri crudeli, che hanno guerra implacabile colla terra e col cielo!

Il superstizioso è colui che difforma colla propria imbecillità la maestosa semplicità della religione; l’ipocrita finge un sentimento che non prova nel suo cuore; l’impostore non persuaso ed il fanatico persuaso profittano della ignoranza e della debolezza degli uomini per spargere un culto che asseriscono rivelato da Dio.

La religione è un bene infinito, l’abuso della religione è un male funesto.[43] Quegli istessi principj, quelle rivelate eterne verità che contengono gli uomini nel loro dovere colla speranza e col timore, sono talvolta un manto onde abusa la frode e l’inganno per nascondere agli occhj altrui la sua mostruosità. Non v’ha incredulità più perversa di questa, perchè si prevale della giustizia istessa per fabbricare l’iniquità. Questi sono gli ultimi sforzi dell’umana malizia, nè il periodo dell’iniquità degli uomini può andar più oltre che di servirsi della voce di Dio per ingannare gli uomini. Parlo a que’ pseudo-profeti della Cristianità che fanno servire la religione alle loro ingiustizie e che l’addattano a’ penetrali dell’immondo lor cuore, come riempiono i fluidi le cavità di un vaso anche irregolare ed informe. Questi puonsi chiamare propriamente increduli, perchè onorano Dio più colla bocca che col cuore.[44]

Alcuni ipocriti vi sono, i quali per vanagloria cercano d’acquistare la stima pubblica col farsi vedere assidui e divoti a molte pratiche di religione. Questi, sebbene non facciano servire la religione alla iniquità ma alla ambizione, pure meritano di essere annoverati fra i falsi cristiani.

Altri credono di poter esser impunemente cattivi se siano dati ad alcuni atti di pietà, cercando così di coprire con un ammasso d’inutili divozioni il vizio fondamentale che rende ingiuste e corrotte tutte le altre azioni. Questa sorta d’inganno è pur troppo comune, ed empie i santuarj d’ipocriti e le città e le case d’indiscreti padri di famiglia e di perversi cittadini. Questi pretesi cristiani vestono per lo più un carattere austero e dogmatico, sono maldicenti, e portano seco le dissensioni e gli odj; l’esser dati più degli altri ad alcune pratiche religiose li fa orgogliosi, si credono superiori al comune de’ cristiani e si guardano come un oggetto importante agli occhj di Dio, che non s’accorge della loro esistenza nella infinita catena degli esseri che a cagione della immensità della sua intelligenza. La carità cristiana è estinta in questi cuori: non sono amici degli uomini e si fingono amici di Dio; seguono la religione sino a tanto ch’ella s’unisce al privato loro interesse, che s’ella è in contraddizione colle loro passioni sanno con una falsa teologia farla utile ed addattabile alle proprie iniquità, ed arrivano sino a persuadersi d’essere accetti agli occhj di Dio. L’istessi Gentili abbominavano quest’abuso della religione,[45] nè l’ipocrisia è vizio nuovo dell’umanità, potendosi anche in questo dire che gli uomini sono sempre i medesimi.[46] Ma se alle imposture degli uomini ella potea nuocere facendo servire la volgare credulità al proprio interesse, ella in vano si ricopre del puro ed immacolato velo della vera religione, poichè alfine traspare in tutta la sua deformità, e Dio stesso è vendicatore della purità della sua religione.

La religione ha la sua sede nel profondo del cuore; la ipocrisia susiste di soli segni esteriori di culto. Ella è simile a que’ superbi mausolei, i cui marmi sono candidi al di fuori e la cui maestosa simetria alletta gli occhj, ma sono al di dentro ricettacolo di spolpate ossa e di cadaveri immondi.[47] Niente v’ha di più superstizioso e di più stravagante nelle religiose sue cerimonie di un Dervis o di un Fachir. Il cristiano fa di se stesso un tempio a Dio, e lascia ai fanatici miscredenti il ridicolo costume d’onorare la divinità colle convulsioni e colle smanie. Il dicano Paris fu un grande esempio per provarci che il fanatismo e la superstizione amano i prodigj, e che più sono grandi ed incredibili, più strascinano seco l’ammirazione e la credenza del volgo. In fatti di mano in mano che s’allontanano le false religioni da quella che Dio ha rivelata, aggiungono col culto esteriore quella che manca alla interiore persuasione. La religione degli idolatri tutta consiste in feste e riti d’una esteriore apparenza, perchè non hanno vera e grande idea d’un esser onnipotente; lo fanno poco dissimile dagli uomini, gli attribuiscono le umane sensazioni, onde l’onorano come si onorano gli uomini. Le barbare e grossolane nazioni, avendo pochissime idee astratte e metafisiche, limitarono le loro idee alle pure sensazioni degli oggetti che li cadeano più di frequente sotto agli occhj; altre adorarono un essere superiore e creatore nel sole, altre nel fuoco; l’adorare Iddio nel cuore e nell’anima, più che nelle esteriori apparenze, è riserbato agli uomini instruiti dal Cielo.

L’ipocrita teme Iddio e teme gli uomini; dal primo crede di difendersi colla religione superstiziosa e da’ secondi coll’inganno; quello che più lo rende incorreggibile si è che si è fatta una spezie di religione a suo dosso. Le sue passioni la dettarono; l’abitudine loro tien luogo di persuasione. Molti cominciarono per esser ipocriti di mala fede e finirono ad esser superstiziosi in buona fede; altri superstiziosi in prima si ravedono del loro fanatismo, e diventano ipocriti perchè sono inoltrati nella strada. Non vorrei che taluno di quegli, che o indiscreti, o imbecilli, trovano l’empietà anche ne’ cuori più puri, tirasse dalle cose predette una funesta ed ingiusta conseguenza, cioè che la religione debba tutta essere interiore. Dobbiamo onorare Iddio e non potiamo dimostrare in altra maniera questo interiore sentimento che con segni di esterno culto: ed ecco la liturgia fatta parte essenziale della religione, ma non già principale.

L’ipocrisia non è esente dal fanatismo, anzi molte volte si danno la mano; i falsi profeti forse cominciarono per esser impostori, ed una lunga abituazione d’ingannare gli altri ingannò alla fine loro medesimi, riverberò sopra loro stessi quel fanatismo che inspiravano agli altri, e le ripetute imposture poterono lasciar nella loro mente impressioni sì vive e sì forti d’esser vittime alla fine del loro delirio. Abubeker suocero di Maometto, che l’avea veduto da vicino, che con lui era vissuto e che a gran pena puossi dir che ignorasse la sua impostura, lasciò un testamento concepito in questi termini. In nome d’Iddio misericordiosissimo­, ecco il testamento di Maometto fatto nel tempo in cui stava per passare all’altra vita, in quel tempo in cui gl’infedeli credono, gli empj cessano di dubitare e i bugiardi dicono la verità. Questo fatto è citato da scrittori Arabi. Il gran Voltaire mi fornisce queste riflessioni, v. Histoire Universelle. Così la divina Giustizia può punire col più grande de’ castighi, cioè con un totale arricchimento, questi mostri di falsità colle loro armi medesime.

Se le opere dell’infinita sapienza non fossero invariabili ed incorruttibili, la religione cristiana averebbe molto da temere dall’ipocrisia e dalla superstizione, e l’una e l’altra tendono a distruggerla per strade diverse che vanno al medesimo scopo, ed è di toglierla dalla mente e dal cuore per sostituire alla interna onzione la sola apparenza.

Sogliono gli ipocriti vestire la religione di un manto lugubre, la fanno terribile e minacciosa, piuttosto che madre celeste e conforto a’ nostri mali. La dipingono come un pesantissimo giogo, come una legge non mai abbastanza adempita, la fanno dipendere da infiniti elementi, ne moltiplicano i precetti ed i pesi, vogliono per fine atterrire gli uomini, perchè li temono.[48] Ma la religione per esser amata deve presentarsi sotto un aspetto di madre piuttosto che di tiranna sempre colla spada in mano: si devono persuadere e non atterrire gli uomini per condurli nella via della verità, e fa gran torto a questa madre pietosa chi la dipinge coi fulmini e coi flagelli soltanto, e non colla face della verità e dell’amore. Ella è una strana voglia di alcuni cristiani destinati a predicare il Vangelo di predicare sempre l’inferno e mai il Paradiso, d’inspirare il timore e mai l’amore di Dio.

Questi falsi Apostoli instupidiscono gli uomini, ma non li fanno migliori; credono il cuore umano troppo insensibile, fulminano e non persuadono. L’impressioni della carità di Dio e del prossimo sono più forti e gettano più sode radici nel nostro cuore; l’impressioni del timore sono passaggiere, non agiscono vivamente che nella loro maggior forza, ed il loro periodo è breve. Deplorabile conseguenza di questa maniera di predicare il Vangelo si è il vedere nella Santa Religione di pace e di grazia quella infelice razza d’uomini vittime del fanatismo di un falso zelo e bene spesso dell’ipocrisia. Questi sono i scrupolosi, sorta di pazzia nata dalla nostra debolezza e dalla indiscrezione altrui, gran prova della infelicità degli uomini, che arrivano a servirsi della rivelata eterna verità per far vaneggiare le menti, e quelle instruzioni di Dio destinate a far felici e rischiarati gli uomini veggonsi adulterate ed abusate a segno d’esser instromenti d’infelicità e di delirio. Quale stato più infelice di coloro, che sempre incerti di quello che Dio pretende da loro, sempre tremanti con un inferno aperto sotto a’ piedi, male instrutti della religione la sentono sulle spalle come un peso enorme sotto cui gemono?[49] Le stravaganze ben tosto succedono alla vera pietà, sono tolti i confini che dividono la superstizione dalla religione, la melanconia occupa il cuore ed offusca lo spirito, il padre di famiglia, il magistrato, l’artigiano diventano cittadini inutili o nocevoli. Insegnisi l’Evangelo come l’insegnarono gli Apostoli, ed allora si faranno de’ veri cristiani. Non abusi, chi è destinato a sì sacro ministero, dell’inclinazione del popolo ad un panico timore. Instruisca colla dolcezza di Gesù Cristo e non colla severità de’ farisei, nè supponga che sia il popolo una bestia feroce che dev’essere atterrita, acciocchè diventi docile e mansueta. Il Divino Redentore parlava l’istesso linguaggio a’ grandi ed a’ plebei, e la vera teologia persuade e non rimbrotta. Buon per noi, che abbiamo molti illuminati pastori che impediscono i progressi del fanatismo!

Egli è sacrosanto ma è terribile il carattere di Apostolo. Chi passa oltre i confini della rivelazione e delle cose che hanno ad essa rapporto predica il fanatismo, e chi tutta non la comprende non instruisce abbastanza gli uomini. La minima libertà, la minima omissione nel predicare il Vangelo può esser superstizione ed ipocrisia, due scoglj egualmente pericolosi ed egualmente distanti dalla religione. Un passo solo al di là di quegli eterni confini che Dio istesso di sua mano ha tracciati tra la Rivelazione ed il fanatismo cangia il cristiano in un falso profeta.

De’ giudizj temerarj
Capo VIII.

Piace molto al nostro orgoglio di ritrovare gli altri diffettosi; questo sentimento osa talvolta mascherarsi col zelo della religione, cosicchè puossi dire per vergogna dell’umanità che siccome non v’è cosa, benchè vile e ridicola, che gli uomini non abbiano adorata, così non v’è passione o vizio che non abbia avuta la sua apoteosi. Molte volte prendiamo un sentimento per un altro, e quello che è un falso zelo o un falso amor proprio lo crediamo amore di Dio. In tal inganno sono coloro i quali o per ozio, o per una funesta inclinazione a farsi importanti collo spargere dissensioni, si fanno severi giudici de’ costumi e della vita altrui, credendosi così di adempire ai doveri della religione e di fare gli uomini migliori, non facendone che malcontenti ed inimici. Il vero cristiano, che è tutto dato alla sua religione e che sa che il tempo è cosa preziosa a chi adempie gli obblighi o di magistrato o di padre di famiglia o di artigiano &c., ozio non ritrova per essere spettatore e giudice indiscreto de’ suoi eguali; questo indiscreto giudizio, ch’io chiamerò giudizio temerario, m’intendo che sia un giudizio proferito sulle altrui azioni prima di averle esaminate colla ultima esatezza.

Gli uomini giudicano delle cose per i rapporti ch’elleno hanno con loro. La ragion sola dovrebbe aver luogo in questo giudizio giacchè ella sola vede i veri rapporti delle cose, ma le vive nostre passioni il più delle volte hanno parte ne’ nostri giudizj, li quali essendo sì diversi in ciascheduno fanno tanti scismi d’ingegni e tante questioni che non sono per lo più che aria mossa e foglj scritti.

Per ben giudicare della figura di un oggetto bisogna vederne tutta la superficie, così pure nel resto delle cose; se giudicar volete delle azioni degli uomini, bisogna prima che le vediate per tutti i lati, e ne esaminiate tutti i principj e le nascoste cagioni che le producono, altrimenti, se qualche dato manca a questo giudizio, egli è falso, come non bene giudicherebbe della figura di un cubo chi non ne vedesse in prima tutti i lati. Accade non di rado ne’ giudizj che formiamo sopra gli uomini quello che avviene nel calcolo, cioè che se qualche piccola quantità si tralascia o si aggiunge, diviene in appresso un importantissimo sbaglio. Nella serie de’ nostri ragionamenti gli errori sono più grandi più che dalla cagione loro si allontanano, perchè più sono le false conseguenze che tiriamo da un principio falso, più grande è il nostro errore. Un uomo che ben giudicasse di ogni oggetto sarebbe un uomo senza passioni. Nissun uomo adunque giudica sempre bene d’ogni oggetto. Dipende il giudizio che formiamo sopra le cose dallo stato attuale dell’animo nostro; l’avaro giudica facilmente i suoi famigliari per ladri ed assassini, l’ambizioso vede in ognuno un inimico che distorna i suoi intrighi, il superbo crede disprezzo quello che non è che distrazione: e così penetrando nel cuore umano con un più esatto dettaglio vedrassi quanto grande influenza abbiano le passioni su i giudizj.

Se gli uomini mediocri intendessero quanto violenti sono i motivi che determinano ad operare gli uomini grandi e straordinari, cioè la forza delle passioni dalla quale sono strascinati, non li guarderebbero con un occhio tanto più stupido ed inimico quanto più grande è lo spazio che li divide. Alessandro Macedone è un fanatico agli occhi della timida prudenza, ma ne’ cuori di Cesare, di Silla e di Gengiscan non desta che una viva emulazione.

L’uomo volgare è inimico del uomo di genio, perchè mal soffre ch’egli osi esaminare i principj ricevuti assiomi per gli spiriti mediocri, i quali fanno consistere la loro scienza in cavarne da essi giuste conseguenze non mai ponendo in dubbio la loro realità; e gli uomini che non hanno le idee analoghe giudicano diversamente dell’istesso oggetto.

I nostri sensi, vejcoli di verità e di errore, ci fanno bene spesso giudicare falsamente delle cose: così il notturno viaggiatore al chiarore della luna crede un uomo un arbore ed un arbore un uomo. Tante sono in somma le cagioni per le quali possiamo ingannarci nel giudicare che grande deve esser la nostra cautela.

Fin qui ho parlato all’uomo, ora parlo al cristiano; se adunque essendo facile lo sbagliare ne’ nostri giudizj, e per la tempesta delle passioni, e per l’attuale situazione dell’animo nostro, e per diffetto de’ sensi, dobbiamo prima esaminar molto la cagione de’ nostri giudizj, quanto più saremo noi cauti, dopo che Gesù Cristo istesso ci ha tante volte nel Vangelo raccomandato che ci guardiamo dal giudicare! Se fosse permesso d’entrare ne’ motivi che determinarono il Divino Redentore a promulgare legge sì salutare, sembrarebbe ch’egli avesse di mira appunto il pericolo d’ingannarci tanto famigliare alla umanità.

