Quattro lettere al Signor A. F. D. de’ suoi fedelissimi servitori Mal di Milza e Gran Zoroastro

Pietro Verri
QUATTRO LETTERE AL SIGNOR A. F. D. DE’ SUOI FEDELISSIMI SERVITORI MAL DI MILZA E GRAN ZOROASTRO [1766]

Testo critico stabilito da Gianni Francioni (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, I, 2014, pp. 591-627)

… ridentem dicere verum
Quis vetat?

AVVISO DELL’EDITORE 

Le quattro lettere seguenti non sono altrimenti né del Gran Zoroastro, nè del Mal di Milza, benchè ne portino il nome, ed io, in qualità d’Editore ingenuo, e che faccio consistere la bellezza dei poemi, delle favole, della commedia e d’ogni opera di spirito nella verità (come c’insegna il Signor A. F. D.), debbo svelare questa letteraria impostura al pubblico. Queste quattro lettere dunque sono scritte da Ibrahim Sady, che ha l’onore di servire da Bibliotecario il Gran Zoroastro. In fatti que’ due celebri astrologi hanno ben altro che fare presentemente che confutare il Signor A. F. D., e tutti gli astrologi ben sanno che tutta la notte se la passano attualmente in cima al loro Osservatorio a rimirare la cometa che s’è scoperta giorni sono nel segno de’ Pesci, e tutti gli astrologi pur sanno che impiegano attualmente tutto il giorno que’ due famosi astrologi nel calcolare il moto della cometa e prevedere il viaggio che dee fare nel Cielo. Ora, osservar la cometa e calcolare e rispondere al Signor A. F. D., non sarebbe possibile il farlo. Ho voluto prendere esatta contezza di quest’affare, e da buona parte sono stato assicurato che il Bibliotecario Sady è stato quello che ha voluto scrivere queste quattro lettere, e per dar loro credito ha usata la frode di porvi il nome del suo Padrone e dell’amico suo intimo Mal di Milza. In fatti, per poco che i cortesi Lettori vi osservino, conosceranno che v’è della diversità sensibile nello stile. Il Gran Zoroastro ha quelle bellezze originali d’uno stile tutto fatto da lui e per lui; Sady è un copista fedele sì, ma sempre copista, in cui scorgesi lo stentato della imitazione. Il Gran Zoroastro ha sempre dette le verità, senza darsi la briga di provarle; Sady prova delle verità, senza darsi la briga di dirle. Il Gran Zoroastro non ha mai fatto pompa d’erudizione; Sady te la schiera in ordine di battaglia. In una parola, si vede che Sady ha studiato sotto il suo Padrone ed ha cercato di formarsi sul suo stile, ma le copie sono sempre copie. Con tutto ciò, può darsi che taluno legga con piacere anche questa copia, e perciò la dò alle stampe; ma ho creduto mio dovere di palesare la verità al Lettore, anche perchè non mi quadrerebbe che poi il Gran Zoroastro un giorno  o l’altro se la prendesse con me, come avessi contribuito ad abusare del celebre nome che s’è fatto nella Repubblica Astrologica. 

AL SIG. A. F. D.
AUTORE DELLE RIFLESSIONI CRITICO-FILOSOFICHE 

ZOROASTRO E MAL DI MILZA
Salute e buon umore. 

Che alla Signoria Vostra non piacciano le nostre voluminose, elaboratissime opere, consistenti in almanacchi numero due stampati (se la fragilità della memoria non ci tradisce) alla fine dell’anno 1763, la cosa non è strana. Se aveste domandato a noi il nostro savio parere, non sa- rebbe stato difficile che vi venisse risposto, che se voi non avevate una profonda stima per quelle due nostre elucubrazioni, noi le stimavamo ancora meno di voi. Ma, vita mia, Signor A. F. D., stampare un’opera di più di quattrocento pagine per criticare que’ due meschini almanacchi, questa è una crudelissima risoluzione da farci piangere a calde lacrime. Vi pare, Signor A. F. D., che vi sia discrezione nell’obbligarci a leggere, come ci è pur convenuto fare, tutte le vostre quattrocento pagine ad una ad una, e distinguerci sì crudelmente dai vostri benigni lettori, fra’ quali sfido che vi sia chi abbia il coraggio d’imitarci!

Il colpo che ci avete fatto, Signor A. F. D., è tanto più atroce quanto premeditato. Capperi! Un povero autore lascia scappare un almanacco senza porvi nome, dedicatoria, encomj di letterati od altra precauzione; passa l’anno intero, finisce Dicembre, e la bell’opera va dolcemente nel profondo obblio coi Vesta verde, Pellegrina Celeste, Rustico Indovino ed altri illustri siffatti. L’autore sulla buona fede mangia, beve, dorme, fa il fatto suo e non vi pensa più. E voi, Signor A. F. D., dolosamente, scientemente, proditoriamente per lo spazio di ben due anni preparate una confutazione del peso di due libbre e più, e del valore di cinquanta soldi, e senza dire nemmeno guarda, venite a risuscitare il Mal di Milza ed il Zoroastro per provare che nè l’un, nè l’altro erano buoni almanacchi per l’anno del Signore mille settecento sessanta quattro! Che siate benedetto, Signor A. F. D. Noi vi ringraziamo di vero cuore dell’onore che ci avete fatto d’aver tenuto per due anni in cima de’ vostri pensieri quelle nostre buffonerie, e d’esservi profondamente internato nell’analisi di que’ nostri avvanzi di bottega, che dalla finestra avevamo per trastullo gettati sulla strada. Que’ due almanacchi ora sono più vostri che di noi. Sedete, Signor A. F. D., sedete sur un trofeo di Zoroastri e Mali di Milza; sono essi di vostra ragione; colle nostre mani gl’incateniamo al vostro carro di trionfo; sono essi il vostro Perseo, che condurrete al Monte di Brianza.

Non v’aspettate dunque, o illustre domatore d’almanacchi, che noi prendiamo la difesa dei due vostri nimici; no, mio dolce A. F. D.; e già che vediamo dal vostro limpidissimo stile niente pedantesco, che voi amate le divisioni, divideremo anche noi. Non vogliamo difendere dunque i nostri fu almanacchi. Primo: perchè non ci pare che meritino la spesa. Secondo: perchè non abbiamo tanto radicata opinione della pazienza dei lettori, come pare che l’abbiate voi. Terzo: perchè, grazie al Cielo, noi non abbiamo più presso di noi verun esemplare di quegli almanacchi, e non vogliamo prenderci la briga di cercarli.

Per altro, quei pochi pezzetti dei nostri almanacchi, che ci fate rissovenire voi medesimo nel vostro libro critico-filosofico, se abbiamo a dirvela schietta, non ci danno una idea molto svantaggiosa di quelle nostre capricciose coserelle. Voi avete la ingenuità di citare un frammento del Zoroastro, il quale non ha l’onore di piacervi, e dice così: Un sistema incorruttibile è una chimera, come l’uomo immortale; ma la legislazione più durevole di ogni altra è quando sta condensata in un sol punto tutta la forza per difender le leggi, e vi sta circoscritta per modo che non possa adoperarsi per violar le leggi. E sapete davvero che questo pezzetto non è cattivo; piace anche a noi, ora che ce lo fate vedere a mente fresca. Ma non disputiamo del merito dei due almanacchi, son vostre spoglie, venisti, vedesti, vincesti, evviva il nostro Signor A. F. D.

Dopo compiuta la vostra gloriosa vittoria, permettete, giocondissimo Signor A. F. D., che noi umilmente vi esponiamo alcune passeggiere osservazioni, che ci è occorso di fare leggendo le vostre quattrocento e più pagine critico-filosofiche. Voi colla superiorità de’ vostri lumi e colla equità della vostra morale ne giudicherete pacificamente.

In più luoghi del vostro libro noi siamo rimproverati acremente da voi perchè non abbiamo ingegno, nè talento; ma perchè mai, Signor A. F. D., volete voi incolparci d’una disgrazia nostra! L’avere ingegno o non averlo è forse stato mai in nostra mano? Se Dio benedetto ci ha data una testa dura, una mente torpida, una immaginazione di ghiaccio, qual colpa ne abbiamo noi! Voi dovete ringraziare il Cielo dei cinque talenti che vi ha dati; ma non per ciò potete in coscienza peccare di superbia ed insultare alla povertà del nostro spirito; ella è grande, la conosciamo anche noi, nè mai abbiamo preteso di paragonarci ad un uomo quale voi siete; nè mai ne’ nostri almanacchi ci è venuto in mente di citarvi tanti bei testi Latini, come avete fatto voi spiritosissimamente, pezzi tutti d’arcana erudizione
Multa renascentur quæ jam cecidere ec.
e il recondito
Non ego paucis offendar maculis
e il bel detto
Ars longa vita brevis
ovveramente l’altro
De gustibus non est disputandum
come pure quei rarissimi
Hoc opus hic labor.
Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci.
Nemo dat quod non habet
e mille e mille siffatti elegantissimi frizzi di sale Attico, che noi non ci siamo mai lusingati di possedere. Il vostro rimprovero sulla piccolezza de’ nostri talenti è troppo crudele, e non corrisponde a quella generosità che la vostra gran mente deve avere per compagna indivisibile. Se siamo obesi e stupidi di mente, peggio per noi e meglio per voi, che avete più paragoni avvantaggiosi da fare per il vostro amor proprio. Ma non ce lo state più a rimproverare, se mai riprendete la penna a pubblica allegrezza.

