Libro di Teresa

Pietro Verri
LIBRO DI TERESA VERRI [1777-1784]

Testo critico stabilito da Gennaro Barbarisi (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, V, 2003, pp. 271-432)

Manoscritto da leggersi dalla mia cara figlia Teresa Verri per cui sola lo scrissi ne’ mesi di Settembre e Ottobre 1781
contiene
Le notizie intorno la vita, i costumi e la morte della mia adorata moglie e di lei Madre alle quali vanno unite alcune carte apparte­nenti e l’inventario d’ogni cosa lasciata dalla mia povera Maria.

Se avrò vita consegnerò a Teresa e questo libro e tutte le cose lasciate dalla Maria; se io terminerò i miei giorni prima che la figlia passata la pubertà sia in istato di valutare gl’interessi e i sentimenti, io prego uno de’ miei fratelli (mi posso fidare della religione di cia­scuno de’ tre) di fare quello che avrei fatto io, e non permettere che alcun occhio profano esamini uno scritto che è nato da sentimenti sacri e teneri e non è fatto per altri che per Teresa.

Vi sono in seguito le memorie della fanciullezza di Teresa sino all’età di cinque anni quali le ho scritte di volta in volta. E per fine alcuni avvertimenti alla mia Teresa per norma sua scritti parte l’an­no 1777, e parte l’anno 1781.

Notizie intorno la vita, i costumi e la morte di vostra madre.

Serve a me di qualche consolazione, Teresina, mia cara figlia, l’occuparmi nello scrivere cose attinenti la mia cara Maria, e serve a me pure di dolce impiego quello che un giorno sarà caro a voi. Sono quattro mesi da che Maria non è più, e sin ora non ho potuto reg­gere a nessun lavoro per piccolo ch’ei fosse; il primo Tomo della mia Storia Patria, al quale non mancherebbe che il leggero ultimo ritoc­co eseguibile in due settimane, quel lavoro che per lo passato mi occupava genialmente, ora mi annoja e non l’ho veduto da più di sei mesi. Una perdita così grande e irreparabile non lascia luogo a soc­corso, le lettere sono ineficaci, non v’è che il tempo che incallisce e insensibilmente ci riconduce all’essere di prima. Proverò adunque se una occupazione analoga ai sentimenti che mi dominano possa essere adattata a ricondurmi all’abitudine del lavoro.

La mia Maria nacque l’anno 1753 il giorno 22 Dicembre.[1] Don Ottavio Castiglioni di lei Padre, uomo niente cattivo, ma reso imbe­cille dal frate Branda Barnabita, temeva che il demonio lo tentasse anche sotto la figura delle proprie figlie, e la Maria, che era bella sin­golarmente, non ebbe forse mai un bacio dal padre, che fuggiva da lei e dalle altre sorelle. La Madre di Maria era mia sorella Teresa, anch’essa adetta a certa spiritualità che, facendo consistere la virtù nel soffocare gli affetti, rende inoperosi i più cari e dolci sentimenti di natura scolpiti dalla stessa divinità nel nostro cuore. Così Maria venne confidata alla educazione delle cameriere, e fortunatamente furono buone creature.

Da bambina era già una bella e amabile figura, piuttosto gracile e delicata, ma sana però, e trattone il vajuolo non ebbe mai più da figlia malattia alcuna di pericolo, anzi il vajuolo istesso fu molto benigno, e tale da dubitare se fosse vero vajuolo. In età assai tenera, cioè circa ai sette anni, rimase priva del padre, e un anno dopo per­dette la madre, restando così la Maria all’età di otto anni in potere del Senatore Alessandro Castiglioni suo Avo.[2] Fu posta nel mona­stero di Santa Catterina alla Chiusa, dove eravi monaca una figlia del Senatore, e seco eranvi le altre due sorelle, la Barbarina di lei mag­giore che si fece poi monaca in S. Agostino Nero, e la Francesca di lei minore che sposò il Conte Galeazzo Visconti. Ella visse in quel Monastero da nove anni circa facendosi ben volere da tutta la comu­nità per la saviezza, prudenza, e grazia singolare al suo carattere, ma la vita monastica non le piacque mai, nè quello stato di prigionia potè mai essere indifferente a lei, che anzi lo sopportava a stento. Maria non aveva una immaginazione accesa nè una maniera violen­ta di sentire: ella aveva idee placide ma chiare, nè facilmente perciò poteva essere sedotta o incamminata al fanatismo. Lontana da ogni genere di pazzia, docile alla ragione, ella comprese che la maggior parte delle monache sono mal contente, che abdicare la libertà e giurare di stare in un carcere non è un buon partito, e, quantunque nella Casa Castiglioni non vi fosse esempio che alcuna delle molte zie e prozie si fosse maritata, tranquillamente rispose alle molte istanze del vecchio Senatore, nè mai diede lusinga di volersi mona­care. Morì il Senatore, credo, l’anno 1771,[3] e lasciò la tutela de’ nipo­ti a mio Padre. Maria aveva diciotto anni e fu levata dal Monastero di Santa Catterina alla Chiusa e collocata in casa nostra sotto la inspezione di mia Madre.

Se vi dovessi dipingere lo stato in cui si trovò la Maria in questo passaggio, dovrei dilungarmi troppo. Maria, giovine prudente ma ingenua, avvezza a vivere con buonissime donne quali erano le monache delle quali ha sempre conservata amicizia, si ritrovò nelle mani d’una Ava che, godendo d’una salute invidiabile e d’un robustissimo temperamento, ha passata la massima parte della sua vita a letto con immaginarie malattie, d’una donna violenta e capricciosa che decide di ogni scienza senza saper nulla, che smania di coman­dare e diriggere tutto, non soffre Teologi se non adulino le di lei opi­nioni, non soffre medici se non affermino quanto le piace: niente delicata nella scelta de’ mezzi per dilatare il suo impero, che è la sovrana passione in lei, si scaglia con tale energia da non valutare persino il ridicolo; la ambizione di quest’Ava di Maria è dominare anche sopra i pensieri, onde ogni opinione diversa che avesse la nipote sarebbe stata ribellione, e ogni pensiero celato sarebbe stato sospetto di ribellione alla monarchia universale pretesa. Tale era il carattere di mia Madre, col quale avendo soggiogato il marito s’era resa la tiranna della famiglia. La buona Maria, sempre pacata e ragionevole, il di cui buon naturale non operava mai a scosse ma con moto dolce e uniforme, si trovò all’età di deciotto anni trasportata in questa imbarazzante situazione e dipendente da quest’Ava, cir­condata da cameriere destinate a spiare ogni di lei atto, e ridotta a vivere presso del letto di questa finta ammalata in società di alcune vecchie o stupide o maldicenti che formavano la conversazione di lei. Maria si rinserrò in se medesima cautamente operando e sobria­mente parlando; la grazia, la modestia, la placida serenità del suo bel volto, un non so che di nobile e dignitoso, che ella naturalmente aveva in tutta la persona e ne’ suoi modi, fecero nascere un senti­mento di riguardo verso di lei, in vece della stima che non possono sentire se non le anime che la meritano. Maria da mio Padre e da mio zio era considerata come una buona giovine, ma di poco spiri­to; da mia Madre era definita per una buona giovine che aveva del­l’ingegno, ma troppo riservata e poco fervida nella Religione. Da tutto il rimanente della familia era onorata, e ammirata per la prudenza, modestia e giudizio, non meno che per la graziosa e nobile maniera che adoperava generalmente mostrandosi gioconda e felice nel mentre che menava un genere di vita il più tristo e mesto che potesse capitare a una giovine.

Maria aveva un naturale felice, niente in lei si faceva per impeto o scossa, forse l’organizazione era la base di questa prudenza. Le virtù non sono mai tanto sicure quanto appoggiate a simile fonda­mento. Nella sezione che si fece di lei se le trovò il cuore piccolo, e conseguentemente pare che il gorgo di sangue da lui spinto dovesse essere piccolo, e a proporzione niente violenti i moti della di lei organizazione. Ella non aveva nè timori grandi, nè voglie violenti, nè passioni che la agitassero, si equilibrava cautamente colle persone alle quali aveva a fare, e, poco inquieta sull’avenire, niente sedotta dalla imaginazione, cercava di passare in pace e tranquillità un gior­no dopo l’altro,[4] e usava cortesia, discrezione e buone maniere con ciascuno, per modo che dal primo all’ultimo di casa sino al più infimo mozzo di stalla s’era guadagnata la benevolenza. La calma del di lei animo e l’assenza o almeno la poca forza delle passioni in lei lasciavano il di lei ingegno sempre disposto a conoscere la verità, e conosciuta ch’ella era non si lasciava affascinare da verun genere di seduzione. Ella conosceva benissimo il carattere delle persone colle quali viveva, e non mutava opinione nè per cortesie che ricevesse né per mancanze di esse. Maria aveva una mirabile chiarezza di idee e pareva che l’anima di lei vivesse in una sfera serena e tranquilla, senza orgoglio, senza ambizione, ma nobile, decorosa, circospetta e dotata d’una fisonomia fina e bella, d’un portamento gentile, faceva nascere rispetto e stima in chiunque la vedeva e trattava. Un aman­te l’avrebbe trovata fredda, ma discreta e buona; ma un libertino non avrebbe ardito di pensare nemmeno a sedurla, per quanto fosse amabile e bella, perchè da tutte le di lei maniere spirava modestia e una virtù tanto più sicura quanto che compariva impastata col carat­tere suo e senza studio nemmeno di porla in veduta.

Questa organizazione felice preservava Maria da ogni disordine e dalle malattie. Se eccettuiamo il caffè, ch’ella amava, nel restante nessuna voglia la seduceva a pregiudicarsi. In fatti da figlia ella non ebbe altri incomodi fuori che della abbondanza ne’ suoi corsi, e della stitichezza, abituale condizione la quale alcuna volta la ridusse a dolori e a qualche febbre. Fuori di questo ella non aveva segno alcuno onde si potesse antivedere così breve il corso della sua vita, come pur troppo accadde. Non magrezza, non pallore, non collo lungo, non angustia di respiro; ella anzi era benissimo colorita e tanto bene che le sue tinte parevano d’una Inglese anzi che Italiana; in bocca denti sani; una traspirazione dolce, un bel seno, e tutte le sue membra ben polpute con elegantissima proporzione. Tale era l’anima e tale era il corpo della nostra Maria, dico nostra, perchè voi, cara Teresa, quando sarete capace d’intendere quello che ora scrivo per voi, l’amerete e pretenderete che non sia tutta mia.

Di più partiti si trattò per darle marito, ed io portai la parola, impegnato a farlo, pel Conte Galeazzo Visconti che sposò poi la Francesca sorella minore di Maria; tutti i progetti andarono a vuoto, e non era l’ultimo ostacolo da superare l’impeto dispotico di mia Madre che disgustava dal trattare, quantunque la figlia per la sua illustre nascita, per l’ottimo concetto in cui furono i suoi parenti, per la bellezza e grazia della sua figura, per la saviezza del suo carattere, e per la dote di venti mila scudi fosse in condizioni tali da ottenere un collocamento più sollecito. Fu mia fortuna che le cose dilungas­sero così, per darmi tempo a superare gli ostacoli che trovava a prendere una moglie. Questi ostacoli erano primieramente una cat­tiva opinione che aveva delle donne, le quali, ottenuto che abbiano un marito, per lo più si fanno uno studio di ingannarlo, lo guardano come un custode incomodo e da temersi; secondariamente, la incer­tezza e la oscurità in cui mi trovava rispetto al mio stato domestico a venire, ignorando io totalmente se dovessi possedere bastante­mente per mantenere una moglie e de’ figli senza inquietudine; in terzo luogo l’umore della Madre, la maniera di pensare di mio Padre e di mio zio, minuti, interessati, difficili, e che nemmeno mostra­vano la voglia ch’io prendessi una moglie, sebbene avessi già com­piuto l’anno quarantasettesimo di mia vita e mio Padre avesse già compiuto l’ottantaduesimo; per ultimo, essendo così stravaganti i cervelli de’ vecchi di casa, prevedeva le scene e le impensate strava­ganze che sarebbero nate e mi sgomentava l’affrontarle. Ma una combinazione di circostanze si unì e mi pose al cimento di superare tutto ciò. Una amica di più anni, che aveva amata con passione e che aveva messa molto a prova la mia pazienza, per azardo aveva cambiato treno di vita e s’era posta a soggiornare buona parte del­l’anno alla campagna. Il mio cuore cominciava a provare bisogno di amare qualche altra creatura; l’età mia e l’impiego non consentiva­no che cominciassi una nuova galanteria; non v’era altra scelta che o vivere isolato o prendere una moglie. Qualche cenno proferito da un amico di casa e riferitomi mi indicava che se avessi pensato a spo­sare la Marietta avrei data la consolazione a tutta la famiglia. La bella figura di Maria mi piaceva, e molto più mi piaceva il provato suo buon carattere che, già da cinque anni esercitato sotto i miei occhi in casa mia, l’aveva resa amata e venerata a tutti i domestici, e ben voluta da quanti la conoscevano. Io non la vedeva che rare volte, perchè pranzava da me solo per le occupazioni mie nella Finanza; io nemmeno aveva mai con lei fatto un discorso; ma, dalla opinione generale e da quello che vedeva, ne aveva abbastanza per essere sicuro che sarebbe stata una buona moglie e che avrei potuto amarla senza inquietudine. Pareva assai verosimile che mia madre non potesse desiderare d’aver per nuora altra che Maria, allevata e dipendente da lei come una figlia, di cui conosceva il carattere dolce e subordinato, e che nessuna sposa potesse meglio piacere a mio Padre e a mio zio quanto essa che, tanto strettamente unita a noi per sangue, non esiggeva le pompe e le spese che si fanno per soddisfa­re alla convenienza d’una estranea famiglia che si unisce a noi per un matrimonio. Una serie di amarezze che aveva prevedute parevami svanita in parte. Un’altra serie di accidenti disgustosi che aveva sof­ferti nella mia carriera ministeriale m’avevano finalmente disingan­nato sul proposito del ben pubblico e del bene del servigio sovrano, chimera che mi aveva sedotto sino all’entusiasmo e quasi sino al martirio. Svanite in tal modo le illusioni, giunto all’età, siccome dissi, di quarantasette anni avendo un cuore che sentiva il bisogno di una occupazione da chiudere il vano lasciato dalla ambizione e dalla galanteria, il matrimonio colla Maria mi si presentò come un partito ragionevole, e la dolce compagnia di lei e de’ bambini, che dovessero un giorno la loro vita alla cara nostra unione e la vita ancora più pregevole d’una sincera e amorosa educazione ai senti­menti della naturale benevolenza nostra, mi solleticavano l’anima con una ridente speranza d’un placido e fortunato avenire. Felice me, se una insidiosa malattia non avesse lentamente guastata l’organizazione di quella adorabile creatura prima che me ne accorgessi, onde il riparo si ricercò a danno già deciso.

Stava occupato da tai pensieri nell’estate dell’anno 1775. Per vivere qualche ora colla Maria, io le passava contro il mio solito a tener compagnia dopo il pranzo a mia Madre. I discorsi per lo più non erano diretti a Maria; ella nemmeno credeva fatta per lei questa insolita attenzione, tanto era lontana dal credere secondi fini, tanto era modesta nel giudicare di se medesima. Dopo qualche tempo e dopo molti pensieri mi determinai a tenere la strada la più nobile e la più virtuosa che mi venisse alla mente, e malgrado gli antichi motivi pe’ quali io viveva riservatissimo colla Madre, pensai di sor­passare ogni triste memoria, di operare con candore e con rispetto con lei, sperando ch’ella, vedendosi trattata come una Madre amo­rosa, si determinasse a comparir tale e in ogni evento poi, sicuro che la virtù non lascia mai il pentimento dietro di sè. Mi determinai dun­que, prima di lasciarmi intendere da Maria o da qualunque, di aprir­mi con mia Madre e le feci il discorso presso poco in questi termi­ni: «Sono stato per qualche tempo in dubio s’io le dovessi o no manifestare delle idee tuttora imature e incerte, e se dovessi farlo immediatamente ovvero scegliendo un comune confidente, ma sic­come queste idee sono assai interessanti e per me e per lei e che potrebbero diventare di inquietudine, qualora incautamente dome­sticate costassero pena a cambiarsi, ho creduto di parlarlene io medesimo, e parlarlene nel tempo in cui io stesso indeciso e padro­ne indifferente del mio partito posso scacciarle senza infelicità, qua­lora dal nostro discorso trovi motivo di così fare, ovvero secondarle senza inquietudine d’incontrare il pentimento dappoi. Non temo di mostrarmi a una buona Madre tale quale sono e iresoluto e forse volubile; la prevengo che forse, dopo d’avere oggi fra di noi conclu­so per il sì, forse domani ne sono pentito e mi determino per l’op­posto. Il punto è serio per me e, sin tanto che non ho esposto impe­gno con altri, mi riserbo la libertà di cambiare opinione. Ella vede che sono ad una età in cui o conviene che rinunzi per sempre alle nozze, ovvero che più non diferisca a incontrarle, per non mettere al mondo de’ figli da abbandonare senza educazione e condannare una giovine alla triste compagnia d’un vecchio. La Maria mi compare adattata alla Casa e al mio umore; ma nè io ho mai veramente trattato con lei nè so come ella pensi. Vorrei sapere da lei se primiera­mente crede che Maria sia buona e sincera siccome compare; se vi sia da promettersi che continui ad essere tale dopo maritata. Poi sarà da sapere se la mia età, la mia figura e il mio modo di pensare con­vengano a Maria, in modo che possa lusingarmi ch’ella potesse amare in me un marito. Finalmente, se Maria sarebbe una nuora ovvero una figlia che fosse veramente di suo genio e che potesse stringere la cordialità domestica. Prima di rispondermi, si ricordi che io non ho passione, che mi sono determinato a parlarlene ap­punto a cosa vergine e incerta; che non mi costerà la menoma pena l’abbandonare questa idea nota a me solo, e da buona madre mi dica quello che crede conveniente alla mia pace, alla pace domesti­ca, alla di lei soddisfazione, poiché ella, che ha nelle mani Maria da cinque anni, la deve conoscere». Questa nobile e cordiale apertura di cuore ebbe in riscontro che dovessi far fare delle orazioni per­chè Dio m’illuminasse, che della figlia non ne poteva dire che bene, fuori che era un po’ languida e fredda nelle cose spirituali, e che per lei sarebbe contentissima di vederla sua nuora. La fredda e com­passata risposta, e molto più poi le difficoltà che si posero poi in campo, mi diede a conoscere che non v’era nulla da contare sul cuore di mia madre, la quale non amava d’essere suocera nemmeno di Maria. Posi il pensiero da parte. Venne l’autunno del 1775 e con­tro il solito mi lasciai indurre a partire per la campagna con mio Padre e mio zio.

Quel medesimo amorevole di casa che aveva gettato da lontano i primi germi di questa idea, supponendo che una tale unione doves­se essere fausta alla concordia domestica, ottenne da mia Madre di condurre a pranzo a Biassono la Maria, il che fu per me una sorpre­sa molto piacevole e mi risvegliò i sopiti sentimenti. Questa annuenza di mia Madre parve che dovesse interamente cancellare l’opinio­ne ch’ella fosse contraria a queste nozze, o almeno teneva luogo di un pentimento e di una spinta per invitarmi a pensarvi di nuovo. Il confidarla all’amico stesso di casa che aveva dato il primo cenno sembrava autorizasse la prima di lui asserzione; la festa colla quale venne accolta da mio Padre e da mio zio parevano indizio d’un feli­ce concerto già formato per promovere questa unione. Io fui sensi­bile a sì graziosa visita, e l’incontro l’ebbi nel viale di contro la casa; mi accompagnai seco, la ricondussi a casa. Allora si vociferava che io fossi disegnato Consultore di Governo in luogo del defunto Conte Cristiani; le chiesi s’ella avrebbe desiderato che fossi pro­mosso a quella carica, e mi rispose ch’ella bramava quello che mi potesse far piacere e che non aveva bastante notizia di cose mini­steriali per giudicare se quella carica potesse produrre un tale effet­to. Ella fu sempre poi tanto lontana dal mischiarsi nelle cose d’ufficio, che nemmeno mostrò mai curiosità di saperne, se non per quanto potesse dare a me disturbo o quiete, nè mai brigò per rac­comandare alcuno agli impieghi, conoscendo quanto m’annojava la folla de’ petenti e delle raccomandazioni. Ivi a Biassono non finiva di ringraziare la Maria per così graziosa visita. Discendendo dalla scaletta vicina alla grande, presi un momento in cui non eravamo osservati e le baciai la mano non senza rossore e ripugnanza di lei. L’accompagnai a Monza, e da quel punto mi determinai a sposarla quand’ella vi aderisse.

Ritornato in città ne parlai io stesso a mia Madre, al Padre, allo zio,[5] e siccome non aveva comodo di parlare da solo a Maria, che era custodita da mia Madre con una così aperta diffidenza che era ridi­cola e certamente indecente e al carattere nobile e savio di Maria e alla probità mia, così presi a informarla con un biglietto dei miei sentimenti per poter conoscere cosa ella pensasse di me, se unica­mente mi amasse come un buono zio, ovvero se avessi da sperare qualche sentimento di più e presentarmi come sposo. Dai riscontri conobbi la mia fortuna. Marietta nella sua maniera da scrivermi mostrava una somma chiarezza d’idee, sentimenti affettuosi senza nulla di romanzo, frase originale e espressiva senza studio, in somma tutto spirava la bontà della sua anima. Da circa tre mesi rimasi nello stato di sposo, e non vi saprei esprimere, cara Teresa, le noje, e le angustie che ho sofferte in que’ tre mesi.[6] Nel fondo mia Madre non sapeva inghiottire la pillola d’avere in casa una nuora, e faceva di tutto per impedire che nemmeno i biglietti corressero fra di noi, e Marietta doveva scrivermi di notte per timore di sorpresa. L’angustia di cuore di mio zio non solamente non voleva piegarsi a caricare la casa domestica di qualche spesa di più, come conviene quando si fa un matrimonio, ma pensava a profittarne per accresce­re gli annuali avanzi, e in fatti vi riuscì, poiché, in compenso degli alimenti accresciuti colla spesa e colla cameriera, si liberò dal peso di mantenermi due livree e carrozza e cocchiere. Mio Padre, angu­stiato e dalla renitenza del fratello e dalle arti della moglie, non pre­sentava se non difficoltà e tristezza, mentre colle parole asserivano tutti la compiacenza che provavano per queste nozze. La mia casa pareva un funerale non solo ma un campo di insidie, spie, sospetti, sottomani, inquietudini d’ogni sorta e male grazie d’ogni qualità. Mio zio voleva collocarmi nelle stanze di contro alla porta di casa, e voleva accomodarle a suo gusto; si trattava l’affare mio come se io fossi un pupillo, dimenticando che aveva quarantasette anni, era Vice-Presidente e Consigliere di Stato, e che aveva nelle mie mani la finanza regia. Una condotta così indecente e ingiuriosa mi deter­minò finalmente a uscire di casa, prendere in affitto un apparta­mento, siccome feci, e, quando quest’atto non producesse l’effetto, ricorrere al Senato per un legale assegno, al qual partito mi consi­gliava il Reale Arciduca, persuaso della impossibilità di convivere in pace co’ vecchi di mia Casa.[7] Quando seppero il contratto di loca­zione da me fatto, finalmente si scossero i miei parenti, conoscendo che non poteva essere che con pubblico torto se ciò seguiva, per non essere il costume nostro come in altri paesi di separare di casa suo­cera e nuora. Mio Padre pose di mezzo il Conte Trotti nostro Cugino e gli offrì tremmila zecchini da esibirmi per le spese occor­renti a condizione che non mi separassi di casa. Nell’accomoda­mento poi si stabilì che io dovessi fare tutte le spese di nozze e che mio Padre mi avrebbe sborsati mille ottocento gigliati e che avrei spese venti mila lire della dote che sono gigliati mille treccento set­tanta nove, al che io mi sottoscrissi per evitare le infinite dispute che sarebbero nate al giorno sopra di ogni spesa, dovendo contrastare colla tenacità domestica e colla dispotica vanità di fare ogni cosa col loro gusto, disputa imprescindibile e interminabile, ammeno che non avessi voluto veder in pace gettare la spesa con pessimo gusto, per cose indecenti e di meschina durata. Piegai alla circostanza e mi sottoscrissi a questa perdita. Nel 1778 io aveva già spesa questa somma con dippiù quattrocento gigliati miei, sebbene non avessi fatta alcuna gioja e nel rimanente avessi cercato che le stanze adobate riuscissero piuttosto solidamente eleganti anzi che pompose e magnifiche; mi mancavano i mobili, cioè letto, scranne, sopha ec.; tutto il parato era già a luogo, e colla mediazione del Sig.r Marchese Corrado Presidente del Senato ottenni il soccorso di quattrocento gigliati col quale ultimai decentemente le spese di nozze.[8] Tutti i conti e confessi li troverete, cara Teresina, distintamente registrati, ma in epilogo ora ve ne darò l’idea.

Ricevei da mio Padre nel 1776……………………………. Gigliati 1800
Dalla dote ne cavai……………………………………………. Gigliati 1379
Per ulteriore soccorso del Padre…………………………. Gigliati  400
Ricevei in tutto ………………………………………………… Gigliati 3579

La conversione è stata:

Abiti alla sposa…………………………………………………… Gigliati 536
Orologi e scattola………………………………………………… Gigl.ti   312
Onoranze…………………………………………………………… Gigl.ti     38
Carrozze e cavalli nuovi ………………………………………  Gigl.ti   363
Mobili delle stanze ……………………………………………..  Gigl.ti   402
Livree………………………………………………………………… Gigl.ti   300
Damaschi e carte dell’India………………………………….. Gigl.ti   413
Per la fabbrica al Falegname………………………………… Gigl.ti   590
Per la fabbrica ferramenti…………………………………….. Gigl.ti   217
Pitture………………………………………………………………… Gigl.ti     31
Capo Mastro ………………………………………………………  Gigl.ti   202
Specchi e vetri…………………………………………………….. Gigl.ti     44
Cammini di marmo e piastrelle…………………………….. Gigl.ti     43
Stuccatori …………………………………………………………..  Gigl.ti   133
Gabinetto del bagno…………………………………………….. Gigl.ti   147
Intagliatore in legno ……………………………………………  Gigl.ti    32
Dorature e vernici a olio……………………………………….. Gigl.ti  147
Mobili del palco in Teatro ……………………………………  Gigl.ti    24
Spese diverse………………………………………………………. Gigl.ti      8
Spese ultronee…………………………………………………….. Gigl.ti  188
Spesi in tutto……………………………………………………… Gigl.ti 4170

Ho scritto distintamente le due partite del gabinetto del bagno e delle spese ultronee, perchè, avendo io voluto fare i luoghi coll’ac­qua, per allontanare il pericolo che la moglie mi venisse a nausea o io a lei (giacché la mondezza e la coltura del corpo non meno che la bontà dell’animo conducono all’importantissimo fine dell’amor conjugale costante), mio Padre non mancò di spargere che io gettava tre mila scudi per un cesso, e ne ho spesi zecchini 147 e non più, e nel muro vi sarà piombo per il valore di più di sessanta zecchini, e in oltre con questa spesa ho dato il comodo dell’acqua alle cameriere, alla riposterìa, e a me quello del bagno che, senza quasi spendere, posso averlo in due ore di tempo, per il che io sono molto contento d’avere consacrati questi cento quarantasette zecchini piuttosto in questo perpetuo e giornaliero comodo anzi che comprando per mera vanità un diamante da portare sul dito. L’altra partita, che ho nominata spese ultronee e che mi è costata zecchini 188, comprende tutto quello che ho dovuto sborsare per la indiscrezione de’ miei parenti non solamente nel disimpegnarmi dall’affitto della casa, ma nel dover comprare letti, paglicci, materazzi, lenzuoli, e tutto quello che mi è occorso e per il parto di mia moglie e per il letto nuziale, giacchè, avendo la guardaroba di casa ripiena, non ho potuto servirmi di cosa alcuna, ma fui costretto a comprar tutto alla bottega come un fore­stiere, sebbene non mi fossi a ciò obbligato nel contratto.

Non bastava lo stabilire le spese di nozze, ma conveniva fissare un tanto annuo per mantenere me e la moglie e così evitare le tristissi­me brighe imprescindibili se avessi lasciato che le spese si facesse­ro dai vecchi di casa. Fu stabilito che a me restasse l’interesse delle cento mila lire di dote, che rimanevano stralciate le lire venti mila, e che mi si passassero annui gigliati quattrocento, restando liberata la Casa in tal modo dal mantenermi, come sino a quel giorno aveva fatto, cavalli, cocchiere e carrozza e due livree, cera, spezieria, bian­cheria ec., i quali oggetti di risparmio per la Casa ascendono verosi­milmente a £ 3500: dal che deriva che il vero sopracarico che venne alla Casa per le mie nozze fu non più di annue lire 2300, ossia annui gigliati 159, spesa tanto moderata che non saprei se vi fosse un altro esempio. A mio Padre la Casa pagò sempre, anche essendo vivo mio Avo e possedendo mio padre in proprio i beni di Ornago, spezieria, quattro cavalli, due cappe nere, quattro livree, due cocchieri e sei o sette donne di servigio, spesa certamente di gran lunga maggiore. Con questo tenuissimo sopracarico io mi addossai di pagare il salario a due cappe nere, alle donne, a quattro servitori, due lacchè, e due cocchieri. In oltre presi a mio carico il far le livree. Oltre ciò m’incaricai di mantenere quattro cavalli, rimontarli, e fare le spese corrispondenti per carrozze e selleria. Mi obbligai a pagare cento doppie di vestiario annuo alla Maria; presi a mio carico medici, spe­zieria, candele di cera, cioccolatte, caffè, agro di cedro, vestiario de’ figli, lavandaro, palco in teatro, infine tutto fuori che la tavola, il fuoco, e i lumi per i domestici. Dopo un contratto così lucroso per i vecchi di Casa, chi poteva credere mai che, venendo io depaupe­rato ne’ salarj colla grida monetaria del 1778 per annui gigliati ses­santa, avessi dovuto poi, oltre la mediazione del Senator Croce e del Presid.te Corrado, implorare quella del Reale Arciduca per ottenere cinquanta zecchini annui di compenso!

Ricapitoliamo adunque il fondo annuo assegnato:

Interessi delle £ 100 mila al 3.15……………………………. £ 3750
Quattrocento gigliati domestici……………………………… £ 5800
In tutto riceveva annue…………………………………………. £ 9550

la spesa annua per adequato de’ cinque anni che durò il matrimonio fu di £ 14337.12.7 come da conti e così venni a spendervi del mio annue lire 4787.12.7. Eccone il dettaglio:

Vestiario a Maria………………………………………………………. £ 2320
Vitto, compra de’ cavalli, carrozze………………………………. £ 2898.16. 8
Cioccolatte, cera, caffè, torce a vento……………………………. £ 1385. 8.11
Palco in teatro……………………………………………………………. £ 840.14.10
Salarj ………………………………………………………………………  £ 5703.16. 7
Lavandaja, abiti alla figlia, medici chirurghi e varie spese £ 1188.15. 6
                                                                                                      £ 14337.12. 6

spesa annua totale £ 14337.12.6. Questa spesa ascende a gigliati annui 988 crescenti, che ne’ cinque anni del matrimonio fanno la uscita di gigliati 4944 e, unita questa somma a quella delle spese di nozze, fanno la spesa totale di Gigliati 9123; e di questa spesa

la casa mi ha somministrati……………………………………. Gig.ti 4350
La dote di Maria in tutto………………………………………. Gigliati 2411
Del mio soldo vi ho spesi……………………………………… Gigliati 2362
                                                                                                 Gigliati 9123

e ciò basti, potendo voi, Teresina cara, conoscere più minutamente questi conti dai libri, avendovene io unicamente dato l’epilogo, per­chè forse vi servirà d’una idea per regolare la casa, allora sarete moglie. Ne’ cinque anni però dal 1776 al 1781 io non aveva in tutto di soldo che annui gigliati 952, e, consumandone per quest’impegno annui gigliati 472, me ne rimanevano 480 da mantenere il mio vestia­rio, da soccorrere Alessandro in Roma, da pagare libri, mance, carta, e quasi sempre ho vissuto in angustia di denaro. Ma ritorniamo al filo della storia.

Composte col mezzo del Conte Trotti queste cose, assegnatomi il denaro per le nozze, e l’annuo assegno, e così tolta di mezzo ogni occasione di querela per l’interesse, se ne formò una scrittura an­che coll’opera del Sig.r Presidente del Senato Marchese Corrado. Rimase a carico separato di mio Padre di pagare la dispensa al Papa per potere sposare mia nipote, e questa dispensa costò scudi Romani 1364, il che rivenne a gigliati seicento quaranta due, che mio Padre pagò al Banchiere Tanzi per la rimessa. Una cosa sola rimaneva da concludere prima di fare le nozze, e questa assai mi pre­meva, ed era quella di assicurare alla mia cara Marietta uno stato comodo e decente dopo la mia morte, quando mai fossi restato senza figli maschi. L’indole de’ vecchi di casa non mi lasciava tran­quillo, ed io, sebbene nemmeno vi pensasse ella, volli che questo fosse un preliminare indispensabile. Molti furono i contrasti: ella aveva ventitre anni, io ne contava quaranta sette compiuti, chi avrebbe mai potuto prevedere la mia disgrazia di dover sopravivere a lei? La cosa si accomodò con una lettera di mio zio al Conte Trotti in cui si obbligò col proprio a mantenerla nello stato medesimo in cui l’avrei tenuta io, e questa lettera fu poi inserita in un istromento rogato dal dottore e notaro Carlo Negri colla presenza del Senator Croce e del Conte Trotti. Fatto ciò, quantunque non avessi pronta nè la casa nè carrozze, nè livree, allestii unicamente il letto da due e la sposai nel giorno ventuno Febbraro del mille settecento settanta sei, avendo ella ventitre anni e tre mesi ed io anni quarantotto e mesi tre, poichè io nacqui l’anno 1728 al dodici Dicembre cioè venticinque anni e dieci giorni prima di Maria. La benedizione nuziale la diede mio zio nella Capella di casa verso il cadere del giorno; ed è notabile come mio Padre con replicate istanze pretendesse d’indurmi a comprar le quattro candele da accendere all’altare, dopo di avermi dato un cenno, la mattina in cui si celebrò il contratto coll’istromento, della mancia spettante alla sua anticamera. Mio zio mi ammonì a dare uno zecchino di mancia al suo ostiario, siccome feci. Tali furono le faci pronube che apprestarono i vecchi di casa, de’ quali nessuno fece il minimo donativo alla mia Maria, sebbene sia costume universale di farne e sebbene i miei fratelli, quantunque poveri figli di famiglia, lo abbiano fatto. La povera Maria, che por­tava venti mila scudi in dote e due mila in vestiti e biancheria della Casa Castiglioni, si trovò così mia moglie senza una gioia, senza un contrasegno della domestica compiacenza, ella che aveva sempre vissuto come una colomba docile e paziente nelle loro mani. Non mancava certamente di conoscere ed essere sensibile, ma virtuosa e moderata non manifestò nè in quella nè in altre molte occasioni che ebbe verun sentimento che tendesse ad animare domestica disensione. Era poco l’aver corredate queste nozze colla tristezza d’un funerale; la angustia di cuore domestica, la dispotica impazienza di mia Madre in vedersi suocera, la imbecille subordinazione di mio Padre alla instancabile azione di sua moglie preparavano sempre nuovi motivi di malcontentamento. Erano omai scorsi tre mesi dal matrimonio, senza che comparisse indizio di fecondità, il che bastò a mia Madre per gettare fralle sue vecchie confidenti la maligna novella che io non fossi robusto marito, calunnia dalla quale avrei dovuto essere esente dopo gli sviamenti miei cagionati dall’eccesso di temperamento. Così si vendicava l’implacabile donna contro chi gli aveva data una nuora, e la voce serpeggiò e non mancò di credi­to per essere uscita da persona tanto vicina e per la naturale indiffe­renza che allontana dal ragionare. Io ne fui sensibilissimo, perchè, sentendo tutta la malizia dell’insulto, mi vidi esposto sino al sempre incerto caso di una gravidanza a comparire uomo che avesse tradito una giovine, e che avesse fatto parlare della Casa per un fine pazzo e incoerente. Voi, cara Teresina, siete stata la mia liberatrice, e al quarto mese di matrimonio avete dato luogo a cominciar a smentire questa obbrobriosa ciarla. Maria restò incinta verso il principio di Giugno del 1776. La gravidanza fu felice, e nell’Autunno andavamo nella Platea del Collegio de’ nobili, di cui il teatro era ad uso pub­blico per essere abrucciato il Grande,[9] ed ivi ascoltavamo la Compagnia Francese e la Maria portava visibile la giustificazione mia. Venne il parto al suo termine, e voi nasceste alle venti ore del due di Marzo del 1777. Le minute circostanze le ho scritte allora separatamente, e voi le leggerete.

Dopo d’essersi sgravata, Maria perdette molto sangue e rimase debolissima per alcune settimane. Latte pochissimo ne comparve e non ebbe febbre alcuna. Rimase più di tre mesi senza essere gravi­da, il che nuovamente le accadde alla fine di Settembre del 1777. La sanità sua era, per quanto si conosceva dal colore e dalla carne pol­puta, buona, ella non pativa verun incomodo, e nell’Ottobre del 1777 passò alcuni giorni a Ornago con mio Padre, me, e voi. Ma ritorniamo un poco indietro per rappresentarvi come abbiamo pas­sato il primo anno della nostra unione. Maria, siccome ho scritto, era senza un diamante o una perla. Usciva di casa nel mio carrozzi­no prima che fosse fatta la sua carrozza, e così andavamo al Corso e dovunque. Non era alloggiata in modo da ricevere decentemente una visita, era servita da una sola cameriera, eppure Maria era con­tenta. Posi immediatamente mano alla fabbrica, e cominciai dalla stanza del mio ritiro e dal bagno, il che occupava lei e me. Comprai un cavallo, e la mattina cavalcava, il che mi giovò alla salute. Ebbimo alcuni inviti di pranzo per le nostre nozze e mi ricordo di quei del Marchese Pallavicini mio zio, del Conte Ignazio Caimi, del Conte Resta, e del Principe di Belgiojoso. Venne a Milano al 26 Giugno di quell’anno l’Arciduchessa Cristina, e Marietta le fece la sua corte anche senza gioie e fu bene accolta. Maria il 26 di Agosto, essendo Principe del Collegio de’ Nobili mio cognato di lei fratello Don Luigi, fece l’invito per l’accademia e fu mirabile il concorso delle dame, dove se ne contarono più di cento. Queste attenzioni e ri­guardi pubblici, la cognizione della pubblica disapprovazione in­contrata per gli ostacoli indiscretamente opposti alla nostra unione, la costante condotta di Maria che ogni giorno visitava la suocera con aria modesta e sommessa cautamente, conoscendola, la novità di vedere fabbricare in casa senza consultarli e portare la livrea de’ domestici indipendenti e salariati da me, tutta questa massa di cose avvilì i vecchi di Casa, i quali si posero a pranzare da loro, e mia Madre si pose a starsene quasi abitualmente nella sua camera, ben rare volte visitando la nuora, da cui era trattata come se fosse stata sua figlia.

Fralla Marietta e me vivevamo come due buone creature. Ella si adattò a tenere i conti e la cassa della nostra economia, il che segui­tò poi insino che visse a regolare così bene che non lasciò debito alcuno ed è tutto merito della nobile di lei prudenza se moderando con amicizia i miei fecondi capricci, e, lasciandone svanire la mag­gior parte colla sola dilazione senza contrasto, ella potè pagare seicento zecchini di più del ricevuto per le spese nuziali oltre le spese correnti di ogni anno, siccome vi ho detto. Non vi saprei spie­gare con quanto giudizio la cara Marietta pensava a tutto per fare a tempo e con vantaggio le compre, per custodire i mobili e le cose tutte, sì che non venissero a mancare, per risparmiare facendo uso delle cose che possedevamo, e ciò senza bassezza e senza indecenza. La Maria passava la mattina in queste occupazioni, scrivendo esat­tamente ogni spesa, tenendo in ordine le quittanze nel modo che vedrete ne’ libri. Ella però, benchè lasciata da me padrona di fare come credeva, e benchè sempre ringraziata da me per le cure sue, non mai si arbitrò di fare la minima spesa che non ne cercasse prima se lo approvava, la mia risposta era sempre la stessa di rico­noscenza anche per quest’atto, ma ella, lontana da ogni spirito di comando, sempre volle far la parte di mia compagna, destinata per assistermi e ajutarmi e non più. Le cose facili a custodirsi come cioccolatte, caffè, zucchero, acque d’odore e cera le teneva in sua imme­diata custodia, conservando memoria delle somministrazioni che andava facendo. Questa cura la occupava nella mattina. Tosto poi che fu madre, altre cure ancora più interessanti si aggiunsero, per vegliare sopra di voi indi sul fratel vostro Alessandro. Sul proposito della educazione ella non aveva che le idee volgari quando la sposai, indi insensibilmente adottò le mie e ne acquistò anche colla lettura d’alcuni libri che ne trattano. Anche de’ libri Maria faceva uso la mattina, per lo più mentre era fralle mani del parucchiere, e i libri ch’ella sopra tutti amava erano i drammatici, ha letto tutto il Goldoni, tutta la raccolta del Teatro Francese, e un altro genere di lettura ella amava, cioè i bei deliri della immaginazione orientale dei mille e un giorno, mille e una notte ec. Altra lettura più seria non la gustava, e certamente ciò sarebbe accaduto s’ella avesse avuto più lunga vita che non ebbe. Con tali occupazioni ella passava la matti­na in casa per lo più, non vedendo che alcuno de’ fratelli o qualche operajo o mercante. Io in quell’anno 1776 molto era occupato la mattina per la Finanza, poi in casa era occupato per diriggere la mia fabbrica, e siccome la mia stanza di studio non fu terminata se non in Novembre e tutto il rimanente era in fabbrica, così poco o nulla potei dare allo studio. La mattina appena alzato nella primavera e nella state di quel primo anno cavalcava, poi alla Finanza che mi occupava sino tardi, poi pranzava colla moglie e i due fratelli che se la passavano bene con me, e varie volte ci teneva compagnia il Conte Alfonso e il cadetto Luigi. Dopo pranzo usciva sempre colla mia Marietta e per lo più era con noi o uno o tutti due i di lei fratelli, e bene spesso l’Abate Frisi che ottenne da vestirsi da Abate nell’Aprile di quello stesso anno. Andavamo al Corso, poi al teatro, prima al Collegio de’ nobili, poi alla metà di Settembre si aprì il tea­tro a S. Gio. in Conca, dove io presi la quarta loggia alla sinistra seconda fila e regolarmente andavamo a passare la sera allo spettacolo, ed io stava immobile colla mia Marietta, divertendoci tutti e due. Il palco mi costò settanta zecchini di fitto oltre i mobili che vi dovetti fare. Io non permisi mai che Marietta pagasse del proprio la porta del teatro. Le amiche che Maria invitava più spesso erano la Marchesa Dugnani Terzaghi nostra cugina, la Contessa Terzaghi Caroelli pure nostra cugina, indi, quando all’autunno venne cavata dal Monastero di S. Agostino, la sorella D. Francesca ora Contessa Visconti la conduceva. Gli amici singolarmente erano il Conte Alessandro Sormani, i due Castiglioni, e Frisi. Il Consigliere Marco Greppi spesse volte pure veniva. Il Teatro allora rimase aperto all’opera buffa per due mesi sino alla metà di Novembre. In quell’Autunno Maria si incaricò di presentare la sposa Terzaghi e la condusse onorevolmente dovunque conveniva; il di lei matrimonio si celebrò alla fine di Novembre e durò appena quattro anni per la morte del Marchese Terzaghi. Chi ci avesse detto quando spesso eravamo noi due matrimonj in una carrozza bene assortiti e contenti nell’autunno del 1776: da qui a cinque anni sarete separati per sempre! Eravamo sani e pieni di vita!

In casa eravamo adunque come due famiglie separate, io non capitava mai a trovare i vecchi cagione di tanti disturbi, ma la Marietta sempre volle usare attenzione a mia Madre da cui fu allevata, io la lasciava operare come il suo animo le suggeriva. Ne’ primi tre mesi della gravidanza, cioè Giugno, Luglio e Agosto del 1776, ella patì vomito e nausea, indi il rimanente dell’autunno e dell’inverno visse benissimo. Già vi marcai che per quattro giorni fummo quell’autunno a Mozzate e furono i primi giorni di Novembre, ed ivi era D. Francesca cavata da S. Agostino. In quell’anno non uscimmo altrimenti dalla Città se non una corsa sola che femmo all’Opera di Pavia il 28 Maggio, avendo con noi il Conte Sormani e il Cav.re Giovanni mio fratello, e ritornammo a dormire a Milano. Questo è stato il moderatissimo treno di vita della vostra buona madre il primo anno delle sue nozze. Più vivevamo insieme e più ci affezionavamo l’uno all’altro, e più ci studiavamo di renderci reciprocamente amabili colla compiacenza, co’ servigi, e colla più delicata amicizia. Maria era già al sesto mese e quasi al settimo di sua gravidanza e nelle stanze cedute non v’era luogo per collocarvi chi doveva nascere e chi doveva averne cura. Questo pensiero pareva che dovesse nascere in mente d’alcuno de’ vecchi ma o non nasceva ovvero si disimulava. Alla occasione del parto conveniva far uso di molta biancheria da letto, io non aveva che la mia scorta ordinaria. Dovetti col mezzo del Senatore Croci far richiesta d’una stanza, dell’imprestito delle lenzuola che occorressero e d’un letto per collocar­vi la donna che servirebbe chi fosse nato. Un altro arrossirebbe che facesse bisogno di un mediatore per sì evidente ricerca. Mio Padre prese tempo a deliberare e non accordò che dopo molta dilazione e replicate istanze. Così si visse l’anno di grazia 1776. Monsignore mio zio di soppiatto venne a spiare gli stucchi delle mie volte e ne uscì ripetendo: «oibò, oibò». Si sparse che io faceva delle porte per le quali non si poteva passare se non a testa piegata. Tali erano gli uffici di consanguineità della Casa. La Marietta più virtuosa di me tace­va, mostrava placidezza, ma nel suo animo soffriva de’ vizi domesti­ci e conosceva la famiglia e il valore d’ogni individuo.

