Elementi di economia pubblica

Cesare Beccaria
ELEMENTI DI ECONOMIA PUBBLICA [1769-1772]

Testo critico stabilito da Gianmarco Gaspari (Edizione Nazionale delle opere di Cesare Beccaria, III, 2014, pp. 97-390)

 Parte prima.
PRINCIPII E VISTE GENERALI

1. L’economia pubblica è stata definita l’arte di conservare ed accrescere le ricchezze in una nazione, e di farne il miglior uso. Le ricchezze altro non sono che l’abbondanza delle cose necessarie non solo, ma comode eziandio, ed aggradevoli. Le nazioni sono una mol­titudine di uomini forzati a vivere in società per difendersi reciproca­mente da ogni forza esteriore, e contribuire nell’interno al bene comune procurando il ben proprio. Dunque l’economia pubblica sarà l’arte di fornire con pace e sicurezza non solamente le cose necessa­rie, ma ancora le comode, alla moltitudine riunita.

2. Tutto ciò che serve all’alimento, all’alloggio, al vestirsi degli uomini, ci viene fornito dalla terra per mezzo dei vegetabili che vi crescono, de’ minerali che vi si nascondono, degli animali che vi pascolano. L’arte dunque di diriggere ed incoraggir gli uomini, acciò cavino il miglior partito possibile dalle terre, sarà la base fondamenta­le d’ogni operazione economica. Quest’arte chiamasi agricoltura politi­ca: primo oggetto d’economia pubblica.

Ma queste materie somministrateci dal terreno hanno bisogno d’es­sere dalla mano industriosa ed imitatrice dell’uomo alterate e modifi­cate, perché possino addattarsi ai differenti usi a cui sono destinate. Finché si trovano nello stato nel quale le abbiamo ricevute dalla terra, si chiamano materie prime. Lavorate poi per i moltiplici usi degli uomi­ni chiamansi manifatture: secondo oggetto di pubblica economia.

Gli uomini hanno sovente abbondanza di alcune cose, di cui altri sono bisognosi, e scarsezza di alcune altre di cui altri abbondano. Ciò accade sì nelle materie prime, per la differente natura del terreno e delle coltivazioni, come nelle lavorate, per le differenti inclinazioni degli uomini, non abili egualmente a far tutte le cose. Si permutano dunque reciprocamente siano le produzioni del suolo, siano le opere della loro industria. Una tale permutazione chiamasi commercio: terzo oggetto d’economia pubblica.

3. Il travaglio degli uomini, sia sulla terra, genitrice delle materie prime, sia sulle cose da quella prodotte, e le vicendevoli permute, non possono esser fatte con pace e tranquillità, se la moltitudine che opera e che si affatica non sia difesa e protetta dalla forza esteriore, che potrebbe disturbarla ed usurparsi il frutto degli altrui sudori; né le ope­razioni degli uomini potrebbono giammai essere conformi al bene della maggior parte, se le genti, senza freno e senza direzioni, fossero lasciate puramente in preda alla loro avidità personale; o in braccio ad una improvvida inerzia si gettarebbero, se mancassero d’uno stimolo che gli obbligasse alla sempre odiata fatica. Sono dunque necessari supremi direttori, che colle armi e colle leggi diriggano le interne operazioni della società, la difendano dagli esterni assalti, eccitino nella giornaliera indolenza degli uomini il moto e l’attività. La moltitudine deve dunque fornire a questi supremi direttori i mezzi onde possano adempire un tale oggetto. Questi mezzi chiamansi tributi, e l’arte di percepirli, acciocché siano utili alla moltitudine che li fornisce, e non siano rovinosi né per il modo con cui sono levati, né per l’uso che se ne faccia, chiamasi finanze: quarto oggetto di pubblica economia.

4. Ma né i prodotti delle terre, né le opere della mano, né i scam­bievoli commerci, né i pubblici tributi si potranno giammai ottenere dagli uomini con perfezione e costanza, se essi non conoscono le leggi morali e fisiche delle cose sulle quali agiscono; se al crescere de’ corpi proporzionatamente non crescono le abitudini sociali; se tra la moltiplicità degl’individui, delle opere e dei prodotti, non si vegga ad ogni passo scintillare la luce dell’ordine, che rende facili e sicure le opera­zioni tutte. Dunque le scienze, l’educazione, il buon ordine, la sicu­rezza e tranquillità pubblica, oggetti tutti compresi sotto il solo nome di polizia, formeranno il quinto, ed ultimo oggetto di pubblica eco­nomia.

5. Questi cinque primari oggetti racchiudono moltiplici dirama­zioni e dettagli complicati, i quali variano colle differenze di clima, di popolazione, di governo di ciascun paese. Per non perderci in questo labirinto è necessario ricercare un punto fisso ed invariabile, il quale non si alteri giammai, né dalle circostanze di luogo e di tempo, né dalle diverse modificazioni della società, e che anzi sia egli un punto di vista altrettanto semplice che luminoso, il quale diffonda la sua luce sugli intricati rapporti e combinazioni politiche. Tutte le scienze hanno sempre questo canone fondamentale, questa proposizione universale, che non è altro che l’enunciazione del legame comune di tutte le proposizioni particolari costituenti il corpo d’una scienza. Per ritrovarlo è necessario rimontare all’origine delle cose stesse, ove solo si può rinvenire qualche primitiva e primaria combinazione, che è stata come il nucleo, o punto d’appoggio, intorno al quale si sono raggrappati ed avvolti i moltiplici e diversi dettagli d’una scienza.

I. Principio generale

6. Supponiamo un numero di famiglie qualunque, per una qua­lunque cagione senza arti e senza altri aiuti, fuori che quelli che le naturali facoltà dell’umana natura posson loro somministrare, gettate in un paese incolto ed intatto dalla mano dell’uomo.

Queste famiglie per lungo spazio di tempo viveranno della distru­zione degli animali, dell’acqua, della aria e della terra, dei frutti selva­tici degli alberi e delle radici spontanee del campo, coprendosi le ignude carni delle sanguinose spoglie degli uccisi animali, e dando loro le caverne aspro ricovero.

Dopo avere ridotte in schiavitù le bestie mansuete e frugivore, e ridottele in mandre pascolanti sotto il dispotismo dell’uomo, l’espe­rienza, l’osservazione di moltissimi avvenimenti, la necessità della nascente popolazione – angustiata da fiumi innatabili, da monti altis­simi, dal mare ancora intentato –, le resero accorte del potersi coll’arte e col lavoro secondare, anzi accrescere, le spontanee produzio­ni della terra.

Io qui racchiudo in brevissimo spazio ciò che si sarebbe potuto lun­gamente sviluppare annoverando minutamente ad una ad una tutte le cagioni che l’uomo abbiano potuto condurre dallo stato selvaggio e cacciatore allo stato socievole e agricoltore; ma ciò si può vedere in molti autori, principalmente nell’insigne opera di Monsieur Goguet, intitolata De l’origine des loix, des Sciences, des arts chez les anciens peuples. Devo affrettarmi a ritrovare le traccie maestre del lungo cammino che si deve percorrere.

7. Dunque per moltiplicare questi frutti della terra dovettero gli uomini per lungo tempo vincere molte difficoltà: dovevano disbosca­re il terreno, mondarlo da’ sassi, moverlo, irrigarlo, fecondarlo, ecc., avanti ch’egli fosse in istato di ricevere le prime sementi in quella copia che ora veggiamo atta a nutrire considerabili popolazioni.

Ora, tutte queste operazioni esigevano fatica e tempo, e stromenti atti a lavorare la terra, e materie atte a fecondarla, e sementi già da quella prodotte per rimettervele, onde le riproducesse e le moltipli­casse; ma, durante tutto questo tempo e questa fatica, dovettero gli uomini nutrirsi, vestirsi ed abitare vicino al luogo del loro travaglio, ed avere in proprietà quelle cose che doveano servire a perpetuare nella terra la riproduzione.

Dunque noi chiameremo capital fondatore della coltivazione la somma di tutte queste cose preliminarmente necessarie a rendere una terra, d’incolta, fruttifera, ed osserveremo che, senza di questo capital fondatore, la terra sarebbe rimasta inutile e deserta.

8. Di più: preparata la terra ad essere coltivabile e fruttifera, biso­gnava conservarla tale, perché, consumati i prodotti d’un anno, biso­gnava metterla in istato di riprodurli per il seguente; ma questa ripro­duzione esige nova semente da gettare sul terreno: come prenderla, se non dai prodotti precedenti del passato anno? Esige braccia che col­tivino, ed animali che fecondino e che aiutino il lavoro, ma bisogna nutrirsi, abitare, conservare gli stromenti, e pascere questi animali che contribuiscono al lavoro medesimo: tutto ciò richiede una spesa con­tinua, ed una ricchezza da non destinarsi ad altro uso, fuori che a quello della riproduzione; e dove prenderla, se non appunto dai pro­dotti precedenti?

Dunque noi chiameremo scorte annue queste ricchezze necessarie a continuare la riproduzione; ed osserveremo che, scemate queste o tolte del tutto, proporzionatamente si scema o si toglie la riproduzio­ne, e la terra ritorna qual era, incolta e deserta.

9. Frattanto che da queste famiglie, o sia che da questa nostra idea di nazione, prosperamente tutte queste cose si fanno, ecco nascere necessariamente le arti e la diversità delle occupazioni degli uomini: ciascuno prova coll’esperienza che, applicando la mano e l’ingegno sempre allo stesso genere di opere e di prodotti, egli più facili, più abbondanti e migliori ne trova i risultati, di quello che se ciascuno iso­latamente le cose tutte a sé necessarie soltanto facesse; onde altri pasce le pecore, altri ne cardano le lane, altri le tessono; chi coltiva biade, chi ne fa il pane, chi veste, chi fabbrica agli agricoltori e lavoranti, crescendosi e concatenandosi le arti, e dividendosi in tal maniera, per la comune e privata utilità, gli uomini in varie classi e condizioni. Ognu­no può vedere nella succennata opera di Goguet le diverse gradazioni de’ progressi fatti dal genere umano, dal raccogliere le spontanee produzioni della terra al coltivarle, e dal rozzo uso di quelle al prepararle e consegnarle con tanti diversi ed ingegnosi artifizi.

10. Il lavoro degli uomini non vi sarebbe, se non vi fossero cose da lavorare, né le cose da lavorare vi sarebbero, se la terra non le produ­cesse. La mano dell’uomo modifica e dispone i corpi, cioè ne avvicina o ne allontana in diverse guise le parti; ma un atomo di materia non vi cresce fra le dita, se la terra, e quello spirito di vita che circola nelle sue viscere, non lo produce. Ma perché l’uomo lavori, egli deve avere prima di tutto la materia da lavorare, indi vivere e procacciarsi le cose necessarie, anzi fino ad un certo segno le comode all’uso della sua vita durante tutto il tempo del lavoro, senza di che egli non lo farebbe altrimenti, ma in vece attenderebbe a procacciarsi quelle cose che altri non gli darebbono: quindi ne risulta che ogni valore che si dà ad un lavoro qualunque sarà composto del valore della materia prima e del salario che si dà per il comodo sostentamento di quello che lavora questa materia prima. In qual proporzione si valutino queste materie prime e questi salari, si vedrà a suo luogo.

11. Questi salari, o non siano pagati in danaro, come nella presen­te supposizione, o lo siano, torna allo stesso, perché con il danaro le cose tutte si possono avere: dunque il vero salario sarà la somma delle cose necessarie e comode alla vita date a colui che, lavorando per il comodo e necessità altrui, non può sovvenire da se stesso ai propri comodi ed alle proprie necessità: dunque questi salari, o queste cose alla vita comode e necessarie, saranno sempre, in qualunque maniera modificate siano, produzioni della terra; dunque l’aumento di queste produzioni della terra è un aumento di salari da distribuirsi; l’annien­tamento di parte di queste produzioni è un annientamento di parte di questi salari da distribuirsi.

Di più, quegli uomini che posseggono, o lavorano, o fanno lavora­re terre producenti, o si procurano prodotti che eccedano il loro biso­gno, o no. Se no, dunque non lavorano che quella porzione di terra, e con niente più di stento e d’industria che quanto basta a procurare il preciso loro sostentamento. Se lavorano al di là di questa loro esi­genza, chiaro sarà che essi pagheranno o faranno queste maggiori fati­che per cambiare l’avanzo con altre cose utili o piacevoli che loro manchino, e per averle più ben disposte e più atte a que’ fini ai quali le destinano. Dunque questi prodotti non cresceranno se non in quan­to saranno atti ad essere permutati reciprocamente: e saranno tanto più atti ad essere permutati, quanto ciascuno potrà esserlo con un maggior numero di cose, perché allora la spesa e la fatica di chi lavora o fa lavo­rare è ben ricompensata; ma se il numero delle cose che si possono avere per mezzo di questi prodotti sarà inferiore alla spesa e fatica de’ producenti, cesseranno questi di far produrre: dunque scemerà il numero delle cose utili e contrattabili.

12. Finalmente, come abbiamo veduto al § 3, tutti gli individui riuniti in società devono fornire i mezzi necessari a difenderla, pro­teggerla e governarla con sicurezza e tranquillità. A chi appartengono queste auguste funzioni è necessario un corredo moltiplice d’uomini esecutori, d’attrezzi e di stipendi, e tutte queste cose non si hanno e non si mantengono appunto con niente altro che colle produzioni della terra, perché gli uomini né vivono, né vestono, né faticano, né guerreggiano coll’oro e coll’argento, bensì con questo si procacciano le cose a ciò conducenti, e l’oro e l’argento divengono metalli inuti­li perfettamente. Dunque anche la terra, qualunque ella sia e dovun­que ritrovisi, sarà sempre quella e sola che può dare le cose manteni­trici della forza tutelare della società.

13. Dunque, raccogliendo le cose fin qui dette, primo principio d’ogni operazione economica sarà quello di eccitare la maggior quan­tità possibile di prodotto utile e contrattabile, e di togliere di mezzo ciò che diminuisce questa massima quantità di tali prodotti.

14. Ma quelli i quali le cose dalla terra prodotte modificano per l’uso e per le richieste degli uomini, debbono essere alimentati dai padroni e coltivatori de’ prodotti con parte di questi prodotti medesi­mi, come abbiamo veduto; dunque questi lavoratori con tanto minor tempo e tanto minor numero di persone potranno fare un maggior numero di lavori, tanto meno dei prodotti si consumeranno da essi: dunque tanto più resterà di avanzo in mano dei producenti, sia per rimettere sulla terra, onde cresca la di lei riproduzione, sia per far fare altre cose e dare altri salari e guadagni ai medesimi agricoltori, che con questa economia lavorano, sia per le pubbliche o private spese qua­lunque. Ma siccome questi lavoratori debbono e vogliono vivere, e le famiglie loro mediocremente sostentare, anzi migliorar, se possano, le condizioni loro, così dovranno supplire colla frequenza delle spese al poco salario di ciascheduna in particolare. Si vedrà, in conseguen­za di tutto ciò, che il secondo principio d’ogni economica operazio­ne, riguardo alle opere della mano e dell’industria, sarà quello di fare piccoli per volta ma più spessi guadagni che sia possibile.

15. Il primo principio è il reggitore dell’economia agricola, e fon­damentale d’una nazione. Il secondo è il principio dell’economia arti­sta ed industriosa della medesima. Al primo debbono principalmente applicarsi le nazioni che hanno un territorio, ed avere il secondo per principio subalterno e secondario; a questo, quelle che prive sono d’un territorio fertile e riproducente. Ma queste nazioni, che campa­no sulla sola industria ed opera delle lor mani, non esisterebbero se non esistessero terre feconde, da nazioni piccole e territoriali lavorate.

16. Da qui si può di slancio vedere come i confini politici d’uno stato non siano sempre, o quasi mai, gli stessi de’ confini economici di quello. La terra di una nazione alimenta l’industria d’un’altra, l’in­dustria di questa feconda la terra di quella. Queste due nazioni, quan­tunque divise di sovranità ed indipendenti reciprocamente dalle rispettive loro leggi politiche, sono però realmente una sola nazione, strettamente unita per leggi fisiche, e dipendenti l’una dall’altra per le relazioni economiche.

17. Ora, né il massimo prodotto utile e contrattabile dalle terre si potrà ottenere, né dalle arti avere piccoli ma pronti profitti, se gli uomini, gli uni a gara degli altri, non faticheranno colla mano e col­l’industria, sia sulla terra sia sui prodotti di quella. Dunque, riunendo i due sovra indicati principii in uno, diremo essere fine generale, e principio insieme reggitore di tutta la politica economia, di eccitare nella nazione la maggiore quantità possibile di travaglio utile, cioè producente la maggior quantità di prodotto contrattabile, e produ­cente li più piccoli ma più spessi possibili salari alle opere della mano, e di opporsi a tutto ciò che potrebbe tendere a diminuire questa massima possibile quantità d’utile travaglio.

18. Da quest’analitica deduzione di semplicissime verità, tutta quanta l’economia politica si deriva: ed io spero, sviluppandosi a poco a poco ed applicando agli affari degli uomini questi palpabili ed evi­denti assiomi, di condurci nelle più recondite teorie di questa scienza. Chi sa di matematica non ignora che il circolo si genera dal movi­mento d’una linea retta intorno ad un punto fisso; e pure, da questa semplicissima nozione, quante varie e recondite verità non si svilup­pano, che formano l’oggetto della beata contemplazione de’ sapienti e la meraviglia degli sciocchi? Così spero di fare, riprendendo successivamente per mano alcune di queste verità di solo buon senso da me esposte. Io spero di dimostrarvi con esattezza l’arte di render gli uomini e le società ricche e felici di quelle cose che si richieggono, per quanto i limiti dell’umana capacità, e l’inesorabile legge del dolo­re lo possono permettere.

II. Della natura del travaglio e della consumazione

19. Ho posto per principio generale di tutta la scienza non la mas­sima quantità di travaglio generalmente, ma la massima quantità di tra­vaglio utile; ed ho, cred’io, sufficientemente determinata l’idea di questa utilità. Perché la terra coltivabile produca, sono necessarie alcune spese, e, quanto maggiori sono queste spese, in paragone del prodot­to totale, tanto meno resta di avanzo sul prodotto medesimo; quanto meno resta di questo avanzo, tanto minor ricchezza si potrà contratta­re coi prodotti utili delle altre terre, e darsi in salario alle arti che rendono utili questi prodotti; e tanto meno resta di tributo da darsi al sovrano, per le innumerabili e necessarie spese della pubblica sicurez­za e tranquillità. Perché le opere della mano e della industria abbiano una continua prosperità, bisogna che molti siano coloro che facciano uso delle opere di quelle; perché molti facciano questo uso è necessa­rio che ciascun’opera sia fatta nel minor tempo possibile, e colla mino­re spesa possibile; ma non si può far uso di queste opere se non pagan­dole; pagare non si possono se non si danno prodotti delle terre, o almeno rappresentazioni in quelli convertibili, il che è lo stesso. Dun­que, quanto maggior tempo e maggiore spesa consuma un’arte, tanto maggior prodotto di terra si darà per quella, e per ciò tanto meno ne resterà da convertirsi in altre arti ed in altre successive opere. Dunque generalmente quel travaglio sarà meno utile che, potendo in più breve tempo e da un minor numero di persone esser fatto, lo sarà più lun­gamente e da più persone.