Taluni vi sono, i quali scordandosi di esser uomini, cioè piccoli insetti che si strisciano su di un pugno di fango, osano con un temerario esame penetrare i fini per i quali l’essere creatore anima e muove immediatamente l’universo. Non parlo io già di que’ genj benemeriti dell’umanità che allo studio della fisica e dell’astronomia si consacrarono, i quali si limitarono alle cause seconde; ma parlo di quegli orgogliosi e severi ignoranti che giudicano de’ fenomeni del cielo e della terra come de’ piccoli affari di una privata famiglia. Questi, o piova o sia sereno, o tempestoso o placido sia l’Occeano, danno di tutto ragione, e come se fossero consiglieri intimi di Dio sanno dirvi quand’egli è sdegnato e quando è in pace. Se un’orrida burrasca fa naufragare una nave il motivo si è perchè Dio volea punire un Gionata, se la terra è scossa dal terremoto ed una città viene ingojata, ella era macchiata de’ peccati di Gerico; di tutte in somma le cose che accadono, non temono di temerariamente giudicare. E chi sei tu, o uomo, che alzando la stupida ed orgogliosa fronte dal fango in cui giaci sepolto ardisci leggere i decreti eterni ed incomprensibili della sapientissima intelligenza, che tiene l’universo in un pugno?[50] S’egli è tanto difficile a’ più esatti investigatori della natura di scoprire la cagione de’ più frequenti e triviali fenomeni della materia, quanto profonda sarà la comune ignoranza intorno ai motivi che determinano la creatrice intelligenza ad operare? S’ella è cosa certa che l’umiltà e la carità sono necessarie in un vero cristiano, converrà dire ancora che questa sorte d’uomini non lo siano, perchè la mormorazione e l’orgoglio sono inseparabili compagne del giudizio temerario. Quegli che ad ogni tratto dicono operare Iddio con leggi straordinarie, non si ricordano delle parole dello Spirito Santo, che per bocca del savio e del Profeta Isaja disse: E qual degli uomini potrà sapere i consiglj di Dio, e chi potrà pensare cosa Iddio voglia?[51] nè alcuno può dire a lui perchè fai questo.[52] Chi senza avere l’anima rischiarata da lumi superiori[53] dice che il tal fenomeno è fuori della natura, dice di conoscere i confini della natura, chi ne conosce i confini tutta l’ha esaminata, e chi dice di avere esaminata e conosciuta tutta la natura dice un paradosso. Quanto è mai ridicola e funesta cosa adunque il vedere gli ignoranti e le vecchie solitarie divenute più dotte nella fisica sublime di Newton e di Buffon? Egli è pur troppo vero anche in questo che l’insolente ignoranza giudica di tutto senza esame e che il saggio sa di poco sapere. Il comune degli uomini (scrive un celebre autore) non avendo contratto il costume di meditare e non avendo saputa alcuna cosa profondamente, si crede bastevolmente instrutto allorquando ha un superficiale conoscimento delle cose. L’ignoranza e la sciocchezza si persuadono facilmente di tutto sapere; l’una e l’altra sono sempre orgogliose; il grand’uomo soltanto può essere modesto. Quanti, dopo avere consacrati molti anni alle più profonde meditazioni, vedono che non hanno fatto che spogliarsi degli errori e che le verità note agli uomini sono in piccol numero, ed esclamano: hoc unum scio me nihil scire? L’apparato dell’umano sapere è grande, ma se vi penetriamo forse stupiremo di ritrovarlo circonscritto in strettissimi confini.[54] V’è stato chi disse che poteasi riddurre in poche pagine tutto quello che sanno gli uomini con certezza geometrica di morale e di metafisica. Se Salomone entrasse in una delle nostre vaste biblioteche ridirebbe il celebre suo vanitas vanitatum, & omnia vanitas. Concentriamoci adunque nella piccola sfera delle nostre cognizioni, dilatiamola se si può, ma ricordiamoci che i giudicj di Dio sono imperscrutabili.

Che se grande è il nostro orgoglio nel giudicare le opere di Dio, non minore è la nostra temerità nel giudicare il cuore degl’uomini. Questa licenza poco cristiana d’alzare tribunale sopra la vita ed i costumi degl’altri produce molti mali funesti alla pace ed alla tranquillità delle famiglie e delle società. La maldicenza, gli odj e le risse, ed il falso zelo e la divota superbia, tutte s’affollano dove s’introduce il temerario giudizio. Basta aprire il Vangelo per incontrarsi nelle minaccie di Dio contro questo vizio, forse più funesto alla umana società di quello che comunemente si crede.[55] Tristi sono gli effetti di questo temerario esame dell’interiore dell’uomo, e mentre si pensa di togliere gli scandali e di riformare i costumi, s’ottengono effetti contrarj.

Ella è cosa che inspirar deve un’alta vergogna ed una estrema diffidenza de’ suoi giudizj in ogni buon cristiano il vedere come gli uomini hanno giudicato di S. Paolo, di S. Giovanni e quello che sembra incredibile dello stesso Gesù Cristo. Egli medesimo così ne parla in S. Luca: Venit Joannes Baptista &c.[56] Cosa dovremo adunque pensare de’ giudizj degl’uomini s’eglino giudicarono il Figlio di Dio un impostore?

S. Paolo nell’isola di Malta, per ristorarsi dal freddo e de’ disaggi sofferti in mare, fatto un piccolo ammasso di stoppie gli diede fuoco: una vipera che vi era nascosta scossa dal caldo s’attaccò alla sua mano, che ne dissero i circostanti? Utique homicida est homo hic, qui cum evaserit de mari ultio non sinit eum vivere. Actus Apost. cap. 28. Ecco come giudicano gli uomini, e quanto ne’ loro giudizj ha influenza la funesta eredità degli errori e de’ pregiudizj.

Una delle più infauste conseguenze del giudizio temerario si è l’accusa sì frequente d’irreligione che si fanno l’un l’altro li cristiani. Non v’è alcun uomo che si sollevi dal volgo che non abbia provata questa terribile ed impunita calunnia. Ella è cosa frequente ripettuta dalle bocche de’ falsi devoti, colui non ha religione: costoro ci proibirebbero fino di ragionare se potessero; come se la verità dovesse sbandire dalla terra la virtù, e tale fosse la forza del vizio che non si potesse esser divoto senza essere imbecille. Quest’è l’asilo dell’ignoranza e della perfidia, che non sapendo come intaccare la riputazione d’alcuni uomini d’incorrotta probità, ne’ quali detestano la non mai perdonata superiorità d’ingegno, elleno si vendicano del disprezzo che hanno gl’illuminati per gli uomini volgari con un’accusa che è facilmente ascoltata. L’orgoglio di ciascuno mal soffre che altri sia a noi superiore di forze o di spirito; ma non è sì facile il far guerra vantaggiosa alla forza fisica come agli ingegni, onde quest’ultima sorte di guerra è più comune: per questo vediamo in ogni secolo uomini d’ingegno sublime languire nella miseria e nello squallore delle carceri, e per questo dalla commedia delle nubi insino a noi ed in tutta la posterità nostra, oso predirlo, la loro sorte sarà sempre la stessa, e funesteranno mai sempre la tranquillità de’ filosofi i Zoile ed i Freloni.

Si temono gli uomini grandi, eppure ad essi convien ricorrere, giacchè i mediocri e gl’ignoranti non resero mai un servigio importante o alla nazione o alla religione; e a chi ne’ tempi pericolosi e funesti al Cristianesimo deve (dopo di Dio) la Chiesa la sua grandezza e l’avere estesi i suoi confini, se non agli uomini grandi? E chi più del dotto Agostino, dell’eloquente Grisostomo, del filosofo Giustino, del saggio Geronimo Tertulliano contribuì all’ingrandimento della Chiesa? I fanatici gridano all’empio contro ogni uomo nato per rischiarare le nazioni. Ogni verità sotto un aspetto nuovo loro è sospetta. Allarmano i deboli spiriti coll’infonderli un odio universale alle novità, simili a’ fanciulli, de’ quali disse un poeta:

Nam vel uti pueri trepidant, atque omnia caecis
in tenebris metuunt; sic nos in luce timemus
interdum nihilo, quae sunt timenda magis quam
quae pueri in tenebris pavitant figuntque futura.
Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necesse est
non radii solis, neque lucida tela diei
discutiant, sed naturae species ratioque.

Grande è l’ingiustizia degli uomini su questo punto; sempre immemori de’ segnalati beneficj ricevuti da’ genj, che sparsero sul genere umano le cognizioni utili, alzano gl’ignoranti la garrula loro voce contro di essi. La maligna stupidità vorrebbe incatenare gli animi ad una servile moderazione, e terrebbe le nazioni in un eterno secolo di ferro, se il coraggio de’ grandi ingegni non fosse alcuna volta maggiore di ogni ostacolo. Sembrami vedere gli Egiziani, che mettono degli argini alle acque fecondatrici del Nilo.

Se gli uomini intendessero le obbligazioni che hanno a’ filosofi, vedrebbero quanto a torto li temono. Per fare cose molto utili alla umanità bisogna molto osare, perchè per lo più l’infelicità degli uomini tiene a’ loro pregiudizj. Se una nazione si toglie dalla schiavitù, a chi ne ha ella l’obbligazione se non a quell’ardito ribelle che l’esito favorevole fa chiamare Padre della Patria, e che se fosse stato infelice avrebbe terminata la sua vita su di un catafalco? A chi deve la Moscovia il ripulimento ed il passaggio dalla barbara vita alla socievole se non al gran genio di Pietro? A chi l’Inghilterra l’essere arrivata al colmo della potenza marittima e commerciante, se non alle meditazioni de’ filosofi? Nelle estremità sole sentesi il bisogno degli uomini grandi, perchè per rimontare dall’ultima decadenza vi vogliono grandi qualità solo proprie de’ grandi uomini: per questo sono eglino oscuri quando la sorte degli stati va per moto concepito; allora è che la parola filosofo non si pronuncia che con un sorriso, e vuol dire stravagante e curioso. Filosofo vuol dire amatore della verità; non può avere il filosofo per inimico che l’inimico della verità; ora, s’egli è vero che la verità è utile all’uomo, non sarà certamente amico dell’umanità chi odia i filosofi. Il cristiano, il cui amore deve abbracciare tutti gli uomini, quanto più deve amare quegli uomini la cui professione è l’indagare la verità sulla quale il Cristianesimo è fondato!

Gli uomini mediocri, cioè quelli che tirano qualche conseguenza dai principj universalmente ricevuti, veder non ponno di buon occhio l’ardire e l’impeto de’ genj, che sormontano gl’inciampi frapposti alla verità dalla impostura e da’ paralogismi di più secoli, distruggendo in pochi anni l’opera di un lungo tempo. Due secoli fa era dotto chi sapeva a mente buona parte di Aristotile, e si chiamava filosofia una serie d’ingegnose sciocherie pronunziate gravemente. Quanto non dovettero soffrire i primi rifformatori dello spirito umano, e quanto funesta ad alcuni di loro non fu la ricerca e l’apostolato (se m’è permesso di così esprimermi) della verità? Tutti li mediocri doveano far fronte a coloro, che osando squarciare quel velo al cui favore nascondeano la propria imbecillità, rendevano pubblica la loro ignoranza. Immaginatevi che un Newton voglia convertire un sottilissimo peripatetico, che da molti anni s’è consacrato alle chimere di Aristotile; se questo godrà della universale considerazione, come vorrà egli mai rinunciare per amore della verità a quegli errori che tanto gli sono utili? oltre di che una lunga serie di riflessioni e di meditazioni, anche fondate su falsi principj, producono una sorte di persuasione, ch’io chiamerò persuasione di pregiudizio, alla quale si rinunzia più tardi che si può.

Cristoforo Colombo dovette girare tutte le corti di Europa prima di esser nemeno ascoltato, e lo fu dopo di esser stato undeci anni nell’anticamera del Re di Spagna; sembrami colla immaginazione di vedere i visi di que’ gravi politici e di que’ cortiggiani motteggiatori parlarsi l’un l’altro all’orecchio, sorridere in faccia di Colombo e dargli i contrassegni di un profondo disprezzo. Chi tenta di scoprire nuove spiaggie ignote al volgo, delle quali egli nè meno sospetta l’esistenza, non ha migliore accoglienza, ed i Colombi in ogni genere avranno l’inimicizia di chi trova utile l’ignoranza altrui e meriteranno mai sempre il disprezzo degli uomini volgari. Quel fatale ardimento d’opporsi alle novità utili indistintamente come alle [noce]voli, quasi che tutto fosse pensato e che niente rimanesse da pensarsi di grande e di utile per gli uomini, fece cadere in contradizioni anche que’ rispettabili uomini, ch’erano strascinati dalla torrente del secolo al comune naufragio; fu colpa più de’ tempi che loro; abbiamo quindi vedute prima combattute le idee innate di Cartesio, poscia le idee acquisite di Locke: abbiamo veduto esser accusati i mandarini chinesi di atteismo, abbenchè fossesi fatta aspra guerra a chi disse potersi dare una repubblica d’attei, e l’immortale nostro Italiano Galileo, vecchio d’anni e di sapienza, non potè impunemente dir quelle verità ch’or non sono ignote che al volgo.

Non sono sì frequenti gli increduli come suppongono gl’ignoranti, la verità della religione penetra in ogni cuore ed alla sua luce pochi resistono: anzi i veri cristiani ed i più illuminati non si ritrovano nel volgare degli uomini. Li saggi credono per principj e per ragione, ed il volgo, che addotta facilmente ogni opinione, è inclinato in ogni paese alla superstizione; e forse i saggi sono cause seconde di cui Dio si serve per conservare la purità della rivelazione.

Conseguenza di quanto abbiamo detto si è che è indegno d’ogni buon cristiano quel terribile e pur troppo comune giudizio temerario di accusare gli uomini grandi d’irreligione, poichè se alcuni fra loro ebbero questa sfortuna non dobbiamo perciò tirarne una barbara conseguenza, cioè che devesi far guerra agl’ingegni e che pericolosa cosa è il filosofare: conseguenza egualmente giusta di chi dicesse che non si deve mangiare perchè alcuni sono morti di veleno. Questa calunnia attroce più di ogni altra merita d’esser più d’ogn’altra detestata da’ seguaci di Cristo: Iddio solo è il conoscitore de’ cuori,[57] ed egli solo ne è giusto ed imparzial Giudice. Chi dice che li suoi fratelli non sono buoni cristiani, dice di non esserlo egli medesimo, perchè fa la più grande delle mormorazioni e delle calunnie; giacchè pregiudica infinitamente anche al ben essere temporale il passare per incredulo, e l’opinione comune è a svantaggio di chi è creduto tale; ed infatti dalla circonspezione estrema con cui camminar deve ogni tribunale delegato a questo, vedesi quanto importante sia un profondo esame prima di decidere in sì grave punto; oltredicchè il giudizio degli increduli può solo spettare a’ tribunali legittimi, nè ciascun privato deve farsene giudice o delatore.

Non si può bene giudicare di un uomo da una sola azione, alle volte la sorte e le circostanze ci fanno sortire dalla originaria nostra situazione, e per deffinire un uomo bisogna averlo veduto passare su tutti i punti su cui può passare, giacchè la deffinizione di un uomo è il risultato di tutte le sue operazioni. Quel pessimo fanatismo adunque con cui giudicansi i filosofi sì facilmente increduli è non solo mancanza di retto giudizio perchè formasi troppo precipitosamente, ma è positivamente contrario a’ vantaggj della religione, perchè come mai non farà torto alla verità sua il dire che gli uomini che più pensano e più ragionano sono inclinati alla incredulità?

Interpretare sempre bene più che si può le azioni altrui, guardandosi dal giudicare dalle apparenze,[58] compiangere la sventura degli increduli, ma non difamarli: illuminarli se potiamo, ma non aggiungere alla loro sfortuna eterna anche la temporale, ricordarsi quanto le passioni, l’orgoglio, l’ozio, la maldicenza, la vendetta abbiano parte ne’ nostri giudizj, sono principj che coltivano la pace, che escludono gli odj e le dissensioni, e che inducono una vicendevole tolleranza negli uomini. Eccovi il dialogo che ebbero non ha molto un cristiano ignorante, se pure questa infelice razza d’uomini è suscettibile delle sublimi verità della religione, ed un cristiano filosofo. Garantisco la verità del fatto, e non sono mutati che i nomi in Aristo e Damone.

A. … Vi si trova una positiva ripugnanza in natura.

D. Oh appunto voi, Signor Aristo, con questa vostra natura: vorrei vedervi voi altri novatori moderni, voi pretendete di spiegar tutto colla natura, cotesta è una bestialità, io vi spiegherò tutto colla providenza.

A. Ne temo assai.

D. Come? voi adunque negate la providenza di Dio?

A. Bel bello signor…

D. Schiavo, padroni, non c’è più questione.

A. Non tante cose in faraggine, una dopo…

D. Quando negate la providenza di Dio, è bella e finita.

A. Un po’ di metodo di grazia, perchè…

D. Abbruggieremo i Santi Padri, abbruggieremo i Libri sacri, non v’è più religione, vivremo come tante bestie.

A. Appunto colla vostra logica le immitate assai bene, Signor Damone, che ingiustizia è mai la vostra…

D. Negare la providenza…

A. No, non m’interrompete; la disputa è seria, ed io non mi voglio lasciar privare del mio diritto da rispondervi. Il vocabolo di natura vi scandalizza; non so che sia mai uscita una decisione legitima che ne proibisca l’uso e lo proscriva dal dizionario. Per nome di natura io m’intendo le leggi ordinarie che Dio creatore ha fissate nell’universo, e in questo senso un grave discende per natura, la luce illumina per natura ed il fuoco per natura dilata i corpi.

