Osservazioni sulla tortura

Pietro Verri
OSSERVAZIONI SULLA TORTURA E SINGOLARMENTE SUGLI EFFETTI CHE PRODUSSE ALL’OCCASIONE DELLE UNZIONI MALEFICHE ALLE QUALI SI ATTRIBUÌ LA PESTILENZA CHE DEVASTÒ MILANO L’ANNO 1630 [1776-1777]

Testo critico stabilito da Gennaro Barbarisi (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, VI, 2010, pp. 37-139)

§ 1. Introduzione

Fra i molti uomini d’ingegno e di cuore, i quali hanno scritto contro la pratica criminale della tortura e contro l’insidioso raggiro de’ processi che secretamente si fanno nel carcere, non ve n’è alcuno il quale abbia fatto colpo sull’animo dei giudici, e quindi oserei dire che poco o nessuno effetto abbian essi prodotto. Partono essi per lo più da sublimi principj di legislazione riserbati alla cognizione di alcuni pochi pensatori profondi e ragionando sorpassano la comune capacità; quindi le menti degli uomini altro non ne concepiscono se non se un mormorio confuso e se ne sdegnano e rimproverano il genio di novità, la ignoranza della pratica, la vanità di voler fare il bello spirito, onde, rifugiandosi alla sempre venerata tradizione de’ secoli, anche più for­temente si attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci dai maggiori. La verità s’insinua più facilmente quando lo scrittore, postosi del pari col suo lettore, parte dalle idee comuni, e gradatamente e senza scossa lo fa camminare e innalzarsi a lei, anzi che dall’alto annunziandola con tuoni e lampi, i quali sbigottiscono per un momento, indi lasciano gli uomini perfettamente nello stato di prima.

Sono già più anni dacchè il ribrezzo medesimo che ho per le procedure criminali mi portò a volere esaminare la materia ne’ suoi autori, la crudeltà e assurdità de’ quali sempre più mi confermò nella opinione di risguardare come una tirannia superflua i tormenti che si danno nel carcere. Allora feci molte annotazioni sul proposito, le quali rimasero oziose. Parimenti già da più anni, riflettendo io al fatto che fece diroccare la casa d’un cittadino e piantarvi per pub­blico decreto la Colonna infame, dubitai dapprincipio se fosse possibile il delitto per cui vennero condannati molti infelici, indi deci­samente fui persuaso essere impossibile e in fisica e in morale che si diano unzioni artefatte maneggievoli impunemente dall’autore, le quali al solo tatto esterno, dopo essere state all’aria aperta sulle pareti delle strade, cagionino la pestilenza, e che possano più uomini colle­garsi affine di dare la morte indistintamente a tutta la loro città. Mi venne a caso fralle mani il voluminoso processo manoscritto che risguardava quel fatto e dalla attenta lettura mi trovo convinto sem­pre più nella mia opinione. Questo libro è nato dalle osservazioni fatte e sugli autori criminalisti e sul fatto delle unzioni venefiche.

Cerco che il lettore imparziale giudichi se le mie opinioni sieno vere o no. Io mi asterrò dal declamare, almeno me lo propongo, e se la natura mi farà sentir la sua voce talvolta e la riflessione mia non accorrerà sempre a soffocarla ne spero perdono, proccurerò di reprimerla il più che potrò, giacchè non cerco di sedurre nè me stesso nè il lettore, cerco di camminare placidamente alla verità. Non aspetto gloria alcuna da quest’opera: ella verte sopra di un fatto ignoto al resto dell’Italia, vi dovrò riferire de’ pezzi di processo, e saranno le parole di poveri sgraziati e incolti che non sapevano parlare che il lombardo plebeo, non vi sarà eloquenza o studio di scrivere, cerco unicamente di schiarire un argomento che è importante; se la ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima, e crudele l’ado­perar le torture, il premio che otterrò mi sarà ben più caro che la glo­ria d’aver fatto un libro, avrò difesa la parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli; se non mostrerò chiaramente la barbarie della tortura quale la sento io, il mio libro sarà da collocarsi fra i moltissimi superflui. In ogni evento, sebbene anche ottenga il mio fine, e che illuminatasi la opinione pubblica venga stabilito un metodo più ragionevole e meno feroce per rintracciare i delitti, allora accaderà del mio libro come dei punti di legno che si atterrano innalzata che sia la fabbrica, e come avenne al Sig.r March. Maffei che, distruggen­do la scienza cavalleresca e annientandone gli scrittori, annientò pure il suo libro, che ora nessuno più legge, perchè non esiste l’oggetto per cui era scritto.

La maggior parte de’ giudici gradatamente si è incallita agli spa­simi delle torture per un principio rispettabile, cioè sacrificando l’or­rore dei mali di un uomo solo sospetto reo in vista del ben generale della intera società. Coloro che difendono la pratica criminale lo fan­no credendola necessaria alla sicurezza pubblica e persuasi che, qua­lora si abolisse la severità della tortura, sarebbero impuniti i delitti e tolta la strada al giudice di rintracciarli. Io non condanno di vizio chi ragiona così, ma credo che sieno in un errore evidente, e in un errore di cui le conseguenze sono crudeli. Anche i giudici che condannavano ai roghi le streghe e i maghi nel secolo passato credevano di purgare la terra da più fieri nemici, eppure immolavano delle vit­time al fanatismo e alla pazzia. Furono alcuni benemeriti uomini i quali illuminarono i loro simili, e, scoperta la fallacia che era invalsa ne’ secoli precedenti, si astennero da quelle atrocità e un più umano e ragionevole sistema vi fu sostituito. Bramo che con tal esempio nasca almeno la pazienza di esaminar meco se la tortura sia utile e giusta; forse potrò dimostrare che è questa una opinione non più fondata di quello lo fosse la stregheria, sebbene al par di quella abbia per sè la pratica de’ tribunali e la veneranda tradizione dell’antichità.

Comincierò dal fatto della Colonna infame, poscia passerò a trattare in massima la materia; ma prima convien dare una idea della pestilenza che rovinò Milano nel 1630.

§ 2. Idea della pestilenza che devastò Milano nel 1630

Il Ripamonti cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore delle cose de’ suoi tempi, ha scritta la storia della pestilenza accaduta al tempo appunto in cui viveva, e fa una vivissima compassione la sola idea dell’esterminio a cui sogiacque la nostra Patria in quel tempo. Si tratta niente meno che della distru­zione di due terze parti de’ cittadini. La crudelissima pestilenza fu delle più spietate che rammemori la storia. Alla distruzione fisica si accoppiarono tutti i più terribili disastri morali. Ogni legame sociale si stracciò, niente era più in salvo, nè le sostanze, nè la vita, nè l’one­stà delle mogli, tutto era esposto alla inumanità e alla rapina di alcuni pessimi uomini, i quali tanto ferocemente operavano nel seno della misera lor patria spirante come appena un popolo selvaggio farebbe nel paese nemico. I monati, classe di uomini trascelta per assistere gli ammalati, invadevano le case, trasportavano le robe che vi trova­vano, violavano le figlie e le consorti impunemente sotto gli occhi dell’agonizante padre o marito, obbligavano a redimersi colla somma di denaro che lor piaceva i parenti colla minaccia di trasportare i figli o le spose, benché sani, al Lazareto. I giudici tremanti per la propria vita ricusavano ogni ufficio. Varj ladroni fingendosi monati invadevano e saccheggiavano ogni casa: tale è lo spettacolo che ci viene descritto dal Ripamonti, che pianse siccome egli attesta più e più volte in vista di sì orrende calamità. Tali erano i costumi, tale era lo spirito che agitò i nostri antenati in quel tempo, che forse troppo incautamente taluni vorrebbero far ritornare co’ loro voti.

La storia di questa sciagura conviene cominciarla da un dispaccio che dalla Corte di Madrid venne al marchese Spinola allora Gover­natore. Il dispaccio era firmato dal Re Filippo Quarto. Rara cosa assai era in que’ tempi la venuta di un dispaccio, ed era questo un avenimento che occupava tutta la Città, poichè non si partiva dalla Corte un Reale rescritto se non per gravissime cagioni. Il dispaccio avvisava il Governatore essere stati osservati in Madrid quattro uomini che avevan portati degli unguenti per recare la pestilenza in quella Reale Città, essere costoro fuggiti, non sapersi in qual parte si fossero essi rivolti per recarvi le malefiche unzioni; quindi se ne avvi­sava il Governatore acciocchè attentamente vegliasse in difesa anche del Milanese. Hae litterae, dice il Ripamonti pag. 112, quia Majestatis ipsius chirographo subsignatae fuerunt, grande sane momentum inclinandis ad pessima quoque credenda animis facere potuerunt. In que’ tempi l’ignoranza delle cose fisiche era assai grande. Taluno avrà pen­sato allora: è egli possibile il formare una materia che toccandosi dia la pestilenza? Se anche sia possibile, potrà un uomo portarla seco senza caderne vittima? Quattro uomini collegansi per un tale viaggio e girano il mondo colla pestilenza nelle ampolle per divulgarla! A qual fine? Per quale utilità? Ma i pochi che avranno così pensato non avranno avuto ardire di palesarlo: l’autorità di un dispaccio, la opi­nione popolare erano terribili contrasti che esponevano a troppo grave pericolo l’uomo che avesse annunziata questa verità. Si sparse adunque l’opinione e il sospetto generalmente di queste malefiche unzioni.

Sappiamo dalla storia come fossero allora governati i popoli sotto Filippo IV. La pestilenza dalla Germania per la Valtellina liberamente entrò nel Milanese poco dopo la vociferazione del dispaccio. Ma la opinione comune del popolo volle ostinatamente piuttosto credere essere la vociferata pestilenza un’artificiosa invenzione de’ medici per acquistar lucro, anzi che esaminare e chiarire il fatto. Era forse una tal diffidenza l’effetto della lunga serie d’inganni sofferti dalla classe superiore. Inutilmente i medici più istrutti divolgavano le prove degli ammalati che avevano veduti morire di pestilenza, chè la plebe sempre li risguardava come autori d’una malignamente immaginata dice­ria. Celebre è il fatto accaduto al venerabile nostro Lodovico Settala, uomo sommo per que’ tempi non tanto per l’erudizione, la coltura, la scienza medica e le cognizioni di storia naturale di cui il museo ebbe fra i contemporanei d’Europa il primato, quanto per la nobiltà e virtù del suo animo che disinteressatamente e instancabilmente usò de’ talenti a beneficio del popolo. Questi, mentre cavalcava siccome allora era costume de’ medici, venne attorniato tumultuosamente da una folla di uomini, donniciuole, fanciulli ed ogni classe di plebaglia, indi villanissimamente insultato qual principale autore della opinione che nella città vi fosse la pestilenza, che le turbe esclamavano essere unicamente ne’ peli della di lui barba: Ita gravissimus optimusque senex et antistes sapientiae Septalius, qui innumeris pene mortalibus vitam excellentia artis, quique multis etiam liberalitate sua subsidia vitae dederat ob petulantiam stoliditatemque multitudinis periculum adiit; così il Ripamonti pag. 56.

Convenne finalmente, col crescere della pestilenza e moltiplicarsi giornalmente il numero de’ morti, disingannare il popolo e persuadergli che il malore pur troppo era nella città, e, laddove i discorsi nessun effetto producevano, si dovettero far manifesti sopra gran carri gli ammassi de’ cadaveri nudi aventi i buboni venefici e così, per le strade della affollata città girando, questo spettacolo portò infine la convinzione negli animi e forse lo propagò più estesamente.

Allora fu che il popolo furiosamente si rivolse ad ogni eccesso di demenza. Ne’ disastri pubblici la umana debolezza inclina sempre a sospettarne cagioni stravaganti anzi che crederle effetti del corso naturale delle leggi fisiche. Veggiamo i contadini attribuir la gragnuola non già alle leggi delle meteori ma piuttosto alle streghe.

Veggiamo i saggi Romani istessi al tempo in cui erano rozzi, cioè l’anno di Roma 423, sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio, attribuire la pestilenza che gli afflisse a veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di matrone romane come Livio Lib. viii, cap. xii, Dec. i: Proditum falso esse venenis absumptos quorum mors infamem annum pestilentia fecerit. Non è dunque da maravigliarsi se anco in Milano, in mezzo a tanta e sì crudele sciagura, sotto un così maligno flagello, se ne sospettasse volgarmente la cagione nella malignità degli uomini e si credesse verificato il danno predetto del Reale dispaccio e prodotto lo sterminio dalle malefiche unzioni. Simili opinioni quanto sono più stravaganti tanto più trovano credenza, perchè appunto d’uno stravagante effetto se ne crede stravagante la cagione, e più si gode nel trovarne l’origine nella malizia dell’uomo, che si può contenere, anzi che nella implacabile fisica, che si sottrae alle umane istituzioni. In quel secolo poi sappiamo quale fosse la coltura degli studj unicamente rivolti alle parole ed ai delirj della immaginazione. La opinione quindi delle unzioni malefiche divenne generalmente la trionfante, ogni macchia che apparisse sulle pareti era un corpo di delitto, ogni uomo che inavedutamente stendesse la mano a toccarle era a furore di popolo strascinato alle carceri, quando non fosse massacrato dalla stessa ferocia volgare. Il Ripamonti riferisce alle pag. 92 e 93 due fatti dei quali è stato testimonio occulare. Uno, di tre fran­cesi viaggiatori i quali, esaminando la facciata del Duomo, toccarono il marmo e furono percossi malamente e strascinati in carcere assai mal conci; l’altro, d’un povero vecchio ottuagenario di civile condi­zione, il quale prima di appoggiarsi alla panca nella chiesa di Sant’An­tonio levò col passarvi il mantello la polve: quell’atto, credutosi una unzione, inferocì il popolo nella casa stessa del Dio di mansuetudine, e presolo pe’ pochi capelli e per la barba a pugni, calci ed ogni genere di percosse non l’abbandonò se non poiché lo rese cadavero. Tale era lo spirito de’ tempi.

La pestilenza andava sempre più mietendo vittime umane, e si andava disputando sulla origine di quella anzi che accorrervi al riparo. Gli uni la facevano discendere da una cometa che fu in quel­l’anno osservata nel mese di Giugno truci ultra solitum etiam facie, come scrive il Ripamonti pag. 110, altri ne davano l’origine agli spi­riti infernali, e v’era chi attestava d’avere distintamente veduto giugnere sulla piazza del Duomo un signore strascinato da sei cavalli bianchi in un superbo cocchio e attorniato da numeroso corteggio.

Si osservò che il signore aveva una fisonomia fosca ed infuocata, occhi fiammeggianti, irsute chiome e il labbro superiore minaccioso. Entrato questi nella casa, ivi furono osservati tesori, larve, demonj e seduzioni d’ogni sorta per addescare gli uomini a prendere il partito diabolico: di tali opinioni se ne può vedere più a lungo la storia nel citato Ripamonti a pag. 77. Fra tai delirj si perdevano i cittadini anche più distinti e gli stessi magistrati, e in vece di tenere con esatti ordini segregati i cittadini gli uni dagli altri, in vece di intimare a ciascuno di restarsene in casa destinando uomini probi ai quartieri diversi per somministrare quanto occorreva a ciascuna famiglia, rimedio il solo che possa impedire la comunicazione del malore, e rimedio che adoperato dapprincipio avrebbe forse con meno di cento uomini placata la pestilenza, in vece, dico, di tutto ciò si comandò con una assai mal intesa pietà una processione solenne, nella quale si radunarono tutt’i ceti de’ cittadini, e trasportando il corpo di San Carlo per tutte le strade frequentate della città, ed esponendolo sull’altar maggiore del Duomo per più giorni alle preghiere dell’affollato popolo, prodigio­samente si comunicò la pestilenza alla città tutta, ove da quel mo­mento si cominciarono a contare sino novecento morti ogni giorno.

In una parola, tutta la città immersa nella più luttuosa ignoranza si abbandonò ai più assurdi e atroci delirj, malissimo pensati furono i regolamenti, stranissime le opinioni regnanti, ogni legame sociale venne miseramente disciolto dal furore della superstiziosa credulità, una distruggitrice anarchia desolò ogni cosa, per modo che le opinioni flagellarono assai più i miseri nostri maggiori di quello che lo facesse la fisica in quella luttuosissima epoca. Si ricorse agli astrologi, agli esorcisti, alla Inquisizione, alle torture, tutto diventò preda della pestilenza, della superstizione, del fanatismo e della rapina, cosicché la proscritta verità in nessun luogo potè palesarsi. Cento cinquanta mila cittadini milanesi perirono scannati dalla ignoranza.

§ 3. Come sia nato il Processo contro Guglielmo Piazza, Commissario della Sanità

Mentre la pestilenza infieriva più che mai dopo la processione già detta, la mattina del giorno 21 giugno 1630 una vedova per nome Catterina Troccazzani Rosa, che alloggiava nel corritore che attraversa la Vedra de’ Cittadini, vide dalla finestra Guglielmo Piazza che dal Carrobbio entrò nella contrada e, accostato al muro dalla parte drit­ta, entrando passò sotto il corritore,[1] indi giunto alla Casa di San Simone, ossia al termine della Casa Crivelli che allora aveva una pianta grande di lauro,[2] ritornò indietro. Lo stesso fu osservato da altra donna per nome Ottavia Persici Boni. La prima di queste donne disse nel­l’esame che il Piazza a luogo a luogo tirava con le mani dietro al muro, l’altra dice che alla muraglia del giardino Crivelli haveva una carta in mano sopra la quale mise la mano dritta che mi pareva che volesse scri­vere e poi vidi che levata la mano dalla carta la fregò sopra la muraglia.

Attestano che ciò accadde alle ore otto, che era di giorno fatto, e che pioveva. Le due donne sparsero nel vicinato immediatamente il sussurro d’aver veduto chi faceva le unzioni malefiche, le quali in processo poi la Troccazani Rosa disse aveva veduto colui a fare certi atti attorno alle muraglie che non mi piacciono niente. La vociferazione immediatamente si divulgò da una bocca all’altra come risulta dal processo, si ricercò se le muraglie fossero sporche e si osservò che all’altezza d’un braccio e mezzo da terra v’era del grasso giallo e ciò singolarmente sotto la porta del Tradati,[3] e vicino all’uscio del bar­biere Mora. Si abrucciò paglia al luogo delle unzioni, si scrostò la muraglia, fu tutto il quartiere in iscompiglio.

Prescindasi dalla impossibilità del delitto. Niente è più naturale che il passeggiare vicino al muro allorché piove in una città come la nostra, dove si resta al coperto dalla pioggia. Un delitto così atroce non si commette di chiaro giorno nel mentre che i vicini dalle fine­stre possono osservare; niente è più facile che lo sporcare quante muraglie piace col favore della notte. Su di questa vociferazione il giorno seguente si portò il Capitano di Giustizia sul luogo, esaminò le due nominate donne, e quantunque nè esse dicessero di aver osser­vato che il muro sia rimaso sporco dove il Piazza pose le mani, nè i siti ne’ quali s’era osservato l’unto giallo corrispondessero ai luoghi toccati, nondimeno si decretò la prigionia del Commissario della Sanità Guglielmo Piazza.