Un’altra cosa vediamo nel libro vostro, di cui vi facciamo pure giudice: ivi ci dite che avete antipatia con Zoroastro! E perchè, povero Zoroastro, avere antipatia con esso lui! Ci dispiace assai che il buon Signor A. F. D. abbia un sentimento così incomodo da soffrire. Grazie al Cielo, noi non abbiamo veruna antipatia per voi, e se possiamo servirvi in qualche cosa debolmente, lo faremo sempre di cuore. Per altro vi consigliamo a cercare di liberarvi da questo nimico sentimento, che v’inquieterà inutilmente, se continuate a nodrirlo. Bisogna prima di tutto che cerchiate d’esser buono, e buono di cuore, caro il mio A. F. D., e crediatemi, che se prenderete di tempo in tempo due o tre danari di rabarbaro, viverete meglio. Voi non siete tanto incredulo in medicina quanto per disgrazia nostra lo siamo noi; prendetene dunque, e liberatevi da quell’ipocondria che vi annerisce le idee e vi fa guardare di sbieco Zoroastro, che è la più buona pasta d’uomo che vi possiate immaginare; scarso sì di talento, come dite benissimo, ma buono davvero.

In seguito noi vogliamo darvi alcuni precetti, che potranno mettervi sulla buona strada ed insegnarvi a fare un’altra volta una critica ragionevole e che sia letta facilmente. Non perdete il coraggio, caro Signor A. F. D., nemmeno perchè questa vostra opera primogenita sia riuscita male; no, la vostra fama non ne ha sofferto verun pregiudizio, poichè nessuno legge il vostro libro critico-filosofico, e conseguente mente nessuno ha presa cattiva idea di voi. In qualità d’autore, voi siete ancora nella vostra purissima verginità, e se ci ascolterete, potrete cominciare felicemente di nuovo la vostra carriera, secondando il genio che vi porta alla critica.

Primieramente dunque, quando vogliate comparire con riputazione nella Repubblica delle Lettere in qualità di giudizioso critico, siavi a cuore la scelta dell’opera che avrete da criticare. Se criticate una buffonata, ovvero una inezia, qual gloria ne volete voi mai aspettare? Se attaccate due taccuini con un tomo di roba, caro A. F. D., vi parlerò anch’io latino con rara erudizione e dirò risum teneatis, amici; e se volete del Francese, vi dirò le jeu ne vaut pas la chandelle. Sciegliete un’opera degna d’essere combattuta, che abbia già un nome Europeo, e molto più un’opera di cui gli errori sieno contrarj al bene della società.

Scelta che avrete quest’opera con criterio, fatevi a sangue freddo le vostre osservazioni. Sappiate che ne’ tempi presenti le inurbanità, le ingiurie, le contumelie movono lo stomaco a tutti i lettori per poco che siano costumati. La decenza, il candore, la virtù debbono dirigere la vostra penna. Voi per esempio, contro di noi avete scritto un po’ male su quest’articolo. Voi qualificate le narrazioni di Zoroastro per indecenti e sfacciate, voi accusate Zoroastro di mancare alla onoratezza; ma sapete voi, Signor A. F. D., che queste sono grossolane ingiurie? Vi compatisco, povero A. F. D., un po’ di rabarbaro la sera antecedente avrebbe risparmiato questo sfogo ipocondriaco. Noi non andremo facendo la tessera di varj siffatti zoppicamenti che sono sparsi nel vostro ragionamento critico-filosofico, ma rileggetelo voi stesso e vedrete che vi fanno torto. Nel nostro paese sono notissime quelle due inezie che avete prese a combattere, e ciascuno è testimonio se vi sia cosa che vi giustifichi nemmeno a pronunziare contro di esse la parola di onoratezza. Non basta avere l’ingegno sublime che avete, caro A. F. D., bisogna essere ragionevole anche quando si fanno i ragionamenti, e nella critica bisogna cercare la verità sur un soggetto interessante, e cercarvela con tranquillità, con decenza e con maniere costumate, nobili e degne d’un uomo di lettere.

Un terzo ricordo che vi dobbiamo dare da buoni amici si è che cerchiate sempre di intendere voi medesimo quando scrivete; altrimenti nessuno intenderà voi. Da questo salutare precetto voi vi siete allontanato in più d’un luogo del vostro libro critico-filosofico, e per indicarvene un capitolo intero vi citeremo il Dialogo XIV, del quale non sappiamo rinvenire nè capo, nè coda, nè vi sarà, crediatemelo, uomo al mondo, il quale intenda que’ vostri Greci, turbanti, piramidi, amori furtivi, Gertruda, coppiere di Giove e simili sogni d’ammalato, che v’hanno messo il sangue in effervescenza, non si sa come o perchè. Voi dite che il nostro stile è oscuro, e avete tutta la ragione; ma noi diremo che il vostro stile è chiaro e intelligibile, e avremo tutto il torto. Crediateci davvero, caro A. F. D., che non si sa cosa voi vogliate dire per la buona metà del vostro libro, e per onore del vostro ingegno, giacchè ne avete moltissimo, non dovreste trascurare mai di mostrare il senso comune. Ma sopra tutto, ritorniamo al tasto favorito, sopra tutto bisognerà che in avvenire vi vestiate d’una certa decenza e urbanità di stile, che vi tenga lontano dal fiele scolastico, droga ormai screditata presso le persone di qualche cultura.

Osservati che abbiate questi avvertimenti, tutti ragionevoli, come vedete, vi dobbiamo ricordare di non abbandonarvi facilmente e senza scelta a tutte le idee che vi si affacciano alla mente, nè inserire episodj e digressioni sulla simpatia, sul buon gusto, sul Neutonianismo e simili che avete insalsicciati critico-filosoficamente in questo vostro primo tentativo; la prolissità è sempre un vizio, sapete che il proverbio è antico, e se volessimo scrivervi una righetta anche in greco, potremmo anco dirvi che un gran libro è un gran male. Lo stile vostro è slombato e diradato di troppo, e se mai farete in avvenire dei dialoghi, rianimateli di tratto a tratto con qualche frizzo, che riscuota il benigno lettore; se no, autor mio benedetto, sarete padrone di scrivere sin che vorrete, ma i cortesi lettori sbadiglieranno alla seconda pagina e vi pianteranno alla terza, e le 431 che rimangono resteranno nel loro perfetto celibato; e tutte le sucide istorie del medico del Gran Condè, e la vile ritirata dell’Alamanni con Carlo V, e tutt’i vostri Cavalieri d’Alcantara che svengono alla parola lana, e tutt’i vostri gentiluomini che piovon sangue dal naso vedendo un gatto, e tante e tante spiritosissime cose di questo conio, lasciatele contare alle vecchierelle e non ne sporcate più la carta, poichè queste si chiamano critico-filosofiche innocenze. La gente che ha voglia di ridere non è poca, e gli scrittori che impastano i tomi con così amene novellette servono per i nostri minuti piaceri. Oh non potreste credere, caro il mio A. F. D., quanto sieno maligni gli uomini! Voi siete di buon cuore e non vi pensate più che tanto; ma crediateci, vi diamo dei buoni pareri, e se gli ascolterete vi troverete contento.

Finalmente nelle critiche che farete in avvenire, e che non dovete mai più chiamare critico-filosofiche, ma semplicemente critiche, abbiate osservazione di non mostrare mai voglia maligna di denigrare l’autore che avete per le mani con personalità o imputazioni odiose anco indirette. In due luoghi almeno del vostro libro voi lasciate scappare critico-filosoficamente un tratto, col quale date a credere che noi non facciamo caso degli argomenti dedotti dalla Sacra Scrittura; e dove avete voi, Signor A. F. D., le ragioni per crederci pronti a sdegnarci contro un sillogismo che abbia per base la religione! Cominciate a supporre che la religione è una infallibile verità, come lo crediamo noi, e poi discorrete bene su quei principj, che noi vi daremo ragione come se partiste da ogni altro principio dimostrato. Vi lodiamo del non avere voluto porre di mezzo l’augusta maestà del dogma fralla battaglia vostra con due taccuini, ma sappiate che nessun uomo discreto potrà lodarvi di aver cercato di riverbero di far comparire noi come gente che mal soffra quella maniera di ragionare.