D. Ma voi altri filosofi alla moda volete spiegar tutto per natura, ed escludere la providenza.

A. Da quello che vedo non gli avete molto esaminati gli filosofi moderni, fra i quali non so per qual fine volete ripormi, sebbene io non pretenda a tanto. I filosofi, sieno moderni, sieno antichi, sono divisi in due classi propriamente, i veri ed i falsi; i veri, ben lungi dal pretendere di spiegar tutto…

D. Ma Signore…

A. Ma Signore, non m’interrompete: ben lungi dal pretendere di spiegar tutto colla natura, i veri filosofi confessano che pochissime sono le cose di questo mondo che si conoschino bene, e delle quali si possa dare una ragionevole spiegazione…

D. Ma danno tutto alla natura…

A. Cioè quel poco che può spiegarsi come effetto delle leggi ordinarie della providenza d’Iddio, non cercano di spiegarlo co’ principi delle leggi straordinarie.

D. Oh qui poi…

A. Voi vi vantate di spiegar tutto colla providenza.

D. Certamente colla providenza…

A. Dunque voi intendete tutto.

D. Io non intendo tutto ma…

A. Dunque voi potete spiegare quello che non intendete voi.

D. Non cerchiamo d’imbrogliarci con queste sottigliezze, voi m’avete negata la providenza di Dio.

A. Falsissimo, vi ho negato che con questa si possino spiegare i fenomeni dell’universo, e notate bene che spiegare non vuol dire comprendere all’ingrosso come sieno creati, ma vuol dire comprenderli chiaramente con quai leggi sussistino.

D. Basta, mi avete negata la providenza, non so poi altro.

A. Voi pensate e ragionate molto male. Io adoro e riconosco la mano motrice di Dio nelle opere sue; riconosco nell’universo quella divina providenza senza di cui non potrebbe nè esistere nè conservarsi, nè sono fatuo a segno di vantarmi d’aver letti i Libri della Divina providenza, o d’essere stato del consiglio della Divinità quando architettò l’universo, come pretendete voi, vantandovi d’aver cognizione tale della providenza da spiegare con essa tutti i fenomeni.

D. Sì, sì, spiegate pur tutto colla natura, già lo so, voi altri novatori non credete nemmeno ai miracoli.

A. Se voi credeste al Vangelo, sarebbe egli possibile che per un zelo fanatico v’induceste ad offendere e calunniare il vostro prossimo come fate? Cosa è miracolo? Scommetto che non lo sapete.

D. Oh bella: miracolo è tutto quello ch’io non posso fare.

A. Sicchè quando piove?

D. Miracolo.

A. Quando tramonta il sole?

D. Miracolo.

A. Imparate, Signor Damone, che miracolo è quando Dio opera con leggi di straordinaria providenza allontanandosi dalle leggi ordinarie che ha stabilite nell’universo.

Qui Aristo finì la conversazione partendo ben persuaso della mala fede e della irragionevolezza di Damone. Ma egli andò spacciando che Aristo negava la providenza ed i miracoli, ed alcuni testimonj di questa conversazione asserirono in favore di Damone. Così la maliziosa stolidità insulta la modesta e tranquilla filosofia.

Fine della seconda Parte.

PARTE TERZA

Capo IX.
Della economia domestica

Uno de’ massimi beni della società è il potere tranquillamente possedere una casa in cui vivere agiatamente ed in pace. Quale differenza non passa dalla capanna d’un Utentoto ad una reggia? Eppure gran parte della loro differenza consiste nell’opinione. Le nostre case sono un asilo o un regno domestico, dove non solo siamo al coperto delle ingiurie delle stagioni, ma ancora dovressimo essere dalle ingiurie degli uomini. La maggior parte della vita ivi la passiamo, le persone che più ci sono vicine o per natura o per convenzione albergano con noi; è adunque ragionevole il pensare seriamente all’ordine ed alla armonia della famiglia; ma per pensarvi con ragione bisogna che nessuno di quegli che la compongono si faccia centro a cui riddurre tutto il bene di questa domestica società; bisogna al contrario che sia interesse di ciascheduno di mantenere la pace e l’ordine. Dove gl’interessi degli uni si collidono cogli interessi degli altri, ivi non è possibile che siavi concordia e tranquillità, come non è placido il mare se venti opposti lo sconvolgono.

Nelle umane società v’hanno certe leggi che hanno molta analogia con quelle del moto; e siccome Cartesio ha posto in chiaro quelle, se si facessero anche di queste gli elementi riducendole a principj, non vi sarebbero legislatori che pretendessero che i corpi non gravitino al loro centro. Molte forze poste in siti differenti ponno tirare un corpo ad un dato segno, se sono cospiranti, ma non mai se sono opposte, così pure i privati interessi d’ogni membro della società, ben diretti che siano, conducono gli uomini al maggior ben essere possibile. Onde assai ingiustamente alcuni, anzicchè contribuire al ben essere comune, si fanno dispotici tiranni di questa piccola e debole monarchia, e tanto più è da compiangersi quest’abuso di potere, quanto che le leggi poco diffendono nelle famiglie private i deboli dalla forza. Ogni uomo cristiano e sensibile ai mali della umanità non può leggere senza fremere nel fondo dell’anima quelle barbare leggi Romane che faceano i figlj schiavi e pure macchine abbandonate ai capriccj di un uomo che univa le contradditorie qualità di giudice, parte ed esecutore della sentenza nella medesima persona; dico ai capriccj, perchè la tanto vantata natura e gli inditi sentimenti di amore moderavano sì poco l’eccesso di questo dispotismo, che ben quattro segnalati esempj abbiamo di padri che immolarono i figlj alle loro passioni,[59] senza che ne abbiamo un solo che insegni e faccia vedere un figlio che abbia tentato alla vita del padre. Era ne’ principj della Repubblica concessa la facoltà a’ padri di famiglia d’instituire eredi o di tralasciare a loro piacere i figlj, ma in seguito, cum saepe maligne de sanguine suo judicarent parentes,[60] si dovette riformare questa tirannia coll’obbligare i padri o ad instituirli eredi o ad eseredarli dandone la ragione fissata dalla legge. Quel legislatore che approvò tali leggi non ebbe di mira al certo la pubblica felicità, perchè s’egli è vero che anche i figlj sono uomini che hanno la loro parte nel contratto sociale, e che hanno diritto al ben essere qualunque sia la loro età e la forza de’ loro muscoli, non doveansi al certo abbandonare ad un dispotismo domestico; e la lesione del contratto cresce ad ismisura se si consideri che i figlj sono diffensori della patria, giacchè dalla gioventù si cavano i soldati. Il non protteggere egualmente i padri che i figlj colle leggi, e l’abbandonare due terzi della nazione ad un terzo è consegnare la debolezza alla forza. Tale era lo spirito delle leggi Romane. Era la patria podestà dominium Quiritarium quod patri competit in liberos. Questa crudele parola dominium significava che possedevano i figlj come si possiedesse un armento: espressione indegna d’uomini nati liberi e ragionevoli, che scordandosi che gli uomini nascono eguali faceva il figlio porzione del padre e non un essere a parte, che esiste da sè e che ha certi diritti e certe relazioni.

Vi è una grande ingiustizia in non fidarsi della umanità de’ figlj verso i padri a segno di credere che nascano loro inimici col dargli sopra di essi, come sopra bestie feroci, un dispotico potere coprendo poi questa ingiustizia medesima colla chimera dell’indito amore verso la prole. Se la natura muove i padri ad amare i figlj come parti di sè, perchè la stessa natura non farà che i figlj amino i padri come loro cagione?

Non sono giusti que’ contratti che portano il solo danno ad un de’ contraenti. Ma la tirannia e la forza usurpano i sacri nomi di diritto e di ragione. L’imparziale filosofo vede nel fondo della disprezzata sua solitudine quanto importi all’umanità che non si confondino i termini di forza e di diritto, vede segnata in ogni parte la terra di funeste conseguenze, ma vede altresì che gli esatti silogismi sono mezzi inadequati a far grandi rivoluzioni; il tempo e il caso le fanno, tirano le nazioni dal disordine e le sobbissano di nuovo nel caos; ed intanto che la ragione fa piccole rifforme e distrugge insensibilmente i mali degli uomini, il fanatismo e le grandi passioni distruggono i tiranni e mutano la faccia all’universo. Sperar si deve adunque poco di rifformare colla ragione gli uomini; ma tutto sperar si deve da un uomo cristiano al quale i sublimi principj di religione insegnano e persuadono che l’umanità e la giustizia sono i primi caratteri di un essere sensibile e ragionevole. Un tal uomo adunque dovrà sapere che gli uomini sono fratelli; e che come tali hanno l’uno sopra dell’altro nissun diritto se non quello che è necessario per il buon ordine della società, vale a dire quella porzione che è utile tanto a chi si chiama superiore come a chi si chiama inferiore. Se queste qualità mancano al diritto, egli cessa al momento di esserlo, e diventa oppressione e tirannia.[61]

Se gli uomini potessero essere eguali senza anarchia, non sarebbe giusto che si introducesse alcuna diseguaglianza fra loro; ma dove il bene della maggior parte esigga chi comandi e chi obbidisca, con certi patti fatti da esseri liberi, ivi è giusto che la diseguaglianza s’introduca. Che un uomo sia superiore ad un altro egli è un male, ma che gli uomini siano disordinatamente sparsi nelle foreste senza proprietà, e col solo vincolo della forza e del timore, egli è un mal maggiore. Di due mali adunque si scelse il minore. Nello stato di Orangottano i figlj stavano vicini alla madre sino a che il bisogno fisico di allattare all’uno e di allegerirsi di un incommodo peso all’altra, cioè il comune vantaggio, gli tenea uniti. Il padre non sembra naturale che vedesse la donna che nell’accesso della sua libidine, e che dippoi si riascondesse nel bosco per forse mai più rivederla. Forse la lunga adolescenza del uomo si deve alla società, che ha cambiata la robustezza selvaggia in piaceri ed in molezza sino ne’ nostri antichi padri, i quali così civilizzati e decaduti di complessione non poterono aver figlj più robusti di loro;[62] quindi creder si può che quasi col bisogno del latte finisca l’adolescenza dell’uomo selvaggio, onde lasciata la madre, egli errante come li suoi eguali trovasse dalle piante e dal fiume largo soccorso alla fame ed alla sete. Nissun diritto adunque in istato di natura (cioè in quello stato in cui tutti fummo, perchè e Parigi e Londra non sono ab eterno, e furono boschi ripieni di fiere e di uomini) lega il padre al figlio, ed il solo reciproco bisogno il figlio alla madre. Ma toltisi a poco a poco gli uomini dallo stato primiero, sforzati furono da quotidiani disordini ad unirsi in società con certi patti. Distinzione di diritto tra padre e figlio non vi era, nè il padre conoscea i figlj suoi per la comunità delle donne, onde anche i figlj, almeno adulti, ebbero il loro voto libero in questo consesso selvaggio, dico almeno gli adulti perchè li fanciulli benchè liberi non vi avranno avuta molta parte per il disprezzo de’ vecchj per loro, e perchè non erano atti per la loro debolezza a rendere servigj importanti alla società. La loro porzione era puramente passiva, doveano essere nella tutela degli altri perchè non si poteano diffendere da se stessi. Fissata in seguito la proprietà de’ beni si fissò pure quella delle donne, ossia le donne quella degli uomini; si scelse una moglie o più moglj, o la donna un marito o più mariti, e per una libera convenzione si obbligarono a vivere o per sempre o per un dato tempo insieme.[63] Ed eccoci di già arrivati a’ nostri tempi, lasciati li tanti gradi intermedj che vi passarono, poichè le cose si fanno per gradi e non per salti.

In questo stato di cose la pace e l’armonia della famiglia vuole che siavi un capo che la dirigga: l’età ne rende degno il padre, egli è come sovrano della famiglia, ma lo è con que’ patti che legano la nazione al sovrano, cioè il comune vantaggio. Chi disputò se i figlj erano cose o persone e se erano in proprietà del padre scrisse coi soli principj della tirannia, e mise in questione se chi ha forza e potere possa esser impunemente tiranno de’ deboli; e guai agli uomini se i terribili principj che soglionsi addottare nelle private famiglie arrivassero sino al trono.

§ I. Della educazione

Nota. Non toccherò, che di passagio questa importantissima materia, essendo stato preceduto da troppo grandi uomini perchè io osi aggiungere del mio. Fra i libri scritti su questo argomento L’Emile è de’ più grandi. Lo spirito ardito e sublime ed il desiderio del ben essere degli uomini che anima quest’opera ritrova in me un ammiratore. Non temo i soffismi del Vicario savojardo: compiango gli errori di religione senz’astio e senza inimicizia, ed onoro l’eloquenza e la filosofia.

L’autorità del padre sopra i figlj intender bene devesi che sia tale che basti a mantenere l’armonia domestica ed alla educazione, s’ella sorpassasse il bisogno non si potrebbe giustificare questa superflua porzione con alcuna parola che abbia idea di giustizia, perchè agli esseri liberi e ragionevoli altri esseri a loro eguali non devono esser superiori che per reciproca utilità, gli uomini non essendo fatti per il divertimento degli altri uomini. Se l’imparziale legislatore avesse provisto sino agli ultimi cittadini, ai fanciulli m’intendo, facendoli figlj dello stato, forse la loro sorte sarebbe stata migliore. La stretezza delle famiglie plebee, gli affari continui delle mercantili, la svogliatezza e la sonnolenza de’ grandi sono impedimenti non piccoli della educazione. Se la pubblica autorità avesse quella porzione che ha il padre nel sistema presente, parmi che si sfuggirebbe l’inconveniente che il padre sia giudice nella sua causa. O l’amore o l’avversione ponno renderlo giudice ingiusto. Se uomini destinati a questo dalla pubblica autorità, senza private passioni o interessi, fossero incaricati della pubblica educazione, giova sperare che sarebbero i figlj nè schiavi, nè cattivi cittadini. Ma questa mutazione dipende da molte altre, nè le mie speranze giungono sino a credere che la penna di un oscuro cittadino muti di molto la politica ed il governo. Sia questo un sogno, sia una verità, è sempre un desiderio che gli uomini siano felici più che si può, desiderio degno di un bon cittadino.

Il vincolo adunque che unisce il padre al figlio è il solo comune interesse: e certo infinitamente deve ad un amoroso padre chi da lui ebbe una buona educazione. Il doverli la vita ed essergli grato sarebbe ringraziarlo perchè amasse il piacere; ma il dovergli l’educazione è una gratitudine sì giusta che chi non amasse un padre, che lo ha fatto uomo ragionevole e buon cittadino, cesserebbe di esserlo al momento.

L’educazione ha tanta forza in noi, che ardirei dire che di un bambino se ne può fare egualmente un Gengis Kan che un eremita. Il clima e l’educazione conspirano a formare l’uomo, ma l’educazione più ancor del clima; le differenze che fa il clima da nazione a nazione non sono sì grandi come quelle che fa l’educazione da un uomo all’altro. Pietroburgo e Napoli si assomigliano più che un principe ed un bifolco. L’educazione fa che un uomo sia l’opposto dell’altro; non a tanto arriva il clima, e s’egli avesse tanto potere sopra di noi, gli uomini di un istesso paese sarebbero più uniformi.

L’educazione è il massimo beneficio che il padre fa al figlio, ed è altresì il massimo dovere del padre, perchè è strettamente legato il ben essere dell’uomo alla sua educazione. Il coraggio, l’umanità, la costanza, la compassione a’ mali altrui e tante altre virtù dipendono dalle primitive impressioni degli oggetti che ci stanno d’intorno, e che da questi o da quegli oggetti siamo circondati dipende molto dal padre. Io non parlo a quella misera e sì grande porzione degli uomini chiamata con disprezzo plebe o volgo, alla quale sono di gran peso i figlj, e l’educazione de’ quali altro non è che un commercio di miserie e di travaglj: parlo a quegli a’ quali gli agi e le ricchezze e le opportunità permettono d’occuparsi al più nobile di tutti gl’impieghi, la formazione del buon cittadino. Attesa adunque la forza che ha l’educazione sopra di noi, sarà facil cosa che i difetti del figlio siano difetti di educazione: onde quel padre che si duole d’avere un figlio perverso merita per lo più la compassione che si ha per quel lavoratore che non avendo coltivato il campo si lamenta al tempo della raccolta della infecondità del terreno.