Se lo sgraziato Guglielmo Piazza avesse commesso un delitto di tanta atrocità, era ben naturale che, attento all’effetto che ne poteva nascere e istrutto del rumore di tutto il vicinato del giorno prece­dente non meno che della solenne visita che il giorno 22 vi fece ai luoghi pubblici sulla strada il Capitano di Giustizia, si sarebbe dato a una immediata fuga. Gli sgherri lo trovarono alla porta del Presidente della Sanità da cui dipendeva e lo fecero prigione. Visitossi immediatamente la casa del Commissario Piazza e dal processo risulta che non vi si trovarono nè ampolle nè vasi, nè unti, nè denaro, nè cosa alcuna che desse sospetto contro di lui.

Appena condotto in carcere, Guglielmo Piazza fu immediatamente interrogato dal giudice, e dopo le prime interrogazioni venne a chiedergli se conosceva i Deputati della Parrocchia, al che rispose che non li conosceva. Interrogato se sapesse che sieno state unte le muraglie, disse che non lo sapeva. Queste due risposte si giudica­rono bugie e inverosimiglianze. Su queste bugie e inverosimiglianze fu posto ai tormenti. L’infelice protestava d’aver detta la verità, invocava Dio, invocava San Carlo; esclamava, urlava dallo spasimo, chiedeva un sorso d’acqua per ristoro, finalmente per far cessare lo strazio disse: Mi facci lasciar giù che dirò quello che so. Fu posto a terra e allora nuovamente interrogato rispose: Io non so niente V. S. mi facci dare un poco d’acqua; su di che nuovamente fu alzato e tor­mentato e dopo una lunghissima tortura nella quale si voleva che nominasse i Deputati, egli esclamando sempre: Ah Signore ah San Carlo se lo sapessi lo direi; poi disperato dal martirio gridava: Ammazzatemi, amazzatemi, e insistendo il giudice a chiedergli che si risolva ormai di dire la verità: per qual causa neghi di conoscere i Deputati della Parrocchia e di sapere che siano state unte le muraglie, rispose quell’infelice: La verità l’ho detta, io non so niente, se l’avessi saputo l’avria detto, se mi vogliono ammazzare che mi ammazzino, e gemendo e urlando da uomo posto all’agonia, persistè sempre nello stesso detto sin che submissa voce ripeteva di aver detta la verità, e perdute le forze cessò di esclamare, onde fu calato e riposto in carcere.

Qual inverosimiglianza vi era mai nelle risposte del disgraziato Guglielmo Piazza? Egli abitava nella contrada di S. Bernardino e non alla Vedra, poteva benissimo ignorare un fatto notorio a quel vicinato. Che obbligo aveva quel povero uomo da saper chi fossero i Deputati della Parrocchia? Che pericolo correva mai egli, se gli avesse conosciuti, nel dirlo? Che pericolo correva mai, se diceva pure di aver saputo che fossero state unte le muraglie alla Vedra?

Venne riferito al Senato l’esame fatto e il risultato dei tormenti dati a quell’infelice; decretò il Senato che il Presidente della Sanità e il Capitano di Giustizia, assistendovi anche il fiscale Tornielli, dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura cum ligatura canubis et interpollatis vicibus arbitrio ec. ed è da notarsi che vi si aggiugne: abraso prius dicto Gulielmo, et vestibus curiae induto, pro­pinata etiam si ita videbitur praefatis Praesidi et Capitaneo potione epurgante, e ciò perchè in que’ tempi credevasi che o ne’ capelli e peli ovvero nel vestito o persino negl’intestini trangugiandolo potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo, ne venisse disarmato. Nel 1630 quasi tutta l’Europa era involta in queste tenebre superstiziose.

Fa commovere tutta l’umanità la scena della seconda tortura col canape, che dislocando le mani le faceva ripiegare sul braccio, men­tre l’osso dell’omero si dislocava dalla sua cavità. Guglielmo Piazza esclamava, mentre s’apparecchiava il nuovo supplizio: Mi ammazzino che l’avrò a caro perchè la verità l’ho detta; poi, mentre si cominciava il crudelissimo slogamento delle giunture, diceva: che mi ammazzino che son qui. Poi aummentandosi lo strazio gridava: Oh Dio mi sono assassinato, non so niente, e se sapessi qualche cosa non sarei stato sin adesso a dirlo. Continuava e cresceva per gradi il martirio, sempre s’instava e dal Presidente della Sanità e dal Capitano di Giustizia per­chè rispondesse su i deputati della Parrocchia e sulla scienza d’essere state unte le muraglie. Gridava lo sfortunato Guglielmo: Non so niente; fatemi tagliar via la mano, ammazzatemi pure Oh Dio mi, oh Dio mi! Sempre istavano i Giudici, sempre più incrudelivano, ed egli rispondeva esclamando e gridando: Ah Signore sono assassinato! Ah Dio mi son morto! Fa ribrezzo il seguire questa atroce scena! A replicate istanze replicava sempre lo stesso, protestando di aver detta la verità, e i giudici nuovamente volevano che dicesse la verità, egli rispose: che volete che dica? Se gli avessero suggerito una immaginaria accusa, egli si sarebbe accusato; ma non poteva avere nemmeno la risorsa di inventare i nomi di persone che non conosceva. Esclamava: oh che assassinamento! e finalmente dopo una tortura, durante la quale si scrissero sei facciate di processo, persistendo egli anche con voce debole e sommessa a dire: Non so niente, la verità l’ho già detta ah che non so niente!, dopo un lunghissimo e crudelissimo mar­tirio fu ricondotto in carcere.

§ 4. Come il Commissario Piazza si sia accusato reo delle unzioni pestilenziali ed abbia accusato Giangiacomo Mora

Il Ripamonti riferisce una crudelissima circostanza ed è che termi­nata la tortura del Piazza i Giudici ordinassero di ricondurlo in car­cere colle ossa slogate quale era, senza rimetterle a luogo, e che l’or­rore di continuare nello spasimo abbia allora cavato di bocca la accusa a se stesso del Piazza: ma nel processo che ho nelle mani di ciò non vedo alcun vestigio. Appare da questo che fosse promessa al Piazza la impunità qualora palesasse il delitto e i complici. È assai verosimile che nel carcere istesso si sia persuaso a quest’infelice che, persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe ricominciato lo spa­simo, che il delitto si credeva certo, e altro spediente non essere per lui fuori che l’accusarsene e nominare i complici, così avrebbe salva­ta la vita e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni giorno. Il Piazza dunque chiese ed ebbe la impunità, a condizione però che esponesse sinceramente il fatto. Ecco perciò che al terzo esame egli comparve e, accusandosi senza veruna tortura o minaccia d’avere unto le muraglie, pieno di attenzione per compiacere a’ suoi giudici, cominciò a dire che l’unguento gli era stato dato dal barbiere che abitava sull’angolo della Vedra (ove attualmente sta la Colonna infame), che questo unguento era giallo e gliene diede da tre once circa. Interrogato se col barbiere egli avesse amicizia, rispose: È amico, signor sì, buon dì buon anno, è amico, signor sì. Quasi che le con­fidenze di un misfatto così enorme si facessero a persone appena co­noscenti, amico di buon dì buon anno! Come poi seguì così orribile concerto? Eccone le precise parole. Il barbiere di primo slancio disse al Piazza, che passava avanti la bottega: vi ho poi da dare non so che, io gli dissi che cosa era, ed egli disse è un non so che unto, ed io dissi verrò poi a torlo, e così da lì a tre dì me lo diede poi. Questo è il prin­cipio del romanzo. Va avanti. Dice il Piazza che allora che gli fece tal proposizione vi erano tre o quattro persone ma io adesso non ho me­moria chi fossero però m’informerò da uno che era in mia compagnia chiamato Matteo che fa il fruttaruolo e che vende gambari in Carrob­bio quale io manderò a dimandare che lui mi saprà dire chi erano quel­li che erano con detto barbiero. Chi mai crederà che in tal guisa, alla presenza di quattro testimonj, si formino così atroci congiure? Ep­pure allora si credette: primo, che la peste, che si sapeva venuta dalla Valtellina, fosse opera di veleni fabbricati in Milano. Secondo, che si possano fabbricar veleni che, dopo essere stati all’aria aperta, al solo contatto diano la morte. Terzo, che se tai veleni si dessero, possa un uomo impunemente maneggiarli. Quarto, che si possa nel cuore umano formare il desiderio di ucidere gli uomini così a caso. Quin­to, che un uomo, quando fosse colpevole di tal chimera, resterebbe spensierato dopo la vociferazione di due giorni e si lascerebbe far prigione. Sesto, che il compositore di tal supposto veleno, in vece di sporcarne da sè le muraglie, cercasse superfluamente de’ complici. Settimo, che per trascegliere un complice di tale abominazione, gettasse l’occhio sopra un uomo appena conosciuto. Ottavo, questa confidenza si facesse alla presenza di quattro testimonj e il Piazza ne assumesse l’incarico senza conoscerli e colla vaga speranza di ottenere un regalo promessogli da un povero barbiere! Tutte queste otto proposizioni si pongano da una parte della bilancia. Dall’altra parte si ponga un timore vivissimo dello strazio e de’ spasimi sofferti, che costringe un innocente a mentire, indi la ragione pesi e decida qual delle due parti contiene più inverosimiglianza. Anche nella Francia in que’ tempi fu brugiata la Marescialla d’Ancre come strega per sen­tenza del parlamento di Parigi: tutta l’Europa era assai più nelle te­nebre di quello che ora vi sia. È da osservare che anche in questo or­ribile disordine vi si immischiò lo sortilegio, la fatucchieria, e l’infelice Piazza, per trovare la scusa perchè non avesse fatto questo racconto, o come diceva allora il giudice, detta la verità, in prima rispose di at­tribuirlo a un’acqua che gli diede da bere il barbiere, la qual acqua perchè poi non operasse nel terzo esame siccome aveva fatto ne’ due primi nessuno lo ricercò.

Su questi fondamenti si passò a far prigione il barbiere Gian Gia­como Mora, e quello che pure meritava osservazione fu che lo col­sero in sua casa fra la moglie e i figli (in quella casa poi che venne distrutta per piantarvi la Colonna infame). Dal primo esame del Mora risulta che eragli stata nota la vociferazione dell’unto fatto nel quartiere il giorno di venerdì 21 Giugno, che parimenti eragli nota la pri­gionia del Commissario Piazza seguita il giorno 22 che fu sabbato: e al mercoledì giorno 26 si sarebb’egli lasciato cogliere in sua casa, se fosse stato reo? Tutto ciò che avenne all’atto dell’arresto conferma la innocenza non meno che la sorpresa di quest’infelice. Egli aveva preparato pel Commissario un unguento che fabbricava per preservarsi dal mal contagioso ugnendosi le tempia e le ascelle; unguento di cui descrisse poi la ricetta e che in que’ tempi si conosceva sotto il nome d’unguento dell’impiccato. Il Commissario diede ordine al barbiere di prepararglielo e fu fatto prigione prima che glielo conse­gnasse. Credette il Mora che la cattura fosse per aver egli fabbricato l’unguento, che era di pertinenza degli speziali. Si lagnava di essere legato per un simile motivo: Se per sorte (dice egli mentre è arrestato in casa prima di condurlo prigione) sono venuti in casa perchè io abbia fatto quell’elettuario e che non l’abbia potuto fare non so che farci, l’ho fatto a fine di bene e per salute de’ poveri; poi allo sbirro diceva: non stringete la legatura alla mano perchè non ho fallato, indi sospi­rando e battendo un piede esclamò: sia lodato Iddio!

Nella minutissima visita fatta alla casa in presenza del Mora egli rese conto de’ barattoli di unguenti ed elettuarj e d’altre polveri e pil­lole che gli si ritrovarono in bottega. Poi nel cortile della sua piccola casetta si osservò un fornello con dentro murata una caldaja di rame nella quale si è trovato dentro dell’acqua torbida in fondo della quale si è trovato una materia viscosa gialla e bianca la quale gettata al muro fattane la prova si attaccava. Chi mai crederebbe che un potentissimo veleno che al toccarlo conduce alla morte si tenesse in un aperto cor­tile in una caldaja visibile a tutti, in una casa dove v’erano più donne e più uomini, perchè il Mora aveva figli e moglie, come consta anche dal processo? Le tenere fanciulle e la figlia, per la quale risulta che aveva fatto un unguento per i vermi, potevano elleno essere partecipi del secreto? Potevasi lasciare in libertà di ragazzi un veleno che uc­cide col tatto riponendolo in una caldaja fissata nel muro del cortile?

Dopo che era tanto solenne il processo da sei giorni, era poi egli possibile che il fabbricatore e distributore dell’unto conservasse placidamente quel corpo di delitto alla vista, riposto nel cortile? Nessuno di tai pensieri venne in capo al Giudice. Interrogato il Mora cosa con­tenesse quella caldaja, rispose nell’atto della visita: l’è smoglio, cioè ranno. Nuovamente poi interrogato nel primo esame, rispose: Sig.e non so niente l’hanno fatto far le donne che ne dimandino conto da loro che lo diranno e sapeva tanto io che quel smoglio vi fosse quanto che mi credessi d’esser oggi condotto prigione, e quello è mestiero che fanno le donne del quale io non m’impedisco. Su di questo proposito interrogata, la moglie dello sventurato Mora per nome Chiara Brivia risponde d’aver fatto il bucato quindici giorni prima e d’aver lasciato del ranno nella caldara quale è là nel cortino.

Questo ranno doveva essere il corpo del delitto. Si esaminarono alcune lavandaje. Margherita Arpizanelli prima di visitare il ranno propala la sua teoria dicendo al Giudice: Sa V. S. che con il smoglio guasto si fanno degli eccellenti veleni che si posson fare? Si vede che il fanatismo era al colmo, e che le persone che si esaminavano, a costo di inventare nuove e sconosciute proprietà, volevano sacrificare una vittima e credevano di servir Dio e la Patria inventando un delitto. Si visita il ranno da questa Arpizanelli lavandaja, e questa giudica que­sto smoglio non è puro ma vi è dentro delle forfanterie perchè il smoglio puro non ha tanto fondo nè di questo colore, perchè lo fa bianco bianco e non è tacchente come questo il quale ha brutto colore ed è tacchente e sta a fondo e pare cosa grassa, ma quello del vero smoglio in movendosi il vaso in che si trova si move tutto il detto fondo. Presso poco die’ lo stesso giudizio l’altra lavandaja Giacomina Andrioni che disse: mi pare che vi sia qualche alterazione ed il smoglio si vede che quanto più se gli ruga dentro diventa più negro e più infame. Con lo smoglio marzo cativo si fanno di gran porcherie e tossichi. Non credo che verun chimico saprebbe fare un veleno coll’acqua del bucato. In una bottega poi di un barbiere, dove si saranno lavati de’ lini spor­chi e dalle piaghe e da’ ceroti, qual cosa più naturale che il trovarvi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo vari giorni d’estate?

Nè fu meno funesto il giudizio de’ fisici. Il fisico collegiato Achille Carcano concluse con questa opinione: Io non ho osservato troppo bene che cosa facci il smoglio, ma dico bene che per rispetto alla ontuosità che si vede in quest’acqua può essere causato da qualche panno untuoso lavato in essa come sarebbe mantili tovaglie e cose simili, ma perchè in fondo di quell’acqua vi ho vista ed osservata la qualità della residenza che vi è e la quantità in rispetto alla poca acqua, dico e con­cludo non poter in alcun modo a mio giudizio essere smoglio. Le due lavandaje lo giudicano smoglio con delle furfanterie e con qualche alterazione, il medico dice che in alcun modo non è smoglio, e lo asse­risce perchè a proporzione del sedimento vi è poca acqua, quasi che dopo quindici giorni che stava a cielo scoperto nel mese di giugno non potesse l’acqua essere svaporata per la maggior parte! Fa ri­brezzo il vedere con quanta ignoranza e furore si procedesse e dagli esaminatori e dagli esaminati e quanto offuscato fosse ogni barlume di umanità e di ragione in quelle feroci circostanze! Due altri, cioè il fisico Giambattista Vertua e Vittore Bescapè, decisero presso poco come il fisico Carcano; e conclusero di non saper conoscere che com­posto fosse quello della caldaja.

Su questo giudizio e sulla deposizione del Commissario Piazza, che anche al confronto col barbiero Mora sostenne l’accusa datagli, esclamando sempre il Mora e dicendo: Ah Dio misericordia! non si troverà mai questo, andò progredendo il processo.

Terminato il confronto, si pose al secondo esame il Mora. Il Piazza aveva detto d’essere stato a Casa del Mora, aveva citati Baldassarre Litta e Stefano Buzzi come testimonj del fatto. Esaminato il Litta il giorno 29 Giugno se mai ha visto il Piazza in casa o bottega del Mora, rispose: Signor no. Esaminato il Buzzi nel giorno istesso Se sa che tra il Piazza e il barbiero passi alcuna amicizia, rispose: Può essere che siano amici e che si salutassero, ma questo non lo saprei mai dire a V. S. Interrogato Se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bot­tega del detto barbiero, rispose: Non lo saprei mai dire a V. S. Tali furono le deposizioni de’ due testimonj, che il Piazza citò per provare d’essere stato a casa del barbiere. Il barbiere negava che fosse mai stato il Piazza a casa di lui. Su questa negativa del barbiere fu posto a crudelissima tortura col canape. Ciò si eseguì il giorno 30 di Giugno. Il povero padre di famiglia Gian Giacomo Mora, uomo cor­pulento e pingue a quanto viene descritto nel processo, prima di prestare il giuramento si pose ginocchioni avanti il Crocifisso ed orò, indi baciata la terra si alzò e giurò. Quando cominciarono i tormenti esclamò: Gesù Maria sia sempre in mia compagnia. Ah Gesù Cristo, Gesù Cristo sia in mia compagnia, son morto. Il tormento cresceva ed egli esclamava, protestava la sua innocenza, e diceva: vedete quello che volete che dica che lo dirò. Fa troppo senso alla umanità il segui­tare questa scena che non pare rappresentata da uomini ma da que’ spiriti malefici che c’insegnano essere occupati nel tormentare gli uomini. Per sottrarsi, l’infelice Mora promise che avrebbe detta la verità se cessavano i tormenti; si sospesero. Calato al suolo, disse: la verità è che il Commissario non ha pratica alcuna meco. Il giudice gli rispose che questa non è la verità che ha promesso di dire perciò si risolva a dirla altrimenti si tornerà a far levare e stringere. Replicò lo sgraziato Mora: Faccia V. S. quello che vuole. Si rinnovarono gli strazi e il Mora urlava: Vergine Santissima sia quella che m’ajuta. Sempre se gli cercava la verità dal giudice, egli ripeteva: Veda quello che vuole che dica lo dirò. L’eccesso dello spasimo attuale era quello che l’oc­cupava e finalmente disse il Mora: Gli ho dato un vasetto pieno di brutto cioè di sterco acciò imbrattasse le muraglie al Commissario. Con tal espediente fu cessato il tormento; quindi per non essere nuo­vamente ridotto alle angoscie, viene a dire: Era sterco umano, smojazzo perchè me lo dimandò lui cioè il Commissario per imbrattare le case e di quella materia che esce dalla bocca de’ morti. Vedesi la produzione forzata dalla mente d’un miserabile oppresso dallo spa­simo. Lo sterco e il ranno non bastavano a dar la morte, egli inventa la saliva degli appestati; poi proseguendo le interrogazioni e le rispo­ste, dice il Mora che ebbe dal Commissario Piazza per il peso d’una libbra di quella materia della bocca degli appestati e la versò nella caldaja e che gliela diede per fare quella composizione onde si ammalassero molte persone e avrebbe lavorato il Commissario e col suo elettuario avrebbe guadagnato molto il barbiere. Conclude col dire che questo concerto fu fatto trattandosi così tra noi ne discor­ressimo.