Noi vi lasciamo perfine, dolcissimo vincitore del Mal di Milza e di Zoroastro; noi vi lasciamo coi vostri scorpioni che avvelenano, co’ vostri tarantati che si risanano colla musica, coi vostri ecclissi che non sono mai stati creduti opera di stregheria, co’ vostri divini Platoni e con tante belle e sterminate cose che ci avete mescolate con tante bellissime parole distese per lo spazio di quattrocento e più pagine. Noi vi preghiamo di mettere in musica la vostra bellissima canzone:

Messer Crisologo
Sempre sedendo
Sta in su la scranna
D’onde condanna
E d’onde approva
Gli scritti e le dottrine

con quel che segue, e sfido che si dia maniera di poetare più umana e modesta della vostra. Noi vi lasciamo coperto di trionfali allori e vi preghiamo a voler compatire la tenuità de’ nostri scarsi talenti, i quali pure quai sono, deboli e poverini, saranno sempre disposti a servirvi; e chi sa che per vostra consolazione non vediate comparire due nuovi almanacchi per l’anno del Signore 1767, tutti scritti senza onoratezza, senza logica, oscuramente, mordacemente, sfrenatamente, ributtantemente, falsamente, rozzamente, scorrettamente e bestialmente come i passati, per nobile vostro trattenimento, o intertenimento, come volete; e facendovi divotissima riverenza, vi auguriamo che possiate conservar sempre i grati errori della mente resi a voi necessarj, cioè robusta opinione del vostro sapere, vivissima persuasione del vostro spirito e convinzione imperterrita della vostra superiorità sopra di noi, vostri fedelissimi servitori.

Tommaso Mal di Milza
Pasquale Gran Zoroastro 

LETTERA SECONDA
AL SIG. A. F. D.
CRITICO-FILOSOFO 

ZOROASTRO
Salute e buon umore. 

Nella passata lettera vi si è abbozzato un piano di educazione letteraria così alla meglio, come s’è potuto in mezzo alla festevole emozione che ha risvegliata in noi la rapida lettura che abbiamo fatto delle vostre Riflessioni critico-filosofiche; ora da me solo vengo, dolcissimo A. F. D., a trattenermi con voi e proseguire con qualche metodo l’instituzione vostra. La maggior parte del vostro bel libro è diretta a me solo, e vuole la gratitudine e la stima altissima che fo de’ vostri superiori talenti ch’io singolarmente m’adoperi a vostro vantaggio.

Prima d’ogni altra cosa adunque è necessario che v’imprimiate ben bene nella mente questo principio, che la principale accortezza d’uno scrittore consiste in ciò, ch’ei non si lasci giammai trasportare al di là de’ confini delle proprie cognizioni, e non ragioni mai, per esempio, di medicina o di fisica o di storia o di geometria e così va dicendo, s’ei non abbia chiare nozioni di quella parte dell’umano sapere. Questa cautela debb’essere osservata da ogni uomo che prende a scrivere; ma più di ogni altro deve osservarla uno scrittore critico: poichè egli ha sicuramente un avversario sin dal momento in cui prende la penna, il che non accade sempre agli altri scrittori, particolarmente di almanacchi. Ciò posto, date per ipotesi che un uomo leggesse interamente il vostro libro. Ivi è sicuro che dalla prima pagina sino alla quattrocentesima trentesima quarta non vi si troverebbero altri fatti precisamente criticati da voi che i quattro dell’ecclissi, delle comete, dello scorpione e della tarantola. Di queste quattro critiche, che sono le sole marcate nel vostro tomo, io passerò a farne brevemente un esame. In questa lettera parlerò delle due prime, delle altre due ne ragionerò in seguito.

Supponete dunque, per ipotesi, che un uomo imperterrito a segno di seguitare la lettura delle vostre cose critico-filosofiche avesse qualche notizia della storia, e che sapesse che presso gli antichi le streghe di Tessaglia erano in singolare riputazione, perchè facessero discendere la Luna in terra. Supponete ch’ei sapesse quello che è comunemente noto a chi abbia qualche tintura de’ costumi della antichità, cioè che nell’ecclisse lunare la plebe d’Italia e di Grecia faceva rumori e schiamazzi per impedire che non ascoltasse la Luna le parole magiche colle quali le streghe la costringevano, poverina, a discendere e secondare le loro fattucchierie. Supponete che quest’uomo avesse osservato in Orazio
Lunamque rubentem
Ne foret his testis
ed in Virgilio il notissimo verso
Carmina vel cælo possunt deducere Lunam.

Supponete che maneggiando Livio gli si fosse aperto il libro 26 ed avesse letto: Campanorum imbellem multitudinem cum æris crepitu, qualis in defectu Lunæ, silenti nocti fieri solet, clamorem edidisse. Supponete che anche in Giovenale avesse letto quel verso con cui descrive una vecchia ciarliera assordatrice:
Una laboranti poterit succurrere Lunæ.

Supponete che avesse veduto Seneca, Natur. Quæst., lib. 7, dove dice al principio: Nemo observat Lunam nisi laborantem. Tunc urbes conclamant, tunc pro se quisque superstitione vana trepidat. Supponete che quest’uomo avesse letto in Plinio, Natural. Histor., lib. II, cap. XII: Deliquio Solis et Luna veneficia arguente mortalitate et ob id crepitu dissono auxiliante. Supponete ch’egli avesse veduto in Ovidio
Te quoque Luna traho, quoniam Temesea labores,
Æra tuos minuant.
Supponete perfine ch’egli avesse letto Lucano, ed osservati que’ due versi del lib. 6:
Et patitur cantu tantos depressa labores,
Donec suppositas propior despumet in herbas.

E tutto ciò supposto, ditemi, caro A. F. D., qual idea dovrebbe formare di voi quel tal uomo leggendo la vostra pagina 148, in cui spacciatamente asserite che è falso che gli antichi credessero l’ecclisse una operazione magica!

Che se poi questo tal uomo ipotetico fosse anche un po’ esatto nella logica, amabilissimo mio A. F. D., sapete ch’io sarei imbrogliatissimo a difendervi! Voi mi presentate contra le stregherie dell’ecclisse un argomento così:
Sulpicio Gallo ha predetto un ecclisse. Dunque non è vero che gli antichi ignorassero la cagione dell’ecclisse.

Io, che ho una cattiva logica, come voi avete ottimamente riflettuto, io mi sarei ristretto a dire semplicemente così:
Sulpicio Gallo ha predetto un ecclisse: dunque v’è stato alcuno fra gli antichi, che ha conosciuta la cagione dell’ecclisse. 

Eppure anche dicendo così avrei azzardato ancora, poichè un solo ecclisse per mero azzardo potrebb’essere stato predetto.

Se quel logico (e sapete che i buoni logici, quando si tratta di ragionare, non fanno complimenti) se quel logico cominciasse a dirvi: autor mio critico-filosofo, chi ha ristretto la sfera delle vostre idee a segno, che quando si parla d’antichi, non possiate slanciare il pensier vostro più in là della guerra con Perseo fatta dai Romani? Chi vi ha addestrato a cavare logicamente da un fatto particolare una conseguenza generalissima, che abbraccia tutta l’antichità? Autor mio, se io dirò Gli Olandesi sono ricchi, e tu mi rispondessi Gli Olandesi non sono ricchi, perchè ne ho veduto io uno che accattava l’elemosina; dimmi, autor mio, arressi tu buona logica? Autor mio, quando io dico Gli antichi adoravano molti Dei, dico una verità, sebbene alcuni pochi saggi anche fra gli antichi adorassero un Dio solo. Autor mio, quando io dico Gli antichi credevano l’ecclissi una operazione magica, dico una notissima verità, sebbene alcuni pochi astronomi ne conoscessero la vera cagione.

Ma io non voglio lasciarvi barbaramente alle prese con quel nerboruto logico, o mio A. F. D.; no, fatevi cuore, questo logico è un mero personaggio ideale, che io ho voluto presentarvi alla mente per eccitare nel vostro animo una salutare cautela, la quale vi accompagni in avvenire nelle nuove produzioni che vi disponete di dare alla luce; no, non temete che alcun logico vada fino alla pagina 148 a discoprire questa poca svista, compatibile poi in un primo tentativo che avete fatto di voi stesso col pubblico.

Per altro, a proposito dell’ecclisse io voglio comunicarvi alcune notizie che aveva raccolte prima di scrivere quella mia buffoneria, onorata col vostro libro. Conviene dunque per vostra quiete che sappiate, mio A. F. D., che per quanto la storia ha tramandato a noi, Anassagora fu veramente il primo che abbia conosciuta la cagione dell’ecclisse lunare, e come dice Plutarco nella vita di Nicia: Primus autem qui lunaris luminis atque umbræ causam deprehendit, ac literis mandare ausus est, Anaxagoras fuit; e voi sapete ch’ei fu contemporaneo di Pericle, e che morì nel primo anno dell’Olimpiade LXVIII, onde soggiunge ivi Plutarco che al tempo di Nicia: neque in vulgus adhuc opinionis ejus fama prodierat, sed inter paucos admodum versabatur, qui non sine metu talia proferre audebant; e questo timore era tanto più ragionevole quanto che Anassagora istesso fu posto per questa sua scoperta in prigione, e non vi volle meno dell’autorità di Pericle per salvargli la vita, il che poi anche potrà servirvi per accrescere il vostro catalogo dei filosofi perseguitati dal volgo, il qual catalogo dubito assai che non sia un po’ mancante.