20. Non occorre che io qui mi dilunghi a sviluppare ciò che chia­ramente e diffusamente dev’esserlo nelle parti di questi Elementi desti­nate a trattare dell’agricoltura e delle arti, nelle quali saranno tolte di mezzo quelle obbiezioni che si possono fare: la natura di questa scien­za, come di ogni altra che non sia futile ed illusoria, è di formare un tutto talmente riunito, che sia necessario di comprenderlo nella sua totale estensione, per essere perfettamente convinti delle grandi verità ch’ella contiene. È solamente necessario di entrare alquanto più addentro nella natura e distribuzione di queste spese, che essenzial­mente sono necessarie per ottenere una qualunque siasi produzione della terra, o opera della mano dell’uomo.

21. Il tempo rinnuova i bisogni degli uomini, e la vita di quelli non si prolunga che colla distruzione e alterazione de’ corpi che sono atti ad assimilarsi alla propria loro sostanza. Un uomo non solamente si nutre e propaga la sua stirpe, ma si veste, edifica, e cerca di vivere comodamente, e di modificare e di applicare a se stesso tutte le cose in maniera che gli eccitino sensazione piacevole. Ora, non si può ciò ottenere gratuitamente, bensì col mezzo dell’azione e del travaglio.

Bisogna dunque, durante questo tempo, nutrir se stesso e gli altri che contribuiscono al soddisfacimento di questi bisogni e comodi. Io ho bisogno per esempio di vestirmi: in primo luogo, io debbo fornire al sartore tutte le materie e gl’ingredienti necessari; in secondo luogo, io debbo mantenerlo per quel tempo ch’egli consuma travagliando; non solamente io lo nutro, ma gli do una parte – proporzionata al tempo ch’egl’impiega in mio servizio – di vestito, di alloggio o di che altro gli occorre. Egli stesso impiega una parte di quel che gli do a nutrir altri che gli forniscono l’occorrente, così successivamente. Se noi poniam mente a questa successiva serie di pagamenti, noi troveremo due elementi distinti che entrano in ogni opera: l’uno sarà la materia prima prodotta dal suolo, la quale è modificata secondo l’uso richie­sto; la seconda sarà il nutrimento, che va successivamente consuman­dosi da tutti quelli che, direttamente o indirettamente, contribuisco­no al travaglio di questa materia prima. Questo nutrimento in primo luogo è somministrato anch’esso dalla terra; in secondo luogo è diffe­rente dalla materia prima impiegata al lavoro, in quanto quello imme­diatamente si consuma, e questa non è consumata ma lavorata, o sia mutatene solamente la forma, acciò sia atta all’uso destinato. In ogni pagamento, o sia in ogni passaggio di una produzione da una mano nell’altra, vi è sempre una parte del suo valore, o sia di quanto è sti­mata, che si ferma per convertirsi in alimento, o sia in immediata con­sumazione. Onde, se dal valore di qualunque opera si sottragga il valore della materia prima, tutto il restante rappresenterà la somma delle cose consumate, o sia degli alimenti di tutte le persone che hanno direttamente o indirettamente contribuito al travaglio.

Dunque l’alimento, o sia la consumazione, può dirsi il rappresentatore universale d’ogni sorta di travaglio, e la quantità di quello rappresenterà la quantità di questo. Dico l’alimento o sia la consumazio­ne, perché molte cose si consumano che non sono alimento, quantunque vadano sotto la stessa considerazione, per esempio le legna che si abbruciano.

22. Avendo dunque veduto che per le persone che entrano nel tra­vaglio d’una cosa qualunque non vi debbono esser compresi sola­mente i travagliatori di quella, ma ancora coloro che forniscono il vitto, il vestito e gli altri comodi e necessità della vita ai primi, e così successivamente quegli che li somministrano a questi ultimi: onde saranno tanto più numerosi gli alimenti rappresentanti la quantità di travaglio di ciascuna cosa, quanto è più grande la distanza di una sorte di travaglio dall’ultima classe dei producitori degli alimenti fornitici dalla terra. L’alimento degli uomini può essere più largo ed abbon­dante, può essere più ristretto e scarso, può essere meno grossolano, può essere più: le ultime classi degli uomini, prescindendo dai profit­ti casuali, possono dunque, col risparmiare una parte di alimento, e contentarsi del più comune, riserbarsene una porzione del più scelto da contrattarsi in altri usi; questa è la prima origine d’ogni profitto, da cui scaturiscono successivamente i primi guadagni, onde supplire agli altri bisogni.

23. Questi ultimi producitori rappresentano dunque realmente il travaglio e le fatiche di tutte le altre classi prese insieme; dunque que­sta classe debbe essere necessariamente la più numerosa; ma siccome ella medesima, per i bisogni più grossolani della vita, ha bisogno di molte altre, come per esempio di quelle che forniscono il vestito od altro, così, dopo la prima, la più numerosa sarà quella che somministra le cose più necessarie agli uomini dopo l’alimento, appunto perché più immediata rappresentatrice di quello; e, così discorrendo, di mano in mano si arriverà a questa non volgare osservazione, che le classi delle persone che travagliano debbono essere tanto meno popolate, quanto è maggiore la loro distanza dalle classi immediatamente alimentatrici. Da qui si vede la mutua dipendenza di tutte le arti, che a guisa di piramide, non a diseguali ammucchiamenti, debbano essere elevate ed incoraggite dal saggio legislatore. Ben è vero che, essendo fattizia e non stabilita nella natura delle cose la divisione delle nazio­ni, il travaglio non rappresenta solamente la quantità di cose consumabili prodotta dal proprio paese, ma ancora quella che è prodotta da un altro, onde, consumate le cose del paese proprio, il soverchio delle opere e delle fatiche delle classi superiori rappresenterà la quantità di cose consumabili che possono fornire le nazioni per le quali si trava­glia. Ciò nonostante, se noi considereremo le terre forastiere somministranti l’alimento rappresentatore del soverchio travaglio di una nazione come facenti realmente un corpo solo colle terre alimentatrici della nazione medesima, noi troveremo sempre la classe producen­te l’alimento la più numerosa, e la classe lavoratrice la meno nume­rosa, in proporzione della distanza sua dalla produzione immediata dell’alimento medesimo.

Il soverchio dunque del travaglio sopra del bisogno della propria nazione le sarà dunque tanto più utile, quanto questo soverchio sarà nelle classi sempre più vicine a rappresentare la propria proporziona­ta quantità di alimento. Primo, perché, essendo queste le più numerose, la distribuzione delli utili cadrà sopra un maggior numero di persone, il che servirà ad incoraggire più immediatamente i lavori più necessari e più utili. Secondo, perché l’accrescimento delle arti infe­riori, cioè più vicine alla produzione dell’alimento, anima le superio­ri, ma l’accrescimento di queste non anima egualmente quelle, la superiorità de’ loro guadagni mettendole nel caso di supplire fuori di stato alla più parte dei bisogni; le classi loro intermedie possono esse­re forastiere più tosto che nazionali, ed essere più utili all’altrui che alla propria nazione.

24. Da questi ragionamenti, i quali spero che colla loro fecondità ne compenseranno l’astrusità apparente – che coi futuri dettagli sva­nirà totalmente –, da questi, dico, ne nascono due importantissime conseguenze.

Prima: che le classi operatrici sono ancora tanto più utili quanto più sono inanellate l’una dentro dell’altra, in quella proporzione che abbiamo già divisata, perché allora solo producono la massima quan­tità e varietà di travaglio utile, e perciò la massima e la più giusta distribuzione di alimento. Quindi, fuori di questi casi, le classi che non sono comprese in questa catena non interrotta di opere e di lavo­ri non sono utili e da proteggersi, se non in proporzione della neces­sità loro, o in quanto contribuiscano ad animare la serie delle classi operatrici ed alimentatrici.

Seconda conseguenza si è che l’aumento della popolazione aumen­ta il travaglio, perché la sempre presente necessità della sussistenza, e l’abitudine cara e quasi indistruttibile degli uomini al suolo natale, gli agita per ogni verso e gli stimola a procacciarsi i mezzi più sicuri per vivere, quando viziose cagioni politiche non consacrino l’inerzia, o premino la indolenza, o non irritino gli uomini alle emigrazioni.

Con più sicura ragione però si può dire che la quantità di travaglio aumenta piuttosto la popolazione, che non la popolazione la quantità di travaglio, perché la maggiore quantità di travaglio rappresenta un maggior numero di alimenti, e la quantità del popolo è proporzionata sempre alla quantità dell’alimento:1 dove egli è facile e sovrabbon­dante, il popolo v’accorre da tutte le parti al di fuori, e dentro l’in­vincibile istinto propagatore non trova ostacoli fisici a svilupparsi, quando i morali non si oppongano alle forze perpetuatrici della natu­ra. La soverchia popolazione può essere a carico della nazione, quando non sia l’effetto dell’accresciuta quantità di travaglio, perché l’ali­mento del soverchio ozioso sarà a spese dell’utile, ma la popolazione, quanto grande si supponga, sarà sempre vantaggiosa a se medesima, quando sia l’effetto dell’aumentata quantità di travaglio, perché allora col numero crescono i mezzi della sussistenza e felicità di ciascuno.

25. Ho detto che nello stimare il travaglio è necessario aver riguar­do al tempo in cui dura il travaglio medesimo, perché l’alimento è un bisogno costante e periodico; bisogna ancora parimenti aver riguardo al tempo del travaglio delle arti inferiori, fino all’ultima. Sonovi anco­ra alcune altre considerazioni che entrano nella stima del travaglio: per esempio, la maggiore o minore quantità dell’opra stessa, e la mag­giore o minor capacità che vi si richiede; i pericoli e i rischi che si corrono nel travagliarla, sia per la fragilità della materia prima, sia per qualche circostanza, estrinseca o intrinseca, che la rendono malsana o nociva. Ho detto nello stimare il travaglio, perché altre considerazioni entrano nella stima delle cose, come l’abbondanza o scarsezza di quel­le, la maggiore o minore ricerca, il trasporto, ed altre quantità per le quali si determina il valor relativo, del quale parleremo a suo luogo.

26. Non è dunque possibile il fissar con precisione aritmetica il valore intrinseco delle fatiche degli uomini: un tal valore varia secon­do la varia bontà delle terre e la varia maniera di vivere di quelli che le lavorano o fanno lavorare, degli artigiani, che ne manifatturano i prodotti, dei proprietari delle terre che fanno valere e le terre e i pro­dotti medesimi; e queste differenti maniere di vivere dipendono dalle circostanze fisiche e morali d’ogni paese. Perché un tal calcolo potes­se accostarsi alla mattematica precisione, sarebbe necessario prima un esatto catastro di tutte le terre e della quantità mezzana degli annui loro prodotti; secondo, un novero esatto di tutta la popolazione, distinto e numerato per le di lei diverse classi; terzo, il valore del man­tenimento e la quantità dell’annuo travaglio di ciascun artigiano. Volendosi, per esempio, sapere il valore adequato del travaglio d’un agricoltore, bisognerà prima cercare un villaggio ove le terre siano di mezzana bontà; distinguere i lavoratori capaci di lavorare da quelli che non lo sono, come il fanciullo ed il vecchio decrepito, che sono dai primi mantenuti; esaminare quanta quantità di terreno lavora ciasche­duno di essi, e la quantità di prodotto d’un tal terreno; separare il di lui alimento, quello delle persone alla mancanza del lavoro delle quali egli deve supplire, il prezzo dell’alloggio, del vestito di tutte queste persone, di tutte le masserizie più grossolane, siano dimestiche, siano da lavoro, da ciò ch’egli paga al padrone della terra ed al sovrano. Per valutare il vestito, l’alloggio, ecc., di questi lavoratori, cioè per sapere a quanto di alimenti o di cose consumabili corrispondano, bisogna paragonare la somma dei bisogni secondari, cioè di quelli che non sono alimento degli agricoltori, colla quantità di lavoro dei manifattori immediati. Il valore del travaglio di un vestito, il più grossolano e rozzo dell’ultimo lavoratore di terra, deve rappresentare quelle por­zioni di alimento del pastore, delle pecore, del cardatore della lana, quello del filatore, del tintore, del tessitore del panno, quello del sar­tore, che corrispondono al tempo che hanno impiegato a contribuire ad una tale operazione.

Io ho voluto a bell’apposta entrare in qualche dettaglio su questa interessante discussione, in primo luogo per indicare la necessità e la massima importanza di avere una esatta notomia di tutte le minute fibbre del corpo politico, ed una analisi esatta della nazione, e che da ciò solo dipende la sicurezza e l’ordine che si deve tenere nelle ope­razioni politiche destinate ad incoraggire il travaglio degli abitatori; in secondo luogo per far vedere che alcune teorie non sembrino a talu­no troppo metafisiche ed aeree, se non per altro, perché non hanno l’abitudine di racchiudere sotto nomi generali la folla de’ particolari, mancando di quell’attenzione che si richiede a scorgere le somiglian­ze e rapporti occulti delle cose.

27. Dalle precedenti deduzioni noi caveremo due generali corol­lari di cui faremo uso nel progresso. Primo: che le arti fra le nazioni sono ordinariamente proporzionate al bisogno che se ne ha, e che per accrescere queste arti bisogna accrescere i bisogni corrispondenti ed i mezzi onde nutrirle, sia incoraggendoli cogli esempi e coi premi, rare volte coi comandi, sia levando gli ostacoli al naturale progresso dei bisogni medesimi. Secondo: che i bisogni di prima e seconda neces­sità sono determinati da tutte le classi di persone, ma quelli di terza ed ulteriore necessità sono determinati quasi totalmente dalla classe dei proprietari delle terre, siano nazionali, siano forestieri. Le loro mode, i loro capricci, la voce di mille passioni si fanno sentire nella tran­quillità di una vita inoperosa, e questa voce regge le arti tutte, che le anima o deprime a suo talento. I proprietari delle terre hanno anco­ra, se non tutta, almeno una grandissima influenza sulle arti di prima e seconda necessità, non solo perché queste arti sono contigue e con­catenate colle altre, ma perché i proprietari delle terre possono dare differenti direzioni, e far produrre differentemente la terra, a tenore de’ loro usi, delle volontà loro e della necessità momentanea, la quale è per lo più l’unico determinativo delle umane azioni.

28. Per sempre più approfondire questo soggetto, giova qui il ripe­tere ciò che abbiamo di sopra dimostrato, cioè che il valore d’ogni travaglio si riduce finalmente a sottodividersi in una certa quantità di alimenti e di cose consumabili, e per conseguenza che il guadagno degli artigiani consiste nell’attrarre a sé un equivalente di più o meno alimenti, i quali poi, dedotta la propria porzione, vanno cambiando e ricambiando per procurarsi i comodi della vita. Ma in qual maniera le diverse arti attraggono a sé più o meno quantità di tali rappresenta­zioni di alimenti? Rispondo che ciò nasce, primo, dalla differenza del tempo che è necessario alla produzione o al lavoro delle cose. Frat­tanto che in un anno un agricoltore travaglia appena per cavare di che mangiare e di che ruvidamente coprirsi, il fabricatore de’ panni ed il sartore in un anno travagliano più pezze di panno e più vestiti, che servono a più agricoltori. Il travaglio di pochi giorni dei primi equi­vale al travaglio di molti mesi dei secondi. Il lavoro di più fra questi rappresenta il lavoro d’un solo fra quelli. Nasce in secondo luogo dalla maggiore o minor durata delle cose medesime lavorate. I pro­dotti della terra sono utili a misura che sono consumati, i prodotti delle arti lo sono a misura che sono durevoli. Supponiamo per un momento, ciò che non è possibile d’accadere, la troppa moltiplicità di quei lavori, cioè che ci fossero tanti sartori, tanti falegnami, quanti agricoltori: allora la moltiplicità sarebbe dannosa a quelli che ricerca­no il loro vantaggio; allora moltiplicando all’eccesso la quantità della merce, ve ne sarebbe oltre la ricerca, ed i travagliatori dovrebbero dunque sospendere il lavoro sino allo smaltimento considerabile di tali merci. In un anno non travaglierebbero che pochi mesi, il restante sarebbero oziosi; allora il travaglio di pochi mesi in un anno arrive­rebbe a corrispondere al travaglio d’un anno intero d’un agricoltore.

Ma il lavoro degli uomini è sempre il meno gratuito che sia possi­bile; ciascuno travaglia in proporzione dell’utile che ne spera, e perciò dello smercio che prevede che possano avere i propri lavori; dire­mo in conseguenza che l’arti si mettono da se medesime al necessario equilibrio, se le cattive leggi e le viziose operazioni politiche non le sbilanciano. Le operazioni economiche si riducono a non permette­re, e moltissime a non fare: quali siano si vedrà in appresso.

Ultima conseguenza di quanto si è detto sarà che se l’agricoltore, sia nazionale sia forastiere, non travaglia al di sopra del necessario al proprio alimento, egli toglie altrettanti alimenti a tutti gli altri, quan­to minor travaglio egli fa; toglie per ciò altrettanti lavori dalle arti, annichila una parte della riproduzione, dunque una parte della vera ricchezza, dunque una parte della nazione medesima.

III. Della popolazione

29. Riservando tutte le conseguenze e principii che che si pos­sono dedurre dai superiori ragionamenti alle successive parti di pub­blica economia che anderemo divisando secondo la sopra espressa divisione, riprendiamo ora per mano l’interessante oggetto della popolazione.

30. Prima di tutto è necessario vedere in qual maniera una qua­lunque popolazione naturalmente si distribuisca in un paese. Le ridu­zioni de’ popoli selvaggi si sono formate nei luoghi in cui la natura offeriva più spontaneamente i mezzi di provvedere ai bisogni di quelli: vicino ai fiumi ed alle fonti, longh’esso il mare, sulle facili colline, che offerivano comodi pascoli alle mandre, o ritiri abbondanti di selvaggiume, o nelle comode pianure, o nelle valli, o fra i monti di dificile accesso ai nemici. Queste riduzioni furono prima erranti e vaga­bonde, finché la moltiplicazione e l’urto di molte ne’ medesimi luoghi, oltre le difficoltà medesime della natura, che impediva il pro­gredire più avanti, le fece quasi ritrocedere e fissarsi stabilmente. L’a­gricoltura finalmente, e colla lunghezza de’ suoi lavori, e col lento periodo delle sue riproduzioni, le abituò ad una fissa dimora, ed il nome di nazione, ch’era prima personale ed errante, divenne in seguito locale e stabile. Si sono dunque stabiliti in ogni tempo i vil­laggi, più o meno grandi in proporzione del numero delle persone che lavoravano le terre circondarle. Perché era naturale che gli uomi­ni, o per dir meglio le famiglie, in vece di abitare ciascuno nel centro della sua terra, cercassero, per la propria sicurezza e per la communicazione più facile degli interessi loro, di abitare vicini gli uni agli altri, per poi disperdersi soltanto nei tempi dei respettivi lavori. Era natu­rale altresì che coloro le di cui terre erano troppo remote dai villaggi – cosicché il tempo dell’andarvi più lungo, come ancora la mag­giore difficoltà del trasporto delle derrate alle proprie abitazioni, li rendesse di peggior condizione degli altri –, dovessero allontanarsi a poco a poco per avvicinarsi alle proprie terre, e si riunissero insensi­bilmente a formare un altro villaggio: così, successivamente, molti se ne sono formati. In ciascheduno di questi villaggi dovevano ridursi parimenti quelli artigiani che fornivano le cose di più giornaliero bisogno ai lavoratori o ai piccoli proprietari delle terre residenti in essi. Il commercio reciproco di questi villaggi, la voglia comune a tutti di esibire a molti compratori le proprie merci, per ottenerne, se non dall’uno almen dall’altro, un migliore vantaggio, dovettero stabi­lire, fra molti villaggi, in alcuno di essi, cioè in quello che era di più breve e di più comodo accesso a tutti gli altri, un centro di communicazione e di ritrovo degli abitanti della campagna. Egli è naturale che i più ricchi fra quelli e i più industriosi vi si stabilissero, come più a portata di fare i loro commerci, e d’intromettersi in quelli degli altri. A misura che l’uomo diventa più agiato, si allontana dal penoso tra­vaglio della terra, e lo confida a qualche altro, più povero, col quale ne divide il frutto. Da ciò ebbero origine i borghi e le piccole città, nelle quali risiedono i più grossi proprietari delle terre, gli artigiani, che forniscono i comodi della vita ai ricchi, o che fanno una gran provvisione di opere e di prodotti, per distribuirle poi in dettaglio ai più piccoli commercianti o alle subordinate classi de’ manifattori.