Io non vedo come non possa avere figlj amici quel padre il quale non usò di questo sacro nome che per formarsi a sè ed alla patria de’ sostegni e de’ cittadini. Altro vincolo io non ritrovo che possa felicemente unire un padre ed un figlio che quello dell’amicizia; i nomi di autorità e di potere ponno usarsi talvolta, ma è interesse d’ambe le parti di non usarli giammai. Non potiamo obbligare gli uomini a volerci bene se non facendoci amabili, ed il pretendere benevolenza come si pretende un credito è un volere un effetto senza cagione. S’egli è vero che l’uomo uscendo dalle mani della natura resista ai beneficj, alla bontà ed alle cure di chi lo vuol fare felice, ella sarebbe un’orribile opinione, che farebbe l’uomo il più feroce ed il più crudele degli animali. I leoni e le tigri tolte dal bosco non offendono il custode del serraglio e si fanno mansuete, e perchè credere che l’uomo sia di loro peggiore? Grande è la differenza che passa dall’uomo adulto al bambino, nè perchè quello è ingrato ed insensibile dobbiamo noi credere che tale sia la sorte del genere umano. Altre idee di morale non porta con se l’uomo nascendo che l’immediato amor del piacere e la fuga del dolore, ma l’uomo civilizzato ha mille vizj fattizj. L’ambizione, l’orgoglio, la maldicenza e tanti altri non sono vizj de’ selvaggi, eglino nacquero colle città e quasi vennero a contrabilanciare gli altri piaceri fattizj, acciocchè si potesse sempre dire che non siamo fatti per esser veramente felici. L’amore del piacere e la fuga del male sono i primi e più semplici ingegni dell’uomo, e ben diretti fanno il buon cittadino come mal diretti il cattivo. Chi contrasta adunque a queste invincibili forze vuole un fenomeno che non è in natura, ed accusa la propria ignoranza più che l’altrui ostinazione. Mille piccoli ed innocenti piaceri proibiti ad un fanciullo non ponno che renderlo inimico di chi gli si fa tiranno. Alcuni vaghi assiomi di rigorosa virtù, superiori all’età ed alla intelligenza, detti d’un tuono austero inspirano la noja ed il timore, ma non rispetto e per chi le proferisce e per loro medesime. Li trasporti e le furie nel riprendere insegnano l’ira e la brutalità, ma non persuadono, e le pene eccedenti i delitti (se pur meritano questo nome quelle azioni che non fanno male alla società) danno loro false idee di giustizia. Il costringere l’impazienza di quella età ad un ordine di azioni troppo esatte altro non fa che coprirli di mal umore e di fastidio, per questo vediamo i fanciulli si sovvente piangere, e l’innocenti lor lagrime accusano ben più la brutalità di chi li percuote e la indiscretezza di chi loro niega un onesto piacere che la mala indole od il capriccioso talento.

Si passano i primi anni di nostra vita fra il pianto e le strida, e cominciando dalla culla i primi sentimenti sono il dolore.

Troppo dassi da taluno ad una pretesa innata benevolenza verso i nostri figlj; ella non è provata che colla poesia. Le simpatie degli antichi non hanno più luogo fra di noi, e risguardando l’uomo come semplice animale, pare che non debba esser molto superiore agli altri animali, molti de’ quali uccidono i proprj figlj. Che se motivi superiori di religione ponno determinare il padre ad amare i propri figlj, questo sarà dono del Cielo più che della natura. Quel legislatore adunque che di questa simpatia facesse conto, affiderebbe la sorte de’ figlj ad un essere che non esiste. Forse trovarono il loro conto alcuni che questa chimera sussistesse, perchè prottegeva il dispotismo del capo di famiglia; qualità che gli uomini amano sempre nel fondo del cuore malgrado i grandi sentimenti onde la coprono, e non si deve la moderazione de’ buoni cittadini che o alla indolenza, o alla impossibilità di esser impunemente superiori agli altri uomini, o a fini più grandi quali sono quegli della religione; non è uomo sincero che non confessi che sarebbe più volontieri monarca che suddito. Tale desiderio non avrebbe luogo in quella nazione dove il contratto sociale fosse senza nissuna lesione; ma ella non esiste che nella immaginazione de’ buoni, i quali vedono ancora che è sempre pericolosa cosa alla felicità degli uomini il turbare la società col pretesto di toglierla dalla tirannia. L’ambizione di un privato maschera coll’amor della patria il proprio fanatismo, e mentre l’instupidita nazione crede cambiare la sua fortuna, ella non fa che cambiare tiranno. Non predico la schiavitù, nè la ribellione; la prima è indegna di un uomo, perchè lo degrada a segno di dovere ogni momento di vita alla clemenza altrui, e la seconda è indegna d’ogni buon cittadino che rispetta le leggi e la tranquillità degli uomini, e che ama più una oscura ed onorata vita che un glorioso cammino sparso di sangue umano.

Le private famiglie provano in piccolo le vicende delle grandi società, e siccome che al bene e al male di quelle ha gran parte il governo, così la domestica monarchia del capo di famiglia ha immediata influenza su l’ordine o il disordine di quella. Le revoluzioni negli stati sono l’effetto o della tirannia o della indolenza; nelle mura private ancora di ciascun cittadino sono le risse e le inimicizie prodotte o dalla austerità o dalla trascuranza. Vedesi quindi quanto a torto si lagnano alcuni padri di famiglia di que’ disordini de’ quali essi sono la cagione; le vive impressioni di un mal presente loro cancellano dalla memoria la passata connivenza o la passata tirannia; quindi s’impiegano mezzi inadequati per ottenere un fine, e si lamentano degli effetti quando la colpa è loro. Si pretende che un giovine ami le lettere e le scienze, e per inspirargli quest’amore fu consegnato ad un rigido pedante il quale era ben più tiranno che dotto. Verrà forse un tempo in cui si stupiranno i nostri posteri, forse più umani di noi, nell’intendere che le cognizioni e le lingue s’insegnavano colla sferza, che era punita come un delitto la scarsezza d’ingegno e che le scienze erano piuttosto un pretesto di schiavitù che un desiderio di coltivare lo spirito umano: saranno storditi, e forse nol crederanno i nostri nipoti, nel leggere che penoso e nojosissimo era l’acquisto di poche e ben spesso inutili cognizioni, e che v’erano de’ serraglj ne’ quali racchiusa la gioventù per forza, era abbandonata al dispotismo di alcuni, i quali uniti nè per interesse, nè per amicizia a questo gregge di infelici esercitavano impunemente un dispotico potere non proibito dalle leggi, quasi ch’elleno non mettessero fra gli uomini e fra i figlj della patria i più innocenti e più deboli cittadini. V’è chi sulle più esatte osservazioni ha calcolata la vita dell’uomo all’età di 33 anni in circa.[64] La schiavitù degli studj dura sino agli venti: se questo tempo è destinato a farci felici nel resto della vita siamo da paragonare a’ Spartani, che flagellavano a sangue i loro figlj per preparargli ai disaggi della guerra. Nel prepararci alla felicità, bisogna fare un calcolo più esatto che si può de’ gradi di essa e de’ gradi d’incommodo necessario per ottenerla. Fuvi qualche tempo fa un pedante celebre per la sua crudeltà, si fece un libro che lo facea ridicolo: il soggetto non è suscettibile di scherzi, e dove si tratta della vita e della diffesa dell’ultimo de’ cittadini non è permesso lo stile berniesco. Ella è sacra in ogni buon governo la vita degli uomini, nè i corpi de’ fanciulli devono servire di trastullo al mal umore di un ignorante pedagogo. L’uomo mira l’altro uomo come suo eguale e come un essere che non è lecito di distruggere che per propria diffesa, ed il cristiano vi vede di più l’immagine di Dio ed il tempio dello Spirito Santo. Che conchiudere da questo: forse che devono esser sepolti nell’ignoranza gli uomini? Se le scienze e le bell’arti sono utili alla umana società, se tolgono dall’ozio i ricchi, se migliorano la sorte de’ plebei, se fioriscono le nazioni che coltivano le scienze, se la marina, il commercio ed i commodi della vita e l’agricoltura prendono anima e vita dalle meditazioni de’ filosofi, non si devono condannare gli uomini alla ignoranza; ma l’inclinazione de’ giovani più per una scienza che per un’altra non deve esser negligentata, ma in vece di constringere all’acquisto delle cognizioni e delle scienze la gioventù, devesi molto far caso della sua naturale curiosità, ma in vece di usare la forza fisica devesi usare la forza della ragione, e mettere a profitto non la sensibilità al dolore ma la sensibilità al piacere, cioè interessare l’amor proprio di ciascun giovine ad acquistarsi onore e stima colla cultura dello spirito; ma in vece di fargli un dovere ed un mestiere penosissimo dello studio, bisogna addattare l’ordine ed il tempo che vi ci s’impiega alla sua età ed alla forza della sua contenzione e del suo spirito: bisogna in somma che le cognizioni servano al suo talento, non ch’egli serva alle cognizioni, e che le scienze e le lettere apprese colla sferza e col pianto nella sua più bella età non siano in contraddizione coi costumi e colla vita del mondo, cosicchè sortendo dalle erudite mura de’ collegj, non s’abbiano a compiangere le passate fatiche, ed a riconoscere o ridicole o inutili quelle cose che si credettero grandi ed importanti in prima.

Si consegna alle pubbliche scuole il figlio di un mercante e tormentasi che impari alcune parole di una lingua che non dovrà mai leggere o parlare, e trascurasi intanto di metterlo al fatto di ciò che può formare la sua felicità, cioè d’instillare nel di lui animo massime di probità e cognizioni di commercio. I nobili sarebbero capaci di essere illuminati cittadini ed amorevoli capi di famiglia, se sapendo meno di latino fossero più instrutti delle storie, della morale e di ciò che deve occupare la loro vita. Che un nobile sappia scandere un verso di Virgilio o d’Orazio, che abbia appresa la prosodia dell’Alvaro e le ridicole deffinizioni del Decolonia, che sia capace di far versi cattulliani, questo poco importa al bene della patria ed alla sua felicità, ma assai importa che abbia una incorrotta probità, un modesto coraggio, un grande amore per il vero ed una forza d’animo che lo faccia docile alla ragione ed indocile all’impostura ed alla schiavitù de’ pensieri.

Pare che alcuni non cerchino di formare alla patria cittadini utili, ma a’ teatri de’ snelli saltatori ed a’ duelli degli esperti schermidori.

Questo pessimo metodo d’instruire la gioventù ad altro non serve che a far passare i più preziosi anni della vita nell’insuperabil tedio di coltivare lo spirito non per genio, ma per dovere, ed a provare che sono i figlj un fardello di cui si sgravano i padri a qualunque se ne voglia assumere il peso; infatti siano eglino mandati ai collegj od alle università, contenti abbastanza di questi nomi assai rispettati, non si curano per lo più nè si informano degli individui che le compongono, quasi che l’atmosfera o le mura facessero gli uomini più rispettabili. Una delle ragioni che adducesi da’ padri, i quali sacrificano alla loro tranquillità l’educazione de’ figlj e trasferiscono un sì sacro diritto ne’ pedanti e ne’ salariati o in mano de’ cenobiti, si è che i loro affari in tal maniera gli obbligano, che nessun tempo loro rimane d’instruire i figlj; quasi che sfaccendati fossero i Catoni e gli Augusti, i quali la briga si prendevano di educare la loro famiglia, ed a’ trastulli de’ figlj non isdegnavano di presedere, non già per farsene severi censori, ma per dirigerli.

Chi volendo fare un deposito di cosa preziosa non conoscesse ed esperimentasse in prima la buona fede del depositario proverebbe che non ha molto a cuore di possederla. Questi pubblici luoghi destinati alla educazione della gioventù ed amministrati da persone che non hanno gli imbarazzi della famiglia sono stabilimenti utili quando le mire della educazione non siano private ma pubbliche. Quale spirito muova alcuni uomini, la vita de’ quali potrebbe essere altronde tranquilla e darsi la briga della pubblica instituzione della gioventù, io non lo so; sia egli amor della patria, sia egli desiderio di gloria o qualunque altro principio, egli sarà solo utile allorquando co[nspiri] colla pubblica felicità. Chi non ama il ben pubblico può e deve contraddire a queste proposizioni.

Attenda adunque ogni buon padre di famiglia alla educazione de’ figlj, formandosi colla ragione, colla imparzialità e colla giustizia uomini onesti e buoni cittadini e veri amici; così avvicinandosi egli alla tomba sarà circondato da persone che uniranno, al sentimento di rispetto, il più sincero amore per un essere che non gli ha che beneficati, e proverà la rara dolcezza di veder crescer le cure e l’amicizia de’ figlj a proporzione de’ mali che accompagnano la decadenza del corpo: ma per ciò ottenere, non pretenda d’esser amato, ma si faccia amabile, non inspiri un severo rispetto che confina col timore, ma lo abbia come un tributo che non puossi negare alla probità, alla giustizia ed alla esperienza della umane cose, in somma non pretenda effetti contradditorj alle cagioni. Che se malgrado tutte le cure puossi dare nella natura un mostro che non adori un sì rispettabile benefattore, ben merita, più che le nostre inutili declamazioni, di non esser chiamato col sacro nome di figlio e che la pubblica vendetta lo risguardi come un nocevole cittadino. Le leggi [non] vi hanno provveduto, e questo pure è il motivo che m’ha mossa la penna a scrivere ai padri di famiglia, perchè le leggi hanno taciuto dove parlar dovrebbe la natura. So che poca forza ha il mio voto nell’universo, so che molti sono gli ostacoli frapposti dalla ignoranza e dalla barbarie a’ buoni stabilimenti, so che gli uomini amano il dispotismo e che il privato interesse pone un muro di divisione tra gli uni e gli altri, ma so altresì che è grande e lodevol cosa il liberamente scrivere dove si tratta del bene dell’umanità, e che l’onesto ed il buon cittadino antepone alle declamazioni di pochi il bene de’ più. Forse dirassi che per esser giudice imparziale bisognerebbe esser mai stato nè padre, nè figlio, ma se le verità che ho proposte sono utili ad una parte egualmente che all’altra, basta essere buon cittadino e ragionare metodicamente per non inclinare da nessuna parte, e se ho giudicato delle cose senza timore e senza speranza posso meritare il titolo di giusto giudice: e per meritarmelo intieramente passo a parlare de’ doveri de’ figlj.

Se i nostri figlj potessero sempre essere con noi, potrebbesi ragionevolmente sperare che l’educazione li facesse tali quali li vogliamo. Ma nell’odierno sistema di cose quel padre di famiglia che si facesse una intiera cura della domestica educazione dovrebbe rinunciare ad ogni arte, ad ogni mestiere, ad ogni carica, dovrebbe viver solo per i figli e non a se stesso.

Le idee dell’uomo sono il complesso delle sensazioni ricevute; l’educazione dipende dalle idee che ci hanno impresse gli oggetti; ella dipende adunque dagli uomini e dalle cose che ci sono state presentate. Ultimamente l’Imperatrice delle Russie (1763) ha richiamato dall’esiglio un uomo che da bambino era stato riposto in una carcere unito alla sfortuna del padre. Egli non ha veduto che le quattro pareti della prigione, onde non ha che di loro idea. Le piante, gli animali, i colori &c. gli devono essere oggetti nuovi, esigerebbe le esate osservazioni di un filosofo lo sviluppamento delle idee di quest’uomo, che può renderle coll’uso della parola: poichè egli è nel caso de’ bambini, colla diversità che le loro impressioni essendo anteriori alla ragione ed alla lingua non ne ponno dare alcun conto. Non resta di quella età che una confusa memoria di avere esistito.