Ma che direte poi, se lo stesso ecclisse che citate voi, lo stesso predetto da Sulpicio Gallo, quello istesso, istessissimo ecclisse provi contro di voi! Il male sta, carissimo A. F. D., che non avete letto quel fatto negli autori classici. Leggetelo dunque inPlutarco, nella vita di Paolo Emilio, ed ivi osservate come viene descritto: Luna obscurari cœpit, ac deficiente lumine multisque coloribus mutata, tandem nusquam apparuit. Romani, ut consuetudo est, titinniti æris lumen ejus revocantibus, et ignes multis facibus ad cœlum tollentibus; nihil simile a Macedonibus factum, sed metus et horror castra eorum habebat, ac sermo clam per multos ierat, defectum Regis per id ostentum significari. Vi pare che da ciò ne venga quello che vorreste cavarne voi, cioè che non è vero che gli antichi ignorassero come accadessero gli ecclissi? Più. In quel fatto istesso, poche righe più abbasso, leggerete che il Comandante sacrificò alla Luna dodici buoi appena venne rischiarita, e ciò per non parere irreligioso presso l’armata; e da ciò ne volete dedurre che gli antichi conoscessero la vera cagione dell’ecclisse? Ciò non si può sostenere, ammeno di non provarmi che l’armata di Paolo Emilio fosse un’armata non d’antichi, ma di moderni. Bisogna adunque, non mi stancherò di ripetervelo, bisogna usare la precauzione in avvenire d’informarsi di quello che si vuole scrivere, altrimenti voi vi esporrete troppo a scomparire. Vedete per vostra erudizione Plinio, libro 2, cap. XII, alla nota c del Dalecampio, e leggerete: Credidit etiam simplex antiquitas Lunam de cælo in terras carminibus trahi posse; nec non depressam cogi in herbas subditas spumam et virus effundere, quibus ad magica felicius utantur despumare Lunam, id dixit Apul., l. I Asini aurei. Leggete finalmente l’Enciclopedia all’articolo Eclypse e vedrete: L’ignorance de la phisique a fait rapporter dans tous les lieux et dans tous les tems à des causes animées les effets dont on ne connossoit pas les principes, ainsi les Pretres debiterent en Grece que Diane etoit devenue amoureuse d’Endimion, et que les eclypses devoient s’attribuer aux visites nocturnes que cette Deesse rendoit à son amant dans les montagnes de la Carie; mais comme ses amours ne durerent pas toujours, il fallut chercher, dit l’Abbé Banier, un autre cause des eclypses. On publia que les sorcieres, sur tout celles de Thessalie, avoient le pouvoir par leurs enchantemens d’attirer la Lune sur la terre; c’est pourquoi on faisoit un grand vacarme avec de chauderons et autres instrumens pour la faire remonter à sa place. Les Romains entre autres suivoient cet usage et allumoient un nombre infini de torches et de flambeaux etc. Che voi non sappiate cosa hanno scritto gli autori, che voi non sappiate quale opinione avessero gli antichi dell’ecclisse, non v’è male alcuno; ma, soavissimo A. F. D., che voi ve la prendiate col povero Zoroastro e che vogliate rimproverargli di sapere quello che non sapete voi, questo è male. Zoroastro era padrone di leggere gli autori che ha letti, e voi non potete in coscienza togliergli questa libertà. Concludiamo dunque e facciamo fermo proposito, saporitissimo mio A. F. D., di non impegnarci mai più in avvenire a scrivere di cose che non abbiamo studiate e conosciute bene.

Passiamo ora, amichevolmente sempre e con fratellevole cordialità, a vedere un po’ con quai principj abbiate voluto correggere il famoso lunario a proposito delle comete. Il lunario dice che le comete nel secolo passato non erano credute corpi celesti aventi un moto periodico regolare. Voi dite che ciò non è vero, perchè Seneca aveva delle comete quelle stesse cognizioni che ne abbiamo anche noi, pag. 149, e di più mi rimproverate perchè non abbia letto il passo di Seneca che viene citato da Monsieur Maupertuis. Guai, caro A. F. D., guai se ritornasse in campo quel terribile logico di poco fa! No, non vi sgomentate, lo faremo stare in disparte per ora; ma avvertitevi che non va bene il citare Seneca, che visse nel secondo secolo, per provare le opinioni del secolo decimo settimo. Il povero Seneca non poteva sapere a’ suoi tempi, nè scrivere, quali pazzie fossero per venire in capo agli uomini che avevan da nascere mila e cinquecento anni dopo di lui. Avvertitevi, per vostra informazione, che le opere del Signor di Maupertuis non sono nè rare, nè voluminose a segno di non essere lette da molti, e che fra questi vi sono anch’io debolmente da alcuni anni. Avvertitevi che i sentimenti di Seneca si possono conoscere meglio in Seneca che in ogni altro luogo, e quantunque non abbiate veduto mai le opere di quest’antico chiarissimo ragionatore, se non nelle citazioni del Signor di Maupertuis, io non vi consiglio di farne la confessione in pubblico con tanta ingenuità, come l’avete fatta.

Prendete dunque il libro settimo di Seneca Naturalium Quæstionum, e vedrete che al cap. XIX e seg. dice che le comete erano credute fenomeni, sed non quibus siderum nomen imponas; quia dilabuntur nec diu durant, et exigui temporis mora dissipantur. In hac sententia sunt plerique nostrorum.

Se nei due anni ne’ quali avete preparato il vostro tomo aveste data un’occhiata all’autore che volevate citare contro di me, avreste dunque risparmiato di scrivere che l’opinione di Seneca era con molti altri, poichè l’opinione dei molti altri era realmente diversa, e nell’errore si trovavano plerique nostrorum, come vi ho fatto leggere. Un libro celebre assai e ch’io non voglio nominare, libro pubblicato appunto verso il fine del secolo passato, avrebbe potuto darvi idea quai fossero le opinioni comuni degli uomini del secolo passato sulle comete. E voi volete poi convincermi che nel secolo passato le comete non erano comunemente risguardate come corpi regolari celesti, e volete convincermi con questa bella ragione, perchè Seneca non pensava così, e pretendete di convincermi quando anche al dì d’oggi, se comparisse una cometa, il popolo la crederebbe un presagio e gli astrologi stamperebbono le loro brave riflessioni! A. F. D., per amor del Cielo, abbiate cautela in avvenire, non ve ne lasciate scappare mai più di siffatte.

Ovvia, acciocchè in avvenire sappiate qualche cosa anche intorno le comete, vi dirò che Pittagora e i suoi seguaci le hanno credute astri con periodiche rivoluzioni. Metrodoro supponeva che fossero una riflessione del Sole. Democrito s’immaginò che fossero una conglomerazione di più stelle. Aristotele le credette esalazioni secche e infiammate sublunari. Strabone si figurò che fossero una stella circondata da una nuvola. Boezio definì le comete una porzione d’aria colorita. Anassagora sostenne ch’erano scintille del fuoco elementare. Senofane le credette nubi accese. Longomontano le prese come globi diafani che lasciavano passare i raggi solari dai quali veniva formata la coda. E mille e cento opinioni le più fluttuanti furono poste in campo, fin che venne la paralassi a farci conoscere la vera distanza di questi corpi e gli astronomi ad insegnare l’oblongazione dell’elisse loro. Sappiate dunque che il merito d’avere fissate generalmente le opinioni degli astronomi sul punto delle comete si deve al Cav. Isacco Newton. Sappiate che nello scorso secolo Kepler le credeva esalazioni; sappiate che tutte le scuole avevano la stessa sentenza delle esalazioni, ch’è aristotelica. Leggete il Conamen novi systematis Cometarum di Giacomo Bernouilli e vedrete gli errori appunto del secolo passato anche presso questo grand’uomo, il quale è giunto a scrivere che le comete possono essere un segno dell’ira celeste se non per il corpo loro almeno per la coda. Leggete l’opera dello stesso Cassini (quel Cassini che fu poi disingannato col tempo a segno d’essere uno de’ prodi scopritori della vera teoria delle comete), leggete l’opera che stampò da giovane nel 1653, e vedrete quanto i pregiudizj del secolo avessero offuscata quella mente a segno di sostenere che le comete erano, come le credevano le scuole, esalazioni. Leggete perfine Gallileo e v’informerete quanto lontani fossero i luminari delle scienze prima di questo secolo dal conoscere la vera natura delle comete.

Mi sembra strana cosa, che mentre voi mi citate il passo di Seneca riferito dal Signor di Maupertuis nella sua Lettre sur la comete, che sta nel tomo 3 delle sue opere, non abbiate veramente letto il passo di Seneca che citate. In quella lettera, pag. 215, dice il testo di Seneca tradotto: plusieurs nations encore aujourdhui ne connaissent du ciel que ce que leurs yeux en aperçoivent, et ne savent ni pourquoi la Lune disparoit en certain temps, ni quelle est l’ombre qui nous la cache. Io devo credere che non l’abbiate letto, poichè non pare possibile che avendolo letto, alla pagina antecedente a quella in cui lo citate abbiate scritto: non è vero che gli antichi ignorassero come accadesser le ecclissi, p. 148.