Venne il freddissimo inverno del 1777, e la gravidanza di Maria la fece dispensare dai balli di Corte che si tennero ancora in Casa Clerici, unicamente venne al ballo mascherato, il che le piacque. Noi menavamo lo stesso genere di vita, se non che io, poich’ebbi una stanza di ritiro, mi posi a travagliare e misi in ordine il mio libro sulla tortura e gli effetti suoi all’occasione della pestilenza di Milano del 1630, libro che non pubblicherò per non farmi inimi­co il Senato in nome del quale mio Padre ha fatto l’apologia della tortura. Nella quaresima vi furono nella Casa Molo delle accade­mie di musica a spese d’una società in cui vi ebbi parte, e Maria qualche volta vi andava. Maria nell’ultimo mese era assai grossa, e vi mise al mondo, dopo venticinque ore di dolori che veramente mi ferivano l’anima, il giorno due di Marzo del 1777. Quattordici ore dopo il parto ella aveva del latte; le minute circostanze di quell’epo­ca e di voi singolarmente non le ripeto, perchè le avrete separata­mente nelle annotazioni che scrissi allora. Fatto sta che Maria per­dette molto sangue, che dopo 17 giorni non aveva più latte e che rimase assai debole. Non potè ricevere visite perchè tutte le stanze erano ancora in disordine, però nemmeno ebbimo mai bisogno di chiamare un medico, e dopo il puerperio ricominciammo la sera a passarla al teatro di S. Gio. in Conca, dove la Compagnia Sacchi ci faceva ridere. Nella Processione del Santo Chiodo, che si fece il 3 Maggio al solito, vi fu la Reale Arciduchessa e vi fu la Maria al suo rango per compiacenza alla mia premura, giacché ella avrebbe volontieri fuggito ogni occasione di mostrarsi in pubblico. Sebbene Maria avesse quando la sposai bellissime tinte, pure il parto l’aveva impallidita, e mi ricordo che quella fu la prima occasione in cui le posi il rossetto, il che poi divenne quasi necessario negli ultimi anni di sua vita, ed è rimarchevole come ella sempre volesse che ciò si facesse da me, quasi volesse significarmi che non lo faceva che per piacermi.

In quest’anno del 1777 in quattro riprese passai colla Maria quasi un mese fuori di città. Il 20 di Maggio fummo a Limbiate co’ fratelli Castiglioni per alcuni giorni, io già aveva un avviso da Vienna che mi preveniva della cabala irreparabilmente formata per disgustarmi della Finanza ed io cominciai a negligentarla. Ai 4 di Agosto nuo­vamente fummo a Limbiate a passare dolcemente alcuni giorni. Poi al primo di Novembre per otto giorni fummo a Ornago con voi e con mio Padre, indi alla metà di Novembre fummo a Mozzate per dieci giorni, godendo la sera dell’opera e della commedia che si rappre­sentavano a Cislago dagli sposi Castelbarco. Quando ritornai in città da Mozzate verso la fine di Novembre, Maria era gravida di due mesi, e così dolcemente passò il secondo anno del mio felice matri­monio, non provando io al cuore nè le scosse di una passione inquie­ta nè la tristezza della mancanza di una passione, perchè una tenera amicizia, una vera stima e una perfetta confidenza mi univano alla Marietta, sempre buona, sempre ragionevole, e sempre amorosa.

L’anno 1778 che è il terzo anno della nostra unione fu quello in cui credo che cominciasse il destino a volgere le spalle, perchè in quel­l’anno non solamente venni deluso nelle speranze ministeriali colla creazione del Consultore Conte Wilzeck, ma quello che più da vicino mi toccò fu che in quell’anno per maneggio fu sedotto mio Cognato il Conte Alfonso a sposare immaturamente la Crivelli, il che pose un muro di separazione fra me e la Casa di mia moglie, nella quale trovava quel respiro che in casa propria non poteva avere, e in oltre impegnò la Casa Castiglioni in una serie di spese che ben prevedeva che potevano rovinarla. Cento venti mila lire di dote a mia moglie e due mila scudi d’arredi fanno 132 mila lire già sbor­sate, altrettanto per la sorella che si maritò in quell’anno fanno lire 264 mila, treccento mila lire di debito accollato nel contratto del Conte Francesco Castiglioni formavano la somma di mezzo milio­ne e sessantaquattro mila lire. In questo stato prendere moglie, e dover comprare da capo argenti, gioje, livree, carrozze e mobili tutti, perchè la casa era sguarnita, anzi dovere fabbricarsi una nuova casa per essere indecente quella in cui abitavano, mi parve una rovina, e una vera infamia di colui che lo sedusse in età così giovane, non essendo egli che appena uscito dal collegio, nella incertezza del modo di pensare del cadetto, e tanto più poi perchè perdeva con tale aleanza la croce di Malta per due generazioni ne’ suoi discendenti. Ma il colpo fu irreparabile, e veramente vi fui sensibilissimo, perchè amo di cuore mio cognato e la Casa di mia moglie, ed essa pure ne soffrì, ma al suo solito pacatamente, nel suo contegno non lo volle dimostrare.

Nell’inverno di quest’anno 1778 io mi posi a passare qualche sera in casa e rifeci il mio discorso sulla felicità; annojato del Ministero, la mia anima cercava di collocarsi in una carriera più indipendente, onde ottenere quella gloria che non era sperabile negli impieghi. La cara Marietta era mal contenta di questo mio modo di vivere, perchè bene spesso la sera doveva uscire sola, essendo i suoi fratelli impegnati l’uno colla sposa l’altro colla dama che serviva. Mi faceva la guerra nella più graziosa maniera e molte volte abbandonava il mio libro per andare con quella amabile amica.

Verso quel tempo, cioè in Marzo del 1778, due cose mi diedero pena, una fu la scoperta della vostra apertura ombelicale, l’altra gli amori di Carlo mio fratello colla Sig.ra Vedani, ne’ quali venni io posto di mezzo e non lasciai da soffrirne moltissimo tedio. Il Secretario Vedani, marito della bella, era geloso e apertamente aveva ricorso al Sig.r Presidente del Senato Mar. Corrado per ottenere pro­tezione contro della moglie, la quale non per industria ma decisa­mente voleva convivere coll’Abate D. Carlo, e la città era piena di vociferazioni indecenti su questi amori. Carlo temeva che non venis­se la Vedani portata in un monastero, credeva di convenienza comu­ne di non troncare ad un tratto quella amicizia, ma mostravasi pronto a dar passo a un disimpegno e scioglierla poco a poco. Io mi lasciai indurre a comparire per lui dal Presidente il quale non fece altro che constituire me stesso arbitro in vece sua e obbligare il Vedani a venire da me e esporre quanto voleva. Vedete quanto deli­cata fosse la mia situazione e quanto io dovessi essere impegnato a condurre la cosa in modo che Vedani dovesse ringraziarne il Presidente nè mai dolersi di essere stato abbandonato in così grave articolo al fratello del suo nemico. Non si trattava d’altro che di togliere le apparenze, poichè mezzi di vedersi nascostamente non ne mancavano. Carlo non se ne fece mai carico e questa condotta indi­spose gli animi per modo che veramente non ci riconciliammo che alla occasione funesta della morte di Maria, occasione in cui l’uno e l’altro de’ fratelli operarono con cuore e con tutta la convenienza. L’altro fratello, il Cav.re Alessandro, frattanto mi fece due graziose sorprese, ricevei prima la Pantea in Aprile poi in Giugno il Galeazzo Sforza, drammi che poi furono stampati e che non mi aspettava da uno che non mai aveva fatto un verso, o mostrato orecchio per la poesia, o fatto conoscere prima inclinazione a scrivere pel teatro. Maria avidamente li lesse e li gustò e v’erano delle care dispute fra di noi, perchè io leggendo il primo non era tanto celere quant’ella lo era a terminare i quinternetti staccati di que’ drammi. Maria divora­va i libri con prodigiosa rapidità ed era un piacere a sentirli legge­re da lei con bella e chiara voce, e con osservare esattamente le interpunzioni; dal che conoscevasi che ottimamente intendeva le cose che andava leggendo. Un anno prima il Cav.re Alessandro mi aveva spedito l’Hamlet di Shakespeare da lui tradotto, il quale Dramma ripieno di pazzie e di bellezze avidamente Maria l’aveva letto. Ella si era accinta a leggere il Saggio sulla Storia d’Italia scritto da Alessandro, ma conobbi che quella applicazione esiggeva uno studio insolito e forse immaturo per la Maria, la quale voleva continovarlo più per impegno che per genio, ed io lo sottrassi. Sul pro­posito della lettura, ella gustò moltissimo la Nouvelle Heloyse di Rousseau e la Miss Clarice, e la lunghezza di quelle leggende non le dispiaceva. Pare ch’ella amasse la lettura di libri che avessero sen­timenti e bontà, ella amava gli scritti di Rousseau, ed era prevenuta contro quei di Voltaire, parendole che quell’autore si prendesse giuoco di tutto e non scrivesse che per deridere, carattere che a lei vera, sincera, sensibile, e senza ostentazione, non piaceva punto. È però vero che le Tragedie e le Commedie di Voltaire le lesse, e alquanto si riconciliò, e che anche i Romanzetti di lui, il Candide, l’Ingenu, il Zadic ec. li lesse con piacere. Sul proposito poi della diffidenza ch’ella aveva verso delle persone che deridono, questa era grandissima in lei, o ciò provenisse dalla bontà e toleranza sua verso i difetti degli uomini, ovvero dalle prime impressioni della educa­zione, nessuna altra cagione personale saprei rinvenire, poichè ella era formata di corpo e di volto con tanta grazia e finezza, ch’ella non aveva certamente motivo di temere la derisione, ed ella aveva la stes­sa grazia ne’ moti, nel parlare, ed in ogni azione, unita a molto inge­gno e a un placido e costante buon senso raro a trovarsi, complesso di qualità che potevano renderle indifferenti i derisori, s’ella avesse bene consultato se medesima. Questa antipatia verso delle persone che canzonano era in lei talmente radicata, che più e più volte mi è accaduto, singolarmente ne’ primi anni di vederla insospettita anche di me per qualche cosa che le dicessi, quasi fosse dettata con quello spirito di satira di che facilmente poi mi riusciva di disingannarla. Non l’ho veduta mai a sorridere nè a compiacersi perchè si derides­se alcuno.

Frattanto giunse al termine la seconda gravidanza, e nell’aurora del 29 di Giugno del 1778, giorno del mio nome, dopo quattr’ore di dolori violenti mi fece padre d’un maschio, che fu tenuto a battesi­mo dall’Abate Frisi ed ebbe nome Alessandro Gabbriele Paolo. Questo bambino nacque gracile assai più che non eravate voi,[10] egli era magro, e visse sino alla sera del 28 Giugno dell’anno seguente, cosicchè gli mancarono sei ore a compiere l’anno. Aveva una nobile e bella fisonomia e la Maria lo amava teneramente, ma non potè mai nè acquistar forza per moversi nel suo letticciuolo, nè spuntare un dente, nè movere gli organi della pronunzia per que’ monosillabi comuni ai bambini. Negli ultimi mesi della sua vita se gli conosceva la milza mostruosamente grande e nella incisione poi si verificò essere ella tale, e anche il fegato più voluminoso del giusto, o sia che con tal vizio nascesse, ovvero che, non avendo potuto succhiare il latte materno nemmeno i primi giorni ed essendosi pasciuto di un latte troppo denso e sucoso, non liberatosi dal meconio, le indige­stioni prime avessero poi cagionato il vizio organico. Se poi veramente Maria non avesse punto di latte, siccome generalmente dice­vano le donne assistenti, ovvero se ciò nascesse da loro pregiudizi per seguitare la pratica comune alle nobili di non allattare, io non lo so. Certamente, s’ella ebbe del latte, fu ben poco, poichè non ne provò il minimo incomodo. Al comparire di questo bambino i vecchi di Casa, mio Padre e mio zio, furono in giubilo, e quello fu l’u­nico momento in cui vidi in loro un sentimento di famiglia. Erano i due vecchi a Biassono, regalarono largamente e contro il loro solito il mio lacchè, che corse a darne loro la notizia, poi vennero tutti lieti a Milano, mio Padre regalò a Maria un annello di sette brillanti del valore circa di ducento quaranta zecchini, mio zio regalò cento zec­chini effettivi, e mia Madre le regalò cinquanta zecchini. Io feci scassare dalla scattola che ebbi in regalo dalla Padrona i venti­quattro diamanti del contorno e formatini quattro spilloni li regalai alla mia Maria, che potè in seguito avere qualche diamante sulla testa, sebbene troppo meschino e incompetente ornamento, nel tempo che mia Madre conserva invisibile la bella croce di diamanti che la Casa fece alle sue nozze. Questo bambino cagionò poi e a me e a Maria delle amarezze infinite, non solamente per i mali ch’ei sopportò, quanto anche più per le giornaliere dicerie che mia Madre andava spargendo per attribuire a nostra colpa tutto il male, colle quali armi si vendicava perchè non l’avessimo resa dispotica di fasciare e allevare il bambino, e fors’anco perchè l’avessimo fatta suocera, nome odiosissimo alle donne. Non ho termini per bene rappresentarvi le noje e la bile che ho dovute soffrire per questo motivo, dovendo lottare contro tutte le opinioni per preservare il figlio, siccome aveva fatto con voi, dagli errori di fisica e nel tempo medesimo difendermi da calunniose dicerie che volevano far com­parire un paricida un uomo occupatissimo per salvare il figlio da tutt’i mali possibili. La Maria più sollecitamente ricuperò le sue forze dopo di questo parto di quello che riuscì al vostro nascere, o ciò accadesse per essere stato meno lungo e laborioso il parto, ovvero per le più moderate perdite ch’ella ebbe in questa occasione. Ella fu ben presto in grado di ricevere visite, e verso la metà di Luglio 1778, terminati i mobili, ella si collocò a ricevere nel nuovo appartamento verso strada, dove fu visitata da tutto il ceto nobile, e la casa nostra comparve con una decenza insolita per ogni riguardo. Così quel gusto deriso di fabbricare, quel meschino assegno datomi per le spese nuziali, e quel più meschino assegno annuo fissatomi produs­sero una onorificenza alla Casa Verri che non la meritavano i vecchi.

Terminato il puerperio, si aprì il nuovo Teatro alla Scala per un’o­pera magnifica il giorno 3 Agosto del 1778. La fabbrica di quel Teatro si fece in due anni, poiché la Chiesa della Scala fu demolita nell’Agosto 1776. Tutte le sere vi andava colla Marietta e avevamo presa a metà colla Marchesa Beccaria la loggia di Casa Belgiojoso, cioè la seddicesima alla dritta prima fila, e questa società la femmo per necessaria economia, essendo molto alti i prezzi delle logge, e altronde convenendoci la società di quella nostra cugina. Questa società diventò poi divisa in tre dopo le nozze di Donna Francesca col Conte Galeazzo Visconti, e si pagava pel palco, compreso poi altro palco alla Cannobbiana, gigliati cento otto in tutto ogni anno, la quale società durò poi negli anni 1779, 1780 e tutto l’anno disgraziatissimo 1781. All’aprimento del nuovo Teatro della Scala vi fu pure un Wax hall vicino al Collegio Elvetico nella Strada Marina, ma quel bisbiglio non piacque nè a Maria nè a me che poco lo frequen­tammo. Nella state di quell’anno 1778 si concluse il matrimonio col Conte Galeazzo Visconti, e Maria ebbe dalla Casa Castiglioni l’in­carico di provvedere la biancheria, gli abiti e tutto il corredo della sposa, il che fu per lei di molta occupazione e l’eseguì con una scel­ta tanto giudiziosa, con tanto gusto, e con tanta economia, che non si poteva fare di più. Così Maria, occupata dalla cura de’ figli, occupata dal regolamento della famiglia e di questa commissione, passa­va tutta la mattina da ottima madre, moglie, e sorella, senza mai essere oziosa, e leggendo sempre nel tempo in cui stava nelle mani del Parucchiere. Così ella passava la mattina, mentre io quanto poteva sottrarre al mio nojoso ufficio lo dava a ripassare il discorso Sull’indole del piacere animato a questo dallo stampatore di Parma Carmignani che voleva ristampare i miei discorsi a proprio conto, progetto che poi non volli seguitare e che mi trovai impegnato a far eseguire poi in Milano dal Marelli, spendendo cento sei zecchini, il che per me è stato d’incomodo in quel tempo. La sera eravamo al teatro, il dopo pranzo al passeggio, sempre uniti e sempre contenti della nostra unione. Io più e più volte diceva a Maria che il momen­to in cui l’aveva amata meno era quello dello sposalizio e che ora l’a­mava più dell’anno scorso, e l’anno scorso più del precedente. Un mio antico amico che conobbi a Dresda, il Generale Lloyd Inglese, mi raccomandò una Signora Inglese del primo ordine, Miledy Contessa Berkley, che viaggiava con sua figlia, giovine di amabile figura e di molta grazia. Maria a mia preghiera la servì, la presentò alla R. Arciduchessa, e fu con lei invitata a un pranzo a Corte, la presentò dovunque convenne nobilmente. Maria era timida, parca di parole, modestissima, e fu per lei una desolazione il trattare con persone che non parlavano l’italiano. Ella il francese lo aveva impa­rato da figlia, ma non ardiva nemmeno con me di parlarlo, ed io bra­mava moltissimo che si vincesse anche per servire a voi di incentivo in quella lingua nella quale sola io vi parlava. Questa necessità pro­dusse il buon effetto, tanto più che colla figlia nacque della amicizia, e da quell’epoca ella all’occasione parlò il francese con minore difficoltà. Quando la timida Maria mi diceva il rossore ch’ella pro­vava per parlar francese, io non la rimproverava punto nè gli impu­tava a difetto questa timidezza, anzi le lasciava conoscere che a me pure era accaduto lo stesso nella mia gioventù e che così succedeva colle anime delicate e sensibili, la franchezza prematura essendo un contrasegno di grossolana sensibilità; ma la incoraggiava assicu­randola che il tempo e l’occasione le avrebbero perfettamente posto rimedio e che si sarebbe trovata un giorno padrona di se medesima meglio che non lo era. Per tal modo io in ogni mia azione cercai sem­pre di animarla a sperar bene di se medesima, e ne aveva molto biso­gno, perchè non ho conosciuto un’anima che dubitasse de’ proprj talenti quanto lei, e a gran torto. Ella scriveva senza esattezza di ortografia e come scrive chi non ha fatto studio della lingua; ma più volte esercitandosi ella a scrivere delle lettere colle nuove occorren­ti e dandomele ella a correggere con un modesto rossore, dovetti ammirare la grazia e la disinvoltura colla quale sapeva descrivere i fatti e le giudiziose osservazioni che su di quelli faceva, e sempre l’a­nimava a confidare meglio nel proprio giudizio e sradicare affatto la meschina idea che nella educazione aveva preso di se medesima. L’aritmetica la sapeva. Profittava anche della frequenza in casa d’un esimio scrivano per migliorare il carattere, il quale però era chiaro e intelligibile. Ho già detto che in quest’anno 1778 s’impegnò il matrimonio del Conte Alfonso Castiglioni colla Crivelli, ciò accad­de nel mese di Agosto e quella fu l’epoca che, dividendomi dalla Casa Castiglioni, mi lasciò isolato, perchè co’ vecchi di Casa non pranzammo mai più insieme dopo un mese che fummo ammogliati, ed io non li vedeva mai, sebbene la buona Maria non lasciasse passar giorno senza visitare mia Madre. Questa immatura risoluzione del Conte Castiglioni la Maria la conobbe in tutta la sua estensione disgraziata nelle circostanze della famiglia, e se ne afflisse, ma, sem­pre moderata e virtuosa, non lasciò conoscere disapprovazione veruna a un male che non aveva più rimedio e sul quale ragionando inutilmente ci affliggevamo col pericolo di cagionar dispiacere allo sposo e allontanarlo da noi animando contro di noi la sposa. Così, ella, sempre ragionevole e saggia, più volte con dolcezza e coglien­do il tempo ammorzava gl’impeti incauti della mia indole, e, più e più volte amorosamente da lei avvisato, mi ritenni e su quest’argo­mento e su altri de’ miei fratelli, facendomi ella avvertito che cia­scuno ha i proprj difetti, che dobbiamo reciprocamente tolerarci, e che è un partito inconsiderato il farci de’ nemici per la chimera di correggere gli uomini quando non è più sperabile l’emenda. Sul pro­posito de’ suoi fratelli Maria era molto interessata per loro, e mi asteneva, anche da solo con lei, di mostrare disapprovazione delle cose loro, perchè, sebbene ella tacesse, ne aveva patimento. Ella era affezionatissima alla sua famiglia, e aveva ben ragione, perchè sono ottime persone, di carattere nobile e ingenuo, e nelle quali non v’è alcuna ombra di vizio, se per vizio non intendi la soverchia dolcez­za e passività di carattere, difetto che a loro soli pregiudica e difetto proveniente da troppa bontà di carattere. Nel sangue di Casa Castiglioni non vi è orgoglio, non invidia, non malignità, non ambizio­ne, non prepotenza, non diffidenza, anzi nemmeno ne hanno idea, e malgrado ciò hanno assai buon senso e applicazione a varj studj, per lo che meritano amicizia, e la Maria l’aveva interessatissima, ma sen­za smania di farne pompa, tranquilla e moderata come era sempre la di lei indole. Se nell’anno antecedente era stato nella Primavera e nella State a Limbiate e nell’Autunno a Mozzate colla Casa Casti­glioni, in quest’anno 1778 appena quattro giorni fummo a Mozzate all’occasione che al 27 di Ottobre si sposò la Donna Francesca col Conte Visconti e in tutto quell’Autunno nessun altro divertimento ebbe la Maria fuori che una corsa fatta all’opera di Monza il 17 No­vembre. Io aveva ripassato il discorso sulla economia politica e mi posi a studiare seriamente la Storia di Milano, il che avenne negli ultimi mesi del 1778 e ne’ due anni successivi, nel qual tempo com­posi il primo tomo che termina colla estinzione de’ Duchi Visconti.

Quel destino sinistro, che nel 1778 mi staccò da parenti e amici tanto cari al mio cuore e che da bambini contemplava come gli amici della mia virilità, quel destino medesimo mi andava preparando la desolazione colla morte della mia Maria, la cagione della quale miseria ragionevolmente la debbo collocare nell’anno 1779. Maria non era di statura grande ma di mediocre, aveva le spalle ben quadrate, il seno rilevato, non collo lungo soverchiamente, non gracilità o magrezza o color macilente, ma ben proporzionata e sagomata ele­gantemente, ella nessuna disposizione mostrava alla consunzione o alla tisichezza che troncò poi i suoi giorni. Dal ritratto di lei assai somigliante fatto dal S.r Appiani, dalla miniatura che ne fece il Sig.r Rovatti pochi mesi dopo che fu mia moglie, e dal busto in marmo che ne fece il Sig.r Franchi vedrete, mia Teresina, che quello che asserisco è vero. Sin ch’io sarò vivo, questi tre ritratti mi saranno cari, ma dopo della mia morte, Teresina mia, voglio che sieno vostri, e, quantunque io probabilmente e per la mia casa e per cercare qual­che conforto alla crudele solitudine in cui mi trovo, possa prendere una seconda moglie e averne altri figli, tutta la roba spettante alla Maria, che per intiero ho conservata, voglio che sia vostra, e che possiate voi disporre e possedere quei medesimi vestiti, scarpe, calze e abellimenti che erano della vostra buona madre Maria, e che i ritratti sieno da voi custoditi e conservati per passarli ai figli vostri, che saranno del sangue di quella adorabile e virtuosissima donna, di cui avete voi la gloria d’essere figlia. Così cerchiamo da salvare dalla morte tutto quello che possiamo, e di perpetuare la sua memo­ria così lungamente quanto ci sarà possibile, e sono persuaso che, se Maria avesse formato un desiderio sulle sue cose, sarebbe appunto stato quello che intendo io di fare, cioè di confidarle a voi tutte intat­te, poichè siate giunta all’età di conoscerne il pregio e considerarle come preziose memorie d’una rara e amabile donna. Un nastro solo non sarà adoperato durante la vostra minore età, e, purché io abbia vita sino a vedervi giovane fatta, ragionevole, e sensibile, passerà ogni cosa sua, come se morisse in quel momento, da lei a voi, ch’el­la amava colla maggiore tenerezza e che foste il solo pensiero ch’el­la ebbe nelle ultime agonie, mentre mi fece raccomandare e dal S.r Rettore Annoni e dal suo Confessore P. Sirtori Paoloto la sua Bibi, e niente altro, di che ne parlerò meglio a suo luogo, descri­vendovi la funesta giornata del 26 di Maggio del 1781. Ora torniamo al filo e indichiamo il principio della sua malattia.

Ne’ primi tre anni del nostro matrimonio non fu occasione per 166 cui Maria ballasse alle feste di Corte, perchè, avendola sposata al 21 Febbr.o del 1776, pochi giorni mancavano alla quaresima, essendo accadute le nozze il mercoledì grasso. Nel 1777 Maria era gravida innoltrata verso il termine. Nel 1778 gli Arciduchi passarono il Carnevale a Vienna, e Maria pure era a mezzo della seconda gravi­danza. Nel 1779 fu il primo Carnevale in cui i Reali Arciduchi, allog­giando nella Corte e abbandonata la Casa Clerici, bramavano nu­mero di ballerine, e Maria non aveva pretesto. Ella ripugnava di accettare l’invito e avrebbe volontieri trovato un pretesto per dis­pensarsene, a lei non piaceva punto nè quella vita di perdere le inte­re lunghe notti d’inverno, nè quella soggezione di passarle alla Corte sotto tanti sguardi, nè il disordine di stare in moto violento per tante ore, anzi vi aveva positiva ripugnanza; ma considerando io le mie circostanze d’essere in carica, sapendo il dispetto che ne prendeva l’Arciduchessa se negligentavasi di farle la corte, avendo ricevute tutte le grazie anche mia moglie in inviti e in pranzi singolarmente per Milady la Contessa Berkley, instai e indussi la povera Maria a dire un sì, compiacenza dolorosissima per me e per lei. Fossi io morto prima di pensare da cortigiano! È vero che Maria era sana, ma non era stata avezza a nissun genere di vita violento, ella nem­meno era agile del suo corpo, anzi era assai più pesante che non pareva a vederla. I balli di Corte cominciarono la sera del 13 Gennaro 1779. Il loro principio era a una ora di notte e ordinariamen­te terminavano verso le undici italiane. In quello spazio di dieci ore le dame stavano quasi sempre in fila a saltare delle contradanze con tamburri e pifferi nell’orchestra che ferivano l’udito. La Contessa Cotta Sola ne divenne tisica e si attribuì a que’ disordini; se ne fossi stato informato a tempo io non avrei aventurata una vita così pre­ziosa. Fatto sta che non so bene quanti balli si facessero sino al 21 di Febbraio, giorno primo di quaresima in quell’anno 1779, almeno due per settimana furono, e così dieci feste. Maria scendeva dallo scalone tutta grondante e, siccome si affollavano le dame a partire, talvolta doveva aspettare la carrozza esposta al freddo delle notti di Gennaro e di Febbrajo; ella tornava a casa stanca, annojata, e di malissima voglia, ed io, che l’aspettava sempre, scendeva dal mio studio dopo dieci ore di occupazione nella mia Storia e la canzona­va come una dama che usciva dalle feste pompose di Corte dovesse essere di umore men buono di quello d’un erudito che usciva dalla sua solitaria cella; ma ella realmente ne patì e quella noja, che io attribuiva alla inclinazione sua per una vita più placida e che io con vera interna compiacenza riconosceva sua propria, in buona parte si doveva attribuire al guasto fisico che cagionava nella di lei organizazione, siccome una troppo tarda e disgraziata sperienza dimostrò poi. In fatti a quaresima Maria cominciò ad essere pallida e svoglia­ta, il primo termine de’ suoi corsi non comparve punto, indi nel sus­seguente comparvero i corsi ma di una abondanza eccedente, e così continuarono per tutto quell’anno e pel successivo sino all’ultima malattia. Nel 1779 le perdite mensuali erano tali che la cameriera doveva cambiarle molti panni al giorno. A questo male si aggiunse­ro le afflizioni dell’animo, poiché appunto in Marzo del 1779 il piccolo Alessandro peggiorò e giunse a segno che poco più dava speranza di vivere; a questo rammarico la Maria aggiugneva le inces­santi e stravagantissime dicerie che, vomitate dalla instancabile officina della suocera, trovavan pure nella città chi le ripetesse: si pubblicava che io immergessi il bambino in acqua fredda, il che non mi passò nemmeno mai nel pensiero di fare con quel troppo gracile corpiciuolo; si pubblicava che io lo medicava a mio modo, e il solo rimedio era quello d’impedire che non se gli desse rimedio alcuno.

Teneva lontani medici e chirurghi perchè era persuaso che non avevano parere alcuno da suggerirmi che fosse utile, e temeva anzi che non mi portassero il vajuolo in casa mentre la città ne era piena; si pubblicava che il bambino era idropico, poi epileptico, poi rachiti­co, e non saprei annoverare le giornaliere pazzie che si pubblicava­no. A Maria ed a me era cosa assai nojosa il trovarci così dipinti in faccia di taluni, quasi che per capriccio di far l’inglese ammazzassi­mo nostro figlio, che era l’oggetto delle più tenere nostre cure. Mio Padre era smanioso e in somma per tedio e, per evitare il rimprove­ro d’essere cagione della morte del figlio, dovetti consentire che fosse visitato dal barbiere Bertoglio e che per consulto di quell’Esculapio gli si desse a forza dello sciloppo di cicoria col rabarba­ro, il quale poche ore dopo ridusse il bambino in tali convulsioni ch’io credeva che spirasse. Ciò fece poi che decisamente mi deter­minai piuttosto a soffrir l’accusa d’essere paricida che ad esserlo per debolezza e per noja e soffrirne i rimorsi. Un medico che mi pareva filosofo e incredulo in medicina, il dottor Rati, fu quello che qual­che volta consultai ed ei non mi suggerì se non qualche unzione sul ventre teso del bambino. Già vi ho detto che questo bambino non ebbe mai vigore bastante per volgersi, e rimaneva come un tronco immobile, non movendo che braccia e gambe; che non potè spun­tare alcun dente, che non pronunziò mai un monosillabo, e che non sorrise mai, anzi cercava di sottrarsi alle carezze: in somma era debo­le e mal sano, lagnandosi abitualmente e non avendo mai potuto sostenere la testa sul collo. Verso la fine di Marzo eravamo nel peri­colo imminente di perderlo, già da alcuni giorni sdegnava le poppe, nessun altro nodrimento soffriva, la milza era sensibilmente mo­struosa e s’estendeva due dita sotto dell’ombelico, era macilente, aveva in somma l’aspetto d’un termine vicino. L’azardo prolungò di tre mesi la sua vita e fu che, essendo la nodrice uscita di casa per farsi svotare le poppe e lamentandosi il bambino, si trovò per ven­tura una donna lattante nella stanza, la quale s’esibì a dargli del latte, supponendo che questo bisogno eccitasse il pianto di lui; dapprin­cipio le dissero che anzi rifiutava le poppe, ma, continuando egli e compassionandolo, la donna chiese di fare a buon conto il tentativo e con sorpresa si vide che il bambino avidamente prese le nuove poppe e le vuotò. Questo fatto, contrario al solito de’ bambini i quali all’età di nove mesi, siccome era il nostro, sogliono sdegnare ogni altro seno trattone quello della loro nodrice, mi fece conoscere che conveniva cambiar la nodrice il di cui latte era nauseoso per il bambino. Ritornata la solita nodrice a casa, tentò più volte di far poppare il bambino, e questi ricusò sempre e sempre succhiò le altre poppe. Sebbene un tal fatto parlasse bastantemente da sè sulla necessità del cambiamento, mia Madre per simpatia verso della balia o per contraddizione volle indisporre mio Padre anche su que­sto cambiamento, il quale fu eseguito prima che se ne parlasse e, fortunatamente avendo partorito pochi mesi prima la vostra nodrice, la feci volare da Biassono, e il bambino sembrò rinascere e per alcune settimane diede speranza, sebbene la milza sempre smisura­ta si toccava ora più ed ora meno resistente, il che, se non è stato vizio organico portato seco nel nascere, dobbiam crederlo originato dal latte troppo difficile a digerire della sua prima nodrice, onde, ali­mentato malamente con difficili digestioni, il bambino divenne ostrutto e si formò il vizio organico a cui finalmente dovette soccombere. Così la cara Maria alla scossa sofferta nel carnevale dovet­te aggiugnere i patimenti d’animo nella primavera e nell’estate del 1779. Vedendo che dopo due mesi del nuovo latte il bambino ripie­gava verso lo stato da cui erasi tratto col cambiamento, pensammo a tentare il rimedio dell’aria libera della villa, e verso il dieci di Giugno, accompagnato da mia moglie e da me, Alessandrino fu con­dotto a Ornago colla sua nuova nodrice, che è la vostra Giovannina. Noi ritornammo in città e dapprincipio ebbimo nuove consolanti del bambino, ma ritornammo il giorno 21 Giugno e lo trovammo emaciato con febbre gagliarda, si chiamò il Medico Pilati di Vimercato, non si sapeva cosa tentare: in una parola, dopo di essere stato alcuni giorni nodrito con soli cucchiai di latte spremuto dalle zinne della Giovannina, poichè il bambino ricusava l’alimento, il giorno 28 ebbe molte scariche, se gli apassì il ventre che era gonfio, acquistò una fame vorace, comparve macilente all’estremo, e alle ore 23 nel parosismo della febbre spirò. Gli occhi di quel bambino erano neri bellissimi e conservarono la loro bellezza sino all’ultimo fiato. La Maria era allora ne’ suoi corsi, fu colpita da un profondo dolore; io ne fui sensibile, ma non tanto quanto naturalmente lo doveva essere, e la qualità di questo scritto destinato per voi sola, mia cara Teresina, mi permette di essere libero e vero senza riguardo. Io ho sempre amato voi a preferenza di vostro fratello, e, se entro ad esa­minare il perchè, trovo che voi mi avete data la consolazione di cominciare a essere Padre, voi avete smentita la diceria sulla mia incapacità ad esserlo, voi non avete interessato alcuno de’ vecchi della famiglia e siete stata derelitta a me e a vostra Madre, laddove, appena venne al mondo, quel bambino parve che fosse più cosa di loro pertinenza che mia; poi mio Padre non disimulava di considera­re lui solo come suo erede ed era disperato di perderlo per non sape­re a chi lasciare il suo: a ciò aggiugnete le dicerie, le noie sofferte per la malattia, ed io credo che ciò producesse allora la poca sensibilità alla sua perdita. Dico poca sensibilità ma non dico indifferenza, per­chè veramente ne fui afflitto e molto più per l’afflizione della cara Maria. Anche dopo la morte, per tutto il giorno 29 vollimo restare a Ornago per essere sicuri che non venisse levato dal suo letto per ventiquattr’ore almeno, e sempre vi fosse persona assistente. Indi, par­tendo, disposi che la mattina del giorno 30 da un chirurgo di Vimercato venisse fatta la sezione del cadavere, dalla quale risultò la smisurata mole della milza e del fegato ancora. Io questa sezione la credo un atto di amicizia per il morto e per i viventi: per il primo, non sapendosi bene qual sia il momento in cui la machina nostra cessi di essere sensibile, è un partito umano quello di scomporla prima d’inchiodarla in una cassa, il che feci colla Maria, il che vi prego, Teresina, che facciate che sia fatto a me, tagliandomi e esaminando polmone, fegato e milza, e, se avrò tempo di far testamento, ordine­rò che il mio cuore sia portato in luogo separato dal corpo, perchè così sicuramente non sentirò più nessun ribrezzo d’essere chiuso in cassa. La disezione è poi utile alla famiglia, per preservarci con mag­gior cura dai principj morbosi che hanno offeso quei del nostro san­gue, essendovi sempre della tendenza allo stesso male fra i consan­guinei. Così Alessandro venne tumulato alla Madonna di Ornago, dove poi dopo la morte di Maria feci portare il di lei cuore.

Poco dopo la perdita del bambino, le dicerie sul male del quale ci avevano cagionata tanta bile quanta compassione ci recava l’infelice suo stato, io sempre più mi confermai nel sistema preso di non vede­re mai i vecchi i quali realmente sono i più animati e instancabili nemici ch’io abbia al mondo; ma la dolce e moderata Maria sem­pre eguale a se stessa non volle mai mancare alle convenienze e alle attenzioni, e continuava a visitare mia Madre senza ricevere mai una visita da lei, a segno tale che nemmeno mia Madre vide le stanze del ricevimento nè i mobili fatti per mia moglie se non nell’autunno del 1780 per la prima volta. Per troncare ogni spionagio, in seguito dis­posi che non si lasciasse più aperto l’uscio che va alla Capella e che nell’estate del 1779 si lasciasse sopraimposto l’antiporto di bajetta che v’era sempre stato nell’inverno, avendo io osservato che nell’in­verno si inventavano minori dicerie e che nell’estate ve n’era una mirabile fecondità, e ciò perchè nell’estate le cameriere di mia madre, non essendovi che l’uscio solo e molte volte socchiuso, spia­vano ogni sospiro che ascoltassero o s’imaginassero d’ascoltare, lad­dove attraverso dell’uscio e dell’antiporto non era così comodo il farlo. Comandai dunque che sempre l’uscio si tenesse chiuso a chia­ve. Pochi giorni dopo si smarrì la chiave. Ne feci riporre una secon­da, e questa pure, cogliendosi un momento in cui l’uscio fosse aperto, smarrì. Dovevano le mie donne aprirlo per andare ai luoghi. La mattina del 22 Luglio del 1779, essendo giorno di feria, mio Padre in persona co’ suoi domestici venne a levare le imposte della porta poichè io vi feci fare una chiave che non si può estrarre. Avvisato di questa vivacità d’un uomo di ottantacinque anni e di questo solen­ne affronto fatto a me che aveva cinquantun anni, io andai sul luogo, vi fu una scena viva assai e poco decorosa per chi la promosse e ter­minai col far riporre sotto degli occhi suoi la mia porta al luogo di prima, come vi stette poi. Queste scene passavano l’anima della mia adorabile Marietta, che pure con pazienza e con virtù ferma occultava il suo patimento e cercava di calmarmi e confortarmi a soffrire. Perchè mio Padre poi siasi aventurato sino a tal punto con un torto evidente, non lo saprei decidere, se mosso puramente dalla moglie mal contenta di vedere scoperto il maneggio delle sue spie, ovvero per trovare un pretesto di negarmi cinquanta zecchini annui di reintegrazione dello scapito dimostrato, che veniva a soffrire ne’ salariati per l’Editto delle monete pubblicato nell’Ottobre del 1778; in fatti, essendo io incapace di reggere ai pesi adossatimi, dopo varie dilunghe inconcludenti passate per mezzo de’ domestici dovetti ricorrere al Senat.e Croce, indi al Sig.r Presidente del Senato, e mio Padre riclamava il preteso dritto su quella porta, sebbene non potesse quella chiudersi mai per di là per il passaggio delle mie donne ai luoghi, non potesse tenersi aperta sempre perchè dormivano la Savina e voi in quella stanza, e non fosse di utilità alcuna la questione per lui, essendo l’uscio immediatamente aderente all’antiporto ch’egli accordava doversi chiudere da noi. Vi volle poi il Reale Arciduca che s’intromettesse, e con quel mezzo nel 1780 ebbi poi cento zecchini per indenizarmi de’ due anni decorsi. Vi ho narrato questo pettegolismo, acciocchè conosciate come dovevamo vivere e quale illarità poteva godere la povera vostra Madre, vivendo in una Casa dove la pazzia e la stravaganza reggevano l’avarizia e l’indiscrezione. Maria mi consigliò e mi fece animo di parlarne al Real Principe, anche colla vista che così conoscesse ch’io era povero e gli potesse venire in animo di accrescermi il soldo, il che veramente accadde poi al principio del 1781 coll’essere io fatto Presidente.

Continuava la Maria a passare languidamente la state del 1779, si aprì il nuovo teatro alla Canobbiana e vi eravamo abitualmente, sin tanto che la Visconti fece nel primo parto il maschio il 29 di Agosto 1779, e allora Maria tenne la sera compagnia alla sorella. Pensammo che voi avevate già due anni e mezzo, la denzione era già spuntata; eravate sana, il vajuolo nella città continuava, non eravamo sicuri, malgrado la nostra vigilanza nel tenere da voi lontane le persone nuove, che non vi venisse il vajuolo naturale col pericolo di perdervi o di vedervi deformata, e perciò il giorno 23 Settembre dello stesso anno 1779 foste innestata, e la relazione la leggerete inserita nelle memorie che allora scriveva sulla vostra infanzia. Ne’ calori di quell’estate noi dormivamo per la prima volta nella stanza bella verso strada per essere meno calda, voi stavate nel gabinetto contiguo. Malgrado la debolezza di Maria, la notte a un minimo sospiro vostro ella era accanto del vostro letto prima della Savina che dormiva nello stesso gabinetto. Una madre più amorosa e ragionevole, e senza pompa di comparirlo di quella, non è possibi­le che si dia. Abbiamo fatta voi ed io, mia cara Teresa, una perdita irreparabile; io però farò tutto quello che potrò per rendervi felice e prepararvi con una buona e amorosa educazione. Voi somigliate molto nell’indole a Maria e vi amo come parte di me medesimo e come la sola porzione di Maria che resta in vita. Il vaiuolo terminò, e all’autunno feci prima una corsa colla Maria a Garbagnate per fare una attenzione al Sig.r Presidente Corrado, dal quale aveva ottenuto il mezzo di fare i mobili e sperava l’indenizazione dello scapito che portava sulla moneta de’ salariati, indi all’otto di Novembre passai a Mozzate colla Marietta, con Frisi e voi, e vi dimorammo per dieci giorni. Già il Conte Alfonso aveva sposata Donna Leonora Crivelli a Mombello il giorno 29 di Settembre, e Mozzate non fu più quel luogo di amicizia e di libertà che ci con­solò in prima; la nuova padrona di casa o per timidezza o per diffidenza era la più fredda e complimentosa donna del mondo, e colla Maria e colla Visconti si faceva il cerimoniale per passare le porte, per alzarsi da tavola, in modo che il dopo pranzo per lo più si passava senza uscire di casa, annojandosi le due sorelle colla cognata sopra un canapè per l’imbarazzo di non progettare un pas­seggio, e così le due sorelle Castiglioni si trovarono diventate fore­stiere nella loro casa nativa, di cui faceva gli onori con cerimoniale la sposa, sempre civile ma sempre riservata e insensibile ad ogni tratto di spirito egualmente come di cuore. La sera tutti ricorrevano all’espediente d’un mazzo di carte, e così ciascuno si annojò con somma decenza e civiltà, ed io in particolare trovai il ripiego di pas­sare due ore del giorno utilmente e con piacere, e fu leggendo al Conte Alfonso la sera quello che aveva già steso sulla Storia di Milano, cioè sino alla fine del Capo nono sino alla metà del Secolo XIII. Quello che sopra tutto è da rimarcarsi si è che la stagione era fredda e nessun pensiero avevano nè Maria nè la Visconti per ripa­rarsene nè per ripararne voi, per lo che al ritorno poi in città tutte ne soffriste la febbre e la Maria più lungamente e di maggiore con­seguenza siccome dirò.

