Memorie sincere

Pietro Verri
MEMORIE SINCERE DEL MODO COL QUALE SERVII NEL MILITARE E DEI MIEI PRIMI PROGRESSI NEL SERVIGIO POLITICO [ca. 1764-1775]

Testo critico stabilito da Gennaro Barbarisi (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, V, 2003, pp. 17-152)

I. Vienna 14 Maggio 1759

Eccomi giunto. Ma quanta diversità dal correre la posta tranquil­lamente al cammino, e coll’itinerario in mano dire: «domani al tal sito, posdomani comodamente al tal altro»! Sedendo al fuoco agia­tamente, da Milano a Vienna vi si passa in sei o sette giorni. Io però nel Tirolo, nella Stiria e Carinzia ho incontrato delle difficoltà che sulla carta non erano scritte. La mattina al fare del giorno 5 di questo mese m’avete veduto partire, ora vi dico che non ho potuto giugnere a Vienna se non jeri, cioè il nono giorno di viaggio, e vi sarei giunto assai più tardi, se non avessi sacrificate quattro notti. La sera 3 del 5 dormii a Brescia, viaggiai tutto il giorno 6 e la notte, e dormii la sera del 7 a Bolzano. La mattina del giorno 8 partii, viaggiai di seguito tutta la notte e tutto il giorno 9 e la sera dormii a Lientz. Ripigliai il viaggio e lo proseguii anche la notte del giorno 10, nè riposai che la sera dell’undici a Villac, da dove non mi riposai che a Vienna ieri sera. Non mi è accaduto nessun accidente per viaggio, niente s’è rotto del mio biroccio, non era nemmeno pesante, giacché sapete che il mio equipaggio l’ho spedito in dirittura a Praga, non ho meco se non un pajo d’uniformi e la biancheria che mi bisogna il tutto rinchiuso in un mediocre baule. Non ho incontrata nè neve nè cattivo tempo che mi abbia fatto rallentare il corso, la colpa si deve unicamente a sei o sette postiglioni, dai quali sono stato mal servito. Sinchè sono stato nell’Italia, sino a Bolzano ho potuto andare lestamente; passato quel tratto di strada, talvolta mi sono capitati de’ vil­lani per postiglione, i quali poteva batterli, poteva caricarli di dena­ro, ma farli correre no. La posta prima di Braunech mi è costata una intera notte, nella quale avrei pure fatto saggiamente a dormire, se avessi potuto essere profeta! Quella disgraziata bestia che faceva il postiglione nemmeno aveva gli stivali, appena uscito dalla posta ricevè varie bastonate sulla gamba dal timone, dal quale non sapeva preservarsi, ciò gli rese impossibile lo starsene a cavallo, onde ci servì a piedi, e a piedi zopiccando. Ne ho bastonato alcuno, ma vi perdeva inutilmente anche questo incomodo, onde, abbandonando­mi pazientemente al destino, mi sono lasciato condurre come una cassa di mercanzia come e quando si poteva. Gli alloggi sono buoni, i letti morbidi, le stanze assai ben difese, e passabilmente si mangia, questo è quel poco di buono che ho trovato ne’ giorni scorsi, ma la maggior parte delle cose sulle quali mi è accaduto di volgere lo sguardo mi hanno fatto noja e tedio. Dopo passato il Veronese, s’in­golfa nel fondo d’una valle circondata da monti sterili e assai alti e quasi tutto il viaggio è in mezzo a sassoni pelati. Qualche cascata d’acqua di tratto a tratto fa piacere, ma abitualmente mi si stringe il cuore il non vedere mai l’orizonte. Talvolta anche la strada maestra nel Tirolo è sotto a un masso enorme, del quale si vedono i pezzi caduti, e ve ne pendono altri sul capo: non vi si passa senza qualche inquietudine. Gli uomini poi sono robusti, quadrati, ma assai meno vivi e sensibili dei nostri. Esibite un pugno di monete a un posti­glione italiano, perchè scelga da se stesso la sua buona mano, lo vedrete sorpreso, forse arrossirà, e o ricuserà di essere a un tempo stesso giudice e parte, ovvero sceglierà il giusto e consueto. Fate la medesima esibizione a un Tedesco, e vedrete che vi scoperà pulita­mente tutto il palmo della mano e sogghignando s’intascherà il tutto facendosi beffa di voi. L’Italiano ha più bisogni, conosce il bisogno della stima altrui, ne è geloso; il Tedesco oltre i bisogni fisici non ne conosce altri. Già altra volta sono stato in questo paese, ma era allora troppo giovine nè rifletteva sulla maggior parte degli oggetti. Vi dirò che sono stato sin ora poco contento della assistenza di Giuseppe. Sapete che a Milano la sua moglie gode l’intero salario, sapete che a lui ho fissato quattro zecchini al mese e sapete pure come io son fatto: egli stando con me non avrà da pensare nè al pranzo, nè alla cena, nè al vestito, onde quei quattro zecchini sono puramente per il suo divertimento. Mi pare che ogni altro servitore sarebbe grato e contento, ma costui è il più nojoso ipocondriaco, il più inetto compagno che si potesse scegliere. Dapprincipio gli con­segnai una dozzina di zecchini, acciocchè pagasse la posta; accade­va che erano già all’ordine e attaccati i cavalli senza che vi fosse modo da distanarlo dalla stanza ove si rinchiudeva per scrivere il suo conto. Sino a Brescia egli stette dietro il biroccio e non faceva che bestemmiare contro i postiglioni perchè correvano. Mi sono incaricato io di pagare le poste, l’ho preso meco nel biroccio e, per quan­to gli andassi predicando la discrezione, costui stava sedendo in mezzo al biroccio e mi comprimeva contro il fianco e quasi sempre sonnolento, mi cozzava, mi urtava; un pugno di tempo in tempo ch’io gli slanciava lo faceva rimettere in dovere, ma non passavano pochi minuti che eravamo da capo. Del meglio che era preparato per me io ne faceva divisione con questo mio Don Sancio, ho por­tata la umanità al segno che la mattina dopo viaggiata la notte, men­tre si cambiavano i cavalli, io discendeva e preparava io stesso il cioccolatte per due e, presane la mia porzione, usciva a custodire il biroccio facendolo esso entrare a ristorarsi dove tutto era preparato come se io fossi di lui cameriere. Costui non mi ha mai detta una parola di gratitudine e non mi riesce veramente che di peso e d’in­comodo. Non sa una parola di tedesco, e si ostina a credere che que­sti postiglioni per malizia non vogliono intenderlo. Basta, ne sono fuori di questa seccatura. Gli ho fatto i conti, egli non si sovviene di cinque zecchini che mancano al conto, ed io anche di questi non ne parlerò più. Voglio pur vedere se v’è modo di rendermelo affe­zionato, ma ne dubito assai: egli è troppo stolido e duro natu­ralmente per poterlo ridurre a sentire.

Ora si apre per me una nuova scena: debbo presentarmi al S.r Conte di Kaunitz e ottenere da lui una lettera per far la campagna al Quartier Generale. Il Marchese Clerici mi vorrebbe al Reggimento dove non avrei che noja senza conoscere niente di quanto mi può giovare. Giacchè per opera del S.r Conte di Kaunitz impensatamente sono stato fatto capitano, io spero che farà il resto. Al Reggimento non vi potrei stare che come volontario, giacchè la mia compagnia, come sapete, non è all’Armata; e, posto che debbo essere volonta­rio, mi conviene vivere in più buona compagnia e dove possa impa­rare in grande cosa è il mestiere della guerra. Vi terrò informato di quanto mi accaderà. Frattanto vi abbraccio ec.

II. Vienna 18 Maggio 1759

Il Marchese Visconti mi ha presentato al S.r Conte di Kaunitz. Questo Ministro non suole dare udienza ad alcuno privatamente, e il tempo di essergli presentati è o dopo che si alza da tavola ovvero la sera dopo il Teatro, quando entra nella sala della assemblea che si tiene nel suo palazzo. In questa sala fui condotto e presentato alla sorella del S.r Conte, la S.ra Contessa di Questemberg che fa gli onori di casa. Il Ministro ancora non v’era. La padrona di casa sta seden­do in mezzo ad un canapé, intorno v’è un circolo di dame e credo che osservino il rango nella distanza, le persone della primissima distinzione sedono a fianco della Contessa sul canapé. Tale è l’usan­za di questo paese, dove la padrona di casa, in vece di cedere il luogo più degno alle persone che vengono a visitarla, stassene per lo con­trario come sul trono a ricevere da esse gli omaggi. Feci un profon­do inchino, mi fu risposto con una piccola inclinazione di testa e tutto è finito. Eravi nella sala un vecchio a sedere, il Marchese m’av­visò che questi era il Maresciallo Neiperg e a lui mi presentò; fui accolto cortesemente e mi disse se andava all’Armata, risposi di sì. «Così va – disse – quando s’è giovane, si sta in moto e s’acquista della gloria, quando s’è vecchio come io lo sono, si sta a sedere ripa­rato dall’aria». Io gli risposi che, quando si era fatto un nome come quello di Neiperg, s’era ben acquistato il dritto di godere il riposo.

Replicò ringraziandomi della mia officiosità. Poco dopo comparve­ro nella sala due camerieri ed accesero quella porzione di candele che tuttora erano spente. «Questo è il segno – mi disse il Marchese – che il Conte sta per comparire». Anche questo mi colpì, come, accogliendo il Ministro in sua casa le persone le più distinte, non facesse compiere l’illuminazione che per se medesimo. Si aprì poi la porta per dove suole uscire il Ministro e tutti colà si rivolsero, si fece un generale silenzio nella sala e il Marchese mi fe’ cenno che lo seguissi e m’accostai a un circolo nel centro di cui stava il S.r Conte.

La di lui figura è veramente nobile e bella, si veste con molta ele­ganza, i moti suoi sono tutti pittoreschi ma peccano di studio e fecemi l’impressione d’un personaggio da Teatro. Parla varie lingue con somma grazia e colla più esatta pronunzia. Sembra un Francese o un Italiano ogni volta che cambj linguaggio. La fisonomia è dolce e previene sommamente; in ogni sua azione v’è un non so che di maestoso e ricercato che lo distingue. Quando ci fu dato, me gli accostai, ringraziandolo perchè mi avesse ottenuto l’onore d’essere al reale servigio come capitano e in oltre perchè col di lui mezzo avessi otte­nuto il permesso d’abbandonare l’Italia ove era destinato per fare la campagna all’Armata, in seguito soggiunsi che per colmo de’ suoi benefici implorava di poter essere assegnato al Quartier Generale.

Mi accolse con viso favorevole e mi disse che le buone informazioni avute di me dal Conte Cristiani avevano determinata Sua Maestà a così collocarmi e soggiunse: «Io poi avrò sempre piacere che mi si presenti occasione di giovarvi». Fui contento, ma non lasciò di farmi specie la confidenza di trattarmi col voi, avendo io anche la chiave di ciamberlano; m’accostai al Conte Arconati e gli chiesi se egli pure fosse dal Ministro trattato col voi e, inteso che ebbi questo essere il suo linguaggio con noi milanesi, mi posi il cuore in pace.

Il giorno dopo questa presentazione mi portai a casa del Maresciallo Neiperg, il quale essendo Presidente del Consiglio di guerra è il mio superiore. L’accoglienza cortese della sera precedente mi determinò a farlo volontieri. Mi feci annunziare nome, cognome, patria e qualità. Fui accolto. Era a sedere solo in una sala. Faccio una profonda riverenza, egli non si scuote ma m’interroga: «Chi è lei?» «Sono il tale», rispondo. «Che rango ha?» «Sono Capitano.»

«Di che Reggimento?» «Del Reggimento Clerici.» «Cosa vuole?» «Niente, fuor che fare un atto di rispetto con Vostra Eccellenza.» «Il Marchese Clerici cosa fa?» «Dei cattivi contratti», rispondo. «Perchè de’ cattivi contratti?» «Perchè ha speso a Roma cento mila scudi per riportare due cadaveri.» Questa mia risposta l’ha fatto smontare ed è entrato a schiarire cosa fossero i due cadaveri, io gli spiegai che il nuovo Papa gli ha fatto il solito dono destinato agli Ambasciatori Cesarei cioè due corpi santi i quali gli sono costati assai cari, e dopo qualche discreto tempo sono partito contento di me medesimo. Veramente l’accoglienza è stata strana dopo l’acca­duto la sera precedente e dopo d’essermi fatto annunziare. Ma qui un Italiano avvezzo alla officiosità e alla società delicata bisogna che deponga il pensiero nè d’essere inteso se adopera modi gentili, nè di riceverne. V’è qualche cosa di ferreo nel clima istesso e gl’italiani che per poco vi dimorino ne acquistano la scabrosità. Io ho osser­vato che gli uomini che dall’Austria vengono in Lombardia dap­principio sono assai duri ma poi si ammansano e s’ingentiliscono nel nostro paese.

Questa visita del Maresciallo non era per me la più importante, lo era bensì quella del S.r Barone Du Beyne, che è il Referendario degli affari d’Italia sotto il S.r Conte Kaunitz. Voleva prevenirlo della supplica fatta al Ministro per essere appoggiato al Quartier Ge­nerale e, ringraziando lui pure del passato, pregarlo a sollecitare la decisione, affine di potere sollecitamente andare al campo. Pregai il Damiani, che è l’agente de’ nostri Fermieri Generali, il quale mi presentò dal S.r Du Beyne. Questi ha l’aria veramente d’un ebreo ringentilito e la sua moglie pare una Rebecca, tutta la famiglia mi sembra mal sana, il Referendario è uomo d’una studiata civiltà automatica che tiene più al cerimoniale che alla cortesia dell’animo. Mi ha accolto assai bene, ma, avendogli il Damiani detto non so a qual proposito ch’io fossi dedito alla lettura, il Referendario mi ha chie­sto quai libri io avessi letti. Veramente una tal domanda è così impensata e imbarazzante che in riscontro gli dissi che il S.r Damiani mi faceva un onore che io non merito. Vedete s’io ho ragione di chiamare la civiltà sua un cerimoniale non una cortesia. Che giova a me che uno mi accompagni per più stanze con molte riverenze, quando mi pone indiscretamente nella scelta o di fare il ciarlatano colla lista de’ libri veduti da me o di fare la umiliante figura di un discepolo che va all’esame! Ma qui non se ne avvede chi fa di que­ste interrogazioni di essere inofficioso e conviene, come dissi, obliviscere populum tuum et domum patris tui e livellarsi alla meglio senza prendere in male delle sgarbatezze che vengono fatte non per offesa ma per mancanza di riflessione.

Il punto sta che bisogna guardarsi bene di non seccare il Ministro, perchè facilmente gli si diventa antipatico, e altronde io pure vorrei uscire dalla incertezza e avere la decisione se potrò o non potrò andare al Quartier Generale. La stagione è già avvanzata e non vor­rei che accadesse un fatto d’armi frattanto ch’io sono in Vienna. L’ordine generale di Sua Maestà è che non si ammettono volontarj al Quartier Generale, ma quest’ordine è emanato perchè nelle cam­pagne passate era troppo grande il numero de’ Moscoviti, Polacchi, ed ogni nazione di signori i quali, non essendo al servigio, facevano da volontarj appresso del Maresciallo Daun, che si trovò imbarazzato per i foraggi e viveri di questa inutile moltitudine. Io sono al servigio e su questo spero una eccezione in favor mio. Non costerà al Ministro che una lettera, avuta la quale parto. Frattanto io mi lascerò regolarmente vedere tutte le sere dal Ministro acciocchè si sovvenga di me senza ch’io lo importuni.

Ho preso un cameriere e un servitore e mi trovo meglio col lascia­re il bisbetico Giuseppe a custodire la casa. Subito che avrò mie nuove da darvi, le avrete. Vi abbraccio ec.

III. Vienna 25 Giugno 1759

Voi sarete maravigliato come lo sono io stesso dal ricevere anche sotto questa data mie nuove da Vienna. Vi avviso però che parto ed ho ottenuto di essere al Quartier Generale, almeno con probabilità, lo spero. Prima di dirvi come sia ciò accaduto vi dirò qualche cosa della vita e osservazioni che ho fatte su questo paese. Sono ammes­so in molte case; dove vivo con qualche piacere è da Mons. Nunzio Crivelli, buon uomo che ha buona tavola, che accoglie bene i suoi patrioti e dove si vive con discreta libertà, ha seco due nipoti che hanno buone maniere. Nelle altre case mi annojo, ma vi vado.

Generalmente questi Signori Austriaci ci guardano come provincia­li, come gl’inglesi risguarderebbero gli Americani loro sudditi. Un galantuomo di merito e modesto può guardarsi come perduto, non si accorgeranno mai che un uomo abbia cognizioni e spirito, s’egli medesimo sfrontatamente non glielo ripete, e non conviene ribut­tarsi per freddezza o sgarbo, ma instare, proseguire, farsi avanti e parlar ben alto, fermo e decisivo. Io vedo degli uomini ben dappoco che con questa scuola vengono festeggiati e ben accolti. A me non fa invidia alcuna il loro destino e non comprerò mai le distin­zioni con quest’arte. Passerò per un uomo comune e anche meno se si vuole, ma sarò sempre io stesso e non discenderò all’impostura. Ho osservato che in questa Dominante non vi sono forastieri di sorte alcuna se non quelli che per officio o speranza vi soffrono il soggiorno. Nella Italia in Toscana, a Napoli, a Roma ec. quanti fore­stieri vi soggiornano per puro genio di vivere in quella società piut­tosto che altrove; ma qui vengono degl’inglesi, Francesi e Italiani per poter dire d’esservi stati ne’ loro viaggi e dopo pochi giorni se ne vanno. Si credono di buona fede questi Austriaci superiori al restante dell’Europa, se ne eccettuate Parigi e Londra che hanno i loro partigiani anche qui. Quanto poi nelle Biblioteche sieno le opere d’ingegno prodotte in questo clima e da questi nazionali non saprei, non conosco un celebre pittore, non un architetto illustre che sia da annoverarsi fra gli Austriaci e nemmeno saprei se in tutta la Monarchia abbia la Casa d’Austria una città che sia paragonabile a Milano per ogni riguardo. Comunque sia, la opinione d’un paese non si affronta da un uomo solo, conviene soffrirsela in pace e sen­tirsi di riverbero talvolta come rimproverare d’essere Italiano. Se non sapete il Tedesco, vostro danno, essi non hanno l’attenzione che abbiamo noi in Italia di usare del Francese quando vi sia un fore­stiere che non sappia la nostra lingua, non si incomodano punto per ciò, v’invitano a pranzo, le tavole sono assai ben servite ma talvolta vi è un silenzio stupido che vi annoja mortalmente nel tempo che pure altrove è destinato alla giocondità ed alla amicizia. Le figlie nubili sono cortesi e officiose, un forestiero che possa ammogliarsi è festeggiato da esse, le doti sono povere e per una figlia si tratta di passare alla esistenza col trovare un marito; conviene però essere assai cauti poiché, per poco che vi addomestichiate in semplice fre­quenza di parlare, vi faranno una imboscata, vi accuseranno di man­care alla parola che non avrete data e potrete essere esposto a un affare disgustoso anche in faccia della Corte, come è accaduto a varj Italiani. Ordinariamente avviene che gl’Italiani generosi restino gab­bati enormemente da questi Austriaci. Noi siamo in concetto di fur­beria; questa opinione ingiuriosa l’Italiano bennato cerca di supe­rarla con una decisa ingenuità e buona fede. Il costume rozzo e pesante di questa gente non ci rende cauti, non si teme l’insidia, e allora siamo poi enormemente traditi e nelle compre e ne’ contratti e nel giuoco, e nel commercio colle figlie. Vi è tutto da temere e non si falla mai se si esibisce la decima parte di quello che viene doman­dato, e se si sta cauti al giuoco, il quale non è indifferente, perchè le signore della prima sfera non dimenticano nel giuoco tutt’i vantaggi ai quali una Italiana non oserebbe nemmeno di pensare. Il lusso è enorme, i mezzi sono scarsi, a tutto si mette mano per sostenere la pompa e la vanità.

Le Dame qui non sono tanto riverite come da noi. Se siete al Teatro o altro luogo pubblico, nessun uomo abbandona il suo posto per cederlo a una Principessa che venga dopo, se si vede scendere da carrozza o salir le scale una Dama, non si usa di servirla in modo alcuno, ciascuno pensa a sè. Le donne in generale sono più franche e ardite che in Italia, la loro educazione le rende disposte a correre la città sole a far le compre per le botteghe, e così assai rara cosa è il vedere sul viso d’una donna quell’imbarazzo, quel rossore, quel fiore di sentimento che dà il maggior vezzo al sesso amabile. Basti dire che la parte maggiore delle funzioni del carnefice è qui sulle donne, che assassinano, rubano, e s’abbandonano ad ogni classe di delitto. Persino le donne di partito in Italia in mezzo all’abbandono de’ sentimenti al quale le porta il loro genere di vita conservano un non so che di nobile, per cui si deve offrir loro la mercede del loro corpo con certa qual disinvoltura, sicchè abbia l’apparenza d’esse­re fatto per genio quell’atto che secondo la natura non dovrebbe appunto essere fatto che per esso. Qui il contratto è spaccato e mi si dice che nell’atto medesimo della delizia non avrà difficoltà la vostra bella di replicarvi: «Mi darete bene un zecchino!».

Il modo di fabbricar le case, di ammobigliarle, di mangiare, di vestire è quasi uniforme presso i cittadini. Chi vede una casa può dire d’averle tutte vedute. Pavimento di tavole. Porte con date ser­rature tutte eguali. Finestre presso poco della stessa misura, la soffitta piana coperta di stucco, tutto è uniforme. In Italia ciascuno ha la sua idea e fabbrica chi a volta, chi a soffitta, chi a finestre, chi a terazzini a modo suo e questa feconda varietà e diversità capric­ciosa qui non si vede, onde gli alberghi pajono piuttosto fabbricati per istinto che per fantasia. Credo che sieno i cibi del popolo e i loro alloggi i medesimi che erano ne’ secoli passati.

Grand’uso v’è di sacre immagini e statue gigantesche di Santi, e grandi aspersioni di acqua benedetta, e grandi preghiere nelle chie­se di fanciulli che vi stordiscono, e grandi illuminazioni di candele che le donne accendono sulle panche della chiesa per riverenza alle immagini che hanno ne’ loro libri di preghiere; vi è parimenti nelle insegne delle stesse botteghe dei pezzi tutti in gigantesco come fanno i cavadenti da noi. Tutto mi fa vedere che hanno bisogno que­sti abitanti di oggetti che vastamente percuotano i loro sensi per accorgersi che esistono gli oggetti.

L’ordine della città però in parte mi piace. Le guardie che veglia­no la notte per le strade, la illuminazione di Vienna la rendono sicu­ra di notte, cosicchè potete andarvi coll’oro in mano. Le carrozze di noleggio sempre pronte e numerizate sono d’un gran comodo. Il vitto non è caro nè dispiacevole, l’alloggio è comodo, e tutto è in certa regola e simetria, meglio che a Milano. Solamente mi incomo­da che, quando meno si crede, bisogna avere la borsa alla mano. O voi passiate le porte della città a una certa ora, o passiate le linee, o andiate al Teatro o giuochiate una partita, tutto si paga al momento. Io posso a Milano uscir di casa senza mai aver meco denari, a Vienna se dimentico la borsa bisogna ch’io me ne ritorni a casa a prenderla.

Queste in breve sono le poche idee che mi ha fatte nascere la vista di questo paese sin ora. Vengo a me. Io periodicamente mi lascia­va la sera vedere dal Ministro col fine che vi dissi, ma un giorno dopo l’altro passava senza risoluzione, avertito io altronde che non bisogna infastidirlo, mi trovava imbarazzato vedendo avvanzarsi la stagione. Fui giorni sono dalla S.ra Contessa d’Harrach, la quale mi chiese del mio destino, io le manifestai il desiderio di sbrigarmi e il motivo che mi tratteneva. Essa si offerse di parlarne l’indomani al Conte di Kaunitz il quale, essendo giorno non so se di sua nascita o nome, veniva a pranzare in amicizia da lei. La sera al solito mi tro­vai dal Ministro; vedo che mi addocchia più del solito, io m’accosto verso di lui, egli verso di me e mi apostrofa in tal guisa: «Siete voi quello adunque che va dicendo per Vienna di non partire per cagion mia?». L’esordio detto con maestà non era piacevole. Io decisamente gli risposi: «Eccellenza, sì son quello, perchè aspetto ch’Ella si degni decidere sulla supplica mia per servire al Quartier Generale». «E che volete – disse il Ministro – che Sua Maestà vi trovi il generale presso del quale servire?» «Non questo – risposi – ma unicamente che l’Eccellenza Vostra si degni o di farmi avere il permesso di ser­vire da volontario al Quartier Generale ovvero di negarmelo». Ebbene, rispose che mi avrebbe data una lettera per il Maresciallo Daun. Quest’è quello ch’io ricercava, e lo ringraziai. Vedete però che il modo era un po’ duro e per un Italiano sensibile non è il più aspettato in ricompensa della somma delicatezza usata nel non infa­stidirlo, spendendo frattanto inutilmente i miei soldi e a Praga dove ho il mio equipaggio e qui. Ma io, ringrazio il cielo, son fatto in modo che quando sento che un uomo ingiustamente mi vuole abbassare, mi sento raddoppiare l’anima in corpo e la franchezza e perdo tutte quelle delicate misure che mi son naturali con chi le usa meco. In somma, domani o dopo al più avrò la lettera, mi sono rac­comandato al S.r Du Beyne che deve stenderla e sarà fatta in modo che spero di restare presso del Maresciallo. Subito avuta, partirò. Frattanto le armate sono state nella inazione, spero che giungerò a tempo. Ma se la disgrazia portasse che dovessi far la campagna nella cattiva compagnia del Reggimento Clerici, sarei ben malcontento, sarebbe un’annata di mia vita passata male senza farmi conoscere da alcuno, senza imparar nulla e gettando senza frutto la sanità, il tempo e i denari. Vi abbraccio.

IV. Praga 2 Luglio 1759

Ebbi la lettera il giorno 27 scaduto e la sera del 28 partii da Vienna e sono giunto a Praga jeri. Gli alloggi non sono sì buoni come nel­l’altro viaggio e la tavola delle osterie è pessima. Qui ho ritrovato il mio Federico, i miei cavalli, la mia roba, tutto in buon essere. L’Armata è lontana da qui quasi due giorni di viaggio per posta. Vi dirò alcune particolarità che mi sono accadute in queste ventiquattr’ore che mi trovo in Praga. Damiani di Vienna mi ha appoggiato qui a certo S.r Ubiale, che vi fa gli affari de’ Fermieri Generali dai quali passano le mie rimesse. Questo Ubiale Genovese non mi pare tanto buon uomo come il Damiani. Mi hanno preso un alloggio di sette stanze magnifiche in fila e in questa città spopolata mi fanno pagare uno zecchino al giorno per l’alloggio, mentr’io aveva ricerca­to due o tre stanze, chè niente più mi occorre essendo di passaggio. Questo Ubiale mi va fortemente raccomandando di prevalermi d’un certo Signor Peppe italiano che fa il trattore e che mi pare poco di buono. Ieri di forza ha voluto che andassi a pranzo da lui, dove era pessima compagnia di ufficiali la maggior parte italiani. Il Peppe ha una figlia che sta a tavola e questa ha adescato un ufficiale con un empiastro sopra di un occhio; forse spera di sposarlo almeno ad tempus. Costui è informato che posso avere tutto il denaro che mi occorre dall’Ubiale ed è affannoso per me acciocché nulla mi man­chi all’Armata, vorrebbe ch’io mi provedessi di pellicce, di stivali in quantità, di vestiti per i domestici; e che non vorrebbe costui farmi comprare! Tutta la mattina mi ha perseguitato a farmi entrare per molte botteghe, egli crede che io non sappia una parola di Tedesco e a ciascun bottegaro dice che gli conduce una buona fortuna, un Italiano ricco, che faccia bene i suoi affari ma che si ricordi poi che egli vuole la sua porzione. Io ho disimulato d’intenderlo, gli ho fatto passeggiare mezza Praga da una bottega all’altra e non ho mai tro­vato cosa approposito, onde in frutto della sua insidia non ne ha ricavato che stanchezza e sudore. Voleva strada facendo questo Peppe impormene perchè è servente Muratore, io colla scorta del libro stampato L’Ordre des Franc Massons trahi, ho avuta la fortu­na di farmi credere non solamente Franco Muratore, ma Maestro e Gran Maestro e quello ch’è più Gran Maestro visitatore, e voglio visitare gli arnesi ch’egli conserva della Loggia e criticarli ben bene. Non v’è piacere più gustoso di questo, d’imporne a un impostore.

Costui che pretendeva di farla da bello spirito ora mi sta intorno con rispetto e riverenza. Strada facendo mi andò raccontando ch’egli da giovane aveva studiato assai, che singolarmente aveva fatti de’ pro­gressi nella magia bianca e m’interrogò per esempio come avrei io fatto per far salire in aria un uovo da sè. Poi mi raccontò che riem­piendolo di ruggiada ed esponendolo al sole, siccome la ruggiada tende ad alzarsi, così l’uovo sarebbe montato da sè. Presi la cosa in serio e gli mostrai che non avrebbe avuto che a bere assai ruggiada e indi esponendo il suo panciuto ventre ai raggi del sole con questo principio sarebbe volato. Oh, che animale è costui! Nelle an­ticamere e ne’ postriboli credo io bene che anco in Italia se ne trove­ranno di pari, ma a me riescon nuovi perchè col nuovo genere di persone fralle quali mi pone il vestito che ho indossato mi pare che la natura umana che vedo non sia certamente più bella e colta di quella porzione nella quale ho vissuto sin ora. Qui in Praga nessuna casa nobile ammette gli ufficiali, ammeno che la persona non lo meriti per se stessa, ed io non ho portato meco alcuna lettera, onde mi trovo in una sciocca società. Ho spedito il mio equipaggio all’Ar­mata, la quale non si sa bene dove precisamente sia, ho alcune pic­cole spese da fare, poi fra una settimana vado al campo. Vedrò nuovi oggetti, spero che l’interesse de’ pericoli reciproci renderà quella società più viva e brillante. Vi sono delle persone della più elevata nascita, se posso essere al Quartier Generale potrò prendere una idea della guerra, occuparmi di grandi oggetti, far delle conoscenze utili, in somma mettere a profitto il tempo e i quattrini meglio che non m’è accaduto sin ora, giacchè sin ora, sia per le cognizioni acquistate sia per i piaceri provati, vi posso dire che non ho impie­gato niente bene il mio capitale. Vi scriverò dal Campo, non vedo l’ora di allontanarmi da Praga. Vi abbraccio ec.