Bisogna dunque, amabilissimo Signor A. F. D., che in avvenire non vi lasciate rincrescere la fatica, e che informandovi prima di scrivere, non vi esponiate sconsigliatamente a farvi scorgere, come accaderebbe già a quest’ora, se il vostro libro venisse letto dove a pag. 149 scrivete: E Zoroastro, che dice che nel secolo passato non si sapeva che le comete fossero corpi celesti, che (mi piace assai quel vostro stile dei che) in un determinato lunghissimo tempo compivano i loro periodi regolari, non dee aver letta la bellissima lettera di Monsieur Maupertuis sopra le comete, ove si riferisce un testo di Seneca da cui si raccoglie evidentemente che quel filosofo con molti altri aveva delle comete quelle stesse cognizioni che ne abbiamo anche noi al dì d’oggi. Il qual Seneca, per essere contemporaneo degli uomini che hanno vissuto nel secolo passato, prova secondo voi che nel secolo passato era nota la teoria delle comete.

Cosa strana per verità, che essendovi voi proposto di criticare due miserabili libercoli che io stesso valuto per una inezia, vi siate appunto attaccato a due articoli, su i quali la ragione era tutta per me; e che su questi due articoli non abbiate avuta un po’ di precauzione d’informarvi e di vedere le cose come sono in fatti, prima di azzardare un passo in terreno per voi sconosciuto, ed essere poi colto in flagrante sproposito come v’è accaduto. Se avevate pur voglia di criticare il Mal di Milza e il Gran Zoroastro, perchè non venire da me, che v’avrei fatto vedere sette o otto spropositi che sono in quei taccuini, e vi sareste cavato d’impegno con una critica, se non plausibile per l’argomento, almeno ragionevole per l’effetto! Ma criticare un Mal di Milza e un Gran Zoroastro, criticarlo con un tomo di roba, perdervi due anni di tempo e scegliere i soli articoli nei quali avete un torto evidente, e ne’ quali colle vostre critiche fate vedere di non essere molto al fatto dell’erudizione, è una gran disgrazia. Ma la mia lettera è ormai troppo lunga, e quasi quasi temo che i cortesi Lettori non riprovino il mio stile di criticofilosofare, il che mi spiacerebbe all’anima. Addio, mio dolce A. F. D., fatevi cuore; se m’ascolterete, forse chi sa, potrete un giorno fare un libro che si possa leggere; ma non cesserò di ripetervi che vi vuole prudenza nel non uscire dal confine delle vostre cognizioni, e logica per servirvene. Mancando ciò, mancano due piccole bagatelle, le quali servono di grande ornamento. Sono divotamente vostro fedelissimo servitore

ZOROASTRO

LETTERA TERZA
AL CRITICO-FILOSOFO
SIGNORE A. F. D. 

ZOROASTRO
Salute e buon umore. 

Per cagion vostra, vivacissimo A. F. D., la mia zoroastresca riputazione è sull’orlo del precipizio, e lo vedo e lo conosco ottimamente; poichè per informarvi sui fenomeni celesti, e per farvi vedere che vi siete condotto male nel mestiere della critica, m’avete ridotto al duro passo di puntellarmi con testi, con erudizione, e di comparire agli occhj del benigno Lettore non più quel Zoroastro che sono, ma un erudito fortificato, cinto di opere a corno, a tenaglia, a scarpe e controscarpe, cose tutte narcotiche e soavissimamente addormentatrici. Zoroastro che è sempre stato di buon umore, Zoroastro che è sempre stato accolto dal pubblico con festa e giuoco, Zoroastro, povero Zoroastro, a quale stato infelice sei ridotto, di vestire l’abito lugubre di controversista, e ciò per effetto del tuo buon cuore e per dirigere sul buon sentiero il tuo alunno A. F. D.! Se il vostro bel tomo mel’aveste fatto vedere manoscritto, io avrei corrisposto con lettere immediatamente dirette a voi, e così ci saremmo annojati l’un l’altro; la noja privata alla fine si dimentica; ma avete creduto di porre il pubblico frammezzo ai lunarj ed ai vostri umori ipocondriaci, e con
ciò pormi nella sgraziata necessità di annojare i lettori. Cortesi Lettori miei, non me ne vogliate male, voi vedete che non è per mia scelta che son costretto a ridire quelle volgari erudizioni che la maggior parte di voi già sapeva; ma voi vedete che sono indotto a farlo per una opera pia, qual è quella d’informare un po’ il nostro A. F. D.; voi vedete che il mio fine è nobile, e se potrò riuscirvi a trasformare un cattivo scrittore in un buono, o almeno a farlo diventare lettore giudizioso delle opere altrui, voi vedete ch’io avrò reso un servigio alla Patria.

Ed a proposito di Patria, spiritosissimo mio A. F. D., voi nel vostro Avviso al lettore ci avvertite d’aver presa la vostra sapientissima penna fralle dita per difendere la nostra città. Il fine è certamente nobile e virtuoso. Ma da chi la volete voi difendere? Dal Mal di Milza e dal Gran Zoroastro! Cercate voi posto fra gli Orazj Cocliti, fra gli Attigli Regoli per sì bella impresa? Suvvia, cercate voi la corona civica e l’onor della fronda di quercia al vostro crine? Che diamine vi siete immaginato di meritarvi, con quel vostro soccorso di Pisa che viene a salvar Milano da due taccuini!

La gloria della nostra Patria, caro A. F. D., è fondata e mantenuta dai valorosi e fedeli suoi figlj che con virtù e senno guidano le schiere del Principe. La gloria della nostra Patria è fondata e mantenuta dalla sapienza, zelo e integrità de’ suoi figlj che ne’ pubblici ufficj s’adoperano per il servigio sovrano, sempre inseparabile dal ben pubblico. La gloria della nostra Patria è fondata e mantenuta da que’ suoi figlj i quali, per un felice ardimento d’ingegno oltrepassando i confini sempre cari al volgo della mediocrità, hanno saputo farsi un nome nella carriera delle scienze e delle lettere, ed essere onorati da quel vasto e rispettabile ceto di pensatori sparso per tutta l’Europa che ha il nome di Repubblica delle Lettere. La gloria finalmente della nostra Patria è fondata e mantenuta colla buona fede, colla beneficenza, colla virtù di molti privati cittadini. Ecco su che è fondata la gloria della Patria.

Voi buonamente avete creduto, dolce mio A. F. D., che la gloria del paese dipendesse dalla venerazione verso alcune costumanze volgari, ed avete creduto che si violava il Palladio sorridendo un poco allo spirito curiale che veramente ci ha fin ora infestati, ai dottoramenti, alle visite da parto e a tutti quegli officiosi perditempi che il saggio deride con ragione. Voi avete buonamente creduto che fosse un male il deridere l’ostinazione nei pregiudizj, il disprezzo per il merito, l’avversione alle scienze, in somma quello spirito di ribellione e tumulto popolare che il volgo oppone sempre ad ogni nuova verità nel nostro paese come in ogni altro! Voi avete creduto che fosse il tempo da fare il decreto: Videat A. F. D. ne quid res publica detrimenti capiat. No, gentilissimo mio A. F. D., consolatevi, rasserenatevi, la nostra città non ha verun bisogno del vostro tomo, e non le fate il torto in avvenire, nelle opere che ci promettete di dare alla luce, non fate, dico, il torto al nostro paese di far credere che un Mal di Milza o un Zoroastro inquietino la pubblica pace o richiedano una penna che dopo due anni venga a difenderlo. Dalle aprensioni vostre ho fondamento di credere che voi non foste in Milano in quel tempo; che se vi foste stato, caro A. F. D., avreste veduto che tutta la gente è corsa a prendere quei famosissimi almanacchi, per modochè se ne sono dovute fare più edizioni, tanta era la folla dei letterati che li volevano nelle lor Biblioteche; avreste veduto che non vi sono stati nè turbanti, nè Greci, nè Geltrude, nè brutti scherzi fatti per le strade, nè simili enigmi che colla tenuità del mio ingegno non ho mai potuti capire; avreste veduto che tutti gli uomini sensati hanno avuto piacere che si spargesse il ridicolo su i volgari pregiudizj, perchè tutti gli uomini sensati non credono la nostra Patria la migliore Patria del mondo possibile, e desiderano che sempre più si riscuotano i cittadini, e si sveglino e si liberino dalle opinioni difformi dalla verità. Avreste in somma veduto che gli almanacchi si sono comperati a mezzo paolo l’uno tranquillissimamente, e letti allegramente, e valutati per una celia innocente e virtuosa, quanto essere lo poteva il soggetto non mai serio d’un almanacco.

