Memorie appartenenti alla vita ed agli studj del signor don Paolo Frisi

Pietro Verri
MEMORIE APPARTENENTI ALLA VITA ED AGLI STUDJ DEL SIGNOR DON PAOLO FRISI, REGIO CENSORE, E PROFESSORE DI MATEMATICA E SOCIO DELLE PRIMARIE ACCADEMIE D’EUROPA (1787)

Testo critico stabilito da Carlo Capra (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, VI, 2010, pp. 207-275)

Al Signor Maria Gio. Antonio Nicola Di Caritat Marchese Di Condorcet, Secretario Perpetuo della Reale Accademia Parigina delle Scienze, Socio dell’accademia Francese e Accademico della Imperiale Società di Pietroburgo, delle Reali di Berlino, Stockolma e Torino, delle Società Letterarie e Scientifiche dell’Instituto di Bologna, di Padova, di Filadelfia ec.
Il Conte Pietro Verri

Voi foste amico dell’Abate Frisi. Voi Signore avete onorato la tomba di questo illustre Italiano nella prefazione all’Elogio dell’Imperatrice Regina Maria Teresa; elogio che avete fatto pubblicare in francese, acciocchè potessero ammirare questo nobilissimo lavoro del nostro Frisi anche coloro che non possedono l’italiano.1

Frisi vi ebbe in sommo pregio, e vi amò. Egli aveva mente e cuore degni di apprezzare e il sommo ingegno vostro e tutta la vostra virtù. I pochi uomini che s’innalzano al grado vostro diventano Concittadini, e appartengono alla intera umanità per gloria e istruzione di tutti. Le meschine rivalità nazionali non hanno alcuna forza sull’animo di coloro che consacrati alla verità si conoscono fratelli, sebbene anco giaccia un seno di mare o s’alzi una costiera di monti fra que’ due punti del globo ove apersero gli occhi alla luce. Durante il corso della vita, troppo breve, del nostro Frisi ebbi la sorte d’essere fra i più intimi suoi amici; e sono sicuro che ponendo il vostro nome onoratissimo in fronte di queste memorie faccio quanto egli avrebbe bramato appunto ch’io facessi. Non ho pensato di scrivere l’Elogio del nostro amico, ma bensì le memorie della vita e scritti di lui. Già da alcuni mesi l’Italia ha veduti alcuni scritti, ne’ quali gli autori si erano proposto di farne l’Elogio; e fra gli inconvenienti della letteratura riporremo anche questo: che dopo la morte, mentre non possiamo più difendere il nostro nome, si pongano delle macchie immaginate, col pretesto di far meglio risaltare i lumi colle ombre. In tutte le opere del nostro Frisi non si troverà tratto veruno che offenda alcuna persona; e le di lui ceneri meritavano simile riguardo. Ma il destino degli uomini grandi è tale, che colla loro superiorità medesima si facciano, anche non accorgendosene, de’ nemici. Abbiano tai produzioni quel destino che il tempo, vero giudice del merito, vorrà loro assegnare. Io non farò uno scritto polemico; e limitandomi a esporre i fatti della vita e degli studj del nostro grande amico, spero di consegnar nelle mani degli uomini di lettere un libro che debba loro esser caro. Ho scritto quello che ho verificato o veduto io stesso: ho reso omaggio alla verità in tutto il mio racconto; e rendo omaggio a Voi, Signore, col dedicarvelo; lusingandomi che possa esservi gradito, perchè vi rappresenta la immagine d’un vostro distintissimo estimatore qual fu l’Abate Frisi. Voi, Signore, avete sottomessi alla potenza del Calcolo i principi della Politica, e avete aggiunto un nuovo regno alle Scienze. Gli elementi che immediatamente determinano il bene o mal essere delle intere nazioni furono sinora abbandonati alla variabile e incerta opinione; e voi, Signore, avete soggettati al rigore della dimostrazione i corpi politici, come il movimento de’ corpi celesti. Io pure anni sono ne diedi un cenno, e ne credetti la possibilità; ma Voi con mano maestra avete eseguito l’impresa. Possano le luminose tracce che avete segnate rivolgere le menti a tali benefiche meditazioni, e le generazioni avvenire onoreranno la memoria del Sig. Marchese di Condorcet come il Newton della Politica. Vivete lungamente felice, Signore, giacchè non avete più bisogno ch’io vi auguri nuova gloria.

L’Elogio del nostro illustre Cittadino D. Paolo Frisi lo trovano gli assenti, lo troveranno i posteri nelle immortali opere del suo ingegno; la Cosmografia, il trattato d’Algebra, la Meccanica, le altre minori produzioni ch’egli ha pubblicate conserveranno eterna la memoria di lui. Chi intraprendesse a descriverci come e sin dove, penetrando egli nelle scienze sublimi, dilatasse i confini della umana ragione; chi ci esponesse lo stato nel quale egli trovò le scienze, gli sforzi da esso adoperati per tentare impensato cammino, le difficoltà che se gli affacciarono, la costanza colla quale ardì affrontarle, gli ingegnosi ripieghi che immaginò per superarle; chi maestrevolmente eseguisse un tal lavoro presenterebbe agli occhi del pubblico una maestosa pittura, in cui si vedrebbero raccolte le scoperte ch’ei fece, i nuovi spazj aperti per esso alla mente degli uomini, e quanta riconoscenza e ammirazione siasi meritato quest’uomo grande dalla intera umanità. Con questa mira (di determinare la stima che si deve alla memoria dei veri Saggi) scriss’egli del Galileo, del Cavalieri, del Newton e del D’Alembert, radunando in poco spazio lo spirito di questi uomini sublimi sparso nelle opere loro; ed egli ben poteva penetrare sin dove ascesero. Per offrire un omaggio simile a un sovrano ingegno vi vorrebbe un altro Frisi, e la natura non è prodiga.

Un sommo geometra, il di cui nome è sacro nei fasti dell’amicizia e del sapere; quei che postosi di mezzo fra Newton e gli uomini fu il primo a sgombrare la sacra nebbia, e svelarne gli arcani; quei che difese Frisi pochi anni sono; ha pronunziato già in Roma l’elogio funebre di lui. Io mi limiterò a scrivere le memorie della vita e degli studj suoi; io che ebbi la sorte d’essergli amico e di trovare costantemente in quel grand’uomo un amico; io che da impensata sciagura vedo troncata quella dolce unione che, sino dagli anni della rimota nostra fanciullezza formata, andò senza interrompimento alcuno crescendo sempre e confermandosi per reciproci ufficj ed uniformità di sentimenti, cerco di rendergli il tributo che posso; e sia questo degno di lui, degno di que’ puri ed onesti sentimenti che ci unirono, la Verità. Descrivendolo quale egli era, farò il ritratto d’un uomo rispettabile, caro a chi lo conobbe intimamente; che beneficò moltissimi, non fece male ad alcuno; fabbricò tutta da se medesimo la sua gloria; buon figlio, buon fratello, buon amico, buon cittadino; che fece un lodevole uso del suo talento, del credito suo, del suo denaro; un uomo in somma che sarà un modello d’un’anima fermamente virtuosa. Egli ne’ suoi volumi ha mostrato sin dove s’innalzasse nell’Astronomia, nella Meccanica, nel Calcolo; io scriverò quello ch’ei non poteva scrivere; mostrerò come egli vivesse, quali fossero i suoi costumi e le sue azioni; e il mio lavoro senza pompa veruna d’eloquenza non sarà, lo spero, indifferente agli uomini di studio, ai quali faccio conoscere un loro illustre collega; nè lo sarà alle anime sensibili, poichè quello che scrivo lo sento.

Gli uomini del primo ordine, un Galileo, un Newton, un Frisi non hanno bisogno di illustri antenati: pure siccome tutte le circostanze della vita loro piacciono, perchè quanto è maggiore il numero de’ fatti conosciuti, tanto più speriamo di comprendere le vere cagioni della loro elevazione; così non ometterò d’informarne i miei lettori. L’origine del nostro Frisi viene da una onesta famiglia strasburghese. L’avo di lui fu Antonio Friss, che addetto al servizio militare morì nella Lombardia lasciando un figlio, Giovanni Mattia, senza appoggio, senza parenti, in paese straniero, colla sola eredità dello spoglio paterno. S’impiegò questi nel treno delle armate, indi ottenne d’essere interessato in varj appalti, per il che fece una conveniente fortuna. S’ammogliò con Francesca Magnetti, da cui ebbe cinque maschj e due femmine. Sedotto dalla lusinga di viver meglio perdette il bene ch’ei possedeva. Egli arditamente abbracciò impegni maggiori delle sue forze, s’ingolfò d’onde non poteva uscirne; le sventure lo circondarono da ogni parte; morì lasciando a carico della vedova sposa sette figli, il principale patrimonio de’ quali furono la saviezza, il cuore e la prudenza d’una madre veramente virtuosa, e l’ingegno e il giudizio di cui prematuramente furono tutti dotati. Il primo fu Antonio, il quale avendo fatto studio di Botanica, di Chimica, e di Medicina cominciava a rendere operosi i suoi talenti, quando sul fiore della età e sul liminare della fortuna la morte lo rapì. Il secondo fu Paolo, di cui scrivo le memorie. Il terzo è il Canonico Teologo della Basilica di Santo Stefano Don Antonio Francesco, che s’è fatto nome distinto fragli eruditi colle illustrazioni pubblicate sulle antichità monzesi. Il quarto è il Sig. Don Luigi Canonico della Imperiale Basilica di Sant’Ambrogio, versato ei pure ne’ sacri studj e nella erudizione; l’ultimo fu Filippo, che per la carriera della Giurisprudenza, giovane ancora, morì Regio Pretore, ed egli pure diè saggio del suo ingegno coll’opera che pubblicò de Imperio, & Jurisdictione. Questi cinque fratelli ebbero, come già accennai, due sorelle eziandio; e così era formata la numerosa famiglia del suddetto Gio. Mattia.2

Nacque Paolo Frisi l’anno 1728 il giorno 13 aprile. Appena giunto 22 a quell’età, in cui l’uomo comincia a far uso della ragione, egli si palesò vogliosissimo d’imparare, tollerantissimo della fatica; niente dissipato, niente capriccioso; ma esaminatore attento d’ogni cosa. All’età di tredici o quattordici anni io mi trovava seco lui alle pubbliche Scuole de’ Barnabiti in S. Alessandro, ed egli non mostrava niente di fanciullesco. Esattissimo ai suoi doveri, paziente al lavoro, si distingueva dagli altri facendo meglio degli altri. Sin da quella età frequentava la Biblioteca Ambrosiana ed ivi passava le ore che i suoi pari davano ai divertimenti, acquistando nuovi lumi e nuove idee. La natura lo aveva organizzato per essere un uomo di studio. Egli apprese tutti gli errori che in que’ tempi s’innestavano nelle menti dei fanciulli; ma facile divenne poi il cancellarli e rimasegli l’abituazione alla fatica, nel che consiste il principal vantaggio che può ritrarsi dalla educazion volgare delle Scuole. All’età di quindici anni egli entrò nella Congregazione de’ Chierici Regolari di S. Paolo, ossia de’ Barnabiti,3 o fosse questa risoluzione presa per un fervore religioso, o che a tal partito lo portasse la condizione domestica o vi fosse indotto da’ maestri, i quali distinguevano la esimia penetrazione della di lui mente e antivedevano l’onore che doveva fare al loro ceto un giovine che dava somma speranza; egli in quella Congregazione fece i suoi voti. L’usanza allora di quel Collegio voleva che fosse interdetto nel primo anno ogni studio ed ogni lettura scientifica agli alunni; di che parlandomi più volte l’illustre amico mi palesò che quell’anno era stato per lui il più disgustoso di sua vita, non avendo egli potuto imparare altro se non la geografia sulle carte, che per buona sorte servendo di ornamento alle pareti di quei chiostri divennero libri per lui. Terminate le umane lettere, nelle quali, e singolarmente nella poesia latina e italiana, erasi molto distinto, passò ad ascoltare quella che chiamavasi Filosofia, cioè un impasto di opinioni aristoteliche e di immaginazioni cartesiane. Paolo Frisi, che per istinto slanciavasi verso della verità, smaniava non rinvenendola, e malgrado le promesse del maestro non trovava che parole o idee senza base. La ingenuità del suo carattere, la brama di istruirsi lo rendevano uno scolare che imbarazzava il lettore colle obbiezioni. S’intese da esso nominare la Geometria come una scienza da conoscersi, l’ignoranza della quale, indebitamente rimproveratagli dal maestro, serviva di risposta alle obbiezioni mancandone migliore. Paolo Frisi trovò nella Biblioteca del Collegio gli elementi di Geometria, e ben tosto si avvide che quello studio era fatto per lui a preferenza; in pochi giorni ne scorse e comprese gli elementi; si innoltrò da sè, ed avea già fatti passi da gigante prima che se ne avvedessero i suoi colleghi. Da Milano fu spedito al Collegio de’ Barnabiti in Pavia per fare il corso di Teologia; egli dotato di memoria pronta e tenace lasciava nella scuola gli scritti che gli venian dettati, e sebbene nella sua stanza fosse occupato delle matematiche, rispondeva al paro de’ suoi compagni alle questioni teologiche apprese in quel tempo soltanto, ch’ei le scrivea e le udiva spiegar nella scuola. Ivi a Pavia fece conoscenza col P. Rampinelli Olivetano, matematico d’un merito distinto, discepolo di Manfredi e maestro dell’Agnesi. La conoscenza del Rampinelli, le conversazioni che ebbe seco giovarongli molto per avere lumi e direzione e per animarsi sempre più nelle scienze esatte e sublimi. Per buona sorte gli era toccato il maestro di Teologia il Padre Don Pietro Besozzi uomo assai illuminato, e che fu il primo che nelle scuole di S. Alessandro in Milano facesse conoscere le scoperte del Newton. Questo P. Besozzi aveva un animo signorile; fu sommamente considerato nella sua Congregazione, e non è l’ultima delle sue lodi quella d’aver egli conosciuto, amato e ajutato il nostro Sig. Frisi prima ancora ch’ei facesse que’ progressi che gli acquistarono la celebrità, e l’averlo sostenuto contro i pregiudizj; giacchè in que’ tempi nella Congregazione de’ Barnabiti e in tutta la Lombardia erano sconosciuti e giacenti i buoni studj e le belle arti. Una falsa eloquenza latina, uno studio di memoria nella Teologia o nella Giurisprudenza erano le sole occupazioni applaudite. Le Matematiche venivan considerate come inutili e profane speculazioni non conformi alla monastica disciplina. Contro tali opinioni doveva urtare il nostro Frisi, e non lasciarono esse, corredate anche dalla autorità, di attraversare i di lui progressi. Gli ostacoli arrestano le anime deboli e rinvigoriscono per lo contrario le anime energiche e non volgari, e tale si mostrò sempre quella del mio amico. Egli addomesticato già co’ principj matematici di Newton, prese a svolgere la teoria della Terra, e all’età di ventidue anni trovandosi in Lodi ad insegnare la Filosofia compose la sua dissertazione sulla figura della Terra.