V. 14 Luglio 1759, Gorlitzheim

Eccomi alla grande Armata del Maresciallo Daun, oggi verso mezzodì vi sono giunto, partii da Praga il giorno 12 e prima di met­termi a dormire vi scrivo le cose anche più minute, acciocché esat­tamente conosciate gli oggetti tanto da vicino come li vedo io stes­so. Da mezzo dì a questa parte già qualche strana cosa mi è capitata. Giugnendo all’Armata io non vi ho conosciuta veruna regolarità: di tratto a tratto ho incontrate delle tende di vivandieri e mercanti, io chiesi del Quartier Generale e mi fu indicato. Promisi di regalare il postiglione, acciocchè restasse co’ cavalli, in un prato e colla mia gente e col mio carrettino, sul quale ho la tenda, il letto e qualche mio arnese, perchè, non sapendo se vi sia al Campo il mio Federico co’ miei cavalli, non sapeva di quali servirmi per collocare al mio alloggio l’equipaggio. Poi preso meco il cameriere di Vienna mi sono incamminato alla casa dove alloggia il Maresciallo. Avanti la porta di quella casa eravi come sempre una compagnia di granatieri con due in sentinella. Entrai. Tutto era in moto per il pranzo. Un ufficiale dello stato maggiore, interrogato da me se si poteva presentarsi a Sua Eccellenza, rispose che andava allora a tavola, e, conoscendo ch’io era un ufficiale che veniva da Vienna e che aveva una lettera per il Maresciallo, pulitamente m’invitò a pranzare ad un tavolino frattanto con lui e un altro Ajutante Generale, che poi, finito il pran­zo, mi avrebbe annunziato. Accettai l’invito e fummo serviti bene. Fra il pranzo io chiesi a que’ due che erano del Quartier Generale se l’inimico che avevamo di fronte fosse il Re ovvero il Principe Enrico, non lo sapevano; se era lontano o vicino l’inimico, se era forte più o meno di noi, a quanto ascendesse la nostra Armata; a nes­suna di queste questioni seppero nè l’uno nè l’altro rispondere, eppure uno era Ajutante Generale del Maresciallo, l’altro Ajutante d’ala. Terminato il pranzo l’Ajutante d’ala adunque mi chiese nome qualità e Reggimento per annunziarmi, poi mi disse che s’im­maginava ch’io avrei fatta la mia campagna al mio Reggimento. «Dipenderà – risposi – questo dalla volontà del S.r Maresciallo!». «Oh il Maresciallo sicuramente – soggiunse – lo manderà al Reg­gimento». Con questa bella prevenzione mi scortò alle stanze supe­riori dove era la gran tavola e m’introdusse nel tempo in cui s’alzavano da tavola. Io era prevenuto che il S.r Maresciallo Daun fosse sommamente altiero, ma da quanto mi è accaduto non posso dirlo. Mi ha ricevuto con cortesia, gli ho presentata la lettera del S.r Conte Kaunitz, un’altra della S.ra Contessa Simonetti, e vistele mi fece varie interrogazioni e intorno il Teatro di Vienna e intorno Milano e la S.ra Contessa, con grande maraviglia di molti generali e signori che facendo circolo ascoltavano il dialogo. Alcuni cominciavano a mirarmi bieco non so bene perchè, forse perchè, non avendo nem­meno il ventre gallonato, io osassi rispondere in loro presenza al Maresciallo: ma io li squadrava con eguale franchezza e non m’imbarazzava di essi. Dopo ciò la conversazione girò altrimenti ed io mi sottrassi al circolo e mi posi alla porta per cui come sola doveva passare il Maresciallo. Lo abordai umilmente al passaggio e lo supplicai a decidere di me dove dovessi fare la campagna. «La scel­ta dipende da lei» rispose il Maresciallo cortesemente. «Io sarò al colmo de’ miei voti – soggiunsi – se avrò il bene di servire imme­diatamente presso di Vostra Eccellenza». Mi ringraziò il Marescial­lo della mia officiosità e immediatamente ordinò a un Generale Ajutante che mi venisse assegnato un quartiere. Ecco svanita la mia inquietudine e ottenuto il fine propostomi. V’assicuro che questo mi ha veramente allargato il cuore, pensando che niente avrò più a fare con que’ Signori del Reggimento mezzo Italiani mezzo intedescati che hanno i difetti delle due nazioni. Aveva premura di conoscere il mio quartiere e collocarvi la roba mia che aveva lasciata sul prato col postiglione. Adunque l’Ajutante Generale scrisse un ordine al Colonello Quartier Mastro, in cui venivagli comandato di assegnarmi un quartiere per essere io fissato al Quartier Generale. Questa cedola fu consegnata ad un Sargente d’ordinanza col quale mi venne voglia d’incamminarmi per disbrigare più presto il mio affare. Intesi che il Colonello Quartier Mastro era discosto quasi una mezz’ora di cam­mino, ma non m’increbbe, e giuntovi dissi al Sergente che gli pre­sentasse la cedola e gli dicesse che io era venuto per visitarlo, mi fece poi entrare. Stavasi il Colonello a sedere col capello in testa nella casa d’un villano dove alloggiava e appena cavatosi il capello se lo ripose e mi chiese chi era, poi di qual Reggimento, poi voleva il mio rango, alla terza interrogazione tanto incivile alla quale lasciava che io rispondessi in piedi e scoperto, mentre egli non aveva mosso dal suo sito, risposi ponendomi il capello e sedendo: «Signore non sono venuto per subire l’interrogatorio. Il nome la qualità e tutto sta scrit­to nella cedola che il S.r Maresciallo le invia acciocché mi dia un quartiere. Io non son venuto che per usarle una civiltà, se vuol rice­verla». Sin qui il nostro discorso era stato in francese. Allora il Colonello cavò il capello, si alzò, mi chiese se era io Italiano. Si mostrò amico molto degli Italiani e finì col disporre subito per il mio quartiere. Voi vedete adunque quale è il tuono di società con questi Signori. Partii buon amico, trovai il mio nuovo albergo, mi aveva fatto scusa il Colonello che, essendo già l’Armata collocata dove siamo, non poteva darmi che un quartiere cattivo per ora; ma che nelle altre marce vi rimedierà. Trovai modo di far avvisare i cavalli e condurre la mia roba al quartiere, che è veramente meschino tugu­rio d’un povero contadino e non so come vi potrò stare. Poi mancavano ancora almeno due ore al finire del giorno, mi sentiva bene e allegro, non sapeva che fare, e pensai di visitare il Reggimento Clerici e vedere come sarei stato accolto da quei Signori. L’Armata si vede bene dal mio quartiere, è un bel colpo d’occhio, e solo m’in­camminai al campo. Prima di chiudere e mettermi a riposo vi voglio raccontare l’accoglienza avuta.

Dopo aver trovato che gli Ajutanti Generali non sanno dire dove o come o quale sia il nemico che di qui non si vede, non mi fece più maraviglia il girare il campo e chiedere conto a quanti incontrava «dove è il Reggimento Clerici», senza trovare un’anima che me lo sapesse indicare. Eppure un Reggimento non è una spilla o un ago da smarrirsi e, dopo anni che si guerreggia, vi parrà impossibile che i soldati e anche gli ufficiali non conoscano l’esistenza d’un Reggimento, ma la cosa è così, passeggiai molto lungo l’Armata sem­pre cercando dove fosse il Reggimento Clerici e non lo seppi che allora che la ventura mi vi fece cadere. Ascolto parlare Italiano, osservo l’uniforme, ecco il famoso Reggimento. Cerco della tenda del S.r Colonello Ferretti, mi viene indicata e io mi presento dicen­do se era permesso al Conte Verri d’inchinarsi al Sig.r Colonello. «Oh Signor Capitano – risponde egli – è giunto ben tardi, cosa ha avuto a Vienna? È stato forse ammalato?» «Sanissimo sempre. – risposi – Forse che è accaduto qualche fatto d’armi del quale non si sia saputa nuova?» «Ma lei – soggiunse – doveva venir prima». «Il Signor Colonello – diss’io – sta bene? Me ne rallegro». Poi m’in­terrogò il Colonello se avessi meco la mia tenda. «La tenda! – rispo­si – Ed a qual uso?» «Bisogna – soggiuns’egli – averla se non vuole dormire a ciel sereno». «Oh, per questo poi frattanto vi rimedierò e dormirò in qualche alloggio di contaddino.» «Questo non si può, non lo permetterò mai.» «Ma Signor Colonello, vuol ella ch’io stia alla pioggia a dormire?» «Suo danno, si cerchi una tenda.» «E per­chè non potrei frattanto stare in qualche casuccia da villano?» «Io le dico di no, che non lo voglio.» «Ma lei, S.r Colonello, è meno cortese che non ho trovato il S.r Maresciallo…» A questo nome restò come attonito e: «Come? – replicò – Ha ella parlato col Signor Maresciallo?» «Sicuramente. – soggiunsi – E crede il S.r Colonello che vorrei venire all’Armata senza in prima presentarmi a chi comanda e a lei e a me?» «Ed il Sig.r Maresciallo – disse il Colonello – le ha permesso di alloggiare in una casa?» «Signor sì, in una casa.» «Dunque Ella è al Quartier Generale?» «Appunto, per servirla, al Quartier Generale.» A questo scongiuro diventò l’uomo il più officioso, m’invitò a pranzo per domani, mi fece cento cortesie. Amico, credo che costoro facciano automaticamente il mestiere di soldato per necessità, che vivono come frati al loro Reggimento, e il nome di Quartier Generale loro ne impone. Forse non osano mai presen­tarsi al Comandante. Credo che la mira fosse di tenermi al Reggimento per avere la mia tavola e per impedire ch’io mi faccia degli appoggi. Ora è sventata. Che gente, amico, guai ad aver biso­gno di essi! Vedete se in quest’oggi ho avuto degli oggetti per me interessanti. Sono stanco, chiudo la lettera abbracciandovi di cuore.

VI. Lichtenau 2 Agosto 1759

Gli altri dall’Armata scrivono per sembrare spaccamondi, io scri­vo semplicemente affine di farvi schiettamente partecipe di quanto vado io osservando, e, se non vi dico la verità degli oggetti, sicura­mente almeno vi paleso la verità delle mie sensazioni. Ho almeno il piacere di porvi in situazione da conoscere qualche poco il mestiere del soldato in campagna, e voi lo potete conoscere con meno inco­modo certamente che non faccio io. Io mi figurava venendo al­l’Armata di dovervi trovare assai libertinaggio, assai festa e allegria, e molta familiarità da uomo a uomo: tutte idee sognate. Mi pare che questa unione d’uomini che forma l’Armata sia l’agregato del rifiuto delle altre società. I soldati comuni sono o canaglia che in vece della galera è stata adetta ad un Reggimento, ovvero scioperati che per essersi ubriaccati una volta hanno giurato fedeltà. I bassi ufficiali sono scelti da questo primo fondo. Gli ufficiali poi, pochi sono gente di nascita e que’ pochi sono ordinariamente spiantati cadetti che erano incapaci di altra occupazione e s’indossarono un abito bianco e rosso per esistere. Ora tutto questo bel composto è una unione di persone essenzialmente mal contente. Vi vorrebbe una energia d’anima non volgare, un amor della gloria, una passione di farsi distinguere assai violenta per soffocare nel cuore il tedio della vita che ciascuno mena. Non calcolo il pericolo, che questo è il meno, perchè nel corso d’un anno difficilmente troverete un uomo che sia stato per sei ore tutto in complesso esposto a pericolo, ma calcolate tutte le intemperie delle stagioni che s’hanno a soffrire, le marce, la schiavitù di non poter uscire dal distretto del Reggimento, il cattivo cibo, la mancanza di ogni distrazione, non una donna, non un ballo, niente che rassereni e ravviva. Io vedo su tutt’i visi della tri­stezza feroce che palesa l’uomo mal contento, questo introduce delle maniere assai ruvide reciprocamente. Si cavano il capello gli ufficiali l’un l’altro quasi che s’insultassero. Passare delle ore con un bicchiere di cattiva birra davanti e fumando, questo è il solo bene che prova un ufficiale comunemente. Interrogate sulla guerra, pochissimi sapranno rispondervi, non sono al fatto nè degli avenimenti della guerra presente nè della Teoria dell’arte in generale della guerra. Un Capitano sa come campa la sua compagnia, quanti uomi­ni la compongono e il dettaglio delle scarpe, stivaletti ec. che gli occorrono. Sa che s’è battuto nella tale e tale occasione, che ha fatta la tale marcia ec. Ma fuori della sfera di quanto lo risguarda immediatamente ben pochi sono che ne sappiano qualche cosa. Erano otto giorni dacché io era giunto all’Armata a Gorlitzheim dove da più settimane era il campo, ed io non aveva mai potuto sapere pre­cisamente se eravamo nella Slesia, ovvero in Boemia ovvero nella Lusazia, giacché questo piccolo luogo non si trovava nelle mie carte e i confini erano vicini. Alcuni da me interrogati non lo sapevano, altri mi davano varie e contradditorie risposte, finalmente il giovine Principe Lobkovitz, che è assai più colto degli altri, mi ha mostra­ta una carta esatta ed ho da esso saputo che eravamo in Lusazia veramente. Un bastimento in mare almeno sa in qual parte del globo si trova, e un corpo come l’Armata dopo venti giorni nessuno sape­va dirlo! Che direte della mia ingenuità, se vi scrivo che gli stessi Generali Ajutanti fanno venire da Vienna la Gazetta per avere le nuove dell’Armata? Io lo vedo ogni giorno e me lo crederete. Il S.r Maresciallo Daun non parla mai di guerra, alla sua tavola, ove v’è sempre luogo per me, si sta come se fossimo in città, non si nomi­nano mai i Prussiani, non si tocca mai discorso che appartenga alla guerra. Vi assicuro che, a vedere da vicino questi oggetti, sono di­versi assai da quello che appajono da lontano. Noi crediamo di vedere le descrizioni del Tasso e di Ariosto, una unione di eroi che avampano per la gloria, anime passionate per il mestiere, avide di illuminarsi, animate da principj di generosa elevazione… cassa cassa, ipocondria, noja, schiavitù, invidia, rusticità e non altro co­munemente.

Pochi giorni dopo che fui all’Armata mi raggiunse il mio Federico e mi liberò dal pensiero che aveva che, se capitava frattanto una marcia, non solamente doveva io farla a piedi, ma rischiava di per­dere la roba mia non avendo cavalli da trasportarla. Io, privo di cavallo da cavalcare, doveva in que’ giorni fare le cinque o sei miglia a piedi, poiché distante dal Quartier Generale più d’un miglio andavavi due volte al giorno se non altro per intendere se si marciava. Acquistati i miei cavalli i quali con Federico avevano fatto un giro cercando l’Armata dove non era, io ho cominciato a soffrir meno incomodo. Anzi ho abbandonato il quartiere così meschino e disco­sto ed ho piantata la mia tenda in vicinanza del S.r Maresciallo, dormo assai meglio sotto la tenda che in quella puzzolente stanza che non basta a contenermi ritto in piedi e dove una falange di mosche non mi lasciava quieto. Il giorno 29 secondo il solito io era anche dopo pranzo all’anticamera del Maresciallo. Egli uscì e tutti fummo in seguito a cavallo; femmo un giro a visitare il terreno all’in­torno ed io non capii nulla nè trovai alcuno che mi sapesse insegnare qualche cosa; ritornai a notte alla mia tenda e vidi che il mio came­riere aveva già fatto impachettare il letto e stava per spiantare la tenda. «E perchè questo?» gli chiesi «Perchè domattina all’aurora si marcia», rispose. «Questo è impossibile: or ora vengo dal Quartier Generale, nessuno parla o sa di questo.» «Se non lo sanno quei signori, io l’assicuro che è così; la tenda del Principe d’Anhalt è già spiantata, io lo so dal cameriere del Principe che è mio amico e il cameriere lo sa per mezzo de’ stallieri di S. E. il Maresciallo.» Imparai da quel punto a regalare i palafranieri e stallieri del S.r Maresciallo, i quali ai loro buoni amici sanno dar avviso preventivo delle marce, essendo essi informati di ciò coll’ordine che ricevono per la biada ai cavalli più per tempo e per tenerli sellati. Vedete, amico, che adunque nessuno de’ primi Signori che sono in seguito dell’Armata è avvisato della marcia e lo sono gli stallieri. Questi fatti non si crederebbero se venissero scritti da altri, tanto sono ve­ramente poco ragionevoli e diformi dagli usi comuni della vita. Ri­cevuto questo annunzio, feci immediatamente por mano perchè tutto fosse pronto e alla punta del giorno il mio carro potesse esse­re dei primi a mettersi in fila, onde in tal modo fosse anche de’ primi a giugnere e collocarsi al mio nuovo quartiere, il quale come quello di ogni altro assegnato al Quartier Generale sarebbe scritto alla porta del nuovo alloggio del Maresciallo. Vi confesso che nell’inter­no del mio animo ebbi in quelle ore della agitazione. Si marcia. Si osserva un mistero impenetrabile sulla marcia non meno che sul luogo dove dobbiamo portarci. Verosimilmente si vuol sorprendere e attaccare l’inimico. Forse a quest’ora domani sarò senza una gamba… Ma è il mio mestiero, son venuto qui per questo; tanti altri corrono lo stesso pericolo; vi sono che contano ventine di battaglie e sono sani; avrò piacere di raccontarlo poi; queste ragioni mi riaccomodavano con me stesso. Vi dirò però che della inquietudine mia interna nessuno nemmeno de’ miei domestici se n’è potuto accorge­re, anzi non mai ho dette delle pazzie tanto buffone come quella notte, effetto naturale per distraere me stesso. All’albeggiare del giorno monto a cavallo col mio palafraniere e vado dal S.r Mare­sciallo. Fui de’ primi, un Ajutante Generale s’alzava allora dalla paglia nell’anticamera, chiesi dove andavamo, nessuno lo sapeva. Cessai d’interrogare, acciocché nessuno sospettasse in me inquietudine. Poco dopo giugne il Generale Principe di Montmorenci. Egli cerca da me dove si marciava! Compare il S.r Maresciallo, si dice messa, si legge l’orazione per la fortuna delle nostre armi, si discen­de, il Maresciallo monta e tutti noi in seguito. Il Maresciallo aveva avanti di sé quattro Ajutanti Generali e due Ajutanti d’Ala, poi subi­to dopo la sua persona eravi un trombetta, poi un ussero di suo servigio, poi una moltitudine di volontarj, il Duca di Braganza, il Principe Luigi di Vittemberg, un figlio del Conte Kaunitz, un Lobkovitz e una folla di Signori Generali ec. Io, povero capitano, naturalmente veniva in seguito con altri Dii minorum gentium. Nessuno sapeva dove, come, quando, onde non ne chiesi altro, la polve era enorme alzata da tanto calpestio avanti di me; bisogna anche stare attenti nelle marce, perchè tanti cavalli a mano che gui­dano i palafranieri non vi favoriscano un calcio. Si marciò sino verso mezzo giorno. Ebbi della pena a informarmi che il nuovo campo ove giugnemmo fosse Lichtenau. Girammo tutti quanti avanti e indietro nel nuovo campo senza che io abbia potuto formarmi nemmeno un embrione d’idea del modo come eravamo accampati. Non ho osser­vato che linee irregolari, parte dell’Armata fa fronte da una banda, e parte dall’opposta; non v’è un uomo fra tutti costoro o che capi­sca o che abbia volontà da insegnare a chi ha voglia d’istruirsi. Dopo questo gran cavalcare per dieci ore e più di seguito, ed io e il caval­lo non ne potevamo più dal caldo, dalla polvere, dalla stanchezza. Accompagno il S.r Maresciallo sino al suo alloggio e alla porta vedo il libro, cerco il mio nome, trovo che il mio quartiere è presso Matthias Hilber. Cerco un ragazzo, con pochi soldi mi conduce da Matthias Hilber, spero di trovarvi la mia gente e che m’avessero ap­parecchiato il pranzo, ma non erano giunti. Del pan nero del buon Matthias, del burro ch’egli aveva furono il mio pranzo. Io però mi sentiva stranamente stanco e coloro della mia gente tardarono a comparire sino verso sera. Mi hanno dette tante scuse e pretesti ch’io non posso verificare, fatto sta che non m’hanno servito bene.

Il punto essenziale però si è che sin ora non ho veduto l’inimico nemmeno col cannocchiale, che nessuno sa dire dove stia se non presso poco, che gli uni dicono che contro di noi vi è il Re, gli altri al contrario sostengono che no che vi è il Principe Enrico. È una vera Babilonia, e, amico caro, se la cosa continua così, mi pare che questa sia veramente una vita da disperato. Io non intendo nè impa­ro precisamente niente affatto e tocco con mano che la massima parte degli ufficiali non ne sanno più di me. Basta, potrò almen dire e conoscere che nel mestier della guerra, il quale pare a primo aspetto che sia da farsi con energia, con impeto, con calore, e con impegno, realmente gli uomini vi sono spossati, indifferenti, annojati, e ignoranti. Hoc unum scio me nihil scire. Se coll’andare avanti la scena muterà, ve ne avviserò e ben di buon grado mi ritratterò, io ingenuamente vi comunicherò sempre i sentimenti che mi oc­cupano.

Il S.r Maresciallo mi fa tutte le graziosità, mi ha fatto avvisato che sempre per me vi è luogo alla sua tavola, io vi vado di tempo in tempo abbastanza per farmi vedere, ma mi piace il pranzare colla roba mia. È accaduto che, volendomi io collocare alla tavola secon­da ove però vi sono anche ufficiali dello Stato Maggiore, sono stato tolto di là e collocato alla prima del S.r Maresciallo istesso. Osservo che sempre qualche parola m’adrizza, sono contentissimo di que­sto Signore, il quale non so come da taluni siasi creduto altiero.

Un Generale mi ha lodato il mio tabacco di Spagna ed esaggerava che a nessun prezzo se ne può qui trovare. Io gli feci avere al suo quartiere un barattolo di due libre. Dopo mi ha ringraziato. In seguito non mi saluta più. Prima che io doni l’altro barattolo che ho, me lo sapranno dire! Di inezie ne abbiamo sin che se ne vuole; vi sono de’ merciaj all’alloggio del Comandante dove abbiamo tutte le più inutili galanterie del lusso, ma se volete un pajo di stivali, un capello, del panno per vestirvi, un pajo di guanti ec., questo non si trova. Si vive nel resto da veri capuccini, io non vedo una donna giacchè non darò questo nome alle orribili figure di coloro che ven­gono in seguito all’Armata co’ vivandieri ec. Credo anzi che la più bella e fresca giovine in venti giorni che vivesse con noi diverrebbe deforme dal sole, dalla polve, dai stenti, dal dormire vestita, oltre poi la rogna e il celtico e qualche insetto che acquisterebbe: oh, amico, quanto sarebbe mai deforme il peccato! Vi abbraccio tene­ramente ec.

VII. Sorau 7 Settembre 1759

Dacché vi ho scritto, poco è accaduto di nuovo, siamo marciati avanti, indietro, abbiamo campato in nove siti diversi, a Penzig, a Rottenburg, a Prybus, a Tribel, a Muskau, a Forst, poi novamente a Tribel, poi a Eskerswalde, poi qui. La prima volta che ho potuto vedere i Prussiani è stato il giorno due del corrente. Almeno questa volta siamo stati avvisati. La sera di sabbato scorso, giorno 1, alla parola del Quartier Generale si disse: «Domattina prima di giorno tutti i Carabinieri e Granatieri dell’Armata marceranno verso Sorau. Gli equipaggi a ruota resteranno indietro». Non v’era dubbio che dovevamo batterci, ed io mi trovai meno sensibile a quest’affare che non lo fui l’altra volta; fors’anco il non esservi mistero vi contribuì. Venni al mio quartiere, mi posi a letto per tempo, e mi raccomandai singolarmente a Giuseppe acciocché nella piccola valigia che porta il palafraniere, solo equipaggio che doveva servirmi, vi riponesse le cose più necessarie. Mi promise tutta l’attenzione, mi assicurò che dormissi pure quieto. L’avertii che poteva darsi che anche per qual­che settimana non ritornassi a vederlo, onde mi premeva il più biso­gnevole d’averlo. Che non dubitassi, che mi fidassi ec. fu la risposta.

Due ore prima di giorno eccomi lesto, giungo col mio palafraniere dal Maresciallo, ci poniamo in marcia, la notte era oscurissima ed io non travedeva che qualche raggio delle torce a vento che portavano i lacchè del Maresciallo; ma il gran numero de’ cavalli che mi precedeva faceva ch’io andassi a caso. Spuntò il giorno che eravamo vicini a Sorau, e già cominciamo ad udire le schiopettate. Erano i Prussiani, niente più che sei o sette mille, un piccol corpo staccato dall’Armata e accampato vicino a Sorau. Appena ci videro che veni­vamo loro sopra con numero assai maggiore e i soldati piu bravi dell’Armata, che frettolosamente scamparono, ma non sì tosto pote­rono ritirarsi, perché dovevano passare un piccol fiume sopra un sol ponte. Se dalla parte nostra contemporaneamente ci fossimo distribuiti a impadronirci del ponte, erano o battuti o forse presi. Io seguiva il Maresciallo cogli altri e s’incamminò sopra una altura imminente alla città ove sta un mulino a vento. Ivi discese e dalla finestra del mulino col cannocchiale stava osservando. Un certo Capitano Colin, che è al Quartier Generale, mi chiese cosa faceva­mo noi. «Nol so per verità, – risposi – io sono cogli altri». «Volete voi – mi disse – che andiamo a prendere la città di Sorau che vede­te?» «Prenderla! Noi due soli!» «E perchè no? – disse. – Noi le inti­meremo la resa e se nessuno ci ha preceduto avremo la gloria di que­sto fatto.» Così disse quel Capitano. A me veramente pareva ridicolo il progetto; ma perchè non sospettasse che il mio disenso venisse da timore, mi determinai, e andammo ben lesti. In breve fummo alla porta che già era aperta. «Ebbene, – disse il Colin – andiamo noi a batterci?» «Andiamo.» Quindi, seguendo il mio Ruggiero verso dove s’ascoltavano le schiopettate, c’incamminammo, indi salita una riva assai alta ci trovammo in un prato che di fronte terminava col bosco e nel prato gli usseri dalle due parti facevan piccolo fuoco. Mentre c’innoltravamo, egli credo per pazzia, io per puntiglio, ecco­ti che dal bosco sbocca una turba di usseri prussiani e cannonate e una tempesta di schiopettate; i nostri usseri, che erano pochi assai, fuggono e il mio Colin si mette a precipizio e mi grida in buon fran­cese: «Fouttez le camp, fouttez le camp» e giù a precipizio tutti due da quella ripa. Scesi appena, incontriamo uno squadrone di nostri usseri che venivano assai bene in ordine, ci accompagniamo con essi e ritorniamo al prato, fischiavano le palle da fucile e il Capitano Colin mi disse che alcune, per la pratica ch’egli aveva, passavano di mezzo fra noi due con assai gentilezza senza toccarci. Noi stavamo là piantati come due statue equestri senza scaricar nemmeno le nostre pistole, puramente pazienti per curiosità di ricevere una schioppettata, senza dovere che ci consigliasse, senza gloria. Non so cosa ne pensasse il Colin, se forse la curiosità pura ve lo trattenesse; so che io mi trovai tranquillo e senza gran ribrezzo, il rumore delle palle da fucile non è spaventevole presso di me come quello della palla di cannone la quale mi fa terrore, ma lo nascondo. Venne una palla che colpì vicino. «Ah, mon ami, vous etes blessé» grida Colin. «Io! Sarete voi, io sono sano, ecco le gambe, ecco le braccia», in fatti credo che il colpo sia stato per terra, perchè anche il mio cavallo era sano. Dopo qualche tempo si sono ritirati i Prussiani nel bosco ed io con Colin abbiamo girato il loro campo ed i contorni. Stanco per più di undici ore di cavalcare senza cibo, contento per altro di aver provato io stesso di quanto posso rispondere di me, pranzai dal S.r Maresciallo verso sera a Eskerwalde, indi andai al quartiere asse­gnatomi. La porta della stalla era più bassa de’ miei cavalli, il mio alloggio era un fenile, delizioso per chi era stanco come lo era io. Mi andava applaudendo che la vista de’ morti, il sibilo delle palle non mi avessero eccitato troppo vivi sentimenti nel mio animo, cerco le cose bisognevoli nella valigia e non trovo nè pettini, nè faz­zoletti, nè camiscia, nè tabacco, nè forbici, nè rasoi. Niente in somma di quello che mi premeva. Ho dovuto farne senza. Questa minuzia è stata un martirio per me, e veramente bisogna avere delle gran bestie scortesi al suo salario per essere assistito come lo sono io singolarmente da Giuseppe. L’altro jeri giunsero soltanto gli equi­paggi, io andai loro incontro, e, veduto finalmente il mio carro, altro non dissi se non che in avenire posso almeno sapere quanto fidarmi della loro attenzione e nominai le cose che mi erano mancate. La sera mentre cenava nel mio quartiere non vidi Giuseppe, ne chiesi, non mi si diceva il motivo per cui non venisse. Seppi che era in un pezzo d’orto contiguo, lo ritrovai che giaceva coricato e involto nel tabarro, lo chiamo, non risponde, gli do un colpo o due di canna e allora si scuote, questa è la prima volta che fui obbligato a usare di questa eloquenza con costui. Indovinate cosa mi rispose? Disse: «Questa sera io sono a Brescia e domani a Milano» e non gli potei cavare altro di bocca. Costui o era pazzo o ubbriaco, il giorno dopo aveva tutto concertato per rimandarlo spesato alla patria col mezzo dei direttori del treno de’ muli, mi si gittò in ginocchio, pianse, sup­plicò, in somma mi fece compassione ed ho fatta la pazzia di lasciar­melo vicino ancora. L’imbecille teme d’essere fatto prigioniero dai Prussiani e che lo faccian tamburrino e lo bastonino e sempre invo­ca i morti di San Bernardino e trema, e davvero dubito che diven­ti pazzo del tutto. Son pure stato buono a prendermi per Sancio Panza un decano della S.ra Marchesa Litta!

Ho provata una sensazione affatto nuova prima dell’affare di Sorau. Dacché era all’Armata non aveva veduto niente affatto di bello o d’elegante. I miei quartieri erano un miserabile granaro al quale s’ascendeva con una scala a mano, dove il tetto mal rattoppato mi faceva piovere sul corpo mentre dormiva, e dove cautamente poteva movermi per le sconnessure del pavimento. Anche l’alloggio del S.r Maresciallo, sebben fosse la casa più degna della terra, era meschino. Dopo un mese di vista unicamente di questi oggetti, pas­siamo a porre il Quartiere Generale in una villa mediocremente ben fatta, il passeggiare da solo per qualche viale, il mirare i verdi ben fatti che lo costeggiano mi fecero provare nell’animo una emozione deliziosa. Credo che i villani ne provino di simili, seppure la mia delizia non nasceva dalla ilusione grata di credermi per un momen­to in Italia, di che io stesso non saprei darvi buon conto. Pare che i beni e i mali si compensino e che la consolazione, consistendo nel passare ad uno stato migliore, sia anzi più facile il provarne e di più vive quanto più infelicemente viviamo.

Mi è accaduto dacchè siamo qui un caso assai strano, come sono quasi tutti i casi che capitano in questa società formata dal rifiuto delle altre. Stava qui sulla piazza di Sorau in circolo con cinque o sei altri ufficiali e fra questi il Tenente Colonello Conte Orrigo che da molti anni conosco. Mentre a tutt’altro pensava, ecco che entra nel circolo un ufficiale col ventre gallonato che con viso arcigno mi squadra dalla testa ai piedi e mi dice che io sono del Reggimento Clerici. «Sì Signore» rispondo. «Mi avvedo bene – disse egli – che lei è un ufficiale che non sa il suo dovere, perchè non s’è presentato a me che sono il Maggiore del Reggimento». A tale improvisata mi montò il sangue alla gola. Non aveva mai veduto colui, gli risposi secco che io non sapeva cosa si volesse dire, che io non dipendeva che dal S.r Maresciallo a drittura e che nè conosceva lui nè mi curava di conoscerlo. Origo mi prese pel braccio, mi strascinò in dis­parte dicendomi che col superiore si ha sempre il torto, che per amicizia mi avvisava di disimulare e non farmi un affare, che le leggi militari condannano alla testa chi sfida un suo superiore ec. Io non dissi altro, ma, sottrattomi subito da Origo, cercai il S.r Maggiore, il quale frattanto sulla piazza stava contrattando delle erbe, gli lasciai fare il contratto, poi me gli accostai senza testimonj e gli dissi ch’io non era niente d’umore di essere brutalizato da lui, che non mi sentiva d’essere nato per questo, nè d’umore a soffrirlo. Che, s’egli aveva piacere d’intendersela con me, era pronto. Egli colle sue erbe in mano voleva provarmi che un capitano è obbligato a fare questo e questo, io non ne volli altro e gli dissi che ogni volta che mi voleva io stava di quartiere al tal sito dove ora sono. Gli vol­tai le spalle e fu finita. Oggi ho veduto il Maggiore istesso venire alla volta del mio alloggio. Sopra di me vi dimora uno che fa spade, ivi egli è asceso, al suo discendere mi sono affacciato alla porta acciocchè mi passasse avanti e mi vedesse, mi ha cavato il capello e pare affare finito. Ma che razza di bestie! Questo Maggiore si chia­ma Brady, è un Irlandese che tutte le mattine s’ubbriaca, ha avuto un processo per altre brutalità. Per dinci, al Reggimento non ci tornerei per tutto l’oro, nemmeno se m’avessero a far generale dopo un solo anno di pazienza. È una maladettissima compagnia. Vi abbraccio e sono ec.