Il Piazza che aveva levata l’impunità non diceva niente di tutto ciò. Anzi diceva di essere stato invitato dal Mora. Come mai racco­gliere clandestinamente tanta bava per una libbra? Come racco­glierla senza contrarre la peste? Come riporla nella caldaja, onde la moglie i teneri e incauti figli si appestassero? Come conservarla dopo le solenni procedure e lasciarsi un simil corpo di delitto? Come spe­rar guadagno vendendo l’elettuario? mancavano forse ammalati in quel tempo? Non si può concepire un romanzo più tristo e più as­surdo. Pure tutto si credeva, purché fosse atroce e conforme alle fu­neste passioni di que’ tempi infelici. Il giorno vegnente cioè il primo di Luglio fu chiamato il Mora all’esame per intendere se ha cosa al­cuna da aggiugnere all’esame e confessione sua che fece jeri dopo che fu omesso da tormentare, ed ei rispose: Signor no che non ho cosa da aggiugnervi ed ho più presto cosa da sminuire. Che cosa poi avesse da sminuire lo rispose all’interrogazione: Quell’unguento che ho detto non ne ho fatto mica, e quello che ho detto l’ho detto per i tormenti.

A tale proposizione fugli minacciato che se si ritrattava della verità già detta il giorno avanti per averla si verrà contro di lui a tormenti. A ciò rispose il Mora: Replico che quello che dissi jeri non è vero nien­te e lo dissi per i tormenti. Postea dixit V. S. mi lasci un poco dire un ave maria e poi farò quello che il Signore m’inspirerà postea genibus flexis se posuit ante imaginem Crucifixi depictam et oravit per spatium unius miserere, deinde surrexit mox rediit ad examen, et iterato juramento, Int.s che si risolva or mai a dire se l’esame che fece jeri e il contenuto di esso è vero Res.t In coscienza mia non è vero niente. Tunc jussum fuit duci ad locum tormentorum con quel che segue, ed ivi poi legato mentre si ricominciava la crudele carnificina esclamò che lo lasciassero, che non gli dessero più tormenti che la verità che ho depo­sto la voglio mantenere. Allora lo slegarono e il ricondussero alla stanza dell’esame dove nuovamente interpellato se è vero come sopra ha detto che l’esame che fece jeri sia la verità nel modo che in essa si contiene, rispose: Non è vero niente. Tunc jussum fuit iterum duci ad locum tormentorum ecc. e così con questa alternativa dovette alfine soccombere e preferire ogni altra cosa alla disperata istanza de’ tor­menti. Ratificò il passato esame e si trovò nel caso nuovamente di proseguire il funesto romanzo. Ecco quanto inverosimile sia il rac­conto. Dice egli adunque che quel Piazza, che appena egli conosce­va di figura e col quale anche da processo risulta ch’egli non aveva familiarità, quel Piazza adunque La prima volta che trattassimo in­sieme mi diede il vaso di quella materia e mi disse così, accomodatemi un vaso con questa materia con la quale ungendo i catenacci e le mu­raglie si ammalerà della gente assai e tutti due guadagneremo. Che verosimiglianza! Se aveva la materia il Piazza in un vaso, perchè consegnarla al barbiere acciocchè gli accomodasse un vaso? Mancavano forse ammalati in quel tempo mentre morivano 800 cittadini al giorno? Che bisogno di far ammalare la gente? Perchè non ugnere im­mediatamente? Non vi è il senso comune. Come poi componeva il barbiere questo mortale unguento, eccolo: Si pigliava, prosegue l’infelice Mora, di tre cose tanto per una, cioè [un terzo] della materia, che mi dava il Commissario, dello sterco umano un altro terzo, e del fondo dello smoglio un altro terzo e mischiava ogni cosa ben bene nè vi entrava altro ingrediente nè bollitura. Lo sterco e l’acqua del bu­cato non potevano che indebolire la attività della bava degli appe­stati.

Tessuto così questo secondo romanzo contradittorio del primo, si richiama all’esame il Piazza che aveva la impunità a condizione che avrebbe detta la verità intiera, e interrogato se sapesse di qual ma­teria fosse composto o in qual modo fabbricato l’unguento datogli dal barbiere, rispose di non saperlo. Replicò il giudice se almeno sa­pesse che alcuno avesse data al barbiere materia per fabbricare quell’unguento, e rispose il Piazza Signor no che non lo so. Se il Piazza avesse data la bava degli appestati, poichè aveva la impunità dicen­do esattamente il tutto e doveva aspettarsi il supplizio non dicendo esattamente, come mai avrebbe mutilata la circostanza principale nel tempo in cui il complice supposto, cioè il barbiere Mora, co’ tor­menti l’avrebbe scoperta? Se dunque non si verifica che il Piazza abbia somministrato la bava, si vede inventata la forzata istoria del Mora. Questo ragionamento poteva pur farlo il giudice; ma sgrazia­tamente la ragione non ebbe veruna parte in tutta quella sciagura. Il giudice allora disse al Piazza che dal processo risultava ch’egli avesse somministrato la bava de’ morti al barbiere e su di ciò nuo­vamente il giudice l’interrogò così: Che dica per qual causa nel suo esame e confessione qual fece per godere l’impunità non depose que­sta particolarità sostanza del delitto siccome era tenuto di fare; e a ciò rispose il Piazza: Della sporchizia cavata dalla bocca dei morti appe­stati io non l’ho avuta nè portata al barbiere e del resto che ho con­fessato adesso che son stato interrogato non me ne sono ricordato e per questo non l’ho detto. Allora gli venne intimato che, per non aver egli mantenuta la fede di palesare la verità e per avere diminuita la sua confessione, non poteva più godere della impunità a norma ancora della protesta fattagliene dapprincipio. A questa minaccia il Piazza si rivolse subito ad accordare di aver somministrato la bava, e di averne data al barbiere non già una libbra come disse il povero Gian Giacomo Mora ma così un piattelino in un piatto di terra. Ob­bligato poi dalla interrogazione a dire come seguisse tutto ciò, ec­cone la risposta, di cui la assurdità abbastanza da sè sola si manifesta. Così dunque rispose lo sgraziato Piazza: Io mi mossi instato e ricercato dal detto barbiere il quale mi ricercò a così fare con pro­messa di darmi una quantità di denari sebbene non la specificò dicen­domi che aveva una persona grande che gli aveva promesso una gran quantità di denaro per far tal cosa, e sebbene fosse ricercato da me a dirmi chi era questa persona grande non me lo volle dire, ma sola­mente mi disse di attendere a lavorare ed untare le muraglie e porte che mi avrebbe dato una quantità di denari. Conviene ricordarsi che il barbiere era un povero uomo, e basta vedere lo spazio che occu­pava la sua povera casetta. Egli poi era un padre di famiglia con mo­glie e figli e non uno ozioso o vagabondo del quale si potesse fare scelta per un simile orrore. Sin qui a forza di tormenti e di minacce s’è trovato modo di far coincidere i due romanzi e costringere il contradicente a confermare la favola di chi aveva parlato prima. Ven­gono ora in campo da questa risposta due cose affatto nuove. Una si è che il barbiere promettesse una quantità di denari; l’altra si è che in questo affare vi entrasse una persona grande. Nè l’una nè l’altra era stata detta dal Mora. Si pose dunque nuovamente all’esame il Mora; interrogato se egli avesse promesso una quantità di denari al Piazza, rispose il Mora nel quinto esame del giorno due di Luglio 1630: Signor no: e dove vuole V. S. che pigli mi questa quantità di denari? Allora gli venne detto dal Giudice quanto risultava in proces­so e su i denari e sulla persona grande e si redarguì perchè dicesse la verità. Rispose il Mora queste parole: V. S. non vuole già se non la verità, e la verità io l’ho detta quando sono stato tormentato e ho detto anche d’avantagio; dal quale fine si vede come l’infelice avrebbe pure ritrattata tutta la funesta favola pronunziata, se non avesse te­muto nuovi tormenti: e ho detto anche d’avantagio! Questo anche più chiaramente lo disse, allorchè al due di Luglio furongli dati i reati e stabilito il breve termine di due soli giorni per fare le sue di­fese; sul qual proposito si legge in processo che il Protettore de’ carcerati disse al Notaro così: Per obbedienza sono stato dal Sig.r Presidente e gli ho parlato, sono anco stato dal Mora il quale mi ha detto liberamente che non ha fallato e che quello l’ha detto per i tor­menti e perchè io gli ho detto liberamente che non voleva nè poteva sostenere questo carico di difenderlo mi ha detto che almeno il Sig.r Presidente sia servito di provederlo di un difensore e che non voglia permettere che abbia da morire indifeso. Da che si vedono più cose: cioè che il Mora teneva per certo di dover morire e tutta la ferocia del fanatismo che lo circondava dovevano averlo bastantemente per­suaso; che, sebbene tenesse per certa la morte, liberamente diceva d’avere mentito per i tormenti; e che finalmente il furore era giunto al segno che si credeva una azione cattiva e disonorante il difendere questa disgraziata vittima, posto che il Protettore diceva di non volere nè potere assumersene il carico. Il termine poi per le difese venne prorogato.

§ 5. Delle opinioni e metodi della procedura criminale in quella occasione

Acciocché poi si possa concepire una idea precisa e originale del modo di pensare in quel tempo, credo opportuno di trascrivere un esame che sta nel corpo di questo orribile processo; veramente serve egli di episodio alla tragedia del Piazza e del Mora; ma siccome originalmente vi si vedono la feroce pazzia, la superstizione, il delirio, io lo riferirò esattamente ponendo in margine distintamente le osser­vazioni che mi si presentano. Ecco l’esame.

Die suprascripto octavo Julii
Vocatus ego Notarius Gallaratus dum discedere vellem a loco supra­scripto apellato la Cassinazza juvenis quidam mihi formalia dixit.
Io voglio che V. S. mi accetti nella sua squadra ed io dirò quello che so.
Tunc ei delato juramento ec.
Int.s de ejus nomine, cognomine, patria et nomine patris.
Resp.:
Io mi chiamo Giacinto Maganza e sono figliuolo d’un Frate che si chiama Frate Rocco che di presente si trova in S. Giovanni la Conca e sono Milanese e molto conosciuto in Porta Ticinese.[4]
Int.s Che cosa è quello che vuol dire, di’ quello che sa.
Resp. titubando. Io dirò la verità è un Cameriere che dà quattro dobble al giorno. Deinde obmutuit stringendo dentes.[5]
Et institus denuo a dir l’animo suo e finire quanto ha cominciato a dire
Resp.
È il Baruello Padrone della Osteria di San Paolo in Com­pito, mox dixit, è anche parente dell’Oste del Gambaro.
Int.s che dica come si chiama detto Baruello.
Resp. Si chiama Gian Stefano.
Int.s Che dica cosa ha fatto detto Baruello.
Resp. Ha confessato già che si è trovato delle biscie e de’ veleni nella sua Canepa.
Int.s Dica come sa lui esaminato queste cose.
Resp. Il suo cognato mi ha cercato a voler andare a cercare delle biscie con lui.
Int.s Che dica precisamente che cosa gli disse detto cognato e dove fu.
Resp. Me lo ha detto con occasione che in Porta Ticinese mi addomandano il Romano così per sopranome e mi disse andiamo fuori da Porta Ticinese lì dietro alla Rosa d’oro ad un giardino che ha fatto fare lui a cercare delle biscie, dei zatti e dei ghezzi ed altri animali quali li fanno poi mangiare una creatura morta e come detti animali hanno mangiato quella creatura hanno le olle sotto terra e fanno gli unguenti e li danno poi a quelli che ungono le porte perché quell’unguento tira più che non fa la calamita.[6]
Int.Dica se lui esaminato ha visto tal unto.
Resp. Signor sì che l’ho visto.
Int.s Dica dove ed a chi ha visto l’unto.
Tunc obmutuit, labia et dentes stringendo[7] et institus a rispondere allegramente alla interrogazione fattagli.
Resp. Io l’ho visto nella osteria della Rosa d’oro.
Int.s Dica chi aveva tal unto e in che vaso era.
Resp. L’aveva il Baruello.
Int.s Dica quando fu che aveva tal unto il Baruello.
Resp. Saranno quindici giorni ed era un mercoledì se non fallo e l’aveva il detto Baruello in un’olla grande e l’aveva sotterrato in mezzo dell’orto nella detta Osteria della Rosa d’oro con sopra del­l’erba.[8]
Int.s Dica se lui esaminato ha mai dispensato di quest’unto.
Resp. Se io ne ho dispensato due scattolini mi possa essere tagliato il collo.[9]
Int.s Dica dove ha dispensato tal unto.
Resp. Io l’ho dispensato sopra il Monzasco.[10]
Int.s Dica in che luogo preciso del Monzasco ha dispensato tal unto.
Resp. Io l’ho dispensato sopra le sbarre delle Chiese perchè que­sti villani subito che hanno sentito messa si buttano giù e si appog­giano alle sbarre e per questo le ungeva.[11]
Int.s Dica precisamente dove sono le sbarre da lui esaminato unte come ha detto.
Resp. Io ho unto in Barlassina a Meda ed a Birago nè mi ricordo esser stato in altro luogo.[12]
Int.s Dica chi ha dato a lui esaminato l’unto.
Resp. Me l’ha dato il detto Baruello e Gerolamo Foresaro in un palpero sopra la ripa del fosso di Porta Ticinese vicino la casa del detto Foresaro qual sta vicino al ponte de’ Fabri.[13]
Int.s Dica che cosa detti Foresè e Baruello dissero a lui esaminato quando gli diedero tal unto.
Resp. Quando mi diedero tal unto fu quando io fui se non venuto dal Piemonte e mi trovarono dietro il fosso di Porta Ticinese, il Baruello mi disse O Romano che fai? Andiamo a bevere il vin bianco mi rallegro che ti vedo con buona ciera e così andai all’osteria, mox dixit all’offelleria delli sei dita in Porta Ticinese e pagò il vin bianco, e un non so che biscottini e poi mi disse vien qua Romano io voglio che facciamo una burla a uno e perciò piglia quest’unto[14] quale mi diede in un palpero e va all’osteria del Gambaro e va là di sopra dove è una camerata di gentiluomini[15] e se dicessero cosa tu vuoi dì niente, ma che sei andato là per servirli e poi che li ungessi con quell’unto[16] e così io andai e gli unsi nella detta osteria del Gambaro quali erano là, io era dissopra della lobbia a mano sinistra e m’introdussi là a dargli da bevere mostrando di frizzare un poco cioè per mangiare qualche boccone e così gli unsi le spalle con quell’unguento e con mettergli il ferraiuolo gli unsi anco il collaro con le mani mie dove credo sono poi morti di tal unto.[17]
Int.s Dica se sa precisamente che alcuno di quelli che furono unti da lui esaminato come sopra siano poi morti o no.
Resp.t Credo che saranno morti senz’altro perchè morono sola­mente a toccargli i panni con detto unto non so poi a toccargli le carni come ho fatto io.
Int.s Dica come ha fatto lui esaminato a non morire toccando questo unto tanto potente come dice.[18]
Resp. El sta alle volte alla buona complessione delle persone.
Quo facto cum hora esset tarda fuit dimissum examen.

Da questo esame solo se ne ricaverà chi legge l’idea precisa della maniera di pensare e procedere in que’ disgraziatissimi tempi. Ho creduto bene di riferire fedelmente un esame acciocché si vedano le cose nella sorgente e non resti dubbio che mai l’amore del paradosso, piacere di spargere nuova dottrina, o la vanità di atterrare una opinione comune mi facciano aggravare le cose oltre l’esatto limite della verità. Il metodo col quale si procedette allora fu questo. Si suppose di certo che l’uomo in carcere fosse reo. Si torturò sin tanto che fu forzato a dire di essere reo. Si forzò a comporre un romanzo e nomi­nare altri rei; questi si catturarono, e sulla deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano la innocenza loro; ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell’accusatore e si persisteva a tormentarli sin che convenissero d’accordo.

Altra prova di pazzia di que’ tempi è l’esame lunghissimo fatto il settembre a Gian Stefano Baruello, il quale ebbe la sentenza di morte dal Senato il giorno 27 agosto (morte che, dopo le tenaglie, il taglio della mano, la rottura delle ossa e l’esposizione vivo sulla ruota per sei ore, terminava coll’essere finalmente scannato) e fu sospesa proponendogli l’impunità se avesse palesato complici e esposto il fatto preciso. Questi dunque tessè una storia lunghissima e sommamente inverosimile, per cui il figlio del Castellano di Milano com­pariva autore di questa atrocità, affine di vendicarsi d’un insulto stato fatto in Porta Ticinese, e si vuoleva che il Sig.r Don Gio. Padilla figlio del Castellano avesse lega col Foresè, Mora, Piazza, Carlo Scrimitore, Michele Tamburrino, Giambattista Bonetti, Trentino, Fontana, ec. E vari simili uomini della feccia del popolo. Redarguito poi come, aven­do egli il mandato per la uccisione di Porta Ticinese, ne facesse spar­gere in altre porte, e convinto d’inverosimiglianza somma nel suo racconto, ecco cosa si vede che rispondesse esso Gian Stefano Baruello nel suo esame 12 settembre 1630.

Et cum haec dixisset et ei replicaretur haec non esse verisimilia et propterea hortaretur ad dicendam veritatem,
Resp. uh! uh uh! Se non lo posso dire extendens collum et toto corpore contremiscens et dicens V. S. m’ajuti V. S. m’ajuti.
Ei dicto che se io sapessi quello vuol dire potrei anco ajutarlo che però accenni che se s’intenderà in che cosa voglia essere ajutato si ajuterà potendo tunc denuo incepit se torquere, labia aperire dentes perstringendo tandem dixit V. S. mi ajuti Signore ah Dio mio! Ah Dio mio!
Tunc ei dicto: avete forse qualche patto col diavolo? non vi dubi­tate e rinunziate ai patti e consegnate l’anima vostra a Dio che vi ajuterà.
Tunc genuflexus dixit: dite come devo dire Signore.
Et ei dicto che debba dire: Io rinunzio ad ogni patto ch’io abbia fatto col diavolo e consegno l’anima mia nelle mani di Dio e della Beata Vergine col pregarlo a volermi liberare dallo stato nel quale mi trovo ed accettarmi per sua creatura.
Qux cum dixisset et devote et satis ex corde ut videri potuit surrexit et cum loqui vellet denuo prorupit in notas confusas porrigendo collum, dentibus stringendo volens loqui nec valens et tandem dixit quel prete Francese.
Et cum haec dixisset statim se projecit in terram et curavit se abscondere in angulo secus bancum dicens Ah Dio mi ah Dio mi ajutatemi non mi abbandonate.
Et ei dicto di che temeva,
Resp.
È là, è là quel prete Francese con la spada in mano che mi minaccia vedetelo là, vedetelo là sopra quella finestra.
Et ei dicto che facesse buon animo che non vi era alcuno e che si segnasse e si raccomandasse a Dio e che di nuovo rinunziasse ai patti che aveva col diavolo e si donasse a Dio e alla Beata Vergine.
Cum haec verba dixisset dixit iterum ah Signore ei viene, ei viene colla spada nuda in mano quae omnia quinquies replicavit et actus fecit quos facere solent obsessi a Demone et spumam ex ore sanguinemque e naribus emittebat semper fremendo et clamando non mi abbando­nate, ajuto, ajuto non mi abbandonate.
Tunc jussum fuit afferri acquam benedictam et vocari aliquem sacerdotem quae cum allata fuisset ea fuit aspersus: cum postea supervenisset Sacerdos eique dicta fuissent omnia suprascripta Sacerdos benedicto loco et in specie dicta fenestra ubi dicebat dictus Baruellus extare illum Presbiterum cum ense nudo prae manibus et minantem variis tamen exorcismis usus fuit et auctoritate sibi uti Sacerdoti a Deo tributa omnia pacta cum demone innita, irrita et nulla declarasset immo ea irritasset et annullasset, interim vero dictus Baruellus stridens dixit scongiurate quello Gola Gibla contorquendo corpus more obsessorum et tandem finitis exorcismis Sacerdos recessit.
Excitatus pluries ad dicendum tamen in haec verba prorupit: Signore quel Prete era un Francese il quale mi prese per una mano e levando una bachettina nera lunga circa un palmo che teneva sotto la veste con essa fece un circolo e poi mise mano a un libro lungo in foglio come di carta piccola da scrivere ma era grosso tre dita e l’aperse ed io vidi sopra i fogli dei circoli e lettere attorno attorno e mi disse che era la Clavicola di Salomone e disse che dovessi dire come disse queste parole Gola Gibla e poi disse altre parole ebraiche aggiugnendo che non dovessi uscir fuori del cerchio perchè mi sarebbe succeduto male, e in quel punto comparve nell’istesso circolo uno vestito da Pantalone all’ora detto prete ecc.