Questa prima sua opera dovea farlo conoscere dall’Europa e giudicare dai pochi sublimi matematici sparsi ne’ suoi Regni. Ma come renderla pubblica? L’autore era un giovine sconosciuto. Egli viveva sotto il comando di persone che non apprezzavano tali studj. Mancava di ogni appoggio, mancava di mezzi per intraprendere l’edizione d’un libro di calcoli inintelligibili allo stampatore, che non si espone se non a libri di pronto e sicuro spaccio. Era destinata a rimanere eternamente sconosciuta quest’opera, e fors’anco l’autore sarebbe stato costretto alla fine ad abbandonare la carriera matematica, se non porgevagli soccorso il Conte Donato Silva Cavaliere nostro milanese, che promosse i buoni studj e giovò a molti uomini d’ingegno. Ecco per qual mezzo ciò si fece. Il Dottore Antonio Frisi, il botanico, era caramente amato dal Conte, ed aveva presso di lui la benemerenza d’avergli giudiziosamente ordinato in classi l’Orto botanico della sua Villa di Cinisello. Il Conte fu il primo ad introdurre in Milano il gusto delle piante esotiche. Vivendo egli famigliarmente col Dottore Antonio Frisi, seppe da lui il lavoro che un suo fratel Barnabita aveva fatto e le difficoltà che gl’impedivano di pubblicarlo. Bramò di avere il manoscritto. Egli sapeva abbastanza di Geometria per accorgersi almeno che la dissertazione non era cosa volgare; si addossò l’impegno di farla stampare, come eseguì in Milano l’anno 1751 dal Ricchini, e l’Accademia delle Scienze di Parigi l’anno 1753 aggregò il nostro Frisi Accademico corrispondente, avendo egli non più che venticinque anni. Egli fu durante la sua vita sempre grato ed affezionatamente interessato pel Conte Donato Silva, frequentissimamente lo visitò sin che visse, e in morte stampò l’elogio suo. Noi milanesi saremo sempre riconoscenti alla memoria di quel degno Cavaliere, all’opera del quale fors’anco dobbiamo l’onore di annoverare fra gli illustri nostri Cittadini Paolo Frisi.

Questa prima di lui opera ha il titolo: P. D. Paulli Frisii Mediolanensis Congregationis D. Paulli Clerici Regularis ecc. Disquisitio Mathematica in caussam Physicam figurae & magnitudinis telluris nostrae, Mediolani in Regia Curia Superiorum permissu MDCCLI in 4.to pag. 86. L’oggetto di quest’opera è di conciliare la teoria della gravità e della forza centrifuga colle diverse osservazioni che sin allora eransi fatte. Dimostra che sono inevitabili nelle osservazioni alcuni minimi errori di sessanta tese per ogni grado, d’un centesimo di linea nel pendolo. Sviluppa la teoria che Newton aveva indicata nel lib. 3 propos. 19 e 20 de’ suoi principj. Calcola quanto diminuisca la gravità in ciascuna particella del globo terrestre per la rotazione diurna; ne scopre una formola nuova. Dà una soluzion generale al problema dell’attrazione de’ corpi rotondi e l’applica a’ varj casi per determinare la gravità in ciascun punto d’una sferoide. Fa conoscere che la Terra è una sferoide schiacciata qual la dimostrò Newton; trova la proporzione degli assi, la lunghezza de’ pendoli, la estensione de’ gradi de’ paralelli e del meridiano di ciascuna latitudine. Quindi paragonando le osservazioni d’Inghilterra, della Francia, della Lapponia e del Perù fa conoscere la esatta corrispondenza di esse colla teoria, poichè le minime deviazioni dall’esattezza sono tali, che si conoscono inevitabili nella pratica. Il Secretario dell’Accademia delle Scienze di Parigi scrisse all’autore: «En verité, Monsieur, à voir le dessein que vous vous étiez proposé, et plus encore à la maniere dont il m’a paru que vous l’executiez, je n’aurois jamais deviné que votre ouvrage fut celui d’un jeune Mathématicien. C’est, Monsieur, commencer par où les autres ont coutume de finir» (così riscontrò il Sig. di Fouchy in data di Parigi 26 Aprile 1752). Il Sig. Francesco Maria Zanotti da Bologna gli scrisse il 22 Marzo 1752: «Pochi, pochissimi libri si veggono uscire alla luce simili a questo, che V. R. ci ha inviato sopra la figura della terra. Io lo scorsi subito ammirando l’infinito possesso che ella ha di tutte le matematiche Scienze, e quella franchezza e speditezza che è propria solo dei gran Maestri. Lo stesso giudizio ne ha dato poi Eustachio mio nipote che è astronomo, ed ha voluto leggere il libro con più agio. Ed egli ed io siamo presi di altissima stima del rarissimo e singolarissimo ingegno di Lei ecc.».

I forestieri che cercavano di conoscere questo giovine Barnabita, le cospicue Accademie che lo aggregavano, le corrispondenze co’ più distinti letterati del secolo che egli in breve s’era procurate annientarono tutti gli ostacoli ch’egli aveva trovati fra suoi colleghi: anzi l’esempio produsse in quella Congregazione un cambiamento negli studj de’ giovani, rallentò le istanze de’ vecchi sul punto delle loro antiche pratiche, talchè insensibilmente crescendo il buon partito e rinforzandosi con nuove aggregazioni, si ridussero gli studj de’ Barnabiti a tal coltura, che quella Congregazione oggidì è il primiero ornamento della nostra Patria. Matematici profondi; fisici giudiziosi; oratori sacri, colti e maestri de’ costumi; poeti energici e facondi; abili maestri d’Architettura, d’idraulica e d’altra facoltà, tutto ciò trovasi oggidì ne’ Collegi de’ Barnabiti.

Nella Città di Casale nel Monferrato la Filosofia s’insegnava da un Barnabita; la Congregazione ne presentava tre, e il Re ne sceglieva uno, che si considerava Regio Professore. Questa scelta cadde sul nostro Frisi, che i Barnabiti avevano nominato il primo per giusta premura di fare onore al proprio loro ordine. Ivi egli conobbe il Conte Radicati, uomo di sublime ingegno, profondo matematico, colto letterato, di cui non si valutavano nella Città che i difetti della vivace sua indole. Conoscerlo e affezionarsegli furono nel nostro Frisi due avvenimenti poco discosti uno dall’altro. Il Conte divenne suo amico; trovarono e l’uno e l’altro la soddisfazione di parlare con chi intendevagli; la bontà del carattere dell’uno e dell’altro strinse la loro unione. Radicati fece conoscere la colta letteratura a Frisi, che allora era semplicemente matematico. La vicendevole loro affezione ne formò due amici, che erano sempre insieme. Questa unione dispiacque ai vecchi Barnabiti. Trovandosi il nostro Frisi al servigio del Sovrano in qualità di Regio Professore non credeva che gli disdicesse, o gli si potesse impedir l’amicizia con un Signore di nascita illustre: ma s’ingannò e gli convenne partirsene, perdere la Cattedra e passare a Novara colla carica di predicatore e coll’obbligo di farvi le annuali prediche e recitarle. La congregazione de’ Barnabiti non ebbe mai lo spirito di persecuzione: dopo pochi mesi venne Don Paolo Frisi riposto nella sua carriera e collocato ad insegnare la Filosofia nell’Università di S. Alessandro in Milano l’anno 1753, ove rimase per tre anni.

L’opera della figura della Terra, alla quale doveva il nostro Frisi la celebrità e di cui avevano fatta onorevolissima menzione i Giornalisti di Lipsia, quei d’Amsterdam e di Firenze, venne criticata nell’Italia da un Gesuita, dall’autore della Storia Letteraria d’Italia il Padre Zaccaria. Lo storico considerando l’attrazione come una ipotesi, spargendo dubbj, citando le opere del Clairault, del Bouguer e d’altri, e deplorando la degradata condizione degl’italiani un dì maestri, ora adulatori quasi delle dottrine d’oltramonte, indirettamente cercò di rappresentare il nuovo libro come un ingegnoso bensì ma inconcludente lavoro, dettato dalla smania di sostenere le cose inglesi. Frisi fecegli una vivace e breve risposta, da cui ricavossi che il Gesuita non era bastantemente geometra per intendere e censurare quel libro. Non è da maravigliarsi poi se nel rimanente di sua vita non ebbe amore pe’ Gesuiti, i quali portando all’eccesso un principio buono, che è la stima e l’affetto pel ceto loro; educati dalla prima gioventù con opinione che tutto l’ottimo fosse compreso nel loro corpo; intimamente persuasi che niente meritasse vera stima se non quanto o era in loro, o da essi dipendeva; offesero e Sarpi, e Galilei, e Giannoni, e Muratori nell’Italia, Fontenelle, Pascal, Arnault, Montesqieu, Voltaire, Helvetius, e gli Enciclopedisti nella Francia, il che formò poscia una generale cospirazione fatale ai Gesuiti; perchè gli attaccò nella pubblica opinione, unico appoggio col quale sostenevano quel maraviglioso edificio. Gli uomini di lettere hanno maggiore influenza nel destino delle generazioni venture di quanto ne abbiano gli stessi monarchi sugli uomini viventi. Spargono i primi semi de’ lor pensamenti, semi tardi bensì a produrre, ma che nella gioventù s’innestano; e l’uomo di lettere determina le opinioni del secolo che vien dopo di lui. I libri de’ filosofi son quelli che hanno finalmente costretto i tribunali, malgrado la tenacità delle antiche pratiche, a non incrudelire più contro le streghe ed i maghi; a non inferocire colle torture; a non infligere pene atroci per opinioni; a limitare i supplizj ai soli casi estremi. I libri hanno resa accessibile al merito la strada degli onori, battuta in addietro da chi scaltramente simulando adulava gli errori volgari. Alle opere de’ filosofi siam debitori se alle nostre infermità ora assistono medici illuminati e cauti, in vece de’ ciurmatori ignoranti; se nel ceto degli avvocati la probità e il buon senso vennero sostituiti alla maligna ed infida gravità; se conoscendosi meglio la morale e i doveri dell’uomo e del cittadino, l’uomo soffre almeno il rossore nel violar tai doveri e non si copre la perfidia impunita coll’ipocrito velo d’una simulata religione. In somma i filosofi, trascurati, contraddetti, perseguitati durante la loro vita, determinano alla perfine la opinione, la verità si dilata, da alcuni pochi si comunica ai molti, da questi ai più; s’illuminano i Sovrani, e trovano la massa de’ sudditi più ragionevole e disposta ad accogliere tranquillamente quelle novità, che senza pericolo non si sarebbero presentate fralle tenebre della ignoranza. La Opinione dirige la Forza; e i buoni libri dirigono la Opinione, sovrana immortale del mondo.

Le occupazioni del nostro Frisi mentre fu Lettore pubblico in S. Alessandro furono degne di lui. Egli si pose ad insegnare a’ suoi uditori l’arte di ben ragionare; i principj generali della Fisica, che servono come di strade maestre a ulteriori studj; i principj della morale, di cui ne stampò un saggio; e fu egli il primo che ardì pubblicamente sostener dalla Cattedra che non vi erano nè la magia, nè le streghe; e fu egli il primo che pubblicamente ne fece sostenere le tesi, non senza qualche pericolo o inquietudine; essendovi allora fra di noi la Inquisizione armata tuttavia di un potere indipendente. Ma la celebrità ch’egli aveva già acquistata, e la benevolenza e famigliarità che avevano per lui le persone più riverite nel nostro paese servirono a preservarlo. Egli era frequentemente e con distinzione accolto dal Duca Francesco di Modena, che governava il Milanese. Egli era bramato nelle case più distinte e nelle migliori compagnie del paese. Le sue maniere sempre ingenue e cortesi; la sua conversazione frizzante di sali e abbondante di cose; la prudente riservatezza e circospezione sua senza stento; la sensibilità sua per ogni attenzione ch’ei ricevesse; la fermezza del suo animo nel sopportare la mancanza dei mezzi nobilmente occultandola, e con una virtuosissima allegrezza ricusando ogni assistenza che potesse recare altrui il minimo incomodo; una semplicità amabile, colta e originale di carattere lo resero sino da que’ primi anni caro ai migliori conoscitori del merito. Egli amava la buona società e vi sapeva vivere giudiziosamente; e questo era appunto il lato per cui gl’invidiosi l’attaccavano, i quali non contenti della illibata costumatezza e della somma decenza che sempre l’accompagnavano, facevangli rimprovero che i studj e le occupazioni geniali di lui non mostrassero quello spirito claustrale che se gl’imputava a delitto di non possedere. Quasi che l’incauta, o forse necessaria, determinazione presa nella inesperta età di quindici anni potesse rendere colpevoli in un grand’uomo le azioni le più innocenti. Quasi che fossero sempre componibili l’energia somma dell’animo, che audacemente affronta le difficoltà onde è attorniato il vero, e la mansuetudine claustrale. Quasi che facilmente si accoppiassero nell’uomo medesimo sommo ardore di gloria capace di reggere alle maggiori fatiche e indifferenza per la propria oscurità. Tali sono i paralogismi co’ quali l’invidiosa mediocrità fu sempre solita d’accusare gli uomini sommi, concitar loro l’odio volgare e ridurli all’ostracismo. Ben se ne avvide il nostro Filosofo, e cautamente cercò di sottrarsi ai pericoli procurandosi una Cattedra, che rendendolo stipendiato d’un sovrano lo staccasse onorevolmente dai doveri d’uno stato pel quale, sebbene nol dicesse mai, egli veramente non aveva genio alcuno.