Crescendo finalmente la disuguaglianza dei beni per la disuguale successione delle famiglie, per la dissipazione ed indolenza degli uni, per l’economia ed attività degli altri, i più grandi proprietari delle terre – i quali un maggior numero di bisogni, ed una vita più raffinata e remota dagli umili e rozzi usi del volgo gettava in braccio alla noia, compensatrice delle diverse condizioni degli uomini –, per l’ambizione di distinguersi a gara, e di sovrastare alle classi laboriose dei loro simili, dovettero riunirsi a poco a poco insieme, e risedere vicino alla sorgente delle leggi, vicino alle supreme magistrature, onde occuparsi del comando ed estender la sfera dei loro piaceri estenden­do il loro potere. Ecco l’origine delle città grandi, e, per conseguen­za, o attualmente o una volta, capitali.

31. Da questa storica analisi delle differenti distribuzioni della popolazione ne nasceranno i seguenti corrollari.

Primo. I villaggi e le popolazioni saranno tanto tanto più frequen­ti, quanto le terre saranno più divise fra molti proprietari, o almeno fra molti lavoratori, che le facciano valere per i proprietari medesimi. Ma questi stessi villaggi più numerosi saranno però composti di più pochi abitatori. Per lo contrario, se la natura della coltivazione è tale che le terre non sieno fra molti divise, allora i villaggi saranno più rari, ma ciascheduno di essi più folto d’abitatori.

Secondo. Le arti naturalmente e gli artigiani si stabiliranno dove e lo smercio delle opere loro si renda più facile, e i trasporti più como­di e meno dispendiosi. Si vedrà in appresso, trattandosi delle mani­fatture, l’uso di questo corrollario.

Terzo. Le popolazioni sono ancora relative alle differenti direzioni che danno i proprietari delle terre ai loro prodotti, agli usi ed alle fan­tasie che il loro ozio può soffrire.

Quarto. Le popolazioni sono ancora differenti secondo le diverse nature de’ governi: il che scopo non è dell’economia pubblica l’esa­minare.

Quinto. È da osservarsi moltissimo che la popolazione ha natural­mente certi limiti, al di qua e al di là de’ quali non può oltrepassare. L’uomo, tal quale si conserva e si propaga, è un risultato di quelle cose che atte sono alla di lui nutrizione. Queste cose sono prodotte dalla terra, e la terra può crescere la sua riproduzione fino a un certo segno, ma non indefinitamente, e l’uomo ha bisogno dell’aiuto d’altri ani­mali, e della propagazione loro in suo servigio: e questi consumano necessariamente parte di questi prodotti. Dunque la popolazione cre­scerà sino a che possono crescere i mezzi della sussistenza, e questi mezzi in un dato luogo possono crescer: primo, finché la terra sia giunta al suo colmo di feracità, per mezzo della perfezione dell’agricoltura; secondo, finché ci possono essere prodotti trasportabili da un altro in questo luogo, in pagamento de’ servigi ed opere fatte in favo­re di stranieri coltivatori e proprietari, e questi salari e questi servigi ed opere saranno proporzionate al numero appunto di questi coltivatori e proprietari, anche essi limitati in numero dai mezzi di sussi­stenza dalle rispettive loro terre somministrati.

Finalmente, la propagazione della nostra specie può diminuire, ma non indefinitamente, almeno prescindendo dalle indefinite e straordi­narie rivoluzioni fisiche o morali, perché le medesime intrinseche cagioni che fanno diminuire i mezzi di sussistenza, come l’avvilimen­to del valore de’ prodotti, come la difficoltà della circolazione, che riduce in poche mani la ricchezza rappresentativa, sono quelle che isolano la nazione, ridotta a questo stato da tutte le altre, onde ritor­nano ad essere sovrabbondanti quei mezzi stessi che prima erano scarsi. È perciò egualmente stolida la paura di coloro che temono, ad ogni minimo cambiamento di politiche costituzioni, di veder sparire le popolazioni, come è chimerica la speranza di quelli che, facendo cen­tro e scopo unico della politica la moltiplicazione del popolo, si danno a credere che quello possa indefinitamente crescere, e cresciuto basta questo solo perché ogni felicità ed ogni bene ne derivi in tale nazione. Egli è chiaro adunque che la popolazione essendo una con­seguenza degli accresciuti mezzi di sussistenza, piuttosto che questi essere una conseguenza di quella, si deve aver per punto fisso e reale d’ogni ricerca e d’ogni regolamento l’accrescimento di questi mezzi di sussistenza, che da nient’altro che dalla terra si possono ottenere, e lasciare il resto alle cure segrete ed imperscrutabili della natura, per­petuatrice delle generazioni. « In ogni luogo dove un uomo ed una donna possono discretamente vivere, ivi si fa un maritaggio », dice Montesquieu. Quello dunque che anderemo or ora divisando intorno principalmente alle differenti cause morali spopolatoci, dev’esser preso con moderazione; non quasi che noi intendessimo che queste atte fossero a levar gli uomini di sopra la terra, ed a desertar le città e le provincie, ma solamente come cause che diminuiscono la popola­zione, fra que’ limiti ne’ quali ella può crescere e diminuire. Così il lusso delle nozze, così il celibato di libertinaggio sono cause dimi­nuenti la popolazione, ma egli è da osservarsi che ambedue queste cause non si verificano che in alcune classi, le meno numerose: alla campagna, nella quale sta il forte della popolazione, ognuno si mari­ta. Non è dunque la scarsezza de’ matrimoni che più frequentemente forma la spopolazione, ma il pronto deperimento de’ miseri figli di miseri padri, ma l’emigrazione, ma il dispettoso abbandono di una terra inzuppata di lagrime, che spopolano quelle provincie nelle quali si vegga sensibilmente mancare il popolo.

32. Se la popolazione è utile per l’aumento del travaglio che produce naturalmente, lo è ancora perché rende più sicuro e forte il paese.

I pesi pubblici non aumentano in proporzione dell’aumentata popo­lazione, ma invece la consumazione aumenta in questa proporzione: ora la consumazione accresciuta, massime interna, per il risparmio delle spese di commercio e di trasporto, aumenta il valor venale de’ prodotti, e questi prodotti son quelli che alla fine pagano i pesi pub­blici, come chiaramente si vedrà a suo luogo. Dunque, quando la quantità de’ pesi pubblici non ecceda il suo natural limite, è utile, per questo titolo, l’accrescimento di popolazione. Da ciò si vede quanto sia importante il conoscere quali siano le cause spopolatrici delle nazioni.

33. Varie sono le cause spopolatoci: altre fisiche, ed altre morali.

Fra le cause fisiche, la prima può annoverarsi essere il clima e la situazione malsana. I paesi rinchiusi tra monti, che fermino i vapori esalanti dalla terra; le terre palludose e ripiene d’acque stagnanti, sia naturalmente sia artificialmente, per alcuni generi di coltura, sono quelle in cui costantemente le malattie sono più frequenti, e per con­seguenza le morti.

L’allontanamento delle colture richiedenti acque stagnanti dalle popolazioni cittadinesche e più frequentate sarebbe un ottimo provvedimento, quando fosse sostenuto con quel vigore che il sagro moti­vo della salute pubblica richiede, malgrado le querule rappresentanze degli interessi privati. Ma il più delle volte non è necessario d’offen­dere la proprietà e l’uso libero di quella, senza del quale diventa un nome vano; per garantire dall’infezione d’un clima basta lasciare il corso più libero ai generi di nutrimento, e per conseguenza all’au­mento del valor venale di quelli, perché si veggano intorno alle città prosperare le colture sane ed asciutte. Una delle grandi opere che cambiano la faccia delle nazioni si è quella di dar corso alle inutili impaludate acque e di condurle in uttili canali, che servano di facile trasporto e di fecondatrice irrigazione, dove l’arte e la coltura lo richiegga.

Si pretende che le città grandi aumentino e conservino la loro popolazione a spese delle provincie e della campagna, avendo sem­pre bisogno esse di nuove reclute, poiché le malattie che nascono dalla troppa frequenza d’un popolo cencioso e miserabile, l’accresci­mento dei vizi distruttori, la crapola, il libertinaggio, violente per l’ad­densamento delle passioni, le passioni stesse, micidiali nel popolo, rodenti la vita e sconnettitrici con intime scosse gli elementi primiti­vi della machina nelle persone inerti e disoccupate, fanno sì che la mortalità sia maggiore nelle città che fuori, a segno che in alcuni paesi la sproporzione arriva da 25 a 43. Il buon ordine e la costanza d’alcuni provvedimenti possono rimediare in parte a queste cause spopolatrici, il che si vedrà dove si tratti dell’interna polizzia.

34. Seconda cagione fisica spopolatrice sono le malattie epidemi­che e i morbi contagiosi. Alle prime si rimedia colla perfezione e buon regolamento della medicina, ai secondi ancora colle provviden­ze economiche. La medicina si perfeziona collo studio dell’anotomia, della storia naturale, della chimica, e colla ricerca esatta delle proprietà ed azioni dei corpi, e tutte queste cognizioni non si perfezionano senza che l’esatto ragionamento e lo spirito della filosofia abbiano il primo grado di stima fra gli uomini. Le scienze tutte debbono essere protette; col premio si ricompensano le fatiche, colla speranza si animano le ricerche: ma le scienze non vogliono essere pedanteggiate. Tutta la politica del legislatore si riduce a moltiplicare i mezzi dai quali scaturisce la curiosità, a sottrarre a poco a poco la stima pregiudicata delle cognizioni inutili ed inesatte, ed infine moltiplicare gli azardi che producono gli uomini abili e valorosi. Il salutare fermento d’una discreta libertà fa cadere gli errori e ripullulare la verità meglio che tutte le prescrizioni e i precetti, che limitano l’espansiva forza degl’ingegni e raffreddiscono quel calore salutare prodotto dalla varia agitazione delle menti.

Ma la medicina più dall’esperienza che dai ragionamenti prende la sua perfezione. I fenomeni dunque a lei appartenenti non sono mai abbastanza pubblici e noti. Se dobbiamo sperare che il tempo produ­cesse un freno alle malattie, ed un limite alla mortalità spopolatrice, lo dovressimo aspettare da un regolamento che obbligasse i medici tutti a tessere una storia delle malattie che intrapprendono a curare, senza però renderli responsabili del buono o cattivo esito dei mali, fuori dei casi d’una evidente malizia o di un equivoco inescusabile, per non allontanare molti dallo studio di una scienza importante, e restringer­la in mano di pochi, il che sarebbe fatale al progresso di questa, come di tutte le altre.

Proprietà delle scienze in generale essendo che molti debbano saper male o mediocremente, perché alcuni pochi sappiano bene ed eccel­lentemente. In questa maniera avressimo un deposito d’esperienze, per cui i mali presenti servirebbero di norma e d’istruzione ai secoli avvenire. In questa maniera è nata la medicina, in questa solamente si perfezionerà. Tutte le cose ordinariamente si perfezionano, quando, invece d’alterare e di scambiare, si aiuta e si moltiplica ciò che le ha fatte produrre.

Le provvidenze economiche, poi, allontanano ed estirpano i morbi contagiosi. La peste orientale dalle salutari provvidenze dei sovrani, dalle cure assidue e vigilanti delle nazioni marittime d’Europa è tenu­ta lontana. Il vaiuolo, che decimava le popolazioni, coll’inoculazione, invenzione benefica della vanità e galanteria, è divenuto una legge­ra malattia, che previene la naturale e violenta. Tante opere eccellenti pubblicate, e le felici e tranquille esperienze, se due se ne eccettuino molto equivoche, che nella nostra città si sono fatte, assicurano della bontà di un metodo che il grido delle illuminate nazioni ha approva­to, sebbene alcuni ignoranti fremono di vedere sottratta alla loro giurisdizione una malattia sì lunga, e per conseguenza così perniciosa e sì violenta.

35. Altri disordini fisici serpeggiano nelle nazioni, e ne mietono insensibilmente la popolazione. Quanti ciarlatani, che si millantano de’ segreti, che affettano una scienza occulta e misteriosa, della quale pur troppo si è data occasione al popolo di crederne la realtà, coll’assoggettire le menti unicamente all’autorità, quasi mai alla ragione! Lasciamo stare i brevi, le false orazioni, gl’incantesimi ed altre fole che, alla crescente luce di questo secolo, svaniscono anche dalle menti le più credule e prevenute; ma qual cieca confidenza non si ha talvolta alle più vili femminuccie, a uomini erranti e però sempre sospetti, che erbe ed empiastri ci offrono da ogni parte? La mano risoluta del legi­slatore deve annichilare sì fatte imposture, di cui tanti funesti effetti si son veduti, e tante vittime si son sagrificate da se medesime alla tre­pida loro credulità. A quanti errori e a quanta ignoranza non era una volta esposta l’epoca la più pericolosa per due persone, cioè quella del nascimento d’un uomo? Una delle più sagge provvidenze che si sian date nel nostro paese si è quella di dare una istruzione regolare e ragionata alle levatrici, che prima ad una cieca consuetudine erano abbandonate.

A quale incuria, ed a quali pregiudizi la tenera infanzia non è assogettata? Il rinchiudere i bambini ed il soffocarli in un inelastico calo­re, che opprime, appassisce e ne discioglie la ancora imperfetta organizazione, e privarli dell’aria libera ed elastica, elemento sviluppatore ed animatore dei corpi viventi; imprigionare i loro corpicciuoli fra le fasce, che all’espansiva forza del loro accrescimento pongono un li­mite; il rinchiuderli e serrarli fra que’ rigidi inviluppi che chiamansi busti, che le belle forme naturali viziano e disturbano, e quel moto d’inquietudine che i fanciulli hanno dalla provvida natura ricevuto, per cui i muscoli tutti crescono di forza e di duttilità e pieghevolezza; l’alienare dal proprio seno, e dall’inimitabile vigilanza materna sottrarre i pargoletti, che ad un mercenario amore si consegnano: tutti questi errori e pregiudizi, con un grosso numero d’altri, hanno già esercitata la penna dei più illuminati filosofi, e qui basta l’averli accennati, e certamente invano, perché la luce ancor vacillante della scienza, la voce ancor fiacca e tremante della ragione, le scosse inter­rotte dell’eloquenza non bastano a disciogliere il glutine della con­suetudine e della prevenzione.

36. Le cause morali poi della spopolazione sono molto più numeio rose e difficili a togliersi. Nei mali morali è ben raro che si rimonti alle cagioni, le quali stanno inviluppate e nascoste fra le abitudini le più care e famigliari, e qualche volta fra le leggi più antiche e più rispettabili.

37. Prima causa morale spopolatrice è la barbarie e l’ignoranza. I popoli barbari ed ignoranti, privi di tutti i piaceri dei popoli colti, che dissipano e disperdono il condensamento delle passioni, le hanno vio­lenti e distruttive. Ignorano le cagioni dei mali e la sorgente dei beni, sagrificano dunque tutto ciò che ha l’apparenza dei primi a tutto ciò che sembra essere fra i secondi. Induriti ad una vita aspra e limitata ai più inesorabili bisogni, preferiscono l’ardire all’industria, il coraggio subitaneo del cuore alla lenta sagacità dell’intelletto. Giacciono oscu­re le arti tranquille e sedentarie, e le lunghe e tarde ricompense della laboriosa agricoltura sono ignorate e neglette. Le storie ci provano le nazioni barbare sempre spopolate. Le emigrazioni stesse settentriona­li provano piuttosto barbari fuggenti dalla natura distrutta per depre­dare la natura colta, che una immensa popolazione.

38. Seconda causa morale spopolatrice sono le maniere differenti delle nozze, rese più rare in diversi paesi da molte cagioni.

Prima cagione: comprende tutte quelle che diminuiscono il valore dell’industria, perché rendono impossibile al povero il mantenimento d’una famiglia. È necessario che la massima attività di un cittadino abbia tanto valore di mantenere una moglie e tre figlioli almeno, per ottenere l’accrescimento di popolazione: allora l’uomo naturalmente si abbraccia al partito, per lui consolante, di procurarsi una stabile compagna, ed un aiuto ne’ suo figli in tempo della vecchiaia. L’idea d’un piccolo impero domestico, la moltiplice e chiara idea d’una ordinata famiglia, modificano e ristringono il vulgivago istinto natu­rale. Dunque, perché le nozze siano incoraggite, è necessario che il valore minimo del massimo travaglio d’un uomo rappresenti almeno cinque alimenti giornalieri, date le differenti maniere di vivere delle differenti classi di uomini. Non ho calcolato in questo assioma il tra­vaglio delle donne, le quali, disoccupate per lo più dal travaglio, hanno le domestiche incombenze e la cura dei parti, in tutte le differenti epo­che. Ho ancora calcolati come eguali i cinque alimenti, quantunque nei figli siano minori e successivi, perché il di più serve alle crescenti ed indispensabili necessità della vita, oltre l’alimento medesimo.

Seconda cagione di rarità di nozze è la comoda vita dissoluta, che dall’accorto legislatore non sarà frenata con assoluti e diretti divieti, che la rendano più preziosa alla reattiva immaginazione, ma con osta­coli indiretti, che deviino a poco a poco dal tumulto e dal disordine verso l’ordine pacifico e la soave tranquillità delle unioni coniugali l’ardente gioventù.

Terza cagione di rarità di nozze, diciamolo arditamente, sono gli ostacoli troppo frequenti che si pongono alla libera scelta dei sogget­ti, per la creduta prudenza di avere per primo scopo le circostanze accessorie delle nozze. Io non pretendo con ciò né di rovesciare l’or­dine stabilito, né d’incoraggire l’imatura gioventù ad un nodo tanto più fatale quanto irrimediabile e pericoloso nel calore d’una passione predominante, in una età tenera ed inesperimentata: ma so bene che si possono stabilire vari regolamenti, per i quali, concessa una più libera scelta, si diano varie provvidenze, proporzionate alla distanza che passa fra le classi contraenti. Quanto poi risguarda all’impetuosa giovanil buona fede nel correre in un laccio rovinoso, suppongo il freno delle leggi e l’autorità paterna, non illimitata né capricciosa, ma fino all’età in cui l’uomo è capace di reggere se stesso e di contrapporre con maturità motivi a motivi, ragioni a ragioni.

Quarta cagione di rarità di nozze si è il soverchio lusso e la pompa superflua con cui sono celebrate nelle classi più elevate, da cui prendono esempio le inferiori: le doti divengono sempre enormi, si cer­cano le più pingui a preferenza d’ogni altra più naturale considerazio­ne, e queste rimangono esauste coll’estinguersi delle tede nuziali, invece che dovrebbero essere irremisibilmente messe a rendita per sostenere gli accresciuti pesi domestici, ed assicurar alla donna, che ha meno risorse e meno libertà del’uomo, un qualche sicuro alimento.