Non essendo in balìa del padre, abbenchè sublime metafisico, di fare in maniera che esattamente corrispondino le azioni de’ figli al modello che si è proposto, pretender non si dee da loro che siano malevadori di tutte le azioni de’ figlj. Ella sarebbe una strana chimera l’esigere che un uomo fosse talmente attento osservatore di un altro, che a negligenza sua ascriver si debbano tutti i delitti di colui la cui cura gli è comessa, essendo un progetto che supera ogni cura ed ogni forza umana il pretendere di calcolare il grado di impressione che faranno gli oggetti sopra di un altro, il prevedere le conseguenze che tirerà dal paragone delle ricevute impressioni ed il potere presentare soltanto quegli oggetti de’ quali vorrebbesi che un altro ricevesse le impressioni. Il fare in somma che un uomo sia interamente corrispondente ad un dato modello. Un libro, una parola, un esempio sono cose che decidano molte volte della educazione di un giovine; eppure non è possibile al più attento padre di prevedere tutti i minimi mali; anzi una troppo esatta disciplina può riescire più a noja che ad instruzione; ardirei anzi dire, che senza una positiva tirannia, non puossi sempre star loro al fianco e ridurre ad un rigido sindacato le parole, i gesti ed i pensieri della inquieta e libera adolescenza. Chi volesse di troppo ragionare sulla educazione, vale a dire ridurre quasi a calcolo la sua metafisica, si dimenticherebbe che la perfezione non è fatta per gli uomini. Ogni sistema, ogni stabilimento umano, non è esente di qualche disordine; perdonare adunque si deve anche ad un padre, il quale servendo a questa necessaria legge della natura ha educato un uomo come puossi.

Ne viene in conseguenza da quanto abbiamo detto che vi sono de’ casi ne’ quali la mala indole de’ figlj ascriver non si deve a colpa de’ padri. Egli è pur troppo vero adunque che dar possi la sovrana delle ingratitudini, cioè che un figlio non ami un buon padre. Sarebbe questa una specie di delirio, ma al certo sarebbe egli di quegli che inspirano la tristezza solo in pensare che sono possibili.

Alla melanconica vecchiaja vanno in seguito l’austerità de’ costumi e la tristezza de’ pensieri, e questo è il tempo in cui l’umanità de’ figli vuol esser impiegata in sopportare e compatire gli effetti del fisico deperimento di un essere che s’avvicina alla sua dissoluzione. Egli è questo il tempo di trascorrere con una salutare riflessione il corso della passata età per rissovenirsi de’ segnalati benefici ricevuti, delle cure avute per noi, e la gratitudine e la ragione cospirano ad esigere da noi che solleviamo la loro canuta età poichè eglino ebbero cura della nostra fanciullezza.

Un’altra considerazione pure può fare più toleranti i figli su i piccoli tedj e le molestie che alcuna volta soffronsi dai padri. Sono i figli non mai pagati creditori, che nascendo di mano in mano vanno impoverendo il patrimonio; e colui che mentre era celibe era bastevolmente fornito di beni di fortuna, povero diviene quando gli conviene dividerli co’ figli. Egli è questo un pensiero che farebbe risguardare i figli come cagione infausta del nostro impoverimento e della perdita della libertà che accompagna il celibato, se figli non vi fossero che colle buone qualità escludono queste amare riflessioni. Chi leggesse la ben ragionata dissertazione del Sig.r Cocchi sul matrimonio ne vedrebbe gl’incommodi in tutta la sua estensione. È adunque giusto e dell’interesse anche de’ figlj ch’eglino pure dalla loro parte tutto contribuischino per conservare la pace domestica; che tolerino i difetti del padre, che risguardino come effetti necessarii della natura, che fa nissun uomo perfetto. Viddi io stesso co’ miei occhj un raro esempio di una ben regolata famiglia. Viddi il padre, uomo giusto e rispettabile, ridotto a morte circondato da’ figlj, dalla moglie e dagli amici, nome che a tutti conveniva, perchè e figli e moglie erano amici, vidi le lagrime che spremea loro dagli occhj il più giusto dolore, e viddi quel rispettabile moribondo esser tranquillo in faccia della morte e sensibile ai singhiozzi ed a’ sospiri di una desolata famiglia: ella è questa una scena che mi ferìa nel profondo del cuore, ed una sì adorabile unione, la costanza del padre, la tenerezza de’ figlj, le lagrime degli amici, mi faceano a parte di questa domestica tragedia, ben più instruttiva delle fattizie; erano le lagrime di questo stuolo un tributo che rendea la gratitudine alla beneficenza, non una finta umanità di costume.

§ II. Del matrimonio

Il matrimonio degli Orangottani selvaggi non dura più del loro bisogno attuale, ma le leggi e la religione lo fanno fra di noi indissolubile. Questa parola indissolubile merita tutta l’attenzione di un uomo che ragiona su la sua felicità, il quale sa che dove si tratta di patti da’ quali non si può recedere, tutto devesi impiegare il più serio esame. I bisogni della natura ed una alcune volte insuperabile inclinazione al piacere strascina all’are sacre la gioventù, la quale più sente la forza della natura che i mali che accompagnano il matrimonio. Ma questo primo impeto di passione supplice colla intensione alla durata: non lungo è il periodo delle prime dolcezze, le quali passate lasciano un terribile vuoto nel cuore, se non lo riempiono gli doni dello spirito. Indebolita la fisica sensibilità al piacere, altro non rimane tra marito e moglie che una sincera e soda amicizia, che possa riffarli di sì gran perdita. La scelta adunque di una moglie merita ben più le nostre meditazioni che non lo meritino i fenomeni del cielo e della terra. Dove si tratta della nostra felicità, tutta impiegar devesi la facoltà nostra ragionatrice, nè abbastanza mai puossi usare di cura e di esame per fare una scelta dalla quale tanto dipende il futuro nostro ben vivere, e convien dire che l’impaziente gioventù più per capriccio che per ragione scelga una moglie, poichè pochi sono i matrimoni felici fra di noi. Ma dove regnano le violenti passioni, ella è cosa da pedante, più che da metafisico conoscitore del cuore umano, il voler pretendere che parli la fredda ragione, anzi le considero come qualità positivamente esclusive. Per il che sarà un segno di vera amicizia se il padre abbia nella scelta che si fa della moglie quella parte che deve avere un amico, che esaminando tranquillamente gli oggetti ne vede i rapporti loro assai meglio di chi è trasportato dall’impeto della più dolce e più feroce delle passioni. L’età sua, la sua esperienza lo rendono più cauto e più imparziale estimatore delle cose, ma guai a coloro che fatti tiranni del più terribile sentimento pretendono che serva la invincibil natura a’ privati loro interessi, e che l’uomo sia docile e mansueto mentre è nell’accesso di una febbre amorosa! La sola eloquenza dell’amicizia e della ragione devono adoperarsi allorquando tenta un giovine di gettarsi furiosamente in braccio d’un pericoloso piacere; chi oppone la violenza e la tirannia fa sospettare che fa più la sua causa che l’altrui, perchè ben di raro si fa il bene ad alcuno per violenza. Il non aver riguardo alla inclinazione ed al genio, che devono avere la massima parte nella scelta di una moglie, è un volere farsi giudice delle altrui sensazioni, e non è un sano metodo di ragionare il pretendere che l’istesso oggetto faccia le medesime impressioni su diversi uomini.

Non devesi adunque fare ostacolo alla passione di un figlio, se non quando apertamente si vegga che va ad esser un infelice. Taccia il privato interesse dove si tratta di fare la felicità di un figlio, non sia egli condannato a rinunciare alle sue giuste inclinazioni per motivi meno interessanti della sua felicità. In somma, chi si propone di vivere sempre con una donna, è giusto ch’egli la scelga, come solo giudice competente di quello che gli arecca dolore o piacere, e se altri in questa scielta vuole aver luogo si ricordi di operare in maniera di non rimproverarsi un altro giorno di aver fatto un infelice. La diversità di condizione, la dote ed altri fini sono degni di considerazione, ma s’egli è vero che ogni uomo ha diritto di esser bene più che può senza offendere le leggi umane e divine, sarà vero altresì che non vi devono esser circostanze in cui la felicità di un uomo sia abbandonata alle usanze ed alle opinioni del volgo.

Quali conseguenze vengono da questi principj? forse che la scelta di una moglie è intieramente libera? non già. Le leggi e la religione limitano la scelta di una compagna ad un certo rango ed a una certa distanza di grado, e da questi confini non è lecito al cittadino ed al cristiano di sortire; ma chi volesse ancor più restringere il nostro arbitrio si farebbe tiranno di quel poco di libertà che ci rimane, e tanto più terribile sarebbe questa tirannia, quanto che ella esercitarebbe l’ingiusta sua forza su di una passione che più d’ogni altra vorrebbe esser libera. Grande stravaganza sarebbe l’obbligare taluno a mangiare per tutto il tempo di sua vita una vivanda che non gli piace, persuadendoli che gli deve dar piacere; potrebbe egli rispondere che nessuno conosce meglio i suoi piaceri che lui medesimo.

Egli è ben difficile di ritrovare una cop[p]ia di persone, che dovendo stare l’una all’altra vicini sino alla morte, siano talmente analoghe nelle idee e nelle passioni di potere passare intieramente una vita tranquilla. Niente vi ha di totalmente eguale in natura; due corpi, due pietre, due fiori non lo sono mai, e perchè lo saranno due uomini? Ma per ottenere una dolce unione non bisogna che una parte si faccia tiranna dell’altra. Le frasi di soggezione, di potere, di ubbidienza &c. non sono alcuna volta contrarie alle leggi umane e divine, ma escludono una vera e soda amicizia, e dove questa non si ritrova non regna lungo tempo la pace.

La toleranza de’ reciprochi diffetti, de’ quali nissun uomo è esente, è necessaria più che in qualunque altro stato in quello del matrimonio, nel quale la vita riescirebbe altrimenti insopportabile. Due persone che abitano tutto il giorno insieme, in un piccol numero d’anni, se l’una non è estremamente astutta e l’altra estremamente ignorante, devonsi conoscere nel profondo del cuore, e questo conoscimento molto più ha luogo nel matrimonio, nel quale il continuamente mascherarsi è più difficile, e perchè nè cogli amici, nè cogli altri tanto si vive insieme, e perchè se amore unisca gli animi, il che ne’ primi mesi almeno succede, allora cede la minore passione alla più grande, ed avviene che gli effetti di amore siano eguali a quegli del vino, di cui quand’uno è ubbriaco è sincero ed ha il cuore sulle labbra.

Disse Dio nella Genesi, & tu mulier subdita eris viro tuo. Chi interpretasse questa parola subdita in tutta la sua maggiore estensione favorirebbe di troppo il dispotismo del marito, e facendo la donna schiava, anzicchè amica, eguaglierebbe la sua condizione a quelle miserabili Circasse che si vendono come merci, non come esseri ragionevoli. Nelle società civili sono escluse le donne da’ magistrati e dalle pubbliche cariche; e forse la ragione ne furono le gravidanze, che le fanno cagionevoli ed inatte agli affari per tutta la gioventù. Ma sono elleno, perchè più di noi deboli, nostre schiave o meno di noi? Qui non è mio pensiero di fissare i doveri del matrimonio, so quanto vaga sia l’idea che attaccasi a questa metafisica parola, dovere, che si proferisce tanto comunemente e che pochissimi sanno cosa voglia significare; pochi uomini hanno idee chiare nella morale, e per questo sanno pochi i loro doveri, fra’ quali v’è la prattica di una vera morale. Una prova che i principj della morale non sono ancora arrivati dalla solitudine de’ filosofi al volgo si è il vedere che frequenti sono i casi in cui taluno chiama azione virtuosa quella che altri chiama viziosa, ed alcune volte non si sa se buona o cattiva sia una data azione. Io non adulo il più forte, e questi è il marito, non incoraggisco alla indipendenza la più debole, e questa è la moglie, ma dico soltanto che il solo vincolo degno di un matrimonio cristiano è l’amore, la stima, la beneficenza, in una parola l’amicizia.

§ III. Scelta dello stato

Ma non è cosa che meriti piccola considerazione il sottoscrivere a passare tutti i nostri giorni in un determinato genere di vita. L’instabilità nostra naturale ci fa amare oggi quello che jeri avevamo in odio, e meditando sopra di noi medesimi (meditazione più di ogni altra utile) vedremmo quanto ardito sia il pensiero di colui che s’è fatta una regola, a cui per questo tutte in avvenire vuol addattare le sue azioni. Non dico io per questo, che sempre vacillanti ed irresoluti sulla scelta del luogo che dobbiamo occupare nella società, e portando lo scrupolo della scelta ad un pericoloso estremo di non mai sciegliere, passiamo tutta la vita senza deciderci per nessuna parte; ma dico soltanto che se grandissima cura s’impiega ne’ particolari contratti e nelle giornaliere convenzioni, maggiore di ogn’altra dovrassi impiegare in quelle che quasi tutte le azioni della vita nostra abbracciano, e che puossi chiamare il contratto de’ contratti. Chiamansi stati il clero, la spada, la toga e le finanze. Nelle ultime tre i legami non sono sì forti come nel primo, ed il rinonciarvi è per lo più permesso a chi si pentisse di esservi entratto; curar devesi soltanto che corrispondano le nostre passioni a quel genere di vita che abbiamo scelto, perchè sebbene i talenti che fanno un buon soldato non escludino sempre quelli che fanno un buon politico, pure molte volte l’escludono. Il coraggio ed il fanatismo, che fanno grande il soldato, fanno imprudente e torbido il politico, solo dove si trattasse di fare grandi mutazioni in una nazione potrebbe un gran Generale essere un buon politico; le grandi qualità, le viste generali, i pronti ripieghi, l’esser superiore ad ogni ostacolo sono qualità desiderabili nelle grandi rifforme. La toga, le finanze e la spada sono convenzioni che si fanno cogli uomini, ma il darsi al clero è una convenzione fatta con Dio. Di questa sola io scrivo, come di quella che più d’ogni altra è degna di considerazione, sì ne’ suoi motivi che nelle funeste conseguenze di non aver pensato in prima a tutti i suoi pesi.

Libera deve essere la scelta di uno stato, perchè nissuno sa meglio di noi a quale strada ci destinino le nostre passioni; in questo altro consiglio non devesi ascoltare che il proprio interno conoscimento di se stesso, ed in questo conoscimento di se stesso è compreso il conoscere la propria vocazione; poichè se Dio parla al mio cuore, chi lo saprà meglio di me medesimo? Può altri metterci sotto gli occhi ragioni e motivi per più svilupparci le nostre idee e le nostre inclinazioni, ma può nissuno violentarci a correre una strada che non ci mena alla nostra felicità. Ella è una cosa ben pericolosa anche per il cuore di un amico il persuadere taluno a sciegliere più uno stato che un altro; chi può farsi malevadore della altrui felicità a segno di promettersi che uno dato genere di vita più di ogni altro gli conviene? Quindi appare quanto sospetta sia l’amicizia di quegli che dalla nostra prima gioventù c’inspirano quelle massime che ci preparano alla cieca ubbidienza; e quanto fatale sia quello spirito di alcuni corpi altronde rispettabili, i quali cercano d’accrescere il loro numero e chiamano voce del Cielo quella che è voce del privato interesse. Dove la scelta di uno stato non sia l’effetto del nostro genio, che ci mette da se stesso al nostro luogo, oppure di una superiore vocazione, ivi al certo molti dovranno essere i malcontenti. Gli uomini in società puonsi paragonare a’ fluidi, a’ quali la specifica gravità istessa determina il sito che devono occupare.

Dopo che la infallibile Chiesa ha approvati gli ordini religiosi, non rimane al cristiano che di rispettare in lei le volontà imperscrutabili di Dio, ma sua intenzione non è al certo che sieno i chiostri popolati di infelici. La religione è destinata a fare gli uomini e migliori e felici, onde non dev’essere in mano dell’astuto e del forte un’arma onde opprimere l’imbecillità e l’innocenza. Tutto quel numero di persone consecrate ad una particolare perfezione di vita diconsi specialmente chiamate a questo stato, ma puossi dire sopra tal punto multi sunt vocati pauci vero electi.