Il Conte di Richecourt governava la Toscana, Monsignor Cerati dirigeva l’Università di Pisa, ambidue uomini di vero merito, e conseguentemente amici degli uomini di merito. Il nome del nostro Frisi era noto nella Toscana, l’Attica d’Italia, ove lo studio delle Matematiche era in onore. Con questa fortunata combinazione non fu impresa difficile pel nostro Frisi l’ottenere una Cattedra nella Università di Pisa; in fatti al principio dell’anno 1756 passò a Pisa Lettore, allo stipendio dell’Imperatore Gran Duca. Sin che egli visse fu riconoscente al Conte, alla memoria di lui, a quella di Monsignor Cerati; come sempre lo fu al Conte Donato Silva e al Conte Radicati. Ciascuno che abbia conosciuto il Sig. Abate Frisi può farmi testimonio se dei nominati sempre ne parlasse con amore, stima e riconoscenza distinta. Nè il tempo, nè la cessazione del bisogno non alterarono mai la più costante e impegnata gratitudine ch’egli teneva scolpita nell’animo verso coloro che avevangli fatto del bene. Posso attestare che non mai l’ho veduto nemmeno paziente che in faccia sua taluno prendesse a ridire a qualche azione di persona benemerita verso di lui; e ciò era un principio talmente innestato nel suo carattere, che per riconoscenza nemmeno permetteva su di ciò una libera e pacata ricerca della verità. Io ricordo un difetto della di lui filosofia, ben me ne avvedo; ma so pure che ogni anima virtuosa glielo perdona facilmente. Non ho conosciuto un altr’uomo sul quale la ragione potesse tanto quant’ella poteva sull’animo di Don Paolo Frisi, al segno che, compassionevole e umanissimo verso chi soffriva mali reali e fisici, derideva quasi chi s’assoggettava a soffrire per debolezza o per opinione; tanto era egli alieno dal provarne, tanto poteva sopra di lui la ragione: ma la ragione primordiale d’essere virtuoso e grato ai beneficj gli vietava assolutamente l’uso della ragione medesima qualora si fosse adoperata per togliere qualche cosa al credito d’un uomo benefico.

Fatto adunque Lettore di Pisa, appena giuntovi secondo l’uso di quella Università gli fu recato un semestre anticipato dello stipendio. La prima volta fu quella in cui si trovò possessore d’una somma che parevagli immensa. Io lo so da lui stesso che più volte me lo rammentò. Egli aveva sofferto sino a quel momento le angustie, senza lasciarlo vedere giammai. Ma la gioja che provò in questa mutazione non fu certamente quella d’un uomo volgare. Se gli affacciò alla mente la rispettabile sua madre, donna di animo e di virtù superiori alla fortuna, a cui allora appunto era mancato l’unico sostegno colla morte del medico suo figlio primogenito. Se gli affacciò la famiglia; i fratelli altri da collocare, da educare altri; s’avvide ch’ei poteva ricompensare i beneficj che aveva ottenuti dalla degna sua madre, giovare ai minori fratelli ch’egli amava e rendersi il benefattore di sua famiglia. Tai deliziosi sentimenti provò quell’anima virtuosa, e questi costantemente lo occuparono persino che visse, e a questi sacrificò sempre ogni voglia di vanità o di capriccio, se pur ne nacquero nel di lui animo, di che non mi son mai avveduto. Instancabilmente destinò il profitto de’ suoi talenti a tal nobile oggetto, e ne fu meritamente ricompensato non solamente coll’amore e colla riconoscenza, ma col buon uso che i fratelli fecero delle cure di lui, corrispondendo alle speranze, sviluppando indole, costume, talenti, quali si richiedevano acciocchè si compiacesse quell’uomo grande de’ consanguinei che gli diede la nascita, in buona parte formati dall’esempio delle virtù di lui. Egli però sebbene amasse di parlare della sua famiglia, della madre, de’ fratelli, delle sorelle, non lasciava conoscere giammai d’aver avuta parte alcuna nel beneficarli; la virtù sua modesta, semplice, nemica del fasto evitava ogni pompa. Non è facile il rinvenire altr’uomo più economo e più generoso nel tempo medesimo del nostro matematico. Egli in sua vita non ha gettato mai per capriccio. Non ha mai lasciato mancare ciò che esigesse la maggior decenza nella sua persona o alloggio: il rimanente lo ha utilissimamente impiegato a vantaggio de’ suoi, i quali non gli lasciarono bramar certamente più riconoscente corrispondenza. Egli in fatti nella sua famiglia fu sempre amato non solo, ma venerato qual padre e assistito colla più amorosa tenerezza. È difficile il ritrovare una famiglia nella quale si vivesse con maggiore cordialità e decenza di quella che ho più volte ammirata presso i Signori Frisi.

Ma tornando al nostro professore di Pisa, la prima e più stretta amicizia che in quella Città ei formò fu col celebre Sig. Dottor Tommaso Perelli. V’erano allora in quella Università il Dottor Sorìa, il P. Berti e altri uomini nella società de’ quali ottimamente viveva il nostro professore, in una Città men clamorosa di Milano, e perciò appunto più confacente agli studj. Vi si pose a soggiornare poi il Conte Francesco Algarotti e vi morì: la intima società in cui visse col nostro Sig. Frisi, l’amicizia che aveva per lui contribuirono a fargli preferire la dimora in Pisa. Il Sig. Ferner Svezzese si trattenne lungamente pure in detta Città di Pisa per profittare della compagnia del nostro matematico. Varj forestieri di merito fecero lo stesso, e tutti procuravano di conoscerlo. Due fortune letterarie toccarono al nostro Frisi in quel primo anno del suo collocamento a Pisa. La prima fu che dalla Reale Accademia di Berlino venne premiata la di lui dissertazione sul moto annuo della terra con una medaglia d’oro del peso di once sei.4

Il quesito che la Reale Accademia di Berlino aveva proposto era: se il moto diurno della terra sia sempre della stessa rapidità; come ce ne possiamo assicurare; e quando mai vi fosse disuguaglianza quale ne sia la cagione. Questa sublime questione comprendeva la precessione degli equinozj, la nutazione dell’asse, la variazione dell’obbliquità dell’eclittica, oggetti che sempre più poscia andò sviluppando il nostro astronomo durante il corso della sua vita. L’altra fortuna letteraria l’ebbe dalla Imperiale Accademia di Pietroburgo, la quale dichiarò che fra tutte le dissertazioni presentatele sul quesito da lei proposto relativo alla Elettricità, nessuna aveva meglio soddisfatto di quella del Sig. Frisi, il quale contento d’essersi meritato il premio proposto s’era escluso dall’ottenerlo poichè aveva scritto in fronte alla dissertazione il proprio nome. Egli aveva già stampate in Milano l’anno precedente alcune tesi sulla elettricità. Egli aveva in mente una serie di sperienze da farsi su di quest’etere, le quali non ebbe tempo o occasione d’intraprendere poi. Considerava l’Algebra come il miglior mezzo per aprire i secreti della natura, e la paragonava al denaro col quale si può fare qualunque viaggio, e senza del quale si formano inutili progetti. Per ciò egli risguardava le sperienze e sulla elettricità, e sulle arie e sulle calamite, e le stesse osservazioni celesti come passatempi, a meno che non si fosse formato da prima un piano, un sistema d’investigazione, siccome fece Newton analizzando la luce: e queste curiosità medesime che ci presenta la Fisica le considerava sterili maraviglie sin tanto che sottoposte alla analisi, e cimentate col calcolo non se ne fosse riconosciuta la teoria. Egli non si fidava giammai d’un uomo che mancando della teoria pretendesse di supplirvi colla pratica: costoro soleva chiamarli Empirici.

Queste verità, questi principj, ch’egli ebbe fermi durante la sua vita, principj ch’ei non dissimulava, gli eccitarono l’avversione di molti. Gli uomini mediocri s’uniscono facilmente contro dell’uomo grande unicamente perchè s’accorgono d’essere conosciuti da lui per mediocri; e il volgo poi si lascia sedurre dalla opinione riunita dei molti mediocri da esso creduti eccellenti. Un passero che vola sembra al ranocchio che tocchi il cielo, e l’aquila lo vede strisciarsi sul fango vicino al ranocchio. Gli attestati che dalle più autorevoli e indipendenti società dell’Europa venivano per annunziare e rinnovar l’annunzio del merito trascendente di questo nostro cittadino appena bastavano per imporne per pochi intervalli alla invidia. Eppure non aderenze di famiglia, non ricchezze, non altri mezzi potevano conciliare le opinioni di Pietroburgo, di Berlino, di Parigi, di Copenague verso d’un claustrale milanese. L’Accademia Imperiale di Pietroburgo lo elesse per socio in quell’anno medesimo 1756, e la dissertazione sulla Elettricità venne stampata negli atti della Imperiale Accademia, e separatamente venne anche in Italia pubblicata colle stampe di Lucca nel 1757.

Un secondo premio non meno decoroso che importante l’ebbe dalla Reale Accademia delle Scienze di Parigi al principio dell’anno 1758 allorchè venne da essa coronata la dissertazione del nostro Frisi sul quesito proposto: se i corpi celesti abbiano atmosfera, e posto che l’abbiano quanto si estenda. Il premio fu di due mila e cinquecento franchi. La dissertazione premiata è un lavoro che forse da niun altro fuorchè da lui poteva eseguirsi. Sulle osservazioni de’ più celebri astronomi provò che tutt’i corpi celesti hanno atmosfera. Poi entrò a calcolare quai limiti dovessero avere in virtù della universale e mutua gravità composta colla forza centrifuga. Calcolò le atmosfere de’ satelliti di Giove e di Saturno. Trovò che le macchie del Sole si rivolgono in un tempo periodico e a distanze diverse dal Sole medesimo. Trovò per esempio che l’atmosfera di Giove oltre due semidiametri e un quarto di Giove non può avere una densità sensibile. Trovò che oltre trentacinque diametri del Sole l’atmosfera di lui parimenti non può avere sensibile densità. Calcolò l’altezza dell’atmosfera terrestre, la quale sotto l’equatore si limita a trentamille cinquecento tese parigine. Mostrò il metodo di calcolare le altezze de’ monti colle altezze del barometro. Trattò poscia delle atmosfere di Marte, Venere, e Mercurio; e alla Luna ritrovò l’atmosfera alzarsi non più che un dodicesimo del di lei diametro.

L’anno medesimo 1758 venne associato il nostro matematico alla Reale Accademia di Berlino. Questa fu la quinta illustre Società che l’ascrisse, poichè già prima era stato annoverato Socio dell’Instituto di Bologna e corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Parigi nel 1753, poi della Società Reale di Londra e della Imperiale di Pietroburgo nel 1756. Un nuovo eccitamento emanò dall’Imperiale Trono di Vienna quando avendo colle stampe di Lucca dedicate al Reale Arciduca GIUSEPPE, ora Augusto Imperatore e Re, le dissertazioni sue l’anno 1759, ebbe in dono una collana con medaglia d’oro portante l’effigie del Medesimo suo Real Mecenate. In mezzo a tanti onori, i quali avrebbero facilmente fatto nascere l’orgoglio nel cuore d’un altro, il nostro Frisi non cambiossi mai. Egli s’era definito; aveva giudicato già di se medesimo; nè gli applausi nè le opposizioni non gli avrebbero fatta accrescere o diminuire l’opinione che aveva delle proprie forze; ei considerava gli applausi e le opposizioni come fenomeni dipendenti da esterne combinazioni, segregate da lui. Godeva del bene e aveva l’animo sempre disposto a mirare le cose della vita dal lato più favorevole e giocondo: nelle avversità ei presentò sempre una fronte serena, una sicurezza che partiva dal sentimento e da un animo non mai depresso. Modesto, discreto, uguale sempre a se medesimo, conservò verso degli amici, verso degli studj suoi e sopra tutto verso della sua famiglia gli affetti e le cure medesime anche ne’ più gloriosi momenti della sua vita.

I premj ottenuti e l’accrescimento fattogli dello stipendio in Pisa posero il nostro virtuoso matematico nella bramata situazione di viaggiare l’Italia senza che per ciò mancassero i soccorsi destinati alla rispettabile sua madre ed alla sua cara famiglia. Egli dunque dalla Toscana passò a Roma, indi a Napoli nell’autunno dell’anno 1760. Il Papa Rezzonico, Clemente XIII, volle consultarlo intorno le controversie che allora più che mai si dibattevano in Roma fra i Bolognesi e i Ferraresi dipendentemente dal Reno ed altri fiumi e torrenti di quelle Legazioni. Egli formò il suo piano; fece indi la visita di quelle provincie e colle stampe di Lucca nel 1762 diè poscia al pubblico il risultato di quanto ei ne pensò. Quest’opera comparve tradotta in francese e magnificamente stampata nella Stamperia Reale di Parigi l’anno 1774. Egli opinò d’inalveare il Reno pel cavo Benedettino e condurre altre acque di torrenti in Primaro. Queste proposizioni vennero combattute da un nembo di scritture stampate in Bologna, in Ravenna ed in Roma. Il nostro Sig. Frisi non volle combattere fra tanti partiti. Egli aveva per la sua opinione i Signori Gabriello Manfredi, Eustachio Zanotti, e Giacomo Mariscotti; ma anche allora la ragione rimase soffocata dalla moltitudine degli oppositori. Tuttavolta vi acquistò il Sig. Frisi, oltre alcune rimunerazioni, una efficace raccomandazione del Papa in favore del Sig. D. Antonio Francesco, cui venne poscia conferito un pingue Canonicato nella Basilica di S. Giovanni di Monza. Questo degno ecclesiastico nella cordialità e impegno in pro della sua famiglia si mostrò d’animo uguale al suo maggior fratello. Profittò egli in Monza dell’archivio prezioso d’antichi manoscritti, che in prima gelosamente si tenevano invisibili, e con fatica ed accuratezza ordinatolo e trascritto in buona parte, con varie dissertazioni erudite ha già mostrato al pubblico qual buon uso ei sapesse farne, e in breve ne vedremo produzioni ulteriori. Questi furono i beni che ricavò D. Paolo dalla commissione delle acque nel Bolognese, dove in buona parte (sotto gli auspicj d’un Cardinal Legato uomo di Stato, che antivedendo le benedizioni de’ posteri e ambendole, ha saputo fermamente affrontare la forza d’inerzia e gl’interessi privati de’ contemporanei ) si eseguì il progetto del nostro Sig. Frisi senza ricordarsi ch’ei ne fosse l’autore; il che dimostra «qual sia la sorte di tutti quelli che hanno proposto, e sostenuto qualche utile progetto in Italia; di essere contraddetti a principio per ogni parte, e di essere appena ricordati quando il progetto è stato riconosciuto generalmente come utile», come su di ciò scrisse il Sig. Frisi medesimo.5