Sapete, caro A. F. D., che, se il vostro libro fosse scritto diversamente, e che per conseguenza fosse possibile il sostenerne la lettura, sapete che voi fareste passare i Milanesi presso gli estranei per ben diversi da quello che sono? Voi innocentissimamente e colla più pura intenzione del mondo cercate niente meno che di far passare i Milanesi per Ostrogoti che idolatrino i pregiudizj del volgo, che stoltamente orgogliosi credano la loro Patria giunta alla perfezione, che vadano in furia contro ogni critica, ogni scherzo sul costume; in somma voi attribuite, senza accorgervene, alla nostra Patria tutt’i vizj delle Nazioni più incolte e barbare, il distintivo delle quali è appunto di credersi ciascuna la prima dell’universo. No, caro il mio Scevola, venite a Milano e conoscerete che i Milanesi non sono sì incolti, che essi godono anzi ed applaudono a chi tenta di frizzare il ridicolo su i loro costumi in quella parte che lo meritano, come le antiche Nazioni colte accolsero Teofrasto, Esopo, Fedro, Luciano, Orazio, Giovenale, Persio e cento motteggiatori del vizio, come l’Inghilterra ha accolto Addison, Pope, Swift, la Francia la BruyereDespreaux, Moliere, e così andate pur proseguendo. In nome dunque della nostra Patria, io ho l’onore d’assicurarvi, Signor A. F. D., ch’ella comprerà più volontieri un nuovo Mal di Milza o un nuovo Zoroastro che non una nuova Riflessione critico-filosofica. Sappiate che noi Milanesi siamo persuasi che gli uomini di merito fra di noi sieno in picciol numero e che gli uomini da ridere sieno assai. Sappiate che noi Milanesi vogliamo ridere fra di noi come ci pare da concittadini, e non vogliamo che vi prendiate la briga di onorare la città nostra colla vostra protezione, nè vi incomodiate a difendere Milano dal portentoso pericolo di due taccuini. Perciò in avvenire, quando comincierete di nuovo la vostra carriera delle lettere, se volete porvi sulla buona strada, se volete fare onore alla Patria, in vece di perdere due anni di tempo per confutare due libercoli buffoni, contribuite ad accrescerne la coltura co’ vostri scritti; e in vece di difendere le sciocchezze che tuttora ci restano, adoperatevi a svellerle, a disingannarne il volgo, a promovere il genio delle scienze, della urbanità, della ragione, della virtù; fate in somma del bene alla Patria co’ vostri scritti, e sappiate che quella è la strada di farle onore.

Quando in Dicembre del 1763 io sporcava alcuni pochi foglj di carta per dare allo stampatore la manifattura d’un almanacco, lavoro sublimissimo, come ognun vede, e che mi è costato la seriissima occupazione di quasi cinque giorni; chi m’avesse detto che vi fosse in Cielo tal costelazione, che doveva cagionare una febbre ipocondriaca nella mente di un uomo dell’esistenza del quale sono anni che non mi sono risovenuto! Sapeva, egli è vero, che dipingendo un carattere ridicolo si trova sempre qualcuno che vi somiglia. Ma gli amori furtivi, dei quali non v’è menzione nei miei almanacchi, la Geltrude, nome che non si trova ne’ miei almanacchi, i coppieri di Giove, le osservazioni parietarie, la Checca, i Greci, che non credo di aver mai nominati, come mai vi siete voi figurato di vedergli in questi almanacchi! E, quand’anche vi fossero, il che non è, che mai avevano a fare Geltrude, amori furtivi, coppiere di Giove, osservazioni parietarie, Checca e Greci con A. F. D.! Che importa a voi dei turbanti e dei Greci! In che vi trovate voi offeso o dipinto o insultato in que’ fatali almanacchi!
Nella prima lettera v’è stato dato un buon parere, carissimo A. F. D., ed è di fare uso del rabarbaro: fatelo, che ne proverete vantaggio, e vi libererete dai neri fantasmi che vi tormentano, e scaccerete dalla immaginazione quelle nebbie dell’Erebo che vi anneriscono e vi fanno vedere le Sfingi, le Gorgoni, e le Erinni spietate, mentre Pulcinella fa un dialogo con Arlecchino. Sappiate dunque che se la mia penna non ha mai fatto onore a me, nè bene alla Patria, ciò non è stato per mancanza di buona volontà, ma per mancanza del mio sapere. Sappiate però che nè il mio cuore, nè la mia penna si sono mai avviliti a segno di stillar fiele o di personalizzare satire o maldicenze contra nessuno in particolare. Sappiate che per una mia particolar fortuna ho avuto a fare più volte in vita mia con gente che ha stampato per criticarmi, come avete fatto voi, cioè con qualche difetto di ragione e di discernimento; e quelle poche volte che ho creduto di dovere rispondere, l’ho fatto con quella decenza che si conviene ad un uomo che ha principj dei quali non si vergogna; alcune volte ho ragionato col mio avversario, alcune altre volte l’ho amichevolmente canzonato; ma sono stato sempre lontano dalla contumelia e dalla offesa personale. L’ingegno, la ragione, il giudizio, la dottrina d’un autore son cose sulle quali il pubblico può dire il suo parere; ma il carattere e l’onoratezza d’un uomo non possono essere toccati da chi scrive, se non dimostrando la verità dell’accusa. Se la dimostra è un delatore; se non la dimostra è un autore d’un libello calunnioso. Sappiate dunque che anche que’ due almanacchi non contengono nessuna delle satire personali che vi avete vedute voi, e che più di due mila lettori vi attesteranno quello ch’io vi dico, e che se vi fosse stato tutto quel nero che a voi pare, i Tribunali o gli Ecclesiastici non avrebbero lasciato correre liberamente per le mani d’ognuno sì fatte bagatelle. Io vi compatisco assai, povero A. F. D., voi avete fatta una gran guerra per più di ventiquattro mesi contro i mulini a vento, e avete veduto le Geltrude, i coppieri di Giove, gli amori furtivi, le osservazioni parietarie, le Checche e i Greci, e tante e tante belle cose che nessuno ha lette o vedute. Prendete rabarbaro, purgatevi, e scompariranno le Geltrudi, i coppieri di Giove, gli amori furtivi e le ingiurie sanguinose e personali, e i turbanti, e i Greci, e tutto quel dizionario di roba che felicissimamente s’è architettato nella vostra spiritosissima mente.

Non è questa la prima volta in cui ho scritto il parer mio sul modo con cui debbonsi sottoporre alla critica le opere letterarie; nè questa è la prima volta in cui ho dimostrata l’avversione che ho verso ogni villana e canagliesca maniera di scrivere. Concedo a voi, A. F. D., che nel vostro libro non vi siete meritata per questo titolo l’avversione mia, e perciò appunto ho voluto rispondervi. Le frasi birbesche e da osteria sono un fango che ribalza sopra chi lo scaglia, nè merita l’onore che se gli risponda chi ha la bassezza di usarne. Voi, A. F. D., non avete su quest’articolo peccato, e siccome gli errori vostri non sono del cuore, ma della mente, così mi reputo ad onore di consacrarvi questi brevi rittaglj di tempo che vado rubando ad alcune piccole faccende, che mi distraggono per avventura dall’ozio delle muse. Questi rittaglj sono consacrati, come vi ho già detto, alla vostra educazione letteraria, proseguiamola dunque; e per tenere il filo del discorso (cosa che è sempre plausibile a farsi), io vi ripeto che ne’ due almanacchi non v’è, nè vi poteva essere, personalità alcuna; vi ripeto che voi siete il primo dopo due anni a trovarvela, e di più vi dico che non ho mai potuto immaginarmi nemmeno come voi, Signor A. F. D., vi siate veduto dipinto o offeso da quei taccuini.

Dunque nelle vostre future imprese letterarie siate un po’ più cauto e officioso nello stile. Voi dite nel vostro Avviso al lettore che nei due almanacchi vi avete notata una mordacità sfrenata; vedete se in questa mia risposta vi sia una parola sola contro di voi che suoni altrettanto; nè vi basta pure incolpare il povero Zoroastro di mordacità sfrenata, che vi aggiugnete un’aria di sofficienza ributtante; lepidissimo mio A. F. D., questo si chiama andare in collera, vedete s’io non ho ragione di consigliarvi il rabarbaro! Leggiamo: una mordacità sì sfrenata, un’aria di sofficienza tanto ributtante, una maniera di scrivere sì oscura, sì rozza e scorretta, per l’oscura, rozza e scorretta avete ragione, accompagnata da moltissime massime del tutto false e contrarie alla ragione, due cose veramente diversissime, e per fine vi compresi le leggi della verità violate, terza cosa pure diversissima dalle due precedenti, con che formate il vostro stile chiaro, elegante e corretto. E per fine vi compresi le leggi della verità e dell’ONESTÀ sì manifestamente violate, che mi nacque tosto il pensiero di stampare una moderata critica. Non vi lasciate dunque nascere il pensiero di criticare gli almanacchi, perchè questo pensiero fa ridere, e se si comincia a ridere, caro A. F. D., non vedrete più il genere umano serio con voi. Quando vi nascerà poi il pensiero di criticare moderatamente un’opera che sia degna de’ vostri lavori, risolvetevi a sbandire dal vostro stile alcune frasi biliose, che vi pregiudicano in faccia delle persone di qualche coltura, come per esempio a pag. 13: ma egli (cioè io) non si contenta di queste sole falsità e vuole aggiungerne delle altre, dalle quali risulti il traverso e la cortezza del suo intelletto, siccome dalle prime appare la malvagità del suo cuore. In altri luoghi voi chiamate le mie narrazioni indecenti e sfacciate: voi replicate a pag. 39 che i miei almanacchi sono opposti alle regole dell’onoratezza, che contengono solenni ribalderie, pag. 41, che sono monumenti incontrastabili di poca onoratezza, pag. 48; e qui m’arresto alla pagina quarantottesima e vi perdono tutto quello che avete sparso nelle trecento ottanta sei pagine che restano, bastando quel poco che s’è detto per provarvi che voi, quando vi proponete di criticare moderatamente, in fatti uscite dal seminato con frasi un po’ mancanti di moderazione, le quali frasi fanno tutto il torto a chi le scrive e indispongono ogni urbano e colto lettore contro chi le adopra. Se dunque volete essere in avvenire ben accolto presso le persone costumate, riformate, dolcissimo A. F. D., questi piccoli nei del vostro stile e siate persuaso di questa grande verità, che la fredda ragione e il tranquillo ridicolo sparso sulle debolezze dello avversario lo umiliano assai più che tutte le più robuste e disperate indecenze. Fate seria riflessione a questo mio buon consiglio, e lasciate ch’io vi dia cordialmente un abbraccio mentre sono.