Maria dopo le feste di ballo del Carnevale sempre si trovò lan­guida, pallida, con poco apetito, e ai suoi corsi facendo copiosissime perdite per tutta la primavera, la state e l’autunno del 1779. Verso la metà di Novembre si manifestò un nuovo male alla povera Maria e fu che al cessare de’ corsi cominciarono grandi perdite bianche, e così sino all’ultima malattia sempre spogliandosi, il di lei san­gue sempre perdendo, andò sfinendo miseramente le sue forze. Eravamo a Mozzate quando comparve questo nuovo male, e da quel punto sino all’ultima malattia ella non potè più stare un solo giorno che non avesse un panno. Ne’ primi giorni di Dicembre la Marietta essendo una sera a Casa Corrado si trovò male, vennimo a casa dopo una breve visita e aveva freddo febbrile onde la posi a letto. La feb­bre fu sensibile, se le manifestò un dolore alla quarta costa dalla parte del fegato, unito vi era l’affanno, la tosse, e la testa assopita, non poteva giacere sul fianco dritto. Per i primi giorni non compa­rendo violenta la febbre io non ricercai altri che il chirurgo Mainardi che vi aveva inoculata, il quale considerava il male come reumatico e il dolore muscolare, ma vedendo l’insistenza del male convenne pensare a chiamare un medico; io non conosceva alcuno che fosse più colto e ragionevole del dottor Rati, egli era medico del Sig.r Principe di Kevenhuller e del Sig.r Conte di Firmian, era di Santa Corona, e nell’estate aveva guarito sotto la di lui cura il mio vecchio amico Frisi che, attaccato da una sorda e forte malattia in Maggio e Giugno del 1779, dava molto timore di sè. Rati, temporeggiando, tentando, almeno non gli aveva fatto male e forse co’ suoi rimedj aveva ajutato la natura. Per ciò chiamai il dottor Rati che già aveva consultato sul mio bambino. Rati il giorno 11 Dicembre 1779 le fece due emissioni di sangue una al braccio l’altra al piede, una la matti­na l’altra la sera, indi le fece applicare due vescicanti alle gambe. Con queste operazioni presto si riebbe; ma la debolezza, il dimagra­mento e un nuovo grado di gracilità contratto in quella occasione non si ripararono mai più. Ella aveva un seno ben fatto e fermo, e allora scomparve interamente e non più lo riebbe; dopo la convale­scenza, che durò circa un mese, sempre provò affanno nel salire le scale, il suo volto non ebbe più quella giovanile freschezza di colo­rito, di tempo in tempo la tosse la molestò, i corsi continuarono troppo abondanti, il fluore bianco continuò sempre, e forse col diminuirle le forze una congestione linfatica fatta al petto s’impedì che si risolvesse e si decretò la di lei morte; ma di ciò non abbiamo sicurezza. Nel Carnevale del 1780 i Reali Arciduchi erano al giro d’Italia e non vi furono feste di Corte; passammo un carnevale assai tristo, indi nella primavera a insinuazione del Mainardi Maria si pose a prendere delle pillole di limatura di ferro per rinforzare e impedire le perdite, ma dopo qualche tempo il solo effetto che pro­dussero fu di tenderle il ventre e gonfiarla in modo che pareva gravida, l’affanno cresceva, l’innapettenza, il pallore crescevano. Si con­sultò Rati, il quale ordinò pillole di gomma amoniaca disostruenti, le quali poco a poco diminuirono il ventre, ma spoverendo sempre più un corpo gracile e che aveva bisogno di tutt’altro. Nella fine d’e­state, cioè verso il 23 Settembre, mio zio Monsignore cadde grave­mente ammalato e il dottor Rati che lo aveva in cura non sapeva dirmi altro della Maria se non che era molto gracile. Se allora aves­si saputo quello che imparai troppo tardi a mio grave costo, avrei fatto un debito, condotta Maria alla campagna, tentato la cura lat­tea, mista se si poteva colla china china, avrei tentato la equitazio­ni ne; ma non mi si diceva altro se non che era molto gracile. Una sola cosa le fece assai bene e furono i bagni ch’ella prese nella state del 1780, avevamo tutto il comodo in casa e dormimmo quell’estate pure nella stanza rossa verso strada. Nel mese di Ottobre del 1780 comin­ciò Maria a essere inquietata dalla tosse, nè bibite calde, nè altri ajuti la calmavano, e il dottor Rati non sapeva suggerire altro che pillole di gomma amoniaca; io gli formai uno inspiratore, poi ne feci fare uno molto semplice alla fabbrica de’ vetri, e la sera prima di cori­carsi assorbiva il vapore d’acqua calda e questo calmò alquanto la tosse. Al 22 di Ottobre cedemmo alle istanze di mio Padre, che s’annojava solo a Biassono, e per la prima volta andammo per alloggiare in quella villa. Fummo accolti graziosamente, e mio Padre disse ch’io era il Padre Abate e ch’egli sarebbe stato il cellerario, in fatti però non si potè mancare di tutte le attenzioni più di quello ch’ei fece. A tavola, sebbene egli quasi mai non pranzasse con noi, egli invitava due o tre nojosi preti, co’ quali eravamo costretti a vivere senza chiederci almeno se ciò era di nostro genio, se lo avesse fatto, avrebbe inteso che ci trovavamo assai meglio noi due soli con voi, mia Teresina. Uno di questi preti era vecchio sdentato e teneva a tavola avanti di sè un bicchiere con acqua e immersovi il pane col quale si pasceva schifosamente. Non lasciava di farmi senso anche il dispetto di non considerarmi nemmeno padrone d’invitare chi doveva mangiare alla mia tavola, e non avere in ciò riguardo alcuno per mia moglie. Un giorno, essendo noi ritornati a casa da un lungo passeggio un poco tardi, trovammo i preti a tavola, mio Padre da sè aveva già pranzato, e la dama di casa ed io trovammo que’ villani col collarino per ordine di lui già innoltrati nel pranzo e noi costretti a vivere di quello che avevano avanzato ne’ piatti. Tutto ciò però si faceva con una apparente cordialità e con parole gentili; e tutto ciò fu cagione che, annojatissimi di quella ospitalità umiliante, dopo otto giorni ritornammo in città, sebbene l’aria facesse giovamento a Maria, la quale forse con un placido e prolungato soggiorno di alcune settimane avrebbe potuto salvare la vita acquistando forze e nodrendosi meglio, come ivi faceva. Ivi una mattina passeggiando andammo al Belvedere e salimmo su quella specola e ritornammo pure a piedi senza ch’ella mostrasse patimento, e un’altra mattina a piedi sempre andammo al Mirabellino, e pel viale poi al Mirabello, e di là ritornammo a casa, stanca sì ma senza patimento anzi con profitto. Gli altri giorni passeggiavamo pel viale di mezzo e una sera fummo all’Opera di Monza. Chi avesse detto a me allora, in Ottobre del 1780: in questa villa tu verrai da qui a sette mesi vedovo, desolato, a bagnare colle tue lacrime questo letto in cui ora giaci e questa terra che ora passeggi, e dovrai palpitare nel tempo stesso per la vita della tua Teresa, prezioso avanzo unico della tua amorosa compagna! Alla fine di Ottobre ritornammo in città, ognuno trovò che Maria aveva acquistato nel colore e che compariva alquanto più nodrita in volto. Il seno però non comparve mai più e sempre poco o assai qualche reliquato di tosse vi era, e di tempo in tempo collo inspiratore andavasi calmando. Il mese di Novembre ebbi un inco­modo assai fastidioso a un orecchio, ebbi l’avviso d’essere Presiden­te del Magistrato al nuovo anno, e Maria non ebbe alcuna novità se non che pareva che le perdite menstrue e le bianche fossero dimi­nuite, unicamente il vizio de’ corsi era nella durata protratta al dop­pio del tempo regolare, ma la somma del sangue che allora perdeva era discreta. In Dicembre ella ebbe i suoi corsi il giorno 25 e questa fu l’ultima volta in cui Maria ebbe i suoi menstrui.

Mi sento ribrezzo a dovervi raccontare quello che accadde nel funestissimo anno del 1781, ma mi farò forza e lo esporrò, perchè rimanga una memoria compiuta della virtù della mia Maria la quale, se durante il corso della breve sua vita comparve savia e amabile gio­vane, virtuosa ed esemplar moglie, morendo comparve una eroina senza imbecillità, senza inquietudine, soffrendo i mali senza impa­zienza, il che servirà di lezione a me prima, e dopo molti anni poscia a voi, essendo l’ultima malattia quella in cui cade la maschera se vi è, e compare l’uomo nudo e senza seducente artificio. Nel mese di Gennajo del 1781 Maria stava apparentemente meglio de’ mesi tra­scorsi, il fluore bianco era diminuito. La sposa Castiglioni diede alla luce un maschio il giorno 4 di Gennaro, che fu ucciso nascendo per imperizia del barbiere Carcano che lo estrasse, e Maria gemeva per questa disgrazia ch’ella avrebbe probabilmente impedita, se la pre­senza della inutilissima e gravissima Contessa Crivelli non avesse sgomentata ogni altra persona dall’immischiarsene. Maria ogni sera andò a tener compagnia alla Cognata puerpera. Già vi ho detto che gli ultimi corsi Maria gli ebbe il 25 Dicembre, ora con insolito sbal­zo il 15 di Gennajo 1781 le comparve una striscia di sangue e subito svanì. Verso la metà di Febbrajo altra più leggera striscia di sangue comparve. Si confidò il fatto al Mainardi, il quale sospettò che fosse gravida e parve che qualche gonfiore al seno vi fosse. Una cosa meri­ta osservazione: Maria allora ebbe una callosità alla estremità d’un dito della mano che tagliata dal Mainardi più volte, amollita con ceroti, mai non disparve nè fece luogo a pelle e carne naturale. Se fossi stato medico avrei allora saputo quello che ebbi occasione di leggere poi, che simili callosità sono talvolta indizi di tisichezza e che l’improvviso scomparire de’ spurghi menstrui è l’immediata cagione della tabe pulmonare.[11] Con tutto ciò veramente il primo senso di malattia lo provò soltanto il giorno 22 di Febbraro colla debolezza e difficoltà di respiro salendo le scale. Maria, sebbene anche dopo il 22 Febbrajo uscisse di casa, si trovava assai indebolita, aveva respiro difficile salendo le scale, era inquietata dalla tosse e sentiva della gonfiezza al basso ventre. La tosse sebbene movesse del catarro, ella non sapeva espellerlo, poiché non sapeva sputare. Questa difficoltà di vedere lo sputo fu fors’anco la cagione per cui il dottor Rati e Mainardi non conobbero l’offesa al petto. Fors’anco, se dapprinci­pio se le fosse fatto conoscere che il male era serio e che la espetto­razione era il mezzo per alleggerirlo, ella avrebbe fatto lo sforzo che fece negli ultimi giorni, quando le fu detto, ne’ quali colle poche forze che le rimanevano s’ingegnò di espellere de’ sputi. Ma, prima la tosse gl’innalzava, e ricadevano ora nel polmone ed ora nel ven­tricolo, d’onde col vomito se ne conobbero molti. Verso i primi gior­ni di Marzo crebbe l’incomodo e la sera aveva un calor febbrile. Si consultò il dottor Rati, perchè sul dubio che fosse gravida di due mesi, provando tensione e imbarazzo al basso ventre, vedesse se convenisse l’uso del solito rimedio delle sue pillole, ed ei prescrisse le solite pillole di gomma amoniaca del Quercetano; ma queste sti­molavano alle emoroidi, e il dottor Rati sostituì altre pillole di sapo­ne col rabarbaro. Rati sapeva ogni cosa, e delle perdite menstrue le quali per venti mesi l’avevano depauperata, e del fluore bianco che s’era aggiunto in nuova abituale perdita da quindici mesi, e in tutto questo spazio di tempo null’altro seppe dire se non ch’era debole, null’altro seppe suggerire se non pillole disostruenti, colle quali depauperava sempre più un corpo esausto e bisognoso d’essere rianimato e nodrito. La tosse, malgrado i replicati miei ricordi per considerarla, sempre la decise e risguardò come un incomodo staccato e indipendente. Veniva ogni giorno il dottor Rati, e la cara Maria lo soffriva perchè io l’aveva in concetto; ma non aveva punto confidenza in lui, uomo serio, grave, e che lasciava conoscere d’annojarsi colle donne, il che Maria l’avrebbe conosciuto anche con minori apparenze, tanto era modesta e inclinata a pensare svantaggiosamente di se medesima. Così continuò lo stato languido di Maria, che non usciva di casa ma stava alzata. Il giorno 15 di Marzo due ore dopo mezzo giorno cominciò a soffrire un leggero racapriccio di freddo indi un calor febbrile, e così continuò per alcuni gior­ni, sin che, crescendo la debolezza e la febbre e la tosse incomodan­dola abitualmente la notte, malgrado il coraggio e la serenità del di lei animo, per insinuazione del medico, del Mainardi e mia, il giorno 21 Marzo si pose a letto e vi restò per due mesi e sei giorni. Il dottor Rati, credendo la sede del male nel mesenterio ostrutto, intrapprese a curarla col siero di latte alterato con decozioni e tarta­ro solubile, e continuò per dieci giorni. La povera Maria prendeva pazientemente quella disgustosa bevanda, soffriva con pace il male, soffriva senza querela il medico che entrato seriamente le toccava il polso, avendo nell’altra mano l’orologio per contare le battute, e usciva senza dirle nemmeno l’opinione che aveva del male. Capiva e sentiva tutto, e tutto virtuosamente copriva con una placida indiffe­renza, fors’anco persuasa d’una fatalità che destina gli eventi, alla quale non giovano le nostre cure, forse persuasa della incertezza della facoltà medica, forse a ciò spinta dalla pacatezza del suo natu­rale che niente più evitava quanto ogni cosa che avesse impeto o turbolenza. In questo spazio dal 21 Aprile sino al termine del mese ella ebbe delle febbri, anche più risentite i giorni 22, 23 e 24 e singolar­mente il giorno 28, in cui la mattina ebbe vomito e, sentendosi una insolita cosa nella gola, si ajutò colla mano e ne estrasse un lungo lombrice. Le più gagliardi febbri erano precedute dal freddo e si cal­mavano con copiose scariche di materie figurate, come sempre suoleva. In questo spazio di dieci giorni, il dimagramento della povera Maria fu tanto rapido, che io, che dormiva con lei, me ne dovetti accorgere con un funesto orrore. Da ben contornata e pol­puta che era ancora ne’ fianchi, alle cosce, alle braccia, dal 21 al 30 di Aprile si trasmutò in uno scheletro, e pur troppo vidi allora lo stato di pericolo di una malattia, che per sè non mostrava nulla di violento. A ciò s’aggiunga un altro segno che mi fece gelare, ed era la brevità del respiro anche nel tempo del sonno, respiro che alter­nava tre volte nel tempo in cui due respirava io. Il dottor Rati non sapeva dirmi altro se non che quella febbriciattola non gli piaceva, che meno gli avrebbe dato fastidio se fosse una febbre forte, e che temeva un mal cronico. Io già alcuni giorni prima aveva fatto venire il dottor Schiera, medico della Casa Castiglioni, e, per non dare gelosia a Rati, venne presentandomi una carta per affare di Ma­gistrato, lo condussi a visitare la Maria, e aveva suggerito il siero di latte con decozione e tartaro, lo stesso rimedio che le dava Rati. Io, credendo che senza intelligenza coincidessero, mi consolai che que­sto fosse il vero metodo, e più mi consolai vedendo ch’ei pure fissava il male nelle supposte ostruzioni del basso ventre. Ebbi molto tempo dopo motivo di sospettare che Schiera avesse previamente parlato a Rati di questa visita che doveva fare, e conseguentemente il parere di Schiera diventò una funesta officiosità di mestiere. Vedendo l’insistenza della febbre, della tosse, il funestissimo dimagramento, l’affannoso e breve respiro, bramai un consulto, e il giorno primo di Aprile tre medici, Rati, Cera, e Schiera, dopo minuto esame con­clusero che la febbre non aveva verun segno sospetto,[12] che le ostru­zioni si toccavano al di sotto del fegato, e che bisognava purgarla più validamente prima, poi passare a darle la tintura di china china.

Maria stava a letto, appena alzandosi il tempo che occorreva per rasettarlo. Io dormiva con lei, e la notte la serviva io solo per ogni occorrenza. Aveva il mio animo in somma agitazione e doveva simulare in modo ch’ella non se ne accorgesse, acciocché aggiugnendo in lei l’inquietudine dell’animo alla debolezza fisica non precipitasse il male. Questa simulazione, che dovetti sostenere sino all’ultimo, vegliando acciocchè nessuna parola o fatto avvilissero l’animo della mia Maria, nel tempo in cui, oppresso il mio da un dolore profondo e logorate le mie forze dalla diurna e notturna assistenza, era già miserabile, accrebbe di molto la mia infelicità. Il giorno due d’Aprile se le diede il più valido purgante concertato dai tre medici, e fu siero di latte con sapone e maggior dose di tartaro solubile, il che produsse molte scariche e mirabilmente accrebbe la debolezza dell’ammalata. Il giorno quattro di Aprile si cominciò a darle la tin­tura di china china estratta con sale, e, con questo metodo conti­nuando sette giorni, parve che la febbre piegasse, poichè non si osservò più nell’ora solita, cioè alle due dopo mezzogiorno, il ripi­glio febbrile, non ebbe più nè freddo nè caldo nè quel mal essere de’ giorni antecedenti, la mano era di un calor naturale, se non che il polso frequente batteva ora le ottanta ed ora le novanta volte per ogni minuto. Interrogato Rati se questa fosse febbre sì o no, rispon­deva: «Se per nome di febbre vogliamo intendere polso frequente, questa è febbre; se poi la intendiamo dipendente dal calore, questa non è febbre». Si ripigliava il discorso s’ella fosse gravida, mas­simamente che in Marzo ella non ebbe alcun segno di sangue, rispondeva: «Può essere». Mainardi decisamente diceva: «Non è febbre; il polso frequente è il suo stato naturale, non ha che da rin­vigorirsi, e sta bene». La tosse e il catarro erano ostinati però, e, sem­pre invitato Rati a vedere se convenisse fare qualche cosa in soccor­so del petto, rispondeva: «Il petto è sano, la tosse è un incomodo affatto staccato», e ne dava per motivo la indiferenza colla quale Maria poteva giacere alla dritta e alla sinistra coricata colla testa bassa, il che secondo lui non sarebbe se il petto fosse intaccato. Per sempre maggiore disgrazia io mi posi a studiare Buckan e, vedendo che per contrasegni della tisichezza vi pone la malinconia prece­dente, il calore straordinario alle mani, il sapore salato nella bocca, e altri sintomi che non conosceva Maria, sempre più rimasi ingan­nato sulla vera indole del male. I medici frattanto nella città parla­vano con voce assai più lugubre di quanto adoperavano meco e con lei, per sempre mettere al sicuro il loro credito contro di ogni even­to. In questo stato di cose, essendo dubbio anche al detto del dottor Rati se avesse o no la febbre, essendo Maria affatto svenuta, si determinò di abbandonare i rimedj e di nodrirla, e così si cominciò a fare il giorno undici di Aprile, e il dottor Rati prescrisse che la mat­tina ora prendesse il cioccolatte col pane, ora una polentina di fari­na di grano turco sciolta. A pranzo del riso ben cotto e del pesce in bianco, ovvero un pollo tenero, o della cervella fritta, e così con buon apetito e illarità Marietta passò i giorni 11, 12, 13, 14 e 15 di Aprile, giudicata che non avesse febbre ma sola frequenza di polso. Il giorno 16 comparve la febbre, e con lei delle scariche copiose e frequenti che la gettarono in un sommo abattimento.[13] Già la tosse e il catarro sempre ostinatamente durarono. Il giorno 16 fu vera­mente ferale per me. Marietta, essendo sola e abattutissima, mi getta le braccia al collo e contro il suo solito dà in un violento scoppio di pianto; figuratevi come stava io, mi feci sforzo, e cercandone il moti­vo conobbi che non era verun timore del male, nè verun presenti­mento deciso, ma una tristezza fisica di cui non sapeva darmene ca­gione. Almeno così mi rispose; se poi veramente la cosa fosse così, ovvero se la virtù e delicatezza esimia del suo animo le dettassero quel disimpegno per non aggravare il mio affanno, cara Teresa, non lo saprei. So che a me parve che quelle lagrime fossero foriere di morte e il grido della natura che geme e dispera. Non è possibile che dalla mia memoria si cancelli mai quel dirotto pianto; pareva che da me cercasse ajuto, pareva che fosse l’ultimo congedo; oh, perchè non potei morire io in vece di lei! La parte più disgraziata tocca a chi rimane ancora in vita e sensibile. Le scariche e la febbre duraro­no anche il giorno 17, e la sera del 18 Aprile nuovamente si fece un consulto medico in cui si tenne tutt’altro proposito che non si era fatto due settimane prima: si propose di trovare un rimedio, «se pur vi fosse», di calmare «la consunzione, se pure eravamo a tempo»; tali erano le frasi del dottor Rati, il quale a me disse che, se Maria non era gravida, egli dava il caso per perduto. Il consulto determinò la tintura di china china, affine di calmar la febbre e poter poscia tentare il latte. Come in fatti il giorno 18 ricominciò a far uso della tintura di china china, si calmarono le scariche e il giorno seguente 19 Aprile fu l’ultimo della sua vita, in cui ebbe un’ora veramente gio­conda come sana, e sedendo sul letto, e fu a mezzo giorno scher­zando colla Visconti e con Frisi, che vollero asistere al di lei pranzo. Ma poco dopo divenne languida, s’addormentò, il polso assai cele­re più di cento battute per minuto, calore alle carni, e verso la sera, avendola trasportata nel letto di comparsa nella stanza rossa ove morì, la debolezza era tale che ella lagnavasi di non poter più regge­re, e il dottor Rati mi diede il caso per disperato e parlò di sacramenti. Maria dopo il 19 di Aprile non tornò più nella stanza gialla dove sino allora era stata. Il motivo fu per tenerla più decentemen­te e in camera meno facile a riscaldarsi, giacché ella già soffriva la sera il sudore della tisichezza all’ultimo grado, sostenendo sempre il dottor Rati e il Chirurgo Mainardi che il polmone era intatto e che la tosse era cosa «affatto staccata».

Siccome conosceva omai che Rati non aveva idea del male e che andava tentone aspettando se la natura facesse qualche cosa da sè, così la sentenza di lui la considerai tanto azardata quanto i rimedj purganti ne’ quali sino allora aveva insistito, e quasi ebbi piacere d’una occasione per liberarmene. Gli feci ripetere più di una volta ch’ei non aveva verun rimedio da proporre e che il caso era disperato. «Poiché la cosa gli diss’io è a questo punto, e ch’ella non ha più cosa alcuna da suggerire colla sua arte, ella non abbia dun­que a male che io tenti ogni mezzo, a costo anche di cercare un ciarlatano; si tratta della persona più cara ch’io ho al mondo, e peg­gio che perderla non mi può accadere. Io me le dichiarerò sempre obbligato per quanto sin ora ha fatto». Così lo colsi in parola. Poi sapeva che certo giovine dottor Caccini aveva contro di sé i prin­cipali medici del paese, e che aveva salvata la vita al Cav.re Litta che i medici davano per disperato, che aveva ultimamente salvato il Presidente Carli, e felicemente aveva curato la Contessa Trotti e il Conte Belloni. Questo giovine, che aveva fatto i buoni studj di medicina e che era stato felice sino allora, appunto per l’inimicizia dei medici mi parve che fosse al caso per Maria, e che sicuramente con tutto l’impegno si sarebbe adoperato per farsi colla di lei guarigione un nuovo credito su di una giovine che interessava il paese per molti riguardi personali e di famiglia. Chiamai il S.r dottor Caccini il giorno 20 di Aprile e, prima che visitasse l’ammalata, lo informai di quanto sino a quel punto era accaduto, indi gli dissi che da lui bramava una risposta sincera, o ch’egli dava il caso per assolutamente disperato, ovvero, se tale non era, se l’arte avesse de’ tentativi da fare, io la raccomandava interamente a lui. La difficoltà era di cambiare medico senza spaventare Maria, alla quale parlai io, dicendole che omai da più d’un mese ella era ammalata e, docilmente eseguendo la cura prescritta da Rati, niente aveva migliorato, anzi andava scapitando, che Rati era poco diligente e che vedeva ch’ella poca confidenza aveva in lui; perciò la pregava a lasciarsi visitare dal dottor Caccini, ch’ella conosceva di nome. Ella qualche difficoltà leggermente mosse, e ciò nasceva dalla modestia sua, dal naturale suo che amava che si parlasse poco di lei, e vedeva con dispiacere ogni cosa che potesse dar luogo a discorsi o a brighe; ma, docile e compiacente, si adattò, e introdussi il dottor Caccini. Sino dalla prima visita furono tanto giudiziose, minute e attente le ricerche di lui, fu tanto umano e dolce il modo con cui si mostrò interessato, che non vi voleva nemmeno tanto in confronto dell’austero dottor Rati per farlelo preferire. Egli osservandole le mani: «Ne ho vedute – disse – di assai più dimagrate di queste; la Contessa Parravicini era peggio ed oggi va in villa a terminare la convalescenza». Uscito poi dalla stanza, mi parlò chiaro: ch’ei temeva che i polmoni fossero offesi, che non poteva lusingarmi in conto alcuno, ma che caso disperato affatto non lo era, e che conveniva adoperare i soccorsi dell’arte. Che tutto stava a vedere se ancora eravamo a tempo. Parlò della cura lattea e del latte di asina pasciuta con erbe balsamiche; della gravidanza non ne fu più questione, poichè il giorno precedente l’aveva fatta visitare dalla mammana Broggi, e l’aveva trovata coll’ute­ro molle e la bocca rivolta dalla parte del retto, e perciò assoluta­mente non gravida.

Ne’ primi 4 giorni il dottor Caccini la pose alla tintura di china china estratta col tartaro. Si trattava di frenare la diarrea e i sudori, e così fece ne’ giorni 20, 21, 22 e 23 d’Aprile. Il 24 cominciò a unire il latte d’asina alla tintura suddetta, la quale era composta di sei dramme tintura di china china, altrettanto acqua di viole, e mez­z’oncia di sugo depurato di cicoria silvestre, e ciò poi che vide ces­sata la diarrea. Di latte d’asina appena ne prese cinque once. Il 25 comparvero le orine torbide e in esse una mucillagine, che posta al caldo non si scioglieva. La respirazione affannosa. Da questo fe­nomeno decisamente concluse il Sig. dottor Caccini che i polmoni erano offesi e che il sedimento dell’urina era materia supurata nel polmone e trasportata col sangue. La sera del giorno 25 Aprile, men­tre la trasportai dal letto al sofà per cambiare il letto, Maria mi chiese se io credeva che fosse per finir presto questa febbre; io le risposi che lo sperava col soccorso della china china, ma che la convalescenza colla dieta lattea la temeva lunga. Ella si mostrò mal con­tenta di questa lunghezza. Le replicai che almeno avrebbe potuto dopo vivere meglio di quello che non aveva fatto in questi ultimi due anni, giacché ora il male s’era sviluppato e dovevano sciogliersi gl’incomodi che si erano andati formando. Poi le chiesi se avesse voglia di mangiar meglio, ella disse: «Volontieri, mangerei dell’erbe, de’ spargi, e de’ carciofi». Così, malgrado il mio candore e la buona fede intatta colla quale aveva sino allora vissuto colla Maria, mi sfor­zava a adularla, allontanandole ogni sospetto che il caso fosse peri­coloso, quando lo era al segno di non averne speranza, e ciò per libe­rarla dalle angustie e conservarle l’animo in calma, temendo altrimenti una imminente rovina. Io vegliava giorno e notte per impedire l’accesso ai fanatici che mia Madre e mio Padre cercavano di spingerle vicini per inquietarla. Mentre era al mio Tribunale, il Capitano de Blasco, mio antico amico e uomo ottimo, vegliava per me; qualche volta quest’ufficio lo fecero i miei fratelli, e malgrado ciò dovetti venire al punto di escludere e interdire a mio Padre l’accesso alla stanza di mia moglie. Egli primieramente con sarcasmo e bile cominciò ad apostrofare la Visconti accanto al letto della languente sorella, chiedendole se voleva essere trattata da dama ovvero da figlia, il che conturbò la povera Maria; questo sarcasmo nacque perchè la Visconti non s’era alzata a cedergli il luogo; e questa scena si fece al letto d’una che aveva pochi giorni di vita. Poi, pochi giorni dopo, ad alta voce nella stanza di Maria interpellò Caccini se vi fosse ancora qualche filo di speranza; al che Caccini rispose che non vi era mai stato questione di questo. Fortunatamente Maria aveva così poca […] de’ vecchi che parlommene poi, considerando questa opinione come una delle solite pazzie tristi di quell’uomo, e non se n’ebbe l’effetto. A ciò s’aggiunse altro sarcasmo col quale parlò al dottor Caccini, e altro sgarbo usato al Capitano Blasco, cercando d’impedirgli che entrasse seco in camera solo mentre io era al Magistrato. Di tutti questi tratti io sempre ne mossi querela, minacciando di venire alla estremità di proscriverlo dalle stanze di Maria, e vi dovetti venire quando finalmente egli nella stanza a voce alta mi avvisò di non accostarmi al di lei fiato e badare al medico che me ne doveva avere avvertito; il che pure Maria lo intese e se ne sturbò, non perchè desse fede alcuna al detto di lui che ella conosceva, ma per comparire una creatura da portare contagione. Con tali mezzi il fanatismo e la malignità cercavano di avilire e sgomentare l’animo di Maria, e di ottenere che si popolassero le stanze di frati, di reliquie e delle superstizioni le più meschine e lugubri, ed io ruppi affatto, e in qualità di marito mi posi a difendere la mia cara moglie, pronto a scacciare mio Padre, il quale fu prevenuto di non esporsi; e se ne astenne sino al punto dell’agonia, al quale avrò occasione d’informarvi del modo col quale operò. Non vi saprei dire i giri e le cabale indirette adoperate da mio Padre e da mia Madre per allarmare l’animo di Maria e renderla persuasa della disperata guarigione e sicura morte. Ma vegliai tanto, e meco i miei amici, ch’ella sino all’ultimo giorno ebbe l’animo in calma e non dovette soffrire che i mali fisici. La equanimità e la ragionevolezza colla quale soffrì tutta la malattia è tanto prodigiosa che difficilmente ne troveremo un esempio. Il suo male si manifestò verso la fine di Febbrajo, terminò colla morte verso la fine di Maggio, e nel corso di quei tre mesi, seb­bene la debolezza, l’affanno, gl’incomodi sempre crescessero, non mai si mostrò renitente a cosa alcuna prescritta dal medico, tranguggiò tutte le cose stomachevoli che se le offrirono, si accontentò de’ cibi che se le ordinarono, nè mai una sola parola uscì da quella cara bocca per dove parlava la virtù, mai una sola parola che dinotasse impazienza. Su tal proposito vi dirò un caso accaduto negli ultimi giorni di sua vita. Ella era sfinita, e, quando o di giorno o di notte la tosse staccava del catarro, aveva bisogno d’una persona che prontamente la alzasse a sedere sul letto, acciocchè il catarro non la soffocasse. Due donne dell’ospedale alternavano colla Giulia e colla Rosa di Casa Castiglioni, la quale per malattia non potè reggere sino al fine. Le donne dell’ospedale adoravano la Maria per la bontà, gra­zia, e pazienza sua, e per la serenità mirabile della sua anima. Entrai un momento nella stanza, e, non vedendovi alcuno, «Oh Dio – dissi – così vi lasciano sola!». La povera Maria non aveva fiato per parla­re, e in quegli ultimi giorni a stento con voce debole diceva poche parole; ma, temendo ella che io rimproverassi le donne, si animò, fece uno sforzo, e mi disse che era un istante appena e che la donna l’aveva spedita lei. Questo tratto conoscete, cara Teresina, quanto significhi in una persona moribonda. Mai dalla bocca di Maria è uscita parola che potesse rattristare alcuno, nè mai ha taciuto, quan­do parlando poteva impedire il male altrui.

Io, dappoiché Maria passò nella stanza rossa, mi collocai la notte nel gabinetto contiguo, sempre durante la malattia la trasportai di letto, io sempre la servii per alzarsi, e debole e sfinita come era sem­pre volle alzarsi alla seggiola sino al giorno in cui morì, nè mai tolle­rò altro modo di sgravarsi nel letto, monda e decente sino all’ultimo segno. Io le pulivo la mattina, quand’ella lo bramava, i denti, le tagliava le ugne alle mani, mancando ella di forza, io la lavava al seno, alle braccia, alle cosce e gambe con aceto prescritto dal Medico, e non ho parole, cara Teresa, per esprimervi quanto sof­frissi, vedendo quelle care membra divenute quelle d’un cadavere spolpato e dovendo comprimere con indifferente volto la mia deso­lazione. Cara Teresa, possa il destino vostro tenervi sempre lontane le angoscie che ho sofferte. Durante la malattia io non uscii mai di casa se non per andare ai doveri indispensabili della mia carica ovve­ro per fare delle sfuggite a pranzo a Biassono poichè voi vi foste tra­sportata, sempre vegliai intorno la mia buona Maria per assisterla, servirla, sopraintendere agli alimenti, ai rimedj, e difenderla dai mali che si volevano far nascere nell’animo di lei. Fortunatamente nè il cambiamento del medico nè i tratti di mio Padre non le avevano cagionato verun tristo pensiere. Ma v’era un punto più serio e delicato da superare, ed erano i sacramenti. Era pubblico nella città lo stato suo di tisica dell’ultimo grado, non si poteva senza scandalo diferire, e, concertato co’ miei fratelli e con Frisi il modo, s’incaricò il Cav.e di entrare con lei in proposito e, correndo allora il tempo pasquale, le suggerì conveniente il far la Pasqua dalla Capella di Casa, giacché non era tanto facile ch’ella potesse riaversi così presto per alzarsi a tempo; e con ciò, senza inquietarla punto, venne il cura­to e la domenica in Albis il 22 di Aprile, confessatasi prima dal P. Sirtori Paoloto, uomo discreto e suo confessore, venne comunicata ma senza la parola viatico. Superato questo, cominciammo almeno per qualche tempo ad avere di che rispondere ai fanatici e riman­darli le loro istanze a un tempo più rimoto. Al principio di Maggio vi fu un nuovo pericolo da superare della stessa indole, cioè, per conservare l’animo di Maria libero dalle tristi inquietudini, le quale, se si fossero aggiunte all’estremo languore delle forze fisiche, sicura­mente precipitavano i di lei preziosi giorni. Questo nacque, Teresina mia, dalla febbre con tosse che sopravenne a voi e continuò per gior­ni. Pareva un forte rafreddore, ma il Medico lo considerò come il male medesimo di Maria, contratto vivendo con lei. Si dovette per gli ultimi giorni d’Aprile col pretesto della vostra febbre ricusarvi alla cara Madre, che frequentemente cercava di vedervi; finalmente mi determinai a spedirvi a Biassono colla Savina, unico partito per salvare voi (nella supposizione generalmente creduta che la tisichez­za si comunichi) e in ogni caso il migliore per procurarvi coll’aria il ristabilimento contro una febbre che perseverava, e il migliore per allontanarvi da una scena desolante alla quale sareste stata sensibile, sebbene aveste poco più di quattro anni. La vostra anima s’era già molto sviluppata. Non vi volle poco a tenervi in prima lontana dalla Maria, e poi a staccarvene, senza che ripullulasse in lei la idea del fiato contagioso espressa da mio Padre: ma le cose si concertarono in modo che Maria medesima suggerì la trasmissione a Biassono, il che fu eseguito il giorno 3 di Maggio e l’ultimo bacio che deste a vostra madre fu nella stanza verde all’angolo vicino al cammino dove era il letto di Maria in quell’ora; poiché aveva più d’un letto colle palle sotto, in guisa che facilmente si rotolavano dall’una all’al­tra stanza senza scossa, e con tal mezzo si ripuliva e cambiava d’aria la stanza rossa che era l’ordinario di lei soggiorno.

La cura del Sig. dottor Caccini andava continuando, il vitto era alternando delle tazze di sagou e del pane rappato, nelle ore poi più tranquille il latte d’asina colla tintura che ho detto. Grada­tamente si accresceva il latte anche per timore di rilasciare il ventre. Il 26 Aprile ne prese once nove, e quel giorno fu de’ migliori e per la diminuzione della febbre e per essere ella meno abattuta di forze e più gioconda, onde le finestre della stanza, che d’ordinario stava­no socchiuse per la luce che le faceva troppa scossa, in quel giorno rimasero aperte; ma la notte la tosse la molestò più del solito e la mattina del 27 comparve con febbre più risentita. Nel seguito, alcu­ne ore pareva che non avesse febbre, le carni erano fresche, ma la debolezza, e il dimagramento crescevano, conveniva la notte proccurarle il sonno coll’opio, e, vedendo che questo non calmava la tosse, il S. dott. Caccini concluse che dunque non fosse la sola acri­monia degli umori che cagionasse la tosse ma che il polmone fos­se occupato da materie purulenti come ne avevano manifestate le orine, e il non vederne più a comparire per quella strada gli fece temere l’ammasso mortale ne’ polmoni; il che pur troppo si verificò. Le orine talvolta erano in quantità di ottanta once al giorno, il che si trovava eccedente, si temeva il ripiglio della diarrea. Il giorno 4 di Maggio fu uno de’ migliori, e i due giorni seguenti 5 e 6 mi diedero il conforto di sperar bene, non già per lusinga che ne avessi dal medico ma perchè reggeva al latte e la mattina ne prendeva 26 once, e la febbre e la tosse erano calmate, e la illarità e forza di lei sem­bravano rianimarsi. Il giorno 26 in tutte prese 23 once di latte. Il giorno 27 tornò a peggiorare. Il 28 venni a pranzare a Biassono, a veder voi che eravate alzata ma gracile; le cose passarono così sino al giorno 11 di Maggio, in cui le prese la diarrea con estrema debo­lezza per tutta la giornata, e la notte, tormentata dalla tosse, dal lan­guore, da’ sudori e dalla diarrea, fu disgraziatissima. Cara Teresina, allora Maria cominciò a soffrire affanno nella respirazione. La mat­tina, quando m’affacciai al letto, oh Dio, mi pare di vederla porgen­do le sue mani fuori e spingendole verso il mio volto con viso lan­guente e gli occhi pietosamente in me fissi, oh Dio, Teresina, quanto patetico e afflittivo è il quadro! Pareva che volesse chiedere soccor­so, pareva che indicasse il fatal congedo, quanti sentimenti, cara Teresina, raccolti in quell’atto silenzioso! La mattina del 12 di Maggio e il giorno 16 Aprile, di cui ho già scritto, furono i due più tristi momenti per me in tutto il seguito della malattia. Oltre l’affan­no ebbe Maria a soffrire de’ stringimenti che minacciavano di oppri­merla; nel giorno 12, l’accesso febbrile le comparve col freddo, si abbandonò il latte d’asina del quale era giunta a prenderne ventotto once la mattina e circa nove once la sera, e si pose ad alimentarla quasi interamente col solo latte vaccino bollito co’ fiori di melagra­no e cannella, come prescrive il Mead, e questo è il cibo insieme ed il medicamento solo, col quale prolungò la sua vita ancora per quattordici giorni. In tale stato non era fattibile di ritardare di più il viatico, poichè, sebbene venti giorni prima avesse fatto la Pasqua, si mormorava perchè ancora non si fosse portato dalla Parrocchia solennemente il sacramento, che pure anche la prima volta prese senza essere digiuna. Questo tristo e duro ufficio ebbe l’amicizia e la forza il Cavaliere di assumerselo, e seppe indurla a farlo senza cavar­ne conseguenza sullo stato suo, poichè l’appoggiò alla indiscreta importunità de’ vecchi di Casa, importunità che si poteva calmare con pochissimo incomodo di lei che era tanto buona, e con questo avrebbe liberato me ed essi da seccature mortali, onde, rattoppatasi appena, saremmo passati a Biassono tutti di concerto a farle compagnia nella convalescenza, lontani da questi vecchi indiscreti. Su di questo tuono vi riuscì il Cav.re mirabilmente, e la triste funzione si fece la mattina del 13 Maggio con mia desolazione, essendomi ap­piattato io nella stanza del mio studio per non vedere nè udire quella lugubre cerimonia. Vi parrà strano come Maria a tanti tratti di mio Padre, al cambiamento del medico, alla cura incessante che si aveva di lei, alle quattro visite che talvolta il medico faceva in un giorno, alla partenza vostra, e al viatico non conoscesse mai di essere veramente in pericolo. Ma primieramente conviene riflettere che ella era sommamente illanguidita e spossata, in modo che non cer­cava nè bramava altro che il riposo, secondariamente ella non era mai inclinata a fabbricarsi i mali colla opinione ma piuttosto deter­minata a soffrirli pazientemente quando venivano, in terzo luogo il genere del suo male non aveva abitualmente nulla di violento ed era passata per gradi insensibili dal ben essere al languore, da questo a una piccola febbre con tosse, e s’era avvanzato il male senza quel rapido cambiamento per cui, facendosi il paragone dallo stato d’jeri a quello d’oggi, se ne sente la molta diversità. Queste furono le cagioni per cui ci potè riuscire da noi a allontanarla dall’affannosa inquietudine della morte, pensiero che sicuramente l’avrebbe sgo­mentata non per altro che pel ribrezzo organico e di educazione di passare dallo stato di vita a quello d’un putrido disfacimento nella fredda insensibilità del sepolcro. Più volte meco stesso ricercai se veramente la virtù e l’amicizia consigliassero questo artificio. Il can­dore col quale sempre aveva operato colla mia Maria mi lasciava una sorta di rimprovero nel cuore per questo cambiamento; ma, consi­derando l’anima pura di Maria, incapace di male, considerando la inutilità non solo ma il danno sommo che vi sarebbe stato nel dimo­strarle il vero, considerando il bene essere di lei, così consigliato dagli amici la tenni sempre distratta, acciocchè non vedesse in faccia la morte che se le affrontava a passi pur troppo veloci. Feci che la Giulia terminasse un abbigliamento per lei destinato alla convale­scenza, e negli ultimi giorni feci le nuove livree a tutti i domestici, acciocchè vedesse che non v’era pensiero di diminuirne il numero. Così ella visse placida di mente.

La somma cautela mia non proveniva però da alcun sospetto ch’io avessi di pusillanimità o di larvati pensieri nella mia Maria; ella e ne’ due parti e in ogni occasione mostrò una mente ferma e sere­na e, abbattuta quale era in quell’ultimo periodo, ella sempre vole­va alzarsi pe’ bisogni, ed aveva sull’ultimo la presenza di spirito di avvisare che preparassero vicina una tazza coll’acqua di melissa, indi spontaneamente affrontava il conosciuto pericolo d’un deliquio; e così fece il giorno 16 Maggio. Perdette la bella voce argentina, che aveva sino allora conservata, il giorno 17 Maggio, e ne’ nove giorni che le rimasero di vita non potè ricuperarla più, onde, se prima par­lava poco per debolezza e per non dare stimolo alla tosse, vi si aggiunse la difficoltà di ben comprendere anche il poco per man­canza del sonoro della voce. Faceva de’ sforzi per espellere il catarro e qualche poco vi riuscì. Il 20 maggio v’era frammista una striscia di sangue. Il 21 ella avvisò d’avere un dolore alla quarta costa dalla parte del cuore ossia alla sinistra e, sebbene il dolore non fosse punto violento nè le impedisse il sonno, il dottor Caccini previde una impurazione al polmone. La febbre era poca in quegli ultimi giorni, ma sommo l’abattimento e lo sfinimento suo, per modo che, se un pittore l’avesse esattamente dipinta come era, non sarebbe punto conosciuto per il ritratto di lei: gli occhi erano sereni e più grandi, il naso diventato sottile, la bocca pareva più grande, e le guance scarnate formavano una fisonomia buona e amabile anche in quel misero stato, ma non più quella della Marietta che aveva spo­sata. Non accadde novità sino al giorno terribile 26 di Maggio. Il dolore la incomodava, la debolezza era estrema, Monsignore mio Zio, che era stato il più discreto e che andava in questi ultimi giorni a benedirla, le disse che ancora voleva sperare e più sperava nella assistenza di Dio di quello che aspettasse dai soccorsi della medici­na. Un tal discorso lo ridisse ella al dottor Caccini poco dopo, non come dubitandone ma come una prova della tetra ostinazione de’ vecchi di casa di aspettare sempre il peggio, e il dottor Caccini, essendovi solo e senza di me, le disse che pur troppo Monsignore aveva detto il vero. Maria null’altro rispose se non: «Dunque anche lei mi dà la sentenza che mi danno i vecchi!» e questo fu tutto. Ella non mostrò punto maggiore inquietudine; ma chi sa se l’interna agi­tazione, sebbene compressa, non cagionasse il precipizio poche ore dopo! Chi sa se forse ad animo pacato non potesse protrarre di qualche settimana la vita! Io nulla ne seppi, se non dopo la di lei morte. Questo discorso si tenne verso le venti ore. Poco dopo entrai e dandole un bacio m’avvidi ch’ella aveva un insolito ardore alle carni e le lo dissi, le chiesi del dolore come stesse, e mi rispose que­sta sola parola: «Quieto». Verso sera improvisamente le presero de’ stringimenti soffocativi che minacciavano di ucciderla al momento. Io la vidi un istante, indi, essendo ella assistita da tre donne, e dal Capitano Blasco e dal Moltino, oltre i domestici, io non mi trovai forza e avvilito mi collocai nella stanza gialla dove pranziamo, ed ivi andavano e venivano le notizie. Mi accorsi che eravamo all’estremo e che non v’era più da sperare nemmeno di prolungare la malattia; m’accorsi che probabilmente si sarebbe discorso dell’estrema unzio­ne; avvilito, reso pusillanime dalla lunga serie de’ mali, io pregai il Rettore Annoni, ecclesiastico di sua confidenza e uomo umano e di cuore sensibile, di assisterla, e lo fece il meglio che si può. Maria, oppressa da’ stringimenti, le disse: «Abate, io moro, mi sento mori­re». L’Abate le disse che dunque avrebbe potuto ricevere quel sacra­mento, ella vi aderì, e nel farlo non mostrò la menoma inquietudine, presentò le mani da sè colla maggiore presenza di spirito. Poco pote­va parlare, raccomandò all’Abate che non la abbandonasse, forse temeva la indiscrezione del curato, raccomandò all’Abate la sua Teresina, al P. Sirtori Paoloto raccomandò di incaricarmi di far le di lei veci colla sua Teresina, indi dopo le funzioni ecclesiastiche cercò di vedermi. Erano indecisi i familiari, pure mi fu detto. Io, che, spos­sato e svenuto, non aveva forza di parlare, in quel momento mi sen­tii rianimato non so come, e attraversando le stanze volai al letto della moribonda Maria e le chiesi co’ singhiozzi che m’interrom­pevano perdono se non l’aveva trattata come meritavano le sue virtù. Implorava di morire per salvar lei, e di poter venire in sua vece in quel letto. Ella stese le sue care mani a me che baciai e bagnai col­l’amaro mio pianto, poi mi articolò alcune parole che io era dispe­rato per non capire, ma l’Abate Annoni s’incaricò di spiegarmele e mi condusse nella stanza verde ove mi disse singhiozzando anch’e­gli che Maria si raccomandava per non essere sepellita troppo presto. Indi ritornai alla stanza gialla ove erano i due Castiglioni, i due miei fratelli, la Visconti e la Castiglioni e Frisi, tutti con me immer­si nel più cupo dolore. Il silenzio non era interrotto che da poche voci singhiozzate. In quel momento entra mio Padre in quella stanza strofinandosi le mani e con volto ridente vedendo il cammino acceso: «Ah ah – disse – un po’ di foco anche fa bene». Il tuono d’insensibilità mi colpì a segno che alzatomi e elevando le mani al Cielo io non sapeva cosa mi facessi. Il Conte Alfonso Castiglioni prese mio Padre e lo condusse con pretesto fuori della stanza, dove, vedendo che non v’era motivo di parlargli ed avedutosi che eravi stato condotto per evitare che stesse con noi, si pose ad altercare lagnandosi d’essere scacciato dalla famiglia, e che non avelenava col fiato, e simili cose, mentre agonizava due stanze lontana la povera Maria. Il tracollo portò la povera Maria dalle ventitre ore sino a circa tre ore di notte all’angoscia estrema di mancare il respiro. Quelle quattro ore furono terribili, e sopportate con nobile fermezza, senza timori panici, senza scene di veruna sorte; indi dalle tre sino alle cinque e mezzo, momento in cui spirò, rimase come in un tranquillo languore, e gli astanti appena s’avvidero quando spirò, poichè appoggiò la cara sua faccia sulla mano dritta con dolce e piccol moto quasi prendesse sonno. Noi dobbiamo essere grati al Rettore Annoni che, avendola conosciuta fanciulla e avendola sempre onorata, fece lo sforzo di assisterla più da amico che da lugubre ministro e contribuì a tenere lontane maggiori tristezze. Dobbiamo pure essere grati al Secretario Grassini, che è quello stesso amorevole di casa che gettò i semi della nostra unione e me la condusse a Biassono il giorno di S. Simone nel 1775, e che s’adoperò quantunque in vano per calmare le febbri domestiche al matrimonio. Il Secretario in quelle ultime ore vegliò per impedire che nella stanza non entrasse se non chi era necessario e non si aggiugnesse all’angoscia del morire la pena d’essere pascolo della curiosità altrui. A lui dobbiamo la pietosa cura che ebbe della cara spoglia che affidai al suo cuore, e che fu tenuta in letto intatta per più di trenta ore; indi, aperta per le ragioni già dette, ne risultò che altro difetto non aveva se non il cuore piccolo e il polmone quasi tutto guasto. I balli del 1779, la malattia del 1780, in cui colle cavate di sangue si troncò forse a mezzo lo scioglimento che la natura voleva fare al petto delle materie ivi congeste, le purghe inoportune pare che sieno le cagioni del male e della rovina della infelice Maria, vostra amorosissima madre. Ella morì la notte del 26 Maggio, ossia la mattina del 27 a ore cinque e mezzo, dell’anno 1781, avendo anni ventisette mesi cinque e quat­tro giorni, e dopo di essere stata mia moglie per soli cinque anni tre mesi e cinque giorni. Il pianto, i singhiozzi furono generali, i dome­stici, i cocchieri, il mozzo di stalla, le persone le meno sensibili mostrarono compassione di questa tragedia, e la bontà incompara­bile di lei che mai non aveva dato dispiacere ad alcuno e s’era gua­dagnato il cuore e la stima di quanti la conobbero, formò la più bella orazione funebre che possa ottenere la virtù. Io vi unisco, cara Teresina, la descrizione della visita anatomica. Vi unisco le annota­zioni che mi posi a fare giornalmente quando s’aggravò il suo male, e sperava pure di poterle dare a lei medesima in contrasegno della tenera mia cura, ma ricevetele voi, Teresina mia, che siete la sola porzione viva di quella adorabile donna. Queste carte non sono per occhi profani, le ho scritte per voi, e se io vivo sino a tanto che voi siate una giovine formata, nessuno le avrà lette e voi sarete la prima. Vi unisco le poesie che mi mandò il Sig.r Cardinale Durini e un foglio periodico di Firenze in cui alla data di Milano si parla della nostra disgrazia. Io partii da Milano mezz’ora appena dopo che fu spirata con Carlo mio fratello, Frisi, e Blasco, e mi pareva lunga la strada per l’impazienza di veder voi che per una dolce illusione considerava come la porzione viva della mia Maria. Giunsi alle ore otto del giorno 27 Maggio, entrai nella vostra stanza ove dormivate, ma il giorno era già chiaro, io non osava di svegliarvi e lasciava cadere le lacrime soffocando i miei gemiti, apriste per metà gli occhi e sen­z’altro moto stendeste il piccolo braccio vostro sul mio collo acco­standomi a voi; non sapevate, cara Teresa, tutta l’espressione che davate a voi stessa, e quanto mi diceste! Vennero i due Castiglioni a trovarmi nel giorno medesimo, venne la Visconti col Conte Galeazzo, venne la cognata Castiglioni, qualche consolazione mi recarono questi, partecipi del mio dolore, e voi, cara Teresa, che in vista della compagnia, non vedendo la Maria che era solita a trovarvisi, mi chiedeste: «Ou est la Mamman?», e che, due volte avendo­melo ripetuto a voce alta e con inquietudine, la terza me lo chiedeste piangendo non saprei perchè… Cara Teresa, sarebbe troppo lunga cosa e troppo miserabile il raccontarvi cosa io sentissi, vi dirò unicamente cosa mi abbia sostenuto, il che potrebbe servire a voi di utilità o quando morrò io o quando nel corso della vita dobbiate sof­frire simili affanni. Primieramente, sobrietà somma nel cibarsi e quello che appena basti per vivere, perchè primieramente la langui­dezza fisica rende meno atroci le angustie e tutto succede con mino­re energia in un corpo mal nodrito, e perchè, digerendosi male quando l’animo è afflitto, conviene fare meno sughi cattivi che si può. Secondariamente, fare molto moto: io durante la malattia era sempre in moto e in piedi per servire e vegliare a tutto, anzi il primo giorno terribile in cui giunsi a Biassono non feci altro che passeg­giare sempre sopra il viale col fattore parlando della mia sciagura e lacrimandone, indi ora coll’uno ora coll’altro passeggiando e ascen­dendo il dopo pranzo sino sulla specola di Belvedere senza provare lassitudine anzi avendo un bisogno di fare moto violento, il qual vigore in un uomo che da due mesi era mal pasciuto e perdeva da alcune settimane le notti e l’ultima non l’aveva nemmeno contata mi pare cagionato da una irritazione fisica prodotta dalla angoscia del­l’animo. Il terzo rimedio è stato il non mai sofocare o dissimulare il tormento del mio animo e liberamente parlarne ora con Blasco ora con Frisi, indi coll’Abate Annoni, ora co’ domestici e con chiunque, e piangere liberamente, il che, se era incomodo agli amici, è stato di soglievo al mio cuore, che altrimenti scoppiava. Non è punto ragionevole a tal proposito la cautela che alcuni prendono di non ragio­nare in casi simili del soggetto della tristezza, quasi che fosse possi­bile il distrarre con discorsi alieni l’animo profondamente trafitto dal dolore, laddove anzi condannasi in tal modo l’infelice alla soli­tudine di condensare in se medesimo la propria angoscia e se gli aggiugne il doloroso sentimento di dubitare poca compassione e sensibilità negli amici. Meglio è lasciare che l’animo si esterni e secondare pietosamente le tristi idee che ne nascono, anzi un con­corde parlare della cara amica che più non vive è un religioso e sa­cro rito che l’amicizia esercita per onorare la virtù anche dopo le ceneri, niente essendo più conforme a quella che il ricordare il nome, i fatti e i meriti delle persone care che sono estinte e il dar loro quella immortalità che possiamo.