Cade la penna dalle mani e non si può continuare a trascrivere un tessuto simile di pazzie troppo serie e funeste in que’ tempi. Il risultato d’un lunghissimo cicalio di questo disgraziato che sperava la vita e l’impunità con un romanzo di accuse fu di far credere autore il Cav.re D. Giovanni di Padilla che coll’opera di certi Fontana, Mora, Piazza, Vaccaria, Picchiò, Saracco, Fusaro, un barbirolo di Porta Comasina, certo Pedrino daziaro, Magno, Bonetti, Baruello, Gerolamo Foresaro, Trentino, Vedano facesse spargere i velenosi unti.

Le vociferazioni pubbliche, poi, alcune attribuivano queste un­zioni ai Tedeschi, altri ai Francesi che tentavano di distruggere l’Ita­lia, altri agli eretici e particolarmente Ginevrini, altri al Duca di Sa­voia, altri non si sa poi ben come ad alcuni gentiluomini milanesi fatti prigionieri del Papa e mandati in Milano; altri finalmente al Conte Carlo Rasini, a don Carlo Bossi, e più che ad ogni altro si attribuirono al Cav.re di Padilla. Si diceva che per ogni quartiere della città vi fossero due barbieri destinati a fabbricare gli unti, e che più di cento cinquanta persone fossero adoperate a spargere l’unzione. Che vari banchieri pagassero largamente questi emissari; e fra questi Giambattista Sanguinetti, Girolamo Turcone, e Benedetto Fucino, e che questi sborsassero qualunque somma senza ritirarne quittanza a qua­lunque uomo si presentasse loro in nome del Cav.re di Padilla. Sopra simili assurdità, sebbene esaminati minutamente i libri de’ negozian­ti suddetti non si trovasse veruna annotazione nemmeno equivoca, si passò a crudeli torture contro di essi. Il Cav.rePadilla si trovò che nel tempo in cui si diceva che in Milano avesse formato e diretto questo attentato egli era a Mortara e altre terre del Piemonte ove combatte­va alla testa della sua Compagnia in difesa di questo stato. Merita d’essere trascritta la risposta ch’ei fece in processo quando fu costi­tuito reo di queste unzioni. Così egli dice: Io mi maraviglio molto che il Senato sia venuto a risoluzione così grande vedendosi e trovandosi che questa è una mera impostura e falsità fatta non solo a me ma alla giustizia istessa. Ed aveva ben ragione di dirlo, perchè dalla narrati­va istessa del reato appariva la grossolana impostura. Come! prose­guì esso Cavaliere, un uomo di mia qualità che ho speso la vita in ser­vigio di Sua Maestà in difesa di questo stato, nato da uomini che hanno fatto lo stesso aveva io da fare nè pensare cosa che a loro nè a me por­tasse tanta nota d’infamia, e torno a dire che questo è falso ed è la più grande impostura che ad uomo sia mai stata fatta. Questa risposta detta nel calore d’un sentimento è forse il solo tratto nobile che si legga in tutto l’infelice volume che ho esaminato. Il delitto non parla certamente un tal linguaggio e il Cav.re di Padilla era sicuramente assai al dissopra del livello de’ suoi giudici e del suo tempo.

La serie del delitto contestato al Cav.re di Padilla si ricava dalla relazione medesima del reato e vi si scorge il sugo de’ romanzi forzatamente creati colla tortura; io ne compilerò l’estratto semplicemente, giacchè troppo riuscirebbe di tedio l’intera narrazione, e porrò in margine le osservazioni opportune. Risultò adunque la dice­ria seguente.

Circa al principio del mese di Maggio il Sig.r Cav.re di Padilla vici­no alla chiesa di S. Lorenzo parlò al barbiere Giacomo Mora[19] ordinandogli che facesse un unto da applicare ai muri e porte onde ri­sultasse la morte delle persone[20], assicurandolo che denari non ne sarebbero mancati e non temesse perchè avrebbe trovato molti compagni[21] Indi altra volta pochi giorni dopo gli diede delle dobble perchè ungesse e v’era presente un gentiluomo Crivelli, e il trattato fu fatto da certo Don Pietro di Saragoza;[22] indi il barbiere allora fu avvisato che i banchieri Giulio Sanguineti e Gerolamo Turcone avevano or­dine di somministrare tutto il denaro occorrente a chiunque andava da essi in nome di D. Gio. de Padilla.[23] Carlo Vedano poi maestro di scherma fu il mezzano per indurre Gian Stefano Baruello a fare di queste unzioni[24] e condusse il Baruello sulla piazza del Castello ove ritrovavansi Pietro Francesco Fontana, Michele Tamborino, un prete e due altri vestiti alla francese, ove dal S. Cav.re furongli dati dei dena­ri perchè il Baruello ungesse e facesse parimenti ungere le forbici delle donne da Girolamo Foresaro, e gli consegnò un vaso di vetro quadrato dicendogli: questo è un vaso d’unguento di quello che si fab­brica in Milano ed ho a centinara de’ gentiluomini che mi fanno questi servizj e questo vaso non è perfetto; quindi gli ordinò di prendere de’ rospi, delle lucerte ec. e farle bollire nel vino bianco e mischiare tutto insieme. Poi, temendo il Baruello di proprio danno col toccar­lo, gli fece vedere il Sig.r Cav.re a toccarlo senza timore. Poi viene il circolo fatto dal prete e il Pantalone del quale ho già data notizia. Indi si vuole che il S.r Cav.re dicesse al Baruello di non dubitare che, se la cosa andava a dovere, esso Cav.re sarebbe stato padrone di Milano e voi vi voglio fare dei primi, soggiungendo di nuovo che se per sorte fosse pervenuto nelle mani della giustizia non avrebbe in alcun tempo confessato cosa alcuna. Tale è la serie del fatto deposta contro il figlio del Castellano, la quale, sebbene smentita da tutte le altre per­sone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza, e Baruello che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità), servì di base a un vergognosissimo reato.

§ 6. Della insidiosa cavillazione che si usò nel processo verso di alcuni infelici

Soffoco violentemente la natura, e superato il ribrezzo che producono tante atrocità, io trascriverò per intiero l’esame fatto al povero maestro di scherma Carlo Vedano. La scena è crudelissima, la mia mano la tra­scrive a stento; ma se il racapriccio che io ne provo gioverà a rispar­miare anche una sola vittima, se una sola tortura di meno si darà in grazia dell’orrore che pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il dolo­roso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi ricompensa.

Ecco l’esame.

1630 Die 18 septembris ec.
Eductus e carceribus Carolus Vedanus ec.
Int.s Che dica se si è risolto a dire meglio la verità di quello ha sin qui fatto circa le cose che è stato interrogato e che li sono state mante­nute in faccia da Gio Stefano Baruello
Resp. Ill.mo Sig.re non so niente.
Ei dicto che dica la causa perchè interrogato se aveva mangiato in casa di Gerolamo cuoco che fa l’osteria là a San Sistodi compagnia del Baruello non contento di dire una volta di no rispose Signor no Sig.r no Sig.r no.[25]
Resp. Perchè non è la verità.
Ei dicto che per negare una cosa basta dire una volta di no e che quel replicare Signor no Signor no Signor no mostra il calore con che lo nega e che per maggior causa lo neghi che perchè non sia vero
Resp.
Perchè non vi sono stato.[26]
Ei dicto che occasione aveva di scaldarsi così
Resp.
Perchè non vi sono stato Ill.mo Sig.re
Ei denuo dicto perchè interrogato se aveva mai mangiato col detto Baruello all’Osteria sopra la piazza del Castello rispose Signor no mai mai mai
Resp.
Ma Signore vi ho mangiato una volta ma non solo ma in compagnia di Francesco barbiere figliuolo di Alfonso e quando ho risposto Sig.r no mai mai mai mi son inteso d’avervi mangiato col Baruello solamente.
Ei dicto prima che esso non era interrogato se avesse mangiato là col Baruello solo o in compagnia d’altri ma semplicemente se aveva man­giato con lui alle dette osterie e però se gli dice che in questo si mostra bugiardo, poichè allora ha negato e adesso confessa, di più se gli dice che si ricerca di saper da lui perchè causa con tanta esagerazione negò di avervi mangiato nè gli bastò di dire di no che anco vi aggiunse quelle parole mai mai mai.
Resp.
Ma Signore perchè io non vi ho mai mangiato altro che quella volta ed intesi l’interrogazione di V. S. se aveva mangiato con lui solo, e quanto al secondo dico che mi sfogava così perchè non vi ho mai mangiato.
Ei denuo dicto perchè interrogato se mai ha trattato o col Baruello di far servizio al Sig.rD. Giovanni rispose di no ed essendogli replicato che ciò gli sarebbe stato mantenuto in faccia aveva risposto che questo non si sarebbe trovato mai, ed essendogli di nuovo replicato che di già s’era trovato rispose con parole interrotte sarà uh! uh! uh!
Resp.
Perchè non ho mai parlato con lui.
Int.s Chi è questo lui.
Resp.
È il figliuolo del Sig.r Castellano.
Ei dicto perchè questa mattina interrogato se si è risoluto a dire la verità meglio di quel che fece jeri sera, non contento di rispondere che jeri sera disse la verità, ha prorotto in queste parole: perchè io ne sono innocente di quella cosa che m’imputano, le quali parole oltre che sono fuori di proposito, non essendo esso mai stato interrogato sopra imputazione che gli sia stata data, mostrano ancora che esso sappia d’essere imputato di qualche cosa e pure interrogato che imputazione sia questa ha detto di non saperlo, onde se gli dice che oltre che si vuol sapere da lui perchè ha detto quella risposta fuori di proposito si vuol anche sapere che imputazione è quella che gli vien data[27]
Resp. Io ho detto così perchè non ho fallato.
Ei dicto denuo perchè interrogato se quando passò sopra la piazza del Castello col detto Baruello videro alcuno, ha risposto prima di no; poi ha soggiunto: ma signore vi erano della gente che andavano inanzi e indie­tro e dettogli perchè dunque aveva detto Sig.r no, ha risposto io m’era in­teso se aveva veduto dei nostri compagni, soggiugnendo No signore, si­curo per la Vergine Santissima che non ho fallato, le quali parole ultime, come sono state fuori di proposito non essendo egli sin ora stato inter­rogato di alcun delitto specificatamente, così mettono in necessità il giudice di voler sapere perchè le ha dette e però s’interroga ora perchè dica perchè ha detto quelle parole fuori di proposito con tanta esagerazione.
Resp.
Perchè non ho fallato.
Ei dicto che sopra tutte le cose che è stato interrogato adesso si vuole più opportuna risposta altrimenti si verrà ai tormenti per averla[28]
Resp. Torno a dire che non ho fallato ed ho tanta fede nella Ver­gine Santissima che mi ajuterà perchè non ho fallato non ho fallato.[29]
Tunc jussum fuit duci ad locum Eculei et ibi tortura subiici adhibita etiam ligatura canubis ad effectum ut opportune respondeat interrogationibus sibi factis ut supra et non aliter etc. et semper sine prejudicio confessi et convicti ac aliorum jurium ec. pro ut fuit ductus et ei reiterato juramento veritatis dicendo pro ut juravit ec. fuit denuo[30]
Int.s a risolversi a rispondere a proposito alle interrogazioni già fattegli come sopra altrimenti si farà legare e tormentare.
Resp. Perchè non ho fallato Ill.mo Sig.e.
Tunc semper sine prejudicio ut supra ad effectum tantum ut supra et eo prius vestibus curix induto jussum fuit ligari pro ut fuit per bracchium sinistrum adfunem applicatus et cum etiam eifuisset aptata ligatura canubis ad bracchium dexterum fuit denuo.
Int.s A risolversi di rispondere approposito alle interrogazioni date­gli come sopra che altrimenti si farà stringere
Resp.
Non ho fallato, sono Cristiano, faccia V. S. Ill.ma quello che vuole.
Tunc semper sine prejudicio ut supra jussum fuit stringi et dum stringeretur fuit denuo
Int.s di risolversi a rispondere approposito alle interrogazioni dategli.
Resp.
Ah Vergine Santissima acclamando non so niente.
Iterum institus ad dicendam veritatem ut supra Resp. acclamando Ah Vergine Santissima di San Celso non so niente.
Dettogli che dica la verità se no si farà stringere più forte, cioè rispondi a proposito
Resp.
Ah Signore non ho fatto niente.
Tunc jussum fuit fortius stringi et dum stringeretur fuit pariter
Int.s a risolversi a dir la verità a proposito
Resp. acclamando
Ah Signore Ill.mo non so niente.
Institus ad opportune respondendum ut supra Resp. Son qui al torto, non ho fallato, misericordia Vergine San­tissima.
Int.s iterum ad opportune respondendum ut supra che altrimenti si farà stringere più forte
Resp. acclamando
Non lo so Ill.mo Sig.re non lo so Ill.mo Sig.re.
Tunc jussum fuit fortius stringi et dum stringeretur fuit denuo Int.s ad opportune respondendum ut supra.
Resp. acclamando Ah Vergine Santissima non so niente.
Tunc postergatis manibus et ligatus, fuit in eculeo elevatus deinde Int.s a risolversi a rispondere opportunamente alle interrogazioni già dategli
Resp. acclamando
Ah Ill.mo Sig.re non so niente.
Int.s ad opportune respondendum ut supra
Resp.
Non so niente non so niente, che martirj sono questi che si danno ad un Cristiano! Non so niente.
Et iterum institus ut supra
Resp.
Non ho fallato.
Tunc ad omnem bonum finem jussum fuit deponi et abradi pro ut fuit depositus et dum abraderetur fuit iterum.[31]
Int.s ad opportune respondendum ut supra.
Resp.
Non so niente non so niente.
Et cum esset abrasus fuit denuo in eculeo elevatus deinde
Int.s a risolversi or mai a rispondere a proposito
Resp. acclamando
Lasciatemi giù che dico la verità.
Dettogli che cominci a dirla che poi si farà lasciar giù
Resp. acclamando
Lasciatemi giù che la dico.
Qua promissione attenta fuit in plano depositus deinde
Int.s a dir questa verità che ha promesso di dire
Resp.
Ill.mo Sig.e fatemi slegare un pochettino che dico la verità.
Dettogli che cominci a dirla
Resp.
Fu il Baruello che mi venne a trovare in Porta Ticinese e mi domandò che andassi con lui per certo formento che era stato rubato e disse che avressimo chiappato un villano che aveva lui una cosa da dargli per farlo dormire, ma non vi andassimo. Postea dixit: Mo’ Signore V. S. mi faccia slegare un poco che dico che V. S. avrà gusto.[32]
Dettogli che cominci a dire che poi si farà slegare
Resp.
Ah Signore fatemi slegare che sicuramente vi darò gusto vi darò gusto.
Qua promissione attenta jussum fuit dissolvi et dissolutus fuit postea
Int.s a dire la verità che ha promesso di dire.
Resp.
Ill.mo Sig.e non so che dire non so che dire non si troverà mai che Carlo Vedano abbia fatta veruna infamità.[33]
Institus a dire la verità che ha promesso di dire che altrimenti si farà di nuovo legare e tormentare senza remissione alcuna
Resp.
Se io non ho fatto niente.
Iterum institus ut supra
Resp.
Sig.r Senatore vi sono stato a casa di Messer Gerolamo a mangiare col Baruello ma non mi ricordo della sera precisa.
Et cum ulterius nollet progredi jussum fuit denuo ligari per brachium sinistrum ad funem et per brachium dextrum canubi et cum ita esset ligatus antequam stringeretur
Int.s ad opportune respondendum ut supra
Resp.
Fermatevi; V. S. aspetti Sig.r Senatore che voglio dir ogni cosa.
Dettogli che dunque dica
Resp.
Se non so che dire[34]
Tunc jussum fuit stringi et dum stringeretur acclamavit: Aspettate che la voglio dire la verità.
Dettogli che cominci a dirla
Resp.
Ah Signore se sapessi che cosa dire direi et acclamavit ah Sig.r Senatore!
Dettogli che si vuole che dica la verità
Resp.
Ah Signore se sapessi che cosa dire lo direi!
Et etiam institus ad dicendam veritatem ut supra
Resp. acclamando
Ah Signore Signore non so niente.
Et jussum fuit fortius stringi et dum stringeretur fuit denuo
Institus a risolversi a dire la verità promessa e di rispondere approposito
Resp. acclamando
Non so niente Signore Signore non so niente.
Et cum per satis temporis spatium stetisset in tormentis multumque pati videretur nec aliud ab eo sperari posset jussum fuit dissolvi et reconsignari pro ut ita factum est.