Vostro fedelissimo servitore
ZOROASTRO

LETTERA QUARTA
AL SIG. A. F. D.
CRITICO-FILOSOFO 

ZOROASTRO
Salute e buon umore. 

Avvegnadiochè, sapientissimo ed oltremodo reverendo A. F. D., gli uomini, siccome per natura facilmente alla innatività e spensieratezza inchinevoli, di frequenti ed incessanti stimoli abbian d’uopo, sicchè riscuotansi, e dirò pure, rianiminsi dal facile letargo a sorgere ed a vitali operazioni rivolgersi; ed essendo massimamente a ciò dato l’inesorabile stimolo del dolore, che la sconsigliata Pandora per greca fola fu immaginato poeticamente lasciasse uscire dal bussolo fatale; benaugurate e opportunissime, ragion vuole ch’io mi lusinghi, sieno per giungere presso di voi le tenuissime serie lettere, sfornite, a vero dire, di quella venustà e grazia onde lo stile vostro è placidamente trabocchevole, ma capaci tuttavia a destarvi dal funesto lunghissimo sonno, onde sin ora furono gli occhj vostri leggiadramente sorpresi ed aggravati signorilmente.

Sull’ecclisse e sulle comete v’ho data qualche sorta d’informazione nella seconda lettera; in questa vengo a dirvi qualche cosa intorno le tarantole e lo scorpione, e così avrò esaminati separatamente i soli quattro articoli ne’ quali avete specificatamente corretta la mia ignoranza. Cominciamo dunque dalla tarantola. Nel mio lunario ho detto che la morsicatura di quest’animale ora non si guarisce più colla musica, come credevasi per lo passato; voi mi rinfacciate che io non abbia letto il viaggio d’Italia del Misson, dove è inserita una dissertazione sulla tarantola che si guarisce colla musica. Vi dirò dunque sincerissimamente che il viaggio di Misson è uno de’ libri che ho letti appena dopo finito il corso de’ miei studj, e che anch’io al bel principio ho creduto al portentoso morso della tarantola che si risana colla musica, sulla fede del Signor Domenico Sangenito, la di cui lettera è inserita alla fine d’uno de’ quattro tomi di Misson. Portò il caso che vedessi in seguito le opere del Mead, medico, come saprete benissimo, ch’ebbe la preziosa vita del Cavaliere Isacco Newton in custodia; ivi dunque cominciai ad osservare una giudiziosa riflessione, ed è che il rimedio della musica è stato il rimedio favorito di Pittagora, e che appunto Pittagora se ne serviva per guarire singolarmente i morsi velenosi. Ora, Pittagora fissò precisamente il suo Liceo ne’ luoghi ne’ quali si guarisce la tarantola colla musica, e così questa opinione discende per tradizione verisimilmente da quel filosofo della Setta Italica, e che alcun ordine monastico ha tentato d’ascrivere nel numero de’ suoi Priori di convento. Questa tradizione mi parve verosimile e cominciò a farmi sospettare che la prodigiosa guarigione colla musica non fosse un fatto ben provato colla sagace esperienza, ma piuttosto un’opinione onorata colla lunghissima tradizione de’ secoli. Cercai di schiarirmi ed appresi che nelle Transazioni filosofiche, al numero 82, appunto nella Puglia frequentissimamente, per un delirio melanconico, senza essere morsicati dalla tarantola, gli abitanti mostrano tutti que’ sintomi che si attribuiscono ai tarantati. Questo fatto appoggiato dal testimonio di molti medici di Puglia accrebbe la mia diffidenza, e si fortificò il mio sospetto che la musica non risanasse altrimenti da un veleno, come m’aveva fatto credere la lettera del Misson, ma soltanto da una opinione o pazzia. Per andare alla sorgente di quest’affare mi posi a leggere la famosa dissertazione sulla tarantola del Baglivio, il quale è stato il più valente difensore dell’antidoto della musica. Ivi osservai dunque al capo VII che i medici di Puglia non possono distinguere la febbre maligna dal veleno della tarantola, e che prendendo un male per l’altro mandano sovente all’altro mondo, accompagnati dalla musica e saltando, i poveri febbricitanti. Osservai che le donne sono d’ordinario le più soggette all’antiarmonica morsicatura di quest’insetto, e Baglivio istesso assicura che si credono tarantate quando chlorosi laborant o sono afflitte da tutt’altra isterica affezione. Osservai in esso Baglivio che nella Puglia non solo la morsicatura della tarantola, ma quella dello scorpione si risanano colla musica. Osservai nella citata dissertazione al capo IX che l’autore istesso, il Signor Dottore Baglivio, essendo punto dalla tarantola, più volte ne risanò senza musica alcuna, ma bensì colla scarnificazione alla parte offesa. Osservai finalmente che fralle molte istorie che quel medico aggiugne in fine della sua dissertazione sulla tarantola, la maggior parte dei tarantati sono guariti senza musica di sorte alcuna.

Da questa serie d’idee, seguitando l’ordine della mia meschina logica, ho cavate due conseguenze, e sono queste. Prima: quei che si chiamano tarantati non sono tutti morsicati dalla tarantola. Seconda: di quei che sono morsicati dalla tarantola, molti ne risanano senza musica. Voi scorgerete facilmente che nel mio povero spirito si dovettero fortificare con ciò i dubbj sull’efficacia della musica a guarire dal morso della tarantola, e che dovetti propendere a credere piuttosto che il Signor Domenico Sangenito avesse ingannato Monsieur Misson, o per l’innato genio di raccontar prodigiose cose, ovvero anche per sovverchia credulità e mancanza d’industria nel fare l’esperimento, anzi che bevermi la potentissima virtù antidotaria delle consonanze e disonanze, colle quali si separassero dal sangue umano una ad una le particelle venefiche introdottevi.

Mentr’era sul punto di abjurare la virtù magica della musica, mi capitò alle mani finalmente il bel libro del Signor Francesco Serao, Accademico Napolitano. Lessi nelle dissertazioni sue su quest’insetto una compiuta e luminosa disquisizione di tutto ciò che vi appartiene. Questo valoroso indagatore della verità ha finalmente scoperto il gran mistero, ed ha dimostrato chiarissimamente che tutto questo male si riduce non già al morso della tarantola, ma bensì ad una affezione ipocondriaca particolare degli abitanti la Puglia. Leggete dunque, eruditissimo, cautissimo, logichissimo A. F. D., leggete le dotte e celebri dissertazioni di quell’accademico, e spero che vi nascerà qualche compassione dell’infelice Zoroastro, il quale in compagnia di tutti gli uomini un po’ informati di questa faccenda ha avuto la disgrazia, e
l’ha tuttavia, di non contentarsi della lettera riferita nel secolo passato da uno straniero che viaggiava l’Italia (e da uno straniero che credeva alla Papessa Giovanna), ma di attenersi ai fatti riferiti dagli Italiani e dagli abitanti della Puglia istessa, e di preferire la dimostrazione e l’esperienza alle pittagoriche opinioni che tutt’ora si custodiscono dal volgo. Il primo errore dunque della storia naturale che voi avete trovato nella grand’opera del mio lunario dopo due anni di fatica, non vel’avreste trovato, se aveste letto gli autori che ne trattano. Ciò deve dunque sempre più rendervi cauto e circospetto in avvenire, dolcissimo mio A. F. D., nelle vostre critiche filosofiche, e stimolarvi a studiare e non lasciarvi rincrescere la fatica, se volete comparire al pubblico con qualche riputazione. Passiamo ora all’altro articolo che mi resta della storia naturale.