L’Abate Frisi trovò quasi sempre contraddizioni, e talvolta amari disgusti nelle commissioni che ebbe e in Bologna e in Milano ed a Venezia; e io non dissimulerò che in qualche parte ve n’ebbe colpa. Avvezzata la di lui mente agli studj esatti, che appoggiandosi a dati certi, e con pari certezza legando varie dimostrazioni guidano alle rimote verità, ei rifiutava d’adoperare le forze della sua mente in nessun’arte conghietturale, come pure di fabbricare sulle probabilità. Ora la scienza di vivere colla maggior parte degli uomini è fondata su dati meramente probabili, quai sono i reconditi sentimenti degli animi altrui. Egli non adoperava punto la sagacità del suo ingegno per antivedere se le verità idrostatiche e fisiche, ch’egli aveva trovate, sarebbero state bene o male accolte; ei non calcolava il modo, il tempo, l’occasione per annunziarle. Le significava chiare e ferme quali le aveva conosciute, e con buona fede ricercate. Quindi in un affare nel quale era entrato come idrostatico si trovava impensatamente costretto a sostenere la parte di uomo di mondo e di maneggio, circondato da interessi privati contrarj, da gelosie di mestiere, dall’amor proprio altrui irritato; e questa figura ei non sapeva sostenerla colla pazienza ed accortezza che convengono per ben riuscirvi. Egli camminava dritto al bene; promoveva il vantaggio pubblico, cercava la solidità e sicurezza delle opere; e imparzialmente sosteneva quella che riconosceva per buona causa. Quasi che nelle umane questioni, e molto più ne’ pubblici affari, gli oggetti determinanti fossero questi, e non piuttosto il risultato delle opinioni e di privati interessi di alcuni pochi, dalle quali forze combinate ne risulta per lo più un partito che nessuno avrebbe preveduto. Egli è vero però che tollerò sempre con superiorità e fermezza mirabile le contrarie vicende e le ingiustizie che qualche volta dovette sopportare; cosicchè sicuro della propria rettitudine, irremovibile per nessun riguardo dalla opinione che dopo maturo esame aveva adottata, presentò un cuore costante ed innocente alle procelle, senza mai aver la mente abbattuta o dubitare di se medesimo. Costanza e fermezza ch’egli non solamente ebbe nelle opinioni, ma ne’ sentimenti ancora più intimi dell’animo; perseverante ed immobile nell’amicizia, nell’affetto verso de’ suoi congiunti, nella benevolenza verso de’ suoi Scolari, nella riconoscenza verso chi gli aveva fatto il minimo piacere.

Gli affari delle acque del Bolognese lo determinarono a dividere quelle meditazioni che in prima consacrava alla cognizione del sistema solare, coll’Idrostatica sulla quale più opere stampò dedicandone un trattato6 al Sig. Cavaliere Giulio Mozzi Patrizio fiorentino, col quale s’era legato in amicizia; Cavaliere di sommo merito pel suo carattere, Poeta sublime e sublime matematico, il quale aveva dedicato al nostro Sig. Frisi un trattato sul rotamento momentaneo de’ corpi. Altre cose stampò, le quali vennero inserite nelle raccolte degli scrittori delle acque. Diè poi nuova forma alla teoria dell’Idrostatica nell’ultima edizione della Meccanica pubblicata in Milano nel 1783. Non per ciò egli abbandonò mai l’Astronomia ed il sistema del mondo, che gli aveva fruttato una più tranquilla celebrità; e colle stampe di Lucca nel 1761 pubblicò il secondo volume delle sue Dissertazioni dedicato al Serenissimo Duce di Genova Sig. Agostino Lomellino, ch’egli onorava e amava sommamente e a cui fu sempre caro il nostro Sig. Frisi, che mantenne sin che visse una non mai interrotta corrispondenza con questo Repubblicano illustre, presso cui mirabilmente si riuniscono le vaste idee di Stato e le precise delle Scienze; la profondità de’ pensieri e il più squisito sentimento del bello; l’amore pel merito e l’amabile gentilezza sociale.

Otto anni erano vicini a compiersi da che il nostro Sig. Frisi, domiciliato nella Toscana per cagione della Cattedra sua nella Università di Pisa, appena di volo aveva potuto visitare in quest’intervallo la sua famiglia e la Patria. Mancava sempre qualche cosa alla sua felicità coll’esserne lontano. Fortunatamente in quel tempo si cominciò a pensare alla pubblica educazione della nostra gioventù e a dar credito alla derelitta Università di Pavia. Un illustre Milanese ricoverato nella Toscana non poteva essere dimenticato, nè lo fu. Gli venne offerta la Cattedra di Matematica nelle Scuole Palatine di Milano col medesimo stipendio ch’egli godeva in Pisa; e l’accettò. L’Imperatore Gran Duca nel concedere a questo esimio Professore il congedo volle onorarlo coll’ordinare che sempre il di lui nome rimanesse scritto nel ruolo de’ Lettori di Pisa. Il Senato di Bologna nello stesso anno 1764 volle eleggere pure il nostro Sig. Frisi come Lettore onorario dell’universale Matematica; la qual distinta onorificenza tanto più comparve considerabile a chi ha notizia di quel Senato, quanto che non era limitata ad alcun tempo, nè ristretta ad alcuna parte della Matematica; come lo suol essere ad altri Lettori a cui si conferiscon le cattedre per un triennio, dopo del quale essi ne chiedono la conferma. Giunse egli dunque a Milano e fece la prelezione nella primavera del 1764, stampata nell’anno stesso in Milano dal Galeazzi.

Stavasi allora per innalzare la guglia, ossia torre fondata sul lanternino della cupola del Duomo di Milano, e questo era il soggetto de’ pubblici discorsi. Il nostro matematico, al quale non era forestiera l’Architettura, non potè occultare il sentimento che gli cagionava un sì fatto progetto. Mentre non è terminato il pavimento del Duomo, ma in parte è simile a quello d’una stalla: mentre la facciata è fatta per metà, e pel rimanente mostra un rozzo acervo di sassi e mattoni: pensare a profundere una cospicua somma di denaro all’ornamento dell’ultima sommità era un errore di metodo per lo meno. Egli disse poi che non senza pericolo potevasi aggiugnere tal peso; che sarebbe stata fulminata facilmente quell’altissima torre; che avrebbe resa deforme la figura della Chiesa. Ora ciascun vede ch’egli aveva ragione e che si sarebbe meglio fatto seguendo il suo parere. Ma allora per avere cercato co’ suoi discorsi di impedire una deformità veramente ridicola fu esposto alla personale animosità di alcun ingegnere e di molti patrizj da colui sedotti, quasi che il nostro matematico tentasse di porre limiti al poter loro sulla fabbrica della Chiesa. Un’altra avventura espose a maggiori amarezze il nostro Sig. Frisi. Egli come Regio Censore aveva approvato per la stampa un meschino Lunario, nel quale da alcuni si voleva pur trovare della malignità, perchè si credeva opera di persona invisa. Fu posto prigione l’autore perchè si credeva che non lo fosse, e paleserebbe la persona. Frisi si presentò a difendere un uomo che era in carcere per di lui colpa. Si trattava della libertà d’un onesto uomo e della sussistenza della moglie e dei figli, e del pericolo di perdere lo stipendio col quale campavano. Un uomo senza cuore e cauto si sarebbe col silenzio posto al coperto della procella in cui soffiavano venti troppo potenti: egli osò di presentarsi, tranquillamente sostenendo non esservi le supposte malignità, e in ogni caso costituendosi egli colpevole se nella stampa da lui approvata v’era colpa. Si trovò volgarmente inopportuno un tal passo: i pochi uomini di animo integro non così giudicarono. Ciò gli cagionò molti dispiaceri. Io non racconterò varie altre simili inquietudini che dovette soffrire il Sig. Frisi nella sua Patria sino agli ultimi periodi della sua vita; queste vicende odiose meglio è coprirle a chi verrà dopo di noi. Le vite de’ filosofi sarebbero la vera satira de’ loro tempi se potessero scriversi, o si dovessero, con cinica libertà. Da Socrate sino a noi gli uomini sono stati ingiusti verso chi era voglioso d’illuminarli; e il Sig. Frisi, persuaso poi colla sperienza, negli ultimi anni di sua vita a nessun costo non volle più accettare ingerenza alcuna nè per acque, nè per fabbriche nè per cosa consimile. Gli studj suoi; i suoi fratelli; i suoi amici (e ne aveva) occupavano i suoi pensieri interamente; e riguardo alla moltitudine ei soleva frequentemente ripetere che tosto ch’egli avesse loro usata la cortesia di morire avrebbero parlato bene anche di lui; il che si è pienamente avverato. La verità sta ne’ libri, e rare volte pure vi sta; l’uomo che ingenuamente la presenti nelle cose ordinarie della vita, peggio poi negli affari, s’espone a una pericolosa carriera. Mi guardi il cielo ch’io per ciò intenda di soffocare il generoso entusiasmo del bene che anima gli uomini più benefici della società! Cerco soltanto d’avvertirli acciocchè stien preparati alle offese; e si consolino considerandole come un nojoso bensì, ma sicuro e costante testimonio del loro merito.

Dopo due anni da che insegnava la Meccanica e l’Idraulica ai giovani destinati alla professione d’ingegnere, egli chiese ed ottenne il permesso di vedere la Francia e la Inghilterra; e questo viaggio lo fece l’anno 1766. Egli a Parigi ed a Londra visse co’ primi uomini del secolo; girò per osservare i canali navigabili e quanto aveva relazione all’Idraulica; volle vedere e informarsi di quanto può interessare un colto viaggiatore; e vi lasciò molti amici dove in prima aveva soltanto ammiratori. A Parigi per parte del Ministro di Portogallo furongli fatte proposizioni assai onorevoli per indurlo a stabilirsi a Lisbona, dove si pensava sotto il ministero del Marchese di Pombal d’invitare gl’ingegni a’ studj migliori; ma la famiglia, la patria, gli antichi amici furono preponderanti nel di lui cuore. In quell’anno venne ascritto alla Reale Accademia di Stockolm. Mentre egli era a Parigi vi giunsero due altri Milanesi, il Sig. Marchese Beccaria, che s’era acquistata la celebrità col suo libro de’ Delitti e delle Pene, e seco lui mio fratello il Cavaliere Alessandro, col quale accompagnatosi il nostro Frisi ritornò nell’Italia, indi a Milano, ove ei passava assai bene il suo tempo. Era alloggiato nel Collegio Imperiale diretto da’ Barnabiti. Nessuna prescrizione monastica lo limitava. Un decente appartamento; la libertà di accogliervi in qualunque ora i suoi amici e di visitarli, rendevangli caro quell’alloggio offertogli da’ suoi Colleghi, i quali a gara cercavano di rendergli accetto il convitto. Egli la mattina e la sera soleva consacrarle a più ore di studio, il che regolarmente fece nel restante di sua vita: esattamente faceva le sue lezioni; poi visitava le migliori società, dove per la prontezza del suo spirito e per le amabili sue maniere era assai caro. Osservandolo tanto divagato nelle case, pareva impossibile che egli fosse l’autore delle gravi opere che di tempo in tempo pubblicava; e leggendo quelle opere medesime profondamente pensate pareva impossibile che il suo autore vivesse buona parte della giornata quasi un uomo immerso nelle distrazioni. La noja era uno stato sconosciutissimo da lui; non appariva nemmeno ch’egli soffrisse qualora le profonde meditazioni de’ suoi calcoli venivangli interrotte da chi entrava a visitarlo; non mai sarebbesi creduto, alla serena e vivace accoglienza, ch’egli in quel punto abbandonasse la contenzione degli studj sublimi che stancano la mente ad ogni altro. Mentr’egli così viveva pubblicò in Milano nel 1768 il suo libro sulla Gravità, libro che portò in fronte l’Augusto Nome di GIUSEPPE SECONDO.

Quest’opera de Gravitate è divisa in tre libri. Nel primo trattasi della gravità de’ corpi in generale. Nel secondo trattasi della gravità delle particelle della materia. Nel terzo della reciproca gravità. Il primo libro spiega la teoria del moto de’ gravi, o liberamente cadenti o scagliati, la teoria de’ pendoli, delle forze centrali, ecc. Il secondo libro esamina la figura della terra, le leggi della gravità, il flusso e riflusso del mare e dell’atmosfera, la librazione della Terra e della Luna. Il terzo libro tratta delle disuguaglianze de’ moti de’ pianeti. Il Sig. D’Alembert e il Sig. Bezout facendo alla Reale Accademia delle Scienze di Parigi una relazione di quest’opera scrissero: «Quasi tutti questi oggetti vi sono trattati con metodi affatto nuovi, servendosi della sintesi quanto era possibile il farlo. Vi sono idee nuove sul principio della composizione delle forze, sul problema della più presta caduta, sulla oscillazione e la percussione, sul moto delle sezioni coniche, sull’attrazione de’ corpi sferoidici, sulle elevazioni e il tempo della marea, sull’aberazione della luce tramandataci dai Pianeti». È cosa che fa onore e a chi seppe rendere giustizia a un estero, riconoscendolo autore di idee e metodi nuovi su i massimi oggetti del sistema del mondo, ed alla nostra Patria, che produsse un Cittadino dotato d’ingegno tale da oltrepassare a questo segno i confini e dilatare le umane cognizioni su tali argomenti. In quell’opera istessa trattò il nostro Sig. Frisi delle macchie solari poste a varie distanze del Sole; trattò pure incidentalmente della luce zodiacale e della variazione di essa, esaminò la teoria del vento fra i tropici e l’atmosfera lunare, quella de’ pianeti, le altezze misurate col barometro, esaminò alcune inesattezze del gran Newton. I due celebri accademici continuando la relazione aggiunsero: «L’autore nel primo Libro espone per una strada inventata da lui la composizione de’ moti di rotazione e il metodo per trovare l’asse e la velocità di rotazione d’un corpo mosso da qualunque forza. Nel secondo Libro ei cerca qual figura debba avere la terra, supposta l’attrazione e supposto il moto diurno, e dalle osservazioni de’ pendoli, e dalle diverse misure de’ gradi ne deduce che la proporzione de’ due assi della terra è come 230 a 231, e che l’acqua e la terra alla superficie sono meno dense d’un quinto che non lo è la media densità della terra. La precessione degli equinozj, la nutazione dell’asse della Terra e della Luna sono oggetti dilucidati nel secondo libro, e co’ suoi metodi ne scaturiscono risultati conformi a quei che un Accademico (il Sig. D’Alembert) aveva pubblicati. Si mostrano alcune inesattezze che Newton e Simpson avevano lasciate trascorrere nella soluzione di questi problemi. Nel terzo Libro il Sig. Frisi abbandona il metodo di esprimere le disuguaglianze de’ pianeti con una serie di coseni d’archi moltiplicati, e le esprime colle potenze de’ coseni d’un arco medesimo, e con esso più comodamente calcola le disuguaglianze lunari, il moto de’ nodi e la variazione e inclinazione de’ pianeti. Vi calcola il periodo della diminuzione della obbliquità dell’eclittica, e i limiti della massima e minima obbliquità. Colla teoria medesima dimostra che non potrebbero restare le orbite e gli afelii di Saturno e di Giove quai sono se la forza di proiezione di Saturno continuamente non crescesse, e non decrescesse quella di Giove; quindi ciò non dovendosi supporre, ne accaderà che il tempo periodico di Saturno crescerà e diminuirà quello di Giove. Noi crediamo che gli oggetti, e il modo col quale vengono trattati in quest’opera meritino l’approvazione dell’Accademia. L’autore si fa conoscere un grande geometra, molto benemerito per l’Astronomia fisica»: così i Signori D’Alembert e Bezout. Il Sig. Giovanni Bernouilli nella Raccolta per gli astronomi tom. I pag. 205, qualificò quest’opera sulla gravità una delle più profonde ed utili opere in questa materia, che abbraccia tutta la fisica celeste, e colla maggior possibile chiarezza e brevità espone le più astratte teorie con metodi inventati dall’autore: metodi de’ quali l’applicazione ai casi riesce interessantissima. Sarebbe inutile fatica s’io raccogliessi i molti autorevolissimi attestati che ottenne quest’opera veramente esimia; poich’ella è bastantemente conosciuta dai matematici. Basti per tutti quanto ne stampò il Sig. Bailly nella Storia dell’Astronomia moderna tom. III pag. 108. «M. l’Abbé Frisi géometre d’Italie, a parcouru tous les sujets, a traité presque toutes les questions: le recueil de ses oeuvres est un traité lumineux et complet des phenomenes célestes; son ouvrage sur la gravitation est le seul ou le sistéme du monde ait eté developpé dans toutes ses parties».