Dopo di avere proveduto alla custodia della cara spoglia, la quale sino entro del sepolcro fu rispettata e deposta come se fosse addormentata, io nessun altro pensiero ebbi se non se quello di eternarne la memoria quanto poteva e conservare tutto ciò che le apparteneva colla possibile integrità, per passarlo a voi. Io non aveva della mia Maria alcun ritratto fuori di una miniatura fatta nel 1776 dal Rovati la quale allora le somigliava perfettamente, scelsi il miglior pittore che avevamo, il giovine Andrea Appiani, e meco lo condussi a Biassono, ove colla miniatura, co’ consigli di Carlo mio fratello, colla opinione de’ domestici rettificò e ridusse in grande un ritratto a olio, scegliendo il vestito domestico che Maria portava, e dipingendole il cerchietto d’oro col quale venne sposata e col quale morì e che conservo e conserverò sino ch’io avrò vita. Il ritratto riuscì, come bra­mava, somigliante e un bel quadro, gli feci una cornice intagliata di nobile lavoro, acciocché e il merito della pittura e del contorno la preservino negli anni a venire dal destino comune ai ritratti. Da esso vedrete quanto nobile, modesta, sensibile, e interessante figura fosse la nostra Maria e il di lei volto bastantemente v’indicherà quale fosse l’animo di lei. Questo quadro l’ho pagato in tutto venticinque zec­chini. Ma ho riflettuto che la vita d’un quadro non è molto lunga ammeno che non sia d’un pittore del primo ordine, i rittratti de’ monarchi e delle più cospicue persone terminano ammucchiati sotto i tetti delle case o appesi per ignobile ornamento alle stanze de’ domestici, laddove un bel busto di marmo di Carrara eccellente­mente lavorato dura secoli e secoli e sempre viene collocato in nobile stanza. Fortunatamente è in Milano il più valoroso scultore d’Italia, il Sig. Franchi, il quale, non so se dica per una prodigiosa maestria ovvero per un singolarissimo azardo, dalla miniatura ha saputo così bene trovare il profilo di Maria che, osservando il busto che ne ha fatto in profilo, mi pare di vederla viva e spirante. Egli ha dato a quel busto tutta la grazia e tutto il sentimento che conveniva a Maria e, per fortuna affatto rara, il marmo non ha la benchè mini­ma ombra o difetto, è puro e sincero e uniforme a se medesimo in ogni sua parte come era Maria. Mentre scrivo ancora non è del tutto finito il lavoro, il marmo costa 14 gigliati e all’artista ne darò 50. Il piede di marmo nero forse costerà sei altri zecchini, così in tutto costerà zecchini settanta. Ma la fisonomia della cara mia Maria non è affatto morta, la vedremo ancora noi, e i nostri posteri vedranno in quella nobile, modesta e cara figura la grazia, il candore, e un rag­gio delle virtù che la adornavano. Oltre queste idee e queste cure, nelle quali unicamente ho potuto occuparmi ne’ scorsi mesi, ho disegnato un tempietto sostenuto da otto colonne ioniche, che por­tano una cupola emisferica e queste aventi le basi sopra uno spazio ottagono due o tre gradini alto dal suolo per riporvi sopra di un pie­destallo il busto colla iscrizione seguente:

UT IMAGO, MEMORIA, VIRTUS | SANCTISSIMAE CONIUGIS | MARIAE CASTILIONEAE | DIUTIUS VIVANT: | UT GRATI ANIMI PIGNUS, | ET QUAM LICET IMMORTALITATEM | AMATAE, DULCI, | FIDELI, PIAE, PUDICISSIMAE | RELINQUAT | UT SOLAMEN MAERORI | ALIQUID PRO IPSA AGENDO | QUAERAT | PETRUS VERRUS | CONTRA VOTUM SUPERSTES | POSUIT | H. M. H. N. S.

In fatti ne’ primi mesi dopo della mia sciagura io non provai altra consolazione se non con voi, Teresina mia, e occupandomi per eter­nare il nome, la figura e le virtù di Maria, reso affatto incapace di attenzione per ogni altro studio. Io nel corso di mia vita ho sofferto molti affanni e molte passioni, nella carriera del Ministero nessuno è stato esposto a tanti pericoli quant’io lo fui, che ebbi contro tutto il ceto de’ Ministri per sostener io che si doveva abolire la Ferma, il che seguì con profitto insigne dell’Erario e della Patria, ma le ingiu­stizie, le calunnie, le mortificazioni sofferte e nel ministero e in fami­glia erano dolori d’animo: che mi cagionavano una febbre tormentosa e un bisogno di agire e di battagliare ovvero di occuparmi in oggetti di studio, e quest’azione mirabilmente serviva a calmarmi; laddove nella perdita della mia cara Maria rimasi inerte, languido, e come abbandonato ad una squallida solitudine, il quale infelice stato dell’animo incapace di alcuna distrazione è il più compassionevole che io abbia provato, e non ammette altro compenso che l’occupar­si per sottrarre dalla morte tutta la porzione che si può e onorare quanto è fattibile la memoria di lei. La carta che sta legata in fine di questo libro è impressa colla lamina d’argento che è pronta per collocarsi unita colle ceneri di Maria e da essa vedrete al primo momento in cui potei farlo cosa feci per quella adorata spoglia.[14]

Quale fosse il carattere della nostra Maria l’avrete potuto racco­gliere da quanto ho scritto.[15] Io non ho conosciuto alcuna altra per­sona che fosse tanto ragionevole e tranquillamente uniforme quan­to ella lo era. Le parole capricci, simpatia, antipatia non accadeva mai di adoperarle parlando di lei. Ella esaminava con finezza e con attenzione il carattere delle persone, e, se giugneva ad avere dati bastanti per averle conosciute, quella nozione rimaneva limpida e nè per buoni uffici nè per cattivi si lasciava mai trasportare. Per esem­pio, conosceva perfettamente mio Padre, mia Madre, e mio Zio. Se essi erano freddi e sobrii con lei, ovvero se la addescavano con gra­ziose maniere, era ella sempre la stessa, officiosa, cortese, ma som­mamente circospetta, nè mai fidandosi di qualunque loro apparente cordialità. La definizione rimaneva sempre la stessa e non ne cavava altro dalle variazioni se non che erano di buono ovvero di cattivo umore. Similmente aveva conosciuti i suoi fratelli per due caratteri decisamente buoni, come in fatti lo sono; malgrado de’ passi falsi che fecero e alcune trascuranze, ella non ascoltò mai senza pena e tedio che si parlasse con disapprovazione di loro. Era affezionatissima alla sua famiglia; affezionatissima alle buone Monache di S.ta Catterina alla Chiusa e particolarmente alle Madri Porta che l’ebbe­ro in cura e che l’amavano e l’amano come loro figlia. Maria, dolce e graziosa con tutti, conosceva e penetrava con somma sagacità i caratteri ed aveva ottimo criterio per distinguerli. Vegliava sulla con­dotta de’ domestici, sulla fedeltà, sulla decenza de’ loro costumi con molta avvedutezza. Mai non l’ho veduta operare per impeto o per trasporto. Il di lei volto era sempre sereno e non mai offuscato dalla collera, dal dispetto, o da inimica passione; ella continuò in questo stato anche nella medesima agonia, e parve che la mano di Dio, che segna su i volti umani il lume della Divinità, particolarmente avesse contraddistinta quella benaugurata fronte, albergo d’un’anima pura e virtuosa. Possiate voi, cara Teresa, rassomigliare alla buona vostra Madre. Onoratene sempre la cara memoria e meritate anche voi che un giorno i figli vostri vi ricordino con tenerezza e propongano per esempio alle generazioni che verranno. Se in questo scritto originale che non voglio correggere non v’è grazia ed eleganza, nemmeno ho io pensato di porvela, il cuore solo, la verità, e un sentimento d’omaggio al merito hanno guidata la mia penna.

Milano 8 Novembre 1781.

Quis desiderio sit pudor aut modus | tam cari capitis!

Le cose seguenti le ho scritte in Marzo del 1782.

Vi può far maraviglia come, avendo io sentito tutto quello che ho espresso nell’antecedente mio scritto, abbia poi potuto determinar­mi a nuove nozze, e abbia potuto collocare una nuova sposa al luogo che per riverenza a Maria doveva essere non mai più riempiuto da altra donna, ed abbia esposta voi, cara Teresina, unica porzione vivente d’una moglie adorata, ad avere una madrigna. Voglio che vediate come ciò sia accaduto, e che giudichiate con cognizione del mio cuore anche in questa scabrosa azione.

Erano già compiuti i sei mesi dopo la funesta perdita, era termi­nato il lutto, e il mio animo sempre avvilito e passivo non risorgeva in conto alcuno. Non poteva reggere e continuare nessuna lettura. Non poteva nemmeno ripigliare il legger lavoro di ripassare le poche correzioni della mia Storia. Tristo, inerte, inutile a me stesso, agli amici, incapace quasi del mio officio nel Ministero, non poteva reg­gere e seguitare colla attenzione gli affari che si proponevano nel Magistrato, passava le giornate solitario in casa, a carico a me stesso e, se ho qualche talento e se ho fatto qualche studio, tutto era reso affatto perduto. Le lunghe sere e le notti d’inverno erano fatali per un animo che aveva una sola immagine davanti e che non poteva interessarsi in nessuna altra idea. Non vedendo operarsi dal tempo veruna sensibile diminuzione alla mia miseria, io bramava la morte come il solo termine de’ miei mali, termine non più atroce o funesto, poiché mi univa alla condizione della cara Maria. Io così mi tro­vava, quando dalle Madri Porta di Santa Cattarina alla Chiusa mi venne una istanza, perchè andassi a visitarle o almeno mandassi la mia Teresina. Io, che sapeva quanto la Marietta amasse quelle buone signore dalle quali era stata allevata, memore che frequentemente le visitava e varie volte mi vi aveva condotto seco, malgrado la malin­conia e l’imbarazzo che provo a visitare quelle vittime, mi determi­nai di andarvi e condurvi io stesso, per vedere chi aveva amato mia moglie e per fare quello che m’imaginava sarebbe piaciuto alla Marietta ch’io facessi. Così feci, e insieme alle Madri Porta venne una giovine di bella figura, di cui la fisonomia mostrava sensibilità e dolce modestia. Fui colpito da una fisonomia tanto buona e felice, e, scoprendo poi che quella era la Vicenzina Melzi, mi risovenni che la povera Maria nell’ultima malattia, parlandomi di suo fratello, delle spese grandiose nelle quali si era impegnato, e del genere di vita che doveva fare per uniformarsi alla Casa Crivelli, mi disse che, posto che suo fratello avesse voluto in età così immatura accasarsi prima d’aver fatto un viaggio, e prima di essersi posto al fatto de’ proprj interessi, almeno avesse sposata la Vicenzina Melzi. Quella è la più bella di tutte le sorelle; quella è nobile, e gli conservava ne’ figli il diritto all’ordine di Malta; quella non ha nè parenti che s’in­trighino, nè pretensioni, ed è la più buona giovine che si possa tro­vare. Quella era la moglie fatta per lui. Così mi disse Maria, ed io in quel momento me ne risovenni, e quasi mi parve che, dal Cielo diri­gendo il mio fato, ella avesse combinato quest’incontro e me la pre­sentasse come un’altra se stessa, allevata nel medesimo monastero in cui ella ebbe l’educazione e in cura alle stesse Madri Porta che ebbe­ro Maria. Niente però di questo sentimento mio trapellò al di fuori.

Ritornato a casa, questo pensiero s’illanguidì, e ritornai allo stato abituale. Intesi poi come Monsignore mio zio, dal di cui beneplaci­to dipende il lasciarmi agiato o no, nell’estate essendo andato a Como ad alloggiare dal Cavaliere ed avendo condotto seco con mia maraviglia mio padre, reso ospite del figlio cadetto, intesi, dico, che senz’alcun mistero ivi parlava del Cavaliere come del sostegno della famiglia, considerando me come determinato a non più ammogliar­mi. L’ambiziosa tenacità de’ due vecchi tende a non permettere divisione o sottrazione nella sostanza domestica; conseguentemente, io diventava un cadetto al quale si sarebbe lasciato il meno possibile. S’erano già intavolati de’ partiti di nozze pel Cavaliere, e fra gli altri una figlia Barbò che alloggiava alla Camerlata, e una Rossini di Como. Allora intesi perchè il Cavaliere avesse fatta una istanza tanto straordinaria e ripetuta per avere da lui nel suo Casino i due vecchi. Mi determinai a tornare con voi a Santa Catterina alla Chiusa, e nuovamente osservare la Vicenzina, e quella seconda visita mi confermò nella migliore opinione del merito di quella bella giovine.

In questo stato di cose, da una parte m’era insopportabile lo stato mio, dall’altra mi piccava questo prematuro sostegno della Casa; ma, pieno il cuore della memoria di Maria, credendomi incapace di amare più altri, provando ribrezzo a mancare di fede al cenere di una sì virtuosa e cara sposa, amandovi e non consentendo che si pre­giudicasse la vostra condizione, in questo imbarazzante e pericoloso imbroglio di pensieri mi determinai ad aprire con qualcuno il mio animo, e scelsi il Sig. Capitano Don Michele de Blasco, antico amico di cui conosco il cuore eccellente non meno che la provata secretezza e onestà. Egli per risultato del discorso mi consigliò di secondare il pensiere della Melzi e le ragioni furono: la Marietta istessa sicura­mente lo consiglierebbe come unico mezzo per ritornare a vivere e sollevarsi, lo consiglierebbe per l’opinione della Vicenzina già dimo­strata, lo consiglierebbe per la Teresina medesima, la quale crescen­do convien pure che sia in custodia di una dama. La Melzi non ha nè Padre nè Madre che vengano a sconvolgere l’ordine della Casa. Ha una modica dote, e non porterà pretensioni incomode. Abbiamo l’esempio dell’ottima riuscita delle sorelle. Nel Monastero tutte ne dicon bene. Cosa cercheremo di più! La Teresina, se si marita il Cavaliere, non è più una ereditiera che significhi. Cento venti mila lire le ha già dalla dote materna, il Padre deve darle egli pure una porzione di dote, e così non le mancherà mai un buon partito. Queste ragioni mi determinarono dapprincipio o a non ammogliar­mi o a prendere la Melzi, se pure a lei convenissi.

Il primo passo lo feci colla Sig.ra Marchesa Corbelli, buonissima dama che conosceva da molti anni, e che fa le parti d’una madre colle figlie Melzi. Il fine della mia visita fu unicamente per sapere se per parte materna le figlie Melzi provassero nobiltà, se la Vicenzina fosse sana, se abbia avuto il vajuolo. Se, qualora io pensassi a lei, ella fosse per contentarsi di me, della mia persona, indipendentemente dai comodi della mia casa. Tutto ciò senza verun impegno. La risposta fu. Che la famiglia Heril della Madre era nobilissima. Che la Vicenzina era sana. Che il vajuolo non l’aveva avuto. Che sull’ultimo articolo ella anzi era incombenzata di parlarmene, e che alla figlia io non dispiaceva. Questa conversazione, che fu il primo passo, la feci il 4 Dicembre 1781, e me ne ricordo precisamente perchè la Mar­chesa, rammentandomi la sua amata figlia la Contessina d’Adda morta il 6 Agosto 1759, mostrò che ventidue anni di tempo non ave­vano rimarginata la piaga del di lei cuore, perchè quella mattina, sentendo l’Artiglieria del Castello per S.ta Barbara, di cui era il nome della figlia, aveva provata la solita malinconia. La conclusione del discorso fu che la pregai, sempre senza impegno, di vedere nuo­vamente se la mia persona piaceva, e se al caso sarebbe stata la Vicenzina disposta alla inoculazione. Ebbi poi risposta affermativa. Io aveva determinato di non fare alcun passo ulteriore sin tanto che, terminato Maggio del 1782, non fosse compiuto l’anno vedovile: ma il giorno 13 di Febbraro per parte della Sig.ra Marchesa fui stimolato a determinarmi, appoggiandosi a un partito forestiere che veniva proposto alla Casa Melzi. Io non volli esaminare se questo motivo sussistesse, e, considerando in ogni caso che l’esteriore riguardo do­vuto a Maria sarebbe salvo tosto che il mio impegno non venisse a sapersi se non dopo di maggio, mi determinai a decidermi, tosto che mi si permettesse prima di tutto di scrivere alla damina, e venissi assi­curato che nessuno esaminasse la mia lettera, e nessuno vedesse la risposta che mi venisse fatta. Questo mi venne accordato dalla Sig.ra Marchesa, ed io presi tempo a determinarmi dopo questo passo.

Era giusto che non m’impegnassi con una persona che non cono­sceva che appena di figura e pel bene che comunemente se ne dice­va. Si trattava della mia felicità, e voleva che la figlia mi conoscesse come sono e sopra di ogni altra cosa assicurarmi che non pensasse mai ad essere la rivale di Maria, nè a scacciarne dal mio cuore la sacra memoria, nè a sbandire dalle mie stanze le onorate imagini di lei, ma piuttosto, associandosi meco nel pietoso ufficio, la onorasse come una virtuosa donna, e come la sua amica a cui sola doveva que­sto collocamento. La mia lettera adunque conteneva quello che ho scritto dissopra sul modo col quale gli encomj che di lei aveva fatti Maria e la ottima opinione ch’ella ne aveva mostrata furono i primi pensieri che mi mossero verso di lei. Che la uniformità della educa­zione con Maria sommamente vi aveva influito. Che io non avrei mai pensato a collocare un’altra al luogo della povera Maria, se, reso inetto e incapace di tutto e disperando d’essere calmato col rimedio del tempo, non mi rimanesse per solo partito la scelta d’una nuova compagna; che io non amava altra cosa che Maria; ma che sentiva che la nobile figura e l’indole buona e amabile della Vicenzina face­vano impressione nel mio cuore, e che ella sola poteva consolarmi. Le faceva presente che ho cinquanta tre anni. Le parlava dell’inne­sto. Infine la pregava a rispondermi liberamente, concludendo che, se lo stato del mio animo e le mie circostanze non le piacevano, inge­nuamente lo esponesse, persuasa che l’avrei stimata sommamente e che il dolore che avrei provato sarebbe stato breve, e incomparabilmente minore di quello di trovarmi legato con una moglie che non mi amasse e mi richiamasse a paragoni continui fra lei e l’adorabile Marietta. Il riscontro fu semplice e quale lo bramava. Che il mio modo di pensare per la Marietta in vece di farle pena le dava somma consolazione. Che colla sua condotta avrebbe sperato di ottenere dal mio cuore qualche cosa di più di quello che attualmente sentiva per lei. Che l’età mia già la sapeva, ma nemmeno vi aveva mai pen­sato. Che era pronta all’innesto. Che si sarebbe chiamata fortunata diventando mia. Io fui contentissimo di questo riscontro e a lei medesima compiegai la promessa in data del 16 Febbraro in forma di lettera alla Marchesa Corbelli.

Vedete con ciò cara Teresina che mi sono determinato ad ammogliarmi di nuovo per forti ragioni, cioè per uscire dallo stato di abi­tuale abattimento che mi rendeva inetto ad ogni cosa, abattimento che il tempo non diminuiva, e per evitare il colpo di vedere instituito erede del zio il Cav.re e spogliato me. Vedete poi che nella scelta medesima della moglie io ho presa la sola che, allevata nel monaste­ro medesimo, consegnata alle medesime Madri Porta, e finalmente comendatami sopra ogni altra dalla Marietta, ho fatto un atto di omagio alla memoria della vostra cara Madre. Vedete finalmente che nel modo col quale ho incamminato questo affare mi sono assicurato prima di tutto che la Vicenzina riconosca la Marietta come quella che ha formata la nostra unione. Io mi prometto di avere una ottima compagna, mi sento disposto ad amarla, e di vedere risorta in lei la vostra buona madre Maria anche rispetto a voi. In quest’affare vi fui portato dalla necessità, vi fui guidato dalla ragione e dal cuore, non ho tradito mai la virtù, e ne presagisco un esito pienamente felice.

15 Marzo 1782.

Delle cose lasciate dalla nostra Maria.

L’inventario delle cose che appartenevano alla cara Maria lo leg­gerete qui apresso. Venne fatto colla maggiore esattezza da Cesare Niada cameriere, e vi ho fatto porre di contro agli articoli di mag­gior valore la stima che se ne fece quando vennero comprate. Le poche gioje di Maria erano sue e provenivano da un annello grande di brillanti, che mio Padre ebbe in dono dall’Imperatrice Regina in premio d’una voluminosa compilazione ch’ei fece per comando Sovrano attinente alla Storia Patria; quest’annello, all’occasione che nel 1778 nacque il figlio, glielo regalò e ne fece con questo l’annello e tre spilloni d’un solo diamante e uno spillone con un diamante contornato. Gli altri quattro spilloni con sei diamanti ciascuno sono estratti dalla scattola regalatami dal Reale Arciduca l’anno 1766. La stima di questi diamanti è di gigliati 385. Colla vendita poi ch’el­la fece con mio assenso della scattola, repetizione, e stuccio rega­latole e per cui aveva sborsati gigliati 314 al Chinetti, ella acquistò la repetizione valutata gigl. 72, una piccola mostra gigl. 21, e un annello di topazo per gigliati 20. Questo sta riposto tutto in uno stuccio, di cui il valore verosimilmente sarà cinquecento gigliati. Alla sua morte ella lasciò un pachetto di cento zecchini, che furonle donati da Monsignore alla occasione del maschio, e questi intatti li conservo come tutta roba vostra, cara Teresina.

Se io pensassi da buon economo, dovrei vendere tutto: e del capi­tale farne un impiego, di cui il frutto legalmente sarebbe mio sin che vivessi e la proprietà vostra. Ma io non so determinarmi a staccare da me e mettere in vendita le reliquie della adorabile nostra Maria. Il mio cuore vuole che io mi separi da lei il meno che posso. Il mio cuore mi dice che un giorno sarà più caro alla mia Teresina il posse­dere intatte tutte le cose che appartenevano alla buona sua madre, quantunque deperite di prezzo, anzi che trovare che suo padre abbia scacciate da casa le memorie di lei. Se con ciò pregiudico ai vostri interessi, vi rimedierò dotandovi, e non pregiudico meno a’ miei. Ma questo è uno di que’ casi ne’ quali il sentimento e non la ragione ci determinano, e sono certo che mi approverete.

Tutta la roba lasciata dalla cara Marietta (eccettuato lo stuccio contenente le cose di poco volume e preziose, che le terrò io co’ cento zecchini) la consegnerò alla vostra cameriera la Savina, acciocchè niente venga a confondersi cogli arredi della nuova sposa. Subito che voi avrete l’età di farne uso, avrete tutto voi stessa in vostra disposizione. Alcuni temono che le cose e singolarmente i vestiti portati dai tisici sieno contagiosi; il dottor Cocchi ha scritto vittoriosamente contro di questa opinione. Qualunque sia il partito che voi ne prenderete, ne siete la padrona, laddove io ne sono il mero depositario, e voi, essendo una porzione animata della stessa Maria, potrete alienare le di lei spoglie come potete farlo dei vostri vestiti medesimi, tanto più che la maggiore distanza del tempo toglierà o in tutto o in parte il ribrezzo che oggidì mi si oppone.

Se io dunque venissi a morire prima d’aver fatto testamento, o se facendolo non mi ricordassi, dichiaro che debbono considerarsi come mobili vostri tutti i descritti negli inventari legati in questo libro, e di più che il ritratto di Maria, il di lei busto di marmo, e il quadretto in cui sta il monumento e il ritratto in miniatura di Maria debbano essere cose vostre totalmente, e ciò quantunque avessi figli dal secondo letto.

[Memorie della fanciullezza di Teresa]

Mia cara figlia Teresina
Milano, 4 Marzo 1777

Vi scrivo perchè bramo che sappiate, mia cara Teresina, cosa ho pensato sul conto vostro; vi esporrò liberamente i principj che ho seguiti, i sentimenti che ho avuti, e voi vedrete un giorno quello che comincio a scrivervi due giorni dopo la vostra nascita. Se io tardas­si col tempo, mi dimenticherei delle piccole circostanze le quali ho piacere che vi siano note un giorno, così mi propongo di stenderle di volta in volta su questo libro che è destinato per voi. Spero, anzi sono sicuro, che questa mia cura vi farà un giorno piacere, perchè vi servirà di prova che mi sono occupato di voi, e, siccome siete per essere un giorno madre, vi servirà di qualche lume a condurvi co’ vostri bambini, come mi propongo io di fare con voi. I dolci, i cari, i sacri sentimenti della benefica natura faranno la felicità del vostro cuore come la fanno del mio, e spero che l’esempio mio e della vostra buona madre e dei vostri buoni zii preserveranno la vostra anima dalla corruttela e vi lasceranno sviluppare i sentimenti puri della virtù e della legge di natura, nella quale sola si prova dolcezza e pace, e allontanandosi dalla quale si smarrisce il cuore in un labi­rinto di sogni, di larve, e di errori che promettono una felicità sem­pre finta e lasciano il vuoto, l’amarezza e il disprezzo di noi medesi­mi nel fondo del cuore. Voi amerete i vostri figli per lo stesso principio che io vi amo.

Vi dirò adunque che la Marietta Castiglioni vostra Madre l’ho sposata il giorno 21 Febbr.o 1776, perchè ho conosciuto in lei un carattere dolce, uniforme, placido, sensibile alla ragione e in una parola buono, anzi eccellente. Ella viveva in casa nostra da più di quattro anni come pupilla di mio Padre; non l’ho sposata per una violenta passione, ma per una inclinazione dolce e talmente domi­nata dalla ragione che avrei potuto abbandonarla senza gran dolore il giorno prima delle nozze, se avessi scoperto d’essermi ingannato nel giudicarla buona e conforme al mio carattere. Non vi racconte­rò i torbidi che nacquero in casa in quella occasione, parte per an­gustia di cuore di mio Padre e mio zio, parte per il genio impetuoso di mia Madre che forse mal soffriva una nuora, sebbene allevata da lei. Io mi accomodai a un ristretto assegnamento, purché nella mia famiglia potessi regolare da me tutto e moglie e figli e domestici. La maniera di pensare e di giudicare delle cose fra me e Padre, Madre e zio è talmente opposta che difficilmente potremmo essere d’ac­cordo anche negli oggetti i più indifferenti. I miei fratelli si sono accostati a me, stimano e sono affezionati alla vostra buona madre, e facciamo una casa da noi, pranzando a parte e visitandoci appena come vicini co’ maggiori. Sento con dolore un tale scisma, il mio cuore vorrebbe avere delle relazioni più tenere con quelli che mi hanno data la vita, ma la ragione evidentemente mi dimostra che questo è il minore inconveniente che si possa scegliere.

La Marietta (alla quale più non converrà questo diminutivo quan­do leggerete, ma che mi dovete lasciar chiamare come sono solito), quando fu mia, la trovai bensì fortunatamente libera da una folla di pregiudizj che avrebbe contratti ogni altra nella compagnia nella quale era vissuta; ma non aveva per sé che un felice naturale: nessu­na lettura, nessuna società colta aveva potuto liberarla dagli errori comuni. La sola volta che io mi animai contro di lei fu colla occa­sione che, parlando io della barbarie di fasciare i bambini, ella mi rispose quasi considerando stravagante la mia ripugnanza. M’avvidi verso la fine di Giugno ch’ella era incinta. Giunsi a persuaderla delle due importantissime verità, cioè che il modo di mantenere sana la madre e il feto era quello di allattare il bambino, che l’uso delle fascie era la cagione della morte, della deformità e della cattiva co­stituzione de’ figli. Io vi riuscii gradatamente. Quanto all’allattare, non v’erano quasi esempj, cominciai a supporre che vi sarebbe stata una nodrice stipendiata in casa, che solamente di tempo in tempo la madre avrebbe dato corso al latte per non occasionare un violento rigurgito, in somma ho condotto la cosa mediante anche il carattere docile della Marietta che negli ultimi mesi della gravidanza non si parlò più di nodrice sussidiaria. Sul proposito delle fasce poi vi dirò come ho fatto.

Persuaso che un bambino, costretto a tenere le gambe e le brac­cia violentemente distese e allungate, soffre una tortura dolorosissi­ma; persuaso che la impotenza in cui viene posto di ajutare se stes­so co’ moti che detta l’istinto della natura è nociva, io ho conosciuto la crudeltà e i cattivi effetti di tale metodo. Ho creduto che l’usanza universale d’una cosa evidentemente mal fatta non autorizza a farla, e che il dovere d’un buon padre egli è a qualunque costo di preser­vare la debole e innocente creaturina confidata da tutte le leggi alla sua cura da tutti i mali possibili. Se si fosse trattato unicamente di risparmiarvi un dolore, io ve lo doveva risparmiare. Si trattava in oltre di risparmiarvi le rotture, l’epilessia e tanti altri danni. Nessuno aveva osato da noi di fare senza delle fasce, fuori che il S.r Mozzoni, esempio che non era seguito. Non mi fece alcun ostacolo la univer­sale opinione e le dicerie, le quali si sparsero forse anco da mia Madre. Vi volli illesa.

La difficoltà era nel preservarvi dai mali che le donne potevano cagionare alle vostre tenere membra col trasportarvi al letto della madre o altrove. Io dunque fui l’architetto d’un nido composto di vimini, capace di contenere il bambino, lo feci intonacare dentro e fuori di materia molle, un cuscino, fatto per collocarvisi nel fondo, vi proccurava un appoggio morbido; sopra vi feci delle copertine di cottone e, le sponde del canestro sopravanzando ad esse, ho fissati tre nastri che vi attraversassero senza toccarvi e che impedissero l’uscita dal canestro. L’esperienza mi fa vedere che siete troppo debo­le per temere questa uscita sin ora. Con tutto ciò, ve li lascio per timore del trasporto quando siete in mano delle cameriere. Questo canestro si cambia ogni giorno, ne ho fatti tre co’ suoi cuscini, e cia­scuno sta due giorni all’aria aperta prima di adoperarsi.

La Marietta durante la gravidanza non ha usato busti di balena, ma mi sono raccomandato perchè sempre fosse libero il moto del feto. Ella ebbe pochissimo incomodo nella gravidanza, e questo uni­camente fu per la mole del ventre; mangiava bene, più che dappri­ma, ed ebbe sempre un ottimo colore.

Il parto cominciò verso le ore 19 del giorno 1 Marzo con dolori che impedirono a vostra madre di pranzare: appena potei farle pren­dere un po’ di zuppa e due uova; poi crebbero, e verso sera venne la mammana e assicurò che il parto era maturo e che il feto era ben rivolto. Questa notizia mi consolò, perchè temeva. Durante tutta la notte la povera Marietta non ebbe un mezzo quarto d’ora di pace, e mi strappava il cuore il suo stato, sebbene non mai vi è stato motivo da angustiarsi; ora era a letto, ora si alzava e passeggiava sostenuta da me e dalle donne, ora sedeva, ora si alzava, sempre in una sma­nia che mi stringeva il cuore. Due volte ho dovuto ritirarmi con qualche pretesto, e scoppiava in pianto, poi ritornava ad assisterla ricomponendomi. Finalmente verso le quindici ore del giorno 2 Marzo 1777 scoppiò l’acqua e si andò aprendo il parto, la Marietta passò allora ad uno stato più tolerabile. Forse la diminuzione dell’e­stensione dell’utero cominciò a sollevarla. Verso le ore seddici cominciai a sapere che voi avevate i capelli sul capo, e questa testi­na vostra restò poi sino alle ore 20 ¼ per istrada bel bello bel bello. Felicemente poi in quel punto, essendo vostra madre a sedere sulla sponda del letto, appoggiata ai cuscini, sostenuta per di dietro alle spalle dal dottore Magistretti e con una donna per parte, cioè la Rosa di Casa Castiglioni e la Maria nostra cameriera, siete voi venuta al mondo. La mammana non volle dire che fosse una femmina e stava aspettando il resto del parto, dicendo che non aveva potuto visitarla, ma io me ne avvidi da questo istesso e ne ebbi piacere.

Desiderava una figlia piuttosto che un maschio, perchè colle situazioni domestiche io temeva che mio Padre e mio zio non ci vin­colassero tutti quanti noi fratelli per lasciar tutto al bambino a pre­giudizio poi degli altri cadetti che io possa avere. Questo timore era conforme alla notizia che ho della maniera loro di pensare per ammassare e perpetuare i loro beni. Poi mi pare che una bambina naturalmente sia più dolce di carattere e più affezionata verso suo Padre.

Non volendovi io vedere fasciata, era indispensabile il farvi subi­to battezzare, e ne aveva già prevenuto l’Abate Annoni, che mandai a prendere tosto che il parto fu vicino; foste lavata. Volevano ado­perare dell’acqua calda, io la resi tepida, vi posi poco vino, e fui a sostenervi la testa che la mammana vi lasciava pendente in questa funzione. Se avrò altri figli li laverò io, con voi non ho ardito farlo, perchè nè sapeva la mala grazia delle mammane nè sapeva come farlo; siete stata duramente strofinata con una tela asciutta per libe­rarvi dal glutine che avevate sulla schiena singolarmente e colla saponata che v’entrò negli occhi e sul naso: dovete avere sofferto assai, ve ne domando perdono, me ne sono accorto dopo. Il vostro dolore lo farà risparmiare ai vostri fratelli.

Appena lavata, ho ajutato a porvi la camiscia, voi smaniavate dalle grida per il pizzicore del sapone. Ma non vi fu fatta altra violenza. Vi si pose la fascia sull’ombelico. Poi ebbi cura che le finestre fosse­ro socchiuse e il lume non vi percuotesse. Questa attenzione l’ho e la voglio conservare per alcune settimane, perchè una impressione forte agli occhi vi può diminuire la sensibilità del fondo dell’occhio e darvi una debole vista. Io ho sempre avuta vista miope, i sensi sono i mezzi per conoscere gli oggetti, ed io proccurerò che non vi si gua­stino e gli abbiate sani e perfetti.

Poi subito siete stata battezzata in un catino d’acqua tepida dall’Abate Annoni, nelle mani del quale vi posi perchè è giovine attento e che era certo non vi avrebbe fatto soffrire. Dopo questo momentaneo sacramento vi ho collocata nel vostro canestrino nel centro del letticiuolo fabbricato per voi e colle cortine vi ho sempre fatta stare difesa dalla luce. Voi vi acquietaste, e poco o nissun grido avete dato dappoi sin ora. Stavate cogli occhi spalancati, mostrava­te due begli occhi, un corpiciuolo assai bene proporzionato, il capo con peli bruni, le vostre piccole mani ranicchiate verso il mento, non avevate movimento che uno quasi continuo nelle mani, e ne’ piedi, vi siete posta a dormire e non avete fatto altro. La sera vi posi in bocca un mezzo cucchiajo di acqua col mele, non volli che prende­ste siropi di cicoria o alcun farmaco; anche il mele l’avete vomitato. Passaste la notte quietamente.

Il giorno 3 Marzo la mattina cominciai a farvi accostare alle poppe della madre, un troppo lungo digiuno poteva indebolirvi, il meconium era due volte passato, la poca serosità che poteva essere nel seno di vostra madre era appunto il purgante dolce e benigno che la natura vi preparava; con un po’ di pazienza e coll’intonacare di mele il capezzolo delle poppe imparaste a succhiare. Tutto andò come la natura dettava.

a 5 Marzo 1777

Cara Teresina, io vi scrivo quello che sento, non rivedo quello che scrivo e naturalmente troverete delle ripetizioni e de’ sensi mancati, tocca a voi a suo tempo a supplirvi. Tutto va bene. La Marietta sin ora non ha avuta febbre di latte, potrebbe venire oggi, ma spero di no. Il latte viene e voi siete alimentata dalla sola vostra madre, così continuate a ricevere un alimento uniforme a quello che vi ha formata. Voi siete placida e dormite, ammeno che la fame o la sete non vi scuotano, e al minimo cenno siete portata dalla vostra amorosa nodrice. Io ho attenzione che siate sempre tenuta monda con panni lini sempre asciutti e al momento cambiati. Non vi lascio mirare luce sfacciata, non vi lascio sentire calore artificiale, il canestro d’oggi domani sta all’aria aperta, sebbene non sia sporco, ma perchè siate attorniata di roba che non sia inzuppata di traspirazione, l’aria della vostra stanza la cambio, così faccio in quella di vostra madre.

Alcuni autori consigliano di lavare i bambini con acqua fredda, io non lo faccio per più ragioni, che ora vi dico. Primieramente una bambina deve essere custodita diversamente che non un bambino. L’uomo deve formarsi ardito, robusto, intrepido, coraggioso, ercu­leo se si può. La donna sarebbe viziosa con queste qualità: un po’ di gracilità, di timidezza, e di riserva sono grazie in lei. Vorrei che un mio figlio s’avventasse contro un impertinente, e che una mia figlia si coprisse d’un modesto rossore. Data adunque la diversa mira alla quale deve tendere l’educazione dei maschi da quella delle figlie, anche più dobbiamo essere moderati nella educazione di queste. Secondariamente ogni scossa violenta in un corpo gracile e infermo come un tenero bambino non può essere buona; ora, dal tepore dell’utero farlo saltare al bagno freddo è una grande scossa: dicono che si rende robusta la muscolatura; ma chi sa che col freddo non si spinga il sangue troppo violentemente dalla estremità della cute al cuore e che questo essenzialissimo muscolo non si dilati e sfianchi? Ciò posto, io non voglio quest’acqua fredda. Bensì, sin ora vi tengo monda con una spugna inzuppata d’acqua tepida e vi lavo il viso, le mani, e dove vi sporcate, anche per insegnare alle donne a trattarvi con grazia e senza violenza, come naturalmente fanno. Tosto che sarete liberata dalla fasciatura che vi fanno al ventre per l’ombilico, vi laverò giornalmente da capo a piedi con acqua tepida e vi asciu­gherò con biancheria monda e secca, senza strofinare la vostra pelle sensibile, ma comprimendo e spalmandovi delicatamente.

Cara Teresina, io devo combattere da ogni parte per vostra difesa, le dicerie che corrono sul metodo che uso con voi sono strane, altri dicono che vi ho riposta sopra di un tavolo, altri che state per terra, si trova bene che vi abbia fatta battezare, quasi che vi aventurassi per idee di fare sopra di voi degli sperimenti e per passare per bello spirito inglese. Sono in obbligo di farvi tutto il bene che posso e ve lo farò, mia cara figlia. Lasciamo urlare la ignoranza, e lasciamo uno sfogo all’amor proprio di tanti padri e madri, che colla mia con­dotta hanno un rimprovero di quello che hanno fatto. So bene da lungo tempo che non si fa niente di ragionevole e di buono senza ostacoli. La mia maniera di pensare è di difendervi da quanti mali posso, da quanti dolori posso; dica chi vuole, voi non dovrete mai, sin che dipenderete da me, avere altra padrona che la ragione, e que­sta è la padrona di vostro Padre, e, se questa darà un giorno torto a me e vincita a voi, io vi cederò, lo vedrete. Mia Madre risponde: «Dicono che sta bene», quando le chiamano come state voi. Ella dapprincipio aveva sparsa voce che vostro padre non era buono da aver figli; poi, quando vostra madre fu gravida, diceva che il ventre era basso e difficilmente da portarsi a termine; poi, quando foste nata, vi trovò sproporzionata, perchè la testa era grossa, eppure siete proporzionata da dipingere. Lasciamo sfogare le passioncelle, e siamo fermi, giusti, e virtuosi.

Mi piace tanto a contemplarvi, voi non avete quel livido che hanno le altre appena nate, perchè le fasce strozzano la circolazione, siete d’un colore un po’ bruno ma sano. La vostra faccia non ha le impronte del dolore come hanno i bambini fasciati, vi tengo lonta­na dal freddo, ma ancora più lontana dal caldo. Le vostre carni sono tepide, voi quasi sempre siete in un placido riposo, la vostra vita è una vegetazione, le braccia e le gambe le tenete ragruppate, il sonno è lo stato de’ bambini ne’ primi mesi, e dormire colle gambe e brac­cia stese è un vero tormento, e perciò, credo io, le vittime che si lega­no appena nate stridono e si smaniano perchè non possono avere la libertà d’un sonno placido. Credo che il non farvi soffrir dolore sic­come vi rende attualmente la fisonomia serena e gioconda, così con­tribuirà a lasciarvela tale, giacchè i moti dei muscoli del viso debbo­no, quanto più sono teneri i bambini, lasciarvi più profonde tracce, e quindi forse i visi tristi e disagradevoli in parte traggono la sor­gente dalle crudeli angosce nelle quali appena nati furono posti.

7 Marzo 1777

Voi siete un po’ incomodata, mia cara Teresina: avete del calore alle natiche, e questo proviene o dal non avere io potuto ottenere che vi tengano sempre monda e vi lavino, ovvero dalla giacitura supina in cui vi vogliono porre, malgrado l’ordine e la vigilanza mia perchè sempre siate sul fianco alternativamente; ovvero dalla ostina­zione delle donne di volervi tenere troppo coperta. La notte io non vi posso vedere ed assistervi. Vostra madre non ha idee proprie e decise perchè non s’è fatta uno studio di esaminare gli oggetti della educazione fisica: ella opera per compiacenza, a seconda de’ miei dettami, ma la strascinano le decisioni delle donne, molto più nello stato di debolezza in cui si trova. Le donne maneggerebbero il vostro gracile corpiciuolo come un pezzo di carne di bue. Se vi deb­bono pulire, vi prendono i piedi, ve li alzano, e seco la metà del vostro corpo, vi pongono alla tortura, e voi gridate. Io ho insegnato loro colla sperienza a riporvi sopra di un lino e coll’alzarlo da un canto farvi piegare sopra di un fianco, e così con una spugna ed acqua tepida mondarvi; poi collo stesso mecanismo vi faccio volge­re sull’altro fianco, vi pulisco e con discrezione applicandovi un lino asciutto vi asciugo, e ripongo al vostro luogo senza farvi male. Voi avete naturalmente l’ombilico ammalato che vi darà dolore, poi que­sto male di decubito; il farvi soffrire un dolore è una crudeltà e può portare conseguenze sul vostro fisico e sul vostro morale. Io credo che i nostri giudizj dipendono dal fascio delle nostre idee, che que­ste dipendono dalla serie delle nostre sensazioni, e che la sensibilità si modifica su di esse, e perciò di massima importanza sono le sen­sazioni più vicine al punto in cui abbiamo cominciato ad esistere, perchè sono alla base di tutte le altre che debbono sopragiugnere. Mio scopo è di farvi felice, e questo è un vero sinonimo di virtuosa, benefica, saggia e ragionevole. Vi vorrà del tempo prima che siate a livello d’intendere questo, ma vi giugnerete, perchè avrò cura che siate illuminata.