VIII. Bautzen 15 Settembre 1759

Delle notizie della guerra io non mi impegnerò a scrivervi. Primieramente, sono tanti i corpi in moto: Daun, Laudon, De Ville, Bucow, il Re, il Principe Enrico, i Moscoviti, l’Armata dell’Impero, tanti pezzi che giuocano a scacco, io appena conosco i moti di quel pezzo ove son collocato, non vi potrei dare alcuna idea interessante delle cose attuali. Vi ho già detto, mi pare, che i Generali, gli Ajutanti Generali fanno venire le gazette di Vienna per sapere le cose della guerra, vi rimetto adunque a sapere le cose dalla sorgen­te istessa. Io vi comunicherò le idee mie nate dalle cose che vedo e osservo, elleno sono assai più minute, ma le loro conseguenze diven­tano grandi presso un uomo che ragiona. Primieramente, adunque, vi dirò che ho trovato un uomo e coll’opera di lui comincio a inten­dere. Il caso ha fatto che mi trovassi in piccola compagnia con un ufficiale affamato che aveva corso tutta la giornata e pranzava; la sua figura non ha niente di singolare, ma tre o quattro proposizioni che gli sfuggirono e il tuono ragionevole e ingegnoso col quale le disse mi scossero, come appunto quel viale di cui vi ho scritto. Mi ac­costai a lui, cominciai a entrare in dialogo e mi avidi che anche il mio umore non gli spiaceva. Gli confessai che era incantato final­mente d’aver incontrato un essere ragionevole, e «Vestigia hominum video», gli dissi. La nostra amicizia fu presto cominciata. Egli è Inglese, ha vissuto molto in Italia e nella Spagna, sa queste lingue a perfezione oltre la sua nativa e il Tedesco che s’ingegna di parla­re. Egli è Tenente e Tenente del più miserabile Reggimento del­l’Armata, il suo nome è Lloyde, uomo che non ancora può avere trenta anni, di una penetrazione singolare d’ingegno, di una serie di cognizioni che sorprendono, uomo pieno di coraggio, deciso, umano, generoso, io non finirei di dirvene la stima, l’ammirazione e U3 l’amicizia che ho per lui. Ma vi dirò come egli sia all’Armata. Egli è nato nella Contea di Galles, uscì da giovane dalla sua Patria disgu­stato d’un tutore che aveva sposata la vedova di lui madre; non credo che sia nè ricco nè molto nobile. Passò da ragazzo per Berlino, s’innamorò d’una ballerina, ebbe de’ guai e se ne partì venendo a Venezia. I debiti che vi contrasse, e ai quali non poteva soddisfare, lo posero in situazione assai triste, e i Gesuiti lo cavarono d’intrigo trovando chi tacitasse i creditori, poi lo portarono a Roma nel Collegio Inglese, dove s’abbandonò allo studio. Terminato il corso nè volendosi egli fare Gesuita, come pure avrebbono desiderato, ritor­nò a Venezia raccomandato a quell’Ambasciatore di Spagna che se gli affezionò, se ne prevalse come secretario, poi, per fargli una for­tuna, lo trasmise nella Spagna raccomandandolo al Marchese de las Minas Governatore della Catalogna. Visse in Barcellona assai bene col Marchese, che non potendogli dare impiego nel servigio se non nel militare, lo appoggiò a Madrid al Signor Ward Secretario di Gabinetto del Re Cattolico. Ivi lavorò, si guadagnò la grazia del Ministro che lo lusingava di volerlo spedire Secretario d’Amba­sciata, passarono due occasioni e Lloyde si vide preterito; non volle più sperare alla Corte, ritornò a Barcellona e dal Marchese de las Minas che lo stimava ottenne d’essere ufficiale negli Ingegneri Militari. Si consacrò allora totalmente allo studio e meditazione sulla guerra. Nessun autore vi è di questa materia, del quale Lloyde non sappia rendere buon conto. Eruditissimo della storia, egli vi trova le somiglianze e dissomiglianze fralle attuali posizioni e quelle or del tal Romano ora del tal Cartaginese, Greco ec. Fatto ch’egli ebbe uno studio seguito dell’arte della guerra, della artiglieria, tattica, fortificazione ec., venne a scoppiare la guerra di Germania, aspetta­va che il suo Re prendesse qualche partito e che la guerra diventas­se universale come credevasi; ma vedendo che stava ristretta in Germania chiese al Marchese di essere raccomandato all’Armata austriaca, dove aveva desiderio di vedere in pratica il mestiere e ten­tare la fortuna. Ebbe soccorso e due lettere di raccomandazione, una al Principe Venceslao di Liectestein, l’altra all’Arcivescovo di Vienna Mons. Migazzi. Le presentò a Vienna quest’inverno scorso e ottenne l’amicizia d’entrambi, anzi dell’Arcivescovo, a segno che volle alloggiato da lui. Gli diedero i suoi due protettori le lettere per l’Armata dirette al Generale Lacy, il quale è Generale Quartier Mastro ed ha sotto di sè un corpo d’ufficiali. Lacy è sprezzante assai ma ha delle buone qualità. Viene ricevuto Lloyde in mezzo a un cir­colo d’ufficiali e presenta le sue lettere. Le legge Lacy poi gli dice che l’avrebbe fatto tenente nel Reggimento Staps. Lloyde già sapeva che quel Reggimento composto di invalidi era destinato a custodire il bagagio dell’Armata. Risponde adunque che non sarebbe vero che avesse fatte treccento leghe di viaggio per custodire gli equipaggi dell’Armata. «E cosa è venuto dunque Ella a farvi?» disse Lacy. «A imparare il mestiere della guerra» risponde Lloyde. Allora con tuono derisore replicò Lacy: «Cosa intende Ella per il mestiere della guerra?» «Intendo – rispose Lloyde – quello che suppongo che Vostra Eccellenza sappia». Allora Lacy con ironia amara terminò col dire che ciò essendo non aveva verun impiego per un uomo di tanto merito quanto esso. Figuratevi che Lacy è un vero Bascià a tre code, temuto, ossequiato, al quale nessuno oserebbe di replicar parola. Tutto il circolo degli ufficiali era nel silenzio, attonito di questo dia­logo. Il mio Lloyde, che si vide deriso e insultato, con tuono deciso e tranquillo terminò col dire: «Signore voi non mi conoscete; forse non ho verun merito, ma forse anco ne posso avere più di Voi». Ciò detto, gli voltò le spalle e se ne partì per cercare dal Maresciallo Daun un passaporto e ritornare a Vienna. A Lacy, sebben piccato, conviene che sia piaciuta la risposta; andò al Quartier Generale, vi ritrovò Lloyde, se gli accostò chiedendo a che fine ivi fosse. Lloyde glielo disse. Lacy soggiunse che s’egli avesse piacere di servire sotto di lui l’avrebbe accomodato, che ricevesse il posto di Tenente, che era il solo vacante che potesse dargli, e che l’avrebbe dispensato dallo stare al Reggimento lasciandolo servire sotto di lui, e così fu accomodato. Da questa succinta tessera d’un romanzo conoscerete che Lloyde è uomo non volgare, d’una impazienza però somma e d’una libertà di parlare egualmente grande, i quai sono i due difetti ch’io gli conosco, difetti che pregiudicheranno alla sua fortuna se non si modera.

Ora che vi ho fatto il ritratto del mio amico non già ciecamente su quello che da lui possa essermi stato detto ma sulle conferme che ne ho avute da altre parti, vi dirò che egli ne sa incomparabilmente più di quanti altri vi sono al Campo, e, sebbene sia un povero Tenente senza un nome, senza soldi, io vedo che il Generale Montazet fran­cese, il Duca di Braganza, il Principe di Vittemberg e quanto v’è di più illuminato cerca di ragionare con Lloyde sugli affari nostri e pre­vedere, conoscere, definire le cose dell’Armata co’ suoi lumi. Lloyde conosce che pochissimi capiscono cosa si faccia o cosa facciano. Io cavalco seco girando il paese, ora scorriamo davanti la nostra Ar­mata, egli mi dà idea sopra i vantaggi e i discapiti della posizione nella quale siamo, come nel tal luogo siamo forti, deboli nell’altro, cosa potrebbe il nemico fare per vantaggiosamente attaccarci, cosa dovremmo far noi, dove egli avrebbe preferito di accampare, e come, e perchè. Poi scorriamo a riconoscere il terreno fra noi e il nemico, visitiamo i posti avanzati de’ Prussiani, entra egli nel detta­glio con una chiarezza e maestria che mi solleva l’anima, e più ho imparato un’ora col mio Lloyde che non avrei fatto da me in un anno frammezzo a questi ufficiali. Lloyde ha passione per la guerra, è instancabile. Dopo aver localmente osservato e ragionato vi assi­curo poi che è un uomo superiore, ascoltarlo in grande a mirare sotto un sol colpo d’occhio i reciproci movimenti di questa campa­gna, rilevarne il bene e il mal fatto e ragionare sulle Teorie della guerra. Ora comincio a vivere all’Armata perchè vedo che ottengo il fine d’istruirmi, sia ch’io continui a fare questo mestiere sia ch’io l’abbandoni, sempre mi gioverà d’intenderlo e d’averne una idea.

Ma il modo col quale si fa da noi questa guerra è certamente un vero disinganno per chi abbia entusiasmo di mestiere. Il Maresciallo secondo tutte le apparenze è un Signore che ne sa pochissimo, e me lo prova anche la ritenutezza di non parlar mai di guerra. L’amor proprio di ciascuno naturalmente lo porta a mettere in mostra il buono che si ha, e altronde quando nel cuore v’è una passione non si può ammeno che non sbuccia. La continua riserva è una dimostrazione di mancanza di energia e di cognizioni. Il Maresciallo s’è acquistato un gran nome colla vittoria di Colin. Egli è stato il primo che ha battuto il Re Federico. Ma a saper le cose come sono, questa gloria svanisce. Alla battaglia di Colin il Maresciallo aveva già comandato di battere la ritirata e la vittoria era per i Prussiani. Un Reggimento fiammingo, piccato contro de’ Tedeschi che lo deride­vano perchè non stesse esattamente in linea retta e le sue armi non fossero tanto lucide quanto le austriache perpetuamente strofinate, questo Reggimento dico per un movimento spontaneo, mal soffren­do di non aver combattuto e che il nemico non fosse mai venuto a quella parte, attaccò una colonna prussiana al fianco. Cominciò la colonna a piegare, altri Reggimenti spontaneamente vennero dietro ai Fiamminghi unicamente mossi da’ loro comandanti, furono bat­tuti, i Prussiani dovettero ritirarsi e la vittoria immortalò Daun, e fu liberata Praga, liberata tutta la Boemia. Dipende ciò dalla direzione del Maresciallo Daun quanto dalla mia. Ebbe il Maresciallo il frutto della passione d’un Fiammingo di farsi stimare dagli Austriaci, e quel Fiammingo avrebbe meritato un processo per aver agito a proprio capriccio e altrettanto ne meritavano i Colonelli che lo seguirono.

L’anno passato ebbe il Maresciallo un nuovo titolo d’onore colla sorpresa di Hochkirken, ma tutto il progetto era di Lacy e il buon Maresciallo nel tempo della sorpresa andava interrogando se si cre­deva che quell’affare avrebbe prodotto qualche cosa di buono. Io vi presento gli uomini quali sono, e come sono io stesso passato dalla maraviglia al disinganno, così passatevi voi pure. Daun che si trova dalla fortuna così bene assistito credo che non vorrebbe battersi mai più. Se dalla Corte gli venisse dato il libero pien potere, credo che sarebbe inconsolabile perchè non potrebbero i suoi fautori attribui­re alla dipendenza dalla Corte la lentezza colla quale da esso si fa una guerra offensiva. Si tratta non di difendere i nostri Stati ma di riacquistare la Slesia e per acquistarla noi stiamo sulla semplice parata! Certamente che, quando il Re comanda ei stesso le sue trup­pe, ogni soldato si batte con più impeto e sopporta i mali con pazienza, mosso dall’esempio, animato dalla speranza di far la sua fortuna sotto gli occhi del suo Re. All’incontro da noi prima di profittare d’una occasione conviene aspettare l’ordine della Corte e tutto languisce cominciando dal Comandante e discendendo al fantacino. Sin ora non abbiamo fatto che finta di andare nella bassa Lusazia, poi ai confini della Slesia, poi ritorniamo all’alta Lusazia accostandoci a Dresda. I nemici non gli ho veduti più a fare le schioppettate con noi da Sorau a questa parte. Le sentinelle avanza­te prussiane sono tanto umane che, quando con Lloyde ci accostia­mo di troppo, ci avvisano di ritirarci senza offesa alcuna. Veramente l’uccidere un uomo o due non cambia la cosa, siamo quattrini di rame ogni uomo di noi in un tesoro, non val la pena di sottraerli. Così costoro ci calcolano, io però e Lloyde protestiamo altamente e veramente siam persuasi di valere di più.

In questi contorni di Bautzen (che nelle carte anche si scrive Budissim ora in Tedesco ed ora in lingua schiavona che si parla dai villani) si trova una piccola società d’uomini che merita osservazio­ne. Ve ne dirò qualche cosa. Nella Moravia si formò una setta che somiglia i Quakeri cristiani che non hanno simbolo, non sacerdote, non sacramenti. Fanno professione di non dire mai il falso, di non offendere mai il prossimo, di assistere i poveri e adorar Dio. Ven­nero perseguitati in Moravia e ottennero dall’Elettore di Sassonia di ricoverarsi in Lusazia poco da qui discosti. Venne loro assegnato uno spazio di terreno incolto e deserto. Ottennero il privilegio che non avrebbero avuto nè presidio militare, nè giudici, ma che avreb­bero ivi goduto della libertà non solo di esercitare la loro religione ma altresì di amministrarsi civilmente giustizia mediante, credo, un annuo fisso tributo. Vennero questi che si chiamavano Fratelli Mo­ravi e fabbricarono un borgo in breve tempo con case gentilmente fatte ma senza fasto. Fu chiamato Herrenhutt. Il vicino territorio fu in breve coltivato. La maggior parte di questi Ernuttesi fa il mer­cante, voi trovate da essi la più eccellente mercanzia in ogni genere utile e niente di vanità o di lusso. Telerie eccellenti e soprafine, panni d’Inghilterra i più perfetti, pellicce le più belle e fine del Nord e dell’America, cuoi, stivali ec. Mandate un bambino a comprare, andate voi, è lo stesso, vi viene detto precisamente il prezzo o comprate o lasciate. Questi hanno i loro fratelli già sparsi pel mondo alle Indie Orientali, all’America, in Olanda, in Londra ec. Stoffe d’oro, merletti, galloni d’oro o argento ec. non ne trovate; ma tutto il liscio più elegante lo trovate. Quasi tutti sono ammogliati. Se hanno mezzi e volontà di custodire i figli e allevarli, sono padroni. Se vogliono deporli nella casa de’ fanciulli, lo possono. In queste case pubbliche è somma la decenza e l’attenzione nell’educarli, niente loro manca perchè stieno sani e perchè sieno bene allevati. Alla tutela di questi sintanto che sono bambini vegliano le donne rimaste vedove le quali hanno un decente e libero ricovero in quelle case dove sono di tutto mantenute. Esse hanno cura de’ bambini, poi cresciuti a una età di sette o otto anni passano ad essere educati in un’altra casa dove a questo fine vengono mantenuti de’ uomini savi capaci di bene alle­varli e questi sono que’ fratelli che, mancando di mezzi di fare il commercio, sono mantenuti a pubbliche spese. V’è un’altra casa per le zitelle allevate pure colla direzione delle vedove. Non crediate già che siavi nè la povertà nè la schifezza degli spedali, la società non è numerosa, lo spirito della sua setta è fresco e vigoroso, il loro com­mercio li rende ricchi, il lusso o la pompa non disperdono le loro ricchezze, quindi di buon grado s’impone ogni abitante la tassa d’un tanto per cento sugli utili del suo negozio e questa serve al manteni­mento di queste pubbliche instituzioni. Un giovine, allevato che sia, sa leggere, scrivere, e qualche mestiere, trova da servire da giovane presso qualche artigiano o mercante, e se ha condotta unisce bastan­temente per negoziare poi da sè. È incredibile il numero de’ Sassoni e Boemi che vengono a lasciare il loro denaro a questi industriosi repubblicani. Se un giovine si dispone a prender moglie, è ammesso all’albergo delle zitelle e dopo qualche esame può scegliere, se la figlia acconsente ella è sua moglie. Anche dalle case private può far ricerca per una moglie. Il costume di questi Ernuttesi è puro. Non si ha idea d’infedeltà conjugale, e quello che da noi si considera come una piacevole galanteria farebbe orrore e sembrerebbe un tradimento presso questi uomini buoni. Ognuno vive nella casta unione del matrimonio. Di libertinaggio non v’è ombra alcuna. Nemmeno si dà il caso che uno dica ad un altro un’ingiuria, ma si trattano con una dolcezza e amorevolezza l’un l’altro e s’ajutano come fratelli e amici. Se nasce qualche diferenza fra di essi o per affari di negozio o per cose di famiglia, vi è un Conte di Zizendorf che vive con essi, è della stessa religione, ed ha fuori le sue rendite, e questo saggio signore arbitra, accomoda, e tutti stanno alle sue decisioni unicamente per una stima personale che hanno di lui. La loro religione, come dissi, principalmente consiste nelle buone azio­ni, soccorrere i loro fratelli, essere fedeli, veridici ed esatti. La dome­nica si radunano in una sala senza immagini, so che non hanno nè pastore nè parroco, nè prete, non so poi se cantino o predichino. Vi dirò per fine che la virtù di questa gente ha sparsa tanta opinione che, sebbene sieno loro girate intorno spesse volte le Armate e nostre e de’ nemici, non ha mai osato alcuna di violare il loro tranquillo e rispettabile asilo. Sinché le instituzioni son vicine alla loro origine, e non sieno molto dilatate, quando abbiano una base di vera virtù, abelliscono la natura umana e la fanno esistere bella e senza vizj. Non vi ho parlato di carceri, di sgherri, di pene di questa giovine repubblica che non le conosce, nè ha idea che di scacciare dalla sua società un cattivo membro, se mai col tempo alcuno se ne trovasse. Per ora sono stanco, vi abbraccio ec.

IX. 8 Ottobre 1759 Hoff in Sassonia

Dai fogli pubblici avrete veduto che il secreto del nostro piano di campagna era di vincere col sangue de’ nostri aleati e risparmiarci; infatti i Moscoviti, credendo alle nostre finte, si son bravamente bat­tuti, dovevamo noi cader sopra al Re uno o due giorni dopo la rotta, profittare dello sconcerto della sua Armata e non abbiamo fatto mai niente davvero. Mentre stavamo avanzando ritirando il quartiere, un errore del Generale De Ville ci ha obbligati a correre per salvare Dresda. De Ville comandava un corpo staccato di dieci mila uomini, fu postato per riparare Dresda dalle invasioni che dalla Slesia potevano farvisi. Si appostò senza veruna precauzione. Un sergente non si posterà con trenta uomini, ch’ei non ne ponga uno o due avanzati verso il nemico in sentinella almeno per avvisarlo quando venga per essere attaccato. Un corpo di dieci mila uomini sempre stacca qualche compagnia che stia ai posti avanzati, e da queste compagnie si staccano ancora più vicino al nemico delle sentinelle, per modo che dai colpi di fucile viene avvisato dell’avvanzarsi del nemico e fa le disposizioni, si mette in istato di rice­verlo e respignerlo. De Ville aveva dimenticato tutto ciò. Una banda di Prussiani s’avvanzava non per attaccarlo ma per riconoscerlo. Cade questa immediatamente sul campo. Sorpresi, i nostri e il De Ville non ebbero luogo a esaminare quanti fossero i nemici, si pre­cipitarono tutti sbandatamente in fuga e obbligarono la Armata di venire ai contorni di Dresda ove eravi la Armata dell’Impero, se pure merita il nome di Armata. Ho veduta Dresda un momento, ma dacché ci avanziamo alla volta di Vittemberg ogni giorno vediamo il nemico che si ritira a piccole marce e noi a piccole marce andiamo seguendo. Le schiopettate si fanno tutto il giorno fra gli usseri nostri e prussiani e sempre grazie al cielo tutti rimangono sani e salvi. Non ammazza mai l’ussero un ussero, nè un cannoniere un cannoniere, hanno, credo, un patto di famiglia e gettano al vento la polve.

A Dresda si sono uniti con noi i due Principi Reali di Sassonia Alberto e Clemente, è qualche cosa di grande per il Maresciallo di vedersi corteggiato uno per parte da simili volontarj oltre il Principe Luigi di Vittemberg, Duca di Braganza e altri Signori della prima distinzione. Il Maresciallo ha per la sua persona una guardia del corpo d’usseri e Cacciatori e al suo alloggio una compagnia di Granatieri. L’Imperatore non ne avrebbe di più se fosse qui in per­sona. La subordinazione lo rende superiore a tutti e si vedono i Principi Reali fargli i rapporti col capello in mano mentre egli sta coperto. La guerra torna gli uomini allo stato di natura, il più forte comanda, chi ha bisogno cerca la benevolenza, questi due Principi dei quali il paese è in preda alla guerra, senza tributi, senza sudditi, senza Armata, sono costretti a vedere sotto i loro occhi depredate le loro contrade e inutilmente compiangere la sventura de’ suoi. Vi dirò una anecdota. Mi fu mostrata a Dresda la porta dell’Archivio sulla quale la Regina in persona voleva opporsi all’ufficiale prussiano incaricato di estrarne alcune carte originali, ma inutilmente ado­però l’incanto della maestà Regia, perchè l’ufficiale aveva troppo precisi ordini e il Re Federico vuole esattezza. L’anecdota è questa. Il Ministro Imperiale a Berlino era come sapete il Generale Conte Puebla, al quale dalla nostra Corte era stato assegnato per secretario di legazione il Veingarten. Puebla non era tranquillo sulla fedeltà di questo secretario, infatti costui tradì la Corte e svelò al gabinetto prussiano il trattato che era sul tappeto fra la Moscovia e il Re di Polonia e noi per la Slesia. Questo filo bastò, perchè i Ministri prussiani a Pietroburgo, a Vienna e a Dresda fossero avvisati a cercare di scoprire l’oggetto. Il Ministro prussiano a Dresda aveva un abilissimo secretario; questi fece lega con un secretario di gabinetto di Sassonia onestissimo, fedelissimo, ma per sua sventura dato al giuoco e alle donne. Il Prussiano aspettò che il Sassone avesse fatta una perdita e fosse inquieto per comparir pontuale e gli esibì del denaro in prestito. Poi sempre più stringeva l’amicizia e si passava a cene deliziose con belle fanciulle e facili, in tal modo voluttuosa­mente il povero Sassone si trovò d’aver contratto un debito sensibi­le. Fece nuove perdite e il Prussiano si mostrò afflitto per non aver più di che soccorrere il suo amico, lo lasciò per qualche tempo in pena, poi gli propose l’espediente di ricorrere al Ministro di Prussia, suo principale, essendo egli uomo che aveva del contante e inclina­to a far piacere. Questa proposizione sbigottì il buon secretario sas­sone al quale fece senso, essendo di gabinetto in un geloso ufficio di Stato, di poter comparire legato con un Ministro estero e singolar­mente d’un vicino gelosamente osservato come il Re di Prussia. Ma il bisogno, la inopia d’altri mezzi, la fiducia nella apparente buona fede di quel secretario che credeva suo amico, la speranza di sanar tutto con miglior fortuna al giuoco gli fecero sorpassare il passo e ricevette soccorso in prestito dal Ministro prussiano. Legato che fu forse anche con replicate somme, cambiò la scena. Il secretario prus­siano cominciò a chiedere la restituzione a nome del suo principale; fingeva dispiacere di questo e gettava tutta la colpa sul Ministro, pretestava i motivi del bisogno che il Ministro aveva del denaro e gradatamente dopo alcune settimane venne alla intimazione che, se non pagava la somma, il Ministro avrebbe presentato al S.r Conte di Bruhl il suo vaglia ed avrebbe trovato modo di essere pagato. A questo colpo si vide perso il secretario sassone. Se avesse almeno avuto vigore d’animo, doveva ei stesso confessare al Conte di Bruhl il suo fallo, prima di lasciarsi strascinare a perdere la sua virtù e sacrificare il dovere, e tradire il suo sovrano; ma fu timido e le anime timide sono le più disposte a far male. Nella desolazione in cui si trovò si gettò ciecamente nelle braccia del suo finto amico, il quale destramente lo condusse dove voleva, cioè che, soltanto che potesse il Ministro prussiano essere introdotto nell’Archivio per un momen­to per riconoscere un tale nominato dispaccio (e questo era di nes­suna importanza), gli prometteva che avrebbe lacerato ogni suo vaglia e finito tutto. Gli spianò ogni difficoltà sul modo della esecu­zione; l’ora, la strada, il mezzo cauto e sicuro furono trovati, fu indotto il Sassone a questa rea condiscendenza. Posto che ebbe il piede il Prussiano nell’Archivio, ricercò in vece gli scaffali ne’ quali eranvi i dispacci del conte di Flemming, Ministro di Sassonia a Vienna, vi dimorò quanto gli piacque, fece le annotazioni che volle e il Sassone, smarrito e che non poteva più nè ritirarsi nè dire ragio­ne, lo dovette lasciar fare. Ed ecco come il Re di Prussia al primo invadere che fece la Sassonia potè dar ordine al suo ufficiale di pren­dere dal tal scaffale al numero tale la tale e tale carta che vi si ritro­vò esattamente e queste carte originali le fece poi da’ suoi Ministri alle Corti dell’Impero vedere e giustificare come fosse ordita la trama di spogliarlo della Slesia e la guerra fosse difensiva per parte sua, come poi anche pubblicò colla stampa di quei documenti nel suo Memoire raisonné. Quest’anecdota potrebbe servire di filo ad una azione di teatro, per ammaestrare gli uomini che mal sono sicu­ri contro qualunque eccesso tosto che smoderatamente si abbando­nino al giuoco, e che la virtù e l’onestà si perdono colla debolezza e colla incauta docilità anche da chi abbia una ottima indole e onora­ta. Io deploro il povero secretario sassone disonorato e in preda ai rimorsi. S’egli fosse stato un uomo perverso non avrebbe nè rossore nè rimprovero al suo cuore; era buono e virtuoso e perciò è più miserabile e degno di compassione.

Il Maresciallo è sempre dello stesso umore, quando si è da lui non si parla mai di guerra. Alla sua tavola sempre sono ben trattato e mi indirizza qualche parola. Alle volte il dopo pranzo ne’ calori dell’e­state scorsa usciva nell’anticamera a capo nudo e pelato senza parucca o beretta, con un giuboncino di tela bianca, slacciato il collo e sedeva circondato da varj de’ primi Signori e Generali che stavano in piedi. Veniva il Maresciallo a prendere una gran tazza enorme di sorbetto di limoni senza che a nessuno ne venisse offerto e, goden­do delle ciarle che si facevano, si rinfrescava mentre io mi sentiva una voglia impetuosissima di avere un sorbetto. Ma come trovare ghiaccio in un villaggio miserabile? Dopo il sorbetto beveva una caraffina di Tockay. Il costume in questo non è cortese; poteva nella sua stanza prendere solo quella delizia senza farla invidiare da tanti galantuomini. Ma la società austriaca non riflette delicatamente nè fa economia di sensazioni disgustose agli altri. Il mio Lloyde è il mio Mentore, la mia consolazione, più lo conosco e più lo stimo e amo, egli ha della amicizia per me, mi sono distaccato da alcune mignat­te di capitanj che avevano amicizia col mio cioccolatte e col mio cuoco ma per disfarmene ho dovuto chiaramente dire che andasse­ro perchè voleva pranzar solo. Questi parasiti rovinerebbero al paro degli altri, ma nemmeno vi consolerebbero colle apparenti officiosi­tà de’ nostri parasiti. Lloyde è sommamente generoso, è povero, ma è indifferente a vivere con un pezzo di pane. Il Lacy lo adopera assai, ultimamente l’ho veduto incaricato di far fortificare un sito, egli por­tava le fascine, adoperava la zappa, travagliava al paro de’ soldati che erano sotto a’ suoi ordini e li chiamava fratelli, lavorava allegra­mente, rallegrava gli altri e sotto di lui si è fatto in un giorno quello che un altro avrebbe fatto in tre o quattro. Giriamo il paese, visitia­mo le posizioni, ragioniamo sulla guerra, dico ragioniamo, perchè sebbene io senta la gran distanza che v’è fralle sue cognizioni e le mie che cominciano, sento però che principio a ragionare. Ma vi ripeto che rarissimi sono all’Armata che sappiano cosa sia la guerra e cosa si faccia. V’abbraccio addio ec.

X. Schilda 1 Novembre 1759

Sono già dieci giorni dacchè siamo immobili in questo quartiere; passo passo siamo avvanzati sin qui. Il nemico è postato a Torgau contro di noi; ci siamo appostati prima a Belgern, poi siam qui, ma si dice che non è visibile da vicino, sta sopra una costa elevata, davanti ha delle paludi, ai due fianchi ha l’Elba e una altura cinta di boschi. Lloyde vorrebbe con molta paglia dar fuoco a quel bosco di piante resinose, aspettare che il vento spignesse il fumo nel campo, ha disegnato come attaccarlo; ma le sue idee sono idee d’un povero Tenente. Abbiamo distaccato il Duca d’Arhemberg con 18 mila uomini che si è postato dietro al nemico a Dommitzsch, ma i Prus­siani hanno libera la riva dritta dell’Elba e non s’imbarazzano d’es­sere fra due, attesa la vantaggiosa situazione del loro campo. È acca­duto giorni sono che l’ajutante del Duca d’Arhemberg è stato fatto prigioniere da’ nemici mentre dall’Armata andava per portare al Duca le lettere della posta. Il Principe Enrico, ricevute queste e osservato il sigillo della Duchessa d’Arhemberg, spedì un trombet­to al corpo del Duca colla lettera e due righe nelle quali gli diceva che, sebbene col suo ajutante avesse prese le sue lettere, non voleva diferirgli la soddisfazione di aver nuove della Duchessa sua sposa, giacché era informato de’ sentimenti rispettabili che li univano. In questa guerra si vedono anche de’ tratti di umanità. Tutto il bene che si possono fare i nemici senza pregiudicare la causa si fa. Se un servitore mi ruba e va dai nemici, con un trombetto si passa l’avviso e reciprocamente si consegna. I nostri prigionieri erano ben trattati ne’ primi anni a Berlino e dovunque; ma avendo poi veduto il Re di Prussia che i suoi si confinavano nel Tirolo, non si toleravano in Vienna ed erano mal trattati, cambiò stile, però non si può dire che sieno trattati male. Qui non v’è una opinione stabile o ragionevole sul conto del Re di Prussia; quando per poco le cose vanno bene, si dice liberamente che il Re di Prussia è un asino e peggio se occorre. Al momento in cui abbiamo il minimo rovescio, tutti amutoliscono e si guarda il Re come un gran soldato e si trema. Un gran soldato lo è certamente e lo dobbiamo dire per nostra reputazione giacchè resiste alla Francia, Austria, Moscovia, Impero, e Svezia collegate contro di lui e attualmente non possediamo un palmo del suo.

Dacché non v’ho scritto mi sono più volte trovato alla piccola guerra che fanno i posti avanzati. A Belgeren mi sono trovato fram­mezzo alle nostre batterie di cannoni e quelle degli nemici. La curiosità mi portò di accostarmi verso il villaggio di Benewitz dove se ne disputavano il possesso una banda di Prussiani e de’ nostri e a mezza strada comincio a sentire lo scoppio alle spalle del nostro cannone, poi tuonarmi sul capo la palla; dopo un momento sento di contro la risposta e lo stesso mugito sulla mia testa, la musica rinforzava da ambe le parti, e ingenuamente vi dico che niente mi piaceva. Quel rumore della palla di cannone ha del ferale e bisogna che io fac­cia sforzo a resistere; ma erano con me altri ufficiali, incontrammo il Generale O’ Donell il quale disse: «Costoro ci hanno presi di mira». Il vicendevole impegno ci ha, credo, tenuti tutti fermi e tran­quilli sebbene continuasse vivacemente la musica. Io solo ho saputo che aveva assai timore, ma frattanto stava distribuendo del tabacco e tra gli altri il Capitano Castelli, Ajutante di O’ Donell, ne prese e mi parlò e credo che avesse allora tanto pensiero di sè che nemme­no dopo gli potei far risovenire di avermi parlato. Bel bello bel bello il Generale s’incamminò verso i nostri e tutti noi lo seguimmo con eguale gravità sotto il muggito continuo di queste palle che credo non passassero lontane. Un movimento naturale mi avrebbe porta­to a piegarmi sul collo del cavallo ogni volta; ma la brama della opi­nione mi faceva stare ritto come un palo. Quando ne fui fuori dopo di un buon quarto d’ora di questa facenda, vi assicuro che mi trovai ben contento. Mi direte perchè mi vado io esponendo così alla ven­tura, sebbene io non lo debba fare che in seguito al S.r Maresciallo; vi rispondo che l’occasione porta di essere in compagnia e, quando uno propone di andare per curiosità, bisogna non farsi mai deside­rare, non vorrei che per essere io più civile e ragionevole di costoro che mi credessero di minor coraggio, la mia cortesia nasce da scelta, da educazione, da principj, non da timidezza. Eccovi il secreto. Il Maggiore del mio Reggimento comanda un distaccamento di grana­tieri, quando il Maresciallo mi cerca il mio cannocchiale, che è eccel­lente e quasi sempre me lo cerca per esaminare il nemico, il Mag­giore cerca di farsi un circolo con un cannocchiale di Venezia di cinque o sei paoli e pare un saltinbanco nel cercare di screditare il mio a fronte del suo. Vedete che vendetta! Fatto sta che nessuno degli ufficiali del Reggimento si vede mai al Quartier Generale, non osano mostrarsi e vivono nel loro covile annojatissimi fragli annojati, non sapendo nulla di quello che accade e non essendo conosciuti da alcuno. Il bel mestiere che avrei fatto io, se non spuntava di essere collocato dove sono! Figuratevi che il Quartier Generale è veramente la Corte dell’Armata. Io non lascio di dubitare che l’acco­glienza fattami dal Colonello e la bella cortesia del Maggiore sieno state mosse dal Marchese Clerici istesso, egli è d’umore a ordire que­sta recezione, perchè, poi, a qual proposito due uomini ai quali io non aveva fatto dispiacere alcuno e che mi vedevano per la prima volta di mia vita dovevano usarmi ostilità? Di tutti questi del Reggimento non ne ho veduto che un solo il quale mi è parso ragio­nevole ed è il Tenente Colonello Lombardi, egli è aggregato e da poco tempo. Difficilmente m’indurrò a vivere in così disgustosa società. Ho già scritto a un amico di casa per vedere se mi vorranno assistere per altre campagne, sulla risposta prenderò le mie misure. Il March. Clerici, mio cugino, quando partii mi raccomandò viva­mente di scrivergli le nuove. Sintanto ch’egli fu a Milano, le aggradì moltissimo e mi rispose graziosamente, ora che è a Vienna e non ne ha bisogno ha cambiato stile; può aspettarsi altre mie lettere! Io non ho mai cercato d’entrare nel suo Reggimento. Il S.r Conte Cristiani spontaneamente mi aveva esibito di collocarmi in un impiego. L’anno scorso prima di morire mi fece avvisare che s’egli soccombe­va dovessi indirizzarmi al S.r Conte di Kauniz che era già da lui pre­venuto, in conseguenza di ciò v’assicuro che nessuno è stato più maravigliato di me quando in agosto dell’anno scorso mi venne annunziato che era Capitano nel Reggimento Clerici, colla condi­zione innaspettata di dover servire sempre nel Battaglione d’Italia per non scostarmi da’ miei parenti. Questa condizione mi ha portato appunto a chiedere il permesso di fare la campagna. Ma quel poco tempo di otto mesi che fui a Milano coll’uniforme è bastato per farmi desiderare di non avere che fare col Sig.r Marchese cugi­no. Ei lascia venire la domenica gli ufficiali alla sua anticamera, vi ci lascia per un’ora, frattanto entrano i suoi buffoni, e termina col farci dire che ci ringrazia ma non può riceverci. Per un galantuomo che si sente ben nato è poco graziosa la cerimonia. Egli è aspro in distan­za, quando è in faccia diventa officioso, non mi quadra il suo umore.