Quinta cagione di rarità di nozze è l’enorme disuguaglianza dei beni, originata dall’indistinta e capricciosa libertà di testare. Data la proprietà dei beni, una disuguaglianza sarebbe inevitabile nella società. Alcune famiglie s’ingrandiscono coll’estinguersi di alcune altre, e l’e­conomo e l’avaro prepara i suoi tesori al dissipatore. Le differenti situazioni contribuiranno sempre ad accrescere una tale disuguaglian­za. Aggiungo, di più, che nelle circostanze nostre presenti, nelle quali, data la proprietà de’ beni, è dato l’arbitrio ai particolari di disporre a capriccio di tali proprietà, l’imagine seducente di vivere senza trava­glio si moltiplica co’ proprietari di rendite ereditarie. È necessaria una disuguaglianza che animi ed irriti quelle passioni che scuotono la voluttuosa indolenza di chi è indipendente dai primari bisogni. È necessario che il piccolo reddituario non sia abbastanza filosofo per contentarsi della placida mediocrità del suo stato, che alla vista di un più ricco di lui s’animi d’irrequieta emulazione per pareggiarlo. È necessario che tutte le classi dei cittadini amino d’entrare nella classe superiore, che veggano ciò essere il premio della fatica e dell’industria, piuttosto che l’invidiata combinazione di fortunate circostanze. La troppa moltiplicità e bizzaria de’ fideicommissi ammucchia su poche teste, e rende perpetuo in alcune famiglie, ciò che dovrebb’essere la speranza e lo scopo di tutte, e con assidua circolazione dovrebbe accumularsi e dividersi continuamente. Una famiglia che assorbisca le ren­dite di venti famiglie comode, non fa tanto vantaggio come queste lo farebbero.

Abbiamo detto che le classi utili devon essere tanto più numerose ed incoraggite quanto più sono vicine alla classe produttrice ed alimentatrice; ora, venti famiglie hanno più bisogni che mettono in moto queste classi, che non una famiglia sola, quantunque ricca come le venti. Aggiungasi che invece la natura tende d’una famiglia a for­marne molte; i troppi vincoli posti alle terre, il consacrarle all’ingrandimento d’un nome ed al lusso svogliato d’un primogenito, tendono di molte a farne una sola. La povertà de’ cadetti serpeggia, umile ed oscura, tra l’oro e la pompa fraterna e, condannati ad uno sterile liber­tinaggio, all’ambizione del nome sagrificano i premi della fatica e del­l’industria, o si arruolano per necessità a quelle classi alle quali una matura considerazione e superiori motivi dovrebbero condurre.

39. Terza causa spopolatrice si è la troppa diffusione del celibato. Uomo intollerante, sospendi la tua collera! Io venero la santità del celibato religioso: ma sarà sempre vero che la troppa diffusione anche di questo sarà nocevole alla santità medesima d’un tale stato. Sarà sempre vero non esser questa la vocazione generale a cui gli uomini sono chiamati, che contradirebbe alla natura, che renderebbe inutili le due metà del genere umano, che delle città farebbe un claustro, delle nazioni un esercito di cenobiti. Non è dunque un’eresia condannare la troppa diffusione di questo stato, come lo sarebbe il non crederne la santità e la perfezione e la spirituale preminenza. Non è dunque una eresia l’asserire che il sovrano ha – dalla pienezza del suo potere, dal­l’inalienabile obbligo di conservare la sua nazione, dall’indipendente sua autorità, che Dio e la ragione gli hanno concesso – l’assoluto diritto di mettere un freno e limitare questo stato secondo la pruden­za e la sapienza dei motivi che lo animano.

Se questo stato si diffonde di troppo, egli diventa piuttosto appa­rente che reale; le facili e tenebrose risorse del libertinaggio compen­sano una privazione, e la natura si rivendica, ma a carico altrui, e senza raccoglierne alcun frutto. Non parlo di quel sacro celibato che nelle più auguste funzioni della religione si occupa; non parlo di quello che lontano dal tumulto seducente della frequenza si conserva, inconta­minato, fra gli appartati ritiri d’una mesta solitudine; ma parlo di quel­lo che, usurpando la considerazione dovuta al vero celibato religioso, grandeggia nella società solamente per scelta calcolatrice d’interesse, non per intima superiore spinta di motivi sovraumani. Dico che in questo caso il celibato o è religioso affatto, e le distinzioni mondane e i premi sociali sono alieni del tutto dal suo scopo, o è secolare e real­mente profano, e allora dovrebbe cedere in tutte le occasioni alla clas­se perpetuatrice; dovrebbe soffrire dei pesi maggiori, che ridondas­sero in vantaggio delle classi maritate e bisognose di soccorso. I vantaggi dei cittadini debbono essere proporzionati alle azioni utili che essi fanno nella città: principio, di cui tutte le conseguenze ci condurrebbero ben lontano.

Si è parlato delle cagioni della rarità delle nozze; ma quali saranno i mezzi onde siano incoraggite? Onde prenderà il legislatore il sacro fuoco, onde si accendano in tutte le famiglie le faci nuziali? Rispondo: la mano che solleverà l’industria e che darà il moto alle arti e alle fatiche, la stessa saggia mano che distribuirà sopra d’un gran numero di persone i mezzi di sussistenza, quella sarà che, i nodi maritali mol­tiplicando fra le occupazioni utili e proficue, sottrarrà dall’inerzia e dall’opinione gli alimenti usurpati dalla infeconda dissolutezza. Oltre di ciò, è necessario che questo stato perpetuatore del genere umano sia, fra le condizioni della vita, sopra ogn’altro onorato. Perché abban­donarlo totalmente ai sentimenti della natura o alla calcolatrice inda­gine dell’interesse, mentre taluni, senza i gravi e più sublimi motivi, per un volubile entusiasmo o per una libertina avversione ad ogni legame, osano sottrarre una serie di generazioni, che aspettano di respirar aura vitale dagli oscuri recessi dell’insensibilità ed inazione, carpiscono le distinzioni le più lusinghiere, mentre dovrebbono sovente a quella oscurità condannarsi, cui condannano una numerosa posterità? E perché, ad uguaglianza di merito, non si preferisce il cit­tadino che ha dato pegni ed ostaggi alla società, e che ne forma una parte più sensibile, all’isolato ed indipendente celibatario? Perché al cicatrizzato e benemerito soldato non si possono concedere e terre e moglie, onde in pace finire quei giorni ch’egli ha incominciati fra il tumulto, fra il sangue, fra le angoscie d’una vita durissima e le scosse alternative d’un timido onore, e dell’amor della vita? Dirassi: ove avremo i fondi, ove troveremo i premi? Rispondo: dappertutto ove sono terre che non sono d’individui; dappertutto ove son stabili­menti nei quali l’inerzia è premiata ed incoraggita, e riposa indolen­temente sull’origliere della pubblica beneficenza.

Rispettabile union coniugale, tu i popoli dalla vita promiscua ed errante richiamasti; tu dalla vista inattiva del presente alle mire perpe­tuatrici e miglioratrici del futuro l’attività degli uomini provocasti; tu il furente sentimento d’amore sotto la tranquilla dolcezza d’una soave abitudine mansuefacesti; per te la solitudine domestica, dove la dispettosa idea della nostra piccolezza, e la tormentatrice imagine dei mali che ci assediano, ci convelle e ci crucia, viene cambiata in una società dolce, intima e sicura, alleviatrice dei dolori, eccitatrice delle più tenere affezioni, adiutrice nei bisogni e nelle necessità; per te le cie­che spinte d’un bisogno predominante vengono rallentate ed ordina­te sotto il freno delle leggi e sotto l’ordine sociale, ed il furore delle esclusive passioni, che isolano gl’individui dalle mire comuni, è pre­venuto e impedito; per te la fervida gioventù rientra in se medesima, e riordina le proprie idee, e calma ed equilibra il sobbollimento delle proprie affezioni; per te il vecchio cadente, da cui tutta la natura si stacca e si allontana, trova nell’antica compagna una imagine ed un ricordo de’ primi anni suoi, e li piange e si consola. Oh, umile padre di famiglia; oh, artigiano incallito nell’affumicata tua officina, io rispetto il tuo rozzo abituro: egli è il tempio dell’innocenza e dell’o­nestà. Quando, tergendo il sudore dalla fronte, dividi un ruvido pane a’ tuoi figli, ai figli dell’industria e della patria, che levano le tenere loro mani per ricercartelo; quando io contemplo l’amorosa sollecitu­dine della tua fedele compagna, acciò la semplicità del governo tuo domestico ti sia leggera ed utile, allora io mi risveglio dall’ammira­zione che in me destava la contemplazione del sequestrato cenobita, che ha saputo trionfare della natura e società, che con sì potenti invi­ti a sé lo richiamavano.

40. Quarta causa di spopolazione si è quella sorte di lusso che ali­menta le classi meno utili a spese di quelle che più lo sono, quelle spese che attaccano la produzione nella sua sorgente, che sottraggono quella ricchezza primitiva che serve di fondamento alla coltura, ed è necessaria a perpetuare la riproduzione. Ma di ciò si parlerà più in dettaglio ove tratteremo dell’importante articolo del lusso: materia difficile, non per altro, se non perché la maggior parte de’ scrittori hanno mancato di analizzare la mutabile e complicata di lui natura.

41. Quinta causa spopolatrice sono le emigrazioni. Queste da varie sorgenti sono prodotte. Dalla mancanza di sussistenza e di travaglio, sia assoluta, sia relativa, cioè quando popolazioni intere fossero costrette a sostituire ad un travaglio più facile uno più penoso e difficile immediatamente: è inutile di parlarne, tutta la scienza ne deve fornire i rimedi. Dalla grandezza eccessiva, o dalla odiosità con cui sono levati i tributi: e di ciò sarà parlato nel trattato delle finanze. Dalle leve troppo grandi e troppo indiscrete de’ soldati. È necessità indispensabile per la nazione d’essere armata; egli è un sacro dovere di tutti i cittadini di vegliare alla conservazione del sovrano, delle leggi, della forma stabilita di governo; ma vi dev’essere una propor­zione tra il numero dei soldati e la popolazione. Egli è difficile il fis­sare la vera con precisione; basti per ora il sapere che i politici fissano come ragionevole quella di 1 e 1/2 sopra 100, onde, in una popolazione di 1.200.000 uomini, per esempio, lo stato militare dovrebb’essere di 18.000 uomini.

La vita militare è sterile necessariamente. La durezza della vita, la modicità della paga, la mobilità della dimora, rendono lo stato di famiglia quasi incompatibile con quello stato. Sembra che gli oziosi e i vagabondi dovrebbero essere i primi soggetti alla leva militare, avanti che all’artigiano dalla sua officina, all’agricoltore dall’aratro, e ad ambidue dal seno delle famiglie desolate fosse permesso di sottrar­si, ne’ momenti d’ubriachezza e di momentanea seduzione. Ma tutto ciò che potrebbe dirsi intorno alla maniera di reclutar soldati senza violenza, spesse volte necessaria in un genere di vita dove i più gran rischi alle più grandi fatiche sono riuniti, mi devierebbe troppo dal mio soggetto.

42. Sesta causa di spopolazione si è l’accrescimento delle città a spese della campagna e delle arti di quella. Il sovverchio ammucchia­mento degli uomini rende più cari i mezzi di sussistenza; mezzi di sus­sistenza più cari significano che una maggiore quantità di travaglio rappresenta un minor numero di alimenti di quello che dovrebbe rap­presentare. Allora si abbandonano le arti utili e produttive, e gli uomini corrono nelle città, dove le arti dell’ozio e dell’intemperanza somministrano facili e grandiose ricompense. Dunque, mancati i mezzi di sussistenza, crescerà l’apparente popolazione, diminuirà la vera e reale.

43. A queste annoverate si possono ridurre le principali cause spo­polatoci. Si sono indicati strada facendo molti rimedi; ciò che ci resta a dire riguardo a questi sarà detto più opportunamente nelle altre parti di questi Elementi. Ora solamente, dovendoci affrettare a parlare con qualche dettaglio dell’agricoltura in quanto ella riguarda l’economia pubblica, ci basterà di riflettere che ogni paese deve conoscere la quantità della sua popolazione, sia in generale, sia in dettaglio, più esattamente che sia possibile. Dico in dettaglio, perché un tale detta­glio indica le disuguali distribuzioni, le quali, se non sono proporzio­nate alle circostanze fisiche del territorio, ma solamente in grazia di leggi parziali, non fanno che caricare una parte a spese d’un’altra, e con ciò determinare la maggior quantità di vantaggio che potrebbe ricavare uno stato dal fondo totale della propria industria e del proprio terreno. Col dettaglio della popolazione si arrivano facilmente a conoscere le cause particolari spopolatoci per rimediarvi, il che invano si ricercherebbe dalla vaga e generale notizia della totale popolazione.

44. In varie maniere può determinarsi la quantità di popolazione d’uno stato. Primo: per l’attuale enumerazione, la quale sarà tanto più inesatta quanto la provincia sarà più estesa. La trascuranza è inevita­bile in tutte le persone che non agiscono per proprio interesse; le negligenze inevitabili delle persone incaricate si moltiplicano col numero delle persone medesime; moltissimi particolari hanno inte­resse di celarsi; molti corpi lo fanno per instituto, molte provincie lo fanno per politica e per timore, sovente ingiusto, per cui credono importante di essere stimati miserabili e pochi. In una gran provincia molti sono gli assenti, quelli che vanno e vengono, i quali variano considerabilmente la popolazione. Io indico tali difficoltà meno per farle credere insuperabili che per indicare i punti di vista per evitarle.

Secondo: dallo stato delle anime che si tiene dai parrochi. Gli ecclesiastici campano in parte sulle epoche fondamentali della vita umana: nascita, matrimoni e morte. Essi hanno dunque un massimo interesse di sapere il vero numero componente questo ramo uberto­so di loro giurisdizione. Essi per conseguenza ci possono sommini­strare le più esatte notizie, e lo potrebbono molto di più quando que­st’importante incombenza di padri e di pastori fosse appoggiata a persone d’una sufficiente coltura ed obbligati dall’autorità del princi­pe, padre dello stato e protettore supremo della religione, e tenessero questi registri non secondo la mera eventualità, ma distintamente ed ordinatamente.

Terza maniera: si può calcolare ne’ paesi dove sia capitazione. Nel nostro paese vi sono le teste censibili per la campagna, per i soli maschi, dai quattordici anni sino ai sessanta. Per ogni testa bisogna computare, oltre di quella, due donne, un vecchio e tre ragazzi tra maschi e femmine: gli uni per gli altri fanno in tutto sette persone. Dunque, moltiplicando per sette il numero delle teste censite, avre­mo appresso a poco il novero della popolazione della campagna e parimente le teste censite de’ luoghi particolari.

Quarta maniera: si numera la popolazione numerando le case o fuochi, come si suol dire; ad ogni fuoco si vogliono assegnare, l’uno per l’altro, cinque persone.

Quinta maniera: dalla quantità di consumazione universale d’un particolare prodotto. Il calcolo è più incerto se parte di un tal pro­dotto si estrae, ancora che siavi un dazio su tale estrazione, perché i contrabbandi considerabili lo rendono equivoco. Lo è ancora quan­do, oltre la consumazione universale, egli soffre manifatture e consu­mazioni particolari, per il lusso e capriccio delle persone comode.

È bene di calcolare in tutte queste differenti maniere colla maggio­re esattezza la popolazione, perché un metodo rettifica l’altro, perché questi calcoli servono di base a tutte le particolari operazioni econo­miche, e formano gli elementi della così detta aritmetica politica, la quale sola può render utili ed applicabili le teorie della scienza economica. Quando per queste differenti strade si sia arrivato appresso a poco al medesimo risultato, possiamo essere sicuri della popolazione d’un paese. L’ultima precisione nelle masse grandi non è possibile né importante nella quantità, ma è altrettanto necessaria nella qualità, perché a ogni menoma differenza di quella non cangia la natura degli effetti, ma ogni menoma differenza di questa è un punto di divergenza verso una nuova serie di cause e di effetti.

45. Avendo ritrovato in un libro francese, peraltro di poca impor­tanza, intitolato Principes d’un bon gouvernement, stampato in Berlino l’anno passato, una nota assai interessante compilata su diversi autori intorno a diverse proporzioni fra la nascita, matrimoni e morte, ho creduto opportuno di tradurla, e di aggiungerla in questi Elementi. Essa può servire di base a molte ricerche, e ci confermerà nella mas­sima che l’azardo è una parola vota di senso, solamente relativa alla nostra ignoranza delle cause, e che ciò che noi chiamiamo eventua­lità e fortuna sia soggetto a regole costanti e periodiche, fissate dall’ordine eterno e dalla suprema provvidenza d’un Dio regolatore.

Il rapporto de’ morti a quelli che restano in vita in un anno è alla campagna 1 : 42 o 43, o sia 1/42 ad anno comune, prendendo dieci anni misti di buoni e cattivi, come 1 : 38 4/10, o 1/38 circa; nelle pic­cole città 1/32, ed a Berlino 1/28; nelle grandi città come Londra, Roma, ecc., 1/24 o 1/25. Nelle provincie intere questo varia, si può prendere come un rapporto mezzano 1/35 o 1/36.

Il rapporto de’ matrimoni al numero degli abitanti in un anno ha una gran varietà, perché in alcuni paesi si fa un matrimonio su di 80 persone, e in altri non ve n’ha che 5 sopra 100 a 115. Nelle piccole città della Marca di Brandeburgo si fa un matrimonio sopra 98 perso­ne; a Berlino sopra 110; alla campagna sopra 108; a Londra, 1 : 106; nelle piccole città d’Inghilterra, 1 : 128; in Svezia 1 : 126; in Olanda 1 : 64, il che non si può attribuire che alla facile sussistenza che il commercio vi procura.

Il rapporto dei matrimoni ai bambini per tutta la durata del matri­monio è, assai generalmente, nelle provincie grandi di 1 : 4, o sia di 10 : 41, benché vi sia qualche differenza secondo i luoghi e i tempi. Non si osserva che la campagna abbia del vantaggio, a questo riguar­do, sulle città.

Il rapporto dei bambini ai viventi durante un anno è nei villaggi d’Olanda 1 : 23 1/2, o 1/24. In quindici villaggi vicino a Parigi, 1 : 22 7/10 ; in 20 città del Brandeburgo, 1 : 24 4/10; in Svezia, 1 : 28 1/2, 20 o 1/29; in Inghilterra, 1 : 28 95/100 o 1/29, secondo King, e secondo Short 1 : 29 1/2, quasi 1/30; in 1.098 villaggi del Brandeburghese 1 : 30; a Berlino 1 : 28; a Roma 1 : 31 4/10. La varietà essendo di 1/22
a 1/30, sarebbe difficile di volere stabilire una regola generale. Il rapporto medio potrebb’essere di 1 : 26 o 28.

Per il rapporto dei bambini alle famiglie, si consideri che i vedovi e le vedove continuano a governare le loro famiglie, e che perciò vi sono più famiglie che matrimoni. Secondo Short, una famiglia è composta di 4 4/10 persone alla campagna, o sia in 10 famiglie 44 per­sone, e nelle città due famiglie consistono in 9 persone; secondo King fra le persone del comune è composta di 3 1/4 1/4, fra le persone di con­dizione di 5 1/3, e in generale l’una per l’altra di 4 1/13, o sia 53 persone in 13 famiglie.