8 Marzo 1777

Padre, Madre, Zio, sorelle monache sussurrano perchè non vi fac­cia portare alla cerimonia della chiesa. Io lascio sussurrare, e non vi voglio esporre nè al lume d’una torcia in viso, nè al sale in bocca, nè alla pressione del pollice del curato, che è un satiro; siete batezzata, e tanto basta, da qui a qualche mese poi si farà il resto, quando sof­frirete la luce e potrete decentemente essere coperta. Voi siete ben assistita dalla Tedesca che ho presa per voi, è docile, eseguisce quan­to gli ordino, il vostro male alla cute va meglio, vi fanno giacere su i fianchi e non supina, alternandoli, avete passata bene la notte. Io vado a ogni ritaglio di tempo a visitarvi, perchè mi piace di vedervi, mia Teresina, avete un’aria tanto placida e buona in viso che conso­la, voi riposate quasi sempre, se l’esigenza del cibarvi non vi sveglia. Osservo che è di nessun incomodo per voi che si parli nella stanza, se vi toccano, vi svegliate, altrimenti il rumore non vi sveglia. Forse l’udito in così poco tempo non è perfetto. La Tedesca ve l’ho presa per risparmiarvi il tedio col tempo d’imparare una lingua che io vor­rei sapere e che è utilissima per noi che viviamo sotto il dominio au­striaco. Io conto di parlarvi sempre francese e così all’età di cinque anni avrete tre lingue senza fatica.

[1]6 Marzo 1777

Siete guarita dalla espulsione cutanea. Io vi faccio sempre giacere sul fianco, vi lavo con acqua tepida la faccia e le gambe e sopratutto ove vi sporcate; voi dormite placidamente il giorno e la notte. Avete due occhi grandi assai, e mostrano molta attenzione nell’osservare gli oggetti. Vedo che la testa cominciate a non abbandonarla al suo peso, ma in qualche modo la sostenete. Avete molta forza nelle braccia e gambe. State quasi sempre ranicchiata, ma, se prendete un mio dito fralle vostre manine, lo stringete assai, e non lo posso levare così facilmente per non farvi dolore. La vostra buona madre, la Marietta, ogni giorno più si affeziona a voi. Non hanno idea le donne d’una bambina così tenera e così buona come voi siete, e lo siete perchè non vi tormenta nessuno ed io sono la senti­nella che veglia sopra di voi, debole creaturina; io debbo difendervi dai mali che la opinione fa soffrire, non potete parlare, non difendervi, io faccio le parti vostre. Le dicerie si vanno calmando, riusci­te sin ora così prosperamente che convien pure che si tacciano i disapprovatori di ogni cosa ragionevole. Ieri di notte non avete nem­meno fatto svegliare la mamma, questa notte una volta sola. Non è tanto penoso l’allattare quanto si crede.

14 Marzo 1777

Non vi ho scritto ne’ giorni scorsi, perchè non ne ebbi il tempo e niente v’era di nuovo; voi siete sanissima, tutto va bene, vi lasciate lavare e regolare senza strepito, perchè io, che faccio queste funzio­ni, ho cura di non farvi dolore. Non mi sazio di rimirarvi. Vedendovi alle poppe della madre, il mio cuore è pieno de’ più cari e teneri moti, io mi dimentico delle cure, della ambizione e di ogni altro pensiero. Dolce natura, sacri sentimenti emanati immediatamente dal Grand’Essere, sentimenti che portano una dolcezza pura e capace di occupare l’animo sensibile! Noi facciamo un gruppo interessan­te: la Marietta a sedere sul letto avendo in faccia la dolcezza e la gra­zia, voi alle mamme, io in ginocchio al fianco, occupato nell’ajutarla a sostenervi e nel rimirare ora voi ora lei. Proverete un giorno la de­lizia che provo io, cara Teresina, sarete allevata per sentirla, perchè non vi lascerò pervertire o corrompere il cuore. Ricordatevi di fare un giorno ai figli quello che avremo fatto noi a voi; ma non avrete bisogno che vi si ricordi, ve lo suggerirà il cuore. Io vi amo prima che voi siate amabile, prima che possiate saperlo; se continuerò a farlo, se vi avrò assistita sempre e difesa dai mali e fisici e morali, voi me lo restituirete quando sarò vecchio e debole e bisognoso d’ajuto; mi pare che i benefici che vi faccio sieno interessati per questo canto solo, che ne aspetto al bisogno la restituzione.

20 Marzo 1777

Non ho potuto chiudere gli occhi questa notte prima delle dieci e mezza. Ieri sera alle quattro ore con un apparato di mistero le donne mi vennero a dire che voi, cara Teresina, non avevate abbastanza latte dalla madre, che da due notti eravate inquieta, e che sembrava ad esse che voi sveniste. Veramente la Marietta non ha mai avuto bisogno sin ora di farsi succhiare il latte, e questo mi ha fatto specie, perchè, se voi dormiste otto ore, essa non avrebbe mai quella gonfiezza dolorosa al seno che sogliono soffrire le allattanti. Tutto ad un tratto mi vedo sconvolto il piano della vostra educazione. Timore che una nodrice sia mal sana e o vi comunichi lo scorbuto o qualche altro malore; timore che, di slancio passando a un latte più denso e difficile a digerire nel tempo che forse ancora avete nel corso degl’intestini delle materie da purgare, non vi si formi indigestione, dolore e ostruzioni. Rotto il dolce vincolo del primo bisogno che vi attaccava al seno della cara Marietta; una mercenaria, intrusa a nodrirvi, alla quale voi dividerete l’amore che avrei voluto tutto dapprincipio per la madre; a tutto ciò aggiugnete la momentanea pena di temervi affamata e non avere sul campo di che ristorarvi. Tutta la notte (io dormo nel gabinetto, ultima finestra verso Casa Carcassola, ora che vostra madre è di parto, e voi dormite nella stanza che ha la finestra all’angolo sinistro entrando del cortile) m’immaginava che gridaste, voleva venire a chiarirmene, ma temeva di scompigliare le donne e la Marietta, mi sono alzato, mi sono posto a leggere, ma niente mi ha potuto mettere in calma. Questa mattina di buon ora vi ho visitata e dormivate placida, poi, tutto ben esaminato, vedendo che la Marietta non ha che pochissimo latte che nemmeno compare premendo le poppe, ho fatta venire la nipote della mia nodrice, giovane, savia, sana, che ha partorito sono tre mesi, e frattanto essa vi ha dato ristoro, poi anche la Marietta. Ho spedito a Biassonno, paese di nodrici, per averne una giovine, sana, che da poco abbia partorito, che abbia buoni denti, e la spero domani, frattanto questa sera tornerà la giovine di questa mattina. Almeno avete il latte della stessa generazione che lo ha dato a me. Cara Teresina, vi voglio bene. Il piano che ho fatto è che la villana che verrà dormirà nella vostra stanza colla Tedesca Savina, la villana vi darà le poppe e laverà i lini e non vi toccherà mai, la Tedesca è più attenta e delicata nel maneggiarvi, e poi voglio che vi affezioniate meno che si può alla villana. Vostra madre continuerà a darvi il poco latte che ha, il quale credo che vi servirà di leggiero purgante per farvi digerire l’altro. La povera Marietta questa mattina piangeva perchè non ha latte. Buona anima, saremo un giorno tre buone creature e ci vor­remo bene. Queste care idee mi consolano dalla noja ministeriale, che mi occuperebbe troppo se fosse la sola intorno al mio cuore, ma voi e la Marietta mi fate dimenticare tutte le brighe.

24 Marzo 1777

La nodrice è in casa da due giorni, ella è sana e giovine, ma io temo che il suo latte sia per voi troppo denso. Voi sono già due gior­ni che la sera siete in agitazione, non avete pace, avete dolori, scari­che, e vomito; la vostra lingua è bianca. Le donne tendono a fare che la contadina essenzialmente vi nodrisca, e la madre appena in sussidio. Io debbo urtare e stare in sentinella per l’opposto. Meno voi prenderete di latte pesante, meglio starà il vostro stomaco. Quello che ci nodrisce non è quello che trangugiamo, ma bensì quello che possiamo digerire. Io non temo tanto una discreta sobrietà quanto una indigestione che affanna, tormenta, e in vece di alimentare corrompe l’alimento. Ma sono il solo a pensare così. Non dispero forse di congedare la mercenaria, e che la Marietta sola supplisca, ella fa tuttavia delle perdite, cessate queste, forse il latte avrà più corso. Se queste donne non fanno esattamente quello che io voglio, vi pongo nella mia stanza, cara Teresina, vi tengo a dormire e vi custodisco io, mi siete cara e non vi voglio vedere a patire.

13 Aprile 1777

Non vi ho scritto cara Teresina, perchè niente è accaduto che lo meritasse. Vi ho fatta portare alla chiesa per soddisfare a questo dovere, ma la cosa è stata così improvvisa che nessuno lo ha saputo. Il Cav.re Giovanni, mio fratello, è stato il vostro Padrino, il curato è stato prevenuto di avere discrezione nel toccarvi, e l’ha usata tutta, voi eravate nel vostro canestro, portato dalla Tedesca, il prete recitava le sue orazioni, voi dormivate, e il Cavaliere aveva una mano sul vostro letticiuolo portatile, e tutto è andato bene, ho scelto per voi i due soli nomi di Maria Teresa, che è quello della sovrana a cui debbo la considerazione e i comodi che godo. Teresa è anche il nome di mia sorella, madre della Marietta. Vi ho risparmiato il Gaspara Melchiorra e Baldassarra e altri buffoni nomi, perchè voglio che niente sia di ridicolo in voi, e lo è una littania di nomi per nominare una persona. Io sono stato chiamato Pietro Antonio Francesco Maria Gaspare Raimondo e Marco, voi siete nient’altro che Maria Teresa.

Le cose vanno bene, la nodrice vi dà un latte, sano e che digerite; la Marietta interamente ha perso il latte, ma voi siete di buon colo­re e con tutte le apparenze della sanità.

Quando nasceste, eravate col capo coperto di peli neri, ora vanno cadendo a poco a poco e mi pare che quei che spuntano sieno bion­di. Ancora non so capire se avrete gli occhi cerulei ovvero bruni, il colore dell’iride dell’occhio vostro è equivoco. La vostra fisonomia è così variabile che niente più, la bocca, il mento e le guance sono belle, il naso non è che imperfetto, la pelle si va mutando, in pochi minuti avete il volto stupido, allegro, smanioso, e dolce, bello e brut­to, una successione rapidissima di cambiamenti.

Vi sto osservando, e singolarmente i progressi della vostra anima. Sin ora, cara Teresina, siete molto ignorante. Le braccia e le mani le movete ancora senza disegno o fine, sono i vostri moti puramente un mecanismo, non mai per adoperare le mani a nessuna cosa, non per strofinarvi gli occhi, non per nulla. Vi date de’ colpi e delle graf­fiature da voi stessa. Dubito che sin ora nemmeno abbiate nè udito nè vista perfetta. Per l’udito, niente disturba il vostro sonno, non mai vi rivolgete a un rumore. Per gli occhi, mi pare che la pupilla vostra sia dilatata assai, e sotto sembrami che gli umori non sieno affatto diafani, gli oggetti lucidi, candela, ciel sereno ec., gli osserva­te, gli altri sembra che non li vediate distintamente. Forse vi vuole del tempo prima che si filtri nel globo dell’occhio un umore depu­rato e cristallino, frattanto un altro umore impuro lo riempie, il quale può essere attraversato dai raggi scagliati da un corpo lumi­noso ma non già dai più deboli riflessi dai corpi, e così vi mancano due sensi ancora per accorgervi meglio di esistere. Vi darò di mano in mano contezza del viaggio che farete verso della ragione; sin ora non avete fatto il più gran progresso che quello d’imparare a suc­chiare il latte.

La vostra stanza e il vostro letticciuolo sono senza il minimo odore cattivo, voi respirate un’aria monda e pura! Addio per ora. Un gior­no vi modellerete su i vostri figli forse colla relazione che scrivo di voi stessa. Vi dirò che a questa pulizia vi ho io particolar cura, e spesso vi lavo io e vi ripulisco con una spugna e acqua tepida.

17 Aprile 1777

Ieri è stato il primo giorno in cui vi ho veduta ridere, ciò è stato vedendo chi faceva colla testa de’ movimenti come da burattino. Voi dunque cominciate a distinguere gli oggetti e ad osservarli, quan­tunque non lucidi. Vedo anche che la pupilla de’ vostri occhi si con­trae. Però delle vostre mani ancora non avete imparato a farne alcun uso nè a moverle con un disegno. Vi ho posta a sedere, appoggian­do la schiena ad un cuscino di baggiana, anche perchè avevate del caldo alle carni, e voi eravate contenta e placida di trovarvi così. Per questa sera non dormirete più sulla lana, ma bensì sopra i crini di cavallo, la stagione si riscalda, ed io non voglio che il vostro sangue si ponga col calore in moto violento, perchè si sfiancano e indeboliscono i canali. Riflettendo al vostro sorriso, questo non nasce certa­mente da quell’amor proprio maligno che lo cagiona sulla faccia di molti, non nasce nemmeno da una azione su i vostri organi la quale ecciti una positiva sensazione piacevole, come il cibarsi quando si ha fame ec. Forse la innazione è per sè nojosa dacchè s’è cominciato ad accorgersi della esistenza, e la occupazione non disgustosa che vi dava la vista di quella testa in moto vi ha tratta dalla inazione, e il movimento mecanico del sorriso è un contrasegno di quel piccolo piacere, come il pianto mecanicamente lo è del dolore.

1° Giugno 1777

Domani, cara Teresina, voi compirete il terzo mese. Non vi ho scritto frattanto, perchè niente vi è stato di nuovo, e voi siete sem­pre stata bene. Ho sempre seguitato il costume di farvi lavare dalla testa inclusivamente sino ai piedi ogni giorno almeno una volta. L’acqua gradatamente la faccio adoperare meno tepida, e voi non date verun segno di dolore o tedio mentre colla spugna vi lavano. Spero, quando la stagione sia più calda, di lavarvi con acqua fredda senza che ne abbiate ribrezzo. Su questo punto anche alle sensazio­ni vostre bisogna avere attenzione, voi avete dritto di essere ben trat­tata anche oggi, vi debbo proccurare tutta la possibile felicità anche in questa giornata, siete un caro deposito affidato alle mie mani, e, quanto più siete debole e incapace di spiegarvi, tanto più debbo io essere attento e spiare dalla vostra fisonomia quello che vi fa piacere o tedio e liberarvi dal secondo. Con ciò voglio dire che hanno torto coloro i quali implacabilmente tuffano nell’acqua fredda ed espongono ad altre sensazioni moleste i bambini, ed hanno torto per due ragioni. La prima, perchè il dolore è il contrasegno di cui si serve la fisica sensibile per indicare le cose nocive, e una creaturina che non può avere che l’istinto della natura non s’inganna, onde il volere esporre a una cosa dolorosa o nojosa egli è un ostinarsi a far del male. Secondariamente, io voglio bensì che nel diriggere l’edu­cazione abbiamo sempre in faccia lo scopo a venire e che diriggiamo le linee tutte per farvi sana, ragionevole e felice; ma, come i pas­seggiatori sulla corda tengono gli occhi sempre fissi alla estremità non mai però dimenticando di posare attualmente il piede bene in mezzo, così io tendo alla vostra ventura felicità ma non voglio dimenticare il momento attuale, e cerco di non sturbarvi nè porvi di umore crucioso. Queste abluzioni dunque io ve le faccio non sola­mente perchè siate sempre monda e attorniata da un’aria pura, la quale assai contribuisce alla robusta sanità, quand’anche per pro­movere in voi la traspirazione col conservare la cute disostrutta e pieghevole. A questo fine ancora uso sopra del vostro corpiciuolo una spazzola di crini molli ma capaci di togliere il prurito e di pro­movere la traspirazione. Vedo che mostrate piacevole fisonomia quando lo faccio, e, al momento che questa si cangia, io cesso. Povera Teresina, io penso che, vegetando e crescendo come fate, da un giorno all’altro bisogna che il vostro corpiciuolo sia in un movi­mento grande internamente, nutrizione frequente, frequenti sca­riche, così sarà frequente la traspirazione, avrete de’ pruriti che vi tormenteranno per conseguenza, non avete ancora bastante pratica per rimediarvi colle vostre manine, ed io così ve ne libero ripassan­dovi da capo a piedi e trattenendomi dove osservo dal vostro volto che sorridete.

Non ostante il bagnarvi e lo strofinarvi anche sul capo, vi si sono formate quelle squamme che comunemente hanno tutti i bambini, e sono pezzetti di pelle che si staccano. Cercai delicatamente di facili­tarne la separazione, ma ne mostravate noja ed io ho desistito.

La vita che avete fatta sin ora è stato di succhiare il latte, dormire placidamente, e qualche volta farvi portare intorno, il che singolar­mente cercate quando avete aggravato lo stomaco per troppo latte. La vostra nodrice è sana, giovine, allegra, e abbondantissima di latte. Quando la Tedesca vi porta, vi ravvolge in varj lini senza fasciatura, vi pone a sedere sopra la di lei mano avendo voi le gambe al di fuori, indi passa l’altra mano avanti il vostro busto, e la piccola scossa del di lei passeggio, la mutazione degli oggetti che vi si schierano davanti gli occhi vi distraggono e vi tranquillizano. Io molte volte vi porto così.

Nel vostro letticciuolo voi siete sempre monda, l’aria della came­ra è sempre fresca e senza odore, la Tedesca è quella che vi maneg­gia, e la Nodrice ancora talvolta, perchè dal fatto è convertita e vede che il metodo che adopero con voi è buono. Giorni sono io sono stato colla Marietta a Limbiate, osservavamo i bambini, e nessuno di tre mesi l’abbiamo trovato così sano e illare quanto lo siete voi.

Siete nata col capo coperto di peli castano scuro, ora quasi tutti sono spariti, spunta un pelo che sembra biondo, le sopraciglia mi pajon tali, gli occhi vostri sono grandi e ben tagliati, ora crederei che dovessero essere neri, ma le mutazioni che fate non mi danno sicu­rezza. La bocca vostra è bella e le guance pure, il vostro corpo è ben proporzionato ed avete una fisonomia dolce e che mostra vivacità. Quando siete svegliata, state in un moto quasi continuo di gambe e di braccia, il corpo è troppo pesante ancora, però talvolta vi appog­giate su i piedi e sul capo e alzate in arco tutto il vostro corpiciuolo. Io non vi tengo molto coperta, unicamente avete un lenzuolo e una copertina di dobletto di cottone, il materazzino è di crini e non di lana, e dopo un lungo sonno avete la schiena calda assai e godete se vi ripongo sopra un cuscino a respirare l’aria aperta.

Vi dirò i piccoli progressi che sin ora ha fatto la vostra ragione. Primieramente, l’udito l’avete, perchè la musica o cantando o suo­nando vi occupa, la repetizione e la sveglia vi fanno ridere. Se­condariamente, la vista pure l’avete, perchè, sebbene ancora gli oggetti lucidi vi occupino a preferenza, nondimeno fissate ancora gli altri oggetti, e, tante volte siamo noi due insieme, mi osservate e ridete. Il tatto ancora vi serve ma poco, voi portate le mani a strofinarvi gli occhi, ma vi date prima de’ pugni al naso o alle guan­ce, riponete le dita in bocca, ma è un azardo se andate sicuramente per la via dritta. Onde credo che ancora vi abbisogna molta sperienza per imparare a portar dritto la mano dove vi occorre. Talvolta vi prendete una mano coll’altra e le osservate, ma tutto è a tentone e sperimentando. Dell’odorato, non mi accorgo che operi sopra di voi: una rosa, un altro fiore vi sono indifferenti, unicamente l’odore di tabacco agisce sopra di voi, io vi ho tutta l’attenzione, mi soffio prima di accostarmi, non ne prendo mai con voi, ma bene spesso stranutate quando vi sono. Dicono che dopo i tre mesi la ragione si sviluppa con molta rapidità, io vi scriverò la vostra storia. Vedo che accade alle nostre cognizioni come ai denari, lo stento grande è di radunare una prima scorta: fatta questa, volendolo, si diventa ricco; così, l’imparare a vedere, a toccare, a moversi, a parlare, è forse un viaggio più penoso e lungo di quello che sarebbe da quel posto andare al paro di Montesquieu; e perchè dunque quasi tutti fanno il più e così pochi il meno? Perchè non vi è la necessità che stimoli ne’ due casi egualmente, e l’indolenza e il riposo è lo stato che l’uo­mo cerca se non ha lo stimolo d’un forte bisogno.

Sul proposito del parlare, mi sembra che vi siate accorta che gli uomini colle voci s’intendono, vedo almeno che voi pure cercate di far sentire delle vocali, e ne distinguo l’a e l’e: anche qualche moto di labbro vi ho osservato, come «Be», e quando io o la Savina o la Nodrice vi parlano, se siete di buon umore, sembra che vogliate fare altrettanto. Quando avete fame, incomodo, o voglia di movervi, voi cominciate da alcune voci e queste fatte con impeto più che all’or­dinario, e se non v’intendiamo, allora piangete.

Dice la Savina che presto vorrete fare i denti, ed io osservo che avete molta saliva e spesso portate le mani alla bocca più del solito.

La Savina vi parla sempre tedesco ed io sempre francese. Vi libe­reremo da una gran noja se riusciremo a insegnarvi due lingue.

Mi sono assai risarcito del silenzio d’un mese e mezzo con questa lunga lettera. Vi scrivo tutto quello che faccio e penso rapporto a voi, mia Teresina, che tengo riservata anche più del solito, perchè ora vi è il vajuolo in più case. Addio cara piccolina.

10 Giugno 1777

Ieri non avete avuta scarica di corpo, e questa mattina avevate dei dolori, le donne cercavano d’acquietarvi col portarvi, cantare e movervi: io ho veduto che niente vi consolava di tutto ciò, le ho fatte cessare e lasciarvi quieta, acciocchè prendeste la positura che più vi piaceva.

Quando il pianto nasce da malinconia o da qualche piccolo male, allora la distrazione è buona: una repetizione, una sveglia, il canto, il trasportarvi vi occupano e uscite dallo stato afflitto; ma quando il dolore è forte, lo stordirvi egli è un darvi un male di più; bisogna almeno lasciarvi lo sfogo di gridare e piangere, la natura ne sa più che noi, e le nostre cose che facciamo per correggerla sono per lo più mal fatte. Il pianto forse sino a un dato segno è salutare, i pol­moni si pongono in moto, il sangue viene spinto con maggiore impe­to, si vede dal rossore del volto, e forse questo tende a liberare da qualche male e rinforzare il corpiciuolo del bambino. Io non dico con ciò che si debbano trascurare le grida e i gemiti d’una debole creaturina; anzi per lo contrario si debbono attentamente osservare e cercare di distrarre l’attenzione; ma, quando persiste, il pianto è segno di dolore deciso, e allora in vece di stordire la creaturina si deve lasciarla gridare e soccorrerla. Soccorsi di medicine per bocca voi non ne avete sin ora avuti, e cercherò di tenerveli lontani. Quel poco che so di fisica mi ha insegnato a dubitarne, egli è sempre incerto se faranno male o bene in un tenero corpiciuolo. Pensava di farvi applicare un ajuto, se i moderati fomenti che vi si sono fatti sul ventre non vi calmavano; anche l’ajuto lo diferiva, frattanto vi siete scaricata e così tutto è finito coll’opera benefica della natura.

Fralle distrazioni che operano in voi, cara Teresina, vi ripongo la musica. Osservo che il flauto vi lascia senza nessun effetto, ma una ghitarra che suona un domestico vi piace e vi mostrate sensibile; se piangete poco, con quella vi calma e talvolta vi addormenta. Spero che avrete senso per la musica.

Avete tre mesi e otto giorni, e la vostra anima sin ora sta ne’ limi­ti che ho scritti prima. A misura che comparirà qualche progresso, ve lo scriverò.

6 Luglio 1777

Tutto va bene, alcuni giorni eravate inquieta, e dalla saliva abbondante e dal portare le mani entro la bocca si vedeva che le gengive ne erano cagione, questa inquietudine è venuta e partita per intervalli e sin ora non vedo spuntare alcun dente. Un pezzo di cera lacca è lo stromento che vi do nelle mani e che voi volontieri adoperate sulle gengive. La radice di liquerizia non vi piace, e corpi duri come il corallo, ossi, cristalli ec. non credo che convengano, perchè v’incallirebbero le gengive e vi renderebbero più dolorosa la eruzione dei denti.

La vostra figurina cara Teresa diventa ogni giorno più interessante e bella, le gambe, cosce, braccia, mani ed occhi, guance, e bocca sono assolutamente da dipingere. Gli occhi vivi e ben tagliati sono bellissimi, il naso va comparendo e formandosi, i capegli biondi spuntano, il corpo poi non è ancora formato ma vedo che lo sarà bene. La carnagione è bella e si va ogni giorno schiarendo.

Vi pongo spesso sul letto grande ed ivi voi prendete successiva­mente delle positure tanto pittoresche e nobili che meritate un dise­gnatore. Avete per lo più un’aria amabile ed allegra. Io studio d’indovinarvi e, quando siete a giacere supina e vi lagnate, io vi pongo in piedi e per lo più amate di starvi e vi reggete sulle gambe, poi vi tengo appoggiato il ventre e il petto sulle mie mani, acciocchè il peso non sia tutto sulle vostre gambe ma ripartito anche sulle mie mani, le quali riscaldando il ventre e il petto non vi possono incomodare come farebbe su i lombi. Osservo che, stendendovi supina, voi mutate luogo facilmente puntellando i piedi e, sollevandovi in arco sopra la testa indi ritornando a raddrizzar quella, guadagnate terre­no. Ma, posta a giacere col ventre abbasso, non potete fare altro che rovesciarvi col ventre in su, perchè le braccia sono deboli, e il cen­tro di gravità è nel torace.

Io vi ho fatta una carrozzetta e, posto che vi lagnavate sedendovi, in essa ripongo la piccola vostra culla, e quel moto vi piace e vi con­cilia il sonno. Vi studio, cerco di farvi tutto il bene che so e posso, cara Teresina, ricordatevi anche voi di restituire un giorno ai figli parto del vostro sangue le cure che ho io ed avrò per voi. Ma il dirvelo è inutile, ve lo dirà un giorno il vostro cuore, ed avrò cura di formarlo in modo che egli saprà parlarvi e voi intenderlo. Non vi è altro di bene al mondo che questo.

Vi lavo con acqua fresca e voi non ne avete il minimo ribrezzo, anzi un getto d’acqua vi diverte, lo cercate di prendere, vi spruzza e niente vi scompone.

Il vostro corpo non è soggetto a diarrea, anzi state d’ordinario a passare ogni due giorni, ma siete di buon colore, di buon umore, il ventre molle, e frequenti urine; questo vuol dire che, libera come siete, traspirate molto, che la lavanda e le fregazioni tengono in atti­vità la traspirazione e sin ora nessun medicamento è entrato nel vostro corpo. Addio per ora, cara Teresina.

30 Luglio 1777

Tutto va benissimo, siete il ritratto della sanità e della allegria. Ieri solamente mi pareva che aveste l’ombilico propendente in fuori, vi ho fatta subito esaminare dal dottore Magistretti e ne risulta che non vi è niente di male, unicamente ciò dipendendo dal modo col quale la levatrice ve lo ha legato troppo distante. I vostri occhi e le palpe­bre si abruniscono e credo che avrete occhi neri, li avete grandi e vivaci, il naso va spuntando, le guance e la bocca sono da dipingere tutto insieme, la vostra testina è come un pomo. Gli altri fanciulli contemporanei sono pallidi e gonfi piuttosto che grassi, voi avete un colore vivace e siete tutta muscolo. Siete vivacissima, ne’ moti in piedi avete forza di reggervi sulle gambe, ma supina non avete forza colle braccia ancora da movervi. Il vostro ventre si scarica una volta ogni due giorni, è quasi cosa periodica, molto passate per urina e la gettate come un maschio, molta saliva fate e si vede che avete nelle gengive del prurito e talvolta del dolore, ma sin ora non compare alcun dente.

Mi pare che siate sensibile alla musica, anzi le note ferme e soste­nute vi rendono immobile, e cambiando una musica vivace, addio gambe e piedi in movimento. Spogliandovi nuda, voi vi rallegrate, e amate singolarmente lo stare in piedi. Nel riporvi nella carrozzetta, vi state tranquilla senza allegria e senza dolervi. Le cose di cri­stallo, come bicchieri, caraffe ec., vi piaciono e le vorreste tutte riporre in bocca; ancora non avete imparato a fare i passi, avete però una pieghevolezza grande nelle gambe, perchè, supina col capo appoggiato, voi vi riponete in bocca il piede dritto e amate di avere nelle mani i vostri piedi. Conosco che bisogna tenervi lonta­na dal caldo e non temere mai che l’aria fresca pregiudichi. Uno de’ vostri divertimenti è intorno un getto d’acqua che sale in su, lo vor­reste pur prendere, non capite la curiosità di quel corpo tanto diverso dagli altri che si vede, sta in moto e, quando lo volete strin­gere, vi fa freddo e niente prendete. Vi occupate con serietà ad esa­minarlo. Questa serietà ingegnosa molte volte ve la leggo in volto, voi esaminate moltissimo.

2 Agosto 1777

Sempre bene tutto. Giorni sono avevate dei dolori, avete gridato per un’ora, poi si sono calmati senza medicamento, e vi ho distratta dalla malinconia col moto in braccio e più nella carrozzetta. Oggi vi è comparso il primo dente ed è nella mandibola inferiore. Ieri eravate inquieta, oggi allegra. Il primo dente l’avete fatto di mesi cinque e giorni venti.

6 Agosto 1777

Avete due denti incisivi inferiori. Oggi per la prima volta avete pronunziato «Papà». La piccola culla è troppo angusta, onde vi ho adattato il letticiuolo con ripari all’intorno, e vi dormite assai meglio. Tutto va bene. Vi ho condotta con vostra madre dalla Con­tessa Caroelli, tutti sono stati incantati di voi, della bella proporzio­ne, colore e sagoma del vostro corpo. Avete due occhi assai lucidi e ben tagliati, bella bocca e guance, la fronte è un poco ancora inar­cata e il naso schiacciato, due difetti comuni de’ bambini. I capegli spuntano di un biondo scuro, le palpebre sono decisamente nere e gli occhi tendono all’oscuro. Alcune ore le gengive vi incomodano, nel rimanente tutto va bene. State quattro e più giorni senza che vi si mova il corpo, il latte passa per urina. Ma siete di bel colore e alle­gra, ed io non voglio adoperare rimedj sopra di voi senza necessità. Il pane vi piace, non so se per cibo o per sedare il prurito delle gen­give. La pera, i meloni anche vi piacciono, ma meno del pane.

15 Ottobre 1777

Tutto è così uniforme e placido che non ho cosa da scrivere. Sin ora non avete che i due denti alla mascella inferiore, della inquietu­dine alle gengive varie volte l’avete avuta, salivate assai, ma il cem­balo, il canto, il moto della carrozzetta vi distraggono. Gli occhi vostri ora sono decisamente bruni e il ciglio è nero. I capegli tendo­no al biondo. Io col pettine lentamente ho accellerato il distacco di quelle squamme che avevate alla sommità della testa, l’ho fatto per­chè credo che facilito la traspirazione anche in quella parte; vi ho travagliato con delicatezza e ripartitamente in più giorni, il rossore della pelle o la vostra noja erano gli avvisi che mi facevano cessare al solo comparire. Siete forte, e ben fatta, io vi bagno con acqua appe­na intepidita e voi ambite di sedervi in quella e vi stareste assai più per vostro genio che non vi tengo, colla spugna vi lavo dalla sommi­tà della testa sino a tutto il corpo. Malgrado la attenzione che ho sempre usata, vi conturbate ogni volta che si vuole asciugarvi sotto il naso. Anche estraendovi dal bagno lo asciugarvi la faccia vi annoja. Voi non avete ancora forza di reggervi carpone sulle braccia, vi puntellate co’ piedi ed alzate il corpo, ma il petto appoggia sul letto; conviene però starvi assai attento, perchè rottolate e in poco scorre­reste anche un letto grande, il solo modo da movervi da voi è que­sto. Con poco appoggio poi voi passeggiate molto e lo amate. Sin ora non ho veduto una sola volta che patiste freddo, anzi, sempre che vi ho osservata un po’ seria, vi ho levata la camiscia e non avete mancato di rallegrarvi e prendere un’aria più vivace nel volto. Siete un vero moto perpetuo e bisogna stare ben attento perchè con somma vivacità vi torcete nel modo meno preveduto. Dacché siete nata, quattro volte sole vi ho vista sporca, i bisogni fisici gli soddi­sfate la mattina, e il restante del giorno siete un armellino, mai non ho sentito cattivo odore presso di voi.

Quanto poi alla formazione di quell’essere artefattissimo che si chiama uomo, siete ben lontana, cara Teresina. Poca memoria delle cose passate fa che, togliendovi una cosa che vogliate tenere al momento, con un rumore, con un passeggio non ve ne risovenite più. Giorni sono pronunziavate «Papà» poi «baba», poi «vava», sembravate occupata a imparare a pronunziare, poi avete imparato a tossire dimenticando le parole, ora non fate più nè l’uno nè l’altro. Le persone le conoscete, e da me venite volontieri perchè vi porto sopra la mia spalla, state comoda e vi faccio fare moto. La mattina singolarmente mi accogliete la prima volta con un sorriso, dopo la lontananza della notte siamo come due forastieri che ripatriano e s’incontrano. Senza questo spazio, non è tanto sensibile il rivederci. Per altro non siete ancora padrona di toccar bene gli oggetti, di impadronirvene colle vostre mani, e si vede l’incertezza per cui piut­tosto percuotete che toccate. Le candele e il fuoco vi piaciono, e vor­reste toccarli, e questo è naturale: sono brillanti oggetti, e voi non sapete che a toccarli ne venga male.

I frutti vi piaciono, le pera, le pesche ec., il pane ancora, i biscot­tini di più. Vi do qualche goccia di caffè, che vi piace avidamente, il cioccolatte non ve lo do, perchè credo che impedisca la buona dige­stione del latte.

Gli altri bambini vomitano spessissimo e voi mai, sono sempre sucidi, e voi siete il modello della pulizia, essi piangono, e voi ride­te, giuocate, e siete l’immagine della gioja. Cara Teresina, godo di farvi del bene: io consulto il vostro genio, e quello è il maestro mio per la vostra educazione fisica. Il calzolajo, che l’altro jeri ho fatto prendere la misura del vostro piede, si maravigliava che aveste le gambe dritte, voi avete le più belle natichine del mondo, senza la cenere dell’ulivo della settimana santa che una donna grave propose per quest’effetto da applicarvi. Non so se il genere umano sarà in Milano tanto pieno di larve e sogni quando leggerete questo scritto quanto lo era mentre lo scriveva, eppure, cara figlia, mentre scrivo è assai più illuminato che non lo era quando uscii di collegio io.

19 Dicembre 1777

Nient’altro di nuovo, se non che alla fine di Ottobre vi sono spun­tati all’alto quattro denti. Io vi ho condotta a Ornago, ed ivi ciò è accaduto. Vi tengo senza calze e scarpe perchè, ammeno di cambiarvele venti volte al giorno, le portereste umide, e col freddo è peggio. State bene.

12 Genn.o 1778

Ieri è stato a trovarvi, cara Teresina, il figlio di Don Carlo Mozzoni, che ha circa un anno più di voi ed è stato allevato senza fascie ed allattato da sua madre; egli vi baciava ed accarezzava, e voi gli avete graffiato il viso per mera imperizia, onde quello si è lagna­to, e vi tenevamo separati; egli ha i capelli biondissimi e bianca la pelle più di voi, il vostro biondo tende al castano, ma il color ver­miglio in voi è assai più vivace, i vostri occhi neri, lucidi, grandi e sereni sono assai più belli de’ suoi, altro non vi resta se non a vedervisi profilato il naso, che ancora è assai depresso fra un sopraciglio e l’altro, e abbassarvisi la fronte, il che spero che seguirà, tanto più che io, anche nell’età in cui sono di cinquant’anni, non l’ho alta. Ho osservato che voi appena di dieci mesi siete sensibile alla invidia e lo era anche più l’altro bambino. Vedendo me o la Marietta ad acca­rezzare il Mozzoni, stendevate le mani, gridavate, pareva che senti­ste ingiuria quasi che vi si togliesse roba vostra. Questo sentimento io rifletto che è comune anche ai cani sebbene piccoli, capaci di azzuffarsi contro di un cane estero accarezzato dal padrone. Sa­rebbe mai questo un principio di dispotismo? L’idea è troppo com­plicata per potere già essere in voi altre creaturine. Sarebbe un amore del predominio proprio? Presso poco è un sinonimo del dispotismo. Piuttosto direi che amate già il vostro benessere, avete già idea e memoria che noi due vi contribuiamo, vedendoci rivolti a questo nuovo bambino vi nasce il timore d’essere abbandonata e posposta, e da ciò nasce la vostra sensibilità. Se così fosse, come credo, voi avete già fatto acquisto di molte idee: prima, che esistete, seconda, che si può esistere bene o male, terza, che noi a ciò possia­mo contribuire, quarta, che un nuovo oggetto può occuparci più di voi; voi conoscete già il timore, voi cominciate a slanciarvi nell’avenire; dal zero sino a questo passo avete fatto del viaggio assai, ma non ve ne accorgete, perchè l’arte di riflettere sopra le stesse riflessioni è la filosofia, cioè quel rafinamento al quale non si può giugnere se non dopo una serie di sensazioni di più anni. Che immensa distanza dall’uomo macchina, come nasce all’uomo, corre­dato della memoria di lunga serie di sensazioni e avvezzo a combi­nare ed analizzare, la propria sensibilità! Un giorno spero che mi capirete, perchè infine io scrivo per voi sola.

Vi ho già scritto che state a gambe e piedi nudi e non ne avete alcun incomodo, e siete sempre allegra, monda, e qualche volta buffona. Io ho pensato al modo di farvi impazientar meno che si può nel frequente vestirvi e spogliarvi. La vostra vesta non può essere aperta davanti perchè vi si sconciarebbero le braccia nel imboccare le maniche; quelle che avete si allacciano nelle spalle; ma il tempo di assettarvele e di passare la stringa è nojoso per voi. Dunque, vi fac­cio la vesta spaccata in due pezzi distinti, dei quali ciascuno ha nella sommità una manica. I lembi di queste due mezze vesti vengono a coprirvi il petto e la schiena, onde sul petto e sulla schiena avete due lembi incrocicchiati e addossati, una fascia in cintura vi tiene asset­tato al corpo questo abbigliamento, il quale vi fa anche buona com­parsa, perchè dalla spalla al fianco vi compare una zona che è il bordo d’una delle mezze vesti; così col solo slegare la fascia della cintura vi si toglie o pone indosso la vesta, come un guanto che si leva dal braccio.

Voi siete, cara Teresina, così decente e monda che non avete mai sporcato nè me nè vostra madre, sebbene spessissimo vi abbiamo in braccio; non mai vi è una cattiva traspirazione nè nella vostra came­ra nè intorno la vostra persona; voi gridate, non sapendo parlare, e le sole voci che articolate chiaramente è «the» e «the» e «the», qual­che volta sotto voce anche dite «Papà». Io vi parlo sempre francese e capite quando chiamo «la petite Therese la blondine», la buona Savina, la Tedesca, è veramente una buonissima donna, amorosa per voi come se fosse una madre. Tante volte io improvisamente entro nella camera e sempre è occupata di voi, o vi tiene sulle ginocchia o vi porta al passeggio, o nella carrozza, o canta, e sempre con amore e impegno.

Voi mangiate castagne, mela, pere, voi amate il riso, la polenta, mangiate la zuppa, ed io amo che gradatamente sempre più vi cibia­te diminuendo il latte, perchè non riceviate una scossa quando partirà la nodrice da qui a tre mesi. Fralle tirannie che ho sofferto, io e i miei fratelli, oltre le fascie, per le quali quaranta giorni dopo nato io aveva due aperture e un principio di volvolo, vi è stata quella di farci d’un salto passare dal tutto latte al nessun latte, e mi figuro che per un bambino sia uno stato di desolazione il vedersi così violente­mente privato ad un colpo della baglia e del cibo. Anche ho cura, e l’ho sempre avuta, che voi stiate preferibilmente colla Savina e meno che si può colla nodrice, perchè la seconda non vi dia tanta pena quando dovrà partire. Se non fosse gravida come lo è vostra madre, finito che aveste da spuntare i denti vi avrei inoculata, e già credeva che quando aveste due anni ciò si potrebbe fare; ma allora vostro fratello o sorella, avrà otto mesi, e non potendo io separarvi, questo m’imbroglia, perchè temo il vajuolo naturale e per la preziosa vostra conservazione e per la figura vostra che mi preme che sia bella. Basta; allora la vedremo, cara creaturina, io vi voglio fare tutto il bene che posso.

22 Marzo 1778

Il cibo s’è andato crescendo, e diminuendosi l’uso del latte, una o due volte il giorno prendevate le poppe, la vostra nodrice ha fatto vedere desiderio d’essere in campagna al principiare de’ lavori per non esporsi a più forte patimento riasumendoli a stagione avvanzata; questo ha fatto che, secondando chi mi stava intorno, ho ac­condisceso che affatto vi si togliesse il latte. Il primo giorno fu il 14 di questo mese e così un anno e dodici giorni dopo la vostra nasci­ta, quantunque, non avendo voi visibilmente che quattro denti all’al­to e due inferiormente, dubito che ancora la natura non vi avesse resa bastantemente forte per questa rivoluzione. Smanie non ne avete fatte, la prima notte si dovette usare di pazienza per farvi bere dell’acqua dolce e riprendere il sonno, ma, siccome la nodrice è tut­tora con voi, sembra che abbiate dimenticato ch’ella ha del latte, e non lo chiedete. L’apetito è buono in voi, quasi sempre mangiate, zuppe, riso, polenta, pane, mela. Vero è però che in questi otto gior­ni non vi ho mai osservata così vivace e gioconda come lo eravate, gli occhi sono sereni, il colorito bello, ma siete più sonnolenta e de­bole. Verso sera avete dei dolori, nello sgravarvi gl’intestini soffrite e vi contorcete, vorrebbero che vi si desse qualche purgante leggero come si costuma, io in vece vi ho fatta porre jeri in un bagno tepido, perchè questo insinua nel sangue un liquore che calma l’acrimonia de’ nuovi sughi, amollisce le parti, e rimedia più dolcemente e senza stancare i visceri, che è importantissimo di conservare in tutta la loro forza. Nel bagno vi siete sgravata con assai minore smania.

Sino dapprincipio osservammo vostra madre ed io che avevate l’umbilico assai in fuori. Vi femmo visitare dal Magistretti, il quale disse essere ciò indifferente e che si sarebbe rimediato da sè. Vedendo che ciò non segue, e vedendovi soffrire i dolori all’evacua­zione, jeri abbiamo fatto venire un nuovo chirurgo, il Mainardi, in vece del defunto Magistretti, e si è da esso conosciuto che la cattiva legatura del cordone umbilicale vi ha cagionata una apertura che crede rimediabile colla semplice compressione. Questo mi ha dato pena. La notte mi accorsi che la Marietta stentava a respirare, e sco­persi che piangeva e voleva nascondermelo. Piangeva per voi. Siete due care creature, ella e voi.

26 Marzo 1778

Oggi avete ripigliato tutto il buon umore, e oltre l’ilarità vedo che fate ca[…], voi mangiate moltissimo. Oggi vi hanno provato il cinto di ferro che ha fatto il Mazzoni. Mi fa pena questo male, perchè durerà degli anni e, quantunque m’assicurino della guarigione per­fetta, egli è però vero che questa pressione ai lombi e al ventre sarà un ostacolo alla libera circolazione del sangue, vi sarà di qualche incomodo, e potrebbe darvi delle sconciature nel portamento. Un partito vi è, e sarebbe una nuova legatura all’umbilico, questa vi darebbe incomodo e dolore, ma per pochi giorni, e sareste risanata affatto. Ora non è ancora la stagione migliore, da qui a un mese e mezzo sarebbe il tempo, frattanto terremo il riparo, ed io parlerò con chi possa illuminarmi e studierò il fatto su i libri. Mi fa pena questo inconveniente.

Milano 29 Giugno 1778

Mio caro figlio Alessandro

Non replicherò il proemio che ho scritto nella memoria della Teresina, farò le annotazioni di quanto vi appartiene; nel tempo in cui voi non avete memoria nè ragione, l’avrò io per voi, vi piacerà un giorno il sapere cosa siate stato anche prima di cominciare a riflettere. La gravidanza di vostra madre è stata felice: voi eravate in movimento quasi sempre e con molta vivacità. Da due giorni ella soffriva qualche leggero frizzo di dolori, jeri sera a un’ora di notte ella s’incamminò per andare alla Commedia al Teatro interinale a S. Gio. la Conca. Discesa la scala di casa, fu sorpresa da un dolore assai forte, Frisi le dava il braccio da una parte ed io dall’altra. Passato il dolore, io era d’avviso che riascendessimo, ma ella volle montare in carrozza ed uscire; il primo destino fu alla piazza del Duomo, colla idea di colà determinarci o per casa o per il Teatro; alcuni dolori nuovamente la presero; ella voleva il Teatro, credendosi lontana dal partorire, e per disvagarsi dal pensiero del parto; ma si lasciò vince­re dalle mie preghiere, e ritornammo a casa. Si pose sul letto, lusin­gandosi che si calmerebbero le doglie, ma, continuando queste, verso le tre ore mandai a prendere la levatrice ed ebbi qualche pena a indurre la Marietta, vostra Madre, a concederlo, perchè aveva molta timidezza e voleva scostarsi la idea del parto. La mammana, appena l’ebbe visitata, mi disse che era tutto regolare e che, se la prima volta m’aveva indovinato che non sarebbe uscito il parto se non alla chiara luce del giorno, ora mi diceva che sarebbe venuto al lume della candela. Infatti crebbero le doglie assai più smaniosa­mente che non accadde alla Teresina, e felicemente alle ore sei e mezzo, mentre albeggiava, il giorno del mio nome voi siete nato. Non ho permesso che nel lavarvi s’adoperasse nè sapone nè vino, ma una spugna ed acqua tepida. Siete stato riposto nel cestino col metodo della Teresina, accanto alla quale è il vostro letticiuolo. La vostra figurina è svelta e ben fatta, avete il naso formato, peli bruni, e quello che vi è d’osservabile è la vivacità dei vostri movimenti nelle gambe e nelle braccia. Voi movete anche il capo da dritta a sinistra, il che non faceva la Teresina subito dopo nata. Mi pare che la sorel­la aveva allora due occhi più grandi dei vostri, ma la vostra fisonomia è più marcata di quello che fosse la sorella, e il colore vostro è più chiaro di quanto ella era.