Nell’anno medesimo, cioè nell’autunno del 1768, il nostro matematico passò all’Imperial Corte di Vienna, dove presso le più eminenti persone venne distinto ed onorato. Fra queste debbo nominare il primo il Sig. Principe di Kaunitz, che sentì vera stima per questo nostro Concittadino; ravvisò lo spirito e il genio di lui; si compiacque di conversar seco; e conservogli sin che visse una ferma protezione. Quantunque il gius canonico e le controversie di giurisdizione fral Sacerdozio e l’Impero fossero materie affatto aliene dalla professione del nostro Frisi, vi fu chi volle ascoltarlo su tale argomento, che allora era uno de’ primarj oggetti politici. Egli istrutto com’era della Storia, dotato di chiarissime idee, si spiegò e scrisse, anche così comandato, con evidenza tale che comparve nuovo un argomento cotanto dibattuto, e riuscì interessantissimo lo scritto suo. I principj suoi furono i medesimi che vennero posti in fronte allora alla legge per cui fu proscritta la Bolla in Coena Domini, cioè Giurisdizione al Sovrano, Autorità alla Chiesa. Il temporale al primo, lo spirituale a lei. Alla opinione della sublimità del suo ingegno provata dalle opere stampate; alla stima dello spirito, che ciascuno ammirò conversando con lui, aggiunse il nostro illustre Frisi le prove della somma illibatezza e generosità dell’animo suo, giacchè non solamente non volle chiedere grazia veruna, sebbene l’occasione di essere accanto al Sig. Principe che seco lo condusse al suo Castello d’Austerlitz gli somministrasse tutta l’opportunità; ma nemmeno volle accettare una offertagli rimunerazione per risarcirlo della spesa del viaggio fatto a Vienna, poichè in tal guisa diceva egli che ne avrebbe perduto il merito. Ivi ebbe campo di frequentare il Sig. Don Giovanni di Braganza e il Sig. Cardinale Visconti allora Nunzio a quella Imperial Corte, il primo de’ quali mantenne una amichevole corrispondenza con lui, e il secondo potè dargli contrassegno ancor maggiore della sua stima e benevolenza, interessandosi con felice successo per collocare Canonico nella onorevolissima Basilica Ambrosiana il di lui fratello Don Luigi Frisi.

Ritornato nella Patria riprese il filo de’ suoi studj, e oltre le assidue lezioni ch’egli dava a’ suoi uditori nelle Scuole Palatine, pubblicò colle stampe di Parma nel 1769 un Commentario sulla Teoria della Luna, concertato vicendevolmente coll’illustre astronomo ed amico sincerissimo del nostro Frisi, il Sig. Daniele Melanderhielm Svezzese: e non dimenticando l’importante studio delle acque pubblicò un nuovo trattato de’ canali navigabili dedicato al Ministro Plenipotenziario Sig. Conte di Firmian l’anno 1770. Le Accademie di Copenaghen e di Berna in quell’anno scrissero nel loro catalogo il nome del sublime ed instancabile nostro matematico. Ma dalla placida occupazione degli studj venne circa a que’ tempi distolto il nostro Frisi per diverse pubbliche commissioni di cui fu incaricato. Venne egli chiamato a Roveredo per decidere una questione dipendente da un filatojo mosso coll’acqua e provvedere l’acqua da bere; quindi passò a Trento per una chiusa al torrente Fersina; poi fu spedito dal Sig. Duca di Modena a visitare le montagne fra Modena e Pistoja per costruirvi la nuova strada; poscia dal Reale Governo di Milano fu inviato nel Cremonese per esaminare un progetto di navigazione dall’Oglio all’Adda sulla Delmona; e di poi venne adoperato per eseguire lo spurgo del Naviglio nella Città di Milano. Fece un piano pel Collegio degli ingegneri, così comandato. Fece altro piano, comandato pure, per la Specola di Brera. Rispose ai quesiti che gli vennero fatti sul nuovo Acquedotto di Genova. Visitò il fiume Tresa, e giudicò della possibilità di riunire economicamente i due Laghi di Lugano e Maggiore con questo emissario. Queste furono le varie commissioni che lo frastornarono dal corso de’ suoi studj dall’anno 1769 al 1774. La fatica maggiore ch’ei sostenne allora fu nella livellazione e disamina di varj progetti di canali navigabili del Milanese, a ciò deputato dal Reale Governo per insinuazione della Imperial Corte.

È degno di memoria ciò ch’egli fece a Roveredo. Si volle a lui deferire il giudizio d’una questione, che involgeva interesse di due parti litiganti. Trattavasi di definire se un sostegno posto recentemente in un fiume attraversandolo, rallentasse il moto superiore dell’acqua a danno d’un mulino già collocatovi. Lo asseriva il proprietario del mulino, lo negava l’interessato nel nuovo sostegno; e intendeva di dimostrare insussistente il reclamo, giacchè dalla livellazione erasi provato che il pelo dell’acqua immediatamente passando sopra del nuovo sostegno riusciva più basso, non solamente del pelo d’acqua di contro al mulino, ma più basso ancora del fondo stesso del fiume preso sotto la ruota del mulino. Era dunque mestieri decidere se un sostegno inferiormente collocato, e più basso del fondo d’un’acqua movente una ruota, potesse danneggiare il movimento di essa ruota e rallentarla. In mezzo all’impegno delle due parti, dalle quali difficilmente potevasi aspettare una convinzione coll’addurre le teorie, il nostro Sig. Frisi con uno di que’ semplicissimi ritrovati, che sono proprj dell’uomo grande, terminò la questione. Dispose che si tignesse di bianco un raggio della ruota a fine di potersene da ciascuno facilmente contare le rivoluzioni. Poscia portatosi colle parti contendenti di contro al mulino, avendo varj oriuoli gli astanti, si fecero replicate osservazioni sul numero delle rivoluzioni che faceva la ruota in un minuto di tempo. Poichè tutti furono concordi nel fatto, e che tante e non più rivoluzioni faceva la ruota nello stato d’allora; ordinò che si togliesse il sostegno inferiore, e contate poi le rivoluzioni tolto quell’impedimento, e ripetutamente contate ognuno vide che maggior numero di rivoluzioni faceva la ruota nel secondo caso. Conobbe allora ciascuno che veramente il nuovo sostegno pregiudicava, e venne tolto; e si scoprì in tal guisa un paradosso di più nell’Idraulica. Così, risparmiando a se medesimo l’odiosità di pronunziare un giudizio, ingegnosamente operò in tal modo che quasi spontaneamente la verità si manifestasse ad ognuno.

Ma nei canali navigabili progettati nel Milanese non fu possibile l’evitare l’urto delle opinioni. Somme fatiche sopportò il Sig. Frisi facendo più livellazioni, e segnatamente quella da Milano a Pavia. Molte visite e livellazioni fece sull’Adda, e sul canale che si è poi scavato a Paderno. Egli introdusse l’uso del livello a cannocchiale non senza contrasto de’ vecchi ingegneri. Ma queste fatiche, queste brighe trasportarono il nostro matematico dal campo delle Scienze, ch’ei signoreggiava pacatamente, nel vortice degli affari, ove trovossi esposto all’impeto d’interessi ed opinioni le quali più volte gli fecero bramare il ritorno a’ tranquilli suoi studj. Cosa ei pensasse e sul progettato canale di Milano a Pavia, e sull’eseguito a Paderno, ognuno può conoscerlo nel libro della Meccanica, ch’egli dedicò nel 1783 al Sig. Ministro Plenipotenziario Conte di Wilzeck. In mezzo a questi laboriosi ed ingrati doveri egli si consolava nella società degli amici, e si ricoverava di tempo in tempo nella solitudine, ove colla scorta della più sublime Matematica penetrando ne’ secreti del Sommo Artefice non per anco conosciuti dagli uomini, contemplava la maestosa fabbrica dell’universo, e assoggettava al calcolo le leggi del moto de’ corpi celesti. Il frutto di sì profonde e memorabili meditazioni comparve alla luce dalle stampe del Marelli in Milano l’anno 1774 coll’opera intitolata Cosmographia Physica & Mathematica.7

Quest’opera veramente sublime dimostrò più che mai ai matematici d’Europa qual precisione di idee, qual nitidezza d’immaginazione, qual forza e perspicacia d’ingegno possedesse il nostro Sig. Frisi. Da molti e diversi elementi risalire all’unità del principio; dalla unità del principio scorrere con rapido e sicuro passo sulle diramazioni che ne derivano. Nulla omettere: tutto rappresentare, conoscere, calcolare con eleganza: inventare quasi ad ogni tratto nuovi metodi: manifestarsi signore della Geometria ugualmente e del Calcolo; e quella delle due strade trascegliere per cui potevasi ottenere chiarezza e brevità maggiore: con dimostrazioni quasi tutte sue esporre sotto di un nuovo aspetto la teoria del cielo, e ciò con agevolezza svolgendo, e maneggiando maestrevolmente gli oggetti in modo da comprendere in brevi dimostrazioni le più feconde e grandi verità: tale fu il carattere che si riconobbe in questo grand’uomo, creato dalla Provvidenza per vantaggio e accrescimento delle umane cognizioni. Io non riferirò l’analisi di questo compiuto trattato di Astronomia, perchè non mi sento forza per degnamente scriverne, e perchè talmente è conciso l’autore, che volendosi raccontare la serie delle verità grandi che ci ha fatte conoscere, si rischierebbe di scrivere poco meno di quanto egli fece; essendo la sua maniera di dimostrare tanto rapida e precisa, che il raccontare cosa abbia dimostrato occuperebbe talvolta spazio maggiore della dimostrazione. La Cosmografia è un’opera che non può essere compendiata. Quest’opera comparve in due volumi in quarto. Il primo dall’autore fu dedicato alle Accademie che l’avevano associato, fralle quali allora appunto s’annoverò quella di Upsal. Il secondo lo volle indirizzare ad alcuni matematici suoi intimi amici, cioè al Conte Radicati, al Cavaliere Mozzi, al Cavaliere di Keraillo, al Sig. di Sejour, al Vescovo Inglese Walmesley, e al Sig. Melanderhielm.