Il rapporto dei bambini alle famiglie è di 10 : 65 nelle città, ed alla campagna di 10 : 67; generalmente, di 10 : 66. Il rapporto di quei che muoiono ai bambini in un anno è di 10 : 12, o 13, o anche 100 : 120 : 130; d’onde ne nasce l’aumentazione del genere umano, che in meno di 100 anni potrebbe andare al doppio, se non vi fosse­ro al mondo diversi ostacoli al suo accrescimento. Nascono in gene­rale, secondo l’autore, più maschi che femmine: 21 maschi sopra 20 femmine, o 26 maschi sopra 25 femmine: ciò che fa vedere che la poligamia è contraria alle mire della natura. Ecco ancora un rapporto che merita l’attenzione di quei che governano, cioè dei ragazzi che muoiono nel seno delle lor madri a quelli che muoiono presso le nutrici. Secondo l’autore de Gl’interessi della Francia male intesi, è di 3 : 5, ciò che è confermato da Deparcieux.

A queste notizie credo sarà utile di soggiugnere una tavola della probabilità della vita umana, cioè, data l’età di ciascun uomo, sapere quanti anni può sperare ancora di vita. Questa tavola è cavata dal libro di Mr Deparcieux su questo argomento.

tabella-BECCARIA-Elementi

I numeri 1, 2, 3, ecc., fino al cento, nel margine, denotano le età per tutte le altre colonne. La larghezza di ciascheduna delle gran colonne è sudivisa in tre altre. I numeri della prima di queste tre colonne deno­tano la quantità delle persone che restano ad ogni età; exempli gratia, secondo Mr Kerseboom, di 1.400 fanciulli nati non ve n’ha che 1.125 che arrivino all’età d’un anno completo, 1.075 all’età di due anni, 964 a quella di cinque, ecc. Secondo l’ordine stabilito, a norma della lista delle tontine, di 1.000 reddituali che hanno l’età di tre anni, ne muoiono 30 il primo anno, 22 il secondo, e così in seguito; quindi non ne restano che 948 all’età di cinque anni, 880 all’età di dieci, 734 a quella di trenta, ecc. Si può dunque scommettere 726 contro 8, o 90 1/4 contro 1, che un reddituario dell’età di trent’anni non morrà nello spazio d’un anno, perché di 734 reddituali dell’età di trentan­ni ve ne saranno 726 che faranno guadagnare, e 8 che faranno perde­re. Pare che si potrebbe, col mezzo del sopradetto esempio, serven­dosi dell’ordine di mortalità di Mr Kerseboom, trovare la scommessa che si può fare sopra le età d’un marito e di sua moglie. Non si allon­tanerebbe dal vero per gli abitanti della campagna. Ma nelle città le donne sono un poco più esposte degli uomini, fin ch’elleno sono in età da aver figliuoli, perché, non allattandoli, gli accidenti prodotti dal latte producono in loro delle gran rovine, ne fanno morir talune, o indeboliscono considerabilmente il temperamento delle altre.

La terza colonna di ognuna delle due grandi contiene la vita media delle persone di tutte le età, cioè il numero d’anni residuo di vita d’o­gnuno, uno compensando l’altro: exempli gratia, secondo Kerseboom, le persone d’età d’anni cinquanta hanno ancora a vivere anni 17 e 5 mesi. Ecco la regola per trovare la vita media di 118 reddituari ottua­genari. Si sommino insieme tutti i numeri delle persone che restano in vita ogni anno, cominciando da quello di cui si cerca la vita comu­ne, inclusive fino all’ultimo; nel caso proposto, si sommino i numeri 118, 101, 85, ecc. La somma, che sarà 612, si divida per 118: il primo di quelli che si sono sommati, che è il numero del problema, ed il quoto, che sarà 5 anni e 2 mesi, dai quali detratti 6 mesi, il residuo, 4 anni e 8 mesi, è la vita media comune ricercata. Si levano 6 mesi dal quoto, perché con questa maniera di calcolare si suppone che tutti muoiano al fin dell’anno, in vece che si deve supporre che muoiano alla metà: si sono perciò computati 6 mesi di più, che vanno levati dal quoto, fatta la divisione.

La Tavola di Mr Kerseboom serve per tutti indistintamente, poiché, oltre le osservazioni fatte sopra le liste delle tontine e rendite vitalizie, si è servito dei lumi comunicatigli dai letterati d’Inghilterra, oltre moltissime riflessioni fatte sopra le liste di mortalità dell’Olanda, Francia, e d’una porzione della Germania; può dunque servire di norma generale, quando il clima non facesse nascere nuove difficoltà ed inesattezze.

La Tavola di Mr Deparcieux serve per i reddituari vitalizi, i quali in pari numero muoiono più tardi degli altri, perché, primo, i paren­ti che danno denaro a censo vitalizio in testa d’un loro ragazzo, fanno l’investita per quello che è di miglior complessione, e generalmente quelli che sono d’una salute delicata vivono meno degli altri. Secondo, quelli che fanno investite in testa propria, non la fanno se temono di malattia. Terzo, quelli che danno danaro a censo vitalizio non sono né i gran signori, né i miserabili, la salute de’ quali è in cat­tivo essere, per lo più in un’età avanzata, de’ primi per troppa abbondanza, de’ secondi per troppa indigenza; ma sono i buoni cittadini che hanno un’onesta mediocrità fra questi estremi.

L’autore, da 3.700 ragazzi nati a Parigi, ha trovato che la vita comune è di anni 21, mesi 4, compresi gli aborti, e, non compresi questi, d’anni 23, mesi 6. Dalla parte di Laon la vita media de’ ragazzi è di 37 anni; di anni 41 nella bassa Linguadoca. A Parigi i bambini delle persone comode muoiono meno di quelli del basso popolo. I primi prendono le balie in Parigi o nei contorni, sempre a portata di vedere i loro figliuoli; ma il popolo minuto, non potendo far questa spesa, non li vede che quando sono slattati. In generale ne muore più della mettà a balia, il che deriva in gran parte dal difetto di cura di que­ste donne. Sia il lor latte cattivo, vecchio o insufficiente, o che si slat­tino i bambini troppo presto, o dando porzione del loro latte ai pro­pri figliuoli, pregiudicano a quelli per cui sono pagate, essendo i parenti troppo lontani per abbadarvi. A questo non vanno soggetti i figliuoli di quelle madri che, vivendo alla campagna, allattano i propri figli. Ma nei contorni di Parigi i figli della povera gente vivono in generale meno che nelle provincie lontane. Le madri de’ contorni di Parigi fanno il mestier di balie, slattano i lor bambini in capo a cinque o sei mesi, li ammazzano per così dire e lor guastano il temperamen­to non lasciandogli il naturale nutrimento per tutto il tempo necessa­rio, sostituendovene uno che non è a portata del loro stomaco, ancor troppo debole per digerirlo, o che non digeriscono che con fatica.

Dipende singolarmente da questo punto principale la longevità della vita. Nelle provincie lontane gli uomini sono robusti e vigoro­si, e faticano comunemente con egual forza e coraggio all’età di set­tanta o ottant’anni, che ne’ contorni di Parigi all’età di cinquanta o sessant’anni. Là gli uomini grandi e ben fatti son tanto comuni che gli uomini piccoli e mal sani ne’ contorni di Parigi. Egli è vero che ci son molte donne che, per il loro stato o per naturale impossibilità, non possono allattare i propri figli. Ma ve ne sono altresì molte alle quali non doverebbe esser permesso di confidarne la cura ad altre. V’ha anzi in ciò un difetto di tenerezza, che fa vergogna all’umanità. Ogni altro dovere non dovrebb’egli cedere a questo, nel cuor delle madri tenere ed affettuose? I doveri del rango, o le ragioni d’interesse, sono elleno in Francia, e sopra tutto a Parigi, d’un’altra specie che in Germania, in Olanda, in Inghilterra, ecc., dove quasi tutte le donne, fin quelle della maggior distinzione, allattano i propri figliuoli? Nel 1743 la Principes­sa di Nassau, figlia del re d’Inghilterra, allattava ella medesima la Principessa d’Oranges sua figlia, ed il Duca d’Orléans, reggente, era stato allattato da madama Principessa Palatina, sua madre: esempi così lodevoli e così rispettabili non doverebbero essere più imitati che non sono? Le donne sono elleno meno madri in Francia che ne’ sudetti paesi? E se si trovano di quelle alle quali questo titolo rispettabile non ispiri tanta tenerezza che basti per far loro adempire il primo ed il più caro di tutti i doveri, sarà biasimabile un’esatta polizia che vi dasse provvedimento? Ne risalterebbero di molti vantaggi; le madri ed i figliuoli sarebbero reciprocamente più attaccati e godrebbero d’una miglior salute; elleno ne averebbero meno, e ne allevarebbero di più, e lo stato averebbe più sudditi.

Mi sono diffuso sopra le vite medie, perché è troppo generalmen­te dilatato il pregiudizio che la vita comune de’ bambini in generale è molto minore; gli uni la dicono di 14, altri di 15, ed altri di 16 anni. Il mondo non riceve impressione che per quelli che muoiono, sopra tutto se sono reddituari vitalizi, perché alla morte di ognuno di que­sti si grida che lo stato guadagna a far delle rendite vitalizie: non si abbada mai a quelli che godono d’una rendita vitalizia durante ses­santa e ottant’anni e più, il che non è così raro come si suppone. Ma non si vuole abbadare a quelli che vivono un pezzo: si teme in ciò, come in tutte le altre cose, di trovar delle ragioni che distruggereb­bero i pregiudizi adottati.

Mr Deparcieux soggiunge che dalle moltiplicate osservazioni fatte sopra i necrologi comunicatigli da diversi ordini religiosi, risulta che generalmente i religiosi vivono ora più lungamente che altre volte, e che le monache vivono più dei frati; il che sembra confermare quel­lo che dice Mr Kerseboom, che un numero qualunque di donne vivo­no più, tra loro, che un pari numero d’uomini, secondo la proporzio­ne di 18 a 17. Ei dice che tutte le donne che nascono in un luogo vivono quanto gli uomini. Ora, il numero de’ maschi che nascono in un luogo durante un lungo periodo d’anni s’è al numero delle fem­mine come 18 a 17 incirca, come si è osservato in Inghilterra, e si può vedere alla fine della seconda edizione dell’Analisi de’ giuochi d’azzardo di Mr di Montmor. Ma, se egli è vero che tutte le donne insieme vivano quanto tutti gli uomini, le loro nascite essendo a quelle degli uomini come 17 a 18, bisogna che la lor vita media sia a quella degli uomini come 18 a 17. Tutto il mondo crede che l’età di quaranta a cinquant’anni sia un tempo critico per le donne: non so se egli lo è più per loro che per gli uomini, o più per le donne del secolo che per le religiose; ma, in quanto a queste ultime, non se ne accorge, con­frontate le liste della loro mortalità con quella degli altri.

Mr Deparcieux ha osservato ancora che sul principio i religiosi e religiose muoiano meno che i secolari, ma, quando arrivano all’età di quarantacinque in cinquant’anni, muoiono molto più presto; e ciò deve esser così per tre ragioni. Prima: i claustrali sono molto meglio scelti de’ reddituali, ed oltre alla visita, sono obbligati sotto scrupolo di coscienza a dir se credono d’avere qualche malattia segreta, ed il noviziato serve tanto ai superiori per provare la salute ed il tempera­mento de’ novizi, quanto a questi ultimi per provar la regola. Secon­da: quando i claustrali hanno passato un tempo di quindici o venti anni, la loro salute comincia ad alterarsi per le astinenze, digiuni, fati­che, e, più di tutto, per la mancanza di cura esteriore del loro corpo, di cui la maggior parte non si piccano gran fatto. Terza: quelli che un buon temperamento fa arrivare ad un’età un po’ più avanzata, potrebbero andar più oltre, se avessero nei conventi mille piccole dol­cezze che non hanno, e che i secolari trovano a casa loro: non sola­mente i ricchi, ma quelli ancora che non sono che mediocremente agiati, ed infino i semplici artigiani che sappiano tenere un buon siste­ma di economia.

Avendo Deparcieux paragonato gli ordini di mortalità de’ religiosi e quelli de’ reddituari con quello di Mr Kerseboom, rilevò essere un pregiudizio il credere che i claustrali vivano più de’ secolari. Scelti come sono, dovrebbero vivere molto più, o aver le lor vite medie molto più lunghe di quelle de’ reddituari: ma infatto sono più corte. Nasce questo errore dal non giudicare che dalle apparenze. Vi sono a dir il vero de’ vecchi claustrali, ma molto meno che non si crede: questo è un fatto che non si può porre in dubbio, senza negare l’e­sattezza de’ loro necrologi.

Secondo l’ordine di Mr Kerseboom, se si supponga che nasca in una città 1.400 fanciulli in un anno, e che in essa né entri, né esca alcuno, vi saranno 1.125 ragazzi d’un anno, 1.075 di due, 1.030 di tre anni, ecc. Sommati questi numeri assieme, l’aggregato 48.956 sarà la quantità di persone d’ogni età che che sono in questa città. Ma sicco­me ne muoiono ogni anno quanti ne nascono, cioè, di 1.400, 275 il primo anno di fanciullezza, 50 nel secondo, 45 nel terzo, e così in seguito, come è notato nella colonna de’ morti, dividendo come sopra la somma 48.956 per ciò che ne nasce e ne muore ogni anno, il quoto 35 dà a divedere che nasce e che muore ogni anno la 35a parte degli abitanti di questa città. Se da questo quoto 35 se ne diminuiscono sei mesi, si averà di nuovo la vita media, come per l’avanti. Suggiunge il Deparcieux che si suppone che il numero de’ nati eguagli ogni anno quello de’ morti, perché, quantunque perisca tutto quello che nasce, è fuor di dubbio che il numero delle persone viventi anderebbe aumentandosi, se non succedessero tratto tratto degli accidenti, come guerra, peste, fame, e simili mali che diradassero gli uomini. Si aggiun­ge, per i paesi cattolici, l’aumento che produrrebbero tutte le figlie che si chiudono ne’ conventi, se elleno si maritassero in luogo di farsi monache, e seppellire con se stesse anche la loro posterità; e ciò nono­stante, quando la pace dura un pezzo, non si mandano delle colonie a popolare altri paesi? È dunque vero che in un tempo uniforme il mondo deve andare aumentandosi, ovvero che i nati ogni anno devo­no superare i morti. Ma la differenza che questo aumento recherebbe alla conseguenza che si cava dalla accennata supposizione, può essere riguardata come niente per il soggetto di cui si tratta, poiché tutto ciò non deve essere riguardato che come un appresso a poco.

Nelle città grandi, come Parigi, Lyon, Rouen, Bourdeaux e le altre città commercianti nelle quali v’è sempre un gran concorso di gente, il numero de’ morti è minore che nelle città piccole, perché, supposto che nelle città piccole ne muoia 1/35, come si vede nell’ordine stabi­lito della mortalità dal Kerseboom, ne morrà al più 1/40 nelle città grandi, per due ragioni. Prima: v’ha continuamente in queste città una quantità considerabile di persone che viaggiano, sia padroni, servitori, operai, che non vi rimangono che un dato tempo, e quindi se ne ritor­nano a casa loro, o altrove. È vero che durante il loro soggiorno la morte può coglierli egualmente che i propri abitanti, ma si rifletta che quelli che viaggiano lo fanno in quelle età nelle quali è minore la mor­talità: non si viaggia ordinariamente prima de’ quindici o diciotto anni, e si esce poco fuor del proprio paese dopo i quaranta o cinquanta; sic­ché i viaggiatori d’ogni sorta vanno nelle città grandi dopo aver passa­ta la mortalità dell’infanzia, e se ne ritornano prima che arrivi la mor­talità della vecchiaia; d’altronde quelli che viaggiano sono quasi tutti persone che sono in buono stato di salute. Seconda: la più gran mor­talità succedendo sempre ne’ bambini, succede che in Francia ella è molto minore nelle città grandi (in proporzione di quello che dovrebb’essere) che altrove, perché si mandano ad allattare i bambini quattro, sei e dieci leghe lontano, da dove non si richiamano che all’età di due, tre o quattro anni, e allora ne son morti più della metà, per le ragioni sovrallegate. Questo numero si trova rimesso da altrettante, più o meno, persone che abbandonano la campagna per venire a stabilirvisi, la maggior parte operai o servidori d’ogni sesso, che arrivano all’età di quindici o diciotto anni dopo essere evasi in casa propria alla mortalità dell’infanzia. Quindi ne segue che le città grandi scarseggia­no di persone dalla nascita fino all’età di quindici o diciotto anni, in proporzione di ciò che ve n’ha nelle altre età.

Il parroco di San Sulpizio di Parigi ha fatto stampare lo stato de’ battezzati e de’ morti dal 1715 fino al 1744. Si vede da questo stato che nello spazio di trent’anni son morte in quella parocchia 17 donne nubili, maritate e vedove, all’età di cento anni, e solamente cinque uomini; sono morte 126 donne e solo 49 uomini al di là de’ novant’anni: le donne vivono dunque più lungamente degli uomini.

Il numero totale degli uomini d’ogni stato è minore di quello delle donne di 934; vi sono, avanti l’età di dieci anni, 996 fanciulli morti più che figlie; e più giovani scapoli morti fra i dieci e venti anni, che figlie1 o donne. Non sembra dunque che questa età sia più critica per i giovani che per le figlie. Vi son 10.137 donne, 8.751 uomini morti dopo i trent’anni; se il numero delle donne morte ad ogni età in par­ticolare fosse proporzionale a quello degli uomini, riguardo alle due somme totali 10.137 e 8.751, che restano a morire dopo i trent’anni, doverebbero esservi 2.556 donne morte dai trenta fino ai quaranta­cinque anni, e non ve n’ha che 2.315; doverebbero esservene 3.042 dai quarantacinque fino ai sessanta, e non ve n’ha che 2.442. Se si deve giudicare adunque da questo stato, l’età de’ trenta e sessant’anni è più critica per gli uomini che per le donne. Il numero totale degli uomini scapoli morti è maggiore di quello delle figlie, perché vi son più giovani che non si maritano che figlie; di più, la cura di San Sulpizio è piena di case grandi, in cui vi sono molti servidori tanto maschi che femmine nubili.

Si vede, da questo stato dell’anime del curato, meno uomini mari­tati morti che donne maritate, perché vi son ben più uomini che si maritano due e tre volte, che donne; i primi sono molto più soggetti delle donne a trovarsi vedovi in un’età poco avanzata, a cagione delle conseguenze de’ parti, e perché eglino trovano più facilmente da rimaritarsi che le donne vedove, sopra tutto se sono cariche di figlio­li: anzi si vedono più donne vedove, che vedovi. Vi son più donne che uomini maritati morte prima de’ vent’anni, per due ragioni: primo, perché si maritano più figlie che giovani prima dei vent’anni; secondo, le conseguenze de’ parti sono, come s’è detto altre volte, funestissime alle donne che non allattano i propri figliuoli. Le due medesime ragioni sussistono fino ai trenta e quarantacinque anni. Il numero degli scapoli morti dopo i vent’anni è un po’ più della metà della somma degli uomini maritati e vedovi morti dopo la medesima età; non v’ha che 6 scapoli, e 3 mariti e vedovi che abbian passato i novant’anni; il numero delle figlie morte dopo i vent’anni è quasi il numero quarto della somma delle donne maritate e vedove morte dopo la medesima età. Non ci son però che 14 figlie, ma 112 donne che abbian passati i novant’anni: sembra dunque confermarsi quanto ho detto di sopra, che si vive più nel matrimonio che nel celibato. In trent’anni sono stati battezzati nella parocchia di San Sulpizio 69.600 bambini, de’ quali 35.531 maschi, e 34.069 figlie, il che è appresso a poco come 24 a 23.