4 Ottobre 1778

Mia Teresina, io continuo a scrivere a voi. Nei decorsi sei mesi ne’ quali non vi ho scritto, niente è accaduto di rimarco, avete passate alcune settimane inquieta, poi si sono veduti spuntati molti denti, e oggi quei che sono in vista li avete tutti spuntati e molti dei molari; ma col mio metodo di non violentarvi mai sono nella oscurità del loro numero, perchè non sono visibili se non un poco col farvi molto ridere. Ricordatevi quando sarete madre di fare lo stesso e non usare mai violenza, acciocchè non s’avvilisca l’animo oppresso dalla forza e non si guasti col considerare la forza per un bene preferibile alla ragione ed alla virtù. Io ho osservato che ne’ primi giorni vi dava dis­piacere la cura che la Savina aveva del fratello, ed è naturale che lo provaste, avvezza a vedere ogni cura rivolta a voi. Le donne in­cautamente cominciavano a farvi nascere della invidia, perchè, quando ricusavate di fare a loro modo, si rivolgevano al piccolo Alessandro: io ho messo ordine a questo e mi sono servito del cate­chismo per aprir loro gli occhi e far vedere che il loro artificio era contrario alla carità e benevolenza cristiana, che i primi germi dei vizj si ficcano nel cuore in un punto invisibile, che l’indole buona o rea dipende da un filo talvolta incautamente collocato. Così collo stesso principio ho predicato loro che, al caso urtaste in una scran­na o tavolino, non lo percotessero, come facevano, acciocchè dalle cose inanimate non passaste al restante e si sviluppasse una indole vendicativa. Si deve impedire quanto è possibile che vi facciate del male; ma siccome non s’impara a fuggirlo se non col conoscerlo, nè si apprende a stare in attenzione contro le cadute se non dopo che si sa che da questa nasce il dolore, così io credo che sia un bene che talvolta soffra una leggiera caduta una bambina, perchè altrimenti ella rischierebbe la prima volta di slanciarsi da una scala o da una finestra. Quando poi soffrite il dolore, se v’è modo di calmarlo, usar­ne, se non vi è, distraervi, accarezzarvi, non mai insegnarvi a battere vendicativamente cosa alcuna. Questo l’ho ottenuto, e voi realmen­te amate e accarezzate il piccolino, e non vi è più ombra d’invidia. La vostra anima è pura, ilare, e graziosa. Sono alcuni pochi giorni che dite «ci» per affermare; vedo che v’ingegnate a sciogliere la lin­gua, sin ora erano i soli monosillabi «Pa», «pe», «po», «te», ora pro­nunziate, non so a che fine, la difficile voce «petetric» e «petitic» e molto la replicate, delle consonanti quelle che pronunziate sono p, t, c. In breve spero che vi farete intendere.

10 Ottobre 1778

L’altro jeri, verso mezzogiorno, foste presa da un sopore e stanchezza, poi vi si spiegò una febbre ardente molto, erano tre giorni che non avevate beneficio, vi si applicò un clistere, il quale fece poco effetto, poi dopo quattro ore scomparve il calore e vi raserenaste e con avidità mangiaste la zuppa. Ieri è accaduto lo stesso, io pensava di farvi applicare un clistere con entro del lenitivo, vostra madre amò di avere un medico e io proposi il dottor Ratti, che è il più ragionevole che io conosca, temeva quasi di vajuolo, era d’animo assai turbato, ma fu conosciuto che non fosse vajuolo e si propose di darvi il clistere come io diceva e per bocca dello sciroppo di cicoria col rabarbaro, non lo prendeste jeri perchè non vi piace. Questa mattina ve lo hanno fatto prendere a forza, il che mi spiace. La vio­lenza ai bambini li avilisce e rende dissimulati e falsi. Non vorrei che vi poteste accorgere che il più forte comanda al più debole: ma il male imminente ha suggerito così. Oggi avete avuto qualche ripiglio di febbre, ma assai più mite.

12 Marzo 1779

La vostra malattia svanì dopo che aveste liberi gl’intestini, fortu­natamente vi piacque un bicchiere d’acqua con entro dello sciropo di fiori di persico, e con ciò siete risanata. Una mattina vi passò un 196 verme, eravate di umore tristo, vi venne sonno e foste presa nel sonno da una sorta di letargo, eravate ad occhi spalancati e come stupida, io vi ho lavata la faccia con acqua fredda, vi ho fatte delle fregazioni sulle coscie e sul corpo, vi ho scossa coll’odore d’acqua della regina strofinata sul palmo delle mie mani, e così vi riaveste, poi col mangiare un cioccolattino con entro del mercurio dolcificato siete tornata a viver bene.

Fatto è che già dalla metà di Febbraro scorso voi camminate sola :97 senza sostegno alcuno, voi intendete tutto quello che vi si dice e vi spiegate abbastanza per farvi intendere. Io sempre vi parlo francese, così fanno i miei fratelli e il Taloni e qualche volta anche vostra madre.

All’età di giorni 45 voi rideste, prima di avere sei mesi compiuti avevate due denti incisivi inferiori, a sei mesi pronunziavate «Papa», a due anni camminate franca svelta e ben piantata e capite e vi fate intendere.

23 Settembre 1779

Non v’è stato avvenimento di osservazione. La denzione, la infan­zia infelice del morto Alessandro hanno fatto diferire l’innesto. Ora che i motivi del ritardo sono cessati, la stagione buona, mio fratello Carlo che non ha avuto il vajuolo passato a Parma per un mese, per liberarvi finalmente dal pericolo questa sera, giorno di Giovedì 28 Settembre, alle ore 24 siete stata innestata dal dottor Mainardi all’uno e all’altro braccio sul muscolo deltoide. Siete stata condotta in carrozza colla Savina e con Frisi a Porta Ticinese in casa d’un pove­ro galantuomo, dove eravi un bambino con ottimo vajuolo e nato da parenti sani. Io non ho avuto coraggio di esservi, ma voi non avete fatta smania veruna e non vi hanno fatto sangue. Ritornata a casa, eravate di buonissimo umore, cenaste colla vostra zuppa e vi addor­mentaste al solito.

24 Settembre 1779 – Giorno Primo

Tutto come nello stato di perfetta sanità, il dopopranzo usciste colla Mamma, Frisi, e me, e fummo al bastione dietro Monforte e non uscimmo dalla carrozza perchè un poco di pioggia caduta poco prima aveva bagnata l’erba. Visitati i luoghi dell’innesto, questa mat­tina erano come la morsicatura di un pulce.

25 Settembre 1779 – Secondo

Bene tutto, allegria, buon colore, sanità. Siete stata nodrita con erbe e non siete uscita di casa. Al luogo dell’innesto, come jeri, anzi un poco più pallido.

26 Settembre 1779 – Terzo

La mattina, più rilevato e vermiglio l’innesto, vi fa prurito, noto del calore secco alle mani e un poco di abattimento nella fisonomia, nel rimanente sana. Dopo pranzo, colle donne siete uscita e passeg­giaste allegra nel giardino di Casa Castiglioni.

27 Settembre 1779 – Quarto

Tutto bene. Le zuppe vi si danno colle erbe per tenervi il corpo libero, come accade. Sempre di buon umore. Usciste con noi al bastione, passato il corso di P. Orientale verso Monforte, passeggiaste, siete di buon umore e appetito.

28 Settembre 1779 – Quinto

La mattina comincia a comparire il luogo degl’innesti d’un ver­miglio più carico, e voi un poco di mal umore, poi dopo pranzo e sera di umore allegro e come sana. Non siete uscita, perchè eravamo prevenuti che la S. Contessa Crivelli colla figlia D. Eleonora veniva­no, e in fatti furono da noi verso le 24 ore. Domani si faranno le nozze ed ella sarà vostra zia.

29 Settembre 1779 – Sesto

Nella scorsa notte, verso le otto ore, foste inquieta e sembravate soffrire qualche dolore alle ascelle. La mattina vi alzaste come sana ma pallida un poco, usciste di casa colle donne.

30 Settembre 1779 – Settimo

Febbre leggiera che si sente al calore e all’abattimento vostro, però siete spiritosa e per lo più in moto in piedi. Così scrissi questa mattina ma al cadere del giorno mostraste voglia di coricarvi, indi sonnolenza, e vi si spiegò la febbre al molto calore delle carni, non però vi lamentavate, ma tranquilla rimanevate nel vostro letticciuolo, nessuna cattiva traspirazione febbrile ho sentita. Verso l’ora di notte avete preso la zuppa sedendo sulle ginocchia della Savina. Il contorno dell’innesto è un poco infiammato e al luogo dell’inne­sto vi sono le bolle rilevate.

1 Ottobre 1779 – Ottavo

Quest’oggi, sino a mezzogiorno, foste alzata e passeggiavate anche con buon umore, sebbene foste stata inquieta la notte. A mezzoggiorno vi prese la sonnolenza, si spiegò una febbre forte, poi ave­ste delle convulsioni, tutta la giornata sopore, calore, sonnolenza dalla quale non si poteva risvegliarvi che per poco, poi verso un’ora di notte convulsioni che mi hanno assai inquietato. Questo lo scrivo verso le sette ore della notte che veglierò accanto al vostro letto. Anche gli occhi gli avete chiusi. Non è vero che l’innesto sia una così leggera malattia, come si vuol far credere.

2 Ottobre 1779 – Nono

Nella scorsa notte io colla Savina abbiamo vegliato sino a giorno osservandovi. Tre minori insulti avete sofferti di convulsioni. Oggi vi si è dato un clistere di latte e zucchero, e questa sera per bocca cinque grani di etiope minerale. Probabilmente le convulsioni sono cagionate da vermi. Oggi siete stata cogli occhi chiusi, febbre un po’ meno ardente, e questa sera molto diminuita vi siete abban­donata a un sonno placido. Compajono otto o dieci bolle in tutto il corpo.

3 Ottobre 1779 – Decimo

Non vi è più sopore. La notte è stata un poco inquieta. Vi siete voluta vestire e alzare verso mezzoggiorno, apriste gli occhi, avete avuto delle ore come sana ma debole, avete voluto star in piedi. Tutto è bene, credo che non abbiate febbre. La sera vi siete abban­donata a un sonno placido. L’eruzione del vajuolo continua.

4 Ottobre 1779 – Undecimo

Gli occhi adunque sono stati chiusi due giorni, cioè dal mezzodì dell’ottavo al mezzodì del decimo. Egli è vero che alcuna volta gli apriste anche in quell’intervallo e sopratutto nel momento della con­vulsione. La febbre violenta con sopore è durata pure un giorno e mezzo, cioè dal mezzodì dell’ottavo sino alla sera del nono. Le con­vulsioni sono state di rimarco perchè la sera del 1 Ottobre dell’otta­vo giorno vi scoteste dal sopore, spalancaste gli occhi, i denti serra­ti, e un abbandono totale di forze. Acqua di regina, acqua fredda, fregagioni alle gambe, olio per bocca, clistere, intruso di sapone all’ano, fumo di carta bruciata sulle nari: tutto ineficace per riscuotervi, se non per un momento. Credo che siano i vermi cagione, per­chè nella crisi del vajuolo la corruzione degli umori sembra che li generi più che mai. Si vuole che i cadaveri dei morti di vajuolo si tro­vino pieni di vermi. Perciò si sono usati con profitto i clisteri di latte e zucchero, e per bocca cinque grani d’etiope minerale, che prendete sera e mattina impastati in un cioccolattino. Vi serva di regola un giorno, anzi farete bene di dare l’etiope prima e non aspettare che venga la convulsione. La giornata di oggi va bene senza febbre e uni­camente colla inquietudine che dà la eruzione. La notte è passata tranquillamente.

5 Ottobre 1779 – Duodecimo

Bene la notte, il giorno ancora va bene, vi ho contate ventuna bolle in faccia eccovene il disegno

P-VERRI-Libro-di-Teresa-TAVOLA-1

alla palpebra superiore dell’occhio sinistro, al lato verso il naso, avete pure una bolla, e questo ve lo marco acciocché possiate atten­tamente osservare se il vostro volto in que’ luoghi abbia ricevuto offesa, il che credo che non sarà.

9 Ottobre 1779

Ne’ giorni 13 14 e 15 sempre alzata e sana ma con inquietudine, oggi è il giorno decimosesto e siete allegra e sana, le bolle maturate cominciano a diseccarsi.

10 Ottobre 1779 – Decimosettimo

Sana, se non che non state in piedi per le bolle che avete alle piante.

21 Novembre 1779

Non ho scritto il seguito del giornale perchè eravate sana. Oggi siete a letto. Ne’ giorni scorsi fummo a Mozzate, e voi pure, soffriste freddo, ritornaste con voce rauca e spurgo al naso, jeri sera eravate vogliosa di andare a letto, non cenaste, anche fral giorno eravate abattuta, alle tre della notte vi presero le convulsioni, vi feci dare un ajuto col latte, vi feci scopettare le cosce e le gambe, aveste una scarica e in mezz’ora vi calmaste e riposta a dormire. Appena alle sei ore eravamo a letto, la Savina vi portò in camiscia nella nostra stanza, eravate presa dalle convulsioni, vi feci inghiottire due cucchiajate d’olio d’ulivo, poi altrettanto sciropo di cicoria col rabarbaro, strofinazioni alle gambe, fomenti al ventre, nuovo clistere con olio, e vi tennimo sino alle dieci nel letto nostro, sempre cercando di risvegliarvi, ma la sonnolenza era preponderante. Oggi avete febbre, questa mattina nuovamente aveste le convulsioni però questa sera state meglio.

[1781]

Anche questa malattia svanì liberandovi gl’intestini, la grave malattia e lunga si manifestò verso la metà di Aprile 1781: febbre che cominciava col freddo, e che pareva intermittente, prostrazione di forze, dimagramento, tosse violenta, sudori, in somma le apparenze del male di vostra madre. Partiste per Biassono il 3 Maggio 1781 e vi dimoraste più di tre mesi sino al 7 di Agosto. La vostra guarigione posso attribuirla all’aria della villa, all’esatto regime nel vitto, alla equitazione su di un somarello e all’Elettuario Antitisico del Walter descritto nella farmacopea di Bologna, del quale rimedio per due mesi faceste uso. Il latte umano e asinino non vi ha fatto bene. Ho somma cura di tenervi riparata dal freddo e badare a ogni apparenza di rafreddore.

1783, 19 Aprile

Scrivo questa memoria, che nell’Ottobre passato aveste molte e forti febbri con dolore di gola, non senza timore. Non vi si fece altro che darvi un legger purgante e porvi la cassia intorno la gola. Ma io fui in gran pena.

Oggi poi è il primo giorno in cui vi si manifesta un dente mal fermo; è il primo principio della denzione all’età di sei anni e un mese e mezzo.

18 Maggio 1783

Oggi vi ho spedita a Ornago colla petite amie, e la Savina. Mi costa questa separazione, ma la vedo necessaria. Da un mese a que­sta parte voi siete dimagrata assai, pallida, la lingua sporca e tre volte siete caduta con febbre. La prima sembrò gatarale, di quelle che corrono in questi tempi; poi appena riavuta ricadeste con febbre e dolore reumatico al collo; poi nuovamente riavuta si manifestò feb­bre che il S.r D.r Caccini crede attribuibile a un dente molare, ulti­mo che spunta. E questo venga per un principio morboso, e l’aria libera d’Ornago è la droga migliore. O semplicemente si tratti del vostro ristabilimento, e niente vi deve meglio giovare quanto quel­l’aria e la compagnia di quella famiglia che a voi piace tanto. Fra dodici giorni verrò a vedervi a Ornago e passare con voi due setti­mane. Fratanto però sono isolato. In mezzo però alla gracilità vostra mi piace che vi si veda un dente a spuntare, mi piace che avete lun­ghi e folti capelli, e mi piace la vivacità e l’impeto della vostra anima. Questi sono indizi di elaterio vitale, e il dimagramento lo conside­ro per ciò di poca importanza. Nondimeno conviene risarcirvi, pri­ma che vengano i calori della state. Ne’ giorni scorsi io bramava di morire, e sarà per me un compenso nel morire il pensare che sono allora certo di non vedervi morire.

1784, 31 Agosto

L’anno scorso, nella primavera, perdeste i due denti di mezzo della mandibola inferiore, sono passati più di dodici mesi senza che aveste altro segno di cambiamento di denti. Oggi vi si è cavato un terzo dente ed è dal lato del fegato l’immediatamente aderente ai due nuovi spuntati. Mentre vi scrivo sono afflitto, perchè la Savina pazzamente rispondendo a mia moglie mi ha costretto a licenziarla.

Memoria del trasporto della mia cara Maria dal Carmine in Ornago alla Chiesa della Madonna.

1782, 28 Settembre

Se io fossi stato padrone in casa, avrei disposto che la cara spoglia di Maria fosse subito collocata in una cassa di piombo, affine di con­servarla e onorarla; ma questo pensiero avrebbe portate delle dice­rie e delle scene che non ho avuto animo di affrontare nello stato in cui allora mi ritrovava. Mio Padre cadde ammalato d’una violenta febbre, non erano tre mesi da che io era vedovo, e la cosa giunse sino all’estrema unzione, che gli fu amministrata nell’Agosto 1781. Io allora, considerando imminente l’apertura del Sepolcro gentilizio del Carmine, pensai contemporaneamente di estrarne la mia cara Maria, collocarla in una decente cassa di piombo, e includere in essa, scolpita sopra di una lamina di purissimo argento, la di lei memoria. Feci disporre la lamina che vedrete, cara Teresina, impres­sa in questo libro, e la feci di argento purissimo, perchè la lega di rame, tramandando la patina, non corroda col tempo i caratteri. Non morì allora mio Padre, ed io tenni la mia lamina celata, ben vedendo che, nello stato di consunzione in cui viveva mio Padre all’età di ottantacinque anni compiuti, non poteva essere rimoto il tempo per farne uso. Morì mio Padre la sera del 22 Settembre 1782, e subito pensai ad efettuare il mio proposito. Colla di lui morte io diventai padrone di Ornago, mia primogenitura, ed acquistai la libertà di collocarvi quel caro deposito nella chiesa medesima dove sta il nostro figlio bambino Alessandro, che ella ed io amavamo tanto! Ma conveniva disporre le cose in modo che non si risapesse, poichè vociferandosi non si sarebbe lasciato di dire che questa fosse una dispettosa aversione contro di mio Padre, per non lasciare che si confondano colle sue le ceneri della amata mia Maria. Conveniva far disporre la cassa di piombo e far tacere lo stagnaro, che doveva stagnare le connessure, posto che vi fosse il caro corpo. Conveniva far partecipe del secreto il falegname che doveva formare la cassa esteriore e adattarvi quella di piombo. Conveniva che il P. Sacrista del Carmine e l’aiutante si prestassero e tacessero. Che una carroz­za di notte se ne caricasse e la trasportasse, e il vetturino tacesse.

Due sepellitori dovettero essere partecipi del secreto, e de’ miei domestici due altri, il cameriere Cesare Niada e il lacchè Andreino, che furono assistenti e l’accompagnarono ad Ornago. Di più, convenne farne partecipe D. Giacomo Trecchi, Intendente del Ducato, per evitare ogni inconveniente all’uscire di notte dalla porta Renza.

La lamina di puro argento l’ha involta mia moglie Vicenzina in un pezzo di damasco di seta, perchè la seta è la sola che si preserva intatta e incorruttibile anche nell’umido. Vicenzina fu la sola, alla quale ho confidato ultroneamente il secreto: ella ama la memoria della Marietta, e s’è prestata piamente a questo ufficio. Il Sig. Secretario Grassini, ottimo amico, mi ha favorito, diriggendo tutto, e senza di lui che regola le cose della Sanità non avrei potuto ottenere l’intento.

La sera del 27 Settembre 1782, verso le quattr’ore di notte, essendo la chiesa del Carmine chiusa, si è cavata dal sepolcro la cassa. All’aprirla io mi lusingava che si potesse trovare uno scheletro colla pelle e qualche avanzo della cara fisonomia; ma, ne’ seddici mesi che sono trascorsi dopo la sua morte, tutto è rovinato. Non vi sono se non le ossa e queste distaccate le une dalle altre. I denti sono tutti al loro luogo, e i capelli che aveva bellissimi e biondi ancora si sono trovati aderenti al cranio. I guanti, le calze, quasi tutto è consumato. Non tramandava alcun odore. Tutte le reliquie si sono diligentemente collocate nella nuova cassa di piombo, si è stagnato il coperchio ermeticamente, ma prima si è dal Sig.r Secr.o Grassini deposta l’iscrizione sulla lamina d’argento insieme colle reliquie. La mattina la cassa fu alla Madonna di Ornago collocata in una stanza laterale alla porta della Chiesa, sin che disponga pel nuovo sepolcro.

Ella è stata al Carmine seddici mesi meno un giorno. Ella è stata portata a Ornago seddici mesi in punto da che fu sepellita al Carmine. Nel sepolcro del Carmine tre soli giorni vi è rimasta insieme con il nuovo cadavere, poichè mio Padre vi si è sepellito il giorno 24 Settembre 1782.

Mi è costato in tutto £ 319.16, cioè:
Al Trombare Felice Grassi per libbre 226 piombo servito pel sar­cofago a sol. nove £ 106.14. Saldatura, riposta che vi fu la cara spo­glia, £ 18; fattura e portura alla chiesa del Carmine di esso sarcofa­go di piombo £ 38.
Al Falegname Giuseppe Rocca per la cassa esterna, ferramenti e fattura £ 26.15.
Al Frate Carmelitano Sacrista, che vegliò, si prestò, e osservò secreto £ 29.
Vettura e mance per quattro cavalli, che trasportarono a Ornago £ 43.10.
Ai due sepoltori £ 14.10.
Al cameriere Cesare Niada £ 26, al lacchè Andreino £ 14.10, in gratificazione d’aver vegliato alla esecuzione di questa pietà, accom­pagnata la spoglia a Ornago, e conservato il secreto.
Alla partita retroscritta di £ 319.16 aggiungasi il valore della lami­na d’argento, pesante once sette e denari ventidue, alla bontà di denari undici, che a £ 8.2 fa £ 64.5.3.
Al Sig.r Cagnoni per avere scolpita la iscrizione £ 29. -.
Somma precedente £ 319.16.
Sono in tutto lire 413.1.3, ossia zecchini ventotto e mezzo circa.

Ricordi a mia figlia Teresa.

1777, 6 Agosto

Un uomo può talvolta ridersene della opinione degli uomini. Io sono stato nel caso appunto, non aveva certamente meritato il dis­credito, ma era però riuscito a taluno di farmi passare per un nova­tore, cattivo cittadino, poco buon cristiano, e compagnia pericolosa; io mi rivolsi alle lettere ed alle cognizioni locali della economia dello Stato, stampai, scrissi, ottenni qualche nome, ebbi un impiego, l’o­pinione cambiò e cambiò a segno che fralle persone attualmente in carica nessuno ha generalmente una opinione così favorevole come la ho io. L’uomo, o per la carriera delle armi, o per la ecclesiastica, o per le scienze, o per le cariche civili, ha il mezzo di forzare le dice­rie popolari a tacere e va da conquistatore forzando la opinione e sottomettendosela. Ma la donna manca di queste risorse. Debole, gracile, timida per sua natura, non ha per mezzi che la dolcezza, la placida bontà, la virtù del cuore. Questi sono che le proccurano un marito, che le lo affezionano, e che la conducono a quel grado di felicità a cui può aspirare.

Le virtù stesse sembrano divise in gran parte per appanaggio dei due sessi. Un giovane robusto, ardito, impetuoso, piace, una figlia, se tale fosse, dispiacerebbe: la virtù sua è la modestia; il contegno, un po’ di timidezza, la sensibilità squisita, la compassione, qualche poco anche d’imbarazzo nella sua persona, formano il di lei pregio. Una donna decisa, aspra, e di franchezza, spiace e sembra affumica­ta dalle pippe d’un corpo di guardia.

Dovete adunque con somma attenzione mia cara Teresina proccurare sino dai primi anni di guadagnarvi la buona opinione, e, frat­tanto che voi siete ancora bambina, io vi anderò scrivendo quanto mi sembra utile a voi di sapere e di meditare per un tal fine.

La Providenza del Grand’Essere vi ha fatta nascere da una famiglia nobile e condecorata e dottata di convenienti facoltà. Non avre­te occasione di sentire i mali e l’avvilimento della povertà. Se però non dovete provarli per vostra sorte, riflettete che molti altri nostri simili nostri fratelli li soffrono. Voi siete bene alloggiata e pasciuta e vestita, altre figlie, che hanno una sensibilità eguale alla vostra, stan­no in un miserabile tugurio, tremano nelle notti d’inverno sulla paglia, soffrono la fame, e a tutti questi mali s’aggiugne la vergogna della loro condizione. Siate attenta nel rispettare l’umanità, badate che per disattenzione non mostriate mai trascuranza per gl’infelici. Somma bassezza è l’insultarli col fasto, la buona indole vi suggerirà anzi di abbassarvi ad essi, trattarli con bontà, con cortesia e con maggiore riflessione che non fareste colle vostre pari. Una vostra pari non resterà offesa da una distrazione, una infelice sempre occu­pata de’ mali proprj crederà che sia orgoglio e fasto in voi.

Chi è mai ricco abbastanza o chi lo fu mai per beneficare tutti i bisognosi? Nessuno, se intendansi beneficio i soli donativi; ma, se riflettiamo bene, il tesoro della beneficenza d’una anima buona è inesauribile. Un consiglio dato a tempo, un paziente interessamento nelle miserie altrui, una parola detta approposito, un rincoramento dato prudentemente a un animo abbattuto, e cento simili atti di animo veramente nobile e buono sono veri e reali beneficj che non impoveriscono chi gli fa e possono o cavare dalla infelicità chi vi si trova ovvero almeno rendergliela più sopportabile.

Con un avviso saggiamente dato impedirete che l’infelice non diventi ancora più miserabile, colla umana accoglienza lo rimande­rete consolato e almeno per qualche tempo gli calmerete il senso de’ suoi mali, fra i quali uno grandissimo si è il timore del disprezzo, un ufficio fatto in buon punto può far rivolgere l’altrui beneficenza sopra di una famiglia. Ricordatevi, cara Teresina, che le persone an­che di merito distinto quando sono infelici cessano di essere amabi­li, non vi ributti la malinconia del loro volto, non la noja della uni­formità de’ loro discorsi: una buona dama si fa un delizioso piacere di rimandar sereno quel volto che se le presentò abbattuto, date libero sfogo alla tristezza dell’infelice, la vostra bontà nell’ascoltarlo, l’interessarvi che farete al suo dolore anderanno gradatamente consolandolo, l’atmosfera dell’anima buona infonde la pace e la calma in chi se le avvicina.

Seguendo i puri movimenti del vostro cuore benefico con questa costante attenzione, voi avrete tante voci che vi benediranno quan­te persone povere e afflitte si saranno presentate a voi, e, comin­ciando da questa classe di persone, la buona opinione e il buon nome piantano al basso radici profonde, la pianta s’erge, e, ad onta de’ venti e ostacoli che più facilmente incontra fra un livello più alto, francamente li supera. Io ho sempre seguitato questo principio e per sentimento e per riflessione. La classe infima è la più facile a captivarsi, essa valuta ogni atto di bontà che le venga fatto da una per­sona distinta; io ho fatto il mio sistema di cominciare la mia reputazione dal popolo, salutando cortesemente chiunque, essendo umano e popolare, beneficando quanto poteva o con denaro o con uffici o con maniere consolanti, ho proccurato che nessuno, massime picco­lo, partisse da me se non contento, taluno partiva entusiasta e colle lacrime di consolazione e tenerezza sugli occhi. Questa classe di per­sone ha costretto i nobili e i ministri medesimi a piegarsi e o tacere o dir bene di me. I poveri non sono invidiosi di noi nati d’un rango che secondo la opinione loro è d’una altra sfera, i nostri pari sì, che temono il nostro merito. Perciò, se volete avere un buon nome, cominciate a porre ogni vostro studio per guadagnarvi la povera gente colla popolarità, colla mansuetudine, colla dolcezza e pazien­za, e co’ beneficj.

Non vi è principio in politica più sicuro e più raffinato di questo. Noi abbiamo bisogno della opinione pubblica; e il mezzo più sicu­ro, facile, e costante per acquistarcela si è di captivarci i voti dei popolari. Il Re Federico di Prussia ha potuto giugnere al grado di gloria a cui è arrivato, ha potuto abbassare tutti i grandi, ridurre i ministri ad essere meri stromenti de’ suoi voleri, stabilire e creare una nuova potenza in Europa; ma uno de’ mezzi principalissimi è stato l’amor della plebe. Vestito sempre senza lusso, abitando senza pompa, rappresentando più il soldato che il Re, ricevendo con egua­le attenzione le suppliche del contaddino e del Principe, risponden­do di proprio pugno a un artigiano se occorreva, vegliando perchè i pesi delle imposte non cadessero indiscretamente sulla plebe libe­randola dalla servitù dei nobili, egli ha trovato nell’entusiasmo del suo popolo un fondo capace di somministrargli i mezzi per resiste­re all’Impero, alla Casa d’Austria, alla Francia, Svezia e Moscovia, collegate a di lui danno, e dopo una guerra di più anni concludere la pace senza perdita d’un solo palmo di terreno. I sovrani accorti sempre si sono gettati dal partito popolare, umani colla plebe, cor­tesi, affettuosi, hanno con ciò trovato i mezzi da regnare dispotica­mente, e cominciate da Giulio Cesare e venite sino ai nostri tempi. Per lo contrario, la trascuranza di questo principio ha sempre cagio­nato dei molti dispiaceri nella vita di chi ha creduto inutile il suffra­gio della plebe. La plebe, torno a dirlo, è sensibile ai passi che facciamo per discendere sino a lei, ce ne sa buon grado, e non dimentica nè il nostro fasto nè la nostra attenzione. Alcune dame per mancanza d’ingegno appena si degnano di abbassare il capo alla povera gente che le saluta, queste sono ridicoli automi che non rap­presentano bene nè la dama nè la donna accorta. La cortesia è il segno della educazione nobile, la villania è propria di una anima sciocca e vile. Tutte le dame e Principesse che hanno avuto buon nome di signore di merito le ho conosciute attentissime ad usare cortesia con tutti e singolarmente colla plebe.

Quando dico cortesia, umanità, bontà, affabilità, non dico dime­stichezza e abbjezione. Conviene, cara Teresina, distinguere questi nomi come viene distinta la virtù dal vizio. Conviene colle persone della plebe adoperare tutta la dolcezza e pazienza, ma non vi abban­donate mai in presenza di esse a far cosa che ecciti il riso a spese vostre, non ischerzate o motteggiate con esse per non dar luogo a risposte indecenti. Se fate dimenticare col vostro contegno la distan­za che la fortuna ha posta fra esse e voi, cessa il motivo della loro gratitudine, non vi considerano più come discesa al loro livello per bontà e per virtù, e perdete i vantaggi della nascita senza compenso. Una signora nobile col lasciarsi vedere colla scopa a ripulire le stan­ze si era avvilita a segno da dover soffrire alla fine gl’insulti delle livree; cento pazzie innocenti fatte fra i vostri pari sono vere scioc­chezze, se siavi presente persona plebea. Conviene mostrarsi sempre degna del posto nel quale siete nata, e, come i bisogni fisici non si soddisfano che in disparte, così alcuni abbandoni dell’animo nostro non debbono avere per testimonio che i nostri intimi amici.

La stessa massima, che è da seguirsi colla plebe e co’ poveri, ragion vuole che la seguiate anche colle persone civili o nobili, ma timide e avvilite. Alcuni sono decaduti a questo grado per l’op­pressione domestica, altri per la povertà, altri per mancanza di edu­cazione; cercate di guadagnarvi tutte queste persone colla vostra amorevolezza e cortesia. Una dama negletta generalmente sarà sen­sibilissima se non la negligenterete voi, un cavaliere imbarazzato e timido vi risguarderà come una divinità se gli mostrerete d’avere riguardo per lui. Guardatevi dal motteggiare, guardatevi dal fasto, siate cortese, civile, attenta, singolarmente con queste persone e avrete tante trombe che suoneranno le vostre lodi e costringeranno le vostre emule istesse a rispettarvi e a dir bene di voi. Vi troverete meno pentita, se avrete mancato di attenzione alle vostre pari o anche superiori, di quello che sarete se dimenticate i riguardi verso le persone plebee, povere, o abbattute, perchè le prime non faranno gran caso della dimenticanza avendo esse un sentimento bastante di quanto valgono senza bisogno di testimonianze esterne che loro lo ricordi, ma le ultime provano una spina crudele nel cuore ad ogni mancanza di riguardo, e la differenza è come toccare un membro sano e toccare una piaga, il primo non soffre, l’altra prova un dolore assai intenso.

La opinione pubblica, come vi ho detto, sarà quella che vi farà trovare un buon marito, che vi conserverà la di lui stima, quella de’ vostri parenti, de’ vostri figli, la opinione obbligherà ciascuno a rispettarvi, cominciando dallo stesso Sovrano e venendo abbasso per ogni classe di persone. Questa sarà la sorgente della vostra felicità, e per acquistarvela prima di tutto abbiate, cara Teresina, in mente adunque il sommo caso e la attenzione instancabile verso tutte le persone poste in condizione minore della vostra. Questo è il mezzo più sicuro e l’unico: la rinomatissima S. Contessa Simonetti era precisamente così, così era la Marchesa Paola Litta, così la Marchesa Calderari, e niente è stato impossibile a queste tre dame quando si sono posto un desiderio nel cuore.

Per ottenere la opinione pubblica abbiate somma attenzione nell’astenervi da ogni satira o disapprovazione. Io ho dovuto più volte pentirmi di avere dimenticato questo principio, e non ho mai cavato buon frutto dal discorso che offendesse altrui. Un principio di virtù era forse quello che mi spigneva a smascherare gli uomini cattivi e rappresentarli quali essi sono; mi pareva che in tal guisa gli omaggi che rendeva colla lode agli uomini virtuosi acquistassero pregio, perchè chi loda tutto e non parla mai con disapprovazione, niente prova colle sue lodi; per lo contrario, chi ne’ suoi discorsi è imparzialmente disposto a lodare o biasimare secondo giudica vero, quando encomia, dà un suffragio più significante. Anche dippiù mi pareva che possa essere una azione nobile e virtuosa il non permet­tere che sia confuso mai il buono col tristo, e che il disprezzo e il dis­credito generalmente dato al cattivo sarebbero un efficacissimo mezzo per portare gli uomini al bene, laddove la toleranza pubblica lascia correre tanti nella strada del vizio. In fatti qualora un uomo cattivo, anche ricco, anche in carica, gallonato, dorato, accompa­gnato da numerose livree, vedesse che gli uomini che incontra sdegnassero di salutarlo, che lo evitassero e considerassero la traspi­razione del suo corpo come contagiosa, questo solo oggetto baste­rebbe se non a far rivedere l’uomo corrotto, certamente a farlo ser­vire di esempio, cosicché i giovani si allontanino dalla carriera del male. Per lo contrario, l’uomo virtuoso anche in povera fortuna, senza pompa, se si vedesse accolto con segni di stima e cortesia generalmente, allora la società da se medesima, indipendentemente dalle leggi civili e dal governo, si rimonterebbe e la verità, la virtù e il merito riceverebbero tutto il possibile fomento per propagarsi. Con questo principio adunque l’uomo opererebbe virtuosamente col detestare ne’ suoi discorsi le azioni ingiuste, col notificare le baronate che vengono commesse singolarmente dalle persone po­tenti e pregiate. Io ho fatto così più volte, e singolarmente parlando dei ministri venali e insensibili all’onore e alla verità. Ma non ho mai ottenuto niente di bene. Perchè gli uomini sono troppo corrotti e manca generalmente quel vigore d’animo che spigne alla detestazio­ne del vizio. I nostri cittadini avviliti tremano o guardano come una stravaganza e un delirio ogni impeto di vera e maschia virtù. Mi sono fatto inimici i Ministri, nessuno ha risparmiata una adulazione o un ossequio ad alcuno di essi, e bisogna che anche al dì d’oggi io stia in guardia sopra la mia lingua, perchè, sentendo io con energia le cose, la natura mi porterebbe sempre a chiamare Chat un chat, et Rollet un frippon, e questo non fa mai bene. Anzi ho trovato in fatti che non mai ho vissuto bene, nè mai ho avuta consolazione di sorte alcuna, se non quando, soffocando ogni principio di amarezza e di sdegno, ho potuto placidamente risguardare i virtuosi come rispet­tabili e i viziosi come ammalati d’una malattia di mente senza insul­tarli. Credo anzi che questo modo sia assai più ragionevole e degno d’un filosofo, perchè, essendo per me una verità dimostrata che è nostro principale interesse di essere buoni e virtuosi, e che il vizio, la bassezza, la falsità non producono che pochi beni momentanei ed apparenti e mali essenzialissimi e durevoli, secondo me chi non ha veduta questa verità e si lascia sedurre dal vizio è o un imbecille o uno stordito che pensa male ai proprj interessi, che si rovina da se medesimo, e che merita compassione a preferenza dello sdegno e dell’insulto.

Io vi ho voluto, cara Teresina, mettere in chiaro questo principio, perchè, siccome in me è stato un vizio il più forte che mi si è attra­versato alla mia felicità, forse potreste aver un animo somigliante al Padre, e di buon ora vi voglio avvisare acciocché facciate buon uso della mia sperienza e schiviate i mei errori. In una donna poi singo­larmente è da fuggirsi ogni tratto di lingua mordace, perchè il pre­gio principale della donna è la dolcezza e la modestia, laddove l’ar­dire è il pregio dell’uomo. Vedete la Venere de’ Medici e l’Èrcole Farnese, e dalle espressioni de’ loro muscoli capirete cosa sia il bello nell’uomo e quanto diverso sia dal bello nella donna. Per avere adunque l’opinione pubblica favorevole, è necessario che abbiate somma attenzione alla vostra lingua e non mai lasciarvi sfuggire di bocca una parola che possa mostrare disprezzo di alcuno. Questo non solamente deve intendersi di astenervi dal biasimo delle azioni o carattere altrui, ma anche dal disapprovare la figura, il vestito e i ridicoli degli uomini e sopra tutto delle donne. Ho osservato che le donne veramente accorte e di spirito, le quali hanno passata la vita felicemente, furono quelle che non solamente non contribuirono mai alla mormorazione anche nelle minime cose, ma che anzi deci­samente prendevano la difesa della persona accusata o derisa e, cercando il pretesto di scusarla o sul fatto o sulla intenzione, facevano l’apologia dell’assente. Questo però è da farsi con modestia e in modo da non insultare l’accusatore, ammeno che egli stesso impu­dentemente non avesse il primo mancato al rispetto che si deve a una signora, nel qual caso o un silenzio accompagnato da serietà, o una mutazione di discorso destramente introdotta, ovvero al caso estremo una decisa e placida dichiarazione di non amare tali discor­si, fanno rientrare nel dovere chiunque, allorchè la signora che lo fa goda della pubblica opinione. Vi raccomando adunque, mia cara figlia, di badar bene che la vostra lingua non pronunzi mai cosa che mostri disistima o disprezzo, ch’ella sia la dolce e mansueta protet­trice delle persone che si vorrebbero o screditare o rendere ridicole, e in tal modo mostrerete un carattere eccellente, sarete rispettata e adorata da tutti, vi guadagnerete la confidenza d’ognuno, e vi rin­francherete nella opinione in modo che vi troverete a mille doppj ricompensata dello studio che vi avrete posto.

Un altro difetto potrebbe diminuirvi la buona opinione e l’amo­revolezza pubblica, acquistata che l’aveste, o impedirvene anticipa­tamente l’acquisto, e questo è la troppa voglia di essere stimata, o, per dirlo meglio, la voglia inconsiderata della stima pubblica, giacchè non è mai troppo in noi il desiderio della stima, poichè è questi il principio della virtù. Alcune donne incautamente amano di sfode­rare quello che sanno e carpiscono tutte le occasioni di un confron­to avantaggioso. Se trovansi con altre persone che non sappiano il francese o il tedesco, si pongono a diriggere il discorso con un fore­stiere, e credono di brillare parlando francamente e ad alta voce la lingua ignorata dalle persone astanti, o se non ignorata almeno non posseduta maestrevolmente. Le persone astanti, singolarmente se donne, s’annojano, cioè restano mortificate e avvilite, ricevono nel cuore della amarezza, dell’invidia, dell’odio contro la donna che le ha poste in quella situazione umiliante, per una vanità si fanno delle inimicizie sorde bensì ma durevoli, si eccita dell’antipatia; ciascuna presa da sè e isolata, è una debole nemica, moltiplicate, queste sono tanti deboli fili, ma riuniti vi atterrano. Lo stesso dico di volere par­lare di cose superiori al livello delle persone astanti. Lo stesso final­mente dico del voler parlare molto e decidere. La donna di vero spi­rito tiene le sue cognizioni per sè, modestamente ne fa uso quando l’occasione lo vuole, cerca piuttosto di parlar sobriamente ma sen­sato che molto ed eloquente, considera che non si può essere ben voluta, se non si ha attenzione a rispettare l’amor proprio altrui, e finalmente conosce questa grandissima verità: Nessuno parte conten­to da noi, s’egli non è contento di se medesimo, verità che, bene co­nosciuta, è il cardine della più fina e sublime politica della società. Se una donna posta in un circolo pretenderà di occupare l’attenzio­ne universale e col suo discorso dispoticamente vorrà impedire che ciascuna faccia la sua figura, degradandole all’essere di ascoltatrici, quella donna sarà poi o detestata e fuggita ovvero posta in ridicolo, perchè l’amor proprio di ciascuna è interessato ad umiliarla. Per lo contrario, la donna di spirito, in vece di eriggersi in dittatura, si occupa a lasciare il campo libero ad ognuno per parlare e brillare se può, ella eccita il discorso se languisce la materia, ella mostra di stare attenta a quel di buono che taluno dice e lo rileva, ella è, come dice­va Socrate di se medesimo, la levatrice dello spirito altrui, lo fa sbuc­ciare, lo ripulisce se occorre, lo mette in vista; ed è piuttosto l’orga­nista che sa toccare opportunamente il tasto, che la canna strillante dell’organo. Da questa donna ognuno parte contento di se medesi­mo, perchè gli è stato dato luogo di esporre le proprie idee, sono state valutate ed ascoltate, ha conosciuto che è stimato e, partendo contento di se medesimo, trova adorabile la persona che gli ha som­ministrato il modo di passar così bene il suo tempo. Se avrete que­sto principio, potrete essere circondata dalla più scelta compagnia del paese e, se avrete la casa vostra aperta, ricordatevi che dovete unicamente parlare abbastanza per mettere gli altri in [†] di parla­re, e voi colla attenzione a quanto si dice e col rilevare i tratti meri­tevoli o per il cuore o per lo spirito passerete più per donna di vero spirito e colta di quello che fareste con dissertazioni o parole pedan­tesche, le quali ricaderebbero in un ridicolo e in un abbandono iso­lante. La vostra piccola libreria, il vostro studio debbon essere un mistero e se in piccola società vi accaderà di parlarne, fatelo sempre con modestia, senza pretensione, e sarete adorata.

Bisogna anche astenervi da una certa allegria di schiammazzo e di baccanale, che ho veduto pregiudicare moltissimo ad altre donne. Questa esclude la modestia, la dolcezza, e quella timidità muliebre, che fanno il pregio, il fiore e l’esca più potente per incantare gli uomini. Una figlia che porta con sè una festosa allegria, che riempie collo scoppiar dalle risa la stanza, che occupa di sè tutti gli spettatori, non è illuminata ne’ suoi proprj interessi per più motivi. Gli uomini temono che una moglie diventi la tiranna e padrona dispoti­ca, e conseguentemente, vedendola troppo franca e decisa, s’allon­tanano e restano prevenuti a non pensare a lei. Sono altronde più i timidi ed abattuti d’animo che gli allegri e felici, e la gioja baccante insulta ai primi, li mortifica al confronto e gl’indispone. Io bramo, cara Teresina, che siate felice, e vi penserò e mi occuperò di render­vi tale, e quello che mancherà al vostro ben essere non sarà mai per colpa del mio cuore; ma desidero che la vostra felicità la tenghiate piuttosto per voi stessa, per la conversazione intima delle poche per­sone che vi amano, ma non la poniate mai in pompa quando siete in compagnia, perchè ogni confronto umiliante per gli altri gl’indisporrà contro di voi, e da qui nascono quelle che si chiamano anti­patie, cioè dispiacere di convivere e dispiacere del bene che capita altrui: queste non sono a ben esaminarle che un effetto dell’amor proprio altrui incautamente avvilito e offeso. Regola generale, non si ama mai chi ci fa scomparire, si ama chi ci persuade che noi abbia­mo del merito, e una donna destinata a vivere nella società non sarà mai felice, se non è generalmente ben voluta. Ricordatevi che una debole inimica è un filo di seta o di reffe, da sè poco danno vi può fare, ma a quel debole filo unitene un secondo, poi un terzo e così avanti, si forma una matassa che ha forza a atterrare un Ercole. Temete, cara figlia, di farvi mal volere, cercate anzi di farvi perdo­nare i vantaggi che avrete e per lo spirito, e per le cognizioni, e per la nascita, e per i comodi della vita, non vantate mai nè ponete in pompa questi vantaggi, ponetevi cortesemente al livello di ognuna, non vi arrogate mai il primato, non offendete l’amor proprio altrui nè con parole nè con fatti, e sarete adorata e felice, perchè gene­ralmente vi si saprà buon grado della moderazione che userete, e quanto meno cercherete voi a farvi valere, tanto più interesserete gli altri a innalzarvi; anzi, come non mancheranno mai delle donne leggere e incaute che poste in fortuna col loro fasto e indiscrezione offendono l’amor proprio altrui, sarete da tutta questa classe nu­merosissima di persone offese e umiliate posta in alto e portata come lo stendardo per far arrossire e mortificare chi le ha offese. Non sarete mai troppo civile, troppo cortese, troppo modesta, o troppo attenta al ben essere altrui; un uomo potrebbe essere effeminato coll’eccesso di questi dilicati riguardi, una donna sarà nello stato di sua perfezione.