Giorni sono il Maresciallo ha spedito secretamente a Dresda il Capitano Collin per intendere dal Generale Griboval, che ha la cura di fortificarvi un campo, qual sicurezza vi avremo. Questo mi prova che probabilmente finiremo l’anno col tornare indietro. Ma di più so che il Maresciallo non intende il linguaggio di fortificazione e il Capitano ha avuto molta difficoltà a fargli comprendere i movi­menti di terreno che si son fatti. Quantum est in rebus inane! Sento che questo Griboval sia un Francese di molto merito, non vorrei che anch’esso finisse a disgustarsi. I due Generali Prussiani Rebentisch, e Finck, che ora comandano due corpi separati e ci perseguitano giorno e notte senza posa, erano due poveri ufficialetti al servigio nostro maltrattati, ricevendo de’ torti forse perchè non erano al livello degli altri. Si disgustarono finalmente, quittarono e passaro­no al servigio di Prussia. Federico gli ha conosciuti, gli ha innalzati e lo proviamo noi, coloro fanno la guerra del loro padrone e la loro propria.

Il mio Lloyde è conosciuto generalmente, comunemente lo temo­no e l’odiano perchè non si sa misurare e lascia vedere il profondo disprezzo che ha per chi lo merita, i primi signori gli vanno dietro come da un uomo singolare. Egli al Quartier Generale nell’antica­mera alle volte ha un circolo di quanto v’è di più distinto, lo stuzzi­cano a parlare sullo stato delle cose, su quello che si può fare, sul bene e male de’ nostri movimenti, egli lascia sbucciare la sua impa­zienza sulla inoperosità nostra e una volta l’ho io udito alla porta stessa della stanza del Maresciallo interrogato cosa credeva che fare­mo: «Delle scioccherie al solito» rispose ad alta voce. È molto se non si perde, ma egli o vuol volare o andarsene. Qualunque sia il suo destino io lo amerò e l’onorerò sempre, perchè non ho sin ora tro­vate riunite in un uomo tante qualità eccellenti. Egli mi dice che invidia la cortesia del mio carattere e che se ne potesse avere una dose nella composizione del suo tutto vorrebbe diventar padrone del mondo. Vi abbraccio ec.

XI. Dresda 28 Novembre 1759

Troppe cose vorrei scrivervi nè so se ne avrò l’agio, ma prima di ogni altra vi dirò dell’affare di Maxen accaduto sette giorni sono e, omettendo interamente quello che potrete sapere dai fogli pubblici, vi farò informato in vece di quelle circostanze che formano la storia arcana. Figuratevi che la nostra Armata, dopo avere inutilmente rimirato il nemico nel suo campo di Torgau per quindici giorni, la stagione avanzandosi, si ripiegò verso Dresda dove fummo il gior­no 17. L’Armata appoggiava il suo fianco dritto alla città e faceva fronte al nemico che era al nord. Il Re di Prussia, non trovando il suo conto ad attaccarci ove siamo, pensò di obbligarci ad abbando­nare Dresda col tagliarci la comunicazione colla Boemia. Distaccò un corpo di 12 mila uomini sotto il comando del G.le Vunch e lo postò a Maxen. Ciò fatto, a noi non restava altro partito che o pas­sar l’Elba e ritornarcene in Boemia a invernare abbandonando tutta la Sassonia, ovvero far sloggiare il nemico da Maxen d’onde ci avrebbe rappresagliati i viveri che ci vengono dalla Boemia e inter­cetta la comunicazione. Il Maresciallo marciò con porzione di gente verso Maxen il giorno 19, poi vi marciò il 20, e sempre ritornò, senza nemmeno aver potuto vedere i nemici, i quali sono contornati da boschi e scavi impraticabili, anche il giorno 21. Il Maresciallo stava per ritornarsene a Dresda colle truppe. Era veramente cosa meschi­na il vedere che nemmeno si trovasse un villano che potesse spiega­re come fosse fatto quel terreno che era di là dal bosco. I Sassoni non sono niente amici nostri. Si stava disputando cosa vi fosse cosa non vi fosse, ed eravamo a perdere il tempo verso Reinhartsgrimme, piccolo villaggio. Un nostro Italiano, il Tenente Colonello Fabris, nativo del Friuli, uomo di testa e dei pochi che amano la gloria, impazientato del ridicolo perdimento di tempo che si faceva per ritornare la terza volta indietro, spronò il cavallo alla volta del bosco per cui si passava al nemico, incontrò un capitano de’ Crovati che era al nostro posto avanzato, gli chiese se volesse venir seco colla sua compagnia, e questi lo seguirono. Eravi una piccola altura che domi­nava la strada unica per cui si passava il bosco; Fabris la osservò e vide che il nemico aveva negligentato d’impadronirsene dove postando qualche pezzo d’artiglieria poteva impedire l’accesso. Cominciò a giudicare che i Prussiani si fossero malamente apposta­ti. Entrò nel bosco seguito dai Crovati, ivi osservò non essersi getta­te delle piante attraverso la strada per impedirvi il passaggio de’ cavalli e artiglieria. Osservò non esservi nè cacciatori nè truppe leg­gieri nè a dritta nè a sinistra nel bosco. Queste negligenze de’ Prussiani sempre più gli fecero pensare che poco sapientemente si fossero collocati. Era già per isboccare dal bosco e vide alcuni usse­ri prussiani i quali, in vista de’ Crovati, credendoli forse in assai maggior numero, presero la fuga per unirsi al loro corpo. Si pose a galloppar loro dietro bastantemente per non perderli di vista. Osservò che terminato il bosco eravi una pianura bastante a schie­rarsi dodici mila uomini; ma questa era dominata da tre alture dalle quali il cannone avrebbe potuto troppo molestarli. Tutto stava a conoscere se vi fossero appostate artiglierie su di quelle alture.

Fabris appunto teneva di vista gli usseri nemici affine, mi diss’egli, di osservare se, avvicinandosi essi a quelle alture, rallentavano il cor­so e allora avrebbe giudicato che questa tranquillità nasceva perchè ivi eranvi i loro compagni; se poi proseguivano, segno era che fosse­ro anche quelle importanti alture sguarnite. In fatti continuavano a galloppare. Fabris apposta i suoi Crovati alla imboccatura interna del bosco e solo ascende quelle alture e vede tutto libero. Esamina il nemico e osserva che nel campo tutto era in movimento e inquie­tudine. Si vedevano i fucili lampeggiare da una banda all’altra come se si movessero per cercare una nuova posizione. Osservò che v’erano due strade dalla natura poste in modo che senza essere vedute dal nemico potevano due colonne nostre portarsi sino al colpo di fucile ad attaccare senza prima essere offese. Il nemico era collocato sopra di una altura, conveniva a noi, giunti alla portata del fucile, discendere, poscia arrampicarsi ad essi. Ma tutto il contegno de’ Prussiani, la somma negligenza di non aver difeso il solo ingresso del bosco non gli lasciò dubitare dell’esito. Convien ch’io vi dica che dai fianchi non erano accessibili i nemici, perchè scorrevano loro due cavi profondi che sboccano l’acqua nell’Elba con rive altissime e intralciate d’alberi. Visto ciò, Fabris lascia i suoi Crovati dove gli aveva collocati e galloppa da noi incerti di tutto e al Maresciallo dice: «Signore, questo è il momento, venite e vi rispondo della vit­toria. Io condurrò una colonna alla portata del fucile senza perdere un uomo, darò a Beaulieu la condotta di un’altra che sicura giugnerà come la mia, i nemici non sanno quello che si facciano, ho visi­tato tutto, il momento decide». Fabris era conosciuto perchè servi­va nel numero degli adetti al G.le Lacy per le marce e quartieri. La sua franchezza, la necessità di appigliarsi a un partito, il non saper­ne di migliore determinarono il Maresciallo ad ordinare al corpo di truppa che aveva seco la marcia. Fabris precedeva. Passiamo nel bosco tranquillamente. Ci schieriamo con sicurezza nella pianura, fuori usciti dal bosco ci dividiamo in due colonne. Gl’inimici canno­navano a buon conto senza far danno a veruno perchè eravamo coperti dalle alture. Fabris alla testa della sua colonna appena si mostrò ai nemici, scivolò sedendo e in egual modo fece slisciare sul loro sedere i granatieri che gli venivan dietro, così i cannoni di un fortino di terra, che stavano sul fianco sinistro de’ Prussiani e di con­tro al quale si mostrò, non poterono più offenderli, giacché oltre una certa inclinazione il cannone non si piega. Poi, arrampicandosi e sostenendosi come ad una scalata, attaccarono in persona il fortino e i Prussiani dopo una scarica generale de’ loro fucili gettarono la maggior parte i fucili e si diedero alla fuga. Fabris, posto il piede sul fortino e vedendo il resto, mandò al Maresciallo un compimento di congratulazione sulla vittoria. Furono inseguiti i nemici, ma soprag­giunse la notte. I Prussiani si trovarono coll’Elba alle spalle. Di con­tro eravamo noi; dai fianchi eranvi i due cavi che ho detto e sopra di uno eravi il General Brentano col suo corpo; sull’altro, verso Dohna, il Maresciallo Serbelloni coll’Armata dell’Impero. Durante la notte tentarono di farsi strada e sottraersi verso l’Armata dell’Impero ma con pochi colpi di cannone furono rispinti. Com­parve il giorno, cercarono essi capitolazione, non furono ammessi, dovettero rendersi, dimettere le armi ed essere prigionieri: l’unica cortesia fu loro accordata di lasciare a ciascuno il suo equipaggio. Notate che dalla costa sulla quale erano accampati i Prussiani sino all’Elba si discende continuamente onde, abbandonato che ebbero il campo, noi fummo loro sempre imminenti.

Di questo fatto pochi ne sono informati come ora lo siete voi. Il volgo anche gallonato incolpa d’un errore il Re di avere così collo­cato questo corpo: ma voi vedete che, se il Vunch si fosse collocato con più sapienza, a noi sarebbe stato impossibile di accostarvici nemmeno. A me sembra che il Re ha disposto da abile capitano e che, se il suo Generale avesse saputo meglio il suo mestiere, noi era­vamo scacciati dalla Sassonia e alla campagna ventura da capo alla guerra. Dal trionfo poi del Signor Maresciallo, di cui parlerà l’Europa e forse la storia, sempre più mi confermo nel mio pironismo sulla storia. Ecco Kolin, Hockirken e Maxen: tre trionfi di Daun senza sua saputa. Fabris è stato dichiarato Colonello sul campo di battaglia, e, sebbene il Maresciallo non abbia questa facol­tà, nessuno dubita che non sia la Corte per applaudire a questa pro­mozione e confermarla. Daun venne a Dresda come in trionfo conducendo in suo seguito i Generali Vunch, Finck e Rebentisch che ha tenuti seco a pranzo. All’accogliere Vunch gli ha detto una freddu­ra che è un giuoco di parole: Vunch in Tedesco significa desiderio, il Maresciallo dunque gli disse che aveva piacere di conoscerlo, che spiacevali della occasione, ma che in questo mondo le cose non vanno sempre a seconda di Vunch, del desiderio.

Il Reggimento Clerici aveva perdute le tende che l’inimico gli ha tolte, adunque s’era collocato in Meissen. Nel ritirarci che noi femmo verso Dresda una delle nostre colonne attraversava Meissen.

Era schierato il Reggimento Clerici sulla piazza ed aveva ordine di marciare dopo il tale Reggimento. Poi doveva venirgli dietro la Cavalleria. Un Reggimento di Cavalleria che fuori delle porte di Meissen riceveva qualche colpo di fucile dalle truppe leggieri nemi­che non ne volle sapere d’aspettare, s’ingolfò nella città, Clerici ebbe bello volersi mettere in ordine, dovette incamminarsi l’ultimo col nemico vicino. Sia paura sia smemoratezza, se ne uscirono lasciando in Meissen i loro cannoni di campagna. Per azardo il S.r Maresciallo li vide, osservò che mancavano i cannoni, ne chiese; il Colonello, il quale aveva meno imperio in quel momento di quello aveva mostrato alla mia recezione, rispose scioccamente. Non ho mai veduto il M.lo Daun sulle furie se non in quel punto, gli disse deciso che andasse a riprendere i cannoni e che se non li conduceva ne avrebbe risposto colla sua testa. Il giorno dopo vidi venire all’an­ticamera del S.r Maresciallo il Ten. Colonello Lombardi, la prima volta fu che vidi uno del Reggimento Clerici in quel luogo. Il S.r Duca di Braganza lo conosceva, cominciò ad accostarsegli e lo incoraggì. Il Lombardi era stato leggiermente ferito in una mano, ma i cannoni si erano riacquistati; col mezzo del S.r Duca potè accostarsi al S.r Maresciallo che al sentire il nome Clerici lo vidi avvampare in volto, e sebbene il buon Lombardi non ne avesse colpa fu bru­scamente trattato ed ivi in pubblico intesi che gli replicò che aveva tutti i torti il Colonello che non aveva fatto il suo dovere.

Il S.r MarA Daun è però assai di rado collerico. Il G.le Lacy è as­sai più duro. Egli ha un drappello di Ufficiali Colonelli, Maggio­ri, Capitani, unicamente da lui dipendenti e sono i migliori del­l’Armata. Fra questi il Fabris e Lloyde. Questi non si ricordano se sia notte o giorno, s’espongono a mille incomodi e pericoli per rico­noscere il paese, disporre le marce, gli accampamenti e quanto dipende dal Generale Quartier Mastro. Non v’è memoria che Lacy abbia detto una volta ad alcuno: «Son contento di voi». Egli è impe­tuosissimo, ha un sogghigno derisore, è pieno di valore, è anche generoso ma non conosce la moneta che costa meno e fa operare più, la cortesia e le buone parole de’ grandi. Al di lui quartiere di ogni ora i suoi ufficiali trovano la tavola e in questo spende liberal­mente ed è necessario perchè chi è sotto a’ suoi ordini non può aver ore fisse da far cosa alcuna. Mentre eravamo giorni sono a Heinitz ebbimo un piccolo attacco co’ nemici. Un capitano nostro stava appostato con due cannoni di campagna sopra di una altura pronto a difendersi. Il G.le Lacy gli mandò a dire che se si moveva l’avreb­be fatto impiccare. Per un uomo d’onore è una maniera assai strana questa da comandargli. Eppure conviene che chi vi è vi stia, non v’è riparo con un superiore. Non so se nelle Armate francesi o spagnuole si usi simile linguaggio. I Moscoviti si bastonano tutti, non v’è che il Generale in Capite che non lo possa essere. Il Generale è bastonato dal Tenente Maresciallo, questi è bastonato dal Ten.te Generale e il Tenente Generale è bastonato dal Generalissimo ossia Generale in Capite. Così si vive all’Armata moscovita per sistema. In fatti non vi sono di ufficiali a quel servigio nè francesi nè italiani né credo d’altre nazioni. Noi non siamo a quel segno; ma non so cosa sia più disgustoso per un uomo di nascita e d’onore, o il vedersi minacciare un capestro nella ingiusta e ingiuriosa supposizione che voglia fuggire dal nemico, ovvero ricevere la bastonata. Il problema meriterebbe una dissertazione che non ho tempo di farvi. Queste sono anecdote che pochi dicono perchè ciascuno vorrebbe fare invi­diare il suo mestiere, ma io a voi svelo gli oggetti e vi mostro inte­riora rerum. Ve ne scrivo un altro per illuminarvi sulla nobiltà della professione a cui siamo elevati. Il conte Origo Ten. Colonello fu posto nel corpo comandato dal Duca d’Arhemberg, ebbe occasione di respignere una banda di nemici e ne approfittò per portarsi a farne il rapporto in persona al Duca, affine di farsi conoscere e con quella occasione raccomandarsi. Fu ammesso nel suo quartiere, e il Duca stava sedendo sopra una seggiola senza appoggio e un came­riere da una parte un altro dall’altra lo stavano pettinando. S’in­chinò profondamente a Sua Altezza il nostro Tenente Colonello, riferì il fatto, e poiché vide che il Duca ne era contento s’avvanzò a esporgli i lunghi anni del suo servigio, i molti che l’avevano sorpas­sato e si raccomandò alla sua protezione per essere finalmente pro­mosso. Il Duca chiese da un cameriere un pezzo di carta e se ne servì all’uso che un altro fa senza testimonj, poi altro pezzo, poi un altro, e frattanto andava rispondendo al Ten. Colonello ch’egli non ha nulla a fare con lui, che ne ha abbastanza da pensare al suo proprio Reggimento, che egli non infastidirebbe Sua Maestà per il Conte Origo e così con nuova profondissima riverenza si congedò il Tenente Colonello caldo d’una zuffa. Questo fatto fresco fresco l’ho dalla bocca dello stesso Origo. Vedete se i nostri allori sono sfiam­meggianti, se la gloria e l’onore hanno grandi adorazioni da noi! Quello che più mi sorprende si è che ciò sia fatto non da un soldato di fortuna ma da un Duca d’Arhemberg che per la sua nascita dovrebbe certo avere tutt’altre maniere. Vedete cosa è l’Armata, cosa è questo mestiere! Vi abbraccio ec.

XII. Dresda 20 Dicembre 1759

Da un mese a questa parte io mi trovo assai ben collocato in que­sta bella città. Ho preso un quartiere a mie spese ed alloggio da un trattore alla vecchia Cancelleria di guerra dove mi trovo con tutta la decenza e comodo, ho pregato il mio Lloyde di venire a starsene meco, se dovessimo ricoverarci ne’ meschini quartieri che ci sono assegnati, staremmo male. Il caro Lloyde non mi ha mai cercato un soldo in prestito ed è povero, non mi ha mai cercato un pranzo, ha finalmente accettato di starsene meco, per me è di nessun peso ma di una amabile ed utile compagnia e credo ch’egli voglia più bene a me, a quelle poche oneste qualità che ho nell’animo, che alla tavola che potrebbe avere migliore dal G.le Lacy. La vita che facciamo è che quasi tutte le mattine usciamo noi due per lo più soli senza palafraniere e scorriamo a riconoscere l’inimico e il terreno di mezzo. Il freddo è grande, talvolta la terra è come uno specchio, quasi tutte le notti si trovano de’ soldati morti di freddo. Gli ufficiali sotto le tende s’ajutano con alcune stuffe di ferro, ma debole ajuto in una magione ove da ogni cucitura soffia l’aria ed ove all’entrarvi d’un uomo si muta tutto l’ambiente. Che bel piacere se avessi dovuto stare sotto la tenda! Varie mattine abbiamo avuto delle dispute co’ posti avvanzati degli usseri prussiani. Una fralle altre Lloyde s’avvi­de che una dozzina di questi usseri neri ci avevano addocchiati e ci facevano la festa per prenderci. Costoro avrebbero rubato quello che avevamo e ci avvrebbero poi consegnati prigionieri. Questi si divisero di lontano per poterci chiudere l’uscita; mi avvisò e disse di star seco e saldo che non potevano riuscire nell’intento. In fatti fra essi e noi v’era un fosso stretto e profondo che esso conosceva perchè il terreno lo conosce palmo a palmo. Quando i Prussiani cre­dettero d’essere a tempo, si posero a galloppare alla nostra volta e Lloyde, quando li vide al bordo del fosso, cavò loro il capello can­zonandogli. Gli usseri ci scaricarono le loro pistole e Lloyde nuovo inchino canzonandoli; poi gli usseri dissero di aspettar pure che avrebbero ricaricato le armi. Lloyde frescamente rispose: «Oh, eroi de’ miei stivali, veramente siete assai valorosi dodici contro due e contro due che nemmeno cavan le armi contro di voi. Non siete buoni di prenderci, non siete buoni di indovinarci colle pistole, e avete l’ardimento di voler caricare e dirci di starvi ad aspettare! Eroi de’ miei stivali. Dodici di voi altri non valgono un mezzo uomo». Così disse e fatto un terzo inchino da Arlecchino, passo passo gravemente vennimo pe’ fatti nostri. Vi assicuro che è un uomo unico nella sua specie. Una mattina vi fu del fuoco più generale, il Maresciallo era presente, Lloyde ed io anche; dopo finito l’affare vollimo visitare, vedere e riconoscere. Ciò fece che fummo di ritor­no a casa assai tardi. La mia gente cominciava a non sapere cosa fosse accaduto di noi. Sapete il bravo mio Giuseppe qual sentimento aveva? Osservò che m’era dimenticato dell’oriuolo appeso al letto e si consolò che almeno non l’aveva portato via. Vi sono delle anime che non si rendono mai sensibili per qualunque beneficio loro si fac­cia. Dunque, la mattina ordinariamente siamo in moto; poi vengo a passare il resto della giornata a mio modo. Buon pranzo. Abbiamo un eccellente pasticciere, squisiti vini di Sciampagna, Borgogna ec.

Il mio padron di casa anche dà una buona tavola. Dopo pranzo andiamo dal libraro Valter che ha un gran negozio e stamperia, compro, leggo e porto anche al mio quartiere quello che voglio. La sera dopo un passeggio per la città ritorno a casa. In Dresda non v’è nessun nobile, tutti sono rifugiati, chi in Polonia e chi altrove, non vi si trovano che cittadini e artigiani e vi posso dire una verità che non è esaggerata ed è che le donne che sono rimaste in Dresda e sono molte, tutte sono al comando di chi offra loro uno zecchino. Il libertinaggio è così facile che non costa un momento di pensiero e per questo mi pare che se ne diminuisca l’incentivo. In tutte le case di queste cittadine siete ammesso se lo volete. Il solito cerimoniale è che vi si prepara una caraffa di ottimo vino di Reno, ed il caffè: que­sto è lo stile del paese! Le donne sono elegantemente vestite e belle assai, la lingua tedesca è dolce nella loro bocca, non hanno l’asprez­za dell’accento austriaco. Portano in capo un galante berettino con­tornato di zibellini che, formando una punta che si porta in mezzo alla fronte, gira come una corona scherzata sul capo, il berettino è di raso o celeste o rubbino o altro colore, è riccamente guernito d’oro e termina con una punta che pende ricca di frange d’oro e termina battendo fra l’orecchio e la guancia. Hanno molta anima nella fisonomia, occhi vivaci, bellissime tinte, bei denti, un mantelletto di raso o celeste o rubbino foderato di pelliccia bianca, l’abito assesta­to al busto, gonelle brevi, e sopra tutto gran lusso ed eleganza nelle calze bianche di seta e scarpe finamente calzate cosicchè sono assai belle e gentili figure teatrali. Gli uomini a proporzione son pure ele­ganti e soffrono piuttosto il freddo enorme che guastare la parrucca linda e polverosa coll’uso del capello. Avrei ben volontieri veduta la Galleria e la Corte; ma siamo tanto in buon concetto noi Austriaci che non vi è modo, si dice che tutte le chiavi sono in Polonia. Per darvi però una idea della città vi basti il sapere cosa mi è accaduto da un traitteur francese La Fon. Un giorno mi trovai in compagnia di cinque ufficiali, si propose di pranzare da La Fon. Entriamo in un palazzo veramente tale, ci si affaccia cortesemente un uomo ben vestito al quale chiediamo un pranzo. Ci fa egli le scuse che la folla delle persone che aveva gl’impediva di darci un alloggio, quasi sem­brava che non vi fosse luogo, ma, vedendoci noi disposti ad accon­tentarci d’una camera qualunque, ci condusse replicando le scuse e ci collocò in un piccolo appartamento affatto libero composto d’una sala, una stanza da letto e un gabinetto, pavimento di legno cerato, tapezzerie di damasco cremisi, trumò di specchi fra una finestra e l’altra, lampadarj di cristallo, canapé e scranne, tutto sommamente decente. Poco dopo si preparò una tavola con biancheria a figure e tutto fu servito o in argento assai ben lavorato o in porcellana. Le vivande corrisposero alla finezza del rimanente, ebbimo di ottima qualità i vini che ci piacque di nominare. Io non avrei difficoltà veru­na ad invitare chiunque a un simil pranzo in casa mia. Il prezzo che ci venne chiesto fu credo di uno scudo a testa, prezzo assai modera­to. Quello poi che v’è di curioso nel costume di questo ospitaliere è che voi potete francamente ordinare una cena per tanti coperti, e prevenire che sianvi tante fanciulle, due bionde, una bruna, grande, piccola ec., che questo è lo stesso come se gli ordinaste uno storio­ne o de’ tartuffi; niente scompone, niente fa ridere. La Fon ordina ai suoi commessi di passare dalla S.ra Kreps, grande abadessa di fan­ciulle, e siete servito senza che il costume o la reputazione del padro­ne di casa ne soffrano. Se volete passarvi la notte siete libero.

Dresda è una deliziosa città. È situata in una pianura coronata, alla distanza di due o tre miglia, da collinette le quali sono come l’annello di Saturno e riflettono i raggi del sole e riparano dai venti per modo che il clima vi è meno rigido che d’intorno. Vi crescono anche le viti e si fa del vino in questo spazio di terra, sebbene nella parte più meridionale verso la Boemia non reggano le viti all’a­sprezza dell’inverno. Il vino però comunemente usato qui è del Reno e vi è ottimo. Voi qui avete i pesci di mare e infino le ostriche dell’Oceano nel quale sbocca l’Elba che è come l’Adda. La città è divisa da questo fiume e si unisce con un bel ponte che non ha quel pesante che sogliano usare gli architetti tedeschi. La Chiesa Cat­tolica della Corte è bella. La Chiesa di città, cioè la Protestante, so­miglia al nostro San Lorenzo. Le case sono quasi tutte fabbricate solide di pietra, ben mobigliate e tutto spira una colta nazione. Se andate a Vienna in una bottega per lasciarvi i vostri denari siete rice­vuto come un seccatore o come qualche cosa di peggio; qui sono gli abitanti officiosissimi, civilissimi e giacchè un forestiero secondo tutti i principj di natura e delle genti dev’essere gabbato, in buon ora almeno lo siamo con civiltà e buone maniere. Se Dresda è tale in mezzo alla desolazione di questa guerra che le gira intorno, già que­sto è il quarto anno, mi figuro che debba essere il soggiorno delle grazie e degli amori ne’ tempi tranquilli. In generale vi ho già detto che noi Austriaci siamo poco amati e sebbene alleati co’ Sassoni essi preferiscono i Prussiani a noi. Ho osservato all’Hotel de Pologne, che è una locanda frequentata, che le stanze sono addobbate con quadri rappresentanti battaglie e dappertutto i bianchi e rossi che siamo noi sono in positure umilianti e i bleu sempre in atto di eroi e vincitori. Molte cagioni vi sono di questo genio. Primieramente gli Austriaci sono poco civili e cortesi e per lo più non hanno educa­zione onde co’ loro sgarbi indispongono gli altri, laddove nell’Arma­ta prussiana gli ufficiali cercano di accostarsi, come è naturale, al loro modello, il Re, e quindi a gara s’inciviliscono, si mostran colti e educati. Secondariamente la religione vi ha la sua parte; non è già che naturalmente i Sassoni abbiano al dì d’oggi fanatismo per la loro setta, ma sentendosi disprezzare da’ nostri soldati e chiamare cani luterani è ben naturale che preferiscano i Prussiani loro confratelli. Finalmente molta parte vi ha la diversa disciplina delle due Armate. Quando la nostra Armata marcia e va a postarsi in un nuovo campo, vedreste come da ogni Reggimento si stacchi un drappello di solda­ti per foraggiare e trovare paglia, legna e altro da portare al campo. Questi nostri drappelli di gente feroce, di mal umore, entra ne’ vil­laggi del contorno, rompe, distrugge, ruba, maltratta e, per portare al campo il valore di dieci, rovina il valore di cento. I Prussiani per lo contrario non escono mai dal loro campo. Sono muniti di carte e tabelle così esatte che sanno appuntino il numero degli abitanti di ciascuna terra e presso poco i viveri che vi sono. Dal campo rego­larmente si staccano gli ordini alla tal terra di portare tanta paglia, tanta legna ec., così fanno molti beni. Primo, desertano meno sol­dati. Secondo, niente si devasta tutto si distribuisce con prudente economia e l’Armata prussiana trova la sussistenza per venti giorni in quel campo d’onde noi saremmo obbligati di sloggiare dopo cin­que o sei per aver tutto rovinato all’intorno. Terzo, i villani non fuggono, non si sottraggono all’arrivo de’ Prussiani, anzi vanno al loro campo, vi portano come a un mercato d’ogni genere di polli e carni e viveri, a nessuno si fa violenza, tutto è pagato e tutti fanno la spia in favore di essi col sentimento che, posto che v’è la guerra, l’Armata prussiana li difende dalle nostre depredazioni. Io ho cercato di farmi voler bene dai contadini presso i quali sono stato di quartiere, tutto ho pagato largamente nè ho sloggiato, se prima non ascoltava dal padrone di casa che i miei domestici non gli dovessero nulla, nondi­meno varie volte ho dovuto soffrire l’odio nazionale. Una mattina singolarmente voleva prima del giorno essere al quartiere del S.r Maresciallo per unirmi alla marcia. Posto tutto in ordine, vedo una nebbia così densa che non ho veduto cosa simile; figuratevi che stan­do a cavallo non vedeva il terreno in nessuna guisa. I fuochi del­l’Armata mi facevano come una aurora all’orizonte senza distin­guerli quantunque fossero vicini. Ho regalato, pregato, accarezzato il villano, perchè mi guidasse, egli mi ha condotto pochi passi fuori di casa, poi ho avuto bello chiamarlo, promettergli nuovi regali, son rimaso isolato ascoltando la voce de’ miei domestici senza distin­guerli, ed avrei avuto bisogno d’una bussola per non dare nuova­mente colla testa del cavallo nella casa. Ho dovuto aspettare su quat­tro piedi del cavallo immobile che spuntasse il giorno e allora si diradò la nebbia che pareva quella di Mosè nell’Egitto. Ma già la mia lettera è troppo lunga, vi abbraccio ec.

XIII. Dresda 2 Genn.° 1760

Sono già quarantasei giorni ch’io me ne sto in Dresda alloggiato dal mio Calvinista che è il più buon uomo del mondo. Non pare alle­vato in questa città, è rigido nella osservanza del costume. Sua moglie, i suoi figli pregano più volte il giorno. Domani lo abbando­no e parto dall’Armata per Vienna, giacché non vi sentono i miei parenti di lasciarmi un’altra campagna. Prima però di abbandonar Dresda ho alcune altre cose da scrivervi. A proposito adunque del mio traitteur, l’ho pregato di condurmi domenica scorsa alla sua chiesa ed ei lo fece. Essi sono tutti figli di Francesi rifugiati per la rivocazione dell’Editto di Nantes e sebbene sieno nati in Germania conservano il cuore francese e cantano gli inni come gl’israeliti per ritornare alla terra promessa. Essi sono tolerati. La loro chiesa è una sala al primo piano sopra il pianterreno. Questa sala sembra una delle nostre scuole di grammatica e non più. Non v’è altare, non immagini, non candele o lampadari. V’è una catedra, sotto di essa un banco più elevato degli altri ed ivi stanno i cantori, poi d’intorno le panche come nella scuola. Nessuno si pone in ginocchio. All’entrare v’è uno alla porta che civilmente v’indica un sito dove potete sedere. Quei della loro comunione prima di sedere stanno un minuto ritti in piedi e si coprono il viso col capello. Le signore in vece col ventaglio, e da ciò credo nato l’uso de’ ventagli bucati, comodissimo per la curiosità femminile a non perdere i momenti.