Dal 1720 in poi si battezzarono ad anno comune in Londra 17.600 bambini all’anno, e muoiono 26.800 persone. Dagli stati dell’anime delle parocchie di Parigi si rileva che si battezzano in questa città un anno per l’altro 18.300 ragazzi, e muoiono 18.200 persone. Il nume­ro de’ forastieri è appresso a poco eguale nelle due città; ma a Lon­dra le madri allattano i propri figlioli, e per questo si ha in generale la mortalità di quelli che vi nascono e di quelli che vengono a stabilirvisi, in luogo che a Parigi, le madri non allattando i loro bambini, non si ha la mortalità di quelli che muoiono a balia, e di questi il numero è grande.

Parte seconda.
DELL’AGRICOLTURA POLITICA

1. Sarebbe inopportuno di qui ripetere gl’inni e gli elogi che i più grandi scrittori hanno tessuto in favore dell’agricoltura. Basterà al politico, per apprezzarla, incoraggirla e promoverla, il conoscerne l’u­tilità e la necessità per l’opulenza degli stati, il sapere che gli utili ch’ella produce sono i più durevoli contro l’urto de’ secoli e contro le vicissitudini delle politiche combinazioni, e che questa sorte di tra­vaglio ha per base la costanza della natura, e gli altri l’incostanza degli uomini. Basterà, al saggio ed al filosofo, per amarla e studiarla, il con­siderare la natura d’una tale occupazione. La moltiplicità delle di lei operazioni è sempre animata e sostenuta da sempre nuove e lenta­mente crescenti utili produzioni. Mille sentimenti aggradevoli si ecci­tano in noi nel nutrire ed educare sostanze dalle quali trapela un debolissimo raggio di vita, e che coronano con un premio certo e non rimproverato la dolcezza ed indipendenza delle sue occupazioni. Ivi si riunisce il doppio vantaggio del manuale e corporeo esercizio nel­l’aria libera ed aperta, che conserva un’allegra e pacifica sanità, con quello di esercitar la mente in sempre nuove combinazioni, e di spin­gere il pensiere indagatore nelle segrete e magistrali strade della natu­ra. Finalmente può egli esercitar la sua beneficenza sull’innocente e tranquilla popolazione de’ campi e fra i compagni della sua fatica, fra quelli che sotto la sua direzione sudano sui pesanti vomeri al cocente raggio del sole, dividere il frutto della sua industria e ricreare le umili generazioni degli uomini nella pace, e lontano dal vortice inquieto delle città.

2. Sarebbe un escire dal mio instituto il qui dare i precetti fisici dell’agricoltura, i quali richiederebbero una cattedra a parte, e, ben più di questa, una non interrotta serie di diligenti sperienze e ricer­che. Innumerabili libri sono stati scritti su questa materia, pochi sono che meritino d’esser letti, e ben più pochi che siano addattati alle comuni circostanze. Fra gli antichi, Catone, Varrone, Collumella, Palladio; fra i moderni, vari, in varie nazioni. Ma la maggior parte di questi hanno piuttosto osservata che tentata la natura, ed hanno piut­tosto indagati gli ultimi suoi risultati che le primitive sue operazioni nel produrre i vegetabili. Essendo longhi i periodi della loro riprodu­zione, e moltiplici le varietà delle circostanze delle terre, e i climi, si trovano moltiplici e contradittori precetti fra gli scrittori, e si è gene­rata una diffidenza anche maggiore del bisogno ne’ coltivatori, onde quest’arte e questa scienza, primogenita delle altre, fu abbandonata alla cieca e lenta pratica, ed alla limitata sagacità dei più rozzi agricol­tori.

Fra i moderni però non sono mancati eccellenti uomini che si sono sforzati di cercare le strade generali e i più segreti processi della natu­ra nella vegetazione: Hales nella Statica dei vegetabili, Thoul nel suo Nuovo sistema, Hume nei Principii della vegetazione, Bonnet nelle sue Osservazioni sopra l’uso delle foglie, Du-Hamel poi in tutte le eccellenti sue opere d’agricoltura, l’hanno assoggettata alla fisica, alla mecca­nica ed alla chimica, dalle quali scienze può solo acquistare la sua per­fezione, ed ingrandire le sue viste col mezzo de’ filosofi coltivatori, per passar poi alla imitatrice pratica de’ contadini, i quali dalle sole e ripetute esperienze possono essere ridotti al penoso cangiamento degli abituali loro metodi d’operare.

3. Nostro scopo è solamente d’indagare i mezzi onde l’agricoltura si perfezioni e si animi, qual influenza abbiano nell’opulenza degli stati le diverse produzioni di essa, qual proporzione debba passare fra le produzioni diverse delle terre e le arti e professioni degli uomini, come debbano esser dirette le sovraccennate produzioni, e quali siano, e come devano essere rimossi, gli ostacoli che si oppongono all’agricoltura medesima.

Per agricoltura politica noi intendiamo la direzione delle cinque arti primitive del genere umano, dalle quale le altre tutte scaturisco­no, cioè agricoltura, pastorale, pesca, caccia, metallurgia. Noi comin­cieremo dalla prima, come dalla più interessante.

I. Degli ostacoli che si oppongono alla perfezione dell’agricoltura, e dei mezzi di levarli

4. Nelle cose tutte nelle quali l’interesse nostro è complicato, non è necessario di far niente altro che di rimovere gli ostacoli che si oppongono allo sviluppamento di questa forza primitiva dell’animo nostro.

L’interesse comune non è che il risultato degli interessi particolari, e questi interessi particolari non si oppongono al comune interesse se non allorché vi sieno cattive leggi, che li rendano contradittori tra di loro; ma nelle cose verso le quali siamo da una parte spinti dal biso­gno, e dall’altra ritenuti dalla fatica e dal dolore, l’uomo divide per così dire le sue tendenze ed inclinazioni, cosicché procuri di combi­nare la fuga del disagio colla soddisfazione del bisogno.

5. Da questo fenomeno del cuore umano egli è facile il vedere quali siano gli ostacoli che si oppongono ai progressi dell’agricoltura, la più faticosa e dispendiosa delle arti: perché le saranno ostacoli tutte quelle combinazioni che aumentano l’incomodità ed il disagio attua­le delli affaticanti, quelle che le impediscono o il frutto, o anche solo la speranza di quello delle fatiche medesime, quelle finalmente che tendano a diminuire nella mente dell’uomo il timor de’ mali con cui l’inerzia è punita, ed il chiaro concepimento de’ beni con cui l’indu­stria è ricompensata.

Da ciò noi chiaramente vedremo che tutto si riduce ad un solo principio, cioè l’avvilimento del prezzo de’ prodotti, per cui le terre vanno a poco a poco a ritornare incolte, per cui gli uomini si allon­tanano dispettosamente dall’avvilito aratro, per gettarsi nelle più sedentarie e lucrose occupazioni delle città. Dunque gli ostacoli che anderemo ancora piuttosto accennando, che minutamente annove­rando, sono quasi tutti effetti necessari e conseguenze più o meno immediate dell’avvilimento della sola e vera ricchezza delle nazioni.

6. Primo ostacolo: diminuisce i progressi dell’agricoltura la imper­fezione degli stromenti villarecci, quali sono quelli che più facilmen­te suggeriscono alla mente de’ rozzi coltivatori, non quelli che sareb­bero più utili. L’abitudine gli conserva con ostinata affezione, e l’inerzia dell’uomo non gli permette di scorrere verso il nuovo, diffi­cile ed insueto, se non è balzato dagli urti dell’imperiosa necessità. Quindi i contadini riterranno eternamente le antiche fogge de’ loro aratri, le pesanti ed anguste forme de’ loro carri, e tutto il resto del rustico loro corredo, se non vengano loro suggerite, e messe sotto i loro occhi, migliori e più comode forme di stromenti da lavoro. Egli è su questi rispettabili monumenti dell’opulenza degli stati che do­vrebbe meditare e tentare il sagace meccanico, il quale sappia quan­to sia difficile per una parte il riunire la semplicità ed il risparmio de’ mezzi alla prontezza ed estensione delle di lei operazioni, e, per l’altra, quanto gli avvantagi di tali ritrovati si estendano per tutta la dura­ta de’ secoli e delle nazioni.

7. Secondo ostacolo si è la poca cura che si ha della classe più labo­riosa e più utile alla società, sia per la natura de’ cibi, dell’alloggio, del vestito, come per il frequente abbandono dei soccorsi più necessari nelle loro malattie. Un pane ruvido e nero, l’acqua sovente torbida e limacciosa, poco vino acido ed immaturo, alimenti rancidi e nauseo­si, formano il nutrimento dell’instancabile agricoltore. Laceri, e vesti­ti di lordi cenci, nell’angustissime case si costipano le numerose fami­glie, o fra l’alito denso e corrotto degli animali si riparano dal freddo. Questo è il destino de’ nostri fratelli: a ciò li condanna una ferrea necessità, per nutrire le sdegnose e frivole nostre voglie.

Ma perché vado io rivolgendomi intorno a queste miserie, se esse sono non una conseguenza necessaria dello stato di coltivatore, ma bensì un effetto della maniera con cui l’agricoltura viene esercitata ne’ luoghi dove si avvilisce per ogni verso il prodotto, dove, per molti­plicar le ricchezze di segno e di convenzione, si inaridiscono le sor­genti e si esauriscono le fonti di tutti i beni e comodi della vita?

Io non pretendo d’approvare il chimerico progetto di render gli uomini comodi ed agiati; quest’idea distrugge se medesima: la fatica di nessuno produrrebbe il disagio di tutti. Ma solamente io pretendo di mostrare come dalla sola sovraindicata sorgente diramino tutte le cagioni che impediscono la perfezione di quest’arte primitiva. L’av­vilimento del prezzo de’ prodotti diminuisce il prodotto netto nelle mani de’ proprietari; questi, avidi delle ricchezze ed accostumati allo splendore ed alle pretensioni del loro rango, strappano di mano al col­tivatore il pane della necessità. Rade volte i contadini sono in istato di procacciarsi un avanzo da un debole raccolto, per il quale avanzo non solamente potrebbero soddisfare al bisogno della vita, ma anche rifonderne sulla terra una porzione per ottenerne da quella in segui­to una più abbondante ricompensa. Le idee sono cangiate su questo punto ad un segno, che è invalso ne’ politici il barbaro assioma, che quanto più è miserabile ed oppresso il contadino, tanto più industrio­samente ed indefessamente lavora: tanto è vero che gli uomini confondono le idee più chiare e luminose, solo che l’interesse lo con­sigli. Altre sono le risorse della necessità, ed altri gli effetti della pro­sperità. Gli uomini vogliono vivere in qualunque modo; egli è chia­ro adunque che dal mezzo della oppressione l’industria eserciterà i maggiori suoi sforzi; ma egli è chiaro ancora che gli effetti saranno lenti e stentati, e non paragonabili con quelli che sono prodotti dal coraggio e dalla speranza di una prosperità che va sempre crescendo.

Questa parte sostenitrice delle nazioni è abbandonata spesse volte alla miseria ed al languore delle malattie, e all’incomodo trasporto nelli spedali, lungi dalla minuta e tenera assistenza delle care famiglie, sotto la dura e negligente tutela di uomini indifferenti ed incalliti fra le sofferenze de’ miserabili. È un aiuto per la perfezione della medi­cina, ed anche un illustre monumento della vera publica beneficenza, ma non il migliore soccorso contro i morbi e la mortalità. Vorrei che più da vicino ai loro alberghi, o in questi medesimi, fossero dalla pub­blica beneficenza alleviati dai loro malori; io credo che dall’una parte ci guadagnerebbero i miserabili, e dall’altra l’erario pubblico, col risparmio di molti salari e di molti disordini che dall’avvicinamento delle grandi ricchezze sono inevitabili, coll’avvantaggio di spandere in tutto lo stato i monumenti e gli esempi della pubblica beneficenza.

Vorrei ancora, col voto comune de’ più illuminati politici, che quella classe rispettabile che è destinata alla sacra istruzione della reli­gione, che vegliano, pastori e parochi, per il bene comune dell’ani­ma, estendessero ancora le loro mire e i loro lumi al di là d’una teo­logia sempre rispettabile, sovente inutile, fra l’uniforme e semplice maniera di vivere degl’ignoranti contadini, e che ad una sovente biz­zarra e tortuosa casuistica sostituissero i lumi dell’agricoltura e della medicina. Non mancano certamente in questo venerabile ceto per­sone capaci di adempire così salutari oggetti; ma l’educazione ricevu­ta, le prevenzioni dello stato, l’esiggersi tai lumi da loro come con­dizioni essenziali al loro ministero, ne renderanno sempre troppo scarso il numero.

8. Terzo ostacolo si è la mancanza d’istruzioni nelle persone mede­sime che vivono alla campagna. Esse non debbono ammolire le rigi­de membra sui sedentari studi, né debbono correre una carriera che loro renderebbe abituale la noia, e farebbe loro desertare l’arte fonda­mentale della società; ma non perciò debbono essere condannati ad una totale ignoranza, che non dà loro i mezzi di conoscere il proprio stato e tutte le di lui risorse: onde non sanno trovare altro rimedio di garantirsi dai mali che li circondano, che a spese del giusto e dell’o­nesto. Il leggere, lo scrivere, i conti, gli elementi metodici, semplici e chiari della loro professione, una morale dolce ed insinuante, dovrebbero formare l’unica loro erudizione e tutta la loro sapienza; la quale però basterebbe a dare un ordine alle loro idee, e renderli più docili ai progressi dell’agricoltura, e più sagaci indagatori de’ propri vantaggi, mentre che imparerebbero di più a calcolare gl’inconvenienti e i mali inevitabili, a cui le cattive azioni sono condannate, ignoranza che è forse la più frequente cagione dei delitti dell’ultima classe degli uomini.

9. Quarto ostacolo si è la difficoltà de’ trasporti, i quali arenano le derrate e ne aumentano il prezzo, senza che l’aumento di questo prezzo ricada in vantaggio della parte industriosa e produttrice. Le strade degli stati sono come i canali dove scorrono i fluidi nei corpi viven­ti; e come in questi non basta che siano scevre e libere da ogni intop­po, ma i minimi ed invisibili canali debbono esser aperti e facili allo scorrere del fluido animatore, così ne’ corpi politici non solamente devono essere sode e durevoli le strade che conducono alle superbe città l’instancabile viaggiatore, ma quelle ancora che servono a tutta l’interna distribuzione delle cose contrattabili in tutte le diverse parti d’una provincia. L’aver cura solamente delle così dette strade maestre, ed il negligentare le strade di traverso, le quali sono quelle che più delle altre servono al trasporto di tutte le cose per tutto l’interno, è la più grande, ma non perciò la meno frequente incoerenza politica. Quali sieno i migliori principii onde le strade siano meglio mantenu­te, si vedrà dove tratteremo dell’interna polizia; solo qui giova riflet­tere, primo, che l’esperienza e la ragione ci provano che la sola riattazione e stabile manutenzione delle strade aumenta l’agricoltura, perché rende più facile il commercio delle derrate, meno caro ren­dendosi il loro trasporto. L’aumento del prezzo, se è in vantaggio del prodotto, o sia del venditore di quello, aumenta il comodo dell’agri­coltore; questi aumenta le arti inferiori, e così successivamente; allora un tale aumento suppone uno smercio maggiore della derrata, e per­ciò un maggiore alimento alle arti che la rappresentano. Ma se l’au­mento del prezzo è in grazia della difficoltà del trasporto, allora cre­scono le spese intermedie fra il venditore e il compratore; in conseguenza di ciò, il prezzo de’ prodotti essendo stabilito dalla gene­rale concorrenza, l’aumento del prezzo non è solamente dannoso al compratore, ma al venditore ancora, perché egli deve sottrarre dalla vendita de’ prodotti queste spese che non tornano in vantaggio della riproduzione, ma solamente de’ trasportatori. Il limite dell’aumento del prezzo per cagione del maggior esito d’un prodotto, è fissato dalla concorrenza generale, cioè dal prezzo de’ generi delle altre nazioni con cui si è in commercio. Il limite dell’aumento del prezzo per cagione della difficoltà del trasporto non è fissato se non dalla perdi­ta, e in grazia della coltura, cioè allora quando le spese divengono maggiori del prodotto netto.

Rifletteremo, in secondo luogo, essere voce universale di tutti gli scrittori d’economia che i trasporti per acqua siano di gran lunga preferibili ai trasporti per terra. Calcolano essi il trasporto per acqua esse­re un quinto del trasporto per terra; vale a dire che una nazione che trasportasse quattro volte più lontano d’un’altra per acqua quelle stes­se merci che la seconda deve portare una sol volta per terra, averebbe ciò nonnostante la preferenza: noi esamineremo altrove le prove di questo calcolo. Si rifletta, in terzo luogo, che anco presso gli anti­chi romani, sia ne’ tempi della repubblica, sia ne’ tempi della monar­chia, cioè l’avere essi sempre mai adoperate le truppe loro vittoriose a fare ed a mantenere le strade, delle quali, per i vestigi che da tanto tempo in tanta rivoluzione di cose ancora ci restano, ne conosciamo la solidità e la durevolezza. Pretendevano con ciò di tenere occupati i soldati in tempo di pace, e fargli vivere più sani nell’aria aperta, e più robusti col continuo esercizio, e di convertire in un utile continuo le continue spese che si fanno pel mantenimento di questi. Siccome alcuni scrittori hanno creduto di poter applicare ai tempi presenti questo ramo della romana polizia, così ho creduto convenire il farne qui qualche cenno.

10. Quinto ostacolo si è l’essere ristrette le terre dello stato in trop­po poche mani. A misura che cresce la ricchezza nell’uomo, manca in lui lo stimolo necessario del dolore e del bisogno che lo porta ad agire. La torpida idea della sicurezza diminuisce l’irritamento interno della speranza d’un futuro vantaggio. Egli è vero che le terre ancora che sono troppo divise non formano un minore ostacolo all’agricoltura, perché le terre divise in un troppo numero di persone escludo­no quelle grandiose spese, dalle quali solamente l’agricoltura ricono­sce il suo maggiore ingrandimento. Le terre troppo divise non posso­no essere coltivate che col moltiplicare le braccia degli uomini, le quali costano al proprietario molto di più che non gli animali, onde divengono maggiori le spese in proporzione del prodotto netto. Le terre troppo unite presso pochi proprietari sono ordinariamente negligentate, e quella ricchezza che dovrebbe essere costantemente consegrata alla terra per conservarne la riproduzione, è dai proprietari medesimi rivolta a soddisfare i capricci del lusso e i bisogni d’opi­nione, i quali crescono in proporzione della disuguaglianza de’ beni. Ma in questo proposito è rimarcabile la differenza tra quella che chia­masi grande coltura e quella che chiamasi picola coltura; perché la prima essendo la coltura intrapresa da ricchi fittabili che portano sulla terra un nuovo capitale, e tutte le loro scorte pagando il proprietario in contanti, e disponendo del prodotto a loro beneplacito, la negli­genza de’ grossi proprietari non influisce sulla coltura medesima; mentre i grossi proprietari delle terre messe a piccola coltura, cioè dove il proprietario appigiona piccole porzioni di terra dividendo il prodotto, e somministrando la maggior parte delle scorte necessarie al coltivatore, se egli toglie alla terra il necessario mantenimento, la di lui negligenza influisce moltissimo sulla coltura. Ma la gran coltura non può introdursi in uno stato, se non dove il prodotto sia posto in un più libero commercio, e non salga per conseguenza ad un più alto e più costante valore.