§ 7. Come terminasse il processo delle unzioni pestifere

Se volessi porre esattamente sott’occhio al lettore la scena degli or­rori metodicamente praticati in quella occasione, dovrei trascrivere tutto il processo. Dovrei inserire le torture fatte soffrire ai banchie­ri, ai loro scritturali e ad altre civili persone, torture crudelissime date per obbligarli a confessare che dal loro Banco si dava qualunque somma di denaro a chiunque, anche sconosciuto, purchè nominasse Don Giovanni de Padilla, e denaro che si sborsava senza averne alcu­na quittanza e senza scriversi partita ne’ loro libri, e tutte queste as­surde supposizioni emanate dal forzato romanzo che la insistenza degli spasimi fece concertare fra i miseri Piazza e Mora. Ma anche troppo è feroce il saggio che dissopra ne ho dato e troppo funesti alla mente ed al cuore sono sì tristi oggetti. Dalla scena orribile che ho descritta si vede l’atroce fanatismo del giudice di circondurre con sottigliezza un povero uomo che non capiva i raggiri criminali, e por­tarlo alle estreme angosce d’onde l’infelice si sarebbe sottratto con mille accuse contro se medesimo se per disgrazia gli si fosse presentato alla mente il modo per calunniarsi. Colla stessa inumanità si pro­digò la tortura a molti innocenti; in somma tutto fu una vera scena di orrore. È noto il crudele genere di supplizio che soffrirono il bar­biere Gian Giacomo Mora (di cui la casa fu distrutta per alzarvi la Colonna infame), Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca coltellinajo che si chiamava il foresè, Francesco Manzone, Catterina Rozzana e moltissimi altri: questi, condotti su di un carro, tenagliati in più parti, ebbero strada facendo tagliata la mano, poi, rotte le ossa delle braccia e gambe, s’intralciarono vivi sulle ruote e vi si lasciarono agonizanti per ben sei ore, al termine delle quali furono per fine dal carnefice scannati, indi bruciati, e le ceneri gettate nel fiume. La iscrizione posta al luogo della casa distrutta del Mora così dice:

HIC UBI HEC AREA PATENS EST
SURGEBAT OLIM TONSTRINA
JO. JACOBI MORE
QUI FACTA CUM GUGLIELMO PLATEA
PUBL. SANIT. COMMISSARIO
ET CUM ALIIS CONJURATIONE
DUM PESTIS ATROX SEVIRET
LETIFERIS UNGUENTIS HUC ET ILLUC ASPERSIS
PLURES AD DIRAM MORTEM COMPULIT
HOS IGITUR AMBOS HOSTES PATRIE JUDICATOS
EXCELSO IN PLAUSTRO
CANDENTI PRIUS VELLICATOS FORCIPE
ET DEXTERA MULCTATOS MANU
ROTA INFRINGI
ROTAQUE INTEXTOS POST HORAS SEX JUGULARI
COMBURI DEINDE
AC NE QUID TAM SCELESTORUM HOMINUM
RELIQUI SIT
PUBLICATIS BONIS
CINERES IN FLUMEN PROIICI
SENATUS JUSSIT
CUJUS REI MEMORIA ETERNA UT SIT
HANC DOMUM SCELERIS OFFICINAM
SOLO ÆQUARI
AC NUNQUAM IMPOSTERUM REFICI
ET ERIGI COLUMNAM
QUE VOCETUR INFAMIS
PROCUL HINC PROCUL ERGO
BONI CIVES
NE VOS INFELIX INFAME SOLUM
COMMACULET
MDCXXX KAL AUGUSTI

Come poi subissero la pena il canonico Giuseppe Ripamonti, che era vivo in que’ tempi, ce lo dice. Confessique isti flagitium et tormentis omnibus excruciati perseveravere confitentes donec in patibulum agerentur. Ibi demum juxta laqueum inter carnificis manus de sua innocentia ad populum ita dixere. Mori se libenter ob scelera alia quae admississent: caeterum ungendi artem se factitavisse nunquam: nulla sibi veneficia aut incantamenta nota fuisse. Ea sive insania mortalium sive perversitas, et livor, astusque Daemonis erat. Sic indicia rerum et judicum animi magis magisque confundebantur pag. 74. «Dopo di avere ne’ tormenti confessato ogni delitto di cui erano ricercati, protestavano all’atto di subire la morte di morir rasegnati per espiare i loro peccati avanti Dio, ma non aver mai saputo l’arte di ungere nè fabbricar veleni nè sortilegi.» Così dice il Ripamonti, che pure so­stiene la opinione comune, cioè che fossero colpevoli.

Le crudeltà usate da più di un giudice in quel disgraziato tempo giunsero a segno che più d’uno fu tormentato tant’oltre da morire fralle torture: il Ripamonti lo dice e in vece d’incolpare la ferocia de’ giudici va al suo solito a trovarne la meno ragionevole cagione, cioè che il demonio gli strangolasse: Constitit flagitii reos in tormentis a Demone fuisse strangulatos pag. 115.

Il cardinale Fedrico Borromeo nostro illustre Arcivescovo in que’ tempi dubitava della verità del delitto e in una di lui scrittura inse­rita nel Ripamonti a pag. 178 così disse: Non potuere privatis sumptibus haec portenta patrari. Regum Principumque nullus opes authoritatemque commodavit. Ne caput quidem authorve quispiam unctorum istorum furiarumque reperitur; et haud parva conjectura vanitatis est quod sua sponte evanuit scelus duraturum haud dubie usque in extrema, si vi aliqua consilioque certo niteretur. Media inter haec sententia mediumque inter ambages dubiae historiae iter. «Non si sarebbe co’ denari d’un semplice privato potuto fare una così portentosa conspirazione. Nessun Re o Principe ne somministrò i mezzi o vi die’ protezione. Non apparve nemmeno chi ne fosse l’autore o il capo di tali unzioni e furiosi disegni, e non è piccola congettura che fosse un sogno il vedere una tale cospirazione svanita da sè mentre avrebbe dovuto durare sino al totale esterminio, se eravi una forza, un dise­gno, un progetto, che dirigessero una tale sciagura. Fra tali dubietà e incertezze deve la storia farsi la strada.» Nè quel solo illuminato cardinale vi fu allora che ne dubitasse, che anzi convien dire che la dubitazione fosse di varj, poiché tanto il Ripamonti che il Somaglia e altri scrittori di que’ tempi si estendono a provare la reità dei con­dannati, cosa che non avrebbero certamente fatta se non vi fosse stato bisogno di combattere una opinione contraria.

Riepilogando tutto lo sgraziato ammasso delle cose sin qui riferite, ogni ragionevole conoscerà che fu immenso il disastro che rovinò in quell’epoca infelicissima i nostri maggiori, e che quest’ammasso crudele di miserie nacque tutto dalla ignoranza e dalla sicurezza ne’ loro errori che formò il carattere de’ nostri avi. Somma spensieratezza nel lasciare indolentemente entrare nella patria la pestilenza; somma stolidità nel ricusare la credenza ai fatti, nel ricusare l’esame di un avenimento così interessante; somma superstizione nell’esigere dal cielo un miracolo acciocché non s’accrescesse il male contagioso col affollare unitamente il popolo. Somma crudeltà e ignoranza nel distrug­gere gl’innocenti cittadini, lacerarli, tormentarli con infernali dolori, per espiare un delitto sognato. In somma la proscritta verità in nes­sun canto potè manifestarsi; i latrati della superstizione e l’insolente ignoranza la costrinsero a rimanersene celata. Per tutto il secolo pas­sato si risentì questo infelicissimo stato la enorme scossa di quella pestilenza. Le campagne mancarono d’agricoltori, le arti e mestieri s’annientarono; e fors’anco al giorno d’oggi abbiamo de’ terreni incolti che prima di quell’esterminio fruttavano a coltura. Si avvilì il restante del popolo nella desolazione in cui rimase; poco rimase delle antiche ricchezze, e non si citerà una casa fabbricata per cinquanta anni dopo la pestilenza che non sia meschina. I nobili s’inselvatichi­rono, ciascuno vivendo in una società molto angusta di parenti si risguardò come isolato nella sua patria e non si ripigliarono i costumi sociali che erano tanto splendidi e giocondi prima di tale sciagura se non appena al principio del secolo presente. Tanti malori potè cagio­nare la superstiziosa ignoranza!

§ 8. Se la tortura sia un tormento atroce

Non può mettersi in dubbio che nell’epoca delle supposte unzioni pestilenziali la tortura non sia stata veramente atrocissima. Ma si potrebbe anche dire che i tempi sono mutati e che fu allora un eccesso cagionato dalla estremità de’ mali pubblici da non servire di esempio. Io però credo che al giorno d’oggi la pratica criminale sia diretta da quei medesimi libri che si consultavano nel 1630, e appog­giato su questi parmi facile cosa il conoscere che veramente la tortura è un infernale supplizio.

Col nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sen­tenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co’ tormenti. Quaestio est veritatis indagatio per tormentum seu per torturam et potest tor­tura apellari quaestio a quaerendo quod Judex per tormenta inquirit veritatem. Ab. Panormit. in Cap. cum in Contemplat. x de R. I.

I fautori della tortura cercano di calmare il ribrezzo che ogni cuore sensibile prova colla sola immaginazione del tormento. Poco è il male, dicon essi, che ne soffre il torturato: si tratta d’un dolore passaggero per cui non accade mai l’opera di medico o cerusico, sono esagerati i dolori che si suppongono. Tale è il primo argomento col quale si cerca di soffocare il naturale racapriccio che alla umanità sveglia la idea della tortura. Pure, dai fatti accaduti nel 1630 viene delineato a caratteri di sangue l’orrore di questi tormenti; le leggi, le pra­tiche sotto le quali viviamo sono le stesse, siccome ho detto, ed altro non manca per ripetere le stesse crudeltà se non che ritornassero de’ giudici simili a quelli d’allora. Si adopera attualmente per tortura la lussazione dell’osso dell’omero si adopera talvolta il fuoco ai piedi, crudeli operazioni per se stesse; ma nessuna legge limita la crudeltà a questi due modi. I dottori che sono i maestri di questi spasimi, i dottori che si consultano per regola e norma de’ giudizi criminali non prescrivono certamente molta moderazione. Il Boss. al Tit. de Tortura num.° 2 dice: «Non chiamerò tortura ogni dolore di corpo, la tortura debb’essere più grave che se si tagliassero ambe le mani e sof­frir la tortura egli è patire le estreme angosce dello spasimo… e basta osservare i preparativi e i modi di tormentare per conoscerlo, niente è mite anzi tutto è crudelissimo, e perciò spesse volte si dà la tortura col fuoco e quel che dice l’uomo tormentato col fuoco si reputa la verità istessa». Nec quodlibet tormentum cum dolore corporis dicitur quaestio; hinc est quod gravior est tortura quam utriusque manus abscissio, et pati torturam est supremas angustias sustinere ut vidimus et audimus et de his tormentis loquitur totus titulus de Quaestionibus, sic etiam loquuntur Doctores, quod maxime patet dum congerunt instru­menta et modos torquendi quia nihil horum est leve immo crudelissimum, et ideo etiam igne saepe rei torquentur, igne defatigati quae dicunt ipsa veritas videtur esse. Dopo ciò, non saprei mai come possa dirsi che la tortura per sè sia un male da poco. Non nego che un giudice umano potrà temperare la ferocia di questa pratica; ma la legge non è certamente mite nè i dottori maestri lo sono punto. Veggasi con qual crudeltà il Zigler al Tema 47, de Torturis § 12 descrive questa inumanissima pratica. «Oltre lo stiramento con candele accese si suole arrostire a fuoco lento il reo in certe parti del corpo ovvero alla estremità delle dita si conficcano sotto l’unghie de’ pezzetti di legno resinoso indi si appiccica il fuoco a que’ pezzetti ovvero si pongono a cavallo sopra un toro o asino di bronzo vacuo, entro cui si gettano carboni ardenti e coll’infuocarsi del metallo acerbamente e con incredibili dolori si cruciano.» Tali sono i precetti che dà questo dottore, di cui ecco le parole originali: Praeter expansionem carnifices cutem inquisiti candentibus luminibus in certis corporis partibus lento igne urunt, velpartes digitorum extremas immissis infra unguespiceis cuniculis iisque postmodum accensis per adustionem inquisitos excruciant, aut etiam tauro vel asino ex metallis formato et incallescenti paullatim per ignes injectos tandemque per auctum calorem nimium doloribus incredibilibus insidentes purgent delinquentes imponunt. Farinaccio istesso (Theor. et Prax. Criminal. To. 2, Quaest. 38, num.° 56) parlan­do de’ suoi tempi asserisce che «i Giudici per il diletto che provano nel tormentare i rei inventavano nuove specie di tormenti»; eccone le parole: Judices qui propter delectationem quam habent torquendi reos inveniunt novas tormentorum species. Tale è la natura dell’uomo 11 che, superato il ribrezzo de’ mali altrui e soffocato il benefico germe della compassione, inferocisce [e] giubila della propria superiorità nello spettacolo della infelicità altrui; di che ne serve d’esempio anche il furore de’ Romani per i gladiatori. Veggasi lo stesso Farinaccio al 12 citato luogo num.° 59, ove dà il ricordo al giudice di moderarsi e aste­nersi dal tormentare il reo colle sue proprie mani e cita chi vide un Pretore che prendeva il carcerato pe’ capelli e per gli orecchi e fortemente lo faceva cozzare contro di una colonna dicendogli: «ribaldo confessa»; così egli: Abstineat etiam Judex se ab eo quod aliqui Judices facere solent videlicet a torquendo reos cum propriis manibus… Refert Paris de Put.11 se vidisse quemdam Potestatem qui capiebat reum per capillos vel per aures dando caput ipsius fortiter ad columnam dicendo confitearis et dicas veritatem ribalde. Il celebre Bartolo ne’ Comment. lib. ff. Nov. XLVIII, l. VII Questionis usò di porre alla tor­tura e gli accadde di rovinare un giovine robusto uccidendolo colla tortura; quindi ne deduce che non mai si debba imputare al giudice un simile accidente: Hoc incidit mihi quia dum viderem juvenem robustum torsi illum et statim fere mortuus est; e con tale indiferenza racconta il fatto atroce quel freddissimo dottore. Dopo ciò convien pur accordare e sull’esempio delle unzioni pestifere e sulle dottrine de’ maestri della tortura ch’ella è crudele e crudelissima e che, se al giorno d’oggi la sorte fa che gli esecutori la moderino, non lascia per­ciò di essere per se medesima atroce e orribile quale ognuno la crede, e queste atrocità e questi orrori legalmente autorizati può qualunque uomo nuovamente soffrirli sin tanto che o non sia moderata con nuove leggi la pratica ovvero non sia abolita.

Nè gli orrori della tortura si contengono unicamente nello spasimo che si fa patire, spasimo che talvolta ha condotto a morire nel tormento più d’un reo; ma orrori ancora vi spargono i dottori sulle circostanze di amministrarla. Il citato Bossi al titolo De confessis per torturam num.° 11 asserisce che, se un reo confessa invitato dal giudice con promessa che confessandosi reo non gli accaderà male, la confessione è valida e la promessa del giudice non tiene. Il Tabor 16 (de Tortur. et indiciis delictor. § 30) dice che anche a una donna che allatti si può benissimo dar la tortura, purché non ne accada diminuzione di alimenti al bambino: Etiam mulieri lactanti torturam aliquando fuisse indictam cum ea moderatione ne infanti in alimentis aliquid decedat quam declarationem facile admitto. Per dare poi la tortura a un testimonio basta ch’egli sia di estrazione vile, perchè sia autorizato il tormento: Vilitas persona est justa causa torquendi testem, vid. Bald., Butrio, Farinac. quaest. 79 num.° 33; e il Claro (Sententiar. lib. v § fin. quaest. 64. num.° 12) asserisce che basta vi siano alcuni indizi contro un uomo e si può metterlo alla tortura e, in materia di tortura e di indizi non potendosi prescrivere una norma certa, tutto si rimette all’arbitrio del giudice: Sufficit adesse aliqua indicia contra reum ad hoc ut torqueri possit … in hoc autem quae dicantur indicia ad torturam sufficientia scire debes quod in materia indiciorum et Tortura propter varietatem negotiorum et personarum non potest dari certa doctrina sed remittitur arbitrio Judicis. La sola fama basta perchè, se il Giudice lo vuole, sia un uomo posto alla tor­tura (Gand. de Malefic. in Tit. de Quaest. num.° 39. Aug. ad Angel. de Malefic. in verbo fama publica post num.° 41 et Caravita De ritu. Magn. Curiae num.° 8, et Brun. de indiciis fol. 41, num.° 32). Basti un solo orrore per tutti, e questo viene dal celebre Claro, che è il sommo maestro di questa pratica. Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi baciarla, accarezzarla, fingere di amarla, promettergli la libertà affine di indurla ad accusarsi del delitto e che con tal mezzo un certo Reggente indusse una giovine ad aggravarsi d’un omicidio e la condusse a perdere la testa. Acciocché non si sospetti che quest’orrore contro la religione, la virtù, e tutti i più sacri principj del uomo sia esagerato, ecco cosa dice il Claro alla pagina 760. num.° 80: Paris dicit quod Judex potest mulierem ad se adduci facere secreto in camera et eidem dicere quod vult illam habere in suam et fingere velie illam deosculari et ei polliceri liberationem, et quod ita factum fuit a quodam Regente qui quamdam mulierem blanditiis illis induxit ad confitendum homicidium qux postea decapitata fuit.

Non credo di essere acceso da molto entusiasmo se dico essere la tortura per se medesima una crudelissima cosa, essere orribile la facilità colla quale può farsi soffrire ad arbitrio d’un solo giudice nella solitudine del carcere, ed essere veramente degna della ferocia de’ tempi delle passate tenebre la insidiosa morale alla quale si ammaestrano i giudici da taluno de’ più classici autori. Si tratta adunque di una questione seriissima e degna di tutta la attenzione, e non regge quanto si può dire per diminuirne il ribrezzo o l’importanza.

§ 9. Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità

Se la inquisizione della verità fra i tormenti è per se medesima feroce, s’ella naturalmente funesta la semplice immaginazione di un uomo sensibile, se ogni cuore non pervertito spontaneamente inclinerebbe a proscriverla e detestarla, nondimeno un illuminato cittadino preme e soffoca questo isolato racapriccio e, contraponendo ai mali, dai quali viene afflitto un uomo sospetto reo, il bene che ne risulta dalla scoperta della verità nei delitti, trova bilanciato a larga mano il male di uno colla tranquillità di mille. Questo debb’essere il sentimento di ciascuno che nel distribuire i sensi di umanità non faccia l’ingiu­sto riparto di darla tutta per compassionare i cittadini sospetti e niente per il maggior numero de’ cittadini innocenti. Questa è la seconda ragione alla quale si cerca di appoggiare la tortura da chi ne sostiene al giorno d’oggi l’usanza come benefica ed opportuna anzi necessaria alla salvezza dello stato.

Ma i sostenitori della tortura con questo ragionamento peccano con una falsa supposizione. Suppongono che i tormenti sieno un mezzo da sapere la verità: il che è appunto lo stato della questione. Converrebbe loro il dimostrare che questo sia un mezzo di avere la verità e dopo ciò il ragionamento sarebbe appoggiato; ma come lo proveranno? Io credo per lo contrario facile il provare le seguenti 4 proposizioni: prima, che i tormenti non sono un mezzo di scoprire la verità. Seconda, che la legge e la pratica stessa criminale non considerano i tormenti come un mezzo di scoprire la verità. Terza, che quand’anche poi un tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità sarebbe intrinsecamente ingiusto.

Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità comincerò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di raro accade che de’ rei robusti e determinati soffrono i tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo piuttosto che accusare se medesimi. In questi casi, che non sono nè rari nè immaginati, il tormentoè inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori che ho dissopra fatti conoscere e disterrati dalle tenebre del carcere, ove giacquero da più di un seco­lo, non provan eglino abbastanza che quei molti infelici si dichiara­rono rei d’un delitto impossibile e assurdo, e che conseguentemente il tormento strappò loro di bocca un seguito di menzogne, non mai la verità? Gli autori sono pieni di esempj d’altri infelici che per forza di spasimo accusarono se stessi d’un delitto del quale erano inno­centi. Veggasi lo stesso Claro (Lib. v § fin. quaest. 64 num.°46), il quale riferisce come al suo tempo molti per la tortura si confessaro­no rei dell’omicidio d’un nobile, e furono condannati a morte seb­bene poi alcuni anni dopo sia comparso il supposto ucciso che atte­stò non essere mai stato insultato da’ condannati (vid. Gotofred. Bav. de Reat.). Veggasi il Muratori ne’ suoi Annali d’Italia (al tom. x pag. 273) ove parlando della morte del Delfino così dice: ne fu imputato il conte Sebastiano Montecuccoli suo copiere, onorato gentiluo­mo di Modena a cui di complessione dilicatissima … colla forza d’in­credibili tormenti fu estorta la falsa confessione della morte proccurata a quel Principe ad istigazione di Antonio de Leva e dell’Imperatore stesso, per lo che venne poi condannato l’innocente Cavaliere ad una orribil morte. Il fatto dunque ci convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perchè alcune volte niente produ­cono, altre volte producono la menzogna.