Colla abolizione de’ Gesuiti il Collegio de’ Nobili di Milano mancava di chi lo dirigesse; e il Reale Governo sostituì loro i Barnabiti, i quali erano abituati a dar educazione a giovani nobili nel Collegio Imperiale ove stava l’alloggio del nostro Sig. Frisi. Poi si trovò superflua la separazione di due nobili Collegi cessata l’emulazione, che forse poteva essere utile quando erano due ceti distinti a regolarli. Il Collegio Imperiale venne destinato ad altro uso e i nobili educandi vennero trasferiti tutti alla casa de’ Gesuiti. Questa inaspettata rivoluzione pose in molto imbarazzo il nostro matematico, il quale dovendosi portare ogni giorno alla Università di Brera per le funzioni della sua Cattedra, alle quali non mancava giammai, non aveva opportuno ricovero nelle Case del suo Ordine. Non v’era comodo collocamento nel Collegio de’ Nobili, disordinato per la fabbrica che vi si stava facendo. Il Collegio di S. Alessandro appena basta al ricovero di quei degni Padri che vi alloggiano. L’altro Collegio di S. Barnaba potea prestar albergo al nostro matematico; ma tale situazione sarebbegli riuscita sommamente incomoda, massimamente ne’ mesi d’inverno, attesa la distanza di quel Collegio dall’Università. Volle così la necessità ch’ei pensasse a trovarsi alloggio nella sua famiglia, e conseguentemente a porsi quel vestito per cui non fosse indecente l’alloggiarvi. Non aveva egli mai avuto pensiero di uscire dalla Congregazione de’ Barnabiti, fra i quali viveva benissimo e dai quali era sinceramente stimato ed amato. Nel Collegio Imperiale egli stava decentemente alloggiato e libero perfettamente. Il maggior numero dei suoi amici era fra i Barnabiti, che sentivano il pregio d’avere un Collega tanto illustre e buono, al quale, oltre la gloria che ne derivava all’Ordine, erano debitori dell’incremento de’ buoni studj coll’esempio non meno che colle istruzioni. Il nostro illustre Frisi nemmeno pensò mai sotto il facile pontificato di Clemente XIV di cambiare vestito, giacchè egli amava di vivere co’ suoi Colleghi, e non fu poco l’imbarazzo per lui di dover pensare a far casa da sè, e cambiare quel genere di vita che passava tranquillamente. Pure l’accennata soppressione del Collegio Imperiale lo sforzò a implorare la protezione del Sig. Principe di Kaunitz, la quale con replicate istanze ne’ principj difficili del Pontificato del Regnante Pio VI finalmente gli ottenne la facoltà di vestirsi da prete, e dipendere dall’Arcivescovo sin che gli durasse la carica di Regio Professore. Questa mutazione accadde nella primavera dell’anno 1776, e si portò a convivere colla rispettabile sua madre, una sorella e tre fratelli, formandosi una famiglia di sei persone, la quale disgraziatamente in otto anni si è ridotta ai due soli Canonici che oggi vivono. Quantunque però sottratto dalla dipendenza, egli si considerò sempre come Barnabita. Frequentava i Collegi della sua Congregazione; animava colla sua presenza le loro funzioni scolastiche; ne’ giorni solenni seco loro si portava a convivere; e ne’ tempi ne’ quali la Chiesa rammemora la passione egli andava a celebrarne i sacri riti co’ suoi Colleghi, fra i quali trovò amici per la sua gloria e felicità sommamente interessati. Mentre ei venne chiamato dalla Repubblica di Venezia per esaminare alcuni progetti sulle acque della Brenta egli propose per sostituto alla sua Cattedra il P. Racagni Barnabita, uomo di cui il nostro matematico aveva vera e sentita amicizia. Poscia in altra occasione dovendo pensare a supplemento per malattia, e non potendolo il P. Racagni occupato nelle cariche dell’Ordine, ei propose il P. Salvioli pure Barnabita, di cui aveva opinione distinta. Egli fu che fece conoscere il valor matematico del P. D. Mariano Fontana Barnabita e contribuì a collocarlo in una Regia Cattedra. Nella meschina e affatto popolare ostilità che ebbe a soffrire il nostro illustre Cittadino nella sua Patria per le Effemeridi8 fra i Barnabiti trovò impegnati amici della verità e del merito. Nella sua ultima malattia dai Barnabiti ebbe le più amichevoli offerte d’alloggio, di soccorsi d’ogni sorta, non accettate egli è vero, ma corrisposte dalla più sincera riconoscenza, avendo voluto nelle ultime angustie della vita l’assistenza de’ suoi colleghi. Credo opportuna la memoria di questi fatti, perchè provano che le comunità religiose non sono sempre quali le suol dipingere la maligna incredulità, e provano a un tempo stesso la costanza e bontà del carattere intrinseca al nostro Sig. Frisi.

Ho accennata la commissione di Venezia, ove fu chiamato nella state del 1777. Nelle instituzioni della Meccanica ristampate nel 1783 in Milano dal Galeazzi si può conoscere lo stato di quella questione. Egli fu distintamente premiato da quella Repubblica. Ma le fatiche fisiche di livellazioni ivi fatte sotto il cocente raggio del Sole; la febbre delle opinioni ed interessi, ancora più faticosa a soffrirsi per un uomo avvezzo a ricercare la verità con rapidi e sicuri metodi, ad annunziarla con fermezza senza cautela ed industria, posero colmo al disgusto ch’egli aveva già concepito per gli affari pubblici; per modo che ricusò poi ogni altra commissione, benchè richiesto, e per affare privato a Piacenza e per affare del comune da una Città illustre negli Svizzeri; e tale determinazione era sì ferma in lui, che nessun riguardo più mai non l’avrebbe indotto a dipartirsene, pretestando egli la salute non più così ferma come negli anni passati. Quella di Venezia fu veramente l’ultima commissione che egli eseguì; e prima aveva diretta in Milano la costruzione de’ conduttori posti all’Archivio pubblico per ordine del Reale Governo; il che non per altro debb’essere ricordato, se non perchè anche in questo egli ebbe il merito di far conoscere il primo agli occhi del pubblico nella Patria questo preservativo dai fulmini, sul quale stampò anche una memoria in quell’anno 1776 uscita dalla officina del Galeazzi.

I servigi che prestò alla Patria l’ottimo nostro Cittadino non furono pochi. Egli coll’esempio, colle lezioni, cogli scritti fu il primo che scosse dal sonno la nazione, presso la quale inutilmente s’era mostrata la immortale Donna Maria Agnesi, sottrattasi nella solitudine alla indifferenza de’ Cittadini, e consolatasi colle opere di pietà, per non aver trovata altra ricompensa ai voli del sublime suo ingegno fuori che la fama presso gli esteri. Erano ignote le nuove scoperte nelle scienze fisiche e matematiche. Il pensare era un vizio, lo studio era imparare i pensieri altrui. Imitar Cicerone nel giro e nella scelta delle parole; porsi in mente un numero grande di leggi e di opinioni di dottori; esercitarsi a sostenere con animo imperterrito e contro qualunque evidenza una opinione scolastica. Questi erano i pregi e quest’era il piano di educazione pubblica in que’ tempi, peggiori assai di quelli che avevano preceduto; poichè lo studio della erudizione e della critica (de’ quali i nostri padri ci hanno lasciati onorati monumenti) era derelitto alla metà di questo secolo, quando il nostro matematico fece rivolgere verso Milano gli sguardi de’ filosofi d’Europa. Egli il primo affrontò sulla Cattedra e colle pubbliche tesi le superstizioni, le stregherie e simili errori. Sostituì alle opinioni scolastiche le verità dimostrate; alle frivole questioni la cognizione del cielo e de’ fenomeni terrestri; all’araba dialettica l’infallibile calcolo. Ne’ Barnabiti si moltiplicarono i buoni studj; nella Città si dilatarono. Posto ad insegnare la Meccanica, l’Architettura, e l’Idraulica agli alunni ingegneri, ora ci lascia un Collegio in buona parte di suoi discepoli; i quali operano per principj, e possedono la scienza loro a onore non meno che a utilità della Patria. Fra le benemerenze di lui merita pure distinta memoria la bontà colla quale accolse sempre i giovani di talento e studiosi, e l’impegno col quale ajutò sempre i progressi della coltura. Quella gelosa freddezza, che ai giovani non per anco formati mostrano talvolta gli uomini di qualche nome nelle lettere, non fu mai nel nostro eccellente Cittadino. Ei si faceva un pregio di contribuire alla fama altrui. Il libro dei Delitti e Pene del Sig. Marchese Beccaria egli lo fece conoscere a Parigi inviandone un esemplare al Sig. D’Alembert. Ei fu sedotto dall’amicizia che aveva per me e volle far altrettanto di qualche altra mia produzione. Egli animava gli amici a scrivere, a ripassare le cose loro e darle alla luce, e tutte le di lui premure tendevano a promovere l’onor nazionale e la coltura della Patria. Ma questo stesso principio doveva renderlo alieno dal lodare la mal fondata ambizione di alcuni, che pur credevano d’essergli uguali, perchè avevan dato essi pure un libro alla stampa: libri dimenticati un momento dopo, come i fogli delle novelle; de’ quai libretti v’era anni sono la smania di produrne; e questa indifferenza di lui andava poi formando uno stuolo di persone poco amiche del nostro Sig. Frisi, che avrebbero voluto poter mostrare di non averne stima appunto perchè, avendone somma lor malgrado, non eragli riuscito di meritarla da lui. Quai fossero le eccellenti lezioni ch’ei dava ai giovani ingegneri ognuno l’ha potuto conoscere dalle Instituzioni di Meccanica, d’idrostatica, d’idrometria, e d’Architettura Statica e Idraulica ad uso della Regia Scuola eretta in Milano per gli Architetti e gli Ingegneri, opera che egli stampò in Milano presso il Galeazzi 1777 sotto gli auspicj del Reale Arciduca FERDINANDO Governatore; opera per cui l’Augusta MARIA TERESA con onorevole Dispaccio ordinò una gratificazione all’autore. Comincia l’autore dalle teorie del moto uniforme o variabile; spiega i principj della composizione o risoluzione delle forze; della discesa libera de’ corpi ne’ piani inclinati; della progressione delle curve; del moto de’ pendoli; della projezione; dell’equilibrio; del centro di gravità; poi ci presenta una eccellente teoria sull’uso delle macchine semplici e composte; indi applica i principj alla teoria della Meccanica, cioè all’Architettura Statica; dà una nozione degli ordini d’Architettura; tratta della solidità reale e della apparente; della resistenza de’ corpi solidi; degli architravi; de’ tetti; della resistenza de’ chiodi e delle catene; della tensione delle corde; del taglio delle pietre per le volte; della spinta delle volte.9

In seguito applica all’Idrostatica le leggi dell’equilibrio de’ fluidi; tratta del livello di essi; della pressione; della gravità specifica, e varj problemi da essa dipendenti; tratta dell’equilibrio dell’aria col mercurio; delle misure delle altezze col barometro, del livello reale ed apparente. Passa quindi all’Idraulica: insegna la cagione del moto de’ fluidi e tratta del modo di calcolarne la velocità esaminando i metodi de’ più illustri matematici. Tratta delle acque correnti; de’ migliori stromenti per paragonarne la pressione, da cui dipende la velocità; spiega la resistenza dell’acqua e la diversa velocità delle acque correnti alla superficie de’ fiumi ed al fondo. Dopo ciò, con viste generali e con molta erudizione, tratta della direzione de’ fiumi primarj e delle diverse materie che seco portano. Poi ragiona di varj fiumi d’Italia e di varj canali navigabili, e sopra tutto dei Milanesi. Non omette però quei di Francia, Fiandra, Spagna, Inghilterra, Svezia ecc. L’imboccatura, la pendenza, la qualità de’ sostegni, le macchine migliori per ispurgare il fondo e simili oggetti sono discussi con mano maestra, con luminosi tocchi. Il Giornale di Bouillon annunziando quest’opera la chiamò digne fruit d’un des plus savants Mathematiciens de l’Europe, & très assurement du plus utile Professeur de l’Italie.

Le opere che aveva date alla luce il chiarissimo nostro Cittadino l’avevano palesato un sovrano ingegno nelle Matematiche e nella Fisica celeste e della terra. Un’altra celebrità doveva egli acquistar poi, mostrandosi elegante scrittore, critico illuminato, e uomo di molta erudizione. Rimasero maravigliati non pochi, allorchè comparve alla luce il primo saggio di colta letteratura del nostro autore; che fu l’Elogio del Galileo, dedicato al Reale Gran Duca Arciduca LEOPOLDO,10 il qual Sovrano si degnò di conservare nel ruolo della Università di Pisa il Sig. Frisi, alla Cattedra stessa ove aveva seduto il Galileo. In quest’Elogio ammirano i dotti la scienza non meno che l’erudizione dell’autore, che luminosamente presenta lo stato in cui Galileo trovò le umane cognizioni; i mezzi co’ quali si avvide degli errori comuni; la sagacità con cui seppe rintracciare il vero, e sostituirlo ai venerati sogni; gli equivoci inseparabili dai primi tentativi ove il Galileo medesimo traviò talvolta; le inquietudini che questo grand’uomo soffrì; in una parola l’analisi dell’ingegno e delle benemerenze del Galileo. Sul conto delle amarezze le quali sofferse Galileo, così si esprime: «In quest’ammasso d’idee e di pregiudizj; di raziocinj e di passioni; di virtù e di vizj, che avvolgono il genere umano, i genj rari e sublimi, non avendo mai il disprezzo, hanno sempre la emulazione, e qualche volta il livore e la rabbia degli uomini più volgari… Da Socrate sino a Galileo erano divenute comuni le doglianze degli uomini di lettere, d’avere nella lor Patria minor considerazione che altrove». Questa maniera di scrivere non si aspettava da un uomo che supponevasi unicamente occupato nelle proporzioni delle quantità. Alcuni gazzettieri, non potendo criticare le altre opere di lui perchè scritte in lingua da essi non intesa, si scagliarono contro lo stile di questa; e perchè, in vece di scrivere declamazioni o antitesi, maestrevolmente seguiva la placida ragione, pretesero di trovarlo freddo e stentato; e quasi mancasse egli di talento per le lettere, procurarono di screditare questo genere di eloquenza. Il Sig. Frisi compose l’Elogio del gran Newton, lo fe’ stampare in Milano dedicandolo alla Reale Arciduchessa Beatrice. Quest’Elogio è scritto con energia e con eloquenza superiore ancora a fronte di quello del Galileo. Il solo esordio lo annunzia. «L’uomo virtuoso, l’uomo sensibile, l’uomo ragionatore, leggendo e considerando le storie delle antiche nazioni, e trovandovi una lunga serie di vizj, di barbarie e d’errori, s’alza molte volte dai libri sdegnandosi e rattristandosi colla stessa sua specie. Per poterne formare una idea migliore e trovar degli oggetti più consolanti, bisogna che si rivolga alla storia degli uomini di lettere. La sacra luce della verità non è spuntata che lentamente nelle civili Società. Dappertutto vi sono state carnificine e carnefici. Non vi è parte ancora più piccola del corpo umano in cui non siasi trovata l’arte di portare i dolori più acuti. Non vi è prodotto, non vi è elemento della natura che non siasi variamente impiegato per rendere l’altrui morte più lenta e la vita più tormentosa ecc». Anche in quest’opera traspare la sensibilità del nostro autore; come suol dirsi de’ pittori, che nelle loro figure qualche imitazione sempre vi pongono della loro propria fisonomia, così gli uomini di lettere forz’è che lascino conoscere il loro animo ne’ loro scritti. «Il Galileo – dic’egli – fu lungamente perseguitato, il Cavalieri, il Cassini, il Grandi non ebbero obbligazione alcuna alla Patria; tant’altri illustri Italiani vissero nella mediocrità e non furono onorati generalmente che in morte. Il Newton fu conosciuto e onorato da tutta la sua nazione sino dalla prima gioventù». Il nostro Sig. Frisi poteva aggiugnere il suo nome come degno collega di quegl’illustri Italiani; sentiva di aver con essi una condizione comune, e il vaticinio si è compiutamente avverato colla di lui morte. In altro luogo di quell’Elogio parlando degl’Italiani dice che gli esteri non faranno mai un giusto calcolo del valor degl’ingegni italiani, sintanto che unicamente paragoneranno le scoperte e gli scritti; convenendo in oltre calcolare la mancanza di ajuti, e le somme opposizioni che si sono dovute da noi superare. Egli incidentemente parlando delle scuole d’Italia dice: «affidate in quel tempo ai Gesuiti, ridotte ad una disciplina monastica, e sistemate con altre viste e con altri fini particolari, erano ancora più oscure e caliginose. Vi si cercava più la subordinazione che la solida istruzione dei giovani… Due Gesuiti di maggior nome, il Riccioli e il Grandami, avevano impiegato la mediocrità de’ loro talenti per ricavare… due supposte dimostrazioni dell’immobilità della terra». Il Gesuita Castel nella Francia s’opposte alle teorie del Newton sulla Luce e sulla Gravità. Il Gesuita Gouyé attaccò i calcoli dell’infinito propostici dal Newton. Il Sig. Frisi non era punto contento de’ Gesuiti, a taluno de’ quali egli attribuiva il pericolo, cui fu esposto, d’essere relegato ad insegnare la Matematica pura per abbandonare la mista ad altro soggetto; disgusto dal quale lo preservò la protezione decisa del Sig. Principe Kaunitz, il quale non volle permettere che un Milanese tanto celebre e benemerito venisse in Milano limitato alle mere astrazioni, e per una trama sordamente ordita cedesse l’onorevole Cattedra degli alunni ingegneri a chi certamente non l’avrebbe occupata con pari utilità. S’aggiunse che i gazzettieri che indiscretamente avevano criticato il primo Elogio erano Gesuiti soppressi. S’aggiunse la disputa già accennata cogli autori delle Effemeridi. Tutto ciò lo sciolse da quel ritegno ch’egli aveva conservato sino allora per non manifestare al pubblico la opinione sua sul merito scientifico di quella società, di cui più apertamente poi trattò nel suo Elogio del Cavalieri, ch’egli volle in segno di sua amicizia e benevolenza diriggere a me. «Si sparse allora in Italia una società d’uomini – così nell’Elogio del Cavalieri – legati insieme con certi vincoli, che aspirando ad una specie d’impero sulle opinioni e sugli affari degli uomini, osarono di assumere la direzione delle pubbliche scuole; ma non avendo nè lumi sufficienti, nè viste abbastanza grandi per la pubblica educazione, anzi facendo servire gli stessi studj ad altre viste particolari con moltiplicarli e organizzarli a modo loro, contribuirono sistematicamente a fissarne la semplice mediocrità.» Poi dopo di aver esposto l’ammirazione con cui i più sublimi geometri di quel tempo accolsero il metodo degl’indivisibili del Cavalieri aggiugne: «In mezzo agli Elogi comuni de’ nazionali e degli esteri, mentre di qua e di là da’ monti studiavasi generalmente la nuova Geometria… tre soli osarono di attaccarla; il Tacquet, il Bettini, il Guldino; e questi erano tre Gesuiti. Non si può fare a meno di domandare come mai quest’ordine, che ha fatto tante opposizioni alle scienze, dopo di essersi impadronito di tante scuole e di tante Università, in mezzo a tutt’i comodi di studiare, sperimentare, osservare, non abbia mai prodotto invenzione alcuna da paragonarsi a quelle altre a cui andava contraddicendo, non abbia fatto alcun’epoca nella Storia delle scienze medesime!». Indi cita il Cavalieri, il Marsenne, il De Angeli, il Grandi, i Maurini, il Noris, lo Stellini, tutti claustrali di altri ordini, ai nomi de’ quali non crede che possano i Gesuiti giustamente contrapporre. Quest’argomento lo ha trattato in quell’Elogio del Cavalieri esattamente, analizzando gli autori più rinomati; fece però una eccezione cortese in favore de’ viventi, la quale come ognun vede non poteva bastantemente risarcire il disgustoso effetto delle generali asserzioni. Varj dispiaceri ebbe poscia a soffrirne il nostro autore e direttamente e di riverbero, siccome accade; e questi giunsero a tal segno, che si tentò di cautamente insinuare nelle mente di molti l’opinione dell’equivoco suo merito sulle scienze sublimi; opinione la quale però non potè generalmente prevalere: poichè la celebrità presso gli esteri, i premj delle Accademie d’Europa, le medaglie di varj monarchi speditegli, l’aggregazione alle più illustri Accademie erano fatti che s’andarono giornalmente rinnovando sino all’ultimo anno della sua vita. A questa elevazione egli era salito interamente col proprio ingegno, e cominciando la carriera con mancanza di quegli appoggi ed ajuti che potessero ottenergli alcuna predilezione. Pure non si mancò di spargere dubbj sulla di lui scienza; e cinque anni prima della sua morte avendo sofferta una malattia grave, non si risparmiò di pubblicare aver egli perduto il vigore della sua mente; alla quale calunnia egli non rispose altrimenti, se non componendo e pubblicando il suo trattato d’Algebra.