Chiudere in un chiostro una figlia dalla più tenera adolescenza, altro non presentandogli agli occhi che quegli oggetti che la ponno decidere alla vita religiosa, e pensare ch’ella non sia per prender il velo un giorno, egli è un volere una contraddizione. Come non si farà soldato chi nacque fra i soldati ed ebbe una educazione militare? Tanto il selvaggio Ottentoto quanto il molle cittadino di Parigi sono il risultato della loro educazione e del paese che abitano, perchè su di una figlia non avrà l’istessa influenza il luogo e l’educazione? Finisce per quest’anima ristretta in un piccol cerchio colle mura del chiostro il mondo, ed a questi confini ancora sono circonscritte le sue idee. Viene il tempo in cui fa la più terribile delle rinunzie, non conoscendone il peso e l’importanza. Le tante volte ripettute massime del disprezzo de’ piaceri mondani, della perversità degli uomini, degli inganni che regnano nella società, degli incommodi di esser madre, e le tenebre orribili che spargonsi sopra questa divenuta quasi scandalosa parola gran mondo devono per le leggi infallibili della natura eccitare al timore quegli animi innocenti egualmente atti a ricevere qualunque impressione. Ella è disastrosa la situazione di una donna che viene obbligata a scegliere senza un maturo esame fra l’eterno celibato e l’eterno matrimonio. Per ben sciegliere fra questi due stati la giustizia vorrebbe che si presentassero agli occhi e l’uno e l’altro con imparzialità, che dell’uno e dell’altro i commodi e gl’incommodi si calcolassero esattamente, il che non succederà, se chi è a questo destinato per private passioni abusando di sua età e della stima che ha la gioventù per la vecchiezza (il sapere della quale non risguarda come un effetto della esperienza, ma come una reale superiorità d’ingegno) arrivasse al più enorme de’ tradimenti, di nascondere la metà delle ragioni per una parte e di mettere in tutta la maggior forza quelle dell’altra: di fare in somma che i sacri diritti della natura e della altrui felicità sieno sagrificati od al capriccio od all’inganno di chi profitta di quella imbecillità e di quel pio avvilimento da loro stessi inspirato. Questi sono i lagrimevoli effetti di una stupida docilità, che suolsi chiamare, ma che al certo è di quelle che rendono stolido ed una pura macchina chi la professa, egualmente atto a fare il bene ed il male se gli venga commandato. Nissuno ha più interesse de’ superbi e degli orgogliosi d’inspirare l’ubbidienza e la umiltà, virtù commode per chi vuol comandare.

Suolsi ripettere fra di noi una assai barbara ragione di chiudere di buon’ora ne’ chiostri le figlie, ed è che altrimenti facendo nissuna di loro si darebbe alla vita religiosa. Questa crudele giustificazione racchiude un ragionato sistema di una profonda tirannia, e chi giusta la ritrova accusa se stesso o di somma ignoranza o di somma immunità, e fa vedere che non già la voce di Dio infinitamente buono chiama alla solitudine ed al celibato di queste carceri volontarie e perpetue le divote fanciulle, ma bensì la garrula e non mai stanca eloquenza del privato interesse, che tenta sempre di fare la felicità di pochi colla miseria dei più. Ella sarà adunque opera degli uomini e non di Dio questa pretesa vocazione, e puossi risguardare come un puro effetto di educazione. Egli è certo che sceglie alcune volte il cielo taluno fra gli uomini e lo destina ad una più grande perfezione della comune, ma creder non si dee che a migliaja siano i chiamati a sì sublime santità qual è quella del celibato e del ritiro perpetuo; virtù di religione, alla quale tutta opponendosi l’energia della natura, grande e singolare dev’essere quella forza trionfatrice che malgrado i tenaci vincoli della umanità ci trasporti al dissopra del comune degli uomini. E chi conoscendo la distanza infinita onde siamo dall’essere creatore separati, crederà che sia egli prodigo sì sovente di grazie sopranaturali, che ad ogni passo incontrar devonsi nelle strade chiostri ripieni di vergini, che tutte si vantano predilette dal Cielo? L’orgoglio umano a guisa di un Proteo presentasi in mille forme, ma per poco, che se analizi la sua natura, ritrovasi ben spesso nascosto là dove credonsi le più alte virtù.

Poche erano le fanciulle che per motivi maggiori di quelli della natura si dassero al celibato ne’ primi secoli della Chiesa, eppure era in que’ tempi non meno fervoroso e puro lo spirito di religione di quello che lo sia ne’ dì nostri.

Le leggi civili non danno la facoltà di far contratti prima di essere maggiore, ed il massimo de’ contratti, qual è quello di rinunciare alla libertà e di darsi in braccio ad un perpetuo celibato, convien dire che poco importi, perchè basta esser pubere per essere capace di contrarlo validamente ed irrevocabilmente. Tale non fu l’intenzione della Chiesa nel Concilio Cartaginese, il quale stabilì che prima de’ venticinque anni[65] non si ordinassero diaconi e non si consecrassero vergini, vale a dire nissun perpetuo legame s’imponesse prima di questa età. Se dirassi che il Cielo nelle sue scelte non ha riguardo all’età, ella è una ragione da mettere nel numero di quelle che troppo provando provano niente, perchè i capricci de’ fanciulli ancora potrebbonsi chiamare grazie trionfanti.

Vedonsi ritornati a noi que’ tempi funesti in cui sagrificavano i padri li propri figli a’ monasterii, e vestivano col sacro manto di religione la loro immunità e la loro avarizia, e ben vide il Concilio di Toledo fatto nell’anno 656 quanto grande fosse questo disordine, poichè molto limitò questa facoltà a’ padri, e forse ancora abbiamo bisogno de’ sacri oracoli del Concilio Mogontino, il quale volle che fossero puniti con penitenze canoniche coloro che per altri fini che per il bene delle anime popolavano i chiostri.[66]

Rispondesi a queste odiate verità che le famiglie ruinerebbero se alcuni di esse non si ritirassero a menare una vita senza spesa grande e senza lusso. Questo strano e terribile metodo di ragionare fa che in una famiglia composta di tre o quattro o più figli, due per il bene della casa e per convenienza debbano vivere in un chiostro, per lasciare un ozioso primogenito nell’abbondanza del superfluo, intanto che gli altri languiscono ne’ monasterii. Se chiamar devesi famiglia non la cosa materiale, ma gli abitanti di essa, ma i figli di un medesimo padre, egli al certo non è provvedere al bene della famiglia il fare la maggior parte di quegli che la compongono infelici, per accumulare tutte le ricchezze su di un solo. I nomi di casa e di famiglia diventano in questa guisa chimerici, ed il bene delle famiglie consiste in questo, che vi sia una successione di primogeniti ricchi ed oziosi che abitino l’uno dopo l’altro la casa paterna. Non fu mai un male agli occhi de’ politici illuminati che le ricchezze fossero divise e distribuite più che si può, molto più non lo deve essere agli occhi di un buon padre di famiglia, il quale se ama i suoi figli, non deve fare porzione la più grande schiava di un solo, e farlo ricco a spese della loro miseria. Se le ricchezze fossero equamente distribuite nelle famiglie, non si farebbe che togliere il superfluo ad uno per dare il necessario agli altri. Si diminuirebbe il lusso, ma non per questo sarebbero meno felici le famiglie. Nissuno di esse sarebbe estremamente ricco, ma nessuno sarebbe miserabile. Il lusso de’ primogeniti si diminuirebbe, ma il lusso non è che un paragone, e diminuendo in ciascuno le facoltà si diminuirebbe a proporzione il lusso in ciascuno avendo ciò non ostante ognuno da vivere a suo aggio, giacchè il lusso è un bisogno di opinione. La popolazione e la pace delle famiglie sarebbero sostituite alle primogeniture ed a’ fidecomissi. Col metodo odierno si fomentano, anzi si fanno necessariamente nascere le inimicizie fra le persone le più congiunte, poichè due figli d’un istesso padre, uno de’ quali è ricco e l’altro è povero per il solo demerito di essere nato dopo, non ponno avere altro vincolo fra di loro che quello dell’invidia di una parte e dell’alterezza dall’altra, e l’esempio di tutti i giorni ci prova quell’antico detto rara concordia fratruum. Io per questa parte non ho di che dolermi della mia fortuna: non sono primogenito, ma la perdita che ho fatto nascendo qualche anno dopo è ben ricompensata dalla amicizia, e per ritrovare un uomo che a lui somigliasse sagrificherei altrettanto di quel patrimonio che mi resta.

Capo X.
De’ rispetti umani

Gli uomini devono essere nè troppo disprezzati nè troppo apprezzati. L’umanità e l’eguaglianza ci proibiscono il primo ed una giusta diffidenza ci fa cauti nel secondo. Non puonsi impunemente disprezzare gli eguali, conviene alzarsi colla forza o coll’ingegno dal comune livello. Conquistatori calpestano il genere umano. Alessandro e Bacco son fatti Dei perchè opprimevano gli uomini con molte milliaja di uomini, ma chi senza forza osa opprimergli finisce al patibolo. Questi istessi principj vagliono nella privata società: chi di tutti si fida può facilmente essere ingannato, e chi apertamente disprezza gli uomini non essendo a loro superiore li ferisce nel profondo del cuore, cioè nell’orgoglio che ha ciascuno, e fassi in ciascheduno un implacabil nemico. Ella è adunque meditazione degna di un uomo socievole quella che ha per oggetto il conoscere intimamente gli uomini. Una esatta e fredda osservazione su di loro non è possibile di sempre fare, poichè bisognerebbe esser di null’altro occupato, come spettatore del genere umano, o aver sempre l’anima in una perfetta tranquillità, situazione più di ogni altra favorevole al retto giudizio; ciononostante il mettere a profitto i giornalieri avvenimenti e farsi, dirò così, una privata cronica de’ rapporti avutti cogli uomini può fornirci dopo un dato spazio di tempo una metafisica sperimentale di quest’essere non mai abbastanza conosciuto. Se la legge di Dio non ci consigliasse di pensar bene degli uomini non avendo prove in contrario, seguendo una funesta esperienza dovressimo presupporre che gli uomini che non conosciamo, la probabilità è che siano malonesti; ma quand’anche l’umana ragione ci conducesse alla scoperta di questa terribile verità, non è nostro interesse di spingere sì oltre i nostri pensieri, poichè chi fosse persuaso che quasi tutti gli uomini sono cattivi, odiando ed il genere umano e quasi se stesso come sua porzione, vivrebbe miserabile misantropo fra la noja ed il rancore di un’inutile inimicizia.

Molti affettano disprezzo per gli uomini, e pochi arrivano a disprezzargli con quel disprezzo filosofico che non suppone odio contro di loro, ma bensì un interno conoscimento de’ loro diffetti e della piccolezza della loro ragione. Intanto che un preteso filosofo parla del genere umano e del volgo come di un gregge di pecore, egli non oserebbe farsi vedere da questo gregge con un vestito indecente; e colui che co’ volumi calpesta gli uomini cerca nel medesimo tempo i loro suffragj.

Ci facciamo schiavi in mille maniere, e mettendo insieme le leggi tiranniche ed i tiranni. La maggior parte della tirannia ce la fabbrichiamo da noi medesimi. Quanto non serviamo noi alle mode siano elleno buone o incomode, quanto impero non ha sopra di noi l’opinione di pochi nel vitto nostro e nel vestire e sino ne’ nostri pensieri? Quel Seneca ipocrito, che tanto disprezzava le ricchezze e ’l fasto, arrossiva di scorrere Roma in una carozza sdruscita.

Gli uomini sono eguali ed i cristiani sono fratelli; chi disprezza gli uomini odiandoli si dimentica di essere della stessa specie, e sovente è da paragonarsi a colui che si burlava la sua immagine in uno specchio. Il riso di Democrito è un troppo grave insulto a’ tanti mali che opprimon l’umanità, e le nostre stesse pazzie sono sì grandi e crudeli che bisogna o ignorarle o non avervi meditato per ritrovarle ridicole. Se non fossero inutili le lagrime de’ filosofi solitarii, elleno sarebbero al certo un tributo più degno dell’umanità. Ovunque il guardo giri non vedi che nazioni che distruggonsi per opinioni, per parole, per ambizione, per il desiderio di un bene che mai acquistano. La forza e la potenza, che il timore, la viltà e l’adulazione chiamano sì facilmente giustizia e diritto, inzuppa la terra di sangue innocente, e si contrastano gli uomini il terreno, quasi che non avessero spazio da occupare senza distruggersi. Egli è assistere ad una tragedia l’essere spettatore del genere umano, e v’è chi disse assai ragionevolmente che la storia degli uomini è la storia de’ loro delitti e della loro infelicità.

La gioventù, che ancora non conosce intimamente quello che vagliono gli uomini, è soggetta al rossore ed alla soggezione. Questi diffetti, se pur meritano tal nome, aggiungono grazia e venustà, se non arrivano alla durezza ed inurbanità. Un giovine che ha la franchezza di un uomo dispiace, mal convenendo ad un imberbe mento e ad un aspetto ancora femminile il serio e ’l grave contegno de’ Seneca e de’ Catoni. Un giovine, per quante sieno le sue cognizioni ed il merito del suo cuore, non può a meno di essere ne’ primi anni che va nel mondo imbarazzato. S’egli sa le matematiche, la storia e la fisica, egli non sa gli usi del mondo; onde intanto ch’egli passa per un uomo presso Newton, può passare per bestia presso Marseille. Chi ha lo spirito delicato soffre più di ogn’altro la soggezione, perchè volendo far buona figura nel mondo, egli è cauto nel parlare e nell’oprare insino a che abbia veduto quello che vi ci si deve fare. Il tempo che s’impiega in questo esame si passa per sciocco; ma ben presto il velo casca agli occhi del filosofo, e scopronsi quelle rispettate vanità che a primo aspetto si credettero importanti. La soggezione deve molto più aver luogo ne’ nostri giovani, che sortono da’ collegi coll’anima ristretta ed interizzita, ed a’ quali la licenza del mondo ne’ primi mesi è scandalosa.

La soggezione è cagione dell’imbarazzo nelle maniere, e questo imbarazzo medesimo è cagione di nuova soggezione. Egli è uno stato ben crudele, di un giovine pieno di talenti e di cognizioni che si ritrova esser ridicolo per una riverenza un po’ sconcia o per una pettinatura antica.

La soggezione è come il timore, che la maggior parte delle volte accresce il pericolo mentre da lui si fugge. Uno sciocco franco nelle sue maniere, che parla coraggiosamente e che dice il suo parere sopra ogni cosa con altrettanta franchezza quanta ignoranza, è rare volte trovato quello ch’egli è. Basta parlare francamente agli uomini per esser creduto, e se Maometto era meno impostore, gli Arabi non l’avrebbero creduto profeta. Chi dice cose grandi e vere con una voce mal sicura, corre gran rischio di non avere ascoltatori.

L’indiscrezione de’ vecchj a questo riguardo è grande. Eglino mirano con occhio severo i giovani, nè loro perdonano mai di avere più cognizioni di essi. Quasi che l’età e l’esperienza non fossero molte volte mezzi inutili per divenire più rispettabili, essi esigono da’ giovani una ingiusta schiavitù per le loro opinioni. Decaduti nel corpo, ridicoli nell’aspetto, perduto ogni diritto a’ piaceri, sono gelosissimi del rispetto loro dovuto, e questo è quasi l’ultimo steccato in cui si racchiudono in mancanza d’altro alimento al loro amor proprio. In fatti se perdendo la gioventù e tanti beni che l’accompagnano non si supplisse a sì amara perdita con altri piaceri di opinione, la vecchiezza sarebbe insopportabile. L’ambizione e la voglia di essere stimato vengono in sussidio della matura virilità e della vecchiezza, e contrabilanciano in buona parte i beni perduti col fiore della età.

Se il mio lettore è giovine, io lo prego a considerare che la soggezione non gli fa che male, perchè lo fa imbarazzato e mal sicuro ne’ suoi gesti e ne’ suoi discorsi, il che lo può fare facilmente ridicolo. Ma consolisi, che di rado avviene che abbiano tal diffetto i sciocchi; ardisco anzi dire ch’egli è un sintoma del merito. Questa estrema modestia e prudenza ben fa vedere che ha l’anima sensibile, e che desidera di essere stimato e teme il ridicolo. Tali sentimenti non sono proprj della sciocchezza, la quale, insensibile di sua natura, o sempre ride, o sempre è stupida, o di niente è colpita. Dissiperassi nello spazio di qualche mese quel magico incanto di tanti nuovi oggetti ond’è abbagliato, ed apprezzando gli uomini e le cose per quello che vagliono, stupirassi di ritrovarle molto al dissotto di quel valore che la novità accresce a tutte le cose. Una assemblea, un teatro, la corte sono oggetti grandi per chi sorte di collegio, ma diventano in seguito oggetti comuni.