L’altro articolo risguarda lo scorpione, che io ho detto nell’almanacco che non è animal velenoso in Europa, e voi con una recondita erudizione sostenete che sia animal velenoso. Voi mi rinfacciate di non aver letto il discorso di Muschembroeck sopra la maniera di fare le esperienze: avete ragione di rinfacciarmi la mia ignoranza, io non ho letto quel discorso, son persuaso che sarà degno del suo celebre autore, ma per dire la verità non l’ho letto. Ebbene, se non ho letto quel discorso, ne verrà dunque in conseguenza che gli scorpioni sieno velenosi in Europa? Io non so, nè ho voglia per ora d’informarmi, se veramente Muschembroeck abbia creduto o no velenoso lo scorpione; ma quand’anche avesse creduto che lo fosse, sarebbe perciò dimostrato che lo sia? Leggete dunque il bel trattato De veneno animantium del dottissimo Signor Domenico Brogiani, libro stampato e ristampato anche fuori d’Italia, ed osserverete nella edizione del 1755, a pag. 61, che dice: At vero quod ex scorpionum genere sub Italo cœlo reliquum est, vel tenuissimæ, vel nullius efficaciæ virus obtinuit. Leggete Savary alla voce Scorpion e vi illuminerete. Ecco cosa ivi scrive quell’autore:

Il y a peu d’années qu’heureusement la medecine de Montpellier a ouvert le yeux la-dessus par d’autres experiences, qu’un de leurs medecins a faites sur les animaux, et qui l’ont fait revenir de ce prejugé des Anciens. Celles que j’ai vues sont plus parlantes, puisque des occasions favorables me les ont preséntées plus naturellement, et en grand nombre, arrivées sur des hommes mêmes.

Les premiers exemples furent en Espagne pendant la guerre et les campagnes de 1704 à 1712 inclusivement. L’armée des alliés contre Philippe V, ayant campé alors diverses fois dans l’Estremadure, dans le Royaume de Valence et dans la Catalogne, un nombre assez considerable de soldats en furent piqués de nuit en dormant dans leurs tentes, et cela pendant toutes les campagnes; car en ce Pais là cet insecte y est fort frequent, se logeant de jours sous des pierres et sortant la nuit pour chercher sa nourriture. Dans les premieres campagnes, ces accidens causerent beaucoup d’allarmes parmi ceux qui en étoient piqués; les chirurgiens de l’armée n’y contribuerent pas peu par le prejugé dans le quel ils etoient sur cette piquure; c’étoit d’abord des empressemens à recourir à des remedes, le uns apliquant des scorpions ecrasés dessus, d’autres de la thériaque, et d’autres de l’huile de scorpion, qu’ils composerent pour s’en pourvoir dans ces occasions. Comme ils guerissoient tous, dans les commencemens les chirurgiens crurent d’avoir fait merveille; et les blessés ravis d’en être èchapés, crurent de même que leur guerison etoit due aux effets de leurs bons remedes. Cependant le tems desilla les yeux à toute l’armée, par les exemples frequens qui arriverent dans les années suivantes. Divers soldats qui en furent piqués, négligerent le recours aux pretendus remedes, et comme il ne leur arriva rien de plus qu’une piquure d’abeille, ils se moquerent en d’autres occasion de ceux qui avoient peur sur leurs piquures; et comme cette negligence, ou meme ce mepris, de recourir à des remedes alla en augmentant, et que les piquures continuerent d’etre assez frequentes sans qu’il en arrivat aucun danger, on reconnut par là que c’etoit une erreur toute pure dans le monde, et dont plusieurs crurent et apparemment avec raison, qu’elle devoit sa naissance à la charlatanerie du vieux tems. Ce qui est à remarquer sur ces exemples, c’est que les scorpions d’Espaigne ont passé pour des plus dangereux.

Mi pare, soavissimo A. F. D., che questo testimonio possa valere qualche cosa. Finalmente date una benigna occhiata alle Memorie dell’Accademia Reale di Parigi dell’anno 1731, e da una dissertazione del Signor Maupertuis vedrete le ripetute sperienze della morsicatura dello scorpione fatte su cani, il che servirà a schiarirvi sempre più su quest’articolo che avete voluto porre in controversia.

Ed ecco a che sono finalmente ridotte le quattro critiche che distintamente avete voluto farmi. Carissimo mio A. F. D., fermiamoci un momento a pensare al caso nostro, poichè quantunque abbiate uno spirito infinito, pure non è male di tempo in tempo pensare, e almeno per compiacenza vi prego di farlo. Che credete voi mai, A. F. D., che vorrebbe dire la brigata, se il vostro tomo potesse esser letto! Il Signor A. F. D. compare alla luce delle lettere con un libro. Su qual soggetto? Una disquisizione critica-filosofica contro due lunarj. Sarà qualche operetta di buon umore. No, è un tomo di più di quattrocento pagine, che gli costa la fatica di più di due anni. Oh poffare! Ei crede di difendere la Patria e se stesso contro il Mal di Milza e il Gran Zoroastro, nei quali ha letto Geltrude, coppier di Giove, amori furtivi, Greci e turbanti, parole, come ognun vede, che attaccano al vivo A. F. D. e la Patria. Oh povero A. F. D.! Ma cosa dice contro Mal di Milza e Zoroastro? Dice che sono ribalderie contro l’onoratezza. Oh povero A. F. D.! Ma cosa prova? Le sue quattrocento pagine sono piene di vaghe declamazioni e di rimproveri in buona parte inintelligibili; le sole accuse spacciate sono contro l’ecclisse, contro le comete, contro la tarantola e contro lo scorpione. Vuole A. F. D. che gli antichi non credessero l’ecclisse una operazione magica; vuole che gli antichi avessero la teoria delle comete; vuole che il veleno della tarantola si guarisca col delasolre; e vuole che lo scorpione sia un animale velenoso. Ma ha egli ragione di voler tutto ciò? Ha torto evidente su tutt’i quattro punti, e Zoroastro lo ha fatto toccar con mano. Sapete cosa direbbe la brigata, mio dolce A. F. D.? Direbbe che voi siete un uomo di garbo, che impiegate molto bene il vostro tempo e che avete una sterminata dottrina, una savissima cautela, una nobile moderazione di stile, una logica esattissima ed una bizzarria di pensieri che innamora a leggere. Io devo avvertirvi in questo luogo che quest’ultimo periodo è d’una figura che nell’Eloquentiæ Præludia si chiama ironia, e credo opportuno l’avvertirvene poichè mi sono accorto che questa figura rettorica non la conoscete sempre, come sarebbe appunto dove dissertate sul mio uomo di garbo in qualche pagina del vostro libro, che non ho presente e che per mia comodità non ho voglia di ricercare. Dunque quest’ironia vuol dire che se il vostro tomo fosse possibile che si leggesse realmente, vi farebbe scomparire; onde, figliuol mio, abbiate giudizio, moderazione e cautela di dare al pubblico. State ne’ limiti di quel che sapete ed informatevi sempre dello stato della questione prima di scrivere, il che è una regola assai buona. Quando vedete la Geltrude e i turbanti in un libro, scacciateli come pensieri cattivi, purgatevi, e non gli vedrete più; usate di frasi e maniere degne di voi e dei colti lettori per i quali si deve scrivere; vi raccomando poi sopra tutto la logica. Oh la logica bisognerebbe cercare d’acquistarla, poichè senza di lei non farete mai nulla di buono; stringete un po’ il vostro stile, il quale colla sua prolissità e snervatezza ammazza il prossimo; cercate che il vostro sublime spirito si conosca anche nel libro: questa volta l’avete voluto tener tutto per voi, e non ne avete comunicato nemmeno un soffio ai vostri lettori; in avvenire bisogna non esser tanto avaro. Se con questi documenti che vi ho dati voi prenderete la penna per qualche soggetto che ne sia degno, vedrete che avrete fortuna presso il pubblico e mi benedirete.

Frattanto rasserenatevi. Il vostro libro nessuno lo legge e potete contarlo per cosa non fatta; onde l’opinione del pubblico siete a tempo a formarvela come più vi piace. Io v’ho scritto da buon amico. Se vi piacerà di favorirmi una risposta degna di voi, degna di me, se mi direte delle ragioni in vostra discolpa o difesa, io le leggerò con piacere e ve ne dirò sempre il mio sentimento con placidezza. Quando poi in vece di scrivere delle ragioni trovaste più comodo lo stampare ch’io non ho onoratezza, che ho un cuore malvaggio, che scrivo solenni ribalderie, che calpesto le regole della morale pagana non che della Cristiana (vezzosissimi fiori poetici), vi faccio padrone. Secondate pure cordialmente, liberamente il vostro nobile e dilicato talento, ed assicuratevi sulla mia parola che io non scriverò mai nessuna frase villana contro di voi. Addio, dolcissimo A. F. D., conservatevi in buona salute, scacciate il vostro umor melanconico; godete della vittoria vostra sul Mal di Milza e sul Gran Zoroastro: vi è costata, è vero, la fatica di due anni, ma consolatevi che gli avete bene spesi. Evviva! Evviva! Ricevete gli omaggi del vostro adoratore e servo fedele.

ZOROASTRO