Quando entrate in una conversazione, siate attenta, e ponete prima di tutto il vostro animo in tranquillità. La maggior parte delle dame nostre hanno ricevuta una sì meschina educazione che il loro animo è in un disordine sommo quando entrano in una nobile com­pagnia. Prive di principj e incerte sul bene e sul male, non avendo altra norma che l’esempio, esse entrano nella sala come se venissero in mezzo a giudici nemici. Temono la critica sul vestito, sul porta­mento e su tutte le loro azioni. Alcune superano questo doloroso momento con un impeto passaggiero e, scorrendo rapidamente la sala, vanno a salutare la padrona di casa, indi le altre, e il più presto che loro è possibile vanno a sedersi nel circolo per togliersi al dolo­roso spettacolo. Altre più storditamente entrano, e vedono pochi degli oggetti degni d’osservazione in quello stato d’orgasmo, sin che vanno a collocarsi anch’elleno il più presto che sia possibile nell’asi­lo di una sedia. Comunemente o entrano in una maniera pazza ovve­ro con un ridicolo imbarazzo, e, negligentando di salutare i cavalieri che si sono alzati, insegnano a questi un’altra volta a non scomporsi per la dama, e viene quindi annientato quel rispetto al sesso, che costituisce il pregio d’una ripulita società. Voi, Teresina, al limitare della porta riflettete che valete per lo meno quanto ciascuna di quel­le signore che troverete, e che, se anche taluna valesse di più, non per questo siete voi dispregievole, date una occhiata tranquillamente alla adunanza, avvanzatevi con passo moderato e naturale, senza corsa e senza gravità, fate le riverenze a ciascuna donna secondo l’usanza: il meglio è non pronunziare verun complimento, il solo inchino spiega abbastanza, ogni frase ripetuta a ciascuna diventa una littania, variata è difficile. Da noi domandano alcune come si stia di salute, partono prima d’averne la risposta: questi sono com­plimenti da ospedale, nell’assemblea si suppongono tutti sani; altre incautamente domanderanno a chi è a letto se sta bene e simili scioc­cherie nate dalla cattiva usanza di voler pronunziare un complimen­to; altre un serva sua, altre uno schiavo, e sono schiave perchè donne. Io mi diverto qualche volta di questo spettacolo e di rimirare le donne in questa febbre, cagionata dal non avere principj e dal non riporre mai niente di sentimento nella abitudine di conversare. Le compagnie si dovrebbero radunare per passarvi bene e felicemente le ore, dovrebbe essere esclusa la maligna diffidenza, regnarvi una gioja tranquilla, ed animarla la vicendevole cura di essere piacevole. In vece ciascuna è alla tortura, teme col silenzio di passare per insi­pida, trema col discorso di far ridere, ora tiranneggia la compagnia con un racconto prolisso e insignificante, ora la lascia torpire, si finge una forzata allegria che non parte dal cuore, perchè si crede che sia del buon tuono di aver piacere nella società, e si ritorna a casa colla stanchezza e colla noja nell’animo. Questo è il vero ritrat­to delle conversazioni del giorno in cui vi scrivo. Forse migliorerà il senso della società quando vi entrerete voi, ma difficilmente lo credo. Sicuramente ve ne annojerete, ma o con piacere o con noja bisogna passare per questa vita e conformarsi a queste usanze. Entrate adunque col vostro animo in calma, tranquillamente salu­tate coll’inchino, senza proferire parola, ciascuna dama. Qualche amica può essere l’eccezione della regola, parlatele e abbracciatela. Ricordatevi, se vi sono uomini in piedi, di rivolgervi e salutarli e non lasciarli così lungo tempo mentre voi siate a parlare con qualche amica. Poi, collocata al vostro posto, abbiate timore di parlar trop­po, non mai troppo poco.

Vi raccomando, posta che sarete a sedere, al presentarsi che faranno a voi i nuovi venuti dame o cavalieri, alzatevi. Questa usan­za regna da noi su poche, ma è una villania il non alzarvi quando una persona civile vi saluta, è un obbligo il farlo, e, se le altre non lo fanno, mancano al loro dovere, e appunto questa mancanza di civil­tà è quella che autorizza poi gli altri, e singolarmente gli uomini, a dispensarsi dal rispetto che esiggono le dame. Un uomo ha una spada, e con quella può far rientrare nel suo dovere chi gli manca di riguardo. Un uomo può avere anche altre occasioni di mortificare chi lo ha offeso; una dama deve prevenire ogni insulto, ogni offesa, e la civiltà, la educazione sono i più possenti mezzi per tenere chiunque in dovere. Le cerimonie, diceva un uomo di spirito, sono una invenzione dei saggi per tenersi lontani gl’insensati. Una donna deve condursi in modo di non ricevere mai un affronto, perchè, ricevuto che l’abbia, è irreparabile, ed ella non torna più esattamente a quel grado di stima pubblica ch’ella godeva prima di riceverlo. Una dama è una divinità che si regge colla mera opinione, un esempio d’un dis­prezzo che le sia fatto sfiora quel non so che di sacro che la attornia. Se sarete cortese, nobile, attenta, civile con tutti, vi rispondo io che, ammeno di trovare un ubbriaco o un furioso da legare, nessun uomo oserà di pronunziare contro di voi una parola nemmeno dubbia sul conto del rispetto che meritate, peggio poi oserà mai alcuno farvi cosa che vi offenda. Per quanto sieno gli uomini mancanti di educa­zione, una dama civile, colta, affabile senza domestichezza e senza abjezione, savia, costumata senza ipocrisia, accorta e svelta senza far la civetta, una tal donna, io dico, sempre ne impone ed ispira rive­renza, e tenete pure per certo che noi altri uomini non ci prendiamo mai la libertà d’essere indecenti con voi donne, se non quando voi stesse c’invitate ad esserlo.

Niente è più facile a una giovine, per poco ch’ella sia d’una figura passabile, di occupare di sè molti uomini giovani che incontra nella conversazione. Basta ch’ella colle occhiate, col modo da presentarsi libero e sventato, con un tuono di voce alto e di schiammazzo annunzi la speranza di accordare facilmente dei piaceri, fossero an­che i soli quelli di parlare seco di galanterie apertamente; i giovani, o per sottrarsi alla noja, o per curiosità, o per lusinga di ottenere il loro intento, correranno a farle corona, si riderà in quel crocchio, si toccheranno e bacieranno le belle mani, si farà qualche gesto anche più innoltrato e la giovine, se è una stolida, tornerà a casa consolatissima di aver brillato, di avere conquistato essa sola tutt’i cuori. Frattanto, partita la insensata, i libertini ricapitolano tutta la passa­ta conversazione, gli uni la deridono, gli altri pensano a rinnovare l’attacco colla speranza di avere una aventura con lei, si sparge la voce della facilità trovata, nasce il discredito, nessun uomo, nessun giovane capace di sentimenti, s’accosterà a quella civetta, non trove­rà chi la sposi, non chi la stimi se è già sposata, cadrà nel vituperio e non avrà mai un cuore capace d’amare che si degni di accostarsi a lei. Noi uomini vogliamo possedere un cuore di cui l’acquisto lusin­ghi il nostro amor proprio: se una stoffa sta esposta per insegna dal mercante, non si compra quella per farsi un vestito, il mercante accorto ve la estrae da un ripostiglio serrato a chiave, ve la presenta come cosa che difficilmente altrove trovereste; una facile conquista ci fa nascere il capriccio di tentarla una volta, ma il nostro cuore non vi ha parte nessuna, il tedio, la noja, il disprezzo sono i sentimenti che lasciano nell’animo dell’uomo le donne facili e di molti. Sarete allevata, cara Teresina, in modo che sarebbe superfluo che io mi stendessi di più a provarvi il cattivo negozio che fa una donna coll’accostarsi anche poco, anche in apparenza, alla scostumatezza ed al libertinaggio. Vi dirò soltanto su questo proposito che, di tutte le osservazioni che ho fatte, io costantemente ne ho trovato che le donne costumate e caste hanno gustata una serie di beni quanto era possibile nelle loro circostanze, e che le facili e spensierate per pochi piaceri divorati furtivamente hanno sofferti mali gravissimi. Tre dame ho conosciute al fiore dei loro anni morte fra gli spasimi d’una malattia guadagnata colla loro inconsiderata facilità e non medicata per lusinga, difficoltà, e rossore. Una quarta da me conosciuta, dopo estremi dolori sofferti per mesi a cagione dello stesso principio, per disperazione si è gettata da una finestra e due ore dopo spirò. Il fiore della bellezza in molte altre è svanito, e sono invecchiate negli anni più verdi per la stessa cagione. A questi mali, dei quali sono io testimonio, e vi nominerei le persone se la virtù me lo con­sentisse, aggiugnete la inquietudine perpetua che dal marito o dai parenti venga a scoprirsi il proprio disonore, il rimorso di mirare accanto un marito e saper di tradirlo nel tempo che lo accarezzate, la necessità di dovere lasciar conoscere la propria debolezza a qual­che domestico almeno, la ingiustizia di intrudere nella famiglia degli estranei a depauperare i legittimi eredi, la vergogna d’essere presto o tardi abbandonata e trattata con indifferenza da quell’oggetto che un tempo vi portò a mancare ai più cari, ai più dolci, ai più sacri doveri verso voi stessa e verso lo sposo, il pericolo d’essere voi stessa l’oggetto del disprezzo o delle milanterie d’un amante, ponete tutta questa serie di cose da una parte insieme a qualche momento avidamente rubato e consacrato alla voluttà, ponete dall’altra la pace interna d’una anima buona e nobile che non ha rossore di se stessa, che adempie ai doveri di figlia, di sposa e di madre, che onora in ogni sua azione se medesima e gode della sanità, della freschezza de’ suoi anni, della stima pubblica, e ne’ casti abbraciamenti dello sposo trova una più pura e placida voluttà protetta da tutte le leggi, a cui succedono i figli, tenero pegno d’una lecita unione, esaminate questi due quadri, e la scelta della donna di spirito, attenta ai suoi proprj interessi, è facile. La virtù ci reca i beni, il vizio i mali: questa è la più vera e costante massima anche di politica, ed io ho veduto molti, anche uomini di qualche spirito, pregiudicarsi e cadere, unicamente perchè non si fidarono abbastanza della virtù e per un momento di contrarietà e di fallace speranza si rivolsero al vizio. È dunque massimo interesse per la vostra felicità di tenervi in un con­tegno che allontani da voi il vizio ed ogni apparenza di esso. La con­quista d’una donna sventata può animare il temperamento di alcu­no in di lei vantaggio; la costumatezza, il saggio contegno d’una donna accorta e giudiziosa imprimono rispetto e interessano la mol­titudine in di lei vantaggio; la virtù piace a quei medesimi che cer­cano di scostarla da una donna, il vizio è disprezzato da quegli stes­si che per sedurre ne fanno l’apologia.

Ma questa bontà di cuore, questa virtuosa fermezza ne’ buoni principj, non la ostenterete mai, cara Teresina. La vera virtù è dolce, compassionevole, tolerante. Quelle donne che innalzano lo stendar­do della virtù e sembrano portare la disapprovazione sulla fronte, quelle che si allarmano e si ragrinzano ad ogni motto equivoco, quelle che, sempre in guardia a censurare le facezie anche più inno­centi, portano la pretensione di riformare la società, sono per la vera virtù quello che sono i parolai, i pedagoghi per le belle lettere. Se in una compagnia il tuono fosse veramente indecente e dissoluto, non bisogna che una dama vi si trovi, e, se per disaventura una volta vi capita, la donna accorta vi sarà capitata per l’ultima volta, essa però non si mostrerà corucciata, non spirerà lo scandalo, avvedutamente proccurerà di introdurre qualche discorso che distragga ad oggetti piacevoli e indifferenti, s’ella nol può si rifugierà nel silenzio e senza tristezza e senza approvazione ma placidamente se ne ritirerà il più presto che può. I discorsi indecenti e le azioni indecenti sono una mancanza di riverenza verso la donna che è presente, e, siccome ho accennato che l’uomo ripara, se vuole, i torti che riceve e la donna non lo può, così l’espediente che la prudenza insegna ad una donna è di non mostrare di accorgersi che le si manchi di rispetto. Il parti­to che vi consiglio, mia Teresina, è di mostrarvi distratta ogni volta che vi si tiene un discorso equivoco, d’interromperlo, se continua, con introdurre un discorso che distolga quella idea, se poi, il che sarà difficile, si persistesse a indirizzarvi un discorso indecente, senza collera ma pacatamente direte: «Signore questo discorso non lo amo». La tranquillità d’una donna impone e sconcerta un disso­luto, laddove la collera di essa gli dà luogo a porla in ridicolo. I gesti ancora e i toccamenti di mano o di braccio, che taluni usano con una libertà da gente veramente poco educata, naturalmente non si faran­no a voi, perchè il nobile e civile contegno che avrete non permet­terà di osarlo; pure, se taluno lo ardisse, guardatevi dal non mostra­re mai collera, o da farvi conoscere offesa; o scansate destramente l’attacco senza fare una risposta diretta, ovvero con pace e freddezza dite: «Signore questo modo di conversare non lo amo». Guardatevi poi sempre di non mostrarvi mai offesa o malcontenta da veruno, soltanto sarà ragionevole che mostriate un po’ di freddezza e ceri­moniale maggiore colla persona che si sarà mostrata con voi più ardita, e sfuggirete l’occasione d’essere di nuovo alle prese.

Nella società bisogna guardarsi anche dal gesticolare molto; le persone che hanno molta immaginazione naturalmente sono spinte a parlare ad alta voce ed accompagnare co’ gesti ogni parola, sento­no con molta energia e vorrebbero sfogarsi e comunicare quello che sentono con ogni ajuto di mani, d’occhi, di voce. Vi è però un non so che di scurrile in questo modo di esprimersi, e noi milanesi per nostra disaventura siamo troppo languidi e incerti de’ nostri senti­menti, onde non si perdonerebbe un sì fatto modo di annunziarsi, oltre di che egli è impossibile d’essere sempre decenti. Una donna ben educata deve mostrare come se il di lei animo fosse sempre in calma e sereno, e il solo sentimento che le sta bene è la compassio­ne, la quale turbi talvolta quella pacatezza, la febbre, l’impeto, che si annunziano col gesticolare, mostrano un’anima in borasca conti­nua e ciò diminuisce il rispetto, che è importantissimo di tenere impresso nell’animo altrui. Sia dunque composta la vostra persona, moderato il tuono della vostra voce, e guardatevi sopra tutto dalla afettazione, cioè dalla incauta imitazione de’ gesti o del tuono altrui. Un uomo o una donna, quando sieno loro stessi, abbiano il loro tuono, il loro modo di moversi come hanno la loro fisonomia, per poco che riformino quello di sconcio che inavedutamente si sia in essi sviluppato, sono esseri buoni e belli in loro classe; ma l’uomo o la donna scimmie sono mostri ridicoli e spregievoli. Una piccola caricatura che è naturale e dà vezzo a una donna, se verrà imitata, diventerà una ridicola buffoneria sguajatissima in un’altra. I gesti studiati, le positure poetiche e pittoresche sono scempiagini che fanno stomaco in vece d’allettare. La grand’arte d’essere amabili è di perfezionare il fondo nostro, non mai innestare sopra di noi la roba ricopiata: siate originale, siate voi medesima, io acconsento che vi poniate allo specchio per osservarvi e giudicare de’ moti vantaggio­si o sgarbati che possono prendere i muscoli del volto vostro e del vostro corpo; ma non intendereste certamente il vero vostro interes­se se prendeste ad imprestito i movimenti o le singolarità altrui. Sareste una figura stentata: cercate di perfezionare quello che avete di buono originariamente da voi, correggete quello che avete di vizio, siate voi stessa, e sarete amabile. Io non vi disapprovo se cer­cate di piacere, bramo che siate giudicata buona, rispettabile, bella, e degna d’amore; ma la maggior parte delle giovani travviano, ed io ve ne addito la strada. Per esempio, una giovinetta gracile, minuta, bionda può anche avere della grazia, nell’essere soverchiamente timida d’un ragno, d’un sorcio, d’un lampo; fa che una bruna, gran­de e di ardite fattezze cerchi d’imitare quel fanciullesco grido ch’el­la fa, e farà ridere di sè la brigata. Una certa serietà nobile e impo­nente è maestosa in una giovine d’una bella statura che ha tratti grandiosi e nobili nel volto, fa che una piccolina di fattezze minute e vivaci voglia imitarla, e ne avrai una stentata parodia. Lo stesso che è sensibilissimo in tali salti è sempre sconcio e forzato anche in salti minori, ogni volta che prendiamo ad imprestito i modi, i gesti, il tuono, il portamento che non è nel nostro naturale. Abbiamo cia­scuno la nostra fisonomia, ogni sforzo non ci farà acquistare la fisonomia d’un altro, così l’indole e ogni nostra esterna azione deve essere un tutto assieme armonico che assortisca col viso, colla sago­ma del corpo, col tuono naturale della nostra voce e col nostro umore. Vedete in un giardino quanto sono meno belle, meno verdi, meno sugose, le piante che si fanno forzatamente diventare una pira­mide, un sedile, un quadrato e simili, di quello che lo siano le pian­te anche irregolarmente sviluppate all’aria aperta, come portò la natura; questo principio, se lo esaminerete, lo troverete vero anche nel genere umano, le donne singolarmente diventano afettate e spia­cevoli per abbandono che fanno del loro naturale e per addossarsi una esistenza imitata. La vivace cerchi di rittagliare dalla vivacità i vizj e i difetti, ma la sviluppi, e non si prenda un carattere di serietà posticcia. La seria faccia lo stesso, e non diventi stentata con una forzata vivacità d’imprestito. Ciascuna può essere amabile, se raf­finerà se stessa; cesserà di esserlo, se vorrà trasformarsi in un’altra. Il gran precetto che gli antichi scrivevano sul tempio della Sapienza era Conosci te stesso, cercate di entrare in questo esame che è importantissimo, esaminate i vantaggi e gli svantaggi vostri, non è vero che l’amor proprio ci seduca, nel secreto del nostro cuore vi è una voce che ci dice sempre il vero, basta entrarvi e entrarvi spesso e abituarci a riflettere sopra de’ nostri movimenti dell’animo. Cono­scerete con un po’ di tempo e di riflessione il vostro forte e il vostro debole, presentatevi destramente dal primo dei due lati, cercate di migliorarlo, e celate e restringete quanto potete il fianco debole, ma non siate mai la scimmia altrui, se volete avere grazia ed essere amabile.

Se volete essere amabile e godere della stima generale, nemmeno dovete essere troppo sincera. Io non intendo con ciò di prevenirvi a non dire delle verità disgustose a nessuno, questo è un documento troppo volgare, ed io mi restringo unicamente a palesarvi, cara Teresina, quelle verità che comunemente non si sogliono dire. Voglio dire che, se volete essere amabile e godere della stima, dove­te lasciare sempre un velo sopra di voi stessa, in guisa che si cono­sca che il vostro animo non è arditamente scoperto. Io ho mancato e manco spesse volte a questo precetto e mi accorgo che mi pregiu­dico, e, se non avessi una carica che obbliga gli uomini ad avere per me dei riguardi, la mia troppa schiettezza mi diminuirebbe la stima altrui. Gli uomini non attribuiscono a un nobile sdegno di ricorrere alle arti della simulazione, nè al coraggioso orgoglio della virtù la franchezza di palesare liberamente l’animo proprio; bensì vi ravvi­sano o imperizia dell’arte di saper vivere ovvero imprudenza e debolezza. Io non ho mai veduto un altro uomo slanciarsi ed abbrac­ciarmi come farei io, se un altro mi si aprisse liberamente, trovo generalmente che la sorpresa che eccito in loro li lascia incerti se mi debbano per ciò stimare, e, lusingandosi d’avermi conosciuto perfettamente, mi pregiano meno. Generalmente gli uomini più coper­ti ne impongono di più, perchè un oggetto non bene distinto e attor­niato da nebbia fa più paura ed occupa più l’attenzione degli uomini che un oggetto illuminato e conosciuto; perchè, se è bene il non far mai del male agli uomini, è male che abbiano una positiva sicurezza di non poter giammai ricever male da noi. Se un sacristano non coprisse la reliquia con un velo e non la riponesse lontana dallo sguardo, per poi rare volte mostrarla e con certe cerimonie, il popo­lo s’avvezzerebbe alla reliquia e non ne farebbe che poco conto. Così accade dell’animo: s’egli è limpido e schietto, esposto sempre alla vista di ognuno, cade nella indiferenza e forse nel disprezzo. Un corpo nudo non è mai tanto voluttuoso e interessante, quanto se sia adombrato destramente da un velo. Una bella faccia istessa, velata che sia, ancora più seduce; così le qualità del nostro animo, sfac­ciatamente nude, spiaciono, velate ed elegantemente riposte a un lume anche un poco equivoco, ispirano riverenza, interessano la curiosità, e fanno amare e pregiare chi sa così mostrarle. La virtù stes­sa troppo nuda cessa di piacere. Una donna, di cui le azioni sono costantemente generose e benefiche, di cui il tratto sempre è civile ed amabile, la di cui lingua mai non offende alcuno, i di cui costumi si vedono esattamente virtuosi, ma i principj di cui nessuno esattamen­te conosce, perchè apertamente non palesa mai tutto, questo è il vero carattere della donna che può essere il modello della sapienza e della accortezza. Tenete ferma questa gran verità, cara Teresina, che gli oggetti perfettamente conosciuti si stimano meno e che gli uomini non si tengono mai in lena occupati di noi, se non quanto sappiamo far loro credere che v’è ancora del paese da scoprire, lasciando loro sperare che lo scopriranno e non concedendoglielo mai.

Questo principio esaminatelo in ogni occorrenza e troverete che si verifica sempre: tanto nella società, quanto in amore, le cose tutte interamente possedute o esattamente conosciute cessano d’esserci pregiate. Badate dunque a voi stessa, non manifestate mai i principj generali che vi determinano, non parlate mai di voi stessa nè del vostro modo di pensare o di agire: il parlare di noi stessi o è debo­lezza o è orgoglio, e sempre è il più spinoso discorso che si possa introdurre. Nemmeno de’ mali nostri o degl’interessi domestici s’ha da parlare nelle conversazioni: la donna accorta spazia co’ suoi dis­corsi lontano da sè e lascia se medesima attorniata da quella sacra nebbia, che, difendendola dagli sguardi profani, la fa riverire.

Del vostro vestito non è possibile ch’io vi dia verun consiglio sulla moda che cambia ogni anno. Egli è certo che l’abito, che mentre vi scrivo, cioè nel 1777, è usato e trovato elegante e vantaggioso, sarà trovato ridicolo e mostruoso quando potrete leggere questi miei ricordi. Gli Asiatici sono assai più di noi ragionevoli, essi hanno tro­vato delle forme di vestito veramente nobili dignitose comode e spi­ranti grazia e gusto. Sono secoli che il taglio de’ loro abbigliamenti è fisso, e lo è talmente che le dignità, gli uffici, la nazione di ogni uomo, si manifestano dal modo col quale è abbigliato. Le donne sono voluttuosissime, involte in que’ finissimi turbanti, elleno sole hanno conservato il vero cinto di Venere; ma noi col nostro busto, col guardinfante, e con cento pazzie abbiamo sempre delirato, deli­riamo tuttavia, ci tormentiamo, siamo realmente cattive figure… ma siamo, cara Teresina, nel caso in cui è sapienza l’essere pazzo fra i pazzi. Come dunque faremo? Credo che singolarmente piace una persona quando le cose che ha intorno di sè danno idea della somma mondezza del corpo che ricoprono e d’una elegante trascuratezza nell’abbigliarsi. La idea di pulizia nasce dall’aspetto di nuovo che abbiano tutte le parti, che vi vestono; una stofa che ha perso il luci­do della seta, che mostri d’essere molto passata fralle mani, disgusta; ma, quand’anche sia poco ricca, se è lucida e in aspetto di nuova, piace. I grandi abitoni di stoffe d’oro sciupati, ne’ quali l’oro o è smarrito o imbrunito, sembra che debbano avere un odore rancido e fanno disgusto. Oltre poi la stofa, ogni nastro, ogni merletto con­viene che sempre appaja cosa poco usata, e questa attenzione porta­tela su tutto, sulle scarpe, sulle calze, e singolarmente su i lini che vi toccano immediatamente. Poi nel vestirvi non abbiate premura che tutto sia esattamente compassato. Anzi vestitevi in modo che chi vi osserva non conosca lo studio usato, ma anzi debba dire: «Se sta bene, malgrado la negligenza sua, quanto non sarebbe più bella, se vi ponesse tutto il suo studio». Teresina mia, questo è il sublime del­l’arte, ed è il precetto massimo per piacere in ogni modo. Datemi un ballerino mediocre, e vedetelo come si slancia con impeto e lascia vedere l’estrema forza e la attenzione per ballare. Datemene uno eccellente, e copre l’artificio, cela la forza col volto placido, con un moto naturale di braccia, sembra che a caso quasi si collochi nelle più belle positure e che naturalmente si trovi nei più eleganti e difficili atteggiamenti. Vedete in poesia alcune arie di Metastasio, alcune ottave del Tasso e dell’Ariosto: pare che non costino fatica e che bastava voler dire quel pensiero, e chiunque sembra che non potesse dirlo che così. Quelli sono i pezzi che più incantano e i veri sublimi. Nella musica, se una voce vi fa conoscere lo studio e la somma attenzione del cantante, vi annoja; il valente musico sembra che spontaneamente moduli e, mentre esattissimamente osserva la misura, sembra che la trascuri. Tutta l’arte di piacere si riduce a conoscer l’arte, ma celarla e operare in modo che chi ammira quasi dica: «Io pure farei lo stesso», ma, provandosi, non vi riesce. Con questo principio, se una donna si presenta atillata, finita, studiosa­mente compassata, chi la vede si maraviglia che non sembri più bella ancora di quello che pare dopo tanto studio; una donna che si vesta con un moderato e grazioso disordine lascia luogo alla immagina­zione di figurarsela mille volte più bella ancora se voglia darsi la pena di comparirlo. Un uomo di spirito diceva ad un ricco che aveva innalzata una grandissima torre: «Tu credi di avermi data una gran­de idea della tua ricchezza, e t’inganni; prima l’aveva grandissima; la tua torre mi ha fatto conoscere il limite di quello che puoi, non avevi mezzi per alzarla ancora cinquanta braccia di più». Così, chi sfode­ra tutto quello che può e lascia conoscere che ha fatto il fattibile, mostra agli altri il confine del suo potere, e anche negli abiti e nella eleganza non è mai cosa saggia il mostrare d’aver fatto il possibile. Un pittore di gusto ti fa una bella donna con qualche leggiero dis­ordine e ne’ cappelli e nell’abbigliamento, niente è più secco e stuc­chevole quanto la esatta simetria, ella non serve che sugli altari ed all’esercizio militare, e questi non sono i licei della grazia e della venustà certamente. Una graziosa negligenza dunque è l’anima del­l’abbigliamento e lo scopo di ben vestirsi è il risvegliare idea della somma mondezza del nostro corpo; a ciò principalmente conviene, come dissi, non tanto la ricchezza degli ornamenti quanto la fre­schezza loro e che niente appaja vecchio o sciupato; poi conviene che l’abbigliamento abbia un non so che di leggiero, cosicchè sem­bri che l’aria lambisca il vostro corpo e vi si cangi facilmente intor­no. Quindi un abito troppo stretto e fissato intorno disdice. La mon­dezza del corpo sveglia anche l’idea di quella dell’animo, e perciò molti legislatori religiosi instituirono i lavacri, le abluzioni e simili rimedj per purificare le colpe, essendo assai collegate le idee della purità del corpo e di quella de’ sentimenti. Voi sarete allevata in modo che avrete un bisogno d’essere monda tutta, come le altre fanno nel viso. Nel vestire conviene uniformarsi alla usanza, non portandola all’eccesso; mi pare però che i colori indecisi convenga­no meglio alla bellezza d’una donna che i primigenii del prisma. Vi consiglio di esaminarvi bene allo specchio prima di uscire di casa, di adornarvi con grazia e porre ogni studio a coprire lo studio, in somma ad eseguire
Le negligenze sue sono artifici
ma fuori di casa e nella compagnia non vi mostrate mai occupata di voi stessa o del vostro vestito, tanto più darete risalto alla figura vostra; e sopra tutto astenetevi dal condannare giammai il gusto altrui. L’arte somma in tutto è quella di non abbagliare al primo pre­sentarsi, anzi di far poco o nessun senso, ma poi essere in modo che, più si viene esaminata, più piaciate. Osservate il mezzo giorno: sorprende, abbaglia, stanca, ed è sempre lo stesso oggetto. Osservate un bel cielo azzurro, sereno e stellato, vedete quelle punte lucide della gran volta sparse in disordine senza simetria ma con un di­sordine così vago, così curioso, che ciascuno cerca a conoscervi qualche figura, e così, rapito l’occhio, rapita la immaginazione in un dolce incantesimo, non vi saziate di contemplarlo; così è la figura della donna piacevole; così è il suo stile, il suo modo, niente che annunzi pretensione di occupare di se stessa, ma tutto organizato in modo che insensibilmente gli altri se ne occupino e non se ne sazino. Siate piuttosto una bella notte anzi che un bel giorno. Lo stesso che dico del vestito, lo dico anche della carrozza, livree, apparta­menti ec., se dipenderà da voi. L’oro, il fasto ciarlatanesco, non sono l’insegna del gusto nè quello che piace; il finimento, la eleganza, la perfezione del lavoro, la ragionevolezza de’ mobili ec. sono quello che piace sempre in ogni secolo.

Fra le occupazioni sociali v’è il giuoco: proccurerò che non mi somigliate, perchè io non so giuocar bene nessun giuoco e m’annojo. Se è possibile, è bene che impariate, e vi facciate uno studio dei giuochi di commercio. Bisogna proccurare di far bene tutto quello che si ha da fare, e poi è un capo di profitto sensibile, o almeno che impedisce una sensibile perdita, il possedere il giuoco. Giuocando poi conviene guardarsi dal mostrare avidità, ira, impazienza, come pure svogliatezza e trascuranza. Il primo eccesso svela un animo niente generoso, il secondo mostra un fasto insultante gli altri. Placidezza e una moderata attenzione sono i segni che convien vedere in una nobile signora che giuoca. Se un caso è dubbio, rimet­tetevi al parere altrui, se è sicuro per voi, tranquillamente dite la ragione, e, se non vi si fa giustizia, tacete senza mostrarvi malcon­tenta. Badate a tutto il giuoco anche con attenzione maggiore di quella che mostrate, cercate poi di non giuocare mai con persone colleriche o mal educate. A giuoco di azardo o di molta importanza non giuocate mai: un uomo si pregiudica, una donna si prostituisce, perchè mostra avidità, bisogno, e si pone in necessità di dover fare di tutto per mantenere quel vizio. In casa vostra non permetterete mai che si rovini alcuno e debba nessuna famiglia maledirvi per que­sto. L’educazione che spero di darvi vi renderà superfluo quello che scrivo su di ciò, onde tralascio il dippiù.

Se in vostra casa o di città o di campagna avete compagnia a pranzo, anticipatamente proccurate che tutto sia bene in ordine; poi, quando la compagnia è adunata, non vi mostrate niente occupata del pranzo o della cena: una donna che sa regolare la sua casa la organiza in modo che sembra andar bene da sè come una macchina. La inquietudine co’ domestici, i rimproveri sulla lentezza o disattenzione, non si possono manifestare in faccia alla buona compagnia, perchè fareste credere di non essere i vostri domestici avvezzi a vedere buona compagnia in casa vostra, e togliereste ai convittati la libera giocondità col lasciare ad essi credere che la loro venuta fosse a voi cagione di scontento. La maniera più nobile di fare la padrona di casa è di non sembrare quasi la padrona, ma starvi come in un sito terzo. Anzi, a tavola la più nobile maniera è quella di star­vi pure senza ricordarsi che sia la vostra tavola, cioè apparentemen­te. Abbandonatevi ai discorsi che vi si faranno, non mai parlate dei cibi o degli ornamenti della tavola se non per necessità, interrogata, e allora semplicemente dite senza prolissità e senza darvi importan­za. Ma, se apparentemente dovete dimenticare il personaggio di padrona di casa, realmente dovete stare attenta che ciascuno dai domestici sia pontualmente servito, e sopra tutto badate che non dimentichino i convittati di minor conto, il che sogliono fare, e con una occhiata i vostri domestici sapranno intendervi senza che alcuno della comittiva nobile nemmeno se ne accorga. In questa guisa ciascuno sarà libero e starà con gioja alla vostra tavola; il fare gli onori e distribuire le vivande è un tedio per la padrona, un inco­modo per i suoi vicini e porta un cerimoniale nojoso alla mensa, un rango, una preminenza che è mortale. Niente poi è più disgustoso quanto il vedere che il padrone di casa sgridi o rampogni i domesti­ci: questa è una vera inciviltà commessa contro ciascuno ospite, al quale fate sentire di essere di cattivo umore, lasciate il dubbio che lo siate per cagion sua; la giocondità, la repubblicana decenza sono quelle che attorniano la donna di spirito quando usa ospitalità. Se il convitto è invitato, siete in obbligo che sia in ogni parte ben servi­to: se è una improvvisata che vi si fa in campagna, fate le scuse dap­principio, e poi non parlate più nè di bene nè di male sulla tavola. Nessuno è obbligato ad avere pronto un pranzo nelle forme.

Le cose arbitrarie non vi esponete mai a farle se non siete certa di farle bene, dico «esponete» perchè io non intendo di limitare tutti gli onesti capricci che potete soddisfare nella stretta compagnia di pochissime persone amiche, dico soltanto in faccia di più persone: per esempio, non vi ponete a cantare, se non siete certa di poterlo fare in modo da piacere con sicurezza di tempo, intonazione, portamento di voce, e padronanza dell’aria. Niente è più nojoso quanto le smorfie di alcune, le quali vanno tremando al cembalo, e dopo cento difficoltà cantano miserabilmente, talora anche perdendo il filo della musica. Questo è un talento che nessuno è obbligato di avere se non chi ne fa la professione, è un nobile ornamento, ma non si deve esercitare la pazienza altrui ultroneamente. Lo stesso dico del talento del teatro; se l’occasione vi si presenta di recitare, fatelo se siete capace di farlo bene, e decisamente astenetevene se non ve ne sentite la franchezza e la capacità. Io non dico per ciò che, aven­do questi due talenti, gli dobbiate esercitare con una decisione tale da far credere che vi riputiate soverchiamente istrutta; conviene anzi sempre guadagnare i giudici colla modestia, col stare lontana dalla pretensione: gli uomini si sdegnano con chi cerca di forzare la stessa loro ammirazione e la celano piuttosto, se non v’è una apparenza di spontaneità nel concederla; ma la modestia debb’essere semplice, moderata, e non scimiottesca e studiata, anzi, esercitando questi talenti arbitrarj, aspettate di esserne chiesta e prestatevi con aria di compiacenza al desiderio altrui, e siate sempre cauta a lasciare, quando terminate, che resti desiderio che continuaste: meglio una cantata breve e bella. Il talento del ballo non è tanto arbitrario, potete, anche ballando mediocremente, farlo senza pericolo, perchè è il ballo quasi un esercizio di cerimoniale e altronde non esigge questo talento l’attenzione di tutti gli altri testimonj come la esiggono gli altri due talenti. Quanto più nasconderete l’artifizio e lo studio che fate sì nel canto che nel declamare e nel ballo, tanto più vi accoste­rete alla grazia ed al bello. Le cose manierate, caricate, stentate, non sono mai per piacere all’uomo di gusto: quando si vede lo sforzo, mostrate incautamente l’ultimo limite del vostro potere; dirò dei talenti quello che ho scritto sul vestito: lasciate che si creda che potreste fare assai dippiù di quello che fate, state un passo indietro dal vostro limite, e la immaginazione de’ vostri giudici crederà che esso sia discosto ancora assai più d’un passo.

Sin qui vi ho accennate alcune cose che risguardano il vostro contegno esteriore, atte a conciliarvi la stima pubblica e a farvi passare per una cara e amabile creatura. Ora vi scriverò alcune altre cose che risguardano la interna felicità vostra; non vi farò un trattato di mora­le, ma vi indicherò alcuni punti che meritano la vostra attenzione.

La filosofia che singolarmente dominò alla metà di questo secolo tendette ad esaltare le passioni, a dar loro impeto, forza, e entusia­smo, risguardandole come il primo mobile del cuore e delle azioni e come la sorgente della vita morale e d’ogni cosa grande. Alessandro, Cesare, Maometto sarebbero tre nomi sconosciuti, se una violentis­sima ambizione non gli avesse scossi dallo stato in cui si trovavano e scagliati attraverso una turbolentissima vita a conquistare e soggio­gare la terra. Sarebbe ignoto il nome di Newton, di Montesquieu, di Gallileo, di Tiziano, e di simili uomini, se, animati da un’avidissima passione di gloria, non avessero fermamente e costantemente supe­rati i difficilissimi travagli, la lunga noja, e l’ingiusta freddezza degli uomini pigri e restii ad innalzare un uomo coll’applauso sopra il loro livello. Le passioni hanno inventate e perfezionate le arti tutte, siccome hanno prodotto i tratti più insigni delle nobili e delle infami azioni. Non si può negare questa verità; ma cercherò io: l’uomo ani­mato da violenti passioni è egli più felice dell’altro che le ha moderate? Dovendo io scegliere, o di far cose grandi menando una vita affannosa, ovvero di placidamente godere della mia esistenza, la sa­pienza dove mi consiglierà di propendere? Soffiando io stesso sul fuoco delle mie passioni, fomentandole, riguardandole come il pre­zioso germe della mia vita, penso io da saggio al mio ben essere? Che probabilità vi è mai che nelle combinazioni della mia vita una ve ne sia che mi apra il campo a diventare autore di una rivoluzione che lasci il mio nome ai posteri? Cosa mi gioverà anche il lasciarlo dopo una vita infelice? A me pare che questi declamatori ed eccita­tori delle passioni usino la eloquenza che è in pratica presso i capo­rali per addescare le nuove reclute: prendono un giovine popolare, mal in arnese, senza speranze, citano uno o due esempj di soldati di fortuna diventati generali, gallonati, titolati, arricchiti; seducono l’i­diota a dare il nome a questa lotteria, e si trova poi legato ad una vita infelicissima, e cento mila incauti vivono e mojono nella più misera condizione per uno che ha fatto fortuna. Questi filosofi avevano il progetto di liberare gli uomini da ogni specie di schiavitù, di sosti­tuire una forma di legislazione dettata dal bene generale e stabilire la fraternità e la virtù, rispettabile fanatismo, il quale in Parigi dove aveva la sua sede ha fatto passare alle carceri della Bastiglia suc­cessivamente questi scrittori, che gli ha resi sospetti al governo e costretti alcuni a sottraersi in terre separate, e che non ha rispar­miato forse nemmeno un uomo alla violenza e dispotismo d’un ministro. Torniamo sulla strada maestra che è stata battuta dai saggi de’ secoli passati: le passioni, sin tanto che vi solleticano l’anima, sono eccellenti, la vivacità che v’ispirano, il moto che producono in voi vi abelliscono, vi raffinano il gusto e vi tolgono al letargo e alla noja; ma, s’elle vi scorticano, se vi pongono la febbre, altro partito non v’è che rintuzzarle colla frequente riflessione. Sono esse un liquore spiritoso: in poca dose rianima, in molta ubriaca e rende furioso. Un amore violento, una furiosa ambizione, una avarizia affan­nosa sicuramente rendono infelice il cuore che invadono, ci assorbi­scono tutta l’anima, ce la rendono distratta a tutti gli oggetti piace­voli che ci si presentano alla giornata, ci pongono davanti gli occhi un bene che ci abaglia e grandeggia, e quanto corriamo più, tanto più ci si allontana. Esaminiamone più da vicino la verità.

Cominciamo dall’amore, io vi parlo di cosa che non mi è straniera, e vi faccio la descrizione d’un paese che ho viaggiato molto. Primieramente, l’amore nasce sempre dalla persuasione in cui si è di aver reso sensibile il cuore dell’altro, e sicuramente dapprincipio uno de’ due s’inganna. Se ingenuamente due amanti si abbandonassero l’uno al libero piacere dell’altro, sarebbe assai breve il perio­do, e la sazietà colla indiferenza verrebbero poche settimane dietro il primo trasporto amoroso. In fatti i popoli agresti e non ancora inciviliti quasi non conoscono che la parte fisica dell’amore, come la natura la cerca per la riproduzione di nuovi esseri, e gli animali pure così fanno. Nasce fra di noi la passione durevole dell’amore dalle difficoltà e dai contrasti; in fatti nessun romanzo nemmeno ti fila questa dolce e funesta passione, se non frammischiandovi lontanan­ze de’ due amanti, parenti che s’oppongono ai loro desiderj, acci­denti che sempre li scostano dal fine a cui anelano, e gli amori di due maritati, che pacatamente convivono, sarebbero i più freddi e insi­pidi amori del mondo, che nemmeno alcun poeta ha osato mai di porli sulla scena per toccare il cuore degli spettatori. Questo è tanto vero che le donne astute, le quali hanno saputo più lungamente tenere in lena i loro amanti, sono quelle le quali sanno dar loro spe­ranze, poi toglierle, poi ridonarle con qualche condiscendenza, indi lasciar temere un cambiamento, per poi somministrare nuova esca a persuader d’amare, ed ammantandosi con un velo sempre volubil­mente variato nascondere il vero fondo del loro carattere, occultare i loro sentimenti, e far giuocare i vezzi della loro figura, le grazie del loro spirito sempre artificiosamente con una apparente ingenuità capricciosa. Le donne conseguentemente le più amate sono quelle che amano meno e meno meritano di esserlo. Se dunque si tratta di provar noi la passione dell’amore, questo significa, o gettarci in braccio a un mare di angoscie, di avenimenti, ovvero fidare la nostra pace nelle mani d’uno scaltro conoscitore del cuore che astutamen­te vi signoreggi. Cattivo contratto, e sotto di un aspetto e sotto dell’altro. Cattivo per noi uomini, per una donna poi pessimo, perché il mondo è tanto ingiusto che perdona agli uomini nella loro gio­ventù le pazzie d’amore, e copre una donna di una macchia che non se le toglie più, sia perchè negli uomini singolarmente si cerchi il talento e la mente per gli affari, e nelle donne la passiva ritenutezza per prima dote, sia perchè la parte degli uomini sia quella dell’at­tacco e la femminina quella della difesa, siccome lo è anche ne’ bruti, onde il vincere non sia biasimo all’uno e sia all’altra scorno l’abbandonarsi totalmente. Io non ho conosciuta colla mia sperienza una donna sola la quale abbia fatta la sua felicità coll’amore, e, in quel tempo medesimo in cui gl’interessi del di lei cuore andavano più prosperamente, si poteva con verità asserire che assai più felice sarebbe stata se fosse stata libera dalla passione. La maggior parte degli uomini s’accosta a una bella donna, loda ed esalta la leggiadria che le spira intorno, tutto adulano, sono sommessi, ossequiosi, pre­vengono i desiderj vostri per ambizione di piacervi: nel cuore della maggior parte questo non è che un costume, se niente niente vi fidate, temete che la vanità di avere fatto breccia li porterà a vantar­si e divulgare e quello che avrete detto e dippiù quello che avrebbe­ro voluto che diceste; una sorda diceria sola basta a macchiare il concetto della vostra virtù; fra tanti vi sarà taluno più riservato, più buono, sarà capace di essere onesto uomo anche in amore: temete di più quest’uomo, egli può accendervi la passione funesta, e poi, quando veramente l’amereste, quando liberamente signoreggiasse il vostro cuore, lo stesso possederlo lo renderà annojato, rimarrà ei medesimo stupito d’essere come ozioso, il bisogno di liberarsi dal tedio lo farà correre dietro un nuovo oggetto, e sarà ei medesimo maravigliato, pochi mesi dopo che con buona fede vi giurava un

amore interminabile, di essere annojato di voi. Un bene che è nostro, regola generale, non ci piace mai tanto quanto un bene che cerchiamo di acquistare, e il lungo possedere cagiona l’indifferenza. Cosa farà adunque una giovane accorta e di spirito? Dovrà ella esse­re un marmo, un ferro insensibile alla più umana passione, all’amore, alla delizia dei cuori ben fatti? Io vi rispondo che è impossibile il non avere un genio, una benevolenza, una inclinazione, ed è impos­sibile il risguardare colla stessa indifferenza un oggetto nojoso e comune ed un oggetto amabile, ma però è possibile il vegliare sopra di noi, il mettere buon ordine perchè la nostra casa non avvampi e si consumi. Considerate l’importanza somma della opinione pubbli­ca, la fallacia che è la base di questa passione, il fine del tedio a cui si va incontro, quando pur riesca bene e che non vi prevenga l’a­mante coll’abbandono, l’illusione del poco di reale che vi è nelle figurate delizie, e tenete la passione ne’ limiti tutto al più d’un leg­giero movimento, preservandovi o colla distrazione su di altri ogget­ti, o colla piacevole occupazione delle belle arti, ovvero colla lonta­nanza. Ma siate bene attenta sopra di voi medesima, e sviate il fiumicello prima che, ingrossando le acque, non vi strascini al segno che inutilmente cerchereste il soccorso della ragione.