La piccola coltura è necessariamente l’unica risorsa della coltivazio­ne, dove i prodotti siano vincolati, e per conseguenza al di sotto del vero valore, cioè di quello che è fissato dalla generale concorrenza. Dunque, noi troveremo che il necessario compenso alla necessaria disuguale distribuzione delle terre sta nell’alto valore dei generi; dun­que quest’ostacolo medesimo dipende anch’esso dalla cagione uni­versale da noi sovraindicata. Allora il limite della divisione delle terre si porrebbe da se stesso, perché, introducendosi la gran coltura, le terre troppo estese si dividerebbero in più ferme, perché l’esperien­za ed il calcolo, sempre facile dove il valore è costante ed uniforme, insegnerebbe a fare questa divisione; e le terre troppo divise, per esempio, in grazia della successione delle famiglie, sarebbero riunite in una ferma sola, o sarebbero vendute a chi le riunirebbe: perciò sarebbe divisa la proprietà, ma non la coltura.

Dalle cose qui sovraccennate potrà ognuno vedere quale sia l’im­portanza che le terre non dimorino legate perpetuamente sotto i vin­coli fideicomissari, presso le immortali mani morte, per cui si sottrag­gono dalla circolazione e dalla speranza dell’industrioso, se non tutte le ricchezze, almeno la sorgente di quelle; per cui alcune generazioni e classi sembrano perpetuamente privilegiate, ed altre condannate; per cui le prime acquistano senza giammai perdere, e per ciò condensano in se medesime tutta la libertà e l’indipendenza politica, seguace mai sempre nel fatto della proprietà. Quando le terre, per le circostanze varie e mutabili delle famiglie, vengono ad essere coltivate in modo che vada sempre diminuendosi il prodotto netto di quelle, non v’ha dubbio che sarebbe utile che tali terre potessero essere vendute a chi, essendo vivo, potrebbe rifondere sopra un nuovo capitale di ricchez­ze, per ritornarle al primo stato di florida riproduzione. Dunque la libertà delle terre tiene alla prosperità della coltivazione, dunque ancora a ciò che forma la base di tutta l’economia d’uno stato; dun­que l’abuso dei fidecommissi, introdotto in gran parte dall’antica ariio stocrazia feudale, benché l’origine si debba riconoscere dall’antica romana giurisprudenza, per quanti avantaggi possa attribuirsi (come la perpetuità del nome e del lustro di alcune famiglie), averà sempre un inconveniente fisico ed essenziale, quale è quello di opporsi ai maggiori progressi della coltura. Rispetto poi alli possedimenti grandiosi delle mani morte, dopo tante eccellenti opere scritte sopra d’un oggetto sì delicato ed importante, è superfluo il farne qui parola.

11. Sesto ostacolo si è la mancanza di circolazione interna dei pro­dotti dell’agricoltura. Quando le derrate sono troppo avvilite di prez­zo, cioè quando cedono al disotto del livello della generale concorrenza, le fatiche non trovano il loro compenso per le spese, non ricavando il loro congruo interesse; l’agricoltore trascura un travaglio per lui soverchio ed inutile, e sovente ancora dannoso. Se dunque da regolamenti soverchiamente paurosi è fissata la derrata nel luogo della sua produzione, l’abbondanza di quella nuoce a se medesima, e, dive­nuta di poco valore, non compensa le fatiche del suo coltivatore. L’uso degli olandesi d’abbrucciare una gran parte degli aromi che esclusivamente raccolgono dall’isola di Ceylan, per non avvilire il valore di quelli, sott’altre apparenze viene imitato in molti luoghi che la natura avea destinati ad alimentare le più lontane nazioni. Dunque la riproduzione della derrata, la di cui circolazione sia impedita, va cessando a poco a poco, e la superstizione dell’abbondanza produce la desolante sterilità. Se in un altro luogo la derrata è troppo scarsa, quel­la arena i compratori, e le arti da quella dipendenti restano sospese ed immobili. È dunque necessario che nei diversi punti dello stato le abbondanze si compensino colle scarsezze, e mettansi le une colle altre al necessario livello. Ne’ paesi dove dello stato, che tutto dev’esser aperto alla più libera interiore communicazione, si pretende fare un’unione di parti isolate ed indipendenti, tutto languirebbe, se l’in­frazione sempre infallibile delle cattive leggi non rimediasse in parte al disordine.

12. Settimo ostacolo alla perfezione dell’agricoltura si è l’ultima depressione in cui questo stato è decaduto. L’onore che si deve alle diverse professioni è in verità dovuto, non solo in proporzione della più grande utilità delle medesime, ma ancora in proporzione dell’uti­lità combinata colla più o men grande difficoltà. Saranno dunque pre­ferite quelle professioni, le quali contengono in sé una prova di corag­gio o la rara dimostrazione di sagacità, di talenti, all’agricoltura, la quale, quantunque laboriosa, non contiene alcun rischio e non esige studio e combinazione. Ciò nonnostante, io non vedo perché l’agri­coltore, che un tardo compenso d’un assiduo travaglio relega nell’o­scurità innocente della campagna, meriti a esser condannato in una perpetua dimenticanza, e perché i suoi sentimenti non possono esser elevati dall’eccitamento lusinghiero della pubblica approvazione. Per­ché il più laborioso fra gli agricoltori d’un villaggio non potrebbe ottenere un qualche segno di distinzione, che, facendolo osservare tra’ suoi eguali, eccitasse in quelli l’emulazione, ed in lui la speranza d’uno stato più felice? L’ambizione serpeggia nelle più umili condizioni, quanto ella trionfa nelle più alte; l’infimo sdegna altrettanto i grandi, quanto i grandi sdegnano gli infimi; ma ognuno vuol grandeggiar tra’ suoi eguali, perché questi entrano nell’atmosfera de’ suoi piaceri, e corrono sulle medesime tracce verso la felicità. Un piccolo ornamen­to sulle abbronzite carni dell’affaticato agricoltore, i rustici omaggi de’ suoi simili, lo renderebbero altrettanto soddisfatto e fiero di se stesso, con quanta pompa di piacere e di giubilo torna fra’ suoi simili, ono­rato d’un sguardo e d’un nastro, l’assiduo cortigiano. Ma tralascian­do queste idee, che possono sembrare a taluni troppo strane, perché inusitate, basterà quasi nelle occasioni per rendere l’onore dovuto a questa fondamental professione l’imparziale premura, per chi è inca­ricato della publica tutela, di sottrar l’umile agricoltore dal calpestio del prepotente, e di munire collo scudo impenetrabile delle leggi il pane frugale, che l’ozio e l’indolenza rapir vorrebbe dall’umile dimo­ra dell’industria alimentatrice.

13. Ottavo ostacolo ai progressi dell’agricoltura fu da quasi tutti gli economisti trovata la proibizione del commercio esterno delle derra­te di prima necessità: grande, importante, delicato argomento, del quale parleremo ben presto.

14. Nono ostacolo ai progressi dell’agricoltura sarebbe l’eccesso del tributo, o il non esservene punto. L’eccesso, perché il lavoro degli uomini non essendo giammai gratuito, quando il tributo eccedesse il totale del prodotto del travaglio della terra, o semplicemente non lasciasse in mano del proprietario alcun prodotto netto al di là delle spese della coltivazione, la terra anderebbe a poco a poco a divenire incolta. Per un’opposta ragione, senza tributi, o questi essendo trop­po scarsi, non ci potrebbero essere spese pubbliche, senza spese pub­bliche non vi sarebbe la necessaria sicurezza della proprietà, né la faci­lità del commercio, né il riattamento delle strade, né l’utilissimo mantenimento de’ trasporti per acqua: ma di questa materia, la più interessante e la più esposta ai queruli pregiudizi, ne parleremo nel trattato delle finanze.

II. Della piccola e grande coltura delle terre

15. Abbiamo già veduto nella prima parte, cap. I, come non sia la maggiore quantità assoluta e totale di prodotto quella che contribui­sce alla prosperità d’uno stato precisamente, ma la maggiore quantità di prodotto utile, vale a dire disponibile. Se una quantità di questo prodotto è consunta immediatamente dai producitori, non vi sarà che l’avanzo il quale abbia un valor venale, che paghi i salari dei manifat­tori, che esca dallo stato, che paghi i tributi, in somma che dia il moto a tutta la machina degl’interessi economici di una nazione. Se, per un esempio arbitrario, sopra un milione di misure siano consonte in ispese immediate di produzione 500 mila di queste, non saranno disponibili che 500 mila misure di prodotti in vantaggio dello stato. Ma se, per lo contrario, mutando la coltura di direzione e di metodo, il prodotto non fosse che di 800 mila misure, e che sole 200 mila fos­sero le consumate immediatamente da’ produttori, l’avanzo sarebbe di 600 mila misure, cioè una maggior quantità di prodotto disponibile nel caso d’un minor prodotto tale, che nel caso d’un maggiore. Ciò dunque che deve formare l’oggetto principale dell’uomo di stato e del grande economo politico, non è tanto l’aumento del prodotto totale, quanto l’aumento del prodotto disponibile; non il raccolto assoluto, ma l’avanzo di detto raccolto, dedotte le spese.

16. Se dunque chi considera in astratto la perfezione dell’agricol­tura trovasse il lavoro de’ campi a braccia più produttivo del lavoro delle bestie, un tale risultato dovrà essere verificato dall’economo politico, il quale esaminerà quanto maggiori spese esigga il manteni­mento d’uomini lavoratori in vece del mantenimento e profitto delle bestie lavoratrici. Se chiunque potesse esser sedotto dall’apparente abbondanza d’una terra, che successivamente ammetta in un anno vari generi di produzione, non calcolasse che questa sola abbondanza di tali produzioni, doverà avere riguardo se questi generi diano un prodotto venale e disponibile, o un prodotto immediatamente ed unicamente consonto dai produttori medesimi. Se per alcune circo­stanze un terreno, che potrebbe rendere fromento, rendesse solamen­te grani di vile valore, consumati totalmente da un numero grandis­simo di miseri agricoltori senza prodotto o avanzo netto e disponibile, né in favore de’ proprietari, né in favore de’ coltivatori medesimi, i quali con minori spese di coltura e con maggiore avanzo di prodotto disponibile più felici sarebbero e più agiati, anderebbe calcolato il prodotto netto nel primo caso in paragone del prodotto netto del secondo.

17. Egli è sotto questo punto di vista che deve riguardarsi una famosa distinzione introdotta ultimamente dagli economisti francesi nell’agricoltura. Distinguono essi la grande dalla piccola coltura. Chiamano gran coltura quella che è intrapresa da un comodo fittabile con un treno di cavalli, e paga il proprietario in denaro, disponendo del prodotto a proprio arbitrio; piccola coltura quella che è intrappresa da un massaro o pigionante che divide il prodotto con il padrone, e coltiva con buoi. Io non darò qui che il succinto delle ragioni che quelli adducono in favore della gran coltura, lasciando a ciascheduno, come è di ragione, il determinarsi sulla considerazione delle proprie circostanze. Era importante, per altro, che in questi Elementi non si risparmiasse una discussione, la quale forma un ramo principale del­l’economia politica delle nazioni agricole.

18. In primo luogo essi premettono che i privati agricoltori da’ soli risultati della propria sperienza non sono in istato di decidere se sia più utile la grande della piccola coltura; perché, oltre il non sapere ordinanamente calcolare con precisione che i vantaggi della propria col­tura, a cui sono accostumati, l’essere introdotta in un tale distretto piuttosto l’una che l’altra non è un effetto della scelta e di un calcolo interamente dipendente dalle personali circostanze di ciascheduno, ma dalle circostanze generali di tutto il distretto medesimo, dal valo­re de’ prodotti, dalla libera circolazione di quelli, dalla natura e meto­do della imposizione, come si vedrà a suo luogo. In secondo luogo egli è chiaro, che solamente forti e poderosi coltivatori sono atti ad intraprendere una gran coltura, perché la spesa primitiva avanti d’ot­tenere un raccolto è considerabile, quantunque questo raccolto sia poi più grandioso, e le spese annue e posteriori in paragone di quello pro­porzionatamente minori che non sieno nella piccola coltura, in cui pretendono che una gran parte del raccolto sia consunto in spese continue per conservare la coltura, senza quasi mai speranza di aumenta­re il prodotto netto.

19. Ciò supposto, dicon essi che il lavoro de’ buoi è molto più lento del lavoro de’ cavalli, e che questi passano un gran tempo ne’ pascoli per il loro nutrimento, di maniera che ad un podere che vuol esser lavorato da dodici buoi bastano quattro cavalli. Questi pascoli sono un terreno perduto in sola immediata consumazione; conven­gono, però, che dove si usa di nutrire i buoi con foraggi secchi, ci è un miglior conto nel mantenimento de’ buoi lavoratori. Si pretende che i buoi siano più forti e robusti de’ cavalli, ma si adduce l’esperienza in contrario. Sei buoi conducono due o tre mila libbre di peso, mentre sei cavalli ne conducono sei in sette mila. Vuolsi distinguere la pianura dal montuoso; vuolsi distinguere il tirar con forza lungo una linea parallela all’orizzonte, e il sostenere più fortemente il peso in un pendio; vuolsi considerare che i buoi, essendo men carichi e più lenti, sembrano meglio riuscire de’ cavalli nelle terre pantanose, i quali sembrano più titubanti in un terreno non solido; ma ciò, secon­do essi, è estraneo alla forza colla quale è necessario smuovere la terra con l’aratro, la quale si può assomigliare ad un peso da strascinarsi.

20. Dicono essi, che i buoi in un giorno lavorano tre quartaia (quartiers) di terra, mentre i cavalli ne lavorano un moggio e mezzo; cosic­ché dove ci vogliono quattro buoi ad un aratro, v’andarebbero sei coppie per tre aratri, che lavorerebbero due moggia al giorno circa, invece che tre aratri da tre cavalli per ciascheduno condotti ne lavo­rerebbero quattro e mezzo al giorno; a sei buoi per aratro, due aratri lavorerebbero un moggio e mezzo, invece otto cavalli a quattro per aratro ne lavorerebbero tre; a otto buoi per aratro, tre aratri ne lavo­rerebbero due, invece che bastando quattro forti cavalli ad un aratro, ventiquattro con sei cavalli ne lavorerebbero nove: così che, riducen­do queste differenze ad un punto medio, il lavoro di dodici buoi per adequato equivale al lavoro di quattro soli buoni cavalli. Convengo­no però che nelle terre ingrate e montuose sembra preferibile il lavo­ro de’ buoi a quello de’ cavalli, in grazia che le terre coltivabili essen­do disperse in piccole porzioni, il maggior costo de’ cavalli e la piccola rendita necessariamente conseguente alla natura del suolo, rendono più utile il lavoro de’ buoi, percioché si adoperano sotto ara­tri adattati ad una più corta estensione di terreno.

Si aggiunge che le terre leggere, poco proprie a produrre dell’ave­na, sono nell’istesso caso; ma poche son quelle che siano talmente separate dalle buone e forti, sopra tutto nelle pianure, che escludono il comodo mantenimento de’ cavalli; siccome le terre son confidate a piccoli massari o pigionanti per lavorarsi a buoi, per mancanza di buoni fittabili in istato di sostenere una grande ed estesa coltura co’ cavalli, i proprietari non osano confidare delle pecore e de’ montoni ai suddetti, delle quali, oltre il frutto considerabile, è eccellente l’in­grasso. Con queste ed altre considerazioni che per brevità tralascio, lasciando a quelli che amano queste ricerche il consultare gli eccel­lenti scrittori, e sopra tutto l’Enciclopedia, articolo Fermier, essi conclu­dono che quelle misure di terra che rendano quattro staia, misura di Parigi, coltivate coi buoi, rendono otto staia coltivate co’ cavalli. Aggiungono che i buoi de’ massari o pigionanti s’occupano moltissimo al lucroso guadagno delle condotte in pregiudizio delle terre, le quali poi, successivamente decadendo ad essere incolte dove è intro­dotto lo stentato lavoro della picola coltura, divengono sempre in più gran quantità pascoli, vale a dire di gran longa meno utili allo stato ed ai proprietari.

21. I suddetti autori calcolano le spese de’ buoi colla spesa de’ cavalli, così: suppongono il valore d’un cavallo da lavoro, l’un per l’altro, 300 lire di Francia (il nostro zecchino è circa 10 lire di Francia), il valore d’un paio di grossi buoi lire 400. Si pretende che i cavalli durino l’un per l’altro dodeci anni, e i buoi sei anni, passati i quali si vendono magri per ingrassarli per la macellaria. Ciò supposto, quat­tro buoni cavalli costano lire 1.200; l’interesse di questo capitale per dodeci anni sono lire 720; dunque alla fine di questi anni saranno spese e perdute lire 1.920. L’equivalente di quattro cavalli sono, come si è asserito di sopra, dodeci buoi; costeranno, a lire 400 al paio, lire 2.400; l’interesse per sei anni monta parimente a lire 720; in tutto sono lire 3.120. Ma si suppone che si vendano dopo sedici anni magri per lire 150 l’uno; perciò si caverà da tutti lire 1.800; restano perdute lire 1.320 in sei anni; in dodeci saranno 2.640: dunque la spesa de’ buoi supera quella de’ cavalli, nello stesso spazio di tempo, di lire 700.

22. Queste, oltre moltissime altre ragioni, rendono certamente almeno problematica la preferenza de’ buoi sopra i cavalli per l’avvantaggio della coltura. Ma se io debbo azzardar la mia opinione in una questione intralciatissima per la varietà delle circostanze in cui ogni paese si trova, io credo il punto essenziale per noi non sia quel­lo di usare piuttosto de’ buoi o de’ cavalli, ed in ciò essenzialmente non consista la differenza fra la grande e la piccola coltura; ma piut­tosto nell’essere le terre divise fra poveri massai e pigionanti, che non possono portare un capitale di ricchezza sulla terra che intraprendono a lavorare, e ricevono da’ negligenti e dispendiosi proprietari solo deboli scorte, che esiggono una folla di minute, continue e mal adempite spese, onde si ricava uno scarso prodotto netto in favor de’ pro­prietari, in alimento dell’arti, in sollievo delle spese pubbliche: inve­ce che la coltura de’ grossi fittabili è una coltura che porta sulla terra una ricchezza che si aggiunge al valor capitale del fondo medesimo. Ma questa non s’introdurrà giammai dove i generi sieno a vil prezzo, dove l’utile non sia in paragone delle spese, perché ivi non si ritrova un avanzo tale che, oltre il mantenimento de’ proprietari e de’ colti­vatori, possa essere rimesso con usura sulla terra.

III. Piano per i progressi dell’agricoltura

23. Avendo noi accennati gli ostacoli che si oppongono ai progressi dell’agricoltura, ed indicati alcuni mezzi per toglierli, vedrà ognuno che i mezzi per incoraggire l’agricoltura saranno gli opposti a ciò che noi abbiamo chiamati ostacoli; sicché lo studio delle scienze adiutrici, la cura della sanità, la protezione delle sostanze dell’agricol­tore, l’istruzione idonea di quello, e più di tutto il buon valore de’ prodotti che nasce dalla libertà e dalla concorrenza, saranno i mezzi valevoli per il progresso dell’agricoltura. Ma dovremo noi lasciare quest’arte, nutrice del genere umano, base d’ogni opulenza e ricchezza, in balia d’una cieca e fortuita esperienza, ed appoggiata ad una fal­lace pratica di tradizione? Anni e serie d’anni esiggono le diverse col­ture, e miglioramenti delle terre, e queste sono dirette da un precipi­toso interesse, dall’ostinata abitudine, dall’ignoranza che si limita al puro oggetto.