Il rossore fu sempre, agli occhi dell’anatomico ed agli occhi del filosofo, un segno di animo vero e sensibile; non può arrossire che chi sente o il rimorso o il ridicolo, due gran scoglj del vizio e due fonti di virtù. La temerità s’acquista facilmente col vivere del mondo; si rintuzza in noi la sensibilità alle minime diferenze coll’uso giornaliero. Si crede un giovine che a lui mal convenga l’arrossire, ma come egli è un vezzo alle vergini lo è egualmente a’ giovinetti. La modestia delle maniere abbellisce questa tenera età, e sarebbe tanto dispiacevole un vecchio vergognoso quanto un giovine sfacciato. Alla vecchiezza non ben s’unisce la timidità e la suggezione, perchè è segno di stupidità e di avvilimento l’apprezzare ad ismisura gli uomini, malgrado una lunga esperienza che apprender ci deve a dargli il loro giusto valore; e se un lungo uso delle cose umane non rende un uomo libero e sicuro di sè, egli è certamente uno spirito che non si solleva dal comune livello. Sotto alle chiome canute può egualmente abitare un’anima sciocca come una sublime, e puossi con una lunga esperienza non altro acquistare che una sciocca confidenza di sapere. Molti esempj ci provano che decade lo spirito col corpo: perduto il vigore e la forza di quello, l’anima partecipa della sua vecchiezza. Quindi la forza della immaginazione si perde colla gioventù, e con essa le grandi passioni solo atte a fare grandi imprese. Quasi tutti gli uomini straordinarj cominciarono le loro gesta dal fiore degli anni. Allora la natura è tutta in moto ed in fermento, ed è pronta a produrre grandi vizj e grandi virtù. Onde li posti che convengono ne’ governi alla vecchiezza sono quelli che esigono molta tenacità de’ costumi e degli usi antichi, e che consistono in far eseguire i regolamenti che esistono; ivi la prudenza e quel timore che s’acquista colla lenta sapienza degli anni regola i gravi tribunali, ben convenendo alla sacra giurisprudenza d’aver vecchj sacerdoti, perchè la tardità nel giudicare sopra principj ricevuti è meno funesta della troppa celerità. Ma dove si tratta di rifformare i disordini, d’introddure novità utili, ivi vuolsi adoperare la coraggiosa gioventù, che meno dubbiosa e più libera e franca, solo può abbattere gl’inciampi in ogni parte frapposti da un lungo disordine. Qualunque tu sia, o giovine, che in faccia de’ vecchj t’impiccolisci, e credi superiorità d’ingegno quella che non è che il tardo frutto di una lunga esperienza, sappi che quest’istesso timore è un principio di virtù; egli è una stima del merito o una mordace invidia dell’altrui sapere, passioni atte a produrre in seguito mille buone qualità. In somma tutti que’ diffetti de’ giovani che hanno per origine la sensibilità non sono sì fatali come si credono comunemente, perchè questa sensibilità istessa, ben diretta, produce gli uomini grandi; ma colui che nel fiore degli anni ha una fredda moderazione ed una timida prudenza, nè mai si slancia e si trasporta dall’entusiasmo della virtù, è condannato ad esser sempre volgare. Si osserva che ne’ fanciulli è di cattivo presaggio un prematuro giudizio ed una anticipata serietà, che dinota tardità di spirito o simulazione. La libertà, la follia, la sincerità grande e naturale sono sintomi di un’anima sensibile e vera, e da queste qualità ben impiegate possonsi avere grandi profitti. Nella gioventù ancora ha luogo il brio e la giocondità, e quanto volontieri sbandirei quel severo pedantismo che predica la gravità e la senile prudenza.[67] Guai a costoro, che vorrebbero che il fuoco giovanile, fiamma produtrice di quell’estro divino di virtù che fa i santi e gli eroi, fosse sopito o estinto da’ volgari precetti di un rigido stoicismo. Un giovine e forse un uomo senza errori mi è molto sospetto, e chi non è capace di aver diffetti non è capace di avere grandi virtù. Vorrei che da queste distinzioni imparasse la gioventù a conoscersi; vorrei che non si avvilisse ai sardonici sorrisi de’ serii magistrati, che altrimenti non onorano lo spirito e la vivacità de’ pensieri; vorrei che udendo decidere da un prudente Catone, che copra la sua ignoranza col manto della impostura, osasse sottoporre all’esame della ragione tutte le proposizioni, decidendole per vere o per false secondo il criterio della verità, criterio che puossi avere tanto alli venti anni quanto alli 100;[68] vorrei che fosse persuaso che gli uomini più si stimano, più che si vedono da lontano; vorrei che i grandi e i magistrati non si credessero di più onorar le lettere che d’essere da esso onorati. Ma più che colla mia penna avrà egli con che disingannarsi dall’esperienza istessa del mondo. Solo ch’egli sia ne’ primi mesi cauto ed attento, e che più ascolti di quello che sia ascoltato, più osservi di quello che sia osservato, egli avrà campo di fare la salutare infallibile scoperta lasciataci sino da 2794 anni, che stultorum infinitus est numerus.

Ma in questi pensieri non comprendo que’ rispettabili uomini che altro non perdettero cogli anni che i pregiudizj e gli errori, ed a’ quali l’età ha accresciuta l’esperienza delle umane cose, avendone acquistato un ragionato conoscimento. Questi adorabili vecchj, che portano una robusta ragione sotto un corpo lacero, negli affari della guerra e della pace esigono una sincera venerazione da qualunque buon cittadino. Questi amano per lo più la gioventù, nè mirano in lei un oggetto di invidia, ma si compiacciono quasi in lei di quello che essi furono, ed amano la docile ragione di quella età, che non essendo incallita nell’errore se ne spoglia facilmente. In fatti se v’è un vecchio che non pensi volgarmente, di chi può egli acquistarsi li suffragj e la stima se non de’ giovani? Come oserà egli farsi apostolo della verità a que’ dispettosi talenti che corroborarono con più anni i paralogismi? La posterità sola rende giustizia al merito perchè ella giudica imparzialmente, e puossi chiamare posterità riguardo de’ vecchj la tenera gioventù, che nuda egualmente di sapienza e di errore, è atta a ricevere le grandi e semplici verità, che non arrivano che a’ cuori sceveri dal dispotismo de’ pregiudizi. L’ottuagenario Gallileo avrebbe vissuto più volontieri fra’ nostri pensionarj che fra i Romani, e se Socrate fosse stato giudicato dall’imberbe gioventù non avrebbe bevuta la cicuta. La semplice natura ci trasporta al vero, perchè ella si limita alle pure sensazioni. L’abuso solo della facoltà ragionatrice nato nelle aule e nelle università ha aperto quel fatale vaso di Pandora d’onde sortirono le insulse sottigliezze e le fastose scioccherie, onde parlerebbe più volontieri il filosofo collo stupido selvaggio che con l’inconvertibile peripatetico, facendo meno di paralogismi un cane che un falso filosofo.

Devesi pure avere grande tolleranza del mal umore onde si rissentono i costumi della attrabilare vecchiezza; e come albergherà la gioja e la giocondità in un corpo mal sano e distrutto; e per quale indiscretezza esigere che s’unischino alla gotta ed alla colica gli scherzi ed i motteggj della sana e ridente virilità? Ella è pure una inumanità che non può cadere in un nobile cuore il burlarsi della bruttezza e ridicola figura de’ vecchj rispettabili. Le qualità del loro animo e la loro vecchia probità ben ricompensano questi piccoli diffetti, e la compassione vuole che non ci burliamo di que’ mali che ci ponno accadere un giorno.

Gli usi della vita civile ci privano di mille piaceri, e la tirannia di questi ridicoli costumi s’è portata sino su la virtù, in guisa tale che non potiamo essere alcuna volta onesti senza temere il ridicolo. Quella razza di uomini, che profittano de’ disordini che regnano nella società in cui vivono, ritrovano ridicoli e fanatici que’ cittadini che animati da una forte e violenta passione del pubblico bene adempiono vigorosamente i loro doveri. Questo ridicolo che spargesi nelle corrotte nazioni su lo spirito di patriotismo ritiene non pochi nella servile prudenza di non metter mano agli abusi perchè rispettati sono comunemente. E quanti piangono quasi di nascosto alla Zaire[69] perché temono gli scherni di un vicino che sbadiglia quand’egli è tutto in lagrime? Per timore del disprezzo ancora vedonsi tacere i grandi genj in faccia della ignoranza, perchè tanta vergogna hanno li grandi uomini a dire e scrivere cose grandi e sublimi agli sciocchi, che non le ponno sentire, quanta ne averebbe uno stupido di dire le sue sciocchezze ad un uomo che crede grande. La distanza che li divide è immensa, e si risguardano l’un l’altro con un reciproco disprezzo. Di che averebbe parlato Newton in una delle nostre conversazioni?

Il vizio e la virtù hanno grandi obbligazioni al motteggio, ed è fra le cose che più possono su gli uomini tanto per ritrarli dal male quanto per condurli al bene. Ma osserverò qui di passaggio che la burla più s’attacca alla virtù che al vizio, essendo questi alle volte sì grande e sì defforme che non puossi dargli il ridicolo, dovecchè l’entusiasmo della virtù è sempre vicino al ridicolo; basta fare un passo solo per arrivarvi. Pochi sono gli uomini trasportati verso il grande da una forza trionfatrice a cui resistere non ponno, e questa classe di uomini corrono gran rischio di essere creduti pazzi e stravaganti dal volgo, ed in questa parola io racchiudo la maggior parte del genere umano. Chi potesse indurirsi ai motteggi ed agli insipidi scherni sì comuni nel gran mondo, cioè in un gran stuolo di oziosi che sentono più il ridicolo che il grande, avrebbe di già guadagnata una grande superiorità su gli uomini. Colui che non teme la morte può temere il ridicolo; e quel valoroso difensore della patria, che in battaglia è prodigo del suo sangue volontariamente, non avrebbe il coraggio di mostrarsi in una assemblea vestito diversamente dall’uso comune.

Ne’ rispetti umani io annovererò l’idolatria alle opinioni comuni, sorgente di mille errori a’ quali ci diamo in preda per mancanza di coraggio di paragonarle colla ragione. È perdonabile anche al filosofo il vestirsi e l’avere una casa secondo gli usi de’ tempi e della moda, ma il vero è lo stesso in tutti i secoli ed in tutte le parti del globo, nè muta colle rivoluzioni de’ tempi e della fortuna. Eterno ed invariabile, egli non teme nè l’esame, nè gli assalti della maligna falsità, che può bene oscurare colle ali notturne la sua luce, ma non può estinguerla.

Ella è ben ridicola la piccola vanità con cui si serve alle opinioni ricevute ed usanze, ed il vedere come taluni si pascolano di quelle idee piccole che devono la loro esistenza all’ozio degli sfaccendati. Sogliono gli uomini di mondo giudicare i filosofi all’abito ed agli inchini, nè sono persuasi che sotto una parrucca mal concia possa alloggiare un’anima grande e pensatrice; ed è cosa più scandalosa il non avere l’abito alla moda di quello che sia essere piacevolmente mormoratore. Gli uomini grandi sono rare volte curanti di questi miserabili costumi; la vanità loro è grande, cioè l’ambizione, le loro mire sono più alte, e sprezzano altrettanto i capricci degli uomini e le loro instabili opinioni quanto chi lor rimprovererà di non apprezzarle. Concludiamo adunque che una ragionata non curanza del volgare degli uomini è utile e ci toglie mille incommodità della vita, e ci solleva l’anima a quella filosofica libertà d’onde miransi, ora ridendo, ora piangendo, le crudeltà ed i capricci degli uomini; che i grandi ingegni soltanto arrivano a torsi dalla schiavitù de’ rispetti umani; che i mediocri gli onorano e li mantengono, quasi che fosse una liturgia onde occupare il loro ozio e la loro ignoranza; e che il cristiano compiange gli errori del genere umano ed ama i suoi fratelli, fa bene se può, non fa male anche potendo, ma che non comparte una cieca stima per esseri non mai conosciuti, e che la riserva alla probità, alla beneficenza, in somma alla virtù, che non fu mai il partaggio del genere umano.

Capo XI
Della severità de’ costumi

L’uomo ha sempre amato il piacere e fuggito il dolore: se a questi due vocaboli si avessero attaccate idee giuste non vi sarebbe mai stato chi pretendesse che gli uomini si decidono per il dolore. Non bisogna chiamare piaceri soltanto quelli della gola e del senso, ma ancora quelli dell’anima, la scoperta del vero e la meditazione. E come non avranno l’anima inondata da una sublime volutà que’ singolari e prediletti uomini che sono in uno stretto commercio del loro cuore coll’essere degli esseri? E perchè non sarà il sovrano di tutti i piaceri il persuadersi di piacere a Dio? Quindi sonosi vedute le tenere vergini andare al rogo cantando inni di gioja quasi che andassero a nozze, e le dure penitenze de’ solitarj spargere su’ loro giorni, in vece di pianto e di dolore, una serena tranquillità. Questi sono effetti che derivano dalla natura istessa dell’uomo: che se poi l’essere creatore solleva dal comun fango taluno per farlo a sè più vicino e quasi associarlo alla divinità, egli sarà uno stato di perfetta felicità che puossi venerare, ma non comprendere, e del quale il mio ardimento non arriva a scriverne. Da queste passagere considerazioni si vede quanto male intendano la natura umana que’ severi institutori, che per un duro zelo predicano i flagelli, i martirj e la morte, e tutte quelle idee orribili che instupidiscono e non illuminano, che avviliscono e non persuadono, e che corroborate colla forza della religione arrivano a quel grado di spavento che fa vaneggiare la stessa santità. Oh apostoli del dolore, che strascinate con voi il pianto e le miserie, ben più degni di predicare un Dio crudele che un Dio benefico, che quell’eterno creatore sapientissimo, che avendo voluto condurre l’uomo alla eterna felicità colla religione propose una infinita beatitudine di piaceri per premio delle virtù. La perfezione cristiana è desiderabile in ognuno, ma nissuno è obbligato a fare sempre il meglio. Deve ognuno fuggire il male e fare il bene ma non è obbligato a fare il maggior d’ogni bene. D’onde ne deriva che non si deve esigere in ogni cristiano lo stato di perfezione, nè biasimarlo perchè non vi arrivi. Sono ingiusti taluni, che presi da una melanconica pietà fanno ognora divote satire sul costume e la vita del secolo, osservando con una maligna compassione tutti coloro che vi vivono non bene, persuasi ch’essi ancora abbiano diritto ad una eterna felicità, che per essi ancora sia fatto il paradiso.

Puonsi godere i beni della vita ed essere buon cristiano, vade ergo, & commede in letitia panem tuum, & bibe cum gaudio vinum tuum…, omni tempore sint vestimenta tua candida, perfruere vita cum uxore quam diligis, & oleum de capite tuo non defficiat &c., nè piacciono a Dio più i flagelli, i tormenti ed i dolori di quello che gli piacciono la beneficenza, l’amor del prossimo, la carità, la compassione e tante altre virtù utili agli uomini. È egualmente accetto agli occhj di Dio un buon padre di famiglia che vive comodamente e virtuosamente impiegando nella felicità de’ figlj, della moglie e degli amici le sue cure, più che il penitenziero e flagellante cristiano. E perchè non sarà grato a quella sapientissima bontà un buon cittadino che vive nelle amministrazioni pubbliche con una incorrotta probità e con un vero spirito di patriotismo, sia egli pur vestito d’oro e scorra la città in un cocchio da trionfatore? Qual zelo stravagante sarebbe mai quello di colui che nell’ozio della solitudine ritrovasse vane pompe e pericolosa ambizione le cure e le meditazioni più interessanti per la felicità della patria? e chi può avere più merito in faccia del creatore dell’universo di colui che espone la sua vita per difendere la patria? Quale più grande amor del prossimo di questo? La benevolenza per gli uomini non consiste in parole o in declamazioni, gli effetti soli meritano la comune gratitudine, ma l’ingiustizia degli uomini è tale che perseguitano i grandi beneficatori per compartire la loro riconoscenza ad una chimerica virtù.

Fra le tante accuse che fa la povertà alla ricchezza ha il luogo principale quella del lusso, ella è il soggetto de’ frequenti epifonemi di quegli spiriti spartani che vorrebbero riddurre molti millioni d’uomini che formano una vasta monarchia alla pramattica delle piccole repubbliche. Rimirasi con un santo orrore la gioventù involta fra la seta, l’oro ed i merletti, e brillante di pietre preziose, quasi che questa fosse una condannata voluttà de’ sensi. Puossi essere il più infelice degli uomini sotto al trono, nè l’oro, nè le pietre fanno felice chi se ne adorna; se pure non sono piuttosto una pena del capriccio, perchè gli ornamenti nel vestire ristringono di troppo la libertà delle membra. Una dama vestita con un largo e pesante cerchio a’ fianchi, ed una corazza che la stringe e la risserra oltremodo, è più dolorosamente vestita che se fosse involta nella più aspra e ruida tonaca di penitenza. Il lusso è il soggetto delle querele degli austeri, e senza risguardarlo come un’oggetto politico, egli tiene la maggior parte della nazione in travaglio ed in durissime fatiche. Quanti non lavorano per vestire ed alloggiare pochi ricchi e doviziosi? Nelle città di lusso e di commercio tutto è in moto ed in travaglio, ed ivi a ragione puossi ripettere l’antica condanna di Dio, e tu o uomo mangerai il tuo pane tinto del sudore della tua fronte. I neri della Guinea sono condannati a fornirci il zuccaro col frequente pericolo della loro vita; si ricerca nelle viscere della terra l’oro e l’argento a costo della vita di molti miserabili; si solca l’oceano e s’espone il nocchiero al naufragio ed agli scoglj per avere la canella e le droghe d’oriente, e quando mai gli uomini più s’allontanarono dal piacere che formandosi nuovi bisogni di opinioni? Ma in quelle nazioni in cui le ricchezze sono in mano dei pochi, la famelica moltitudine toglie col lusso dalle casse de’ ricchi il danaro per spargerlo in molte mani, il che induce più di eguaglianza fra gli uomini. Questo è un minor male, ma non un bene positivo, perchè il maggior bene sarebbe che tutti gli uomini fossero eguali. Tutti allora sarebbero attaccati alla patria e tutti potrebbero essere soldati, dovecchè ne’ presenti governi l’arti sedentarie del lusso diminuiscono il numero de’ diffensori della patria.