Poi ciascuno si sede. Il pastore ascende la catedra con una veste lunga nera, il collare come i preti francesi e parrucca tonda da abate, e fa il suo sermone in francese. Quello che ho ascoltato era assai ben detto, patetico, tenero, pieno di virtù. Poi cantano de’ salmi tradot­ti in francese e niente v’è di cerimoniale. Alcune domeniche fanno la commemorazione della santa cena, mangiano un pane, bevono del vino; ma non ho avuto occasione di vederlo, tanto più che il freddo enorme di quella sala, sebbene fosse eloquente il predica­tore, mi ha fatto soffrire dopo un mancamento di respiro assai stra­no per me e serio se continuava. Mi sono fatto dare dal mio ospi­te il suo libro di preghiere e devo dirvi che non ho letto presso i nostri ascetici niente di simile nè di più capace d’elevarci a Dio. La preghiera che si fa a Dio appena svegliato è questa: «Dio mio, mio Creatore, mio Salvatore, sono così povero in faccia vostra che non ho cosa alcuna da offrirvi; sono così limitato e ignorante che non so cosa domandarvi. Voi che siete la bontà stessa, che conoscete i miei bisogni meglio che non li conosco io, guidatemi assistetemi confor­tatemi a fare il vostro santo volere». Questa breve preghiera mi pare degna d’un filosofo che ha quella poca, inadeguata idea della divini­tà che può avere un uomo. Ho avuto anche la curiosità di osservare le funzioni di Chiesa Lutterana e l’occasione l’ebbi in un villaggio della Lusazia. Le loro chiese ne’ villagi e le loro funzioni sono tal­mente simili alle nostre che non v’era modo ch’io facessi credere a Giuseppe che costoro sono eretici. Nelle chiese hanno l’organo, hanno l’altar maggiore cinto da cancelli, i due gradini per ascende­re all’altare. L’altare ha in mezzo il crocifisso, da fianco i candelieri e dietro al Crocifisso era intagliata in legno dorato la lavanda de’ piedi, in una parola, senza entrare in una descrizione minuta, esattamente era come una chiesa cattolica dove vi sia un altare solo. Credo che molte chiese sieno rimaste intatte quali erano prima del­la riforma. La domenica fanno un servizio di chiesa che è preso dalla messa. Il predicante vestito di nero con una sottana lunga e sopra vestito con lungo camice va all’altare, ivi legge al popolo l’epistola, poi dice delle preghiere, poi legge l’Evangelo e lo spiega, poi il vice parroco porta sull’altare tre calici come i nostri con sopra ciascuno una patena, e un’ostia grande sopra quella di mezzo e piccole ostie sopra le altre due patene, poi ad alta voce il predicante, posto in mezzo all’altare, dice il canone della messa, poi accosta le patene e ad alta voce sempre in tedesco dice le parole della consacrazione, indi alza l’ostia come noi e tutto il popolo s’inchina ed ha come due chierici con cotta in ginocchio. Poi lo stesso sopra i calici, de’ quali innalza quello di mezzo. Poi dice l’orazione dominicale, poi si co­munica. Fatto ciò, s’accostano ai cancelli quei del popolo che vogliono comunicare e primieramente vanno dalla parte del Vangelo ed ivi il paroco dandogli in bocca l’ostia dice: «Prendete questo è veramente il Corpo di Nostro Signor Gesù Cristo morto per i nostri peccati». Poi, dopo così comunicato, si passa dietro il coro e si presenta dalla parte dell’Epistola ove sta ai cancelli il vice curato con un calice e ne dà a bere a ciascuno dicendo: «Bevete, questo è vera­mente il sangue di Nostro Signor Gesù Cristo sparso per i nostri peccati». Il sentimento col quale quella buona gente s’accostava mi commoveva come farebbe una scena tenera d’una tragedia. Gran potere hanno sul cuore dell’uomo le cerimonie religiose, e noi ne siamo meno tocchi perchè abituati, ma osservate che le funzioni che si vedono rare volte come quelle della Settimana Santa, e consacra­zioni di vescovi ec. ci movono assai più. Quasi quasi faccio un trat­tato di liturgia; ma io vi rendo conto della impressione che ho rice­vuta da qualunque oggetto il caso mi abbia fatto incontrare.

Io dunque domani ho destinato di partire e verosimilmente darò un addio per sempre a questo mestiere che, a confessione di tutti quei che parlano schiettamente e lo provano, è un mestiere da dispe­rato. Ho piacere di averlo conosciuto anche per disingannarmene; se non avessi avuta la risorsa di finire la campagna in una bella città come questa, non mi troverei d’aver speso niente bene il mio tempo.

Io credeva che bastasse avere coraggio e buon senso per viver bene all’Armata, credeva che vi fosse del buon umore, della bizzaria, e che i bisogni fisici facessero appunto crescere l’industria per ralle­grarsi, non so se tutte le Armate sieno come la nostra, ma in verità che non ho trovati che pochissimi oggetti grandi e interessanti e moltissimi disgustosi. Sentimenti ne ho trovati generalmente nessu­no. Un giorno il Capitano Collin entra nel mio quartiere ridendo smascellatamente. E perchè? non poteva parlare dal gran ridere.

Ma cosa avvenne? «L’ho sempre detto – diss’egli – che queste Austriache sono bestie. Or ora trovo una donna che seguita l’Ar­mata, aveva un ragazzo entro il barile che tiene sulla schiena, un altro per mano, un terzo che allattava gli è morto, l’aveva morto fralle mani e la stolida in vece di ringraziare il cielo che la libera da quel tedio, la stolida si disperava!» Poi nuovamente si getta sopra un tavolo e smascellatamente rideva. Che ve ne pare? Che sentimenti sperereste da tali uomini! Nelle marce durante i calori della state, che in questi paesi sono enormi, il povero soldato vestito tutto di panno, giuba e sotto giuba, colla tracolla pesante di cuojo, colla pen­tola di rame sulla schiena, colla sua valigia pure sulla schiena oltre il fucile, il berettone se è granatiere, e talvolta il bastone della tenda tutto sul suo corpo, il meschino soldato, al quale l’ufficiale talvolta ha l’inumanità di far portare anche la sua partesana oppresso non può più reggere. Sapete allora il rimedio? Si bastona; forzato va e fa sforzo e spesse volte cade morto per terra e nelle marce ne’ giorni caldi qualche mezza dozzina ve ne restava sempre. Se v’è al momen­to chi cavi sangue, rivengono, passato il primo tempo sono vera­mente morti. E questa vi pare una società piacevole! Io ho ascoltato chi fortemente si lagnava del S.r Maresciallo perchè suole comanda­re con buona maniera; diceva costui: «Che modo è questo per un Maresciallo, da dire: mi faccia il piacere di far questo! Un vero Maresciallo dirà…» e poi parlava il linguaggio d’un ubriaco. Oh quanto è sozza la natura umana fra questo rifiuto delle società, che unisce tutto il ferino di un popolo selvaggio colla falsità e bassezza d’un popolo corrotto. Ho veduto a fare le adulazioni le più vili e sfacciate verso chi si voleva rendere propizio. Ma da tutto quello che vi scrivo conviene fare eccezione sopra alcuni pochi i quali ne sen­tono e ne pensano precisamente come ne faccio io. Ma voi vedete che nessuno ne parlerà o scriverà con quella schiettezza che io uso per più motivi; perchè sempre disconviene il mostrarsi mal conten­to e affetto al proprio stato; perchè s’attribuirebbe a mancanza di coraggio se nelle città un militare dicesse quello che sente del suo mestiere; perchè poi anche sarebbe il mezzo di farsi detestare dai compagni svelando queste interne magagne del nostro eroismo. Credete voi che almeno qui in Dresda gli ufficiali sappiano viver bene? Essi dividono la loro giornata fra il faraone, il bordello e il vino o la birra. Stanno nei caffè come orsi, fumano, s’annojano e questa è la loro vita, usando pochissima società l’uno coll’altro.

Per rendermi ancora più graziosa la mia partenza lascio il mio amico Lloyde capitano. Vi dirò come ciò sia seguito. Giorni sono la mattina si alza e mi dice: «Amico oggi decido, o sarò capitano o vado dai miei Spagnuoli». «Diamine, – rispondo io – questa è stra­na, il viaggio da qui nella Spagna in questa stagione non è un pas­seggio, e l’essere fatto capitano dopo pochi mesi di servigio, mentre avete dei tenenti di anni che servono, è cosa che vuol essere difficile». «Vi ho pensato, – mi risponde – a rivederci» e se ne va; di là a due ore ritorna e m’abbraccia: «Addio camerata». «Come! Siete capitano!» «Lo sono.» «Ditemi, come va questa faccenda?» «Io mi son portato – dic’egli – dal mio Bascià a tre code (cioè Lacy), gli ho detto che mio malgrado doveva fargli una preghiera, cioè d’ascolta­re pazientemente il mio caso. Ho ricevuto dalla Spagna cento zec­chini e sono l’ultimo bene che mi resta al mondo. Quando venni la primavera all’Armata aveva cento altri zecchini e gli ho dovuti spendere oltre il mio soldo di tenente in questa campagna. Se io conti­nuo l’anno venturo, resto senza un soldo e senza mezzi da man­tenermi. Se io con questa somma ora parto per la Spagna, ne ho abbastanza per ritornarvi ed ivi non mi mancherà il mio posto in Barcellona col quale viveva. Vede adunque Vostra Eccellenza che io non potrei avere più l’onore di servire sotto a suoi ordini se non nel caso che essendo fatto capitano la paga mi basterebbe. Vostra Eccellenza sa le mie circostanze, io non le aggiungo se non che servo assai volontieri sotto ai suoi ordini». Lacy restò a un discorso così semplice e concludente. Finì col farlo Capitano di Cacciatori da quel momento, giacchè aveva una compagnia vacante. Vedete che curioso uomo è quel Lloyde! Lo odiano e lo temono molti; ma Lacy ha conosciuto dal modo che usa di quai servigi è capace Lloyde. Mi spiace a distaccarmi da lui e da alcuni altri pochi uomini di merito che qui ho potuti conoscere. Frattanto, se le mie lettere non sono tanto militari come v’aspettavate, desidero che in ogni modo abbia­no potuto interessarvi, se non altro per quel sentimento d’amicizia col quale vi abbraccio ec.

XIV. Praga, 14 Genn.° 1760

Partii il giorno 3 da Dresda e qui giunsi il giorno seguente. Voi sarete maravigliato della specie de’ primi piaceri che vi ho provati. Sono assai inaspettati per voi. Ho mangiato di magro, ho poste le scarpe, sono andato in carrozza. Questi sono tre vivacissimi piaceri e l’ultimo singolarmente. La mollezza del nostro vivere ci rende insensibili a delle situazioni che farebbero la delizia d’un povero uomo. Mangiar pesci e uova dopo essere vissuto a carne; sentirsi il piede leggiero e agile dopo l’imbarazzo de’ stivali, trovarsi in una piccola stanzina difesi dalla stagione, riparati dal freddo, seduti e trasportati comodamente è una voluttà divina, oh fortunatos nimium si sua bona norint! La buona sorte mi ha fatto incontrare sul ponte di questa città l’Abate Fabris, fratello del Colonello di Maxen, e che io ho conosciuto dal Nunzio ora Cardinale Crivelli. Egli mi conobbe sebbene fossi in carrozza (notate la memoria che faccio d’essere in carrozza) e si esibì a presentarmi nelle buone case, dove non si ricusano gli ufficiali quando sieno persone ben nate. Mi ha adunque presentato nelle case Natolitzcki, Collovrat, dall’Arcive­scovo, ec. e vi ho trovata una splendida maniera di vivere anche cortese più che a Vienna dove m’incammino domani. Sono stato a diversi pranzi, al bel ridotto, al ballo, ho passato bene il mio tempo. Ho scacciato il S.r Peppe nè voglio saperne più della sua detestabile compagnia, ora che mi vede in alta società mi ha fatto inchini enormissimi. Mi è accaduto un fatto solo buffone al teatro che è la sola cosa che mi occorre da scrivervi. Qui v’è un’opera italiana di musi­ci a buon mercato, una sera vado sul palco, mi accosto a una scena dove il suggeritore urlava come un toro per suggerire e si udiva dal fondo del Teatro. Il suggeritore era una strana figura con un vecchio mantello rosso, una cattiva parrucca e, finito il recitativo, comincia­ta l’arietta, mi squadra da capo a fondo e mi cerca: «Italiano lei?» «Italiano.» «Gran bravi Signori che sono i Milanesi! Ved’ella quella là che canta?» «La vedo.» «Che le pare, è bella?» «Si è bella.» «Sap­pia Signore che è mia figlia.» «Me ne consolo davvero.» «È bella, sa, lei, ma bella assai.» «Avete ragione, avete fatto una bella ragazza.» «Il Marchese Casnedi, sa, era innamorato, innamorato perdutamente; gran bravo cavaliere quel Marchese, gli mangiavamo tutto quello che aveva, eh Rosa…» e qui chiama sua moglie: «Rosa! Lascia vedere l’oriuolo della ragazza… veda veda, oro, sa, lei… eh hai la scattola? veda veda, argento dorato, sotto è argento, e questo tabarro… il Marchese Casnedi e la mantiglia di Rosa, il marchese Casnedi, gran bravo cavaliere quel Marchese Casnedi, gli mangiava­mo tutto quello che aveva!» Dopo una così ingenua declamazione, mi propose che andassi a ritrovare la sua ragazza che aveva dello spirito, era brava; io però gli risposi che non sono d’umore che mi si mangi tutto quello che ho. «Mi maraviglio – soggiunse – oh per chi mi prende! siamo gente che sa distinguere e che sa il vivere del mondo e mia figlia è savia, venga venga». Se Goldoni avesse ascol­tato il dialogo così pazzo ne avrebbe fatta una aggiunta alla sua Figlia ubbidiente. Questa feccia d’italiani che viaggia il mondo sono quei che discreditano la nazione; se non hanno costumi, alme­no avessero della decenza! La lettera è ben corta e poco interessan­te, ma non è colpa mia, se non mi si è presentata alcuna altra cosa strana che questa, giacchè la descrizione di Praga poco merita d’es­sere fatta, nè io ne conosco abbastanza per intrapprenderla. Vi abbraccio ec.

XV. Vienna 24 Genn.° 1760

Sono stato accolto al mio arrivo con un altro pettegolezzo militare. Il Marchese Clerici è qui, forse per render conto degli Agnus Dei e corpi Santi che ha acquistati a Roma colla sua ambasciata al nuovo Papa Rezzonico. Fatto sta ch’egli con taluno ha sparlato di me, perchè sono stato veduto in Vienna prima che mi presentassi a lui. Io giunsi qui il giorno 19 verso mezzo giorno. Era da viaggio e per quel giorno non visitai alcuno, uscii per la città. Il Sig.r Card.le Crivelli m’incontrò, l’azardo fa ch’egli andava a visitare questo Ministro militare degli Agnus Dei che è ammalato, gli disse che m’a­veva veduto ed egli pretendeva poi che m’avrebbe fatto sloggiare da Vienna e impedito ch’io facessi la settimana per la quale sono qui venuto. Io non ne sappeva nulla. Vado il giorno 19 a visitarlo, sono accolto con somma graziosità secondo il suo solito, poi da un amico sono avvertito che mi voleva fare questo bel servizio! Veramente, in rigore egli non ha dritto alcuno sopra di me. La mia compagnia è a Cremona ed io sono assente dal mio Reggimento per concessione di Sua Maestà. Che io sia all’Armata o in Vienna o dovunque non è suo pensiero nè credo che gli sarebbe dato retta alle sue istanze, poichè non potrebbe appoggiarle a pretesto alcuno; nondimeno la parola subordinazione è sempre terribile per un militare e per schivare ogni disgusto è entrato di mezzo il Marchese Visconti a persuaderlo che veramente la prima visita che ho fatta a Vienna è stata da lui. Non ha lasciato però d’inquietarmi questa disgustosa accoglienza.

Qui adunque bisogna ch’io prenda un partito. Naturalmente dovrei fare la settimana, poi partire e andare a Cremona alla mia com­pagnia. Ma qual prospettiva è mai questa! In una città provinciale, ritornare alla pessima società del Reggimento, dove l’invidia istessa di essere stato io al Quartier Generale mi esporrà a mille dispiaceri, sotto un proprietario che mi fa queste buone grazie alle spalle, è un partito che non mi presenta che noje e mali umori. A che mi con­durrebbero poi le mie pazienze infinite? Dopo quindici o venti anni forse a diventar Maggiore. Vi confesso che ho del ribrezzo a ingol­farmi in questa pozzanghera. Ritornerei piuttosto a fare una seconda campagna, perchè ora che conosco gli oggetti vi starei con minore tedio e altronde può l’azardo farmi presentare una occasio­ne di farmi del merito e passare alla fortuna; ma da casa mia non occorre ch’io speri su quest’articolo una continuazione de’ soccorsi prestatimi. Dunque, bisogna uscire da questo mestiere, e tentare di uscirne con ragionevolezza. L’oggetto è arduo; ma pure convien pensare a servire nella carriera politica alla quale anche voleva incamminarmi il Sig.r Conte Cristiani. Una commissione a qualche Corte delle minori sarebbe approposito, se lo stipendio dovesse bastare alle spese, caso che no, una qualche commissione in Milano o alla peggio d’essere assegnato al nuovo Ministro Plenipot.o Conte di Firmian, che mi si dice uomo placido, amico delle lettere, uomo colto, e, se ottenessi di conservare il mio soldo attuale di capitano travagliando sotto di lui, sarei contentissimo. In mia casa non avrei rimproveri per la spesa fatta, avrei anzi tutt’i riguardi anche nel paese per essere vicino a chi comanda; le cose di Milano sono tutte abbandonate ai Dottori, eppure il commercio, le finanze, le monete ec. non mi pajono materie da Giurisperiti, potrebbe forse contri­buire al mio intento un genio di ripulire il paese che avesse il Signor Conte di Firmian. Ma tutti questi desiderj, piani e progetti hanno le loro difficoltà da sorpassare e, tenendoli io tutti di vista, bisognerà che appoggi dove troverò più facile; il tempo altronde come questo di una rovinosa guerra non è quello in cui si pensi a riforme; io stes­so sulle materie che potrebbero darmi una nicchia non ho letto posi­tivamente gli scrittori; bisogna che mi prepari; qui v’è una insigne biblioteca aperta la mattina, converrà ch’io la frequenti e poi il dopo pranzo spargermi nelle case e vedere e stare sull’intento. Primie­ramente cercherò di fare la settimana da Ciamberlano, questa accostumerà me stesso a vedere da vicino e a parlare alla Padrona e ren­derà la mia figura conosciuta a lei. Confesso che mi sento imbarazzato pensando come le dovrò parlare; l’Imperatore è più deciso e ruvido e questa apparente asprezza mi dà coraggio e non m’imbarazzerei a parlargli; ma la Imperatrice è tanto dolce e graziosa che mi sentirò penetrato di rispetto in faccia sua. Basta, comincerò dalla settimana e poi sarà quello che il cielo vuole. Sono diciotto mesi che il mio animo è in agitazione continua ora per una cosa ora per l’altra, vorrei torna­re in calma con me stesso e farò di tutto per potervi giugnere.

Qui v’è il Conte Castiglione ch’io non conosceva, ho fatto ami­cizia seco ed abbiamo preso alloggio vicini l’uno all’altro. Il Conte D’Adda è pure sul punto di giugnere a Vienna, vi è il Conte Candiani, vi sono i due nipoti del Nunzio, Conti Crivelli Antonio e Francesco, v’è D. Tommaso Visconti d’Aragona, siamo una colonnia milanese, ma non tutti siamo amici, anzi v’è da stare ben bene guardinghi. Noi altri Italiani siamo assai discreditati in questa città, la colpa è di tanti vagabondi che sono venuti a sorprendere in ogni maniera, e la poca unione istessa che regna fra di noi tende a confermare nel sinistro concetto. Per ora non vi posso adunque dire altro se non le viste che ho, a misura che si chiarirà il mio desti­no ve ne farò partecipe. Vi abbraccio ec.

XVI. Vienna 8 Marzo 1760

Ieri ho avuta udienza dalla Padrona. Le ho in succinto rap­presentato come il S.r Conte Cristiani m’avesse fatto nascere il pen­siero di aspirare all’onore di servire; come egli volesse farmi lavora­re sotto di lui, il che aveva già cominciato a fare, e per darmi uno sti­pendio senza aggravio della Camera avesse destinato il soldo di Capitano nel Reggimento svizzero che aveva progettato e si stava per levare, destinato a star sempre nella Lombardia. Che morendo aveva lasciato che ricoressi al S.r Conte di Kaunitz già da lui preve­nuto; che impensatamente in vece mi si fece la clemenza di farmi Capitano del Reggimento Clerici col privilegio di non servire fuori della Lombardia. Che questo privilegio istesso durante la guerra in Germania, sebbene dettato dalla Clemenza Augustissima, mi era di peso, per sottrarmi al quale implorai la grazia di servire come volon­tario all’Armata e l’ottenni; che volontieri continuerei a servire se due difficoltà non incontrassi: l’una la tenerezza de’ miei parenti che soffrono essendo io il primogenito; l’altra il mio temperamento che, avvezzo a un genere di vita più regolare, mi rende gravosi i disaggi.

Che in questa situazione io mi presentava a’ piedi di Sua Maestà, implorando la grazia di essere conservato al suo reale servigio in una carriera nella quale non trovassi queste difficoltà, analoga alla idea del defunto Ministro Conte Cristiani. La Padrona mi ha benigna­mente accolto, ha trovato ragionevole il mio modo di pensare, mi ha chiesto se io abbia fatto de’ studj ed ha concluso che m’indirizzassi al Conte di Kaunitz. Questa udienza l’ebbi jeri mattina, era invitato a pranzo dal Signor Conte suddetto ed al levarsi da tavola mi presentai e vidi che Sua Maestà già gliene aveva parlato; egli si attenne a termini generali, che avrebbe volontieri veduta l’occasione di com­piacermi. Prima però di avere l’udienza, io volli fare le settimane per la ragione già scrittavi in altra mia e le settimane furono la prima al 3 dello scorso, la seconda al 9 e la terza di gran servizio al 16 e ter­minai il 23. Di queste tre settimane l’ultima è la importante. Il primo giorno di essa il 16 diede udienza pubblica e l’etichetta di Corte è che allora Ella esce nella stanza del trono che è quella dove ordina­riamente sta il Ciamberlano di servizio, e sta l’Imperatrice in piedi sotto il trono senza però gradino, vi è la sedia vuota. A mezza la stan­za fra una finestra e l’altra sta la prima Dama d’Onore ossia la Grande Maitresse. Subito dentro della porta sta il Ciamberlano di servigio dietro una specie di paravento che impedisce che, aprendo­si la porta, chi è fuori veda la Padrona. Prima d’incominciare la udienza l’usciere aveva già innoltrata nel gabinetto la nota delle per­sone che cercavano udienza e Sua Maestà aveva fatti de’ segni col lapis a coloro che voleva ascoltare, e mi fece avere la lista inca­ricandomi di avvisare gli esclusi che potevano o lasciare i loro me­moriali o ritornare un altro giorno di udienza. Poi uscì Ella e si col­locò come dissi, io di volta in volta usciva dal mio paravento e nominava a Sua Maestà per ordine quello che stava notato in lista, poi lo faceva entrare. Con somma grazia la Imperatrice dapprincipio dissemi: «Ebbene, vedrò come vi caverete d’impiccio». Tutto andò regolarmente. Negli altri giorni poi non ascoltò che Ciamberlani o Consiglieri di Stato e questi sono ammessi nella stanza interiore senza trono e senza testimonj. In quella settimana bisogna dormire in Corte e stupirete ch’io vi dica che si pagano due zecchi­ni per il letto, quantunque io abbia fatti portare i miei materazzi. La economia è minutissima. Vi danno sette candele di cera gialla in numero il primo giorno e vi devono durare la settimana, e sette can­delotti grossi di cera da tenere accesi la notte immersi nell’acqua. Se volete cioccolatte o caffè la mattina ve lo danno nell’anticamera ma nella vostra stanza non mai perchè non lo godano i vostri domesti­ci. La tavola al contrario è nobile, il ciamberlano ne fa gli onori come se fosse il padrone di casa; vi sono gli ufficiali della guardia, quelli d’ispezione, e prima di cambiare sempre prendono gli ordini i came­rieri dal ciamberlano, il quale anche ordina i vini forestieri che vuole. Si alterna un giorno dalla Imperatrice uno dall’Imperatore, e questi dà poco da fare. Vi ho veduto il General Lacy nella antica­mera mentre io era di servizio, è una pecora mansueta, cortese, officioso, non pare più il Bascià come l’ho veduto e come lo chia­mava il mio Lloyde, del quale gli ho parlato.

Mentre era di servizio nell’ultima settimana mi è capitata una lettera del Tenente Colonello Strozzi del mio Reggimento, e ve la tra­scrivo parola per parola: «Erra ben giusto che ricevesse le sue paghe, ma erra altresì giusto che non trascurasse i suoi superiori. Strozzi Tenente Colonello». Vedete che vi è tanta educazione quanta corte­sia. Sapete a qual proposito? Sono diciotto mesi che servo da capitano e non ho mai potuto ricevere la mia paga. Questo è poco: ho dovuto de’ miei denari pagare tre mesate alla vedova Bagdevkoda, perchè ho avuta la compagnia del suo diletto sposo morto a Hockirken. Sintanto che fui in Italia si diceva che il mio soldo era in Ungheria, poi all’Armata; quando venni all’Armata di slancio il mio soldo per dispetto era rifugiato in Italia. Fissato che fu questo soldo in Milano, io trasmisi le mie quittanze in bianco a mio Padre perchè le riscuotesse; non gli vollero contare alcun denaro perchè dissero che bisognava che avessero da me l’ordine di pagarglielo, quando avevano le mie firme per la ricevuta, vedete cosa mai occor­reva di più. Scrissi nonostante a questo illustre Tenente Colonello che comanda il battaglione, acciocchè si compiacesse di far pagare a mio Padre che aveva la mia firma, e in risposta mi viene «l’Erra ben giusto» con quel che segue. Sono vere bestie colle quali non viverei in altro modo se non quando vi fossero i costumi moscoviti ed io fossi il comandante in capite. Se mai il mio povero Tenente Colonello fosse venuto in persona nel sito nel quale è venuta la sua pre­giatissima lettera, son sicuro che non avrebbe parlato come ha scrit­to. Sappiate amico che qui io faccio due diversissime figure da commedia. Quando è giorno in cui non vi sia servizio di chiesa debbo venirvi col mio uniforme bianco e rosso ed è a forza di urtoni e di spinte che riesco ad ascendere le scale in mezzo alle livree; quando poi per funzione di chiesa compajo col mio bravo collare e tabarro e chiave d’oro, presto a dritta e a sinistra si schierano le livree e lasciano il passo al Signore. Se il S.r Strozzi venisse col suo bel abitino bianco e rosso ed io col mio lugubre tabarro nero, mi farebbe le sue umili scuse e cercherebbe la mia protezione, ne sono certo, perchè li conosco e la minima apparenza di Corte fa tremare questi eroi. Anche il Maggior Bradi, mi fu detto a Dresda, in una compagnia anche numerosa che sparlava di me e diceva che, se fossi stato al Reggimento, mi avrebbe fatto mettere in arresto; io risposi a chi lo disse: «Ed io se fossi Colonello farei mettere il Maggior Brady ne’ ferri, e glielo può dire da mia parte»; ma giacché nè io sono al Reggimento nè sono Colonello così resteremo pari e non se ne farà niente. Del Reggimento Clerici non ne voglio saper altro e credo che sarete convinto che ne ho ben ragione.

Nell’ultima settimana di servizio vi fu un ballo privato a Corte e Sua Maestà l’Imperatrice appena mi vide ordinò al Gran Ciamberlano che mi esibisse da ballare, sebbene fossi in uniforme e tutti gli altri in domino. Ho avuto l’onore di ballare con tutte le Arci­duchesse un minuetto. Il Gran Ciamberlano mi presentava alla Dama d’Onore di quella Arciduchessa ed essa alla sua Padrona e questa è l’etichetta. Il Ciamberlano di servigio è sempre ammesso ai balli anche privati. Verso il fine anche Sua Maestà l’Imperatore ha invitata a ballare la Padrona ed hanno festosamente fatto il loro bravo minuetto che terminò con un bacio. L’Imperatrice, sebbene resa corpulenta, balla svelta e per una Signora di 42 anni è difficile il trovarne un altra più fresca di carnagione e bella donna. In quel ballo in mezzo alla maestà della Corte mi pareva di scorgervi una buona famiglia. Ho avuto occasione di conoscere Monsignore Arcivescovo Migazzi, mi pare italianizato assai, è stato sul punto di contar molto in questa Corte, e mi guarda con simpatia e con tuono d’amicizia. Ora bisogna ch’io faccia la mia corte al Du Beine e a quanti possono influire; vedremo, ma tutto va lentamente qui, anche gli affari i più incanalati, figuratevi il mio che non ha esempio. Vi abbraccio ec.

XVII. Vienna 15 Aprile 1760

De’ miei affari non ho cosa alcuna da scrivervi, poichè sono a un di presso nello stato medesimo, vi scriverò in vece alcune riflessioni che mi passano per la mente relative alla guerra e sono il risultato di quanto ho osservato nella scorsa campagna. A primo aspetto pare che la guerra si decida per forza fisica e, laddove le altre cose umane consistono principalmente nella opinione, questa per lo contrario sia sottratta dal di lei regno; eppure non è così, anzi la stessa guerra altro non è che un affare di semplice opinione. Se due uomini soli si battono, l’affare non termina se non allora che l’uno dei due, ferito, non ha più forza fisica per offendere; nel duello veramente si decide colla forza; ma, quando due moltitudini d’uomini si azzuffano in una battaglia, la parte che si ritira o fugge è sempre composta d’un numero bastante a cimentarsi e unicamente fugge per timore, non per fisica impotenza, quindi una battaglia è un giuoco di opinione e si tratta l’arte di fare che il nemico si sbigottisca più presto di noi. Supponete da una parte ottanta mila uomini, supponetene dall’altra anche soli settanta mila; supponete quello che non è mai accaduto in questa guerra, ed è che sieno rimasti uccisi e feriti veramente da una parte dieci mila uomini; supponete che il partito più debole sia ridotto a soli sessanta mila combattenti ed anche tutto ciò supposto vedrete che sessanta mila uomini imperterriti non fuggirebbero davanti a ottanta mila. Se la questione si decidesse colla sola fisica, una battaglia dovrebbe distruggere uno de’ due eserciti, e se non vi entrasse timore si continuerebbe la carnificina rabbiosa sin che v’è numero per disputarla; ma l’uomo non è mai ridotto a tale stoicismo di perdere ogni pensiero della propria esistenza. Il Re di Prussia ha fatto il possibile più volte in questa guerra per attaccare il nemico senza fuoco, e formata una colonna a guisa di falange che presenti al di fuori uno spinajo di bajonette, farla marciare a romperci; ma non gli è mai potuto riuscire il colpo, giunti i Prussiani a pochi passi da noi, mentre avevano già sofferto tutto il nostro fuoco e stavano sul punto di cogliere la vittoria, si sgomentarono sempre e si diedero alla fuga. Il tumulto dell’anima nel tempo d’una battaglia è sommo e tale, che dopo la vittoria si vedono gli uomini più insensibili e induriti a versare abondanti lacrime di consolazione, le quali il volgo le attribuirà ad affetto per il suo Principe; ma il filosofo le conosce un effetto della cessazione d’un violento timore, unito alla idea de’ vantaggi personali che si sperano con questo nuovo grado di gloria acquistata. Niente è più ferale di quel momento in cui silenziosa­mente si marcia al nemico per battersi; niente è più delizioso del momento della vittoria.

Se dunque la regina del mondo, l’opinione, è quella che fa volger le spalle a un esercito perchè è stato sbigottito, vedrete, amico, quanto felicemente s’introducano le armi nuove le quali, qualora sieno atte ad imporne, fanno l’effetto degli elefanti di Pirro almeno la prima volta; se si riesce a sorprendere il nemico con qualche innaspettato ordigno di terrore, si è certi della vittoria. Vedrete pure quanto giovi il far credere ai nostri la debolezza nel nemico, e ren­dere quello attonito colla fermezza nostra e colla nostra risoluzione. Mentre il G.le Lacy andava a riconoscere i posti del nemico, improvisamente e contro ogni aspettazione fugli fatta una scarica da Cacciatori prussiani appiattati in un bosco; varj ufficiali del seguito di lui sorpresi cominciarono a mettere i loro cavalli al galoppo. Il Generale al momento gli richiamò, gli volle al loro sito presso di lui, continuò passo passo la sua strada, die’ tempo ai Cacciatori di rica­ricare, di scaricargli una nuova partita di fucilate, una delle quali lo ferì in un braccio, grondava sangue, continuava colla stessa gravità nè volle visitare la ferita se non dopo uscito lentamente da ogni peri­colo. Simili tratti sconcertano l’inimico, il quale vede d’aver a battersi con gente che non sa temere; son persuaso che Lacy temeva moltissimo, ma contrapponeva a questo sentimento quello della generosa azione che faceva e del concetto altrui, e così rappresen­tando una parte da commedia disponeva i nemici al timore, nel che consiste la somma dell’arte militare.

Osservate però che generalmente l’uomo quanto più vive meschinamente e affannosamente tanto è meno timoroso di morire, perchè la morte si considera un male quando ci toglie de’ piaceri, e si considererebbe un bene se togliendoci la vita non ci togliesse che dei dolori e delle infelicità. Su di questo principio si appoggia la durez­za della vita che si fa menare al soldato mal pasciuto, bastonato, vilipeso, trattato come e peggio d’un cane. Un disgraziato che mena così i suoi giorni desidera una battaglia per finirla o sterminando i nemici, o facendosi del merito per essere promosso, o almeno andando al bottino sull’equipagio del nemico, come chi è alla dispe­razione sempre desidera un cambiamento, fosse anche un incendio, un tremuoto ecc. Posto ciò, una nazione più miserabile, più rozza, più maltrattata dovrà vincere in guerra contro una nazione più felice colta e ben governata; voi vedete infatti che i Francesi quasi sempre sono battuti dai Tedeschi, voi vedete che i barbari del set­tentrione hanno potuto devastare prima, poi affatto distruggere l’Impero Romano. I Romani sotto Cesare, sotto i Scipioni, in mezzo alla felicità e alla gloria dilatarono le loro conquiste, è vero, sopra popoli rozzi e barbari, ma o erano popoli suddivisi in piccoli Stati e non bene armati, ovvero erano popoli del mezzodì deboli e ammol­liti. Nella Germania non ebbero mai ferma sede i Romani nè conob­bero neppure le parti più incallite del nord. La natura ha dunque stabilito che gli uomini più aspri e selvaggi diventino i padroni degli uomini più inciviliti e colti, ammeno che questi ultimi non sappiano conservarsi una industria privativa, come sarebbe stato se la polve da cannone fosse rimasta un secreto, o come si disse del fuoco, che usavasi nella difesa di Costantinopoli slanciato sopra i nemici, e che maggiormente avvampava coll’acqua.