Al fatto poi decisamente corrisponde la ragione. Quale è il senti­mento che nasce nell’uomo allorquando soffre un dolore? Questo sentimento è il desiderio che il dolore cessi. Più sarà violento lo stra­zio, tanto più sarà violento il desiderio e l’impazienza di essere al fine. Quale è il mezzo col quale un uomo torturato può accellerare il termine allo spasimo? Col asserirsi reo del delitto su di cui viene ricercato. Ma è egli la verità che il torturato abbia commesso il delitto? Se la verità è nota, inutilmente lo tormentiamo; se la verità è dubbia, forse il torturato è innocente, e il torturato innocente è spinto egualmente come il reo ad accusare se stesso del delitto. Dunque i tor­menti non sono un mezzo per iscoprire la verità, ma bensì un mezzo che spinge l’uomo ad accusarsi reo di un delitto, lo abbia egli ovvero non lo abbia commesso. Questo ragionamento non ha cosa alcuna che gli manchi per essere una perfetta dimostrazione.

Sulla faccia d’un uomo abbandonato allo stato suo naturale delle sensazioni si può facilmente conoscere o la serenità della innocenza ovvero il turbamento del rimorso: la placida sicurezza, la voce, la facilità di sciogliere le obbjezioni nell’esame possono far ravvisare talvolta l’uomo innocente, e così il cupo turbamento, il tuono alterato della voce, la stravaganza, l’inviluppo delle risposte possono dar sospetto della reità. Ma entrambi sieno posti, un reo e un innocente, fragli spasimi, fralle estreme convulsioni della tortura: queste dilicate differenze s’ecclissano, la smania, la disperazione, l’orrore si dipingono egualmente su di ambo i volti, gemono egualmente, e in vece di distinguere la verità se ne confondono crudelmente tutte le appa­renze.

Un assassino di strada avvezzo a una vita dura e selvaggia, robu­sto di corpo e incallito agli orrori, resta sospeso alla tortura e con animo deciso sempre rivolge in mente l’estremo supplizio che si proccura cedendo al dolore attuale, riflette che la sofferenza di quello spasimo gli proccurerà la vita e che cedendo all’impazienza va ad un patibolo; dotato di vigorosi muscoli, tace e delude la tortura. Un povero cittadino, avvezzo a una vita più molle, che non si è addo­mesticato agli orrori, per un sospetto viene posto alla tortura; la fibbra sensibile tutta si scuote, un fremito violentissimo lo invade al semplice apparecchio, si eviti il male imminente, questo pesa insopportabilmente, e si protragga il male a distanza maggiore: quest’è quello che gli suggerisce l’angoscia estrema in cui si trova avvolto, e si accusa di un non commesso delitto. Tali sono e debbon essere gli effetti dello spasimo sopra i due diversi uomini. Pare con ciò concludentemente dimostrato che la tortura non è un mezzo per iscoprire la verità ma è un invito ad accusarsi reo egualmente il reo e l’innocente, onde è un mezzo per confondere la verità non mai per iscoprirla.

§ 10. Se le leggi e la pratica criminale risguardino la tortura come un mezzo per avere la verità

Ho stabilito di provare in secondo luogo che le leggi e la pratica istessa de’ criminalisti non considerano la tortura come un mezzo per distinguere la verità. Ciò si conosce facilmente osservando che non trovasi prescritto alcun metodo o regolamento nel Codice Teodosiano e nessuno parimenti nel Codice Giustinianeo per applicare ai tormenti i sospetti rei. In que’ sterminati ammassi di leggi e prescri­zioni, ove si sminuzzano le minime differenze de’ casi e civili e cri­minali, niente si prescrive per la tortura. Se la legge adunque avesse risguardato questi tormenti come un mezzo per iscoprire la verità, non se ne sarebbe fatta una omissione in ambo i codici del modo, de’ casi, delle riserve colle quali si dovesse adoperare. Concludo adunque dal silenzio stesso del corpo delle leggi che la legge non consi­dera la tortura come un mezzo per rintracciare la verità. Se poi il solo argomento negativo non sembrasse bastante a dimostrare questa ve­rità, veggasi la Legge 2 § 23, ff. de quaestionibus ove ben lontano lo spirito delle leggi Romane dal risguardare la tortura come un mezzo da rinvenire la verità, anzi vi si legge: «La tortura è un mezzo assai incerto e pericoloso per ricercare la verità poichè molti colla robu­stezza e la pazienza superano il tormento e in nessun modo parlano, altri insofferenti mentiscono mille volte anzi che resistere al dolore». Quaestio res est fragilis et periculosa et qux veritatem fallat. Nam plerique patientia, sive duritia tormentorum illa tormenta contemnunt ut exprimi eis veritas nullo modo possit; alii tanta sunt impatientia ut quodvis mentiri quam pati tormenta velint. Così s’esprime positiva­mente il Digesto e tale era l’opinione de’ Romani nostri legislatori e maestri, i quali conoscevano l’uso della tortura sopra gli schiavi, sic­come vedremo poi. Dunque la legge non risguarda la tortura come un mezzo per la scoperta della verità.

Io però ho asserito dippiù, che non solamente la legge non risguarda la tortura come un mezzo per avere la verità, ma nemmeno la pratica criminale considera la tortura per un mezzo di avere la ve­rità. Pare questo un paradosso, eppure io credo di poterlo evidente­mente dimostrare.

Primieramente, se i dottori risguardassero la tortura come un mez­zo per iscoprire la verità nei delitti, non escluderebbero se medesimi dall’essere torturati, poichè è tale l’interesse della umana società che i delitti si scoprano, che nessuno può essere sottratto dai mezzi di scoprirli, in quella guisa che nessuno è sottratto de’ dottori dalla pena di morte, esiglio, ec. ogni qual volta co’ suoi delitti l’abbia meritata.

Io perdonerò se ciascuno cerchi di rialzare il proprio mestiero, e non mi farà maraviglia che il Wesembec (in Paratit. num.° 10) dica che i dottori sono per dignità eguali ai nobili e decurioni, e per meriti eguali ai militari, Doctores nobilibus et decurionibus dignitate, militibus autem meritis sequiparantur; ma non sarebbe perdonabile alcuno che osasse dare alla propria facoltà una impunità ne’ delitti. Se adun­que i nobili e i dottori sono privilegiati per la tortura, segno è che non viene essa dai criminalisti considerata come un mezzo per avere la verità.

Secondariamente, se i dottori considerassero la tortura come un mezzo per avere la verità, prescriverebbero di attenersi e considerare per certo quello che un torturato dice fra i tormenti. La pratica però ordina che ciò non sia attendibile, se l’uomo qualche tempo dopo e in luogo lontano da ogni apparecchio di tortura non ratifica l’accusa fatta a se medesimo, acciocché non rimanga sospetto che la violenza dello spasimo abbia indotto il torturato ad accusarsi indebitamente. Dunque la pratica stessa criminale non risguarda lo strazio della tortura come un mezzo per avere la verità. Questa pratica si è veduta eseguita anco sugli infelicissimi Piazza e Mora, ed è poi una contradizione veramente barbara quella di rinnovare la tortura all’uomo che revochi la accusa fattasi nei tormenti: alcuni Dottori trovano giu­sta una tale alternativa indefinitamente per quante volte il torturato disdice l’accusa datasi (Bart. in l. unius § reus in ult. verb. ff. de quxstionib. et ita tenent communiter D. D. ut dicit Blancus de indie. n. 219. Hanc etiam esse communem opinionem testatur Bossius Titul. de Tortura num.0 34 ubi etiam subdit quod ita est in praxi absque ulla hesitatione) cosicché o deve alla fine morire di spasimo ripetuto ovvero perseverare anche fuori del tormento ad accusare se stesso. Altri dottori limitano questa alternativa a tre torture, come il Claro 11 (Sentent. lib. v, fin. quaest. xxi, n.° 36). Se dunque la stessa pratica criminale insegna di non credere a quanto un torturato dice in pro­pria accusa fra i tormenti della tortura ma esigge che l’accusa la ratifichi con tranquillità e libero dallo spasimo, forza è concludere ad evidenza che la stessa pratica criminale non considera la tortura come un mezzo da conoscere la verità.

§ 11. Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la verità

Mi rimane finalmente da provare che, quand’anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto. Credo assai facile il dimostrarlo. Comincerò col dire che le parole di sospetti, indizj, semiprove, semipiene, quasiprove ec. e simili barbare distinzioni e sottigliezze non possono giammai mutare la natura delle cose. Possono elleno bensì spargere delle tenebre ed offuscare le menti incaute; ma debbesi sempre ridurre la questione a questo punto: o il delitto è certo, ovvero è solamente probabile. Se è certo il delitto, i tormenti sono inutili, e la tortura è superfluamente data quand’anche fosse un mezzo per rintracciare la verità, giacchè presso di noi un reo convinto si condanna benchè negativo. La tortura, dunque, in questo caso sarebbe ingiusta, perchè non è giusta cosa il fare un male e un male gravissimo ad un uomo superfluamente. Se il delitto poi è solamente probabile, qua­lunque sia il vocabolo col quale i dottori distinguano il grado di pro­babilità difficile assai a misurarsi, egli è evidente che sarà possibile che il probabilmente reo in fatti sia innocente; allora è somma ingiu­stizia l’esporre a un sicuro scempio e ad un crudelissimo tormento un uomo che forse è innocente, e il porre un uomo innocente fra que’ strazi e miserie tanto è più ingiusto quanto che fassi colla forza pubblica istessa confidata ai giudici per difendere l’innocente dagli oltraggi. La forza di quest’antichissimo ragionamento hanno cercato i partigiani della tortura di eluderla con varie cavillose distinzioni le quali tutte si riducono a un sofisma, poichè fra l’essere e il non essere non v’è punto di mezzo e, laddove il delitto cessa di essere certo, ivi precisamente comincia la possibilità della innocenza. Adunque l’uso della tortura è intrinsecamente ingiusto e non potrebbe adoperarsi quand’anche fosse egli un mezzo per rinvenire la verità.

Che si è detto mai delle leggi della Inquisizione, le quali permet­tevano che il Padre potesse servire di accusatore contro il figlio, il marito contro della moglie! L’umanità fremeva a tali oggetti, la na­tura riclamava i suoi sacri diritti: persone tanto vicine per i più augu­sti vincoli distruggersi vicendevolmente! La legge civile aborrisce sì fatti accusatori e gli esclude. Mi sia ora lecito il chiedere se un uomo sia meno strettamente legato con se medesimo di quello che lo è col padre e colla moglie. Se è cosa ingiusta che un fratello accusi criminalmente l’altro, a più forte ragione sarà cosa ingiusta e contraria alla voce della natura che un uomo diventi accusatore di se stesso e le due persone dell’accusatore e dell’accusato si confondano. La natura ha inserito nel cuore di ciascuno la legge primitiva della difesa di se medesimo e l’offendere se stesso e l’accusare se stesso criminalmente egli è o un eroismo, se è fatto spontaneamente in alcuni casi, ovvero una tirannia ingiustissima, se per forza di spasimi si voglia costringervi un uomo.

L’evidenza di queste ragioni anche più si conoscerà riflettendo che iniquissima e obrobriosissima sarebbe la legge che ordinasse agli avvocati criminali di tradire i loro clienti. Nessun tiranno, ch’io sappia, ne pubblicò mai una simile, una tal legge romperebbe con vera infamia tutt’i più sacri vincoli di natura. Ciò posto, chiederemo noi se l’avvocato sia più intimamente unito al cliente di quello che lo è il cliente con se medesimo? Ora la tortura tende co’ spasimi a ridurre l’uomo a tradirsi, a rinunziare alla difesa propria, ad offendere, a perdere se stesso. Questo solo basta per far sentire senza altre riflessioni che la tortura è intrinsecamente un mezzo ingiusto per cercare la verità e non sarebbe lecito usarne quand’anche per lui si trovasse la verità.

Ma come mai una pratica tanto atroce e crudele, tanto inutile, tanto ingiusta ha mai potuto prevalere anche fra popoli colti e man­tenersi sino al giorno d’oggi? Brevemente accennerò quai sieno stati gli usi anticamente, come siasi introdotta, su quai principj fondata, da quai leggi diretta; poi qualche cosa dirò delle opinioni di varj autori e degli usi attuali di alcune nazioni d’Europa, col che crederò di aver posto fine a queste osservazioni con un esame generale dei diversi punti di vista sotto i quali può ragionevolmente rimirarsi un così tristo e così interessante oggetto.

§ 12. Uso delle antiche nazioni sulla tortura

L’invenzione della tortura, se crediamo a Remus Constit. criminal. art. 58 e a Gian Lodovico Vivis ne’ comenti a S. Agost. de Civit. Dei lib. xix cap. vi, dovrebbe attribuirsi all’ultimo Re di Roma Tarquinio il Superbo, a Massenzio ed a Falaride; convien lodare il criminalista Remus poiché almeno giudiziosamente ha trascelti tre notissimi tiranni per far cadere sopra tre tiranni l’obbrobio di così inumana invenzione (vid. Zigler Them. 47, de Tortur. § 1). Sappiamo però che al tempo de’ tiranni Falaride, Nearco e Gerolamo furono posti alla tortura i più rispettabili filosofi de’ loro tempi, Zenone Eleate, e Teo­doro, e il filosofo Anassarco fu crudelmente torturato per ordine del tiranno Nicocreonte (vid. Valer. Massimo lib. 3, cap. 3 e Diogene Laert., Cicer. Tusculan.,Tertul. Apologetic. e altri).

L’origine di una così feroce invenzione oltrepassa i confini della erudizione e verosimilmente potrà essere tanto antica la tortura quan­to è antico il sentimento nell’uomo di signoreggiare dispoticamente un altro uomo, quanto è antico il caso che la potenza non sia sempre accompagnata dai lumi e dalla virtù, e quanto è antico l’istinto nell’uomo armato di forza prepotente di stendere le sue azioni a misura piuttosto della facoltà che della ragione. Io prescindo dal risguardare la legislazione de’ libri sacri come la legge dettata dall’autore stesso della natura a una nazione di cuor duro, e considerando uni­camente quel monumento come il più antico testimonio che sia a no­stra notizia de’ costumi de’ secoli rimoti, osservo che nel sacro testo nessuna menzione vi si fa della tortura, che anzi nel prescrivere le pratiche da usarsi co’ rei si vuole la strada della convinzione co’ testimonj, non si esigge la confessione del reo. Veggasi il Deuterono­mio al cap. 19 num.° 10: non effundatur sanguis innoxius in medio terrae quam Dominus Deus tuus dabit tibi possidendam ne sis sanguinis reus. «Non si sparga il sangue innocente su quella terra che Dio ti darà da abitare acciocché tu non sia reo di sangue»; ed al numero 16 viene ordinato il modo onde provare i delitti, cioè co’ testimonj, e si prescrive che un solo testimonio non valga, qualunque sia il delit­to di cui si tratti, ma che due o tre testimonj facciano la prova com­pleta: Non stabit testis unus contra aliquem quidquid peccati et facinoris fuerit; sed in ore duorum aut trium testium stabit omne verbum. E un calunniatore dovrà comparire coll’accusato in faccia a Dio e de’ sacerdoti e giudici, i quali diligentissimamente scandaglieranno entrambi e, trovata la calunnia, lo puniranno della stessa pena che era dovuta al delitto falsamente imputato. Si steterit testis mendax contra hominem accusans eum prxvaricationis stabunt ambo quorum causa est ante Dominum in conspectu Sacerdotum et Judicum qui fuerint in diebus illis cumque diligentissime perscrutantes invenerint falsum testem dixisse contra fratrem suum mendacium reddent eisicut fratrisuo facere cogitavit et auferes malum de medio tui ut audientes ceteri timorem habeant (ecco il vero e unico fine delle pene, e tutt’i secreti tormenti del carcere non l’ottengono) et nequaquam talia audeant facere. Non misereberis eius sed animam pro anima, oculum pro oculo, dentem pro dente, manum pro manu, pedem pro pede exiges. Tale fu la legislazione criminale del popolo ebreo, dove il delitto si provò co’ testimonj e la contraddizione fra l’accusatore e il reo con una diligentissima ricerca de’ giudici, non mai cogli spasimi della tortura. Che mai potranno dire i fautori della tortura, che la credono necessaria al buon governo del popolo? Il sommo legislatore avrebbe egli tralasciato un oggetto di buon governo per il suo popolo eletto? Sa­ranno gli uomini sotto la legge di grazia da trattarsi più duramente che sotto la legge scritta? Sono forse i popoli di questi secoli più induriti e bisognosi di giogo di quello che lo erano gli Ebrei? Troviamo noi Cristiani nel Vangelo qualche seme onde incrudelire co’ no­stri fratelli? Il solo giudizio che Cristo pronunziò durante il corso della sua vita fu per assolvere la donna che si voleva lapidare; e i Cristiani che sono imitatori, o debbon esserlo, della vita paziente, benefica, umana, e compassionevole del Redentore scrivono i trattati per tormentare colle più atroci e rafinate invenzioni i loro fratelli! La contradizione è troppo evidente. Ritorniamo alla antichità.

Presso de’ Greci egualmente che presso de’ Romani fu sconosciuto l’uso della tortura per gli uomini. Non parlo degli schiavi, i quali nel loro sistema non si consideravano come persone ma semplicemente come cose, in guisa che si vendevano, si uccidevano, si mutilavano colla padronanza e libertà medesima colla quale si fa d’un giumento, senza che le leggi limitassero la padronanza sopra di essi. La tortura si dava ai servi ossia schiavi ma non ai cittadini e agli uomini. Se fosse male o ben fatto il degradare una porzione della umanità a segno de’ giumenti, io non ardirei di decidere. Quelle due nazioni sono state le nostre maestre, la loro grandezza tuttora ci fa maraviglia, non siamo giunti a pareggiare la loro coltura e da un canto solo d’inconveniente mal si giudicherebbe del tutto insieme e della connessione necessa­ria che un disordine parziale talvolta tiene colla perfezione generale del sistema. So che quando in uno stato si voglia tenere una classe d’uomini annientata sotto l’arbitrario potere della nazione, ogni cosa che avvilisca e degradi quella classe sarà conforme al fine politico. Mi trovo al punto medesimo sul quale fu l’immortale Presidente di Montesquieu e non saprei dir meglio che servendomi delle di lui parole: Tant d’habiles gens et tant de beaux génies ont écrit contre l’usage de la torture que je nose parler après eux. J’allois dire quelle pourroit convenir dans les Gouvernemens Despotiques, où tout ce qui inspire la crainte entre dans les ressorts du Gouvernement; j’allois dire que les esclaves chez les Grecs et chez les Romains … mais j’entens la voix de la nature qui crie contre moi, così egli (Espr. des loix liv. vi ch. xvii). Che i Greci non usassero tormenti contro i cittadini si scorge in Lisias Orat. in Argorat. e Curius Fortunatus Rhetor Schol. lib. 2, e per i cit­tadini Romani dalla stessa legge 3 e 4 ad L. Jul. Majestatis, dopo che la libertà di Roma fu soggiogata e piantata la tirannia, veggonsi esen­tate dalla tortura le persone di nascita, dignità, o servigi militari. Durante però la Repubblica unicamente gli servi erano sottoposti a questo strazio non mai gli uomini figli della patria e aventi una per­sonale esistenza; quindi la legge xxvii alla l. Julia de Adult. § 5 dice che liber homo tortus non ut liber sed ut servus existimatur. Veggasi Salustio in Catilin. che pure attesta che le leggi Romane proibivano il dare la tortura agli uomini liberi. Quindi Cicerone nella sua ora­zione Pro Silla esclama contro la insolita tirannia minacciata: Quaestiones nobis servorum et tormenta minitatur.