Altri vi sono i quali sembra che credino che quanto più s’è mondo nell’interno dell’anima altrettanto debbasi essere immondo nell’esteriore del corpo. Chiamano mollezza i bagni ed i profumi, quasi che il popolo di Dio non usasse ed avesse per legge il [non] bagnarsi, e fossero gli odori proibiti, avendo con una mirabile sagacità fatte colpevoli le più innocenti sensazioni. Ma oltre che ha molta influenza su la sanità la mundezza del corpo, ella non è riprovata dalle sacre carte, nè ivi è lodato il fare una pompa d’esteriore penitenza e di divota sporchezza: quando digiuni, profuma i tuoi capelli e lavati il volto, acciocchè non sembri penitente in faccia agli uomini, ma al tuo Padre che abita ne’ cieli.

La morte è una delle terribili immagini di cui usasi per atterrire gli animi, cercandosi sempre per una funesta ignoranza d’inspirare la religione col timore, e non coll’efficacia della sua verità, bontà e bellezza istessa. Sopra que’ cuori ne’ quali ha poca forza la beneficenza e l’infinita bontà dell’essere creatore, qual mezzo sarà per adescargli, lo spavento, i supplicii, il terrore e la morte? Egli è vilmente riconoscere un Dio ed una religione il riconoscerla per il solo spavento, ella è una schiavitù dell’anima ben diversa da quel libero e volontario culto, spiritus Domini libertas est, che solleva l’anima e l’avvicina alla sua cagione.

V’è chi scrisse della morte con una nera melanconia e v’è chi ne scrisse come della più ridicola delle azioni. La distribuzione del nostro essere è una immagine terribile, nè puossi scherzare su di un sì serio soggetto che con una falsa allegria, che più vorrebbesi inspirare agli altri di quello che si senta da chi la affetta. Col corpo sano e robusto, nel fiore della età, ad una mensa squisita fra il vino e le vivande puossi rinnovare il rito degli Egizii di deridere la morte: ma colla febbre che ce ne apre le tenebrose porte, come mai affrontarla con eguale coraggio? S’egli è vero che un uomo non del tutto infelice ama la sua esistenza, e che il dolore precede la morte, non so come si possa morire piacevolmente. Varii racconti si fanno in questa materia, ma gli scherzi e le facezie de’ moribondi sono molte volte l’effetto mecanico di una lunga abitudine, piuttosto che idee sentite corrispondenti al senso delle parole. Guardansi come scandalosi moribondi que’ singolari uomini che l’istorie c’insegnano essere morti con fermezza d’animo, quasi loro invidiando questa fortuna e virtù che a pochi è data, e quasi abbominando in altri la forza ed il coraggio che loro rimprovera la propria imbecillità. E perchè temerai la morte tu, o cristiano, che adempisti esattamente i doveri della religione, del cittadino e del padre di famiglia? e perchè ti crederai un oggetto di esecrazione in faccia a quella incomprensibile bontà che ti organizzò, che ti animò con porzione della sua divinità istessa, se per altro non vivesti che per amarla e piacerli? E chi oserà spacciare una crudele teologia per disperare gli uomini e per difformare le dolci idee della giustizia e beneficenza di Dio? Rimirando la morte come puramente un fenomeno fisico, ritrovo molte riflessioni che me ne diminuiscono l’orrore. Egli è naturale che più a lei s’avviciniamo, più la macchina si scioglie e deperisce a poco a poco, e con lei pure la sensibilità fisica, sicchè meno di dolore sentir devesi più che alla morte ci avviciniamo. Quegli organi, che sono vejcoli di dolore e di piacere, sconnettendosi e disordinandosi, diventar devono per conseguenza materia non organizzata inetta a produrre alcuna sensazione. Il dolore ed il piacere hanno un certo limite, passato il quale distruggono chi li soffre, quindi di gioja e di spasimo si muore egualmente. Veggonsi i moribondi dare quasi niun segno di dolore e mostrare una insensibilità ed un sonno poco differente dalla morte; le picciole febbri rendono chi le soffre infelice, e le grandi lo sopiscono e l’uccidono; la puntura di un ago fa piangere di dolore ed una ferita alle meningi fa vaneggiare e morire. Da queste riflessioni puossi molto sospettare che meno terribile sia l’immagine della morte di quello che ce la rappresentiamo in lontananza. Il lasciare di vivere in una robusta sanità sarebbe grande sfortuna, ma dalla febbre alla morte v’è poca differenza di male. Esser adunque giusto in faccia a Dio ed in faccia agli uomini, il che è il complesso d’ogni nostro dovere, e cercare la nostra felicità non sortendo da queste leggi sarà un principio egualmente distante dalla severità farisea che dalla licenza e dalla incredulità; ma siccome che ha parte nella nostra felicità il rimirare la morte più come un fine de’ mali che come un violento dolorosissimo distacco dell’essere pensatore dalla materia, o come una attrocissima guerra fra questi due esseri che ci compongono, di cui abbiamo d’essere (se m’è permesso di così esprimermi) quasi il campo di battaglia; così l’indurirsi di un coraggio religioso e filosofico a questa separazione ed il prepararci a non temere la distruzione della vita mortale sarà uno de’ migliori impieghi che possansi fare della ragione.

Conclusione

Eccovi il termine di questo saggio; ben contento io sono, se puossi leggere sino al fine senza noja da un uomo ragionevole. Non garantisco che [non] vi siano de’ paralogismi: in un libro, per poco grande che sia, ve n’ha sempre la sua porzione; quello che garantisco si è la buona volontà. Mio pensiero non è stato di fare un sistema compito di morale, ma piuttosto di distruggere in qualche parte la cattiva o d’impedirne se si può li funesti progressi. Se dovessero limitarsi gli autori alle sole nuove scoperte ed alle nuove verità, avressimo pocchissimi libri: molto si rischiara, molto si dice con nuove frasi e nuovi periodi: ma la maggior parte della filosofia consiste in distruggere i pregiudizj, e se in questa parte ho fatto qualche progresso, e se qualche uomo si spoglierà di un solo errore alla lettura del mio libro, avrò ottenuto un fine maggiore d’ogni mia aspettazione.

Fine

 

NOTE

[1] Non vocemini Magistri, quia Magister vester est unus Christus. Matth. cap. 23.

[2] Varro ap. S. Aug. De Civitate Dei Lib. 19, c. 1.

[3] Diliges dominum deum tuum ex toto corde tuo, ex tota anima tua, ex tota mente tua; hoc est maximum et primum mandatum; secundum autem simile est huic: diliges proximum tuum sicut te ipsum, in his duobus mandatis universa lex pendet, et prophetae. Matth. cap. 22.

[4] Mandatum novum do vobis; ut diligatis invicem, sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem. Joannes, cap. 13.

[5] In hoc cognoscent omnes, quia discipuli mei estis si dilectionem habueritis invicem. Joann. cap. 13.

[6] Super omnia autem charitatem continuam habentes, quod est vinculum perfectionis. Paul. ad Coloss. 3.

[7] Ante omnia autem, mutuam in vobis metipsis charitatem continuam habentes, quia charitas operit multitudinem peccatorum. Epis. B. Petri cap. 4.

[8] Diligere proximum suum tamquam se ipsum majus est omnibus holocautomatibus, & sacrificijs. Mar. cap. 11.

[9] Gentes quae legem non habent, naturaliter ea, quae legis sunt faciunt, ejusmodi legem non habentibus ipsi sunt lex. Epis. B. Paul. ad Rom.

[10] Missis itaque David nunciis tulit eam. L. Regum, cap. II.

[11] Diligite justitiam, qui judicatis terram. Sap. cap. 1.

[12] Qui reddit mala pro bonis, non recedet malum de domo ejus. Prov. cap. 27.

[13] Qui nititur mendaciis hic pascit ventos. Prov. cap. 10.

[14] Justus quasi leo confidens absq. terrore erit. Prov. cap. 28.

[15] Abominatio Domino est omnis illusor, et cum simplicibus sermocinatio est. Proverbiorum cap. 3.

[16] Illusor solus portabit malum. Prov. cap. 9. Qui perversi cordis est non inveniet bonum, et qui vertit linguam incidet in malum. Proverb. c. 27.

[17] Opprobrium nequam in homine mendacium, et in ore indisciplinatorum assidue erit. Ecclesiastic. cap. 20.

[18] Custodite vos a murmuratione, quae nihil prodest, et a detractione parcite linguae.

[19] Avarus non implebitur pecunia. Ecclesiast. cap. 5.

[20] Considerans reperi, et aliam vanitatem sub sole: unus est, et secundum non habet, non filium, non fratrem, et tamen laborare non cessat, nec satiantur occuli ejus divitijs, nec recogitat dicens; cui laboro, et fraudo animam meam bonis? in hoc quoque vanitas est, et afflictio pessima. Ecclesiastes cap. 4.

[21] Inter superbos semper jurgia sunt. Prov. c. 13.

[22] Qui major est in vobis, fiat sicut minor. S. Luc. cap. 22.

[23] Ubit fuerit superbia ibi erit contumelia, ubi autem humilitas ibi sapientia. Proverbiorum cap. 11.

[24] Pigredo immittit soporem, et anima dissoluta esuriet. Prov. cap. 19.

[25] Egestatem operata est manus remissa, manus autem fortium divitias parat. Prov. c. 10.

[26] Vir sapiens si cum stulto contenderit, sive irascatur sive rideat non habebit requiem. Prov. c. 29.

[27] In auribus insipientium ne loquaris quia despicient doctrinam eloquj tui. Prov. c. 23.

[28] Vir amabilis ad societatem magis amicus erit quam frater.

[29] Sapientiam atque doctrinam stulti despiciunt. Proverb. cap. 2.

[30] Qui erudit derisorem ipse injuriam sibi facit. Proverb. cap. 9.

[31] Risus abbundat in ore stultorum, et stultorum infinitus est numerus.

[32] Absque ullo ranchore stomachi in disputatione versemur, et vel nostrum emendemus errorem, vel alium frustra reprehendisse doceamus. Optime novit prudentia tua unumquemque in suo sensu abbundare, et puerilis esse jactantiae, quod olim adolescentuli facere consueverant accusando illustres viros suo nomini famam quaerere: nec tam stultus sum, ut diversitate explanationum tuarum me laedi putem, quia nec tu laederis si nos contraria senserimus.

[33] Iniquitates suae capiunt impium. Proverb. cap. 5.

[34] Errant qui operantur malum, misericordia, et veritas praeparant bona. Proverb. cap. 14.

[35] Non enim dissensionis est Deus, sed pacis, sicut et in omnibus Ecclesijs sanctorum doceo. Paul. ad Cor. cap. 15.

[36] Occiditis, zelatis, et non potestis adipisci. Epistola Catholic. B. Jacobi c. 4.

[37] Quod si zelum amarum habetis, et contentiones sint in cordibus vestris nolite gloriari, et mendaces esse adversus veritatem, non est enim ista sapientia desursum descendens, sed terrena, animalis, et diabolica. Ubi enim zelus, ibi contentio, et omne opus pravum: quae autem desursum est sapientia, primum quidem pudica est, deinde pacifica modesta suabilis, bonis consentiens, plena misericordia, et fructibus bonis, non judicans, sine simulatione, fructus autem justitiae in pace seminantur. Epist. Catholic. B. Jacobi cap. 3.

[38] Monsieur de Bouffon, Histoire de l’homme, tom. VI.

[39] Dominus autem spiritus est, ubi autem spiritus domini, ibi libertas. Paul. ad Cor. 2, cap. 2.

[40] Deponentes omnem malitiam, et omnem dolum, et simulationes, et invidias, et detractiones. Petrus Epis. 14, c. 2.

[41] Non quia dominamur Fidei vestrae. S. Paul. ad Cor. 2 cap. 1.

[42] Impius facit opus instabile: seminanti autem justitiam merces fidelis. Prov. c. 11.

[43] Corruptio optimi pessima.

[44] Populus hic labiis me honorat, cor autem eorum longe est a me.

[45]Hoc scelesti in animum inducunt suum

Jovem se placare posse donis, & hostiis,

& operam, et sumptum perdunt, ideo fit quia

nihil ei acceptum est a perjuris suplicii. Rudent. prolog.

[46] Ne dicas: quid putas causae est, quod priora tempora meliora fuere quam nunc sunt? Stulta est enim hujuscemodi interrogatio. Ecclesiastes.

[47] Vae vobis scribae, et Pharisei hypocritae, qui similes estis sepulcris dealbatis, quae a foris parent omnibus speciosa, intus vero plena sunt ossibus mortuorum, et omni spurcitia. Matth. c. 23.

[48] Alligant onera gravia, et importabilia, et imponunt in humeros hominum, digito autem suo movere nolunt. Matth. c. 23.

[49] Onus meum leve.

[50] Quis enim cognivit sensum Domini, aut quis consiliarius eius fuit. Paul. ad Romanos cap. II.

[51] Quis enim hominum poterit scire consilium Dei, aut cogitare quid velit Deus? Liber sapient. c. 9, & Isajas c. 40.

[52] Nec dicere Deo quicquam potest quare ista facis? Ecclesiastes.

[53] Questa è una serie di proposizioni infallibili quanto lo sono le geometriche, ma non si dimentichino queste parole, senza avere l’anima rischiarata da lumi superiori. S. Paolo scrive: Graecis, & Barbaris, sapientibus, & insipientibus debitor sum; io non scrivo nè ai Barbari, nè agli ignoranti, ma temo quella razza d’uomini che giudica male per malignità o per fanatismo.

[54] Non plus sapias quam necesse est ne obstupescas. Eccles.

[55] Nolite judicare, & non judicabimini, nolite condemnare, & non condemnabimini, eadem quippe mensura, qua mensi fueritis rementietur vobis. S. Luc. cap. 6.

[56] Venit Joannes Baptista, neque manducans panem, neque bibens vinum, & dicitis demonium habet, venit filius hominis manducans, & bibens, & dicitis ecce homo devorator, & bibens vinum, amicus pubblicanorum, & peccatorum. Idem S. Luc. cap. 7.

[57] Appendit corda Dominus. Proverbiorum cap. 21.

[58] Nolite judicare secundum faciem, sed rectum judicium judicate. Joann. cap. 4.

[59] Bruto, Spurio Cassio, Virginio, Tito Manlio.

[60] Valerius Maximus VII. 7.

[61] Interdum dominatur homo homini in malum suum. Eccles.

[62] Vedi l’eccellente opera Essais sur l’inegualitè des hommes.

[63] La Storia de’ viaggi c’insegna che tutti questi casi si verificano in varie nazioni.

[64] Bielfeld, Institutions politiques, tom. I.

[65] Placuit ut ante XXV annos aetatis, nec Diaconi ordinentur, nec Virgines consacrentur. Decret. Grat. p. 2, caus. 20, quaest. I, cap. 14.

[66] Constituit sacer iste conventus ut Episcopi sive abbates, qui non in fructum animarum, sed in avaritiam, & turpe lucrum inhiantes quoslibet homines circumveniendo totonduerunt, ut res eroum tali persuasione surriperent poenitentiae canonicae, utpote turpi lucri sectatores subiaceant. Grat. Decret. p. 2, cap. 5, caus. 20.

[67] Melior est puer qui ambulat in simplicitate sua. Proverbiorum cap. 9.

[68] Melior est puer pauper & sapiens Rege sene & stulto. Eccles. c. 4.

[69] Ognuno sa chi n’è l’autore; sarebbe dubitare della celebrità che s’è giustamente acquistata il nominarlo. I filosofi l’applaudiscono, i Freloni l’odiano, la posterità renderà giustizia al suo genio, ed io sono nella posterità.