Da questo nasce la necessità di tenere il soldato in una vita sten­tatissima, di farlo anche senza bisogno travagliare a muover terra, a circonvallare il campo, da affaticarlo abitualmente per modo che poco tempo gli rimanga da pensare e niente da godere di bene; una subordinazione per legge fondamentale lo sottopone ad essere bastonato da qualunque suo superiore, mangia un pane che alle volte i cani ricusano e una zuppa di questo è tutto il suo pasto. Per tal modo egli, essendo meno affezionato alla vita, con maggiore indifferenza si espone alla ventura o di migliorare o di finirla. La migliore Armata del mondo è quella nella quale meno si pensa dal soldato, una unione d’automi che si mova prontamente alla voce del suo generale è la più formidabile di tutte qualora abbia alla testa un generale di mente. Per questo io credo che difficilmente quella nazione che vi dà un buon generale vi darà buoni soldati o quella nazione che vi dà buoni soldati vi somministrerà un generale. Dico difficilmente, perchè non si dà nella natura una costanza rigorosa.

Ho detto poc’anzi che l’opinione è quella che decide della vittoria, è più facile poi anche il provare che la stessa opinione è quella che decide della obbedienza ai sovrani. Per lo passato avevano gran cura i Re di essere solennemente consacrati, unti, coronati, e com­parendo in faccia del popolo quali imagini della divinità, quai sacre persone appoggiavano sulla religione (dalla quale sola trae origine la voce obbligazione morale) la base di loro dominazione. Numa aveva la sua Egeria, Cesare era Pontefice Massimo, come lo furono i suoi successori, Alessandro aveva il suo Ammone, Carlo Magno, Co­stantino, e la maggior parte de’ fondatori d’imperj ebbero al fian­co la religione che gli sostenne ed elevò nella opinione del popolo. Ora i Sovrani sembrano mostrare della indifferenza per tal politica e credono miglior appoggio del Trono la forza delle armi. Si conta che un milione di soldati siavi attualmente nella Europa. Sin ora non v’è da temere; sintanto che i Principi avranno tanto buon senso da tenere questi mastini divisi in Reggimenti de’ quali nessuno ecceda tre mille uomini, e questi stessi Reggimenti suddividerli in batta­glioni collocati in separate guarnigioni dislocandoli frequentemente, non vi sarà facilmente una riunione contro del Sovrano; ma quando mai l’idea di formare delle legioni e corpi di maggior massa pren­desse voga e che si radunassero in corpi di dodici o quattordici mila uomini l’uno, composti d’infanteria, cavalleria, artiglieri ec., in pic­colo formante ciascuna legione una Armata, allora s’accorgerebbero che una riunione di armati mal pagati e mal pasciuti, bastonati e trattati come bestie in un momento d’impazienza rovescia l’idolo, ne innalza un nuovo, e tiranneggia il Sovrano e lo Stato. I Pretoriani, i Strelitz, i Giannizzeri ne sono un esempio. Nè è sperabile di avere una sì grande moltitudine di soldati senza che ciascuno in­dividuo sia mal contento, poichè le forze dello Stato hanno un li­mite, e conseguentemente non potete accrescere la milizia eccessi­vamente senza ridurre il soldato al puro necessario e, ridottovi, dovete custodirlo come uno schiavo acciocchè non deserti, e in con­seguenza renderlo sempre più malcontento, unicamente distraendolo dal pensiero de’ mali che soffre coll’esercitarlo continuamente affaticandolo. Ma è troppo lungo questo cicaleggio politico. Vi abbraccio ec.

XVIII. Vienna 10 Ottobre 1760

Dopo sei mesi di silenzio in mezzo alle splendidissime nozze e alle feste è giusto ch’io riprenda la penna e vi scriva.

In questo frattempo non si è variata la situazione delle cose, mio Padre mi fa premura di ritornarmene, il Reggimento mi voleva a Cremona a montar la guardia da Capitano, in Casa non mi si voleva dare assistenza per una seconda campagna, io ho rinunziata a buon conto la compagnia a Sua Maestà, sono vestito senza uniforme e ricevo più accoglienza col cambiare il colore del vestito che non ne aveva in prima. Io cercherò di essere appoggiato al S.r Conte Firmian alla peggio, non cercherò soldo, non titolo, unicamente di non restare ozioso ed aver mezzo per farmi del merito, pare che sia onesta e discreta la richiesta, e in tal guisa mi proccurerò un appog­gio per non avere in casa ulteriori amarezze.

Tutte le gazette v’avranno descritte le pompe delle auguste nozze seguite il 6 corrente; io non vi ripeterò le descrizioni stampate, vi dirò unicamente che in questa occasione il fasto, la magnificenza sono sorprendenti. L’ingresso nella città della R. Sposa Elisabetta (che era collocata al palazzo del Giardino del Principe Eugenio dove furono tutti a baciarle la mano) fu preceduto da una immensa fila di mute a sei cavalli superbamente bardati, livree, lacchè ma­gnifici, ogni Consigliere di Stato, ogni Ciamberlano che ha avuto mezzi ha fatta la sua figura in carrozza magnifica a sei cavalli. I primi avevano quattro servitori e due lacchè, gli altri due servitori e due lacchè. Figuratevi che i meno ricchi avevano la livrea gallonata. Molti l’avevano a punto di Spagna, alcuni la livrea riccamata, e per­sino le borse de’ capegli delle livree colore di esse e ricamate. Com­preso il cocchiere e il cavalcante, vedete che si tratta per i Consiglieri di Stato di otto livree e di sei per i Ciamberlani. Mi chiederete forse come erano vestiti i Padroni per esserlo meglio dei servitori. Vi dirò che una stofa d’oro non è abito di gala se non sia o riccamata ovve­ro ornata con un punto di Spagna; vari vestiti hanno la fodera di stofa d’oro o d’argento. Lusso, profusione asiatica da far maraviglia; ma per conseguenza nessun gusto, oro, argento, un colpo d’occhio sorprendente, non v’erano che alcune carrozze di Francia che fosse­ro eleganti. Il vedervi passare sott’occhio una marcia lunghissima di così superbi equipaggi che precedevano la R. Sposa è un colpo d’oc­chio che ne impone, e sorprende come, nel mezzo d’una guerra rovi­nosa che costa niente meno di quaranta milioni annui di fiorini, vi sia modo di fare di sì grandi magnificenze.

Sono destinati i varj divertimenti come saprete. Un giorno festa da ballo, un altro Teatro, un altro serenata ec. Al Teatro v’è una opera nuova di Metastasio, Alcide al Bivio posta in musica dal Sassone, è un bello spettacolo in ogni sua parte. L’ultima scena sor­prende; rappresenta il tempio della Gloria ed è tutta di orpello illuminata a cera che abbaglia. Cantano Manzoli, la Gabbrielli, la Piccinelli ec. Ballano Pitrot ec. La Cantata si fa in una sala distin­ta sopra di una macchina immaginata dal Servandoni, Italiano che ha guadagnato molto in Portogallo poi a Parigi. La Macchina è come uno scoglio avente alla cima un tempietto ornato di coralli, conche marine ec. Vari ruscelli scendono da varie parti e si frammischiano abbasso al mare, voi ascoltate il mormorio, vedete la caduta dell’acque. Rappresenta la Reggia di Teti, poesia del S.r Migliavacca. Se nel restante non v’è da ammirare che il lusso, in questi due spettacoli ad esso si accoppia il discernimento e il gusto. Sono stanco però di questi diplomatici divertimenti; questo caos di roba stordisce ma non va al cuore, credo che s’annoj la Corte, che si annoja ciascuno di noi, e la stanchezza ci fa desiderare una vita più placida, dei diverti­menti meno rumoreggianti di questi. Vi abbraccio.

XIX. Vienna 20 Dicembre 1760

Domani sicuramente parto da questo paese dove mi trovo da più di undici mesi e me ne ritorno in Italia. Dopo tutto pensato e tenta­to, dopo essermi offerto a servire da Ministro in Portogallo attual­mente vacante dopo la partenza del Conte di Kevenhuller, e posto che non è ambito da molti, non vedendo altra vicina speranza e ricu­sando mio Padre di soccombere a ulteriore dispendio, altro parti­to non v’era che quello di essere appoggiato al nuovo Ministro Plenipotenziario Conte Firmian. Ho cercato di esserlo nel modo il più efficace. Il Ministro è qui: ha promesso alla S.ra Contessa Harrach, alla S.ra Contessa Canal, al Conte suo marito, all’Ar­civescovo Mons.r Migazzi, a me, ha una lettera del Sig. Con. di Kaunitz che lo determina, perfine Sua Maestà la Padrona me ne ha di sua bocca assicurato ed io ne ho reso partecipe il Ministro che si è espresso meco in termini di cordialità e d’amicizia. Ogni umana prudenza mi persuade ch’io potrò travagliare vicino a lui, farmi del merito, e, se ciò accade, il resto lo farà il destino. La difficoltà mas­sima è di cominciare.

Vedete come questo destino fila la vita di un galantuomo. Io natu­ralmente portato ad una vita placida, a coltivare lo studio, alla lettura, alla contemplazione della fisica; io lontanissimo dalle idee d’es­sere mai uomo d’affari; io che ho sofferti tanti mali umori domestici appunto per non aver mai voluto piegarmi a battere la carriera di mio Padre di cui la vita schiava e affannosa mi aveva impressa pro­fondamente l’aversione alle cariche; io placido epicureo debbo rice­vere in dono dal Padre Frisi una copia del manifesto stampato dal S.r Con. Cristiani contro il Re di Prussia. S’ha da combinare il caso che il Conte Algarotti a Bologna ne riceva un esemplare; che ciò si sappia dal S.r Con. Cristiani; ch’egli sappia pure che un esemplare era stato dato a me; che sospetti che sia lo stesso da me trasmesso­gli; che ne parli con mio Padre; che questi intimorito venga a farmi una reprimenda; che io, nulla consapevole di ciò, non essendo in corrispondenza coll’Algarotti, avendo tuttavia l’esemplare meco, vada dal S.r Con. Cristiani per convincerlo, e anche per far vedere a mio Padre che non m’aveva avvilito. Che in quella occasione mi lagni della vita che menava in casa, e che egli affezionandosi a me senza pensarlo mi spinga alla strada militare da dove mi rifugio per necessità nella politica! Io sono un essere troppo piccolo per interessare altri che me stesso o il mio amico; ma confessiamola che in tutto quello che da due anni a questa parte è accaduto di me io vi ho la minima parte, e nessun uomo ha avuto il determinato disegno di farmivi passare. Dalla miniatura passiamo al grande e troveremo che anche le pitture di galleria sono fatte su i medesimi principj e gran parte e massima parte negli avvenimenti ha l’azardo, ossia sono tante diagonali prodotte da più forze diversamente cospiranti; ma il corpo non si muove per veruna delle linee di direzione de’ moventi.

Dunque sarò adoperato. Ma in che? Ora vi scopro il mio piano.

In Milano non vi sono altri lumi che quei della pratica curiale. La zecca, l’annona, le acque, le manifatture, il commercio tutto è in mano dei Dottori, i quali, imbevuti delle opinioni del tempo di Bartolo, veramente o non hanno idea della economia politica o ne hanno di tali che sarebbe meglio il non averne. Il Marchese Carpani anni sono ha veduto questo pertugio per dove uscire, ma si è smarrito per troppa imprudenza; non saprei nemmeno s’egli avesse i principj capaci di produrre una ragionevole riforma. Ecco la strada che vorrei aprirmi. Ma non è inconsideratamente che mi vi sono determinato. Io senza aver letto nessuno de’ moderni scrittori mi son provato a scrivere mesi sono gli elementi del commercio. Definizioni, proposizioni, conseguenze, e, via via filando, ho cavato dai miei pensieri quello che mi sembrò ragionevole. Poi, compiuto che ebbi il mio lavoro, allora m’incamminai alla Imperiale Biblioteca e chiesi a leggere di questa materia. Ho letto Forbbonnais, ho letto Melon, Du Tot, Hume, e trovo che i miei elementi stanno in piedi e non mi vergogno di averli scritti. Con ciò io mi sono reso giudice delle mie proprie forze nella maniera la più imparziale che ho potuto. Son dunque persuaso che ho testa per battere questa strada e mi apro a voi con quella libertà che sarebbe ridicola con altri. Capisco che dapprincipio io dovrò prestarmi a ricopiare se occorre, a scrivere delle lettere, consulte ec.; ma il fine che ho in mente è quello. Vedremo cosa farà di me il Destino. La mia partenza sarà domani a sera. Vado a Capo d’Istria, ho scelta quella strada per vedere un mio buon amico, il Conte Carli. Forse di là avrete mie nuove. Vi abbraccio.

XX. Capodistria 27 Dicembre 1760

Eccomi uomo di parola. La sera del 21 partii da Vienna. Viaggiai la notte con un freddo assai sensibile. La sera del 22 fui a Gratz, indi riposai il 24 a Lubiana e jeri giunsi da Trieste a questo lido. Sono dal mio Conte Carli, mio amico da sei anni, egli è sempre stato in car­teggio con me durante la mia campagna e durante la mia dimora in Vienna. La nostra amicizia incominciò all’occasione d’una piccola battagliuola letteraria che ebbi coll’Abate Chiari nel 1755, prese il mio partito e femmo insieme i Frammenti, che poi si stamparono a Lugano. Mi affezionai a quest’uomo colto, decente, di cuore, fui in carteggio con lui e mentr’era in Toscana e dopo il suo ritorno in Patria, dove lo vedo che ha degli amici ma vive assai ristretto e il paese stesso lo porta. Sono stato invitato a un pranzo veneziano dell’Eccellentissimo Sig. Gritti, aveva una bottiglia di Cipro che m’ha fatta rimarcare, e dopo tavola mi mostrò una valdrappa orna­ta di cannucce di vetro in prova di sua magnificenza. Per un galan­tuomo che viene dallo sposalizio di Vienna non è da sorprenderlo. Mi vogliono accettare nella loro Accademia questi Signori che si chiamano i Risorti; forse vi reciterò qualche cattivo verso anch’io. Col mio Carli ragioniamo di politica alla disperata. Egli vorrebbe uscire dalla servitù veneziana e dalle strettezze nelle quali si trova. La sua moglie inquieta non gli lascia riposo. Andiamo sperando un avenire incerto; e mi spiace di piombare a casa nel tempo in cui il S.r Con. Firmian è tuttora a Vienna, conosco l’umore de’ miei di casa e dopo due anni di vita libera e decente è cosa dura ritornare figlio di famiglia, senza soldo, esposto ai rimproveri dello speso e a qualche amarezza sulla disoccupazione attuale. Non mi voglio anti­cipare i mali.

Questo paese è ameno anche in questa stagione, vi sono gli ulivi, l’aria è dolce, varie collinette circondano il mare; ma tutto spira povertà e rozzezza. I villani sono schiavoni, non sanno l’italiano che si parla nella città, sono figure sozze da selvaggi appena vestiti. V’è della difficoltà a trovare del latte per prenderlo col caffè. Figuratevi il restante. I comandanti veneziani sono sommamente rispettati, e portano le calze rosse, il che mi si dice essere una distinzione che usano oltre mare.

Saprete le aventure del Conte Carli. Povero e avenente giovine, ottenne per protezione una cattedra in Padova e per collocarlo ne eressero una di nautica. Viveva col poco stipendio, quando una figlia, erede d’un negozio importante, la Sig.ra Rubbi, lo vide, se ne innamorò. Ricusò de’ gentiluomini Veneziani e prescelse Carli, que­sti abbandonò la lettura, la sposò, n’ebbe un figlio, la perdè, rima­se tutore del figlio, amministratore d’un patrimonio. Ritratti, busti, incisione in rame della sposa, scriverne e stamparne la vita, con­finarsi a una vita solitaria furono le occupazioni del vedovo sposo. Si riseppe dal March. Abate Nicolini in Toscana lo straordinario dolore di questo vedovo; la Marchesa di San Martino anch’essa vedova, nata Lanfranchi, nobilissima, poverissima e galante, conce­pì il progetto di consolare il Conte Carli. A lui fu diretta dal March. Nicolini come una dama che passava in Germania alla Corte d’una Principessa. Dovette il Conte Carli pensare ad un alloggio, lo dis­pose fuori di sua casa in Venezia, ve la collocò. La Marchesa si lagnò dell’alloggio, fu forza esibirgli la casa propria, questo appunto ella voleva e vi si pose. Tutte le arti furono poste in moto sino ad una supposta gravissima malattia. L’ospitalità voleva ch’egli usasse tutta l’assistenza al letto della bella ammalata, e la natura del cuore umano portò che dal dolore passò al desiderio d’occuparsi d’una passione che lo distraesse, e quindi gradatamente lo sposò. Fatto il colpo, l’ambizione della nuova Contessa volle che il marito avesse in petto una croce e sborsò un capitale a Torino per farsi Comendatore di S. Maurizio e Lazaro. Poi, non figurando a Venezia, lo determinò a venire a Milano, ove cercò sotto il S.r Con. Cristiani un impiego sulla zecca ovvero nel censo. Svanite le speranze si portò in Toscana sol­lecitandolo dal S.r Con. di Richecourt, ma la morte di quel Mi­nistro, accaduta verso la fine del 1756, ruppe nuovamente i suoi fili, onde si ritirò in Patria dopo avere speso delle somme di considera­zione nel mantenersi prima a Torino solo poi colla moglie e a Milano e in Toscana. La vita di questo galantuomo è, come vedete, alquanto strana, egli ha stampato di greco, di cronologia, di Teatro, di eru­dizione e di monete singolarmente quattro tomi, ma il suo caratte­re meriterebbe un destino ancora migliore di quello che potrebbero fargli sperare i suoi scritti. Io penso ai primi giorni dell’anno di par­tire per Venezia e venirmene a Milano. Frattanto prendo molto caffè. Parlo assai di speranze e di timori. Vi abbraccio.

XXI. Milano 16 Genn.o 1761

La sera del tre partii da Capodistria, mi trattenni a Venezia cin­que giorni, è la seconda volta che l’ho veduta e giunsi in Patria l’al­tro jeri. Durante la mia assenza abbiamo comprata una casa nuova, onde non mi par vero di essere in Milano. Quantunque stiamo assai meglio, mi spiace d’aver abbandonata la casa nella quale sono nato. Sin ora l’accoglienza non è cattiva. Tutto è in sospeso per me sin tanto che giunga il Ministro Plenipotenziario. In generale mi trovo accolto con maggiore freddezza e vedo nel paese minore cor­dialità e cortesia di quella che trovava due anni sono. Io non ho meritato questa mutazione. Naturalmente sarà un effetto di quanto il March. Clerici avrà sparso o inventato. L’abbandonare il servigio militare in tempo di guerra certamente non è cosa comendevole; ma il preferire la mia libertà al servigio nojoso di montar la guar­dia a Cremona, dove mi volevano, non è il minimo sospetto di mancanza di generosità. Io poteva starmene in pace al battaglione in Italia, ed ho cercato di andare all’Armata, avrei continuato a farvi la guerra, se mi fosse stato permesso, ma per servire a Cremona sotto il Sig. Strozzi io non ne aveva vocazione. Lasciamo dire e pensare chi vuole, operiamo con ragione e con principj, tutto col tempo si livel­la da sè e sarò ancora quello di prima. Quello che ho trovato di con­solante per me sono i miei due fratelli, hanno terminato i loro studj e sono in casa, sono buoni giovani, ma il primo Alessandro ha un’a­nima piena d’energia, mi pare spinto a diventare mio amico come io di lui; non è un campo coltivato, ma la natura ne è feconda assai e inquieta di produrre. 1 sentimenti domestici toccano e consolano più da vicino. Vi abbraccio.

XXII. Milano 2 Settembre 1761

Non vi avrei potuto scrivere che delle nojosissime seccature do­mestiche che è meglio dimenticare. Il S.r Con. di Firmian giunto a Milano mi fece cento proteste di amicizia e che voleva che trava­gliassimo assieme, mi invitò varie volte a pranzo e non mai mi ha dato cosa alcuna da fare; oltre un certo Abate Salvadori che si è con­dotto seco, gli è entrato in grazia l’Abate Castelli e questi due sta­ranno in sentinella perchè non si accosti alcuno che possa dare gelosia. Io ho creduto di dargli un saggio di me con una scrittura che mette in chiaro la regalia del sale, le variazioni che ha sofferte ne’ tempi passati, il sistema attuale ec. e con questa occasione vi si è fatto luogo a toccare alcune idee generali. Gliela ho consegnata rico­piata di mio carattere nel mese scorso e non vi ho acquistato altro se non che ora nemmeno più m’invita a pranzo. Andare agl’impieghi a forza di riverenze e anticamere non è la mia vocazione; guadagna­re questo Ministro nella positura in cui lo vedo diffidente d’ogni Milanese è una chimera. Il partito ch’io prendo è d’occuparmi seria­mente del locale del mio paese, dei fatti domestici attinenti alle rega­lie, al commercio, alla zecca ec. Vi è un bujo perfettissimo, nessuno ha spianata la strada o per inerzia o per politica, voglio tentarlo io, voglio fare un’opera di peso; fatta che sia, vedremo a che uso potrò destinarla, alla peggio la stamperò e farò conoscere che posso meri­tare di far qualche cosa. Il Sovrano fa una grazia nominando un suddito a un impiego; ma è anche suo obbligo di nominarvi le per­sone le più informate e capaci quando sieno oneste. Vi dirò con quali materiali io mi determini a questa impresa.

Il Dottore Ilario Corti, archivista del Senato, ha messo in ordi­ne quell’ammasso smisurato di scritture. Ha avuto il pensiero di fare una classe distinta di tutte le carte che concernono gli oggetti della economia politica. Dispacci, consulte, rimostranze de’ corpi delle Arti, del Tribunale di Provisione, della Congregazione dello Stato ec., tutto è posto in disparte e tutto sarà a mia disposizione. Il Senato ne’ tempi passati fu il centro di riunione dello Stato onde facilmente nulla vi sarà massimamente del passato secolo che ivi non si trovi. Nessuno ha mai posseduto un così vasto e originale campo. Entrerò a coltivarlo. Si tratta di due sacchi pieni di scritture non poste in ordine ma tutte sulla materia. Io sono deciso, non vi sono per me Teatri o altri divertimenti, tutto sono in questo, vedremo come vi riuscirò. Se dal mistero e dalla densissima nebbia che ora copre ogni parte della amministrazione, trattone il censo, se potrò mettere in chiara luce gli oggetti come desidero, avrò insegnato al Principe a conoscere il suo paese, ai Ministri a ravvisare le parti meritevoli di attenzione, ai cittadini a non ripetere gli errori di tra­dizione, ma a ragionare, a suggerire quanto contribuisca al bene di tutti; l’impresa sarà faticosa, può fors’anco diventar grande. Lo ve­dremo. Vi abbraccio.

XXIII. Milano 31 Dicembre 1761

Colla intensa fatica di quattro mesi ho digeriti tutti i materiali del Senato, ho affrontata la lettura del Somaglia, Piazzoli, Tridi, Negri, Opizzone ec. Che barbaro caos di roba! Tutto superato e ne ho compilato e trascritto un libretto col titolo Saggio della grandezza e decadenza del commercio di Milano sino al 1750. Comincio dal prin­cipio del secolo decimoquinto e giungo sino alla metà del presente, scorrendo su quanto ho ritrovato nello spazio di tre secoli e mezzo. Comincio da quel tempo anteriore alla scoperta del Capo di Buona Speranza nel quale il ricchissimo commercio de’ Veneziani rianima­va la nostra industria e ci dava sfogo a immenso lavoro di manifat­ture di lana, che essi portavano poi al Levante e ad altre parti d’Europa. Tutte le notizie municipali sul numero e forza delle fabbriche, sulla popolazione in tempi diversi ho cercato di metterle a luogo. Ho confrontato sempre gli avenimenti generali delle guerre, viaggi, pesti ec. co’ municipali, e così ho toccate le cagioni che non sarebbero emerse da questi ultimi soli. Ho confrontate le diverse legislazioni, le mutazioni nelle forme de’ giudizi e vi ho apposte le variazioni buone o cattive che hanno operato. I diversi spedienti presi dalla Corte e dai Tribunali gli ho esaminati, accennando per­chè sieno cessati, che effetti produssero, qual merito o vizio avesse­ro seco. Ho esaminato quanto diverso in tempi diversi fosse lo spi­rito di chi presedette alla industria nazionale, e, ponendo sempre in paralello le leggi, i costumi, lo stato della popolazione e del commercio, ho cercato colla imparzialità che professo di svelare l’o­rigine de’ mali della provincia. Lo spirito curiale trasfusoci dagli Spagnuoli ha tutto invaso e tutto corrotto. Ottime leggi statutarie furono deluse colle Constituzioni pubblicate da Carlo V. L’attività della nazione si rivolse alle cavillazioni del Foro, e l’industria abban­donò la riproduzione per esercitarsi nella disputa. Alla giurispru­denza si congiunse una teologia intollerante, fecero lega e si sosten­nero. Diventò il ministero un corpo opaco fra il Sovrano e i sudditi, e questo corpo opaco soffocò le grida degli infelici che gemevano sotto la tirannia d’ogni sorte. Una repubblica di togati fu il governo nostro; l’industria, le scienze, il coraggio da pensare si risguardarono come un principio di ribellione. La Corte inutilmente di tempo in tempo pretese di comandare, che tutto fu deluso. Tale è il risultato delle mie scoperte. Passo passo seguitò il commercio dal suo colmo al suo annientamento. Le rendite dello Stato diminuite suggerirono rovinosi spedienti, accrescimenti di tributi, creazione di nuovi, ven­dite di fondi camerali, vendita di regalie, fallimenti de’ Monti, falli­menti della Camera e così colla rovina del popolo si videro ammassate le ricchezze in pochissime mani di Ministri e d’impresari. Dopo che la Casa d’Austria di Germania comanda, qualche risorgimen­to si prova ma ancora molto vi resta a fare. Spero con ciò d’avervi comunicata una idea del mio lavoro. Le angustie domestiche non m’hanno permesso di pagare uno scrivano e l’ho ricopiato io. Credo che niente sin ora siasi fatto di simile da noi, nè si poteva fare per­chè io ho avuto il primo nelle mani i documenti. Di ogni asserzione ne cito la prova col documento. Questo mio saggio l’ho consegnato al S.r Con. Firmian. Questa sarà sicuramente l’ultima prova, egli lo ha accettato con molta cortesia l’altro jeri, vedrò l’esito, ma ne spero poco. io ora ho in mente che questo che è fatto sia la prima parte d’un’opera alla quale converrà che ne aggiunga altre due, cioè lo stato attuale e i rimedj. Nel tempo in cui io occupava tutta la gior­nata in questo lavoro che mi assorbiva tutta l’anima, mentre era riti­rato in campagna a Rovagnate dal Dottor Corti, mio buon amico, per dare l’ultima mano ai materiali disposti in Novembre scaduto, ho inteso che forzatamente, dopo un anno dacchè stava in casa, mio fratello Carlo è stato spedito nel Collegio di Parma a studiare la teo­logia e ciò con un giro impensato fatto col Consultore di Governo Amor di Soria nel tempo della mia assenza. Il castigo è per essere buoni amici fra di noi. Questi fatti domestici mi feriscono il cuore, come me lo ferisce il vedere che in faccia de’ domestici un Padre che rispetto qualifica le mie occupazioni di bei studj d’ornamento, sogni ec. Basta, più opposizioni trovo e più mi sento animato a superarle; se non mi disprezzassero o fingessero di disprezzarmi non farei gli sforzi che ho fatti e sono disposto a fare per emergere ed acquistarmi una esistenza. Tendiamo al grande, al sodo e lasciamo al destino a regolare il mondo. Vi abbraccio.

XXIV. Milano 6 Aprile 1762

È deciso ch’io non ho da sperare nulla dal Ministro. Egli di suo fondo è buono, vorrebbe fare del bene, ama di essere il fautore delle lettere e delle belle arti, ha una bella biblioteca, una raccolta di qua­dri; ma gli affari lo annojano sovranamente, e questa disposizione unita alla gelosia di comandare ha fatto che siasi interamente getta­to in braccio dei secretarj e d’uno singolarmente. Questa classe di persone, alle quali può il Ministro togliere da un momento all’altro tutta l’influenza, può essere depositaria degli affari senza inquietare l’ambizione e deve, poste le circostanze, essere preferita a persone di condizione più elevata. I secretarj poi, che sono egualmente interes­sati a ritenere presso loro l’autorità, sono un muro inacessibile che non permette a un gentiluomo nazionale di accostarsi al Ministro per affari. In poco mi pare di avervi detto tutto, onde non v’è da pensare cosa alcuna di bene per me sotto questo pontificato. Quanto più ho fatto per provare che sarei buono a servire tanto più è cresciuta la freddezza per me, in guisa che ho ricuperato il mio manoscritto e mi basta. Un altro forse perderebbe la lena, io l’ac­quisto appunto colle contrarietà. Sto travagliando al restante e o sarò impiegato, o stamperò il mio libro e farò arossire di non aver­mi impiegato. Così sono deciso.

La vita che meno è tutta allo studio. Rimasto solo in casa col mio caro Alessandro, che ha una passionata voglia di studiare unita a un ingegno raro, trovo in questo amabile fratello un amico e per la uni­formità del genio e per la bontà del cuore e per la vivacità e grazia del suo talento. È difficile il ritrovare una più amena società della sua. Si va formando da me una scelta compagnia di giovani di talento, fra questi vi nominerò un certo Marchese Beccaria figlio di fami­glia di 25 anni, di cui la fantasia e l’immaginazione vivacissime unite a uno intenso studio sul cuore umano fanno un uomo di merito sin­golare. Egli s’è maritato con una giovine figlia d’un Colonello, il Governo l’ha tenuto in arresto per più d’un mese per impedirglielo, non so poi con qual ragione, e dopo cento dicerie infine ha potuto sposarsi ed è stato scacciato da casa con un tenuissimo assegna­mento col quale non ha pane. Egli è con questo discreditato a segno che nessuno vuol trattare con lui. È un profondo algebrista, buon poeta, testa fatta per tentare strade nuove, se la inerzia e l’avilimento non lo soffocano. Questi viene ogni giorno da me e studiamo nel silenzio nella stessa camera dopo aver fatte le nostre ciarle. Un gio­vine Lambertenghi pure che ha molte cognizioni di fisica e geome­tria viene da noi. Altri ve ne sono amanti d’istruirsi e questa piccola e oscura società di amici collegati dall’amore dello studio, dalla virtù, dalla somiglianza della condizione, e niente stimata nella opinione pubblica, forse un giorno farà parlare di sè e farà onore a quella Patria che ora la motteggia. Il nostro delitto è quello di voler vivere fra di noi e non mischiarci colla vita comune; hanno tanto senso anche i volgari per accorgersi che questo prova che non gli stimiamo, e vorrebbero mostrare di disprezzarci nel mentre che ci odiano e temono. Questa disistima è quella che ci accosta sempre più l’uno all’altro. Frattanto Beccaria ho potuto indurlo a scrivere sulle monete, oggetto che il Governo ha di mira, e vedrete il suo libro che ho trasmesso a Lucca a stampare perchè qui non è stato permesso il farlo; vedrete con quanta chiarezza eloquenza e preci­sione è capace di scrivere. La ingiustizia pubblica verso di lui, la sua povertà, la bonomia del suo carattere m’interessano colla più viva amicizia per lui e spero che lo potrò ancora di più scuotere e costringere il pubblico a stimarlo e gloriarsene.

In mezzo alle mie disgrazie ministeriali io ho però della fortuna nel mio lavoro. L’azardo mi ha fatto capitare il materiale più adatta­to per fare la mia seconda parte. Un vecchio ufficiale del censo, stato rimosso dall’ufficio recentemente, si trova possessore di tutte le carte spettanti ai corpi delle Arti e Mestieri e me le affida. Un altro galantuomo mi affida uno spoglio di tutte le robe daziate tanto per entrata quanto per uscita, e questa operazione dello spoglio di due mila e più libri fatto per ordine del S.r Conte Cristiani gli restò ino­perosa nelle mani alla di lui morte. Non è mai stato fatto prima d’ora un simile transunto ed avrò di che fare il primo bilancio delle importazioni ed esportazioni che siasi fatto nel paese. Pare che il cielo secondi il mio lavoro e da varie parti ricevo ajuti di libri, mano­scritti e quanto pareva impossibile. In casa si sa che lavoro, ma di che e come non si sa, lo stesso fuori di casa. Il dottor Corti è il mio trova roba e quello che mi fa coraggio a progredire. Il solo frutto che sin ora io ho ritratto dalla mia fatica è stato l’elogio che ne ha fatto il mio Conte Carli, che tengo esattamente informato delle cose mie e che mi ha chiesto d’averne una copia, come gliela ho spedita. Forse il mio libro lo manderò a Vienna terminato ch’ei sia; ma non vorrei che la pace si facesse così presto. Ho bisogno che seguitino a battersi i Prussiani con noi sin che il mio libro è terminato e tra­scritto, allora giungo il primo al momento in cui si pensa a riparare ai danni sofferti. Vedremo se le potenze belligeranti avranno questa cortesia di favorirmi. Vi abbraccio.