Alcuni riconobbero la vera pittura de’ sentimenti dell’illustre autore in varj tratti ch’egli innestò nell’Elogio del Cavalieri, ed io ne accennerò alcuni. «Non si possono mai abbastanza commendare quegli uomini, dic’egli, che avendo forze sufficienti per metter mano a delle opere primitive e originali, sanno poi ancora discendere a delle altre opere puramente elementari ed istruttive. Nelle prime danno essi a conoscere la superiorità dello spirito; nelle seconde manifestano ancora i più dolci sentimenti del cuore, la delicatezza, l’onestà, la premura di corrispondere all’obbligo de’ proprj impieghi.» Tale egli era nella scuola, e i valorosi giovani che sono nel Collegio degli Ingegneri ne fanno la prova. Sembra di vedere l’anima ferma del nostro Sig. Frisi leggendo quella Dura condizione di guadagnare i suffragi pubblici colla subordinazione sino delle opinioni! Egli non tradì mai la verità, e non simulò mai opinioni e sentimenti. L’animo suo era essenzialmente retto, benefico, e semplice. «La rivalità, il sospetto – dic’egli – l’invidia (ignobili passioni) non arrivano ordinariamente sino a quei Genj primarj, che avendo ben meritata la pubblica estimazione non hanno bisogno alcuno di guadagnarla sugli altri. Essi rispettano ciò che devono, stimano ciò che possono e si rendono insieme tra loro tutte le pubbliche testimonianze del merito e della virtù». Egli in fatti in tutte le opere volle tribuire luminosamente giustizia al merito di ciascuno; e non solamente cavò dall’obblivione il nome del nostro Cavalieri, onore della Patria; ma anche della Signora Agnesi ne scrisse in quest’Elogio, qualificandola d’aver ridotte a maggiore chiarezza e semplicità e d’aver legate insieme tutte le scoperte analitiche. Parve ad alcuni che nemmeno a caso egli avesse posto il tratto seguente. «I vicini e i coetanei possono essere qualche volta inconsiderati o anche ingiusti; ma la posterità non lo è mai.» Molta somiglianza si trovò fra la situazione dell’autore e quella del suo soggetto. «Bonaventura Cavalieri nacque in Milano nel 1598. Esso era d’una famiglia nè nobile, nè ricca. Non aveva nè protezioni, nè appoggi. Era d’un temperamento tranquillo e placido, e portato naturalmente agli studj. In simili circostanze molti altri Italiani scelsero la vita claustrale.» E più ancora vi si riconobbe nel tratto seguente: «I Confratelli coi quali viveva nel Collegio di Pisa cercarono di distoglierlo dagli studj Geometrici o Matematici. Dicevano essi che questi profani studj sono estranei a coloro che, vivendo ne’ Chiostri, devono unicamente occuparsi degli oggetti superiori della Religione e delle altre cognizioni che vi appartengono. Non sono svanite dopo quel tempo simili idee. Non si è arrivato così presto, nè così generalmente ad intendere che tutte le verità si collegano insieme, le divine e le umane. Ancora ai tempi nostri si sono intimate da alcuni Superiori claustrali delle proibizioni di non attendere ad altri studj che a quelli della volgare Filosofia e della Teologia. Tali proibizioni non risguardavano però che un giovine coraggioso, e non servirono che a maggiormente infervorarlo nella carriera di già intrapresa». Ho creduto bene di trascrivere questi squarci, i quali mostrano i sentimenti dell’autore, ne manifestano con evidenza il carattere e bastano soli a palesare qual fosse il di lui merito come pensatore e uomo di lettere; mentre l’analisi che fa delle scoperte fisiche e matematiche del Galileo, del Newton e del Cavalieri lo palesa uomo che poteva orizontalmente rimirare quegli oggetti, e da vicino contemplarli, laddove la parte anche più colta della specie nostra gli ammira elevati e rimoti.

Ho accennata la grave malattia che il Sig. Frisi soffrì cinque anni prima della sua morte, cioè l’anno 1779. Egli la sopportò con una superiorità d’animo esimia; a tal segno che, quantunque per tre mesi si trovasse in quello stato, non mai volle giacere a letto. Somma debolezza; aridità di fauci tale da non poter inghiottire senza l’ajuto di continui sorsi d’acqua; la sordità, a cui sin dalla gioventù fu soggetto, accresciuta notabilmente in quel periodo; la febbre; tutta questa comitiva d’incomodi non bastò a turbare la serenità del di lui animo, non ad esprimere querele dalla bocca di lui, che gustava come poteva la società degli amici ed anche in quello stato si distraeva colla lettura e collo studio. Si dubitò che questa malattia fosse cagionata dalla impressione sofferta nel ritornare due anni prima dalla commissione di Venezia, allorchè tra Brescia e Palazzolo venne assalito da’ ladri di strada. Ma anche in quel disgraziato incontro ei conservò un sangue freddo ed una tranquillità di animo veramente mirabile, e tale che a me non pare che questo fatto fosse cagione del male che poi ebbe a soffrire. Ritornava da Venezia in compagnia del Sig. Canonico teologo suo fratello il nostro Sig. Frisi nel mese di Ottobre del 1777. Dopo aver pranzato a Brescia il giorno 22 correvano la posta alla volta di Milano. Eranvi ancora due ore prima che finisse il giorno. Avevano un domestico. Improvvisamente si videro uomini armati alla testa de’ cavalli e al calesse. La cosa, sebbene non aspettata, era chiara al primo presentarsi; il Sig. Abate Frisi fu il primo tranquillamente a dar loro notizia: siete fortunati, diss’egli, ecco una borsa con settanta zecchini, e la consegnò loro. Vollero l’oriuolo, ed egli tranquillamente lo cavò, e siccome stava egli rimirandolo prima di darglielo, e i ladri volevan sollecitamente averlo, con mirabile indifferenza disse loro: ma lasciate almeno che anch’io veda che ora è… sono le ventidue… prendete. Coloro in seguito gli rubarono persino le fibbie dalle scarpe ed un cammeo che aveva in dito colla testa di Galileo. Al fratello fecero spoglio uguale. Ritrovatosi colle scarpe slacciate e senza alcuna moneta o valore, si fe’ condurre in quell’arnese dal Conte Duranti nella sua villa di Palazzolo. Ivi per aver cortesemente albergo e denaro non ebbe bisogno d’altro che di dire il suo nome. La notte vi dormì placidamente; e venuto a Milano raccontò questa vicenda con tanta indifferenza e grazia che non sembrò nemmeno che fossegli accaduta cosa di suo disgusto. Egli vedeva tutto dal buon aspetto; e forse questa qualità sociale fu cagione di precipitare i suoi giorni; poichè non valutando egli gl’incomodi, sin tanto che non erano ridotti ad un grado da non potersi sopportare, e non parlandone egli mai, anzi nemmeno volendo ammettere di averne, trascurò di prevenire gl’inconvenienti che terminarono poscia immaturamente la sua vita e privarono le scienze degli ulteriori progressi, coi quali le avrebbe sempre più arricchite.

Oltre la medaglia d’oro che aveva avuta in premio dal Re di Prussia; la collana e medaglia d’oro che poi ebbe in dono dall’Augusto Giuseppe Secondo, allora Arciduca; la medaglia d’oro coll’impronto del Re di Danimarca in premio della Dissertazione sulle variazioni del moto de’ pianeti coronata dalla Reale Accademia di Copenaghen; altra medaglia pure d’oro avuta in dono dal Re di Svezia, da cui v’era luogo da sperare che lo decorasse dell’Ordine della Stella Polare, singolarmente dopo la conversazione sommamente graziosa che quel Sovrano ebbe col nostro Sig. Frisi assai lungamente nel passaggio che fece per Milano;11 oltre il premio di Parigi e l’accessit, e il premio che riportò l’anno prima di morire dalla Imperiale Accademia di Pietroburgo; oltre la considerazione che mostrarono per esso i più distinti personaggi che passarono per Milano; l’Augusta MARIA TERESA volle dal Trono onorare il nostro illustre Cittadino con un Dispaccio del primo Settembre 1777. Dichiarò quella Sovrana la considerazione sua verso del Professore Abate D. Paolo Frisi, riconoscendo il valore di esso nella teoria non meno che nella pratica; e le utili istruzioni d’Idraulica e d’Idrometria, colle quali andava educando gli alunni ingegneri: per la quale benemerenza comandò che gli venisse pagata una rimunerazione straordinaria di cento zecchini. Quasi contemporaneamente, cioè il 3 Ottobre 1777, il Senato Veneto in Pregadi fece il decreto col quale assegnò al nostro Sig. Frisi cinquecento zecchini di retribuzione per l’opera da esso prestata colla più desiderabile diligenza nella commissione della Brenta, e in ciò riguardo alla fama e celebrità del professore. Tali furono le espressioni di quel Sovrano Decreto. Gl’invidiosi, i malevoli lor malgrado erano costretti a contenersi; e questi applausi de’ Sovrani e degli esteri risarcivano abbondantemente il nostro matematico e facevano ch’ei non curasse punto la indifferenza del volgo de’ suoi Concittadini. Egli sempre più andò stringendo il numero delle case nelle quali viveva; e negli ultimi tempi egli si limitò alla società degli amici non molti, ma veri e degni di lui, nella quale giocondamente passava le ore che gli rimanevano disoccupate da’ severi suoi studj e dalle meditazioni sue profonde e sublimi. Sebbene per pensare non è sempre mestieri d’essere solitario nel gabinetto colla penna o col libro alla mano. Gli uomini di studio acquistano fors’ancora la parte migliore delle cognizioni senza un tale apparato. Il Sig. Frisi era singolare in questo proposito. Egli ritrovava spesse volte ne’ sogni la soluzione de’ problemi più ardui e l’invenzione de’ metodi più semplici ed eleganti. Istrutto da tale sperienza, e molte volte accertatone, solea scorrer la sera gli elementi del problema che aveva a risolvere; e coricatosi piena la mente di quelle idee, ritrovava dormendo la soluzione ed al primo svegliarsi la mattina stendea in fatti il problema ridotto alla sua forma, la quale singolarità non io soltanto più volte l’ho da esso ascoltata, ma gli amici di lui del pari la sapevano.