§ 13. Come siasi introdotto l’uso di torturare ne processi criminali

La corruzione del sistema di Roma produsse l’uso della tortura: concentrate nella sola persona degl’Imperatori le principali dignità di con­sole, tribuno della plebe, e pontefice massimo, s’annientò la repub­blica e si formò il governo dispotico, collocandosi nell’uomo medesimo il supremo comando dell’Armata, la presedenza al senato, il dritto di rappresentare la plebe, e quello di presedere alle cose sacre, agli augurj ed a quanto moveva le opinioni del popolo. Se in Venezia lo stes­so uomo fosse Comandante delle Armi, Doge, Avogador, Inquisito­re di Stato e Patriarca, sarebbe abolita la Repubblica al momento senza alcun cambiamento di sistema: così accadde a Roma. Dapprin­cipio Cesare, poi Augusto rispettarono la memoria della libertà che era recente nell’animo de’ Romani, poi gradatamente s’indebolì quel­la, si spanse con minor ritegno il natural desiderio ne’ dispoti di avere una illimitata potenza su tutto, quindi si procurò di rendersi ben af­fetta la plebe co’ donativi, cogli spettacoli, colla abondanza dell’annona, e coll’avvilire le cospicue famiglie consolari, e così consolando la plebe colla umiliazione de’ nobili, l’orgoglio de’ quali le era di peso, ebbero la politica di formarsi il più numeroso partito in favore e, fa­cendo causa comune il principe colla plebe contro i nobili, rapironsi le sostanze dagli opulenti impunemente, onde bastare al lusso ca­priccioso del principe ed alla scioperata indolenza della plebe roma­na, si annientò quel numero di famiglie le quali sole potevano servire di argine alla tirannia col loro credito e colle ricchezze e rimase un go­verno in cui uno era tutto e il restante, posto a bassissimo livello, di nessun inciampo potè essere alle voglie illimitate del despota. Tale è il principio che fondò l’impero Romano. È dunque conforme a tal principio che si degradassero i nobili e i cittadini e si pareggiassero ai servi, e quindi la tortura usata per questi ultimi soli durante i tempi felici di Roma fosse dilatata, a misura che la tirannia si rassodava anche ai liberi. Quindi Emilio Fervetti assicura che non invenies ante Diocletianum et Maximianum Imperatores quxstionem unquam habitam fuisse de homine ingenuo. V’è chi asserisce che al tempo di Carlo Magno venisse nuovamente stabilito che gli uomini liberi ne fossero esenti. Certa cosa ella è che nessuno scrittore si trova, a quanto so, il quale abbia trattato con un metodico esame del modo di tormentare i rei prima del secolo XIV: il che fa conoscere che non si risguardava la tortura come essenziale ai giudizi criminali. Dopo quel tempo vennero gli scrittori criminalisti, i quali, se avessero scritto in una lingua meno barbara, farebbero ribrezzo a chiunque si pregia d’avere una porzione d’umanità nel cuore. Allora fu che, usciti gli uomini dalla ignoranza, si occuparono faticosissimamente nell’addestrarsi fra un inviluppo di opinioni e di parole e che su i rottami delle opinioni Gre­che, Arabe, ed Ebree si eressero le università, nelle quali gravemente colle opinioni Platoniche, Peripatetiche, e Cabalistiche unite ai dettati di Avicenna e di Avroe s’imparò a delirare metodicamente in me­tafisica, in fisica, in medicina, in Giurisprudenza e in tutte le altre facoltà. Vennero poi il Claro, il Girlando, il Tabor, il Giovannini, il Zangherio, l’Oldekop, il Capzovio, il Gandino, il Farinaccio, il Gornez, il Menocchio, il Bruno, il Brunoro, il Carerio, il Boerio, il Cumano, il Cepolla, il Bossio, il Bocerio, il Casonnio, il Cirillo, il Bonacossi, il Brusato, il Follerio, l’Iodocio, il Damoderio e l’al­tra folla di oscurissimi scrittori celebri presso i criminalisti, i quali, se avessero esposto le crudeli loro dottrine e la metodica descrizione de’ rafinati loro spasimi in lingua volgare e con uno stile di cui la rozezza e la barbarie non allontanasse le persone sensate e colte dall’esaminarli, non potevano essere risguardati se non coll’occhio me­desimo col quale si rimira il carnefice, cioè con orrore e iniominia.

Forse la metodica introduzione de’ tormenti accaduta dopo il seco­lo XI trae la sua origine dallo stesso principio che fece instituire i giudizj di Dio; quando cioè vollesi interporre con una spensierata te­merità il giudizio dell’eterno motore dell’universo nelle più frivole umane questioni; quando cioè col portare un ferro arroventito in mano, ovvero coll’immergere il braccio nell’acqua bollente e talvol­ta coll’attraversare le cataste di legna ardenti si decideva o l’innocenza o la colpa dell’accusato. In quella barbarie di tempi si credet­te che l’Essere eterno non avrebbe sofferto che l’innocenza restasse oppressa e che anzi l’avrebbe sottratta al dolore e ad ogni danno; quasi che per le piccole nostre questioni dovesse Dio sconvolgere le leggi fisiche da lui medesimo create ad ogni nostra richiesta. Scema­ta poi col tempo la grossolana ignoranza, sentirono i popoli la irragionevolezza di tai forme di giudizio e quelle del ferro, dell’acqua bollente, e del fuoco, ferendo gli sguardi della moltitudine perché fatte con solennità in pubblico e precedute dalle più auguste cerimonie, dovettero cedere e annientarsi a misura che progredì la ragione, laddove, esercitandosi le torture nel nascondiglio del carcere senz’altri testimonj che il giudice, gli sgherri e l’infelice, non trovarono ostacolo al perpetuarsi, essendo per lo più incallita la naturale compassione in chi per mestiero presiede a quelle metodiche atroci­tà, deboli i lamenti di quei che ne hanno sopportato l’orrore, e rari gli uomini i quali riunendo le cognizioni all’amore della umanità ab­biano avuto la costanza di esaminare un sì lugubre oggetto colla let­tura de’ più rozzi e duri scrittori di tal materia e la forza di resistere al ribrezzo che porterebbe a lasciar cadere più volte la penna dalle mani.

Comunque siasi, della vera origine da cui emani la nostra pratica criminale egli è certo che niente sta scritto nelle leggi nostre nè sulle persone che possono mettersi alla tortura, nè sulle occasioni nelle quali possano applicarvisi, nè sul modo da tormentare, se col fuoco, col dislogamento e strazio delle membra, nè sul tempo per cui duri lo spasimo, nè sul numero delle volte da ripeterlo: tutto questo stra­zio si fa sopra gli uomini coll’autorità del giudice unicamente ap­poggiato alle dottrine dei criminalisti citati. Uomini adunque oscuri, ignoranti e feroci, i quali senza esaminare d’onde emani in dritto di punire i delitti, qual sia il fine per cui si puniscono, quale la norma onde graduare la gravezza de’ delitti, qual debba essere la propor­zione fra i delitti e le pene, se un uomo possa mai costringersi a ri­nunziare alla difesa propria, e simili principj dai quali intimamente conosciuti possono unicamente dedursi le naturali conseguenze più conformi alla ragione ed al bene della società, uomini dico oscuri e privati con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemen­te pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini con quella tranquillità medesima colla quale si descrive l’arte di rimediare ai mali del corpo umano, e furono essi obbediti e considerati come legislatori, e si fece un serio e placido oggetto di studio, e si accolsero nelle librerie legali i crudeli scrittori che insegnarono a sconnettere con in­dustrioso spasimo le membra degli uomini vivi e rafinare colla len­tezza, colla aggiunta di più tormenti, onde rendere più desolante e acuta l’angoscia e lo esterminio. Tai libri, che avrebbero dovuto con ragione ricoprire i loro autori d’una eterna iniominia e che, se fosse­ro in lingua volgare e comunemente letti più che non sono, o fareb­bero orrore alla nazione, ovvero spegnendo in essa i germi di ogni umana virtù, la compassione e la generosità dell’animo, la precipiterebbero nuovamente verso il secolo di barbarie e di ferro, tai libri, dico, presero fralla oscurità credito, e venerazione acquistarono pres­so gli stessi Tribunali e, sebbene mancanti dell’impronto della facol­tà legislativa e meri pensamenti di uomini privati, acquistarono forza di legge, legge illegittima in origine, e servono tuttavia per esterminio de’ sospetti rei anche nel seno della bella, colta, e gentile Italia, madre e maestra delle belle arti anche nella piena luce del secolo XVIII, tanto difficil cosa è il persuadere che possano essere stati bar­bari i nostri antenati e rimovere una antica pratica per assurda ch’el­la possa essere.

§ 14. Opinione d’alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura ed usi odierni d’alcuni stati

Nè mancarono di tempo in tempo uomini illuminati che apertamente mostrarono la disapprovazione loro all’uso della tortura. Veggasi Cicerone nella citata orazione Pro Silla egli chiaramente dice: Illa tormenta moderatur dolor, gubernat natura cujusque tum animi tum corporis, regit quaesitor, flectit livido, corrumpit spes, infirmat metus, ut in tot rerum angustiis nihil veritati locus relinquatur. «La tortura è do­minata dallo spasimo, governata dal temperamento di ciascuno sì d’animo che di membra, la ordina il giudice, la piega il livore, la cor­rompe la speranza, la indebolisce il timore, cosicché fra tante angosce nessun luogo rimane alla verità». Così Cicerone parlava della tortura, sebbene co’ soli servi venisse allora costumata. Veggasi Sant’Agostino 2 (nel lib. 19 c. 6 de Civitate Dei) dove tratta dell’errore degli umani giudizj quando la verità è nascosta, de errore humanorum judiciorum dum veritas latet, ove chiaramente disapprova l’uso della tortura. «Men­tre si esamina se un uomo sia innocente, si tormenta, e per un delitto incerto dassi un certissimo spasimo, non perchè si sappia che sia reo il paziente ma perchè non si sa se sia reo, quindi l’ignoranza del giudice ricade nell’esterminio dell’innocente». Dum quaeritur utrum sit innocens cruciatur, et innocens luit pro incerto scelere certissimas poenas, non quia illud commisisse detegitur sed quia commisisse nescitur ac per hoc ignorantia judicis plerumque est calamitas innocentis. Quintiliano pure (Instit. Orat. lib v cap. iv) accenna la disputa che eravi fra quei che sostenevano che la tortura è un mezzo di scoprire la verità e quei che insegnavano esser questa la cagione di esporre il falso poichè i pazienti tacendo mentiscono, e i deboli sforzatamente menti­scono parlando. Sicut in tormentis qui est locus frequentissimus cum pars altera quaestionem vera fatendi necessitatem vocet, altera saepe etiam caussam falsa dicendi, quod aliis patientia facile mendacium faciat aliis infirmitas necessarium. Su tal proposito Seneca dice etiam innocentes cogit mentiri dolor «il dolore sforza anche gl’innocenti a mentire». Valerio Massimo (lib. III cap. III e lib. VII cap. IV) tratta pure della tortura disapprovandola. Principalmente poi il Vivis nel Comentario al citato passo di S. Agostino detesta la pratica della tortu­ra ampiamente; io però ne riferirò soltanto parte: «Io mi maraviglio, dice quest’autore, che noi Cristiani riteniamo tuttavia delle usanze gentilesche e ostinatamente le difendiamo, usanze non solamente op­poste alla carità cristiana ma alla stessa umanità». Miror Christianos homines tam multa gentilia et ea non modo charitati et mansuetudini christianae contraria sed omni etiam humanitati mordicus retinere, indi soggiugne: «Qual è mai questa pretesa necessità di tormentare gli uomini, necessità deplorabile e che se fosse fattibile dovrebbe con un rivo di lacrime cancellarsi se la tortura non è utile, anzi se ne può far senza, nè perciò ne verrebbe danno alcuno alla sicurezza pubblica? e come vivono adunque sì gran numero di nazioni anche barbare come le chiamano i Greci ed i Latini, le quali nazioni credono feroce e orrenda cosa torturare un uomo della di cui reità si dubita? … Non ve­diamo noi ben sovente degl’infelici che incontrano la morte anzi che poter sopportare lo spasimo e si accusano d’un delitto non commes­so, certi del supplizio, per evitare la tortura? In vero debbe aver l’ani­mo da carnefice chi può reggere alle lacrime, ai gemiti, alle estreme an­gosce espresse dallo spasimo d’un uomo che non sappiamo se sia reo. E una così acerba, così iniqua pratica lasciamo noi che domini sul capo di ciascuno di noi!». Quae est enim ista necessitas tam intolerabilis et tam plangenda etiam si fieri posset fontibus lacrymarum irriganda si nec utilis est, et sine damno rerum publicarum tolli potest? Quomodo vivunt multae gentes et quidem barbara, ut Graeci et Latini putant, quae ferum et immane arbitrantur torqueri hominem de cujus facinore dubitatur … an non frequentes quotidie videmus qui mortem perpeti malint quam tormenta, et fateantur fictum crimen de supplicio certi ne torqueantur? Profecto carnifices animos habemus qui sustinere possumus gemitus et lacrymas tanto cum dolore expressas hominis quem nescimus sitne nocens. Quid quod acerbam et perquam iniquam legem sinimus in capita nostra dominari. Nè fra i criminalisti medesimi mancò mai un numero di uomini più ragionevoli e colti che dete­starono l’uso de’ tormenti; così lo Scalerio, il Nicolai, Ramirez de Prado (Pentecontarchos cap. 9), Segla (nota 36 a una sentenza del Parlamento di Tolosa), Rupert. (cap. 4 lib. VII), il Weissenbac, il Weissenbecio e simili; l’ultimo (Oecon D.h.t.) chiama la tortura «una invenzione diabolica portata dall’inferno per tormentare gli uomini»: inventum diabolicum ad excruciandos homines de tormentis infernalibus allatum e il Mattei nel suo trattato de Criminibus (Tit. De quaestionib. cap v) ha scritto contro l’uso de’ tormenti, e il Tommasi (ne’ Program. num.° 27) dice che «onestamente confessa che la tortura è cosa iniqua e indegna di un popolo cristiano» iniquam esse torturam et christianas Respublicas non decentem cordate assero. Finalmente un trattato compito scrisse su tal argomento Gio. Grevio col titolo Tri­bunal reformatum in quo sanioris et tutioris Justitiae via judici christiano in processu criminali commonstratur rejecta et fugata tortura cujus iniquitatem et multiplicem fallaciam atque illicitum inter Christianos usum libera et necessaria dissertatione aperuit Johannes Grevius ec.

Da questa serie di autorità sembra bastantemente chiaro il torto di coloro che asseriscono che sia un nuovo ritrovato de’ moderni filosofi l’orrore per la tortura; essi non possono aspirare a questa gloria d’aver i primi sentita la voce della ragione e della umanità su di tale proposito, ma tanto è antica la contraddizione a questa barbara costumanza quanto lo è antico il ragionare e l’aborrire le inutili crudeltà. Io non citerò adunque alcuno de’ moderni filosofi, contento di avere allegate le autorità di Cicerone, di S. Agostino, di Quintiliano, di Valerio Massimo e degli altri; resta finalmente da conoscere se quello che potè praticarsi presso la Repubblica degli Ebrei, presso la Grecia e presso Roma sia eseguibile ancora ai tempi nostri. Io su tal proposito citerò uno squarcio di quello che il Re di Prussia ha scritto nella Dissertazione sopra i motivi di stabilire o d’abrogare le leggi. «Mi si perdoni, dice il Reale autore, se alzo la voce contro la tortura, ardisco assumere le parti della umanità contro di una usanza indegna de’ Cristiani, indegna d’ogni nazione incivilita e tanto inutile quanto crudele. Quintiliano, il più saggio e il più eloquente retore, guarda la tortura come una prova di temperamento: uno scelerato robusto nega il fatto, un innocente gracile se ne accusa. È accusato un uomo, vi sono degl’indizj, il giudice vuol chiarirsene: si pone lo sgraziato uomo alla tortura; s’egli è innocente, qual barbarie è ella mai l’aver­gli fatto soffrire il martirio! Se la violenza del tormento lo sforza ad accusare se stesso indebitamente, e quale detestabile inumanità è ella mai quella di opprimere cogli spasimi i più violenti e condannare poi al supplizio un cittadino virtuoso? Sarebbe men male lasciar impu­niti venti colpevoli di quello che lo è il sacrificare un innocente. Se le leggi vengono stabilite per il bene de’ popoli, come è mai possibile che si tolerino di tali che prescrivono ai giudici di commettere meto­dicamente delle azioni tanto atroci e che ributtano la stessa umanità? Sono già otto anni (allora che il Re scriveva, ora saranno trenta) dacchè la tortura è abolita in Prussia; siamo sicuri di non confondere il reo coll’innocente, e la giustizia non perciò ha ella perduto punto del suo vigore.» Qu’on me pardonne si je me récrie contre la question. J’ose prendre le parti de l’humanité contre un usage honteux à des Chrétiens et à des peuples policés, et j’ose ajouter contre un usage aussi cruel qu’inutile. Quintilien le plus sage et le plus éloquent des rhéteurs dit en traitant de la question que c’est une affaire de tempérament: un scélérat vigoureux nie le fait, un innocent d’une complexion faible l’avoùe. Un homme est accusé, il y a des indices, le juge est dans l’incertitude, il veut s’éclaircir: ce malheureux est mis à la question; s’il est innocent quelle barbarie de lui faire souffrir le martire! Si la force des tourmens l’oblige à déposer contre lui-même quelle inhumanité épouvantable que d’exposer aux plus violentes douleurs et de condamner à la mort un citoyen vertueux contre le quel il n’y a que des soupgons! Il vaudroit mieux pardonner à vingt coupables que de sacrifier un inno­cent. Si les loix se doivent établir pour le bien des Peuples faut-il qu’on en tolère de pareilles qui mettent les juges dans le cas de commettre méthodiquement des actions criantes qui révoltent l’humanité? Il y a huit ans que la question est abolie en Prusse; on est sur de ne point confondre l’innocent et le coupable, et la Justice ne s’en fait pas moins.

Così parla, così attesta uno de’ più grandi uomini che sta sul trono. In Prussia, nel Branderburghese, nella Slesia e in ogni parte della dominazione Prussiana non si dà più tortura di veruna sorte e la giustizia punisce i rei e la società vi è sicura.