XXV. Milano 15 Ottobre 1762

Oh che battaglia! Appena il Marchese Carpani seppe da me che Beccaria scriveva sulle monete ha rapidamente fatto stampare un libretto per prevenirlo giacchè il nostro, dovendosi stampare a Lucca, non potevamo averlo che lentamente. Poi, appena comparve il libro di Beccaria, lo ha attaccato pubblicando tabelle e scritti contro di lui. Io, che ho messo in ballo Beccaria e che l’ho fatto perchè possa farsi conoscere e rischiare d’ottenere qualche impiego, sono entrato anch’io in scena. Alessandro il mio caro fratello ha fatta anch’egli una allegazione in jure contrafacendo uno stile contorto cruschevole e stentato ed infilzando tutto quanto di più bestiale è stato scritto dai curiali sulle monete e con questa mercanzia ha attac­cato egli pure Beccaria. S’è voluto così divertire del poco buon senso comune nel nostro paese che propende a favore degli scritti confusi di Carpani contro la luminosa scrittura di Beccaria. Quello che v’è di meglio poi si è che alla testa della scrittura vi ha poste le seguenti lettere «P. P. I. C.», iscrizione che nessuno capiva. Una sera il mio Alessandro sentì un circolo di persone che parlavano di que­sta sua opericiuola senza saperne l’autore, e in quel circolo v’era l’Abate Parini che, non credendola fatta a bella posta, così diceva che meritava quello sciocco curiale la berlina e che era un vitupero che simili scioperatezze si pubblicassero. Don Nicola Beccaria, uomo caustico e zio dell’autore scacciato di casa, se la godeva e por­tava in trionfo il P. P. I. C. qualificandolo per un profondo ragiona­tore che aveva annientato il libriciuolo del suo nipote. Figuratevi come rimase poi, quando seppe che quelle lettere significavano Pascolo per i ec. e che la celia era tutta d’Alessandro amico di suo nipote! Di tutta questa battaglia di monete non se ne può cavare altra conseguenza se non col dire che ancora non v’è nel pubblico di Milano abbastanza lume per avere un giudizio ragionevole; che Carpani vorrebbe avere in monopolio le materie economiche ed è geloso che alcuno osi di parlarne; e che i revisori nostri delle stam­pe sono decisi a lasciar stampare ogni cosa purchè non abbia il vero senso comune. Vi potrei dire una anecdota accaduta anche a me, al quale hanno ricusato la stampa d’un dialogo senza ombra di motivo.

In fatti ve la voglio raccontare. Eravamo nel fervore del carteggio su queste monete, per rispondere a un nuovo scritto del Marchese Carpani aveva fatto un dialogo, voi mi conoscete ed è inutile il dirvi che puramente trattavasi la questione senza ombra di per­sonalità o di offesa; il dogma poi non ci prescrive nulla, se la pro­porzione fra l’oro e l’argento debbasi credere come 1 a 15 ovvero come 1 a 14. Parlai col libraro Reicendella noja che doveva subire nello spedirlo a Lucca ed aspettare più d’un mese di averlo stampato, nel quale intervallo sarebbe svanito il fermento e sarebbe poi giunto il dialogo fuori di stagione. «E perchè – mi disse Reicend – non lo fa stampare qui in Milano?» «Perchè – risposi – da sei o sette volte ho avuto delle dispute con questi ignorantissimi e ostinatissimi revisori e non ne voglio saper altro. Una volta fralle altre non mi si volle passare una lettera diretta al S.r Dott. Goldoni, unicamente perchè gli diceva ch’egli aveva cominciato per gradi a ripulire la scena, e che primieramente adoperò le maschere che aveva trovate sul nostro teatro e insinuò nella commedia de’ sentimenti, un intrec­cio, una azione verosimile, dei caratteri, senza togliere il favorito Arlecchino, il Pantalone ec., che poi, avvezzato il pubblico gradata­mente a gustare al pari delle maschere i sentimenti, osò di dare delle commedie senza le solite buffonerie e cominciò felicemente colle due commedie la Pamela e il Moliere. Ora il revisore non mi volle giammai passare nè Pamela nè Moliere, perchè la prima è un roman­zo inglese proibito e il secondo è un autore francese che merita da essere proibito. Mi andava dicendo di nominare due altri nomi. Io rispondeva che si può nominare terremuoto, inferno, demonio, e così un libro proibito, che poi non erano i libri proibiti che nomi­nava ma due commedie che si rappresentavano sul nostro Teatro attualmente e per tutta Italia, che si appendeva il gran cartellone col­l’avviso Si recita la Pamela e altro giorno Si recita il Moliere, che perfine se avessi nominate due altre commedie avrei detta una scioc­ca falsità poichè tutti quei che conoscono il Teatro sanno che appun­to le prime commedie del Goldoni senza maschera furono il Molieree la Pamela; queste ragioni replicate, duplicate, triplicate non giun­sero a far decampare punto sua Riverenza e la mia lettera, stampata poi dal Pitteri in Venezia, fu tranquillamente distribuita in Milano. Questo genuino anecdoto, che fu il quarto che m’è accaduto, non fu l’ultimo, perchè a questo posto vi ripongo che il S.r Secretario Bersani senza nemmeno leggerlo rifiutò lo scritto di Beccaria sulle monete e il Dottor Corti dovette riportarlo a casa impacchettato com’era». Così dissi al Reicend. Questi mi consigliò di fidarmi di lui, che era amico del Padre Reverend.mo Inquisitore, che lasciassi fare, gli dessi il dialogo ec. ed io mi arresi a queste condizioni: prima, che non venisse mai pronunziato il mio nome in conto alcuno; seconda, che o si approvasse o si restituisse sollecitamente giacchè quello era il mio originale. Dopo due, tre, quattro giorni, ne’ quali cercava inutilmente riscontro, finalmente Reicend mi dice che l’Inquisitore voleva sapere chi era l’autore del dialogo. «Rispondete – gli dissi – che l’autore non si vuol palesare, che o l’ammetta, o lo ricusi e resti­tuisca». Dopo due o tre altri giorni sento che non voleva restituire lo scritto se non andava da lui l’autore. Figuratevi se poteva stare a segno! Feci un memoriale a S. Altezza Reale esponendo succinta­mente il fatto e terminai col ricercare che dal Governo si nominasse chi esaminasse il manoscritto nel quale, se si trovava cosa degna di censura, anticipatamente confessava il mio torto; se poi non si tro­vava motivo della rappresaglia, implorava la difesa del Governo ed era ben contento di essere lo stromento per svelare una volta quali inciampi e quali violenze dovessero soffrire i giovani che cercavano in questo paese di rendersi colti e farsi conoscere, inciampi e vio­lenze promosse da una giurisdizione che si vantava indipendente e dal Sovrano legittimo e dal Vescovo. Questo memoriale lo mostrai a mio Padre prima di farne uso, e ciò per la dipendenza verso il capo della famiglia non meno che per essere egli un individuo della Inquisizione, solo motivo per cui poteva stimarla. Mio Padre prese l’affare sopra di sè. Trattò. Riebbe il manoscritto e sapete perchè si scusò il frate? Perchè disse che credeva che fosse quel dialogo con­tro il Marchese Beccaria, e sapendo che il Marchese Beccaria è amico mio, che son figlio di lui che è nel tribunale dell’Inquisizione, non aveva creduto di lasciarlo correre. Vedete i lumi del frate se ha creduto quello che dice, cioè che fosse una scrittura contraria quel­la che era in difesa! Vedete la imparzialità del giudice che ricusa perchè è contro l’opinione d’un amico del figlio di chi appartiene al suo Tribunale! Vedete perfine la grossolana cabala se tutto questo sutterfugio fu inventato per cavarsi d’imbroglio! Si maravigliano gl’Inglesi e i Francesi che ora l’Italia sia addormentata; ma io mi meraviglio che vi sia ancora l’arte di leggere e scrivere. Da noi non si può sperare stima dal pubblico, non si possono sperare impieghi, non onori, non soldi, non si può nemmeno sperare di comparire in faccia del pubblico colle stampe senza mille amarezze e vessazioni, onde concludo che è uno sforzo della natura che ci ha dato dell’in­gegno se qualcuno può avere la costanza di non diramarlo nelle cavillosità del foro o nella teologia sulla corrente degli altri, o non disperderlo nella frivola occupazione della nostra società piena di doveri, di uffici, di formolarj, e, preservandosi illeso contro tanti ostacoli, ardisce di pensare da sè, amare la verità e ricercarla.

Della mia vita che faccio non vi dirò cosa alcuna, perchè sono interamente occupato del mio libro e mi trovo molto avanzato. Prima però di terminare questa lettera voglio scrivervi una mia impresa fatta per ajutare Beccaria la quale mi è felicemente riuscita.

L’ho collocato nella casa paterna e cavato dalla miseria. Eccovi il mio piano di campagna. Egli era in mezzo ai debiti, senza modo di sussistere, con in faccia un avenire tristissimo. Gli uffici furono inu­tilmente fatti, scritte più lettere di umiliazione al Padre, non v’era più cosa da tentare. La desolazione era al colmo. Io non conosceva nè il Padre nè la Madre del mio amico, unicamente conosceva il Zio, Don Nicola, uomo legulejo caustico e ostinato a non voler riconoscere la nuora. Osservai dai riscontri che s’ebbero che il Padre sopra tutto esclamava, perchè non ardisse mai suo figlio di presentarsi a lui, che assolutamente non lo voleva più vedere. Da questa violenza colla quale gli vietava di comparirgli davanti compresi che ei teme­va adunque quell’incontro, che dunque tentandolo v’era della pro­babilità di riuscire. Il Marchese Padre e la Madre seppi che erano buona gente, mi parve che tutto l’impegno venisse dal Zio e che, un passo dopo l’altro avendo spinto le cose all’eccesso, non avevano coraggio di rientrare in loro stessi. Concepii l’idea d’una sorpresa.

Bisognava cogliere tutta la famiglia radunata. Dunque l’ora del pranzo. Bisognava togliere ogni appiglio che si volgesse in senso d’una violenza quella azione e perciò disposi che andasse disarmato senza spada. Bisognava pensare al personaggio che doveva rappre­sentare la moglie, e destinai che ella come strascinatavi dal marito fingesse uno svenimento sulla prima sedia che avesse trovata nella stanza dove era la famiglia. Disposi due lettere nelle quali Beccaria dava parte al Ministro Plenipot.° ed al Presidente del Senato della risoluzione che prendeva di gettarsi a’ piedi del Padre, e disposi chi le dovesse contemporaneamente portare nel momento della azione affine di prevenire ogni accidente. Disposi il discorso che Beccaria doveva fare di scusa, umiliazione, e preghiera. I pochi mobili e vesti­ti disposi di sottrarli dalla casa acciocché non venissero sequestrati per il fitto di essa. Tutto fu condotto col maggiore secreto. Persuasi lui sulla necessità di farlo, lei sulla medesima e sulla convenienza di far sembiante che, essendo chiesta dal marito di fare una passeggia­ta, trovandosi davanti la casa, lo abbia quasi a forza dovuto seguita­re. In somma la impresa è riuscita bene, la sorpresa fece il suo effet­to, e la natura soffocò l’arte e con lacrime, abbracci, e cordialità fu accolto e collocato colla moglie nella casa paterna, tratto dalla inquietudine di vivere. Di questo fatto me ne applaudisco, perchè ho potuto far del bene a un giovine di merito.

Voi mi chiederete se nella disputa sulle monete non avesse verun canto debole Beccaria. Sì l’aveva, i suoi calcoli sono tutti appoggia­ti a dati falsi, perchè ci siamo fidati dell’opera del Conte Carli ed abbiamo supposto che i pesi co’ quali egli esprime il fino d’ogni moneta fossero sempre gli stessi. Egli dice al tom. 2 pag. 341 che lo zecchino della zecca di Genova contiene d’oro puro grani 75.17.6 e che lo zecchino della zecca di Firenze contiene d’oro puro grani 70.21.1 come a pag. 361 e che lo zecchino di Venezia contiene d’oro puro grani 67.12.36/91 come a pag. 303, senza avvisarci che questi grani sono di peso diverso; la conseguenza ne viene che dovrebbe valere più di tutti il Genovese, poi verrà il Fiorentino, e per ultimo il Veneziano.

Così ha ragionato Beccaria. La colpa è di Carli che, facendo quat­tro tomi in quarto per confrontare il valore delle monete, si è dimen­ticato di confrontarlo. Non gli so perdonare simile negligenza, per cui la sua opera diventa un vero caos. Ma, se i calcoli non reggono, i ragionamenti e i principj sono inconcussi. Vi abbraccio.

XXVI. Milano 2 Maggio 1763

L’opera è compiuta, il libro è fatto, si sta trascrivendo da un eccel­lente scrivano, bellissimo carattere, e per supplire a questa spesa mi sono disfatto d’un abito che mi restava di gala. Nessuno sa in casa cosa io lavori o abbia lavorato. Mi sento sollevato dalla enorme fatica, dal dettaglio, dalle idee che mi occupavano la testa, la mia intensione è stata così forte che nemmeno ne’ miei sogni poteva dipartirmi dalle idee che m’avevano interamente occupato. Ora sono liberato, il colpo è fatto e non ci voglio più pensare. È un modo di vivere ansioso quello di essere violentemente impegnato in un’o­pera di qualche estensione, sempre vi si pensa, vi starebbe bene la tal riflessione, sarebbe meglio il tal ordine, mi son dimenticato di questo, mi occorrerebbe quest’altro, forse esprimerei meglio sotto quest’altro aspetto ec. ec. ec. e sempre sempre con simili cruci nel cuore è un tedio alla fine. Il libro riuscirà un in quarto di più di 300 pagine, ma le materie vi sono fitte assai. Della prima parte ve n’ho dato conto altra volta. La seconda in breve vi dirò che è divisa in cinque capi. Primieramente, esamino dettagliatamente gli articoli della esportazione e della importazione, d’onde riceviamo, dove trasmet­tiamo le mercanzie e i nostri prodotti, e formo un bilancio. Secon­dariamente, esamino sotto quai leggi viva la nostra industria, con­fronto gli originarj antichi statuti colle posteriori leggi venuteci collo spagnuolismo, e in esse scopresi il germe della destruzione e la sapienza delle antiche. Nel terzo capo esamino l’inviluppo della direzione del commercio appoggiata parte al Tribunale di Provi­sione, parte al Senato, parte a una Giunta, parte a separate deputa­zioni, per lo che, ciascuna indipendentemente operando, queste potenze si distruggono e non camminano ad un oggetto. Poi passo ad esaminare le massime erronee che si passano per tradizione e si custodiscono come sacri canoni, la facilità di accordar privative, il sistema di leggi vincolanti, proibitive, tassative de’ prezzi a pregiu­dizio dell’agricoltura e dell’abbondanza. Finalmente, entro a parla­re delle Ferme e della influenza che esse hanno avuto ed hanno per distruggere il commercio.

La terza parte scaturisce dalle precedenti. Il rimedio ch’io pro­pongo si è che, scadendo da qui a due anni, cioè alla fine del 1765, la Ferma, si pongano le regalie in amministrazione Regia e il Sovrano faccia per sè i grossi guadagni che sin ora hanno fatto i Fermieri. S’instituisca una Camera di Commercio composta da un Presidente e quattro Consiglieri. Per il primo anno saranno assai occupati col tenere in moto l’azienda. Nel secondo anno, resi pratici, si rivolge­ranno a mettere mano alla tariffa e la renderanno più chiara, sem­plice e adattata ai bisogni dello Stato. Nel terzo anno si rivolgeranno ad esaminare le leggi del commercio, quelle de’ Corpi commerciali, le tasse impostevi e progetteranno le utili riforme e un breve codice commerciale per impedire le liti e accorciarle quanto è possibile. Nel quarto anno potranno a vicenda e regolare le entrate e presede­re al commercio, dirigendo acciocchè tutto stia in ordine nè il debo­le sia oppresso dal potente e si distribuiscano soccorsi e ajuti alla industria. In poco, questo è il mio piano. Mi pare che le idee sieno non poetiche, se si ha voglia di far del bene. Il libro anderà a Vienna. Vi abbraccio.

XXVII. Milano 4 Febbr.° 1764

Dopo quasi un anno di silenzio vi do parte che sono il Signor Consigliere. Sì Signore, Consigliere senza soldo, ma con voto decisi­vo, e ascoltate come va la facenda. Al principio di Giugno dell’anno scorso io trasmisi a Vienna il mio manoscritto con una breve lettera al Signor Conte Kaunitz e questa involta all’Abate Referendario Giusti. Nella lettera al medesimo detti una rapida corsa alle mie cose passate, ai motivi che mi portarono al militare, e che mi ritrassero, alle speranze di lavorare sotto il Ministro Plenipotenziario deluse, finalmente al partito preso da due anni di occuparmi de’ fatti della economia nazionale, di che ne inviava il risultato. Concludeva colle seguenti parole: «Se V. S. Ill.ma trova male innoltrare questo manoscritto, egli resterà nella oscurità in cui l’ho tenuto sin ora; ma quando lo creda degno de’ sguardi di Sua Eccellenza Conte Kaunitz la supplico aggiugnergli il merito d’essere presentato dalla di lei mano unitamente alla lettera che prendo la libertà di annettere. Prego perfine V. S. Ill.ma a considerarmi come un cittadino che ha fatto tutto quello che nelle sue circostanze poteva per rendersi utile al Reale Servigio e che desidera vivamente la gloria di essere impie­gato, risolutissimo di non brigarla mai nè d’impetrarla per altre stra­de che per quella d’una nobile ed illibata virtù ec.».

Contai allora di aver posto un bastimento in mare, e, dissipando­mi dalle troppo uniformi e serie idee che assiduamente mi avevano oppresso col loro peso nello spazio di ventiquattro mesi, aspettai con una sorta d’indiferenza il mio destino, certo almeno di me stes­so, d’aver interposti tutti i mezzi che convenivano per ottenere un impiego. Cominciò ad essere un preludio favorevole la risposta che mi fece il S.r Con. Kaunitz agli otto di Settembre, avvisandomi della ricevuta della mia lettera, del manoscritto, ringraziandomi perchè l’avessi a lui presentato, ed applaudendo alla applicazione e ottima scelta de’ miei studj, prometteva di voler far esaminare la mia opera e che in vista della opinione che aveva di me previamente già credeva che ec.; concludeva aprendo speranza di adoperarmi. Fatto fu che sino alla sera del 31 Gennaro p. p. io non seppi cosa alcuna. Ebbi avviso per quella sera di trovarmi all’anticamera del Ministro Plenipotenziario. Fui inquieto tutta la giornata perchè due buffoni almanacchi fatti da me per quest’anno riempievano la città di dice­rie e quasi mi teneva di certo una rimbrottata per questo soggetto; ma fu tanto più grata la sorpresa, sentendomi annunziare che Sua Maestà mi ha dichiarato Consigliere di una nuova Giunta, eretta affine di rettificare le leggi della Ferma. Ora ho letto il Dispaccio del 23 Genn.° p. p. e ve ne darò in succinto l’idea.

Scade l’attuale Ferma colla fine dell’anno venturo e così al principio del 1766 Sua Maestà vuole che si cominci una Ferma novennale di cui essa sarà socia per la terza parte. Sarà diretta la società da sei Rappresentanti e due di regia nomina. Vuole Sua Maestà che sieno ridotte a maggiore dolcezza e soglievo e soddisfazione del paese le leggi della Finanza, rifusa la tariffa, protette le arti e manifatture, sollevato il commercio ec. A fine di occuparsi di questa riforma instituisce la Giunta del Presidente del Magistrato, due Questori, due Consiglieri eletti di nuovo, cioè io e il March. Mantegazza, un Fiscale, un Fermiere e un Negoziante. Mi pare in prospettiva che i due nuovi Consiglieri sieno destinati a farla da Rappresentanti nella Ferma.

Per la mia destinazione ne sono contentissimo; ma non spero niente di bene per il pubblico da questo partito. Si comincia a fare per metà quanto ho progettato. In vece d’una Regia, si vuole una Ferma mista. In vece di far precedere la locale sperienza che s’ac­quista colla amministrazione alla riforma delle leggi e tariffe, se ne affida la rifusione a un ceto di dottori e d’altri non prevenuti dai lumi o interessati a conservare il caos; o non si farà cosa alcuna, o si farà un pasticcio, sia detto colla nostra libertà. I benefici a un paese 442 vi vuole molta arte per saperli fare e molta scelta nel metodo e nel tempo per farli riuscire. L’amor proprio de’ Ministri li porta a metter mano ai progetti, a rassettarli, dislocarli, accomodarli secondo le loro idee, e se ne formano poi degli esseri chimerici, si conservano le lettere d’un nome e se ne forma uno storpiato anagramma per fare qualche cosa del proprio. Vi darò nuova di quanto potrà interessar­mi. Vi abbraccio.

XXVIII. Milano 15 Maggio 1764

Cominciam bene davvero. Vi ho scritto nella mia precedente che la Corte fra le altre cose ha comandato che si rifonda la Tariffa e sia accomodata ai bisogni della industria nazionale. Si propose que­st’oggetto nella Giunta e un Ministro fece vedere che, ammeno che d’avere uno stato delle importazioni ed esportazioni, non si può cautamente metter mano a quest’opera. La evidenza di questa veri­tà fu sentita da ciascuno onde (poiché questo stralcio costerebbe più d’un anno di lavoro, trattandosi di trascrivere in classi quanto confusamente e col solo seguito del caso de’ daziati trovasi sopra più di due mila volumi di bollette) si metteva da parte il pensiero d’ogni riforma su quest’articolo con gran contento della compagnia de’ Fermieri. Avrei creduto di mancare ai miei sentimenti, se aves­si dissimulato di possedere io questo stralcio e d’essere disposto a comunicarlo. Così feci e il Presidente mi pregò istantemente di comunicarlo.

Come io avessi questo bilancio ve lo dirò. In mezzo al mistero e alle tenebre potei ottenere tutte le carte dello spoglio fatto sopra i daziati del 1752. Quest’operazione fu intrappresa per ordine del S.r Con. Cristiani, rimase imperfetta per la di lui morte, restò presso un galan­tuomo che mi confidò le carte ed io con una fatica lunga e ostinata vi ho data la ultima disposizione e fatti i calcoli. Questo bilancio è il primo capitolo della seconda parte del mio libro mandato a Vienna; e anche per ciò mi sono creduto in dovere di non dissimulare.

Se avessi dato alla Giunta un solo esemplare di questo scritto facilmente si metteva in silenzio nel fascio delle scritture. Bisognava darne una copia a ciascuno degli otto componenti la Giunta. Ri­vedere otto volte tanti conteggi era una fatica inutile. Gli scritti per i Tribunali e le Giunte si stampano, così feci, consegnai all’Agnelli il mio manoscritto, ne feci stampare cinquanta copie in numero.

Risulta da quel bilancio che il credito di quell’anno 1752 era di lire tredici milioni circa più una incognita, e questa partita incognita sono i frutti de’ beni posseduti dai Milanesi ne’ Stati Sardi, partita che ho accennata ma non potuta calcolare per mancanza di mezzi. Il debito di quell’anno risulta in ventidue milioni circa, più un’altra incognita che è l’uscita del denaro per la cassa militare, oggetto pure sul quale mi mancavano i dati. Terminava dunque così

«Dovrebbe x = 9751069.13.2 + y»

Vi trascriverò la chiusa di questo mio bilancio; eccovela:

«A questo termine mi ha condotto l’imparziale ragionamento su i fatti del nostro commercio che ho fatto stampare bensì ma non pub­blicare, e ciò unicamente per poterne rivedere otto esemplari con una sola occhiata, sebbene questa ancora siasi dovuta dare di fretta. Se la fatica mia mi ha condotto alla verità, con piacere la comunico, essendo essa il dono più pregevole e puro che possa presentarsi ai Direttori delle pubbliche cose; se la fatica mia non mi ha fatto andar dritto alla verità, essa servirà almeno di occasione di disterrarla e produrla ed io conterò fra i momenti felici quello in cui potrò risa­narmi da un errore.

Milano 2 Marzo 1764»

L’oggetto era nuovo affatto perchè non vi fu prima che uno scrit­to ipotetico del March. Carpani che nel 1754 sosteneva senza prove che il nostro commercio attivo ascende a quaranta nove milioni e il passivo a quaranta milioni. Io analizava i prodotti interni seta, grani, lino, cacio, manifatture; analizava capo per capo le merci estere indi­cando d’onde ne riceviamo principalmente ogni classe e appoggian­do ai daziati fattine nel 1752 ne calcolava il valore. Era oggetto importante, reso anche necessario per non arenare il tutto. Era parte d’un libro approvato dalla Corte, era annunziato con modestia, non pubblicato perchè otto soli esemplari ne distribuii, scrivendo in fronte di ciascuno di questi otto il nome del Ministro della Giunta a cui lo affidava. Poi, avendomene richiesti altri esemplari il Pre­sidente, pregandomi a farli stampare se la stampa non era rotta, glie­li diedi e, avendone egli distribuiti a de’ suoi amici, feci io lo stesso del restante a miei, cosicché in tutto 50 copie ne furono visibili… Ma perchè direte voi tutto questo minuto proemio? Che importanza e a qual proposito a una cosa tanto naturale? Eccovene la risposta al quesito nella lettera che fedelmente vi trascrivo:

«Ill.mo Sig.re. Mi ha cagionato molta sorpresa l’intendere che Vo­stra Signoria Illustrissima senza partecipazione e permesso del Go­verno abbia dato alle stampe anche in paese forestiere (cioè in Milano dal Signor Antonio Agnelli) un supposto Bilancio del com­mercio di codesto Stato di Sua Maestà, e più sorpresa mi ha fatto il vederlo compilato senza le necessarie cognizioni e i fondamenti che necessariamente richiedonsi ad accertare una tal opera. Sarebbe stato riparabile in tutti un passo così poco considerato; ma rendesi molto più degno di osservazione in Vostra Signoria Illustrissima la quale, appena ammessa all’onore di servire Sua Maestà, ha dato un saggio che non può se non compatirsi come effetto di leggerezza giovanile. Concorrono in questa sua risoluzione tutt’i caratteri che la qualificano impropria e inoportuna, sì perchè non era Ella autorizata a riconoscere i fonti onde poter equilibrare la forza e la debo­lezza dello Stato, sì perchè ha dato Ella fuori un calcolo che discre­dita il Paese e per conseguenza fa poco onore a Sua Maestà, al di cui servigio potrebbero derivare delle molto perniciose conseguenze. L’operare a capriccio e con indipendenza da quelli che sostengono la Rappresentanza Sovrana non è la strada che deve battere chi s’i­nizia al Ministero. Molto meno poi quando si tratta di comparire al Pubblico, il che non deve farsi senza prevenzione ed approvazione della Corte. L’amor proprio deve sottomettersi ed essere subordina­to ai doveri del Ministero; e chi non intende o non sa conformarsi a questa massima non merita d’essere Ministro. Io voglio dar tempo a Vostra Signoria Illustrissima di meditare sopra queste riflessioni e, quando si senta virtù e coraggio bastante per adattarvisi, procurerò di scusare e coprire il suo trascorso. Se poi le sembrassero troppo rigide e troppo difficili ad eseguirsi in tal caso mi resterà il piacere d’aver conosciuto in lei un giovane Cavaliere che ha dei lumi natu­rali ed acquisiti e che avrebbe della disposizione per maturarsi; ma che gli manca il principale requisito, che è quello della docilità e della moderazione.

Sono con distinto rispetto

di V. S. Ill.ma

Divotissimo ed Obbligatissimo Servitore Kaunitz Rittberg.

Vienna 19 Aprile 1764»

Il fatto non dà luogo a riflessioni. Uno speculativo potrebbe cre­dere che gl’Impresari vedendo con ciò aperta la strada a una rifor­ma avessero indotto uno de’ Secretarj del Ministro Plenipotenziario a dipingermi a guazzo in una lettera che il Ministro sottoscrisse. Io vi dirò che da ogni parte mi sono veduta piovere adosso l’ira de’ Fermieri. Il Baretti nella sua «Frusta letteraria» mi ha terribilmente confutato col dire libricciatolo, politicuzzo, e cose simili, provanti come vedete. Si fece serpeggiare una poverissima tessitura di sciapitaggini manoscritte che si intitolò: Confutazione del Bilancio ec. Comparve in scena il Marchese Carpani con altro scritto intitolato Saggio sopra il Bilancio dello Stato di Milano e sostiene che i libri de’ daziati sono inutili per fare un bilancio ma che si deve farlo a priori. Comparvero sonetti che dicono che da Voltaire e da Hume ho cavato il bilancio. Compare un Senatore ed è Muttoni che stam­pa in Cosmopoli al 19 Marzo 1764 e dice che per avere commercio bisogna avere popolazione, e siccome io non sono tanto vigoroso da popolare tutto lo Stato così nemmeno posso suggerire cosa che con­venga al commercio, al qual commercio niente ha che fare la Tariffa delle gabelle; e così se la va nobilmente ragionando.

Ma almeno (direte voi) il paese vi farà giustizia, la rabbia stessa de’ Fermieri farà conoscere che avete difeso la Patria; essi sono tanto detestati che un loro aversario debb’essere il ben venuto. Voi soste­nete che il paese perde e con ciò stimolate a soccorrerlo, allontana­te dall’accrescere aggravj, tutto ciò i vostri Patrioti lo sentiranno. Avete portata la luce in questo bujo, avete comunicati dei fatti inte­ressanti con modestia, senza offendere alcuno, sarete ricompensato dal partito pubblico. No amico. Sono isolato e il pubblico è ancora troppo cieco per rendermi ragione. Sento tutta la ingiustizia che mi si fa, ma il mio temperamento è di ricevere lena dagli ostacoli. Il camminare al bene coll’aura seconda è men glorioso che il cammi­narvi fermo e costante attraverso le tempeste. Se avessi un rimorso non sarei così. La mia vita, le mie azioni, i miei pensieri sono limpidi e puri. Camminiamo avanti. Saranno quindici giorni dacchè mi è stata data la commissione di fare uno spoglio de’ libri della Daziaria. Ho in mia casa i libri del 1762, ho scrittori e computisti che trava­gliano, la direzione la do io. A buon conto la Corte ha riconosciuto: primieramente, che il bilancio si deve cavare dai libri; secondaria­mente, che è utile l’averlo; in terzo luogo, che io sono capace di organizarlo e diriggerlo. Conclusione: ho impiegato più mesi a fare de’ conti, ho spesi quattro zecchini per la stampa e diciotto soldi per pagare l’onorevolissima lettera descrittavi, servo senza soldo, sono un poverissimo figlio di famiglia, vedete il bel negozio che ho fatto! Vi abbraccio.

XXIX. Milano 28 Maggio 1764

Il Questor Pellegrini s’è impadronito della Tariffa: ha in sua casa scrittori, gabellieri ec. ed ha posto mano al lavoro. Credereste? Quel disgraziato e maladetto mio bilancio è il solo filo che tengono davanti gli occhi per regolarsi! Io ho proposto di rifondere la tariffa in un modo più semplice. Tuttora conservasi lo scisma fralle cin­que Provincie che compongono lo Stato, quale era allorquando ogni città si reggeva indipendentemente da sè. La circolazione è intercet­ta dai dazi e una merce paga il transito di ciascuna Provincia che attraversa e l’entrata in quella in cui entra, per lo che niente è più disuguale quanto questo tributo. Il Cremonese paga pochissimo tri­buto sulle merci che riceve dal Bresciano, Ferrarese ec. e moltissimo su di quelle che riceve dagli Svizzeri o da Genova. Dite l’opposto del Comasco. Si è paregiato il tributo sulle terre col nuovo censo, facciamo altrettanto sulle gabelle, e siavi una facile percezione di uni­forme dazio per ogni merce all’entrare nello Stato o all’uscirne, e si liberi la interna comunicazione. Diventi lo Stato una sola società. Questo è il mio piano; l’ho scritto; si è detto che la massima è buona, ma che non è il caso. Amen amen.

Il Conte Carli ha rianimata la sua amicizia per me. Sinceramente vi dirò che l’errore preso da Beccaria m’aveva diminuito alquanto la stima per Carli; il vederlo ora tanto assiduo, dacchè sono fatto Con­sigliere e si può prevedere una futura rivoluzione di cose, mi fa an­che specie. Singolarmente me ne ha fatto una lettera da lui scritta al Padre Demetrio, Trinitario scalzo, in cui gli dice di animarmi a proccurargli una nicchia e ricordarmi che sarebbe una azione degna di me l’imitare il Consigliere Piombanti, il quale, essendo stato prescelto dal S.r Conte Pallavicini per Presidente alla Giunta del Censo per amicizia col S.r Pompeo Neri, lo determinò a dare la presidenza a Neri e si contentò d’essere Consigliere sotto d’un amico. Questi fatti sono gloriosi per chi li fa e indiscreti per chi gli indica. Sia però ciò detto in confidenza. Carli ha nelle mani il mio manoscritto stori­co, gli ho scritto chiaramente che qui a Milano come non v’era nulla da sperare per me, nemmeno per lui ve ne sarà, e che si rivol­ga a Vienna dove credo che sarà ascoltato.

Alcune leggi, ossia Gride, sono già fatte; ma a dir vero non sono migliori delle passate nè per la ragionevolezza nè per la beneficenza. Si vuol fare un pasticcio; i Fermieri hanno un potere terribile e alla Corte e presso il Governo. Il Conte Aresi, Vicario di Provisione, ha ricevuta una strappazzata da Vienna anche più forte della mia perchè la Congregazione dello Stato ha stampata la sua supplica presentata al Governo sul proposito della riforma delle leggi di Finanza. Questo è poco: il Fermiere ha sparse le copie di questa let­tera che naturalmente il Vicario non ha mostrata a nessuno. Vedete che bella speranza di riforma! Io mi occupo del mio bilancio e lascio poi che questo caos di roba vada come può andare. Aspettiamo tempi migliori. Vi abbraccio.