Se nelle molte sue opere erasi mostrato sublime geometra, astronomo, idraulico, meccanico il nostro Sig. Frisi; se cogli Elogi del Galileo, del Cavalieri e del Newton, non senza altrui sorpresa, erasi fatto vedere eziandio erudito e colto uomo di lettere; con due altri Elogi si palesò, quale egli era, uomo di eccellente morale, e quale avrebbe potuto essere se le circostanze ve lo avessero condotto, cioè uomo di Stato. I due Elogi di Pomponio Attico e dell’Augusta MARIA TERESA lo dimostrano. Pomponio Attico ci si rappresenta come il modello della virtù, della prudenza, della generosità. «Un uomo che sdegnava le cariche di una corrotta Repubblica, dove tutti erano divorati dall’ambizione di ottenerle; un uomo che non domandava nulla, mentre gli altri cospiravano a tutto; quantunque non avesse imitatori non poteva però mancare d’ammiratori… Signorili maniere, costumi soavi, animo cortese, una certa dolcezza d’aspetto che non era senza severità, una certa piacevolezza di discorso che non era senza dignità facevano trovare nella conversazione di Attico il più gentile Cavaliere di tutta Roma. Egli aveva nel suo discorso e nella sua vita, come disse Cicerone, quell’unione tanto difficile della gravità e dell’umanità. Semplice, affabile, nimico di ogni finzione, insofferente di ogni falsità, religioso osservatore di ogni promessa, sempre uguale a se stesso, uomo di tutt’i tempi, di tutt’i luoghi e con tutte le persone, aveva sempre la stima e l’amore di tutte.» Così ci descrive egli il suo eroe; e questa maniera di pensare e di scrivere osavano deridere e insultare alcuni sgraziati gazzettieri, de’ quali può dirsi quel tratto che il Sig. Frisi pose appunto nello stesso elogio, cioè che «l’entusiasmo pel merito altrui è stato sempre la misura del merito proprio, come l’indifferenza, e più ancor l’avversione per gli uomini grandi è stata sempre il contrassegno di un animo basso e volgare». La grazia e l’energia dello stile non dee collocarsi «nel falso brio delle antitesi o nell’intreccio delle parole ricercate e ampollose; il discorso riceve un vero splendore dall’ordine, dalla grandezza, dalla semplicità delle idee e dalla nobiltà e naturalezza delle espressioni». Così insegnava e così scriveva l’immortale nostro Concittadino. In quell’Elogio di Attico l’autore vi trasfuse i sentimenti del suo cuore. Parlandovi della famiglia di Attico ei dice: «Nella sua famiglia seppe gustare que’ dolci sentimenti che sono inspirati dalla parentela e dal sangue: sentimenti che il cattivo costume e la stravolta educazione giungono molte volte a sopprimere, ma che per gli uomini buoni e virtuosi influiscono più da vicino e più continuamente nella giocondità della vita». Così ei visse appunto nella sua famiglia il nostro ottimo Abate Frisi; e forse alla decadenza di sua salute contribuì molto il vedersi negli ultimi sei anni perire la madre, un fratello e due sorelle. Vi si conosce la pratica morale dell’autore generoso, benefico e misuratissimo quale egli fu sempre. «Il lusso poi – dice egli – e l’eccesso delle spese voluttuose e superflue toglie molte volte, o rende più difficili i mezzi della generosità e della beneficenza. Le facoltà per quanto siano abbondanti hanno un limite, e la liberalità ha sempre per base una saggia economia.» Questa era una massima intrinsecamente riposta nel di lui animo, e con essa, quantunque assai circoscritta fosse la di lui fortuna, ei seppe essere benefico e liberale costantemente. In quell’Elogio di Attico vi si osservano de’ tratti i quali sono una conseguenza di lunghi ragionamenti. Le virtù grandi e robuste obbligano ad un certo rispetto anche gli uomini facinorosi, e altrove: Nelle cose civili e politiche succede come nelle fisiche, che il moto impresso continui per molto tempo. Raccontando come gli Ateniesi in segno di riconoscenza innalzassero a Pomponio delle statue, così riflette: «Erano questi gli onori pubblici che anticamente si tributavano al merito e alla virtù. Gli antichi esempi sono stati nobilmente imitati a’ giorni nostri, non solo di là da’ monti, ma ancora nelle più colte Città d’Italia, e senza aspettare di spargere sulle tombe de’ freddi elogi hanno saputo onorare con monumenti pubblici la vita de’ nazionali e degli esteri, che le avevano o difese o beneficate o istruite. È stato sempre del comune interesse di avere nello stesso tempo connesse le testimonianze della riconoscenza a quelle del merito, e di scuotere cogli esempi presenti l’indifferenza per la virtù.» Questo pezzo è un ricordo per la nostra Patria, in cui i Cittadini che l’hanno distintamente onorata non hanno ottenuto alcuno di que’ solenni contrassegni d’onore, che vedonsi nelle sale pubbliche di molte altre Città d’Italia e singolarmente nella Terra ferma Veneta. In fatti noi non abbiamo verun monumento in onore di Tristano Calco o di Bernardino Corio, che ci hanno scritta la Storia della Patria. Nessuna memoria si è eretta per pubblico decreto al laborioso e benemerito nostro Sig. Conte Giorgio Giulini. Lo stesso dicasi del Cavalieri, del Cardano, di Lodovico Settala e di altri. Il vivente Sig. Primicerio Lupi a Bergamo attualmente gode l’onore che la sua Patria, da esso illustrata, gli ha fatto scolpire il busto per pubblico decreto. Da noi non v’è corona alcuna che la Patria destini a’ figli suoi. Forse ciò nacque dalla breve durata delle nostre municipali magistrature; fors’anco nasce dall’essere noi Cittadini d’una popolosa Città, dove ciascuno è una piccola frazione del tutto e quindi meno partecipa della gloria distribuita sopra di una vasta estensione; forse la fisica del clima o la impressione de’ passati governi, le conseguenze de’ quali si perpetuano per molte generazioni, sono i veri motivi di questa viziosa indifferenza. Voglia il buon destino ch’ella cessi una volta e che le iscrizioni, i busti, le medaglie, i pubblici onori ricordino Agnesi, Frisi, Beccaria ed altri degni della gratitudine della Patria che hanno illustrata.

L’Elogio dell’Augusta MARIA TERESA, sebbene tratti un argomento sul quale altri uomini di merito distinto hanno scritto, non si confonde perciò col numero. Il valoroso P. Turchi da un tal soggetto ne ha tratta una morale utilissima istruzione per i sovrani, piena di verità e di sentimento e scritta colla nobile semplicità sua propria. Il Sig. Abate Frisi ha fatto un epilogo della storia de’ quarant’anni del regno di quella immortal Sovrana; ed ha maestrevolmente poste in luce le azioni principali e i punti precisi di convergenza, d’onde ne risultano i cambiamenti felici delle opinioni, l’abbandono degli antichi errori, la fermentazione e reviviscenza dei corpi che si andavano sciogliendo nell’inerzia, la coltura, la ragione, la virtù richiamate, accolte e protette, la fortunata rivoluzione in somma preparata ed in parte eseguita sotto di quell’Augusta. Beneficato da lei, ricondotto nella Patria sotto i Sovrani auspicj ed al Reale stipendio, l’Abate Frisi volle essere grato alla benefatrice Sovrana, come sempre lo fu verso chiunque. In quell’Elogio sembra lo stile del nostro Sig. Frisi ancora più eloquente e vibrato. «Disgraziato colui che ha bisogno di precetti per essere veritiero, buono, sensibile ai mali altrui, che ha bisogno d’essere accompagnato sempre dal maestro per conoscere e per ragionare!» Così egli. «Il Vincitore di Zenta, di Torino, e di Hochstedt, il Principe Eugenio di Savoja, nella maggiore oscurità della notte e della nebbia attaccò l’armata Ottomana, la superò, la disfece, e non vide dissiparsi la nebbia e spargersi i primi raggi del Sole che dalla tenda del Visir fuggitivo.» Con questo bel quadro ei ci rappresenta la vittoria di Belgrado del 1717, e il Principe Eugenio medesimo viene altrove effigiato così: «uomo ugualmente grande nel far la guerra e nel trattar la pace; generale insieme e soldato nella sua armata; uomo di Stato nel gabinetto; nella sua biblioteca un filosofo, il collega di Malbourough, l’amico di Leibnitz e di Montesqieu» ecc. Merita d’essere trascritto quel vibrato periodo in cui dipinge il Maresciallo di Bellisle che supera l’avversione del Cardinale di Fleuri per la guerra. «Un uomo d’una vasta ambizione, di una seducente eloquenza e, come fu detto di Britannico, di una fama maggiore degli esperimenti fatti per meritarla, il Maresciallo di Bellisle superò facilmente le opposizioni di un Ministro debole e inconseguente, e trovò in suo favore un’abitudine già inveterata della nazion Francese di riguardare la Casa d’Austria come nemica.» Questo è lo stile che osavano di chiamar freddo e stentato alcuni insensati parolai, e saremmo assai più onorati presso degli esteri se ce lo proponessero per modello; sebbene la eloquenza di questo genere non s’insegna, nè s’impara giammai, soltanto si rende più decorosa coll’ajuto di buoni precetti. D’una tempra uguale è il tratto che ci rappresenta il primo Ministro di Francia, il vecchio cardinale di Fleuri. «L’umanità e la filosofia tra le principali disgrazie del nostro secolo conterà sempre, e compiangerà che una sì florida armata, tanti generosi campioni, tanti buoni cittadini… siano stati la vittima di un Ministro ecclesiastico, che ebbe bensì il candore di disapprovare in iscritto le risoluzioni già prese dalla sua Corte, ma che infievolito dagli anni non ebbe bastante coraggio da opporvisi, nè un’anima abbastanza grande per ritirarsi dallo strepito degli affari e coronare di una gloria pacifica i pochi giorni di vita che gli restavano.» La filosofia anima lo stile in quest’elogio singolarmente: «quella che il volgo chiama fortuna», dice il Sig. Abate Frisi, «quella che i Poeti cercano di raffigurare colla volubilità d’una ruota e di una donna, agli occhi del filosofo non è altro che una combinazione di cause morali e fisiche, per cui deve risultare indispensabilmente un effetto dato». Ei da filosofo tratta gli oggetti di Stato. Descrive la rivoluzione di Genova indicando le cagioni di tal politico avvenimento. «Quanto sono ingiusti coloro – dic’egli – che da un ristretto orizonte, dall’angolo di una casa che non sanno ben regolare, alzano lo sguardo loro sul Trono, decidono degli oggetti che non possono abbastanza distinguere, e misurano le più grandi e salutari operazioni dai particolari difetti che accompagnano sempre le cose umane, e dai quali non si può mai sciogliere interamente il bene universale!» Così egli. Troppo converrebbe trascrivere se volessi indicare i tratti dell’Elogio di MARIA TERESA, che più mi sembrano degni di osservazione; lo è tutto, e tutto collima a far conoscere lo spirito del benefico regno di tale Sovrana. Anche in quest’elogio egli trova occasione di ricordare l’infelice condizione degli uomini che più onorarono l’Italia col loro ingegno; il Borelli mendico, Francesco d’Ascoli bruciato vivo, Pietro d’Abano bruciato in effigie, Machiavello torturato, Sarpi assassinato, Tasso e Galileo posti in prigione, Giannone morto in carcere, gli altri esposti alla invida maldicenza, alla insolente rivalità ecc. Anche in quest’elogio non dimentica i Gesuiti. «L’anno 1773 fu doppiamente fausto alle lettere. Fu allora sciolto quell’ordine di persone che, non avendo nei loro studj oltrepassata la mediocrità letteraria, avevano sempre avuto la parte principale nelle molestie date a coloro che maggiormente si distinguevano.» Se queste memorie che scrivo passeranno alle generazioni venture (il che accaderà fors’anco pel merito dell’argomento) dovranno maravigliarsi i lettori come ai tempi nostri siasi potuto spargere nella moltitudine il discredito e sulla scienza di questo grand’uomo, e sul talento di lui nell’arte di scrivere. Questa maraviglia sarà utilissima; poichè potrà dar lena e coraggio singolarmente ai giovani d’ingegno più elevato, e persuaderli che appunto tai grida sono il contrassegno del vero merito; laddove i facili applausi comunemente accordati lo sono della letteraria mediocrità. Volesse il cielo che i posteri, sensibili ai progressi delle umane cognizioni ed alla gloria nazionale; grati a chi gli ammaestra, e contribuisce a sì nobili oggetti; sentendo d’onorare se medesimi onorando la virtù, potessero trovare inverosimile il mio racconto! Sarebbe questo il solo caso in cui avrei piacere che si sospettasse della mia veracità.

Aveva viaggiato prima l’Italia, poi la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda, la Germania, e l’Ungheria il nostro Sig. Frisi; restavagli da osservare una parte a noi vicina e meritevole d’osservazioni politiche e fisiche, cioè il paese degli Svizzeri. Ei volle esaminarlo, e nell’autunno del 1778 vi fece un giro, di cui ce ne rimangono le conseguenze nella memoria dei fiumi sotterranei, ch’egli stampò insieme ad altri opuscoli, dedicandoli al Principe Augusto di Saxe Gotha, uno de’ più distinti e generosi ammiratori del nostro Sig. Frisi. Questi opuscoli dispiacquero ad alcuni, perchè vi si combattono le opinioni delle influenze meteorologiche della Luna e del calor centrale della Terra; dispiacquero altresì a quei, ch’ei chiama osservatori empirici, perchè sprovveduti della necessaria teoria, si avventurano con qualche fisico stromento alla mano a calcolare le altezze de’ monti, fidandosi a due soli punti d’osservazione. Dobbiamo essere riconoscenti al nostro Filosofo anche per questo, ch’egli sin che visse proccurò d’allontanare quanto potè le opinioni dannose, e rispettò sempre se stesso e gli avversarj non nominando alcuno, e sempre propagando la verità co’ que’ nobili mezzi e con quella pacata maniera, che le convengono.12

Ho già disopra accennato il trattato d’Algebra, ch’ei compose tutto di pianta dopo che s’era voluto spargere la voce che la malattia avesse infievolite le forze della sua mente. Non si poteva smentire l’invidia con un mezzo più vittorioso di quello. Il trattato comparve alla luce colle stampe del Galeazzi in Milano l’anno 1782 e portò