Nell’Inghilterra già da molto tempo non si tolera più la tortura: la legge condanna a un genere di morte il reo che ricusa di rispondere al giudice; questa si chiama la peine forte et dure, ma a torto chiamerebbesi tortura, poichè termina colla morte, e non è veritatis indagatio per tormentum; veggasi sul proposito dell’Inghilterra il Barone di Bielfeld (Institut. Politiqu. Tom. i Chap. vi § 34): «Dacché la sperienza fa vedere che nell’Inghilterra e nella Prussia i delitti si disco­prono e si puniscono, che la giustizia si esercita e la società non ne soffre, ella è cosa quasi barbara il non abolire l’uso della tortura. Chiunque ha viscere ed abbia una volta veduto commettere una tal violenza alla natura umana non può cred’io essere d’un parere di­verso»; così egli: Depuis quon voit en Angleterre et en Prusse que tous les crimes se découvrent, qu’ils sont punis, que la justice est rendue, que la société nen souffre point, il est presque barbare de ne pas abo­lir l’usage de la question. Quiconque a des entrailles et a vu une fois faire cette violence à la nature humaine ne sauroit s’empècher je pense d’etre de mon sentiment. Che nell’Inghilterra sia affatto abolita la tortura lo attesta anche il Presidente di Montesquieu (Espr. des loix. lib. VI cap. XVII e lib. XXIX cap. XI). Anche nel Regno della Svezia non si usano torture se crediamo a Ottone Tabor (De Tortura et indiciis delictor. tom. 2 § 18). Negli stati di Sua Maestà Imperiale Reale Apostolica, ne’ Regni d’Ungheria, di Boemia, nell’Austria, nel Tirolo ec. per una ordinazione degna del regno dell’Augusta Maria Teresa, nel­l’anno 1776 restò abolito l’uso della tortura, e sulla fine dell’anno medesimo un così umano regolamento promulgossi nella Polonia con una legge che comincia così: La costante sperienza dimostra quanto sia vizioso il mezzo impiegato in varj processi criminali per venire in cognizione della verità mediante la tortura e nell’istesso tempo quanto sia cosa crudele il farne uso per provare l’innocenza; quindi se ne abo­lisce la pratica e si prescrive che si debbano adoperare i soli mezzi di convinzione.

Vi sono stati e vi sono tuttavia alcuni i quali per ultimo rifugio ricorrono alle locali circostanze del Milanese ed asseriscono non potersi far senza della tortura presso della nostra nazione; incautamen­te al certo e per soverchia venerazione agli usi trapassati in tal guisa calunniamo la nostra Patria, quasi che i cittadini nostri d’indole oltre modo feroce e maligna con altro miglior mezzo non si potessero con­tenere se non trattandoli con atrocità e degradandoli all’essere di schiavi; quasi che i principj di virtù e di sensibilità fossero talmente spenti nel nostro popolo che quei mezzi che bastano presso le altre nazioni fossero insuficienti per noi! Io ben so che chi fa la eccezione non riflette alle conseguenze che pure immediatamente ne emanano.

Chiunque conosce la nostra Patria e i nostri concittadini ne ha una idea ben diversa: risovengasi ciascuno dell’epoca non molto rimota quando, [essendo] la nostra benefica e immortale Sovrana la Augu­sta Maria Teresa in pericolo di soccombere al vajuolo, stavano aper­te le chiese alle pubbliche preghiere; allora fu che ogni ceto di per­sone, artigiani, contadini, nobili, plebei tutti posposti gli uffici loro, a pie’ degli altari singhiozzando offrivano voti all’Onnipossente per conservare i preziosi giorni d’una Sovrana alla quale la virtù, la beneficenza e il dovere hanno guadagnato i cuori sensibili. I teneri e spontanei movimenti della moltitudine che non poteva essere mossa da verun fine politico bastano a provare il sentimento di bontà e di rettitudine che è comunemente piantato ne’ cuori. No, non si dica che i Milanesi sieno una eccezione odiosa della regola.

§ 15. Alcune obbjezioni che si fanno per sostenere l’uso della tortura

Ma come costringeremo noi a rispondere un uomo che interrogato dal giudice si ostina al silenzio, se non abbiasi il mezzo di costrin­gerlo co’ tormenti? Gl’Inglesi medesimi, che si citano per abolire la tortura, in tal caso la costumano. Ma a ciò si risponde che è vero che gl’Inglesi nel solo caso in cui si ricusi di rispondere al giudice usano la pena forte e dura, siccome essi la chiamano, la quale termina colla morte, lasciando cadere un pesantissimo sasso a schiacciare intera­mente il contumace; ma questa non può chiamarsi tortura ma bensì supplizio, al quale talvolta preferirono alcuni di soccombere anzi che essere giudicati rei di un delitto che portasse la confisca de’ beni oltre la morte, sendo che le leggi del Regno non permettono che il fisco si approprj i beni di chi morì colla pena forte e dura, e in tal guisa l’amore de’ congiunti indusse alcuni a preferire il silenzio e questa pena. Si dice dippiù che forse gl’inglesi hanno conservata una porzione dell’antica barbarie col non abolire anche la pena forte e dura, poichè, se nelle liti civili le leggi condannano il contumace reo a seconda delle ricerche dell’attore, bastava portare alle procedure cri­minali quello stesso metodo e, risguardando il contumace a rispon­dere come reo confesso, condannarlo a norma delle leggi; così sarà tolta ogni necessità di tormentare o chi non risponde ovvero chi non risponde approposito. Se il prigioniere sarà ammonito più e più volte che il suo silenzio avrà luogo di confessione de’ delitti per i quali viene processato, non vi sarà dubbio che si trovi chi ostinatamente cerchi di perdere se medesimo.

A questo passo replicano i sostenitori della pratica attuale: noi non abbiamo la legge che ci autorizi a condannare come convinto l’uomo che si ostina al silenzio o alla inconcludente risposta. Su di che essi hanno ragione di sostenere che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualora contempora­neamente non venisse promulgata l’altra che dichiarasse convinto il contumace.

La nostra pratica criminale è veramente un labirinto d’una strana metafisica. Si prende prigione un uomo che si sospetta reo di un delitto. Quest’uomo cessa in quel momento d’avere una esistenza personale. Egli è un essere ideale posto nelle mani del Fisco, il quale lo interroga, lo inviluppa, lo spreme, lo tormenta, sinché o colle contraddizioni, o colle incoerenze, ovvero colla confessione del delitto smunta col tedio del carcere, colla miseria, e colle torture possa il Fisco aver tratto da lui medesimo abbastanza per citarlo in giudizio.

Fatte tutte queste lunghe e crudeli procedure, nel qual tempo non è permesso al reo di essere assistito o difeso, ecco il fisco che lo cita e lo costituisce avanti il giudice reo del tal delitto. Ne’ paesi più illuminati, in vece, si prende una strada più breve e naturale. Appena posto in carcere il sospetto uomo, nel primo esame si considera cominciare il giudizio. Gli si pone in faccia il motivo per cui si sospetta reo; gli accusatori gli si pongono davanti, se ve ne sono. Se gli cerca ragione o discolpa, e così facilmente e per una via più chiara, placida, e regolare, si termina ogni processo. Così si fa ne’ processi militari e così si pratica ne’ due reggimenti milanesi composti certamente di soldati, i quali non sono scelti nè fra i più virtuosi nè fra i più sem­plici del popolo, e i delitti celermente sono puniti e v’è una fondata idea della rettitudine de’ giudizi ne’ consigli militari.

Come mai, dicono gli apologisti della tortura, come mai indurremo un reo a palesare i complici senza il mezzo della tortura? Tutte que­ste obbjezioni sono in fatti una perenne supposizione di quello che è il soggetto appunto della questione. Si suppone che la tortura sia un mezzo per rintracciare la verità. Ma anche prescindendo da que­sto si risponde che un uomo che accusa se medesimo non avrà diffi­coltà di nominare ordinariamente i complici; che un uomo che nega il delitto non gli può nominare senza accusare se stesso; che finalmente per volere saper tutto e scrivere tutta la serie della vita d’un uomo e de’ delitti che ha commessi o veduti commettere, ordinaria­mente si riempiono le prigioni di tanti disgraziati e si vanno protraendo a somma lentezza i processi. È men male l’ignorare un complice e il punire sollecitamente un reo di quello che sia, dopo averlo lasciato languire nello squallore del carcere per mesi ed anni, punire più uomini d’un delitto di cui nessuno ha più memoria, cosicché altro non vede il popolo che la isolata atrocità che eseguisce solennemente il carnefice.

Supponiamo che l’imperator Giustiniano fosse stato obbedito dai posteri. Egli radunò le leggi sparse, le opinioni de’ più accreditati giureconsulti romani, le decisioni del Senato, quelle del popolo, e restringendo tutto quello ch’ei credè utile e buono dalla sterminata mole de’ libri, ne fece compilare il Codice e le Pandette, nelle quali tutto il corpo della legislazione si conteneva, proibendo decisamente che alcuno più non osasse farvi comenti o scrivere per interpretarle. Se ciò fosse stato eseguito, come mai faremmo noi i giudizj criminali? Nessuna legge vi è per ammortizare civilmente il prigioniero, per torturarlo, per farlo poi rivivere dopo scritto il processo. Se non vi fossero stati il Claro, il Bossi, il Farinaccio e gli altri che dissopra ho nominati, non si prenderebbe prigione alcun cittadino, se non vi fossero gravi sospetti della di lui reità. Questi o nascono da testimonj che l’accusano d’un delitto, ovvero dalla vita sfaccendata e sospetta che mena, ovvero dalle spese che fa senza che se ne veda il come, ovvero da inimicizia violenta e minacce contro un uomo che fu offeso, e simili. Poi si condurrebbe il prigioniere avanti non a un solo ma a molti destinati a giudicarlo, verrebbe allo stesso francamente posto in faccia il sospetto e i motivi, si interrogherebbe, se si tratta d’un omicidio o furto, a giustificare dove egli abbia passate le ore nelle quali fu commesso il delitto; se d’un furto, come egli abbia il denaro che se gli è trovato, e così a ciascun caso, e in poche ore si conosce­rebbe se veramente il prigioniere sia reo ovvero innocente. Questo è il metodo che verrebbe usato, se nella giustizia criminale si osservas­sero le sole leggi e non una pratica fondata illegittimamente sulle private opinioni d’alcuni oscuri e barbari scrittori. Tale è il metodo de’ processi nella Gran Bretagna, ove altresì l’uomo accusato ha due sommi vantaggi: uno cioè di essere giudicato da persone scelte fra i suoi pari e non incallite ai giudizi criminali, l’altro di poter ricusare un dato numero degli eletti per giudicarlo qualora abbia motivo di diffidenza. Tale parimenti è il metodo che si usa nel militare anche in Milano su i reggimenti italiani, e la giustizia fa rapidamente il suo corso senza che si lagni alcuno di tirannia e senza che si condannino come rei gl’innocenti, caso che non tanto di raro avviene quanto forse si crede.

§ 16. Conclusione

Io ben so che le opinioni consacrate dalla pratica de’ tribunali e tramandateci colla veneranda autorità de’ magistrati sono le più difficili e spinose a togliersi, nè posso lusingarmi che ai dì nostri sia per rifor­marsi di slancio tutto l’ammasso delle opinioni che reggono la giuri­sprudenza criminale; credono tutti quei che vi hanno parte che sia indispensabile alla sicurezza pubblica di mantenere la pratica vigente; la loro opinione, vera o falsa che sia, non pregiudica alla purità del fine che li move. Però conviene che gli sostenitori della tortura riflettano che i processi contro le streghe e i maghi erano egualmente come la tortura appoggiati all’autorità d’infiniti autori che hanno stampato sulla scienza diabolica, che la tradizione de’ più venerati uomini e tribunali insegnava di condannare al fuoco le streghe e i maghi quali ora si consegnano ai pazzarelli, dacchè è stato dimostrato che non si danno nè maghi nè streghe. Tutto quello che si può dire in favore della tortura si poteva, cinquant’anni sono, dire della magia.

Mi pare impossibile che l’usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere però lungo tempo ancora, dopo che si dimostra che molti e molti innocenti si sono condannati al sup­plizio per la tortura, ch’ella è uno strazio crudelissimo e adoperato talora nella più atroce maniera, che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimonj l’inferocire come vuole; che questo non è un mezzo per avere la verità nè per tale lo considerano le leggi nè i dot­tori medesimi, che è intrinsecamente ingiusta, che le nazioni cono­sciute dell’antichità non la praticarono, che i più venerabili scrittori sempre la detestarono, che s’è introdotta illegalmente ne’ secoli della passata barbarie e che finalmente oggigiorno varie nazioni l’hanno abolita e la vanno abolendo senza inconveniente alcuno.

 

NOTE

[1] Mentre scrivo nel 1777 vi è e attraversa la strada.

[2] Oggidì vi è una pianta di lauro che si vede assai antica e che sopravanza il muro del giardino. Nella casa non alloggia alcuno della famiglia Crivelli. Vi allog­giano i Sig.ri Cattaneo. Dai libri Parrocchiali di San Lorenzo si vede che si sono bat­tezzati dei figli di molte famiglie Crivelli dal 1623 al 1634; i padri di essi furono Vicenzo, Oliverio, Gianpietro, Andrea, Cristoforo, Gabriele, Gianpaolo, France­sco, Antonio, Lodovico, e Innocenzo, tutti Crivelli ammogliati, de’ quali si battez­zarono i figli.

[3] Anche oggigiorno in quel distretto vi abita Giuseppe Tradati colla madre ve­dova; ma, non essendo in casa propria e pagando pigione al S.r Ceriano proprieta­rio, non so se abbia niente di comune con quei che in que’ contorni alloggiavano un secolo e mezzo fa.

[4] È da notarsi che al giorno d’oggi se un frate ha affare con una donna lo è più alla sfuggita per modo che difficilmente potrebbe assicurarsi che il figlio possa nascere sia suo. Se ciò anche fosse non ardirebbe di riconoscerlo e il figlio non lo saprebbe. Conviene che allora il costume fosse più rilasciato.

[5] Comincia da pazzo ovvero da indemoniato.

[6] Un pazzo legato non potrebbe fare un dialogo più privo di senso di questo, e allora seriamente veniva scritto. L’unto malefico secondo il romanzo del Mora era di bava sterco e ranno, ora secondo il figlio del Frate Maganza era di serpenti rospi ec. nodriti di carne umana, e non si sapeva allora che questi animali non mangiano carni.

[7] Dialogo veramente da forsennato.

[8] A un sì strano e bestiale racconto conveniva di opporre alcune interrogazioni troppo necessarie. Chi ha detto a voi questa ricetta dell’unto, quando e dove? L’avete voi visto a fabbricare, dove e quando? A quai segnali conoscete voi quest’unto? Come sapete che l’abbia fatto il Baruello? Come sapete che sia mortifero, quai prove ne hai vedute? Come si maneggia senza pericolo? Tutto ciò si omise. Il fanatismo voleva trovare il reo dopo di avere immaginato il delitto.

[9] Risposta indiretta alla quale nemmeno si fece redarguizione.

[10] Pare una pomata odorosa che si dovesse dispensare.

[11] La risposta non ha a che fare colla interrogazione. Questi era un imbecille e non più. Così per diporto da una terra all’altra si divertiva maneggiando veleni a far morire gli uomini!

[12] E questi si chiamano luoghi sopra il Monzasco! Chi conosce la carta del Ducato ravviserà che sono in tutt’altra parte. Monza è al Nord di Milano, e i siti nominati sono verso l’Ovest.

[13] Si noti che dunque l’unguento lo ebbe dal Coltellinaio vicino al Ponte de’ Fabri; e in una carta, non più due scattolini.

[14] L’unto ora non l’ebbe più sopra la ripa del fosso di P. Ticinese vicino la casa del coltelljnaio ma lo ebbe nell’Offelleria delle sei dita.

[15] Se l’osteria del Gambaro allora era dove attualmente si trova, così discosto, era difficile l’assicurarsi che vi fosse tuttavia quella brigata.

[16] Per una burla. Che pazzie!

[17] E tutto per fare una burla! Questa è la narrativa di un furioso insensato.

[18] Ecco uno de’ rarissimi lampi di ragione che si vedono in questa tenebrosa pro­cedura.

[19] Il Cav.e di Padilla risulta dallo stesso processo che non fu aMilano che un giorno di volo la settimana santa e un altro di volo il giorno di san Pietro. Egli lo dice. Lo dicono tre suoi servitori esaminati: lo dice il Vedano esaminato. Risulta che nel rimanente fu sempre all’Armata verso Casale Mortara ecc. alla testa della sua compagnia. Dunque al principio di maggio non poteva essere a parlare col Mora vicino a San Lorenzo in Milano.

[20] Bella e verosimile ordinazione! Questa è veramente una commissione di leggiera importanza, e sopratutto facilissima ad eseguirsi! Questa proposizione si farebbe poi così di slancio a un padre di famiglia che vive onoratamente del suo mestiero! Si crederà ch’io mutili il reato, tanto è irragionevole.

[21] Appunto il pericolo da temere in ogni caso era d’aver compagni che lo sco­prissero.

[22] Dieci persone esaminate del Castello ed altri se conoscessero D. Pietro di Saragozza nessuno seppe dare indizio che fosse al mondo uno di questo nome, e il Cav.e di Padilla disse di non averlo mai inteso nominare.

[23] I due miserabili banchieri furono crudelmente torturati perchè dissero di non aver ricevuto quest’ordine e di non aver consegnato denaro alcuno. Ne’ loro libri non si trovò annotazione veruna; e si credette che dessero il denaro a chiunque si presentava col nome Padilla senza riceverne una quittanza.

[24] Il miserabile Vedano torturato col canape potè fra i spasimi reggere e in mezzo agli orrori sostenne di non ne sapere niente.

[25] Il Baruello, già condannato come dissi dissopra alla morte, avendo avuto l’im­punità se palesava il fatto e complici, dettò il suo romanzo e in esso vi era questa cena. Furono esaminate due donne dell’Osteria le quali dissero di non aver veduto il Vedano ma che però non vedevano tutti gli avventori.

[26] Poteva anche dire «perchè sono vivace»; il mestiero d’un maestro di spada non è di un naturale flemmatico. Nell’esame un costituto non può aver tranquillità molta.

[27] Era pubblica la diceria del S. Cav.e Padilla. Il Baruello gli aveva sostenuto il suo romanzo in faccia che lo faceva mediatore del trattato dell’unto. Era chiara l’impu­tazione.

[28] Per simili ricercate cavillazoni porre un uomo ai tormenti!

[29] Il suo modo di esprimersi era come si vede di ripetere le sue frasi come qui «non ho fallato non ho fallato», e sopra «Signor no Signor no ec.».

[30] Questa ligatura di canape era una matassa colla quale si cingeva il pugno della mano e torcevasi la mano e slogata affatto dall’osso del braccio si ripiegava sul brac­cio istesso.

[31] Pareva strano che resistesse a tal tormento e si credeva che avesse un talismano ne’ capelli, perciò si tosò.

[32] Solamente dal tempo che vi vuole a scrivere questo esame è facile il compren­dere quanto durasse l’orrore di questo strazio. È da notarsi che il tormento lo sof­friva anche deposto per la legatura che chiedeva si rilasciasse. È pure da notarsi quel avrà gusto: si credeva che avesse gusto a far impiccare e tanagliare. Che orrori!

[33] Anche qui ripete «non so che dire non so che dire» come sopra «vi darò gusto vi darò gusto»; era il suo modo di esprimersi.

[34] Questa è la più ingenua risposta possibile. Se gli suggeriva un romanzo, per fi­nirla lo creava.