XXX. Milano 1 Novembre 1765

Dispacci terribili si fulminano da Vienna contro il Senato. Uno del 3 Giugno p. p., in cui Sua Maestà dichiarasi d’essere sorpresa che il Senato abbia avuto la contemplazione di permettere ai Monaci Cisterciensi la fabbrica del nuovo monastero presso S. Celso, la quale senza il sovrano beneplacito non si poteva accordare, deroga per ciò ed annulla quanto ha fatto il Senato. L’altro è del 16 Agosto p. p., rapporto alla successione dei Conti Bolannos alla eredità d’un loro agnato, pieno di amaro disprezzo e che risguarda come una greggia di legulei tutto il nostro, un tempo rispettatissimo, Senato. Vedo che la toga decade. Io sono il primo Milanese che senza essere dottore comincia ad avere un voto decisivo, e spero che avrò poi anche un soldo e impiego fisso. Molte cose ho da scrivervi, ho taciuto tanti mesi perchè non aveva materiale nteressante, ora mi sfogherò. Comincio dalle cose della nostra Giunta. Il pasticcio è fatto, i Capitoli, le Gride, la tariffa, tutta roba cucita insieme coll’afflato del Fermiere, tutta roba già approvata dalla Corte. Era men male lasciare queste Gride com’erano, il Fermiere sapeva calcolarvi la sua rendita e il popolo vi era accostumato. Basta, la cosa è fatta, ne vedremo l’effetto.

Il mio bilancio è finito. È costato alla Camera appunto, tutto compreso, diecisette mila e una lira e soldi dieci. Risulta l’attivo di quindici milioni, passivo circa diecisette milioni. Resta passivo di £ 1593453.9.2, vedete. Tale è lo spoglio de’ libri del 1762. Troverete ora voi chimerico che nel 1752 in vece l’attivo riuscisse a tredici milioni e il passivo a ventidue milioni come nel mio stampato bilancio? Da una annata all’altra niente v’è di più naturale di questo divario.

Questo secondo bilancio è tutto stralciato a bolletta per bolletta con esatti richiami, cosicché ogni partita si giustifica ne’ suoi ele­menti, ed ogni elemento si trova dove si è collocato, onde ad ogni richiesta si dimostra niente esservi di arbitrariamente asserito, nè di arbitrariamente omesso. La operazione sarebbe nojosa a descriversi e la intendereste al momento veggendola. Tutte le mercanzie sono stimate dopo replicate diligenze praticate presso le persone perite. Si dimostra ad evidenza il grossolano errore di chi ha giganteggiato il nostro commercio de’ grani per ingrossare la parte lucrativa del nostro commercio. Tutto questo l’ho spedito a Vienna in tre volu­mi che mi sono costati fatica, ma anche m’hanno proccurata la sod­disfazione vedendo l’opera riuscir bene. Vi è finalmente, dopo un secolo di tenebroso mistero, vi è un dizionnario in cui di qualunque capo di roba si vede precisamente quanto in un anno ne sia entrato e quanto ne sia uscito.

Sta sul capo imminente qualche grande mutazione. Il mio libro sin ora non ha prodotti che degli anagrammi di sistema, cioè si pigliano tutti gli oggetti da prendersi e poi s’inverte l’ordine e si for­mano dei pasticci. Il Conte Carli ha battuta la strada d’indirizzarsi a Vienna. Ivi il S.r Montagnini, di lui amico, ha aperto l’adito al dis­corso. L’abate Giusti Referendario ne ha impressa una idea vantag­giosa sino dal tempo in cui lo conobbe a Milano. Carli ha trasmesso a Vienna un piano d’un nuovo Tribunale di Commercio, ma questo piano è una vera poesia degna della Repubblica del divino Platone.

Si tratta di distribuire premj, dare nastri, condecorazioni ai tessitori migliori ec. Si tratta di togliere gl’inciampi delle mal collocate gabel­le, di impedire che i causidici non divorino i corpi mercantili con eterne liti, di stabilire una forma spiccia e non dispendiosa de’ giu­dizi mercantili, di punire la mala fede de’ fallimenti dolosi, di toglie­re i pregiudizj che si oppongono allo sviluppamento dell’industria, diramare nella educazione de’ giovani i semi delle benefiche verità; tutto questo è da fare e sempre ricordandoci che la forza e ricchezza primordiale e fisica d’un paese fecondissimo e mediterraneo è collocata nella agricoltura, per lo che le manifatture per noi debbon essere un oggetto secondario e sempre da posporre alla coltura delle terre; siam ben lontani da pensare al lusso delle condecorazioni, medaglie e nastri! Io credo che l’accorto Montagnini non abbia voluto presentare uno scritto così leggiero e gli abbia consigliato di fare un piano adattato alla provincia, dettagliato e che ragionasse di più. Carli aveva i miei scritti, ma in essi non v’era tutto, nè su di essi aveva egli lavorato quanto bisognava per impossessarsene. Prese egli dunque l’occasione di porre suo figlio alla fine dell’anno scorso 1764 nel Collegio di Parma e quindi si postò a Piacenza dove con repli­cate istanze mi chiamò a Orio. Ivi svelò l’apertura già fatta a Vienna, le speranze concepite da lui d’essere Presidente d’un nuovo consiglio di commercio, l’incarico che aveva di fare un piano, e il bisogno che aveva di tutta la mia amicizia per dargliene i materiali.

Io tutto gli consegnai de’ miei scritti del bilancio che stava allora lavorando. Fece un abozzo di piano; me lo consegnò, trapellava vanità, leggerezza, si parlava molto di titoli, preferenze ec. Io lo ritoccai, feci molte opposizioni, molto ottenni, ma non tutto, per modo che il piano sarà un piano ma difettoso. L’ha mandato a Vienna, io glielo ho fatto trascrivere. I difetti di questo piano consistono in due punti, il primo a mio parere è che egli vuol accollare al Consiglio di Commercio la briga di giudicare le cause mercantili, l’altro ch’egli e nella sostanza e nella forma comincia a indisporre e inimicarsi tutt’i Tribunali al bel principio; ma su questi due articoli non l’ho potuto far smontare. Ragioniamone d’entrambi.

L’accollare a un ceto destinato alla riforma la briga di giudicare tra Tizio e Sempronio è lo stesso che infaragginare in dettagli nojosi ed insignificanti e affaticare per modo che non rimanga lena di pensare ai tronchi maestri. Mille dispute nasceranno fra Tribunale e Tribunale per cause che si crederanno da una parte mercantili e dal­l’altra no. Un debitore per esempio verso un mercante da chi si deci­derà? Un possessore che vende vino, seta, grano, lino a un traficante da chi sarà deciso? Sono queste cause mercantili? Vedete che spinajo. Io credeva meglio lo ristabilire nell’antico vigore la giurisdizione della Camera de’ Mercanti e il Consiglio invigilasse per l’osservanza delle antiche leggi patrie, pensasse a consultare un codice, a dirige­re gli altri oggetti di economia ec.

Ho detto che l’altro difetto del piano è di farsi al primo principio nemici i Tribunali. Così debb’essere. Distacca dal Senato anche tutte le cause incoate, distacca dal Vicario di Provisione parimenti ogni ingerenza sulle università; dal Magistrato distacca il censo, in somma tutti vengono a perdere e questo si fa anche nella maniera la più dura e con termini di minacciare la disgrazia di Sua Maestà al Senato, se mai replicasse contro ec. Questo vi darà un saggio della maniera di pensare del Conte Carli; in verità mi trovo assai imba­razzato d’essere legato seco da più anni, andiamo ad affrontare la detestazione pubblica e sa il cielo con quale profitto.

Prima di chiudere vi soddisferò sul proposito del libro dei Delitti e delle Pene. Il libro è del March. Beccaria. L’argomento glielo ho dato io, e la maggior parte de’ pensieri è il risultato delle conver­sazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro, Lambertenghi e me. Nella nostra società la sera la passiamo nella stan­za medesima ciascuno travagliando. Alessandro ha per le mani la Storia d’Italia, io i miei lavori economici politici, altri legge, Bec­caria si annojava e annojava gli altri. Per disperazione mi chiese un tema, io gli suggerii questo, conoscendo che per un uomo eloquente e di immagini vivacissime era adattato appunto. Ma egli nulla sapeva de’ nostri metodi criminali. Alessandro che fu il protettore de’ carcerati gli promise assistenza. Cominciò Beccaria a scrivere su de’ pezzi di carta staccati delle idee, lo secondammo con entusia­smo, lo fomentammo tanto che scrisse una gran folla di idee; il dopo pranzo si andava al passeggio, si parlava degli orrori della giurispru­denza criminale, s’entrava in disputa, in questione, e la sera egli scri­veva; ma è tanto laborioso per lui lo scrivere e gli costa tale sforzo che dopo un’ora cade e non può reggere. Ammassato che ebbe il materiale, io lo scrissi e si diede un ordine, e si formò un libro. Il punto stava, in una materia tanto irritabile, il pubblicare quest’ope­ra senza guai. La trasmisi a Livorno al S.r Aubert che aveva stampa­te le mie Meditazioni sulla felicità. Il manoscritto lo spedii in Aprile l’anno scorso e da me se ne ricevette il primo esemplare in Luglio 1764. In Agosto era già spacciata tutta la prima edizione senza che in Milano se ne avesse notizia e questo era quello ch’io cercava. Tre mesi dopo solamente, il libro fu conosciuto in Milano, e dopo gli applausi della Toscana e d’Italia nessuno osò dirne male. Eccovi soddisfatto. Vi abbraccio e sono.

XXXI. Milano 15 Dicembre 1765

Dieci mila lire di soldo, Consigliere solo delegato all’ammi­nistrazione del terzo di Sua Maestà nella Ferma, membro annesso al futuro Supremo Consiglio Commerciale: ecco il destino del vostro amico. Lo manifesta il dispaccio 1 Novembre. Mi figuro che Greppi non ne avrà piacere dopo la mortificazione che mi ha proccurata. La Ferma sarà composta di tre rappresentanti: io, Greppi, e Venino. L’affitto è per nove anni. Senz’altra dipendenza noi tre siamo gli arbitri. Una Compagnia d’Ignazio Pino e compagni ha offerto l’ac­crescimento della vigesima parte del fitto che si sono obbligati a cor­rispondere i Fermieri attuali. Si tratta di 250 mila lire annue, ossia di dieci mila annue doppie e la Corte le ricusa, quantunque per le leggi di Milano l’accrescimento della vigesima quando il fitto passi il milione sia valevole a rimettere all’asta un appalto fiscale, proposto che sia prima che spirino 40 giorni dopo la deliberazione. Vedete se Greppi è ben appoggiato alla Corte! La mia condizione è bella da un lato, ma è assai scabrosa dall’altro. Balzare a un soldo considere­vole in tal guisa da noi non ha esempio, ottenere di primo slancio la firma e la facoltà libera di disporre della porzione della Sovrana da me solo è una prova d’insigne confidenza ai primi passi che faccio nella carriera; ma trovarmi riposto esecutore di queste nuove Gride, che il Sovrano ha solennemente ordinate da rifondere per la tranquillità del Suo popolo e la briga ha per lo contrario fatte organiz­zare per sempre più stringerlo, trovarmi una nuova Tariffa imbro­gliatissima che in molti capi essenziali ha accresciuto il tributo, tro­varmi socio e coll’obbligo di vestire uno spirito sociale co’ Fermieri, tutto questo mi pone alla berlina in faccia al mio paese. Se io non mi lego co’ Fermieri o faccio loro contrasto, niente più facile che essi collo sborso di una somma si redimano dalla interessenza del terzo Regio e mi piantino, se avessi già dei servigi e un credito, sarebbe migliore la mia condizione, ma debbo farmelo: se mi collego co’ Fermieri, divento l’obbrobrio del pubblico e oltre il dispiacere di essere ucello di mal augurio per la mia Patria considero anche che, quando s’è generalmente odiato il Sovrano, poi fa la sua pace col popolo sacrificando il flagello che lo ha percosso. Il S.r Principe di Kauniz in una sua lettera del 28 scorso Novembre mi scrive così: «Ella è assai spregiudicata per intendere che inchinandosi questa Gran Principessa ad una perfetta società co’ suoi Fermieri chi ha l’o­nore di sostenerne la Regia Rappresentanza dee farsi pregio di non solo astenersi da tutto ciò che possa contaminarla e corromperla, ma di condursi con un vero spirito sociale che ne alimenti la più perfet­ta armonia». Capite, amico, le conseguenze di un tale linguaggio! Il caso mio è imbarazzante; ma i viaggi facili ogni uomo comune gl’intrapprende, la difficoltà è appunto quella che ricerca l’uomo che ha l’ambizione di non essere del volgo. Sommo disinteresse, illi­batezza somma, queste sono qualità che non mi costeranno e che sicuramente manterrò. Converrà celare l’attività e lasciarsi condurre dalla corrente, essere facile, in apparenza distratto dagli affari e di buona fede. In fatti radunare le notizie e impratichirsi del vero nerbo del negozio senza che se ne avvedano. I Fermieri sono e debbon essere miei nemici, sono più forti e mi opprimeranno se mi temono sul bel principio. La carriera è spinosa, la virtù non la tra­dirò mai, ma vivrò coi lupi e converrà saper dissimulare. Greppi è uomo col quale vivendo imparerò, non conosco uomo più accorto di lui e che meglio lo nasconda. Vi abbraccio e sono.

XXXII. Milano 2 Agosto 1767

Fra i Fermieri e me la cosa va benissimo. Essi non oltrepassano mai i dritti portati nelle Gride e Tariffa, hanno ben ragione di non oltrepassarli perchè vi hanno un campo assai vasto. La massima del Fermiere è di ottenere leggi feroci e, decampando poi anche alla metà delle pene, spogliano il popolo e vantano la propria modera­zione. Sin che essi stanno ne’ limiti, io sono autorizato a secondarli e così faccio e viviamo cordialmente a quanto si vede. Il pubblico e la stessa Congregazione di Stato ha fatte delle formali rimostranze su i nuovi aggravi, imposti nel tempo che Sua Maestà ordinava soglievo; i negozianti strillano, il paese dispettato ha cessato per più setti­mane di prendere tabacco, si sono vedute affisse delle pasquinate minaccianti, si fanno correre delle guardie notturne per timore di tumulto, i Fermieri temono e fanno vista di non temere, tutto è in combustione come era facile il prevedere, ma tutto si va calmando.

I Fermieri hanno decampato da alcune pretese che però erano appoggiate alle nuove leggi, si riprende il tabacco, si grida e si paga e si va avanti. Di me non se ne parla niente bene, io però vedo che presto o tardi se ne parlerà bene, questo senso di dolore universale nel popolo è noto alla Corte, si dice che l’Imperatore se ne interes­si, vi sono a Vienna due emissarj che valgon poco ma gridano, e sono un Seravalle ed un Redaelli, gente da nulla, forse nascerà una crisi favorevole al paese e si cesserà di affittare le finanze. Voi vedete che questo debb’essere il mio scopo.

Parliamo ora del Supremo Reale Consiglio di pubblica economia: niente meno vi vuole per nominare il nuovo Dicastero. Quand’anche la pianta di esso fosse stata fatta da Solone, i Ministri che si sono scelti per eseguire la riforma sono capaci da screditarla, ora figuratevi sopra un piano vizioso che bella figura si fa! Carli è piombato dall’Austria Presidente, non era una settimana che trovavasi a Milano che s’era fatti inimici i Consiglieri, con maniere aspre, altere, pedantesche ha ributtati tutti! I tre questori Pellegrini, Montani e Schreck detestano il Consiglio e il Presidente. Pecis ha comune questo sentimento co’ tre nominati. Il Consiglio è una unione di scarti ai quali si voleva dare una sussistenza. Damiani commissario de’ Fermieri per la lotteria di Germania è Consigliere, è pure Consigliere il genovese Villavecchia proscritto dalla sua Patria, in somma questa unione d’uomini senza nome, senza nasci­ta, senza attaccamento al capo o al corpo, senza concetto nel paese, senza pratica di Tribunali è una vera Babilonia. Io mi sono piegato a intervenire alle sessioni per amicizia e compassione verso il Presidente, ma egli mi ha così mal corrisposto che mi sono sottratto a questo Consiglio. La testa a quest’uomo è girata, non conosce più amici, non si ricorda più del passato, tratta tutti come un pedante nizzardo duro e arrabbiato tratta i discepoli. Sin ora non ha fatto che perdere, il Senato ha con un nuovo dispaccio riavute le cau­se incoate, poi le cause commerciali nelle quali entri articolo di ragione le ha riacquistate, in somma, amico, il Consiglio è una buf­foneria che malgrado i titoli e il fasto del Presidente fa ridere e sarebbe anco odiata se si potesse stimarla. Io mi sono dispensato adunque dalle sessioni di questo bel Consiglio e mi occupo della Ferma.

La Corte fa istanze premurose per avere un bilancio d’aprossimazione della Ferma della scorsa annata. Il Presidente s’è creduto autorizato di venire alla Ferma, dare gli ordini ai ragionati per la compilazione di questo bilancio, indicarne il metodo senza dirmene una sola parola. Io l’ho lasciato fare. Hanno formati tanti separati bilanci quante regalie, sale, tabacco, polvere ec., in questa confusio­ne non si può capire cosa sia il negozio. Io ho lasciato che il mio S.r Presidente trasmettesse pulitamente a Vienna questa roba confusa e nello stesso ordinario ho spedito al S.r Principe di Kaunitz l’istessa mercanzia tutta schiarita e posta in ordine sopra un solo foglio di carta senza darmi inteso di quanto da altra parte gli doveva venire.

Questa fatica l’ho fatta solo senza saputa di alcuno; è piaciuta ed è stato preferito il mio metodo sul quale poi si debbono fare i bilanci per l’avenire. Ho su tal proposito due risposte assai graziose del Signor Principe di Kaunitz del 14 Maggio e 29 Giugno e 30 Luglio p. p. Quel Presidente ha piantato pure un bilancio delle importazioni ed esportazioni, tutto sconnesso e senza prove, unicamente per cercare di fare scomparire il mio. Io non ho cercato se non di giu­stificare in ogni classe di mercanzie e derrate quanto ne sia entrato e quanto uscito in una annata e calcolarne il valore. Egli vorrebbe fare un bilancio fra il Milanese e la Francia, un altro fra il Milanese e la Germania, un terzo fra il Milanese e Venezia ec. e, così va dicen­do, ne vorrebbe fare venti e più bilanci, quasi che dai libri de’ dazia­ti si comprendesse la esatta patria delle merci; quasi che tutte si rice­vessero da prima mano, e quasi che le nostre sete, formaggi, lino ec. usciti che sieno dallo Stato si potesse sapere in qual parte del mondo si trattengono. Questa idea, che ha un falso brillante, porta di neces­sità di omettere la giustificazione del conteggio ed ei sacrifica l’es­senziale a questo enfatico essere. Egli ha fatto di tutto per inchio­darmi al tavolone del Consiglio, gli pesa che io mi occupi della Ferma, in una parola è un mio nemico coperto, m’invidia e mi teme. Sono verità tristi coteste e allontanerebbero dal sentimento conso­lante dell’amicizia se, a costo d’essere mal corrisposti, un bisogno felice di far del bene non ci obbligasse ad essere inconseguenti. Questa teoria la provo con tutta la energia e la proverò anche a voi, a costo di scrivervi una delle sterminate mie lettere raccontandovi quanto s’è passato fra Beccaria e me.

Beccaria ricevette e dall’Abate Morellet e dal Sig.r D’Alembert delle lettere di lode del suo libro. Morellet ne fece la traduzione francese; mostrogli il desiderio che si aveva dalla società del Barone d’Holbac dove si radunavano gli enciclopedisti di conoscerlo; lo sti­molava a venire a fare una corsa a Parigi. I mezzi mancavano; man­cava un compagno, perchè Beccaria da sè è inetto. Io parlai al Marchese Beccaria Padre e lo indussi a far un debito di 500 zecchi­ni per questo viaggio. Io sacrificai la compagnia dolcissima di mio fratello Alessandro, e feci un debito e gli diedi il mezzo di accom­pagnarlo. Si trattava di stare sei mesi fuori d’Italia e vedere prima Parigi poi Londra. Con questa prevenzione presero congedo. Seppi poi che il mio povero Alessandro dovette soffrire quello che pare incredibile nel viaggio. Beccaria inettissimo a tutto, abbandonato a una tristezza che pareva pazzia, sin dal primo giorno cominciò a temere di non rivedere più la moglie e i figli. Non parlava altro che di questa sua fantasia. La notte voleva dormire nella stanza con Alessandro. Si svegliava da sogni da pazzo, gridava ajuto credendo che entrassero per la finestra persone armate. Beveva la sera per assopirsi e cresceva la feroce tristezza. Tutt’i bisogni della fisica copiosamente voleva soddisfarli nella stanza di cui le esalazioni non erano indifferenti a soffrirsi da Alessandro che non suole respirare le proprie. Quando fu in mezzo ai monti della Savoja, le furie d’Oreste lo circondavano, i sassi pelati e sublimi di quelle Alpi nella immaginazione di lui svegliavano orribili fantasmi. A Torino aveva temuto d’essere carcerato per il libro dei Delitti e pene. Nella Savoja voleva ritornarsene indietro, e più volte lo tentò e tutta la infinita compassione del paziente e tolerante Alessandro vi voleva per impe­dirgli una fanciullagine simile che lo avrebbe screditato e reso ridicolo. Conveniva che cento e cento volte il giorno si sentisse ripetere le stesse cose per calmarlo, e un momento dopo eravamo da capo. Un infelice che viaggia per lasciar la testa sopra un palco sarebbe stato forse più sopportabile di quello che quest’umore aveva reso Beccaria. Infine a forza di dolcezza, di pazienza e di pena si potè condurlo a Parigi. Sin qui non v’è che una pazzia, un male che desta compassione e merita l’assistenza d’un amico. Chi mai avrebbe potuta prevedere simile pusillanimità nel vigoroso autore del libro! Ma sin qui ripeto non v’è che un motivo di compatire ed assistere.

Il male si svela a Parigi. Ivi si trovò accolto con festa e ammirazione da Morellet, d’Holbac, Diderot, D’Alembert, Marmontel, Helvetius ec.: eccolo diventato al momento vano, geloso, insidiosamente accorto per impedire che Alessandro non abbia mai occasione di parlare, gli interrompe sempre i discorsi, invidia ogni sguardo che sia gettato sopra di lui. In casa era un bambolo, ritornava ai piangisteri, esiggeva tutto da Alessandro; fuori di casa era un tiranno che invadeva la conversazione. Alessandro vuol farsi un abito, Beccaria entra in un’amara disputa e non lo permette. Vien lodato Beccaria per la risposta a Facchinei scritta in fine del suo libro, si dice da talu­no che era anche più bella del libro istesso; Beccaria non v’ha del suo una sillaba in quella apologia, è lavoro mio e di Alessandro. Alessandro era presente quando a Parigi non si vergognò di rende­re le grazie dell’encomio e disse di aver fatta quell’apologia in cin­que giorni, e tanti veramente ne abbiamo impiegati noi due fratelli. Partì da Milano al 2 Ottobre 1766 e fu di ritorno il 12 Dicembre, cosicchè in tutto fu assente settanta due giorni. Alessandro passò a Londra e lo lasciò ripiombare a Milano. Giuntovi, non vi saprei esprimere l’aria di uomo sublime che affettava, era un Dio che sen­tiva l’onore che compartiva a me povero mortale, non una parola che spirasse qualche concetto che vi fosse di me a Parigi, dove pure le mie Meditazioni sulla felicità furono approvate; niente di con­solante usciva da quella bocca, ma tutto spirava una primazia insul­tante e certo non meritata da un amico che ha potuto collocarlo nella casa paterna, liberarlo dalla miseria, stimolarlo a farsi un nome, somministrargliene ogni sorta di mezzi, e al quale deve tutto. Il van­tare i benefici è poco generosa cosa, ma il dolore di aver perdute le cure e i sentimenti più vivi e sinceri mi rende degno di scusa. Diminuire la frequenza, prendere un sorriso insultante e un tuono che in altro mi avrebbe fatto ridere in uno che amava mi passava il cuore, ancora non fu il tutto. Tenere delle proposizioni smezzate sul mio carattere, imputarmi i più inverosimili e ingiuriosi fini delle one­ste azioni che aveva fatte, spargere delle dicerie non credute ma oltraggianti, rompere affatto interamente ogni amicizia e diventare un inimico, questa fu la serie dei fatti accaduti con lui. Quest’uomo è leggiero, il minimo soffio contrario lo avilisce, la prosperità lo fa impazzire, egli non sa portare da uomo nè la prospera nè l’aversa fortuna. Una immaginazione fortissima è quella che lo governa e nessun altro principio. Il fondo del suo carattere è somma debolez­za, somma timidità. Invidioso per conseguenza, geloso del merito altrui, unicamente non ordisce una cabala perchè non ha lo spirito nè del travaglio nè della esecuzione. Sotto un aspetto di noncuranza è impastato di orgoglio e di vanità. Quando scriveva eccitava da buon commediante una ubriacchezza nel suo cuore, un fermento nella sua fantasia, e in questo stato violento scriveva, ma spossato dopo un’ora al più cadeva la penna dall’abattuto autore e ritornava l’uomo al dissotto anche del comune. Il mio cuore è insanguinato nel vedere così finite le mie cure di cinque anni. Se poteva sperare riconoscenza e amicizia, era da quest’uomo che mi ha così ricompensato. Alessandro è stato men corrivo di me, l’ha conosciuto men­tre io era nell’entusiasmo per lui, e rispettando il mio errore non l’ha imitato. Sarò io dopo questi esempi buon amico? Di voi sì. Di altri? Anche di altri. Sarò così mal corrisposto? E perchè no? Sarò tradi­to, ma quest’è il destino degli uomini che han cuore. Tristo colui che non è mai deluso! Vi vuole un’anima gelata per essere sempre cauta; e il sacro fuoco che ci porta alla beneficenza ancora fa più piacere ed è tanto nobile che è ben sofferta la amarezza di trovare degl’in­grati. Vi abbraccio e sono.

XXXIII. Milano 28 Maggio 1768

Dopo l’affare del bilancio e la gentile maniera colla quale fui trat­tato io, m’era posto il cuore in pace e prefisso di non tenere più corrispondenza di lettere con Vienna. Non mi soviene se allora raccon­tandovi il fatto vi abbia ancora informato come, mentre fui eletto Consigliere, l’Abate Giusti per mezzo dell’Agente Volpi mi racco­mandò di tenere ben informato esso Abate Giusti, il quale moltissi­mo confidava sopra di me; io lo faceva minutamente, fedelmente, lavorava a far relazioni, trascriverle, spendeva per la posta ec., e all’occasione del bilancio mi venne generosamente scritto che le mie lettere non servivano. Io dunque mi determinai a risparmiare l’inco­modo e la spesa. Tanto più ciò conveniva, quanto anche mi preme­va di non dare sospetto ai Fermieri Generali i quali massimamente sul principio potevano per liberarsi esibire qualche milione e pren­dere a loro conto il terzo camerale. Mentre stava nella mia tranquil­la inazione, fu chiamato alla Corte il Secretario Corti, mio amico, al quale debbo e le carte dell’Archivio del Senato sulle quali ho potu­ta compilare la mia storia e gli stimoli a compilarla e l’albergo anche datomi al suo casino di Rovagnate per quasi venti giorni per dispor­la e ultimarla con tranquillità. Corti dunque fu chiamato a Vienna per riordinare quell’Archivio del Dipartimento d’Italia, e di là mi scrisse ne’ mesi passati, poi mi avvisò che faceva vedere le mie lette­re al S.r Cons.re Sperges, che da esso erano sommamente gustate. Sperges è succeduto al defunto Abate Giusti. Poi mi avvisò di scri­vere al Cons.re Sperges al quale nemmeno per felicitarlo della sua promozione io aveva voluto scrivere. Così eccomi quasi mio mal­grado riaperto un commercio di corrispondenze con quel Dipar­timento. Io non so che capitale ne possa fare, so che mi costa assai fatica perchè si tratta di lettere lunghe. L’accoglienza che mi si fa è sedducente. Io ho scritto un piano sulla riforma della legislazione de’ Grani. L’ho scritto per delegazione del Supremo Consiglio. Mi pare d’aver messo sotto un aspetto nuovo e convincente che la liber­tà di questo commercio è il solo sistema; difficilmente troverò chi m’intenda nel Tribunale, il mio manoscritto è un in quarto di cento quaranta e più pagine. Esamino le leggi attuali, la attuale pratica, la vera indole ed effetti di entrambe, i principj della materia, la opi­nione de’ più classici autori, poi aggiungo la conseguenza di quanto crederei conveniente il fare, indi concludo con uno specchio del commercio che facciamo de’ nostri grani e della riproduzione annua nella nostra provincia. Questo libro, che mi è costato molta fatica e che difficilmente otterrà il fine perchè i vincoli sono sorgente di autorità e di lucro in chi amministra, e la libertà gioverebbe al pub­blico che non ne prevede il giovamento, questo libro, dico io, l’ho fatto trascrivere e accompagnato al S.r Cons.re Sperges, il quale lo ha accolto con entusiasmo. Quattro giorni sono ho ricevuto una di lui lettera in cui si dichiara convinto de’ buoni principj da me esposti sull’annona, mi raccomanda poi di non usare seco riserva alcuna giacchè posso essere certo che non avrò motivo di pentirmi di tale confidenza, mi invita a familiarizarmi cogli oggetti della Finanza e su di essi esercitare il mio zelo, il quale non può a meno di condurmi dove l’interesse del Principe e quello del pubblico chiamano il Ministro e il cittadino. Vedete che non si può meglio animare un galantuomo. Corti mi ha animato a riprendere per le mani la sto­ria della economia del paese, quella che già servì di prima parte al mio libro; le nozioni che ho acquistate in quattro anni di pratica negli affari mi danno certamente materia assai da aggiugnervi, altronde alcune riflessioni allora scritte ora non mi pajono ragione­voli, molte altre ne ho fatte dappoi. La fatica è molta, Corti mi dice che sommamente Sperges la desidera tanto più che della mia opera non si trova più in Vienna l’originale. Forse è in casa di Giusti. Io adunque vi sto lavorando, e sarà questa la quarta opera mia. Prima il grosso libro a cui debbo l’impiego. Seconda il grosso bilancio che è stato il primo in questo paese. Terzo la mia scrittura sopra l’Annona. Quarto le Memorie economiche sullo Stato di Milano le quali verranno dal tempo dei Visconti sino al tempo presente. Sperges pare un uomo zelante del bene, non venale, sensibile al merito, e chi lo conosce ne dice bene. Egli è anche uomo di lettere, ha stampato un libro sulle miniere, ha fatta una carta del Tirolo, e pare che vi sia da far capitale sopra di esso. Io co’ Fermieri me la passo bene, il Governo non fa il minimo caso di me, gli ordini del Governo vanno immediatamente al S.r Greppi e dal Fermiere li sente il Regio Delegato. Il S.r Conte di Firmian m’invita a pranzo e non mi ha mai detto una parola spettante la Ferma. Dal Consiglio me ne sono finalmente liberato. Carli mi voleva tenere inchiodato a quel tavolone dove mi annojava senza poter fare nulla di bene e sen­za imparar nulla. La sua condotta bastantemente prova ch’egli non mi vede che con invidia e gelosia, vorrebbe allontanarmi dalla Finanza perchè non me ne impratichissi, col mezzo di Corti è venu­ta una lettera del S.r Principe Kaunitz in cui si ordina ch’io non debba essere nelle sessioni ordinarie del Consiglio, che la Ferma sia la mia primaria occupazione e così ho campo d’imparare e di lavo­rare al mio nuovo libro. Il pubblico è tranquillo, la Ferma va placi­damente e con vento prospero. Vi sarà di utile forse un milione e mezzo all’anno. Questa notizia s’è già scoperta e temo meno che la Corte abbandoni la interessenza.

Ora, rivolgendomi dietro, conosco che i Fermieri hanno fatto un grande errore in politica. Per sostenere alcune minuzie le quali in fine d’anno poco importano, hanno eccitato i pubblici clamori. Essi hanno per tradizione una massima falsa, cioè che la prosperità della Ferma nasce dal timore del pubblico. La massima è falsa, circospe­zione, riguardo nel pubblico conviene spargerlo, conviene che chia­ramente la sovrana protezione si stenda sul Fermiere, ma il timore, l’odio pubblico fanno aprire a miliaja le bocche che esclamano e chi sa che questa universale esclamazione non abbia indisposta la Corte a segno che in avenire più non si appaltino le Ferme! Fu una scena veramente comica quando venne da Vienna la notizia che il Sig.r Principe Kaunitz dimetteva le sue cariche e Giusti era morto. I Fermieri spontaneamente subito corsero dal Governo e decamparo­no dalle combattute pretese sostenute per più mesi.

La politica del Fermiere consiste nel guadagnare le persone che hanno la massima influenza o con tenerle a parte secretamente degli utili, e con regali immediati, o con mediati, cioè alle belle, ai favori­ti ec. Il minuto popolo de’ Ministri è più facile il conquistarlo quando ciascuno speri col Fermiere di farsi un appoggio. Greppi per esempio è in commercio diretto col S.r Principe di Kaunitz, tutte le mattine parla all’invisibile Sig. Conte di Firmian. Dal Duca di Modena va spessissimo. Vi sono dei Senatori, dei alti Ministri crea­ti sotto la di lui sponda. Questo si sa generalmente. Egli fa nella Ferma la parte del signore. La parte dura e fiscale l’abbandona al Sig.r Pietro Venino che pare fatto apposta per dire di no. Ecco il tronco maestro della politica del Fermiere. Avrei da scrivere un volume se entrassi ne’ rami secondarj. Per ora basta. Vi abbraccio e sono.

XXXIV. Milano 20 Novembre 1768

Memorie

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