Per questo motivo, come per molti altri ancora, Teresina mia, cominciate di buon ora a eccitare in voi medesima il gusto della occupazione: la sfacendata oziosità lascia un bisogno perenne di un oggetto che ci giunga ad occupare, e la donna si getta sconsigliata­mente fralle braccia dell’amore per lo più per la noja di non avere nient’altro che fare. La musica occupa molte ore della vita, il dise­gno egualmente, l’abitudine di esaminare gli oggetti e di cercare di conoscerli vi può portare al genio dei fiori, delle erbe, al gusto dei mobili e addobi, alle curiosità naturali, al conoscimento di quel poco che si è scoperto nella fisica, e così genialmente impiegare le ore del giorno. L’abituazione alla lettura sopra di ogni altro eserci­zio è il più salutare e dolce ristoro della vita. Se io avrò vita bastan­temente lunga per essere il vostro amico sin che abbiate venti anni, quello che scrivo sarà buono unicamente a provarvi la mia amicizia, che aveva quando appena v’accorgevate di essere al mondo; ma, se la legge universale degli esseri mi avrà troncati gli anni prima che voi pensiate da voi medesima, sin d’ora mi è un pensiero tenero e consolante quello di sperare che i miei consigli, che scrivo per voi, possano incamminarvi alla felicità che vi desidero. Una donna occu­pata colle proprie idee, abituata a riflettere prima di operare, ad esaminare prima di credere, non sarà facilmente la vittima d’una galanteria. I libri sono la più cara compagnia e la più istruttiva. Io approvo che voi leggiate sterminatamente tutte le commedie e tutte le tragedie possibili: sono queste una dilettevolissima occupazione, vi conducono a sviluppare insensibilmente in voi medesima i pene­trali del vostro cuore e dell’altrui, vi insegnano il più nobile e decen­te modo di conversare, vi sviluppano sentimenti nobili e generosi, e sono una eccellente lezione di morale pratica. Anche i romanzi scrit­ti con decenza e con grazia gli approvo, escludo soltanto i troppo libertini, i quali, se avete l’anima delicata, vi stomacano e, se disgra­ziatamente l’aveste poco ferma, vi prostituiscono alla disolutezza. La favola, la storia sono ottime cose da esaminare, i ventagli stessi talo­ra rappresentano o una azione della mitologia o della storia, i qua­dri nelle gallerie trattano questi argomenti, ed è cosa meschina per una donna che si voglia credere colta e gentile l’avere sotto gli occhi e nelle mani questi oggetti e non conoscerli. Per lo dippiù, poi io non vi stimolerei molto a diventare veramente dotta e scienziata, ma, se il genio vi spignesse, vi presenterei tutt’i mezzi per riuscirvi e tutto il coraggio vi darei. Credo però che nè voi nè alcuno de’ miei figli, se io vivo lungamente, passeranno mai la semplice coltura, e non sarete sommi in nessuna scienza o arte, e la ragione si è perchè io credo che non vi sia che la sola infelicità e miseria che possa spignere ad affrontare le fatiche e a costantemente sostenerle, e senza questo sforzo continuato non si esce mai dalla mediocrità. Vi vuole la deri­sione, il disprezzo, l’insulto, la dimenticanza de’ nostri prossimi parenti, per forzarci a correre il sentiero e farci arrampicare sulla scoscesa montagna. Tutti gli uomini che ho esaminati hanno fatto qualche progresso colle persecuzioni e traversie. Ora, siccome io non voglio che siate mai infelice, anzi, cominciando dal giorno in cui siete nata, voglio che godiate di tutt’i beni possibili, così dico che e voi e gli altri fratelli e sorelle vostre non potranno mai essere sommi perchè manca la cagione. È meglio essere un uomo felice che un grand’uomo. Una donna poi, se oltrepassa i limiti della semplice col­tura, difficilmente troverebbe un marito, perchè l’uomo è umiliato se la moglie ne sa più di lui. È però vero che, se anche non vi mari­taste, se io vivo, farò in maniera che mai non vi possa mancare di che vivere libera e comoda. Ma l’abitudine alla lettura coltivatela, cara Teresina, e fatevene un bisogno. Il tempo degli amori è dodici anni della vita, cioè dai 18 ai 30, chi lo continua al dippiù lo fa con trop­pa umiliazione; ma allo scomparire dei vezzi, allo sfiorarsi della fre­schezza della prima gioventù, la donna diventa una infelicissima creatura, se da buon ora non ha prevenuto il momento. Lo specchio, che vi diceva tante cose lusinghiere, vi presenta una figura che va deperendo, gli uomini diventano freddi e indifferenti, tutto diventa abbandono e solitudine per una povera donna leggiera che non ebbe altra occupazione che l’addescare colla incantatrice sua giovi­nezza: la donna accorta, abituata a molte geniali occupazioni, sente molto meno gl’insulti degli anni. Io posso dire d’avere veduto un caso atroce su questo proposito: la Sig.ra Luisa Grianti, giovine ricca e bella aveva una schiera di adoratori, i quali col passare de’ primi anni svanirono; ella erasi ritirata a Modena, e per avere una occupa­zione ottenne d’essere ammessa a quella Corte e diventare Dama, ma le finanze sue erano troppo sbilanciate, dovette ritornare a Mi­lano, mancando di adoratori, non avendo mezzo di brillare col­l’Araldico, inquieta, annojata, passò a Pisa, dove, abbandonata dalla gioventù e dalle passioni, priva della risorsa di saper vivere con se medesima, annojata dalla situazione presente, disperando di un mi­gliore avenire, si gettò dalla finestra e sopravisse qualche ora di infe­licissima vita. Io l’ho trattata, era donna buona ma leggiera. Cara Teresina, cominciamo di buon ora a mobigliare bene la interna nostra ritirata, avveziamoci a meditare, a delirare, a leggere, a suonare, a disegnare, a vivere delle ore soli e senza bisogno di amori o di corti­giani: chi sa vivere con se medesimo non perde mai la buona com­pagnia.

Ma, per vivere bene con voi medesima, conviene che abbiate la coscienza tranquilla. La dissipazione è necessaria a chi sente i spa­venti e le larve nella solitudine. Io non vi scriverò un lungo trattato di teologia, e unicamente vi accennerò alcuni principj chiari ed evi­denti, i quali esaminati potranno, liberandovi della superstizione inventata dalla debolezza e dalla malizia di alcuni, consolarvi colla religione emanata dalla Divinità. Volete vedere Dio? Mirate l’im­mensa volta del cielo, una bella notte stellata, e prendete qualche notizia di astronomia. Volete veder Dio? Prendete un microscopio e rimirate i minimi insetti. Volete veder Dio? Riflettete al dolce sen­timento di consolazione che provate praticando la virtù, e al ribrez­zo che provate pel vizio. Tutto vi annunzia l’immenso, il sapientissi­mo, l’ottimo autore della natura. Dio è giusto, è grande, è buono. Chiunque cercasse di farvi credere che Dio comandi azioni ingiuste, che esigga delle puerili e meschine pratiche, che ami la miseria altrui, le altrui angosce, è un indegno di parlare di Dio. Dio ha rive­lata la religione, non dobbiamo mai presumere d’intendere i misterii, ma dobbiamo esaminare se gli abbia egli rivelati. Chiunque vi dice: «adora Dio e credi alla eterna verità», sebbene non comprenda, dice bene. Chiunque vi dice: «ti minaccio le pene più atroci, se ardisci esaminare se Dio abbia rivelato quello che io dico», è un impostore. Chiunque vi dice: «siate modesta, perdonate, compatite, frenate la collera e la impazienza, beneficate, amate le creature del nostro padre comune Dio, e onoratelo colla pratica della virtù», parla il linguaggio della verità. Chi principalmente vi esorta a prati­che esterne, che terminano ad arricchire i celibatarj o a dar loro credito dimenticando la virtù, è un ipocrita. La religione innalza l’uo­mo e l’accosta all’Essere Eterno; la superstizione degrada l’Essere Eterno, lo deforma, lo impiccolisce, e attribuisce alla somma bontà i vizi d’un tiranno atroce e bisbetico, alla somma Sapienza gli errori volgari. Chi vi dice: «adora Dio, ammira le opere della sua mano, riconosciti sua creatura, sacrifica l’olocausto delle passioni malvagge, la collera, la vendetta, la invidia, l’orgoglio; pratica la bene­ficenza, sia giusta, fedele, compassionevole, e abbandonati con piena fiducia nelle braccia del Sommo Padre Dio», chi vi parla così, vi annunzia la religione. Chi cerca di avvilire l’animo vostro, di proccurare direttamente o indirettamente il vostro denaro, e consigliarvi delle divozioni in vece della virtù, vi annunzia la superstizione. La religione tende a perfezionarci e la superstizione a renderci imbecilli o fanatici. Fidatevi di quel Ministro che non mostra zelo maggio­re per diriggere l’uomo nobile e ricco di quello che adoperi col plebeo e col povero: il vero Spirito della Chiesa considera per egualmente prezioso ogni uomo alla Divinità. Con questi assiomi fecon­dissimi, Teresina mia, scioglierete ogni problema e vi preserverete da ogni seduzione. Siate buona e confidate placidamente, e, se per debolezza vi accada di travviare, espiate il peccato con azioni virtuose non mai con esterni rituali. Queste massime servano a voi, ma non siano mai il soggetto de’ vostri discorsi; la religione è un affare seriissimo, e non conviene che sia il soggetto della conversazione. Gli uomini comunemente tremano di ragionare su di quest’argo­mento, e fra mille potete far conto che novecento novanta non l’han­no esaminato e sono imbecilli o fanatici, e fra i dieci che rimangono, che ne potrebbero ragionare, vi sono degli impostori che profittano degli errori pubblici: perciò ragionando sicuramente si acquista il discredito e l’animosità pubblica, si ottengono gl’ingiuriosi nomi di ateo, d’eretico, d’incredulo, e di cattivo carattere. Quantunque pura fosse la vostra religione, se mostrerete di disapprovare il super­stizioso abuso che ne fanno gl’interessati, siate certa che avrete la taccia di irreligiosa. Non vi mettete in mente di correggere i pazzi nella loro pazzia, lasciate che ciascuno regoli fra sè e Dio la religione propria, siate tolerante, e non mostrate disprezzo delle opinioni popolarmente ricevute: Cicerone era Augure, e non derideva gli Augurj se non ne’ scritti; conformatevi alle esteriori pratiche anche in ciò come ne’ vestiti, senza esagerare e senza mancare, ma i sentimenti non seguono le mode, e la ragione sola li fa nascere nelle persone che operano per principj. Guardatevi da coloro che facilmente motteggiano sulla religione, perchè sicuramente o sono vani e leggeri o talvolta malvaggi. Generalmente, chi si fa un pregio d’insultare la pubblica volgare opinione, non ha maggior ritegno ne’ suoi discorsi nel parlare di una dama, anzi, cercando quel frizzante che lo distingua nelle compagnie, naturalmente coglierà la parte più maligna per iscoprire il lato debole d’una donna e smascherare la condotta di lei e fors’anco calunniarla. Un uomo senza religione mi è sospetto, perchè, non temendo egli il giudice scrutatore de’ cuori, non può avere altro limite per far male, tosto che ne rivenga a lui utile senza pericolo, se non una pregiudicata opinione dalla quale finalmente si scioglie. Io ho conosciuto uno di questi pretesi filosofi, che buonamente voleva che l’ajutassi a preparare il veleno al suo albergatore generoso, che l’aveva cavato dalla miseria e non aveva altro demerito che quello d’essere un signore ricco, morto il quale la moglie innamorata del filosofo avrebbe acquistato con che arricchirlo. Io era nel fiore di mia gioventù, non ho avuto parte alla trama, e probabilmente per ciò il colpo non si eseguì; ma arrossisco di me medesimo, ricordandomi d’essere stato giudicato opportuno per una complicità tale. Imparate a diffidarvi e della ipocrisia e della irreligione, e accostatevi alla adorazione d’un Dio consolatore colla virtù consolatrice della umanità. Della religione non ne parlate mai, e, se in presenza vostra se ne discorre, lasciate colla distrazione che s’accorgano che questo non è argomento sul quale amiate di parlare.

Voi avrete un marito, de’ parenti e de’ figli: questi sono esseri che non sono punto indifferenti alla vostra felicità, possono accrescerla e possono rovinarla, e perciò conviene fissare i principj della vostra condotta relativamente a loro. Cominciamo dal marito. La scelta di un marito è il principalissimo oggetto, e, se v’è momento della vita in cui abbiate bisogno di tutto il soccorso della ragione, egli è quel­lo in cui vi determinate a legarvi con nodo indissolubile ad un uomo dalla volontà di cui deve dipendere il vostro bene o mal essere. Conseguenza di ciò, è importantissima cosa che non siate appassionata e che la determinazione sia fatta a sangue freddo. Fate ogni sforzo e usate ogni possibile industria per non innamorarvi prima di sceglierlo. Se la voluttà e le sole sperate delizie del letto vi guidano all’altare, Teresina mia, siete sedotta da una chimera. Quando i pia­ceri fisici sono il principal fine a cui miriate colle nozze, vi annunzio che poco dopo colle abituazioni svaporeranno e non troverete mag­giore voluttà a toccare vostro marito di quello che proviate a toccare voi stessa. Ma quando la conosciuta conformità di genio, la dol­cezza del costume, la probità de’ sentimenti, la benevolenza che un giovine ha per voi, tranquillamente vi persuadono che avrete in quello un amico, un compagno amoroso, un consolatore, un discre­to confidente, e un amante, e che la cara prospettiva di una dolce, pacifica, e felice unione vi presenta un beato avenire, allora la volut­tà viene animata dal sentimento, la gratitudine, la voglia di rendere beato l’amico del vostro cuore, il desiderio di piacergli, sempre più la rendono stabile e saporita. Così vissi io colla mia Maria, vostra buona madre, e al quinto anno l’amava più che al quarto, a questi più che al terzo, e il momento in cui fui più indifferente fu quello in cui mi fidai di me medesimo e mi abbandonai alle ragioni che mi consigliarono d’unirmi a lei. Temete di voi stessa e d’una scelta rovi­nosa, se avete una passione, e credetemi che sarebbe un paradosso apparente ma una sensatissima ragione quella d’una donna che, confidandosi a una amica, dicesse: «sposerei il tale, se non ne fossi innamorata». Per conoscere il carattere dello sposo, non vi accon­tentate di quello che vedete voi, è naturale che in faccia ad una gio­vine amabile si facciano anche de’ sforzi per comparire amabile. Il carattere si manifesta singolarmente colle persone che dipendono da noi, perchè con quelle ci abbandoniamo alla naturale inclinazione, laddove co’ nostri uguali e più co’ maggiori forza è contenerci. Un uomo orgoglioso co’ suoi inferiori può essere quanto voglia officioso nella conversazione, l’officiosità è una vernice, il fondo è dispotismo e orgoglio, la di lui moglie sarà una schiava. Un uomo austero, indiscreto colle persone che dipendono da lui, può essere galante e rispettoso nella società, ma, fatta che siate sua moglie, sarete la vitti­ma. Un uomo umano co’ domestici, benefico, discreto, quand’anche fosse poco officioso, o distratto nella compagnia, sarà umano, be­nefico, discreto, anche colla moglie. Badate che non abbia vizio di giuoco, rarissime volte si corregge una tal inclinazione rovinosa. Se un giovine avrà amato altri oggetti, è meglio, perchè saprete cosa aspettarvene, s’egli è stato costante e di buona fede, avete ragione di promettervene altrettanto; ma, se, volubile e correndo in traccia della novità, ha tradite le passioni ed ha cercato la libidine piuttosto che l’amore, diffidatevene. Le qualità d’uno sposo che possono rendervi felice sono quelle dell’animo, cuore sensibile, morale onesta, grazia e ingegno. Se voi non poteste stimare il vostro sposo, sareste infelice; un bellissimo stupido, un bellissimo malonestuomo vi ren­derebbero insopportabile il giogo del matrimonio, ma conviene altresì che una bell’anima sia collocata in una figura non dispia­cevole. Badate anche all’indole della famiglia, l’origine influisce sul naturale de’ cavalli, de’ cani, e degli uomini: la regola ha delle ecce­zioni, ed io sono interessato a sostenerlo, ma in generale è cosa degna di riguardo. Da una onesta famiglia, ove si viva con amorevole concordia, per lo più esce un giovine buono; può egli riuscir tale anche da una famiglia del tutto opposta, qualora, tormentato sino da’ primi anni dai vizj e stomacato dagl’inconvenienti di essi, si animi d’odio contro del vizio istesso e abbracci la consolatrice virtù. Un discreto patrimonio ognuno sa che è una condizione essenziale. Una famiglia non molto numerosa e formata da persone discrete è pure un bene da valutarsi. Anche i natali simili ai vostri sono da con­siderarsi. Però, se dovete uscire dalla sfera vostra, il che non è bene, sarà minor pericolo il maritarvi scendendo, che innalzandovi: è migliore la condizione di chi ha fatto un beneficio di chi l’ha otte­nuto. Sopra tutto, cara Teresa, scegliete senza la seduzione d’amore, preferite i sentimenti alla figura e il corso della vita alle prime notti. Questo è in compendio il poco che so dirvi intorno alla scelta. Ora vi accennerò quello che ho pensato intorno al modo di vivere bene col marito.

Per vivere bene col marito bisogna comparire amabile agli occhi di lui. Dopo i primi sfoghi dell’amore, saziato, una donna per bella e giovine ch’ella sia, s’ella è trascurata e se sconsigliatamente si sarà abbandonata senza ritegno, avrà perduto per sempre le attrattive e i vantaggi ch’ella aveva. Conviene che il pudor verginale sempre vi accompagni e che le caste condiscendenze che avrete collo sposo non sieno mai nè umilianti per lui per una insultante freddezza, nè una prostituzione sfacciata, ma sieno condite dalla modestia, anima­te piuttosto dalla sensibilità del cuore che dal fisico bisogno, e in somma lo sposo trovi in voi quasi il contrasto fra la natura animale e la pudicizia, cosicchè l’una godrebbe delle carezze, se la seconda non vegliasse a porvi limite e freno. Non permettete mai che lo sposo possa illimitatamente stendere le mani sul vostro corpo, e che gli sguardi suoi sfacciatamente esaminino ogni ripostiglio amoroso: un velo, cara Teresina, una nebbia conviene che vi circondi, se no l’oggetto pienamente conosciuto annoja alla fine, statene certa. Delle moderate ripulse conviene usarne e per rendere più saporita la condiscendenza e per conservare sano e vegeto il marito. Talvolta l’uomo ha piacere di essere sconsigliato da troppo frequenti intrapprese ch’egli provoca per non essere creduto indifferente e nel grazioso rifiuto riconosce l’amor vero della sua sposa che antepone la sanità del marito al piacere proprio. Ma le ripulse, le difficoltà, sieno giudiziose, amorevoli, e non mai lascino luogo al mortificante sentimento della vostra indiferenza. Il momento medesimo della voluttà sia pudico e virtuoso e porti seco il sacro carattere d’una azione protetta dal Cielo e dalle Leggi. In questa guisa, lasciando sempre desiderare qualche cosa di più, e di potere col tempo vince­re il ritegno vostro, il marito rimarrà sempre pronto ad animarsi e vi considererà più come amante che come svogliato marito. Noi uomi­ni siamo fatti così, che sconsigliatamente cerchiamo di possedere la donna senza limite, e vorremmo vederla nelle nostre braccia abban­donata al furore di Venere, ma, se ciò ottenghiamo, ben tosto diventiamo di ghiaccio per l’incauta che si è prostituita. A questo conte­gno conviene con somma accuratezza accopiare la mondezza del vostro corpo, al che non potete avere mai troppa attenzione: lavate­vi, e singolarmente con maggiore attenzione le parti che, per essere più soggette a imbrattarsi e rendere odore disgustoso, maggiormen­te lo richieggono, cambiate sovente i lini che toccano le carni, tene­te monda la bocca e i denti, acciocchè il vostro fiato sia piacevole, in una parola abbiate cura che niente sia nella vostra persona di stomachevole e nemmeno di trascurato. Non vi lasciate veder mai a soddisfare i bisogni di natura, nè mai vi accostate al marito quando si trova in tal caso: questo reciproco riguardo contribuisce a conservare un felice rispetto fra i conjugi; torno a ripeterlo, un oggetto conosciuto perfettamente annoja o per lo meno diventa indifferen­te. In caso però di malattia, questi riguardi cessano e dovete pensare unicamente a difendere, soccorrere, e sollevare il vostro sposo, poichè, beneficando voi con tai servigj il marito, vi affezionerete sempre più a lui, essendo il cuore fatto in guisa che amiamo tanto più chi abbiamo beneficato, quanto più abbiamo speranza di tro­varli grati, e questo nuovo legame vi stringerà più a lui di quello che potrebbe allontanarvene la immondezza di lui accidentale. Terminata poi che sia la cagione, ripigliate il decente contegno abitua­le, e ve ne troverete contenta. Ciò è quanto ho pensato e sperimen­tato io per la felicità conjugale, riflettendo alle sole relazioni fisiche. Ora dirovvi quello che ne ho pensato per le relazioni morali.

Un amante si tiene in lena colla grazia e colla volubilità del capriccio, ma un marito, pacifico posessore, non si conserva se non colla amicizia e colle piacevoli virtù. Ogni uomo ha le proprie inclinazioni, chi alla musica, chi allo spettacolo, chi alla poesia, chi ai cavalli, alla caccia, alla economia ec.: variata è la scena, ma ciascuno di noi ha il suo genio; se la moglie si mostra affatto indifferente alla nostra passione, ella naturalmente si scosta da noi e ci riesce meno cara. La moglie accorta si studia di informarsi in quella materia, e si presta con attenzione e interessamento a quell’oggetto o ai discorsi che ne derivano e questa strada conduce alla confidenza, alla società del cuore, la quale nasce da molta uniformità e dal vicendevole interes­samento per quello che interessa il nostro amico. In questo però conviene che stiate cauta a non dare negli eccessi, come una signo­ra che ho conosciuto io, che, per secondare la passione del marito pe’ cavalli, andava colle sue illustrissime mani nella stalla a prende­re il tridente e adattare la paglia per coricarvi i cavalli. Queste vili prostituzioni stomacano e fanno demeritare la stima; la vostra atten­zione anche per le debolezze dello sposo debb’essere una nobile compiacenza dettata dalla amicizia non una adulatrice abjezione. Nella società coniugale conviene saper fare di buona grazia de’ sacrifici, e mostrarvi serena in qualche compagnia che vi annoi, e rimanere in villa o in città con buona grazia, anche senza voglia, e così adattarsi al sistema del marito e della casa sempre nobilmente e sempre senza viltà. Le cose assolutamente indecenti sono le sole che una moglie saggia può e deve ricusare, nel rimanente ella avrà somma cura di adattarsi al genio del marito. Il vostro sposo avrà de’ difetti, come ogni altro uomo, e voi dovete prudentemente operare in modo da correggerli o almeno da moderarne le cattive conse­guenze; ma questo conviene che si faccia con somma arte e delica­tezza; i vizi nostri non bisogna mai combatterli di fronte, ma acquistar tempo e terreno con disinvoltura. Per esempio, il vostro sposo spende incautamente, mosso da momentanei capricci, e poco dopo si annoja della cosa comprata; se nell’accesso del capriccio gli con­tradite, attizzate sempre più la sua voglia, mostrate un animo sospetto di dominarlo, e diventa diffidente; non vi opponete, cercate un pretesto per diferire, non mancano mai almeno quelli di cercare se altrove a minor prezzo si possa avere lo stesso, ovvero miglior cosa, ovvero se possa prepararsi meglio altrimenti un lavoro; lascia­te che il tempo ammorzi il momentaneo impeto, e quasi da sè sva­nirà la voglia, e vi ringrazierà poi d’avere risparmiato uno sproposito. Lo stesso dico dell’ira e di ogni altra impetuosa voglia, non vi opponete, scansate, ottenete tempo, e otterrete la calma. Conviene studiare il carattere di vostro marito e conoscere i momenti oppor­tuni per parlargli di interessi o di cose nojose, e farlo con buona maniera. Guardatevi sopra tutto di non lasciar travedere mai che vostro marito vi rechi nausea o ribrezzo, una parola sola indiscreta su quest’articolo potrebbe farvi perdere per sempre il cuore di lui e farlo rivolgere a cercare la voluttà fuori dalle vostre braccia. Cercate sopra tutto la stima del vostro sposo, e questa non l’otterrete se non colla pratica costante della virtù; rendetevi sempre buona, umana, amorevole co’ domestici, ma con nobile decoro, siate sempre misu­rata ne’ vostri discorsi, frenando la maldicenza e risparmiando l’al­trui reputazione, siate gelosa custode di un secreto fedelmente riser­vato, siate impegnata ne’ vantaggi del marito e della sua casa, e otterrete la stima di lui sicuramente. Non gli diate mai motivo di sospettarvi, non che infedele, nemmeno sventata: questo è il punto in cui una moglie diventa una schiava e si degrada senza rimedio; e, se mai per miseria vostra lo sposo sedotto dalla novità di altro ogget­to vi diventasse infedele, Teresina mia, in quel punto vi voglio una eroina, e, se non lo diventate, siete perduta; voglio che prendiate tal impero di voi stessa da non mostrarvi mai con anima nata istrutta del torto che vi si fa, che non permettiate mai a veruno di parlarvene, e sempre difendiate la condotta di vostro marito come se fosse innocente: questa maschia virtù opererà in modo che al primo rafreddamento del capriccio di lui mirerà con ribrezzo la donna che ha potuto far torto a una moglie virtuosa, e verrà ai piedi vostri ad espiare col pentimento e con amore il rammarico che vi avrà cagio­nato. Le gelosie, le guerre delle mogli non fanno che eternare i travviamenti de’ mariti. Rapporto al vostro animo, voi dovete operare col marito col metodo medesimo che vi ho indicato pel vostro corpo, cioè sempre qualche angolo de’ vostri sentimenti rimanga adombrato e oscuro, perchè, siccome ho detto, un oggetto cono­sciuto perfettamente si pregia meno, per bello ch’ei sia, di un ogget­to buono e bello ma in parte velato. Di vostro marito parlatene sempre con amicizia e con rispetto, e sopra tutto tenete per certo che la prima ingiuria che succeda fra conjugati rompe senza rimedio la confidenza e l’amore. Uno sdegno, una vivacità, un trasporto mo­mentaneo, si perdonano, sono un inconveniente inseparabile dalla nostra organizazione, ma un freddo disprezzo, un odio tranquillo, una vera ingiuria, rompe irreparabilmente l’amicizia. Non diate mai occasione al vostro sposo di essere geloso, e su di questo punto stu­diatelo bene, perchè talvolta l’uomo ben educato e sensibile, per non mostrarsi indiscreto o tiranno, soffre disimulando, il che poi lo conduce a cercare altrove quell’amore che non crede di trovare nella sposa, ovvero, dopo lunga pazienza, a uno scoppio tanto più violen­to quanto per più lungo tempo si va formando la materia che lo cagiona; badate minutamente, Teresina mia, a come vostro marito accolga le persone che vengono da voi, e con quai termini parli di esse quando siete soli, e qual fisonomia faccia vedendovele intorno, e prendete norma da questo, senza aspettare una formale dichiara­zione, risparmiando la quale anzi prevenendola, libererete lo sposo di un grave peso, e voi stessa sottrarrete da un atto di dominazione, da donna buona e prudente che adempie a’ suoi doveri senza biso­gno che se le ricordino. Siate sinceramente fedele, e nella somma de’ piaceri ne godrete incomparabilmente più che non fareste ponen­dovi sulla infida, falsa, e affannosissima strada della galanteria, di che vi ho già scritto trattando dell’amore. Se v’è pace, bene, e volut­tà pura, cara Teresina, sta fralle care braccia della virtù.

La virtù debb’essere la base della vostra politica nella famiglia; non mai terrete proposito alcuno che possa accendere la disensione, non mai ridirete alcuna cosa udita, nè racconterete cosa alcuna veduta, che possa animare la discordia domestica; siate l’Angelo della pace di casa, conciliate gli animi, fomentate la benevolenza, animate quel comune accordo, quella riunione, a cui sola le famiglie debbono la pace e la prosperità, e godrete della stima di tutti, e godrete la pace istessa e la prosperità che contribuite a conservare. Che, se i caratteri de’ parenti sieno tanto stupidi o prevaricati che la conciliazione fosse impossibile, e che, immeritevoli di stima, fossero incapaci di sentirla, allora almeno concentratevi a non servire mai di mezzo ad accrescere il male: le cancrene innoltrate non sono più sensibili nè capaci di guarigione; ma è difficile che voi, illuminata, diventiate membro d’una famiglia corrotta a questo segno, a meno che il merito dello sposo non fosse un compenso. Vi vuole co’ parenti tanta maggiore cerimonia quanto meno meritano sentimen­to, e questo è il partito col quale terrete in riserva i vizi loro, non dandogli mai confidenza o dimestichezza tale, onde osino di liberamente palesarveli. I salariati difficilmente hanno affetto sincero per i padroni; l’orgoglio è comune ad ognuno, e anche la plebe sente che siamo fratelli e sorelle, e la condizione di servire è umiliante; per quanto sia buono il padrone, è sempre vero che un domestico continuamente deve sacrificare il proprio bene per lui. Caldo, freddo, pioggia, neve, sonno, fame, stanchezza, sono mali che soffre chi serve, e ciò per un miserabile salario che lo conduce alla vecchiezza a mendicare. Non è dunque sperabile che questa classe d’uomini sia amica della classe di altri uomini per cui vive male. Tenete per certo che amicizia non ne hanno nè possono averne, onde misuratevi. Siate discreta, siate umana, non amareggiate la loro condizione, assi­steteli nelle loro malattie, soccorreteli; ma siate misurata, perchè troppa dimestichezza e troppa liberalità, in vece di conciliarveli, li renderebbe insolenti e insopportabili. Singolarmente colle camerie­re badate a questo, e, se volete conservarle buone, siate benefica con misura, discreta ma non confidente e sempre nobilmente Signora. Co’ figli ascoltate i dettami del vostro cuore. Leggete gli autori che trattano della educazione fisica e morale: abbiamo degli ottimi libri che vi proveranno quanto opportuna e umana cosa sia che la madre allatti i figli, quanto dannoso sia e crudele l’uso delle fascie, e tutte le attenzioni che debbonsi adoperare per conservarli. La prodigiosa mortalità de’ bambini, che per metà mojono prima d’avere compiuto l’anno: mortalità, che non si vede nelle razze degli animali, prova che i metodi comunemente usati sono pessimi; quindi, in vece di fare autorità, l’uso comune è anzi un indizio di quello che si deve piuttosto evitare. Su di questo proposito non ne parlate mai in conversazione, perchè le vostre massime sarebbero una satira indiretta de’ padri e delle madri che vi ascoltassero, e la minor vendetta che potessero fare contro di voi sarebbe il deridervi come una sputa sentenze, una filosofessa, o una stravagante. Non abbiate mai nè il ridicolo progetto di riformare le teste della moltitudine, nè l’altro non meno ridicolo progetto di giustificare voi medesima quando battete tracce diverse da quelle che segue chi vi ascolta. Seguite la verità, la ragione, il cuore, e non l’usanza, in un articolo così importante come è questo della vita de’ teneri vostri bambini; operate e non fate dissertazioni; e armatevi d’una ferma e maschia virtù, perchè il bene che farete loro, malgrado il vostro modesto silenzio, vi cagionerà de’ sarcasmi e delle punture se non degli ostacoli; ma bisogna avere un nobile coraggio e rendersi preparata a resistere agli urli dell’amor proprio altrui offeso. Io, sebbene uomo e deciso alcune volte, mi trovai disperato per la vostra educazione, solo contro le opinioni di tutti e singolarmente delle donne che vi avevano in cura. Non vi farò un trattato, vi consiglio a leggere chi ne ha scritto, e leggerne più d’uno, e vi dirò per regola generale che i vostri veri maestri debbono essere i stessi bambini: badate ai loro gemiti e astenetevi da qualunque cosa che li faccia piangere, satollate la loro fame, riparateli dal freddo, riparateli dal soffrire caldo, impedite la troppa luce, il soverchio rumore, vegliate perchè non soffrano, e siate certa che l’istinto della natura è quello che anima i bambini, e, se negli adulti le voglie artificiose portano ad apetire anche cose nocive, ne’ bambini ogni movimento è il risultato della semplice organizazione che tende a conservarsi. Subito che un bambino grida, cessate di operare sopra di lui, non lo violentate mai a tranguggiare medicamenti nauseosi; io non ho trovato di meglio quanto l’uso dell’Etiope minerale, se ne danno tanti grani quant’è l’età e talvolta si mescola col diagridio porzione eguale, all’età per esempio di cinque anni cinque grani dell’uno, altrettanto dell’altro, e questi dieci grani che non hanno sapo­re si confondono in un cucchiajo di zuppa e il bambino li prende senza accorgersene, e i vermi e le indigestioni vanno. Credo bene una volta al mese di fare questa purga, al momento cioè in cui osser­vate o debolezza, o pallore, o lingua sporca, o fiato cattivo al bam­bino. I contadini, che respirano l’aria libera e non prendono che cibi semplici, non hanno bisogno di arte medica per vegetar bene; ma nelle città colla vita rinchiusa, e con alimenti alterati, forza è ricorrere a un male per evitarne un altro. State attenta che non s’ac­costi ai vostri bambini alcuno che abbia commercio col vajuolo, e sopra tutto medici, chirurghi, barbieri sono persone sospette, e ciò sin tanto che non sia terminata la spunta de’ denti, perchè innestare prima di questo termine mi sembra pericoloso, acciocchè non cada, contemporaneamente alla eruzione del vaiuolo, quella talvolta vio­lenta di uno o più denti, e così la malattia artificiale non combini con altra e renda grave e forse funesta la providenza. Terminata la denzione, subito innestate, sia ciò però non mai ne’ massimi caldi, nè mai mentre il bambino sia valetudinario. Tenete i vostri bambini allegri, liberi, lasciate uno sviluppo facile alla natura, in nessuna parte sieno compressi o violentati, nè con busto, nè con legaccia, nè con precetti, divieti, penitenze, o correzioni; a ciò aggiugnete il moto, il cambiamento d’aria quanto più potete, la salubrità de’ cibi, brodi lisci, carni di pollo, erbaggi, farinacci, frutti ben maturi, e pane senza limite; evitate i dolci, le carni, le cose unte, salate, le salse forti, gli aromi. In somma, leggete il libro De l’éducation phisique des enfans, e l’altro Les enfans élevés selon l’ordre de la nature, leggete Locke, Rousseau, e formatevi un sistema che abbia per base la ragione, la sperienza, la umanità, senza badare punto alle volgari opinioni che portano alla tomba la metà de’ bambini, siccome dissi, prima di un anno, e lasciano in molti di que’ che superano il cimen­to degl’incomodi per tutta la vita; animali zoppi, gobbi, deformi sono rari più che gli uomini, frutto delle fascie non meno che della educazione. La illarità della mente, la libera giocondità del cuore, hanno somma influenza sullo stato nostro fisico: se questo lo pro­viamo noi, vegeti, robusti, e già solidamente organizati, non v’è dub­bio che anche più lo debba provare il bambino, il fanciullo gracile e delicato. Un bambino rattristato, impaurito, oppresso, digerisce male, e forma conseguentemente assai male la vegetazione. Non vi è peggio, quanto il volere correggere, insegnare, formare i fanciulli. Un misero bambino, che ascolta ricordi continui sul tuono della voce, sulla vivacità de’ suoi movimenti, sulla naturale disattenzione per il cerimoniale, sulla scelta delle sue parole, e sulle proprie azio­ni in generale, deve o avvilirsi e credersi incapace di far bene, ovve­ro deridere e insultare l’indiscreto censore. Nella prima età, tristo il bambino che compare un uomo prematuro: alla virilità sarà uno sto­lido, perchè, se i movimenti dell’animo di lui sono tanto placidi da sopportare una perpetua norma, scemato il primo impeto vegetale, rimarrà torpido e imbecille per mancanza di energia. Que’ sventurati bambini, che nella loro prima età sanno presentarsi composti, pronunziare un complimento, sedere decentemente e da creature ben educate in circolo, a me fanno tanta compassione quanta i cani d’un saltimbanco educati non pel bene di essi ma per quello dell’educante. Lasciate, Teresina mia, che i vostri bamboli vivano come vogliono, vadano per terra, corrano, e si rallegrino in ogni modo che non li esponga a pericolo essenziale, teneteli lontani dal cadere nel fuoco, al basso d’una scala, da una finestra, nel rimanente lasciateli liberi, non li contrariate: è men male che cadano e ricevano qualche contusione di quello che sia il conservarli coll’animo angustiato. Per la educazione morale poi in una parola vi dico tutto: siate buona e onesta co’ vostri bambini, abbiate la stessa probità con essi, come se fossero uomini, e con questo solo precetto avrete sbandita ogni soverchieria, ogni finzione, ogni prepotenza. Io ho fatto così con voi, e vi ho insegnata la morale col mio esempio. Rousseau non mi piace, perchè il suo piano è un inganno costante, e attornia il suo Emilio da molti avvenimenti artificiali: se il giovine si sveglia, conosce la soverchieria, si sdegna d’essere trattato da sciocco, detesta il precet­tore. Prima base, la esimia fede e probità nostra co’ nostri figli, non mai delusi o sorpresi, ma amati, compatiti, beneficati da noi. Nemmeno abbiate la smania di renderli colti e dotti anticipatamen­te: la pianta che produce frutti prematuri ha d’ordinario corta vita, e gli organi della mente si logorano usandone anzi tempo, non meno che quelli della generazione. Mio fratello Alessandro a venti anni sapeva leggere e scrivere senza ortografia e niente più. Due sono i punti cardinali, il rimanente importa poco. Proccurare che la mac­china vegeti sana, libera, e gioconda, questo è il punto primo. Proccurare che non germoglino nè falsità, nè simulazione, nè ven­detta, nè odio, nè prepotenza, nè malignità, nè ingiustizia, e questo è il secondo punto. A questi oggetti essenziali volgete ogni vostra cura; se avete mezzo d’insegnare le lingue ai bambini coll’uso, fare­te loro un beneficio, come io l’ho fatto a voi, e vegliate acciocchè i domestici o altre persone non vi guastino i figli. Se gli amerete, come sono certo, darete loro una buona educazione, e ne caverete poi in fine il premio d’essere una matrona onorata da’ vostri figli adulti, laddove le donnicciuole prepotenti e sciocche, per l’ambizione di comandare per alcuni anni ai teneri loro figli, in ricompensa ben meritata si trovano poi disprezzate come vecchie stordite. In verità è bene insensata e impertinente la pretensione d’alcuni parenti, che si lagnano perchè i loro figli non hanno per essi nè rispetto nè inte­ressamento! La maggior parte de’ figli nobili potrebbe dir loro: «a voi non debbo nessuna riconoscenza per la vita, poichè certamente voi non avevate, nè potevate avere, intenzione di fare alcun beneficio a me che non esisteva. Nato appena, mi avete staccato dal seno materno e confidato a poppe mercenarie, quasi sdegnaste di com­piere meco a questo dovere di natura. Mi avete lasciato gemere, miseramente legato dalle fascie che m’impedivano il moto necessa­rio ai muscoli, mi conservavano sporcamente inzuppato nelle fecce, che talvolta mi strozzavano la circolazione del sangue e la respirazione medesima. Poi, confidato sempre alla discrezione di donne mercenarie, mi teneste lontano da voi come una creatura nojosa e importuna; appena passati i primi anni mi esigliaste dalla casa, che abbandonai con amarissima desolazione, e venni trasportato a convivere sotto il dispotismo di alcuni frati, o di alcune monache. Ivi ho sofferto fame, sete, sonno, lassitudine, affanni, percosse; ivi la mia virilità è stata in pericolo di esaurirsi innanzi tempo per mille turpi­tudini; ivi i libri mi divennero tanto odiosi quanto il remo a un for­zato; la religione non mi si stampò in mente, se non accompagnata di spettri, di larve e di atrocissime superstizioni. Mi lasciaste langui­re sino a venti anni in quell’esiglio, non mi richiamaste alla famiglia, che per non potere voi stessi più lungamente tenermi lontano, e pre­tendete da me amore, riconoscenza, cordialità? Cosa mai avrebbe potuto farmi di peggio un nemico?». I vostri figli non diranno così, nè voi me lo direte mai, perchè la base nostra è la beneficenza, la ragione, il cuore, laddove comunemente di questa mercanzia non se ne conosce che il nome. Se sull’articolo della educazione dovessi scrivervi di più, sarebbe inutile quello che ne ho scritto. L’anima buona e illuminata sviluppa da se stessa i principj.

Finalmente qualche ricordo vi darò sul proposito dell’amicizia. Il mio cuore è stato più volte tradito in fatto d’amicizia. Ho provato che persone, che dovevano a me solo, al mio entusiasmo per bene­ficarli, tutto il loro stato, e che mi mostravano tutta la sensibilità, mi hanno voltate le spalle, tosto che hanno creduto del loro interesse di farlo. Teresina mia, questa che sono per dirvi è una crudele verità. Teresina mia, l’amicizia comunemente è una chimera. Una donna giovine o vecchia facilmente v’invidierà nel secreto del suo cuore, e un uomo che vi esibisce amicizia o cerca l’amore, o, se non lo cerca, correte rischio di legarvi con un essere insipido e incapace d’amici­zia. La imbecillità umana è grande più che non pare, le menti per lo più si voltano col soffio d’un vento, pochissimi hanno veri senti­menti proprj. Il miglior partito è quello d’usare cortesia e onestà a tutti ed amicizia non legarla con alcuno. Se in questi liberi e brevi documenti non ho scritto cose più interessanti, attribuitelo primie­ramente all’ingegno mio che non va più alto, secondariamente alla massima che mi sono proposto di scrivervi per utilità vostra non per mia gloria, e di scrivervi con quella amorosa ingenuità che non si può seguire qualora si stenda un libro da pubblicarsi, e se questo mio scritto contribuirà a rendervi cautamente felice e se vi sarà caro come un testimonio dell’affetto che ebbi per voi sino da vostri primi anni, io sono pienamente ricompensato del mio studio. Per renderlo più sopportabile dovrei ritoccarlo e farvelo trascrivere, ma forse vi sarà più caro avere il mio primo abozzo originale, come una memo­ria d’un vostro buon amico.

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NOTE

[1] Fu battezata nella chiesa di S. Eufemia trentasei giorni dopo della sua nascita cioè il giorno 27 Genn.o 1754 e levata al sacro fonte da Mons.r Primicerio Verri mio zio. Le furono dati i nomi Maria Giovanna Francesca Melchiora. Nacque Maria alle ore 18 del 22 Dicembre 1753 e in casa ebbe la sacramentale abluzione subito dopo nata.

[2] D. Ottavio Castiglioni morì di vaiuolo il giorno 3 Aprile 1760 (come trovo in una annotazione di mio Padre); la povera Maria aveva adunque sei anni e mezzo quando perdette il Padre. Mia sorella D. Teresa Castiglioni morì il giorno 16 Gennaro 1761, e perciò la povera Maria perdette anche la madre e rimase orfana compiuti appena i sette anni.

[3] Morì o in Dicembre 1771 ovvero in Gennaro del 1772.

[4] Questa abituale ragionevolezza, che le vietava di fabbricarsi i mali d’immagi­nazione e di assaporare e ingrandire gl’inevitabili, non la rese punto spensierata, che anzi nella economia domestica ella con avedutezza somma anticipava le providenze per i bisogni a venire.

[5] Ne parlai il giorno 17 Novembre 1775.

[6] Mia madre dal bel principio mostrando zelo per la convenienza di casa fece suonar alto la necessità di comprar diamanti, di un letto nuziale di mille scudi, e, tutto grandeggiando, animò e indispose, siccome pare appunto bramasse, e Mio Padre e mio Zio.

[7] Confidai l’idea delle mie nozze al Reale Arciduca mio gran protettore, prima che alcuno non ne vociferasse, e fu il 24 Novembre 1775. Una anecdota è degna da sapersi. Nel carattere di mio Padre v’entra moltissimo la superstizione e la più meschina superstizione. Crede che le Capuccine abbiano rivelazioni dall’Essere Eterno, e suole mandar loro delle limosine, quando qualche cosa gli sta a cuore. Egli avrebbe voluto che questo matrimonio si disimpegnasse, e, parlandone ai miei fratelli cadetti, chiaramente gli scappò di bocca che s’era lusingato ch’io non pen­sassi ad ammogliarmi. Aveva dunque data l’elemosina alle Capuccine di Santa Prassede. Quell’amorevole di casa, che aveva il primo svegliata l’idea di questa unione e l’aveva fatta rinascere conducendo Marietta a Biassonno, informò la Abadessa delle Capuccine di scrivere a mio Padre che secondasse e favorisse l’affa­re per cui aveva chieste le loro orazioni, perchè Dio lo vuole e perchè darà in segui­to consolazioni. Mio Padre, che non aveva chiesto alle Capuccine se non le orazio­ni senza comunicare su qual proposito, essendo ancora ignoto alla Città il motivo, credette a quelle Pitonesse e si animò a obbedire all’Oracolo, ma l’angustioso inte­resse e le arti della moglie lo fecero ben presto piegare al sistema di prima.

Mi determinai a uscire di casa il 3 Genn.o 1776.

[8] Il soccorso de’ 400 Gigliati l’ottenni in Maggio 1778, anzi, dopo di averne io ringraziato e mio Padre e il S.r Presidente, pretese mio Padre che cento andassero a conto del tremestre di Maggio; io restituii tutti i 400; questa piccola industria finì poi come era dovere.

[9] Il Teatro Grande in Corte bruciò il 25 Febbrajo 1776 la mattina, e fu la prima domenica di Quaresima. In Giugno dello stesso anno si fabbricò un Teatro postic­cio nel giardino di Casa Visconti presso San Giovanni alla Conca e il 4 Settembre restò aperto agli Spettacoli. Prima presso al Teatro del Collegio de’ Nobili si aprì un Wax hall, che fu il primo da noi e frequentato assai.

[10] Durante questa gravidanza le avenne di trovarsi da mia Madre mentre Don Pietro Porro cadde per una sincope in terra come morto. Questa scossa fece ribrez­zo nell’animo di Maria, si credette bene di farle cavar sangue e dopo cominciò a non sentirsi tanto bene. Forse questa fu la cagione che il figlio nascesse poi gracile. Ma questo è un forse, e non più.

[11] Gennaio, e la metà di Febbraio, Maria pareva che stesse meglio, soltanto prima di prendere sonno provò più volte alle spalle e alle braccia quelle minute punture come d’un formicaio che si attribuiscono alla difficoltà della circolazione del san­gue, anzi una notte provò questa molesta sensazione al capo, su di che consultato, il dottore Schiera, che vedevamo a Casa Castiglioni, disse essere efetto isterico di nessuna conseguenza.

[12] Il dottor Cera singolarmente disse: «Questa febbre non ha verun segno so­spetto».

[13] Soffriva dolori alle viscere, come se avesse preso un purgante.

[14] Il ritratto in miniatura fatto dal Rovati nel 1776 e da cui si sono poi cavati il quadro a olio e il busto, questo ritratto in miniatura, per conservarlo poi visibile, l’ho fatto incassare nel quadretto che pure intendo che sia vostro dopo della mia morte. Questo quadretto rappresenta un monumento a basso rilievo con il mio genio che, mestamente e colla face spenta e rovesciata sopra di una urna cineraria con una corona di fiori, cerca di incoronare una farfalla, simbolo della immortalità; e un puttino tiene il ritratto di Maria. Il monumento è in un boschetto di funebri cipressi e vi è scolpita la iscrizione, che vedrete qui aggiunta.

[15] Se potessi scrivere tutto quello che ho potuto ammirare in Maria, vi tratterei singolarmente del pudore verginale di lei, che senza mancare tenerezza non permi­se a se medesima di stendere mai una mano sul corpo di suo marito, che, senza ren­dermi svogliato o indispettito, pose un limite alla curiosità e alla libertà coniugale, e che portò un non so che di virtuoso e di nobile nel centro stesso della voluttà. Il suo corpo ebbe un non so che di celestiale per me; e, bella e amabile come era, non lasciò mai luogo in me, gelosissimo ne’ precedenti miei amori, di sospettarla nem­meno di voler adescare alcuno. Ella non ebbe altri amici che i miei.