24. Sarebbe dunque utilissimo che, in questo secolo di luce e di ricerche, una benefica filosofia rivolgesse l’attonito sguardo dai corpi celesti sulla terra che noi abitiamo, e che si riunissero tutti li sforzi a svolgere gli oscuri progressi della vegetazione e della vita delle pian­te. In tanta pompa d’accademie con tanto sfoggio di titoli, nelle quali o si tessono armoniosamente inutili parole, o su di un sasso corroso dal tempo, ove sono scolpiti i voti imbecilli d’un oscuro romano, veglia l’assiderato antiquario; perché appena alcuna se ne annovera nella nostra Italia, antichissimo seggio delle dovizie della natura, dove si consacrino le veglie e le ricerche all’utilità permanente degli uomi­ni, e per conseguenza all’aumento dei comodi e dei piaceri della vita.

25. Le accademie sono utili anche in quelle scienze che esigono una solitaria applicazione; esse in questo caso non aiutano le scoperte, ma eccitano l’emulazione, spandono i lumi, premiano le fatiche. Sono poi utilissime e necessarie dove gli oggetti da esaminarsi e da conoscersi sono troppo vari e moltiplici, dove si esigge lunghezza di tempo e riunione di forze, dove il dispendio eccede le forze private, finalmente dove vi siano pregiudizi da superarsi, abitudini da vincer­si, interessi opposti da riunirsi. Un’accademia adunque d’agricoltura sarebbe la più utile al genere umano di quante mai fossero state.

26. Egli è difficile ritrovare un privato, che all’inquieta curiosità delle ricerche unisca il coraggio di sagrificare per lungo tempo un terreno intorno ad esperienze utili ai progressi della scienza, ma danno­se all’annuo di lui reddito, e delle quali la maggior parte deve riuscir vuota e frustranea, acciocché dalla moltiplicità di quelle una se ne trovi utile e concludente.

Di più: tali esperienze non possono farsi in piccolo, errore commesso da tanti sperimentatori, per cui sfuggono quelle minute ma essenziali circostanze, che rendano poi fallace l’esperienza in grande eseguita. Noi non possiamo assicurarci d’avere conosciuta la natura in tutti i suoi aspetti, se non la tormentiamo e non cerchiamo di variar­ne i fenomeni in tal guisa, che si renda improbabile che noi non abbiamo trascurato alcun dato essenziale.

27. In terzo luogo, la lentezza di tutti gli avvenimenti interessanti l’agricoltura sarebbe tale che le vite successive di più uomini non aggiungerebbero molto alla scienza medesima. È dunque necessario il concorso contemporaneo di molte azioni, accioché la lentezza dei successi e dei risultati, e la necessaria inutilità di vari tentativi, sia ricompensata dalla celerità e dalla frequenza di molte operazioni.

Finalmente, una unione di persone che unicamente, secondo le particolari loro mire, coltivasse la scienza, comunicasse alla società i risultati, sarebbe più tosto un aggregato fortuito di forze solitarie ed indipendenti, che un tutto riunito che opera colla massa di se mede­simo. Una così fatta riunione avrebbe l’utilità dell’emulazione, fareb­be pompa di una utile erudizione, sarebbe una radunanza d’uomini dotti, non una società di uomini utili.

È dunque necessario che vi sia un piano ragionato di operazioni e di esperimenti da farsi, di punti di vista; è necessario che ci sian per­sone che diriggano questo piano, le quali sappiano la difficile arte di consultar la natura, di separare i contemporanei ma indipendenti feno­meni da quelli che realmente cospirano a produrre l’effetto; che sap­piano dubitare delle più comuni e spiritose dottrine, che abbiano il raro talento di saper mettere alla portata del rozzo e diffidente agricoltore; in somma, che discendano sino ai più minuti dettagli, senza perder di mira la grandezza delle viste. Ma tutte queste massime, sulle quali dovrebbe essere fondata una tale instituzione, vogliono dalla pro­tezione sovrana essere autorizzate e sostenute. Quando lo splendore della pubblica autorità diffondesi sulle private occupazioni degli uomi­ni, queste si animano d’un nuovo vigore e d’una maggiore alacrità: la timida filosofia si rasserena ad un clemente sorriso del sovrano.

28. Dunque sarebbe utilissimo, primo, di riunire sotto un diretto­re sperimentato e filosofo, un sufficiente numero di giovani colti e conoscitori de’ differenti dettagli dell’agricoltura, alla quale unissero alcuni d’essi una sufficiente cognizione della chimica e della mecanica: scienze che sono gli occhi dell’agricoltura, come dicesi che la geografia e la cronologia lo siano della storia.

Secondo, dovrebbe avere questa società una sufficiente estensione di terreno a propria disposizione, e questa divisa in vari punti dello stato, accioché si abbraccino le diverse situazioni nello stesso tempo che si farebbero in grande gli esperimenti, perché potessero essere sicuri del risultato, e la ritrosa abitudine dell’agricoltore fosse ridotta al silenzio.

Terzo: la prima operazione di questa virtuosa unione, accioché non riescisse un vano cicalio ed un accozzamento di fortuita dottrina, sarebbe di formarsi l’anzidetto piano di concertate operazioni. Egli è anche perciò che io vorrei ch’ella fosse più composta di gioventù, che di persone d’una età più provetta. Queste sono meno suscettibili di quella fratellanza e comunicazione di opere e di lumi, ordinaria al docile fervore degli animi giovanili. Nell’età più avanzata si va sem­pre più acquistando un amor proprio esclusivo, ed una tenacità d’o­pinioni, per cui ciascuno riguarda l’altro con gelosia, con riserva, con critica.

Per esempio, una delle principali operazioni sarebbe l’esame accu­rato della diversa qualità delle terre, e di qual genere di coltura fosse­ro più suscettibili; la seconda potrebb’essere l’esame delle qualità degl’ingrassi, e così successivamente. Bisognarebbe mischiare le terre con diversi generi di corpi, e con dosi diverse, onde scoprire gli anda­menti della natura ne’ suoi diversi gradi di diminuzione e di accresci­mento, e nelle diverse circostanze di approssimazione reciproca o di allontanamento di vari corpi, nel che consiste tutta l’arte dello speri­mentare. Si dovrebbono esaminare le diverse parti e le diverse opera­zioni dell’agricoltura nelle differenti sue epoche, ne’ vari suoi prodot­ti, nelle diverse preparazioni di questi, fin che arrivino allo stato o di essere consumati, o lavorati. Così arriveremo forse a scoprire se l’aria sia il solo principio attivo della vegetazione, e se l’ingrasso non abbia altro uffizio che di somministrarne alle piante una maggior quantità; se le minime fermentanti ed attive particelle di questo non facciano altro che dividere le mollecule della terra; qual sia il vero alimento delle piante, se i sali, se gli oli, se la terra elementare, se l’acido nitro­so diffuso per l’atmosfera. Non bisogna credere che queste siano ste­rili speculazioni. Scoperto il segreto della natura ne’ vegetabili, ne’ quali un debol lume di vita comincia a scintillare a’ limitati nostri sensi, forse arriveressimo a più grandi risultati nella vita animale più composta ed oscura. Ma, invece di più oltre dilungarci su di ciò, che non è l’oggetto di queste ricerche, rifletteremo in cambio, che di mille operazioni sulla terra incerte e complicate ridurressimo l’arte a poche, semplici e sicure. Quanto poco sappiamo noi intorno alla potazione, quanto poco sui diversi metodi d’irrigazione, e sulle pre­parazioni degli ingrassi, e quanto poco noi sappiamo servirci dell’ela­stica forza dell’aria, principio sviluppatore di tutti li germi che circo­lano sulla terra.

29. Sarebbe ancora, secondo il mio avviso, incombenza d’una tale società quella di discendere a tutte le informazioni che si possano avere intorno alle diverse colture del proprio paese, di non isdegnare l’intralciata loquacità del rozzo villano, di rendere palpabili e toccanti, per così dire, le più sublimi verità fisiche; di comporre catechismi ed instruzioni ridotte a sensibili espressioni, in modo che siano adat­tate alle più infime intelligenze non avvezze alla complicatezza dei nostri ragionamenti, ed all’oscurità de’ dotti significati, onde le più utili verità sono per lo più dalla pompa magistrale velate e nascoste. Potrebbe finalmente una tale società distribuire ed aggiudicare i premi, che si destinerebbero dalla sovrana munificenza all’indefesso e sagace agricoltore: così acquisterebbe forse una interessata fiducia, la quale sarebbe necessaria perché fossero secondate le di lei operazioni dalla moltitudine.

IV. Della proporzione fra le differenti colture delle terre

30. Si sono sforzati alcuni scrittori d’economia di ricercare qual proporzione passar debba fra le varie colture delle terre d’uno stato, acciocché si ottenesse l’oggetto fondamentale, cioè la maggior quan­tità di travaglio utile. Non è possibile in primo luogo il fissare una numerica e generale proporzione, la quale deva variare secondo le circostanze di ciascun paese. Il clima, la situazione, la forma di governo, le circostanze de’ popoli finitimi, le future speranze sono a vicen­da effetti e cagioni che daranno varie determinazioni: dunque non è nemeno fattibile il dare una soluzione particolare d’un tale problema. In secondo luogo, io son d’avviso che la vera proporzione si stabili­sca da se medesima, ogni qual volta sia dato un libero sfogo al com­mercio de’ prodotti, perché in quel caso l’eccesso d’una produzione si diminuirà da se stesso, a misura che l’abbondanza ne avvilirà il prez­zo, ed il difetto di un’altra produzione sarà tolto a misura che l’accre­scimento del valore prodotto dalla scarsezza renderà utile al proprie­tario la coltivazione di quello. Ciò nonnostante, siccome nel ricercare queste produzioni ci verrà fatto di dimostrare più chiaramente il rap­porto che ha l’agricoltura con il resto delle parti di pubblica econo­mia, io darò qui brevemente alcune riflessioni che ci potrebbono ser­vire a ritrovare una tal proporzione, quando per qualche accidentale circostanza tornasse meglio lo stabilirla, in vece di abbandonarla al lento giro delle combinazioni dei privati interessi.

31. E in primo luogo si può proporre un dubbio: se un paese fosse egualmente e dappertutto suscettibile dell’uniforme coltura d’una sola derrata, che avesse dentro e fuori dello stato uno spaccio sicuro e con­siderabile, sarebbe egli più avvantaggioso ad una tal nazione il conti­nuar perpetuamente una tal uniforme coltura, piuttosto che variarla in guisa che molti e vari fossero i prodotti e le materie prime? Nel caso d’un’uniforme coltura, quali persone ne sentirebbero l’immediata e maggiore utilità? Le due classi degli agricoltori e dei proprietari delle terre. Mancherebbero la maggior parte delle arti delle materie prime accessorie, le quali si dovrebbero tirare da’ lontani paesi. Il salto immediato2 di tutta la ricchezza della nazione dagli agricoltori ai proprietari delle terre non ne farebbe influire nelle arti intermedie la quantità necessaria, perché queste avessero tutto il loro massimo vigo­re. Una quantità considerabile di tal ricchezza servirebbe al manteni­mento delle arti forestiere, tanto più facilmente, quanto la ricchezza è impaziente e disdegnosa nel soddisfarsi.

Dunque l’uniformità della coltura, quantunque avvantaggiosa alla nazione, sarebbe certamente meno utile che una qualche varietà, quan­do le circostanze del suolo lo potessero soffrire. Nel primo caso, àvvi un solo stimolo al travaglio, cioè la necessità dell’alimento; nel secon­do, havvene due: l’istessa necessità e il comodo delle materie prime.

Ciò premesso, supponiamo che questa derrata esclusiva, a cui sup­poniamo limitarsi l’agricoltura d’una nazione, fosse il fromento. Egli è vero che la produzione di quello è necessaria a tutte le nazioni; che è il primo motore delle arti tutte e della popolazione; che deve cir­colare in tutte le classi e rappresentare tutti i valori. Quando egli fosse sovrabbondante, è certamente utile ch’egli abbia uno sbocco fuori di stato, perché s’egli è troppo avvilito e di troppo facile acquisto, l’in­dolenza sempre occupa il luogo dell’industria; ma sarà vero altresì che non debb’essere la sola produzione delle terre d’un ben regolato stato.

Possono in tale supposizione ciò nonnostante stabilirsi arti e mani­fatture, prelevare le materie prime dalle estere nazioni; ma quale ne sarà il vantaggio? Quello solo, più o meno considerabile, che nasce dalla man d’opera; molte arti subordinate ad una tal manifattura non saranno benefiche allo stato, ma gravose perché forestiere; non vi sarà una circolazione dalle infime alle superiori classi, ma salti ed aggrega­ti di varia e mal distribuita ricchezza; e questo guadagno della man d’opera medesima sarà sempre precario e dipendente dagli stabili­menti delle nazioni che ci forniscono la materia prima.

Rechiamo in mezzo un altro esempio. Dopo l’alimento che serve al mantenimento degli uomini, v’è un’altra derrata non meno neces­saria ad essi, la quale devesi considerare come l’alimento, perché l’uso di quella è appunto la consumazione; questa si è la legna, sia per i bisogni del vitto, sia per quelli della stagione, sia per l’uso delle arti e maniffatture; sonovi gli ogli, i liquori, ed altri generi che immediata­mente si consumano. Se una nazione manca di questi, manca di alcu­ne cose necessarie, e per conseguenza di molte arti, e dovrà provve­dersene presso i forastieri; sarà dunque dipendente da quelli. Quanto più di queste materie saranno provedute, tanto minore sarà il vantag­gio dello spaccio delle proprie derrate; quanto più costerà il trasporto sino a noi di coteste materie prime, tanto sarà maggiore il prezzo della man d’opera, e tanto più difficile lo smercio di quella in concorrenza delle altre simili manifatture presso quelle nazioni, nelle quali le rispettive materie prime sono coltivate; perciò queste arti forzata­mente introdotte caderanno ben presto nell’ultimo languore. I più grandi stabilimenti saranno simili a quelle meteore che s’innalzano per una accidentale fermentazione della terra, per fare una istantanea comparsa nell’aria, ma che ben tosto ricadono per la propria gravità alla nativa palude d’onde sortirono.

32. Considerando dunque la cosa in astratto, vi sarà un limite alla consumazione delle derrate di consumazione, quantunque produttrici per qualche tempo di abbondanti ricchezze alle nazioni che le col­tivano. Come fissare questo limite? Siccome può esser utile talvolta il conoscerlo, quantunque, come detto abbiamo, sia il più delle volte preferibile il lasciare la direzione alla libertà che equilibra più d’ogni altra forza gl’interessi degli uomini, gioverà, ciò nonnostante, l’esami­nare brevemente su quali principii dovrebbe fondarsi una tale ricerca.

Per dir qualche cosa di preciso su di ciò, rifletteremo: primo, poter­si le diverse colture considerare sotto due generali e differenti aspetti, cioè di colture inclusive e di colture esclusive. Chiamo inclusive quelle che contemporaneamente possono esercitarsi sul medesimo terreno, come quelle di fromento, vino e gelsi, ed esclusive quelle che non possono ad uno stesso tempo esercitarsi sul medesimo terreno, ma solamente successivamente, come lino, fromento, prati, ecc.

A riguardo dunque delle esclusive, premetteremo per assioma che ciascuna nazione deve procurar di rendersi indipendente dalle altre più che sia possibile; dico indipendente, perché la situazione de’ suoi interessi e le fortune de’ cittadini non siano precarie dagli altrui sta­bilimenti, ma abbiano tutto il loro vigore dalla forza e dall’industria interna.

Premetteremo per secondo assioma che noi dobbiamo preferire per l’attual popolazione, alla futura, la felicità dei viventi, che hanno un diritto acquistato sulle cose, a quella di coloro che sono ancora ingol­fati nell’oscuro abisso de’ possibili.

33. Ciò supposto, abbiamo detto nella prima parte essere l’alimen­to, o sia il prodotto di consumazione, quello che rappresenta tutti i travagli e tutti i valori; dobbiamo dunque dire che le terre coltivate ad alimento, o piuttosto generalmente a prodotto d’immediata con­sumazione, debbano essere le più numerose, e la suddivisione di que­ste terre a produrre varietà di cose consumabili, come li differenti bisogni, o siano consumazioni di tali più tosto che tali cose; così che per questo riguardo noi dovremo avere (parlando di colture esclusi­ve) più terre a fromento che a boschi, più terre a boschi che a qual­che altro genere di coltura.

Ma bisogna qui riflettere ed aver riguardo alla differente feracità d’un prodotto, paragonato con l’altro che sul medesimo spazio si col­tivasse. Non è l’estensione materiale del terreno che misurar deve la proporzione, ma l’estensione produttiva, se è lecito di così esprimer­si. Sarà dunque la quantità totale della terra impiegata a produrre la quantità d’alimento a, alla quantità di terra impiegata a produrre l’ali­mento b, in ragione composta direttamente della rispettiva necessità d’alimento, della fertilità sia naturale, sia artifiziale nel produrli.

Abbiamo detto ancora che a misura che le arti dipendenti le une dalle altre si scostano dalla produzione dell’alimento, o sia dall’essere immediatamente conversibili in immediata consumazione, devono essere tanto meno numerose (non avuto riguardo allo smercio este­riore); e che a misura che un’arte maggiore n’è più lontana, il di lei valore rappresenta una maggior quantità d’alimenti o sia di consuma­zione. Dovendo l’arte adunque rappresentatrice di tali alimenti esser più ristretta, la quantità di terra impiegata alla produzione della mate­ria prima d’una tal arte sarà tanto minore, quanto maggiore sarà la distanza d’una tal arte dalla immediata consumazione.

Ripetiamo, prima di conchiudere, ciò che abbiamo dimostrato, cioè che la troppa viltà del prezzo delle derrate primarie è contraria alle arti egualmente come l’eccesso del prezzo; che adunque in com­mercio esteriore può esser utile finché arrivi ad alzare il prezzo delle derrate, in modo che l’agricoltura rende al di là delle spese che dian prodotto in proporzione che sono sempre vigorose o depresse le arti.

34. Ciò premesso, diremo, come la totalità della consumazione necessaria a tutte le arti prese insieme è alla totalità della derrata neces­saria di quell’arte particolare, così la quantità di terra da impiegarsi alla produzione delle cose immediatamente consumabili e la rendita delle terre ed i salari impiegati a pagare l’industria. Frattanto è da avverti­re che io ho parlato delle arti per rapporto al bisogno interiore, non dall’esito esteriore, perché un’arte può essere accresciuta al di là di ciò che richiede l’interna coltivazione e le diverse produzioni di quella; ma in quel caso dirassi che l’arte sarà composta di due sorti di materia prima: cresciuta nel territorio nazionale, e della materia prima venutaci da’ forastieri.

Supponiamo che, in grazia dello spaccio esterno e della non libertà e non valore di alcuni prodotti dai vincoli avviliti, la coltura della materia prima, che è la base della supposta manifattura, sia coltivata al di là di queste proporzioni fissate. Dico che ciò sarà a spese ed in aggravio di tutto il resto de’ prodotti; che ci sarà un minor prodotto netto nelle mani de’ proprietari; e questo prodotto netto non avrà il maggiore spaccio possibile, e perciò la totalità delle arti medesime sarà minore e meno vigorosa, quantunque grande ed esteso potesse essere l’ingrandimento di quella particolare manifattura. Ma se l’accresci­mento dell’arte sarà per aumento della materia prima venutaci dal di fuori, allora quest’arte sarà in parte dipendente dalle arti subalterne e dai prodotti delle forastiere nazioni.

Figuriamoci un’altra volta la nostra piramide; ella si può dire di tanti piani decrescenti composta, quante sono le classi diverse de’ lavori. Se a misura che un piano è più vicino alla base, cioè all’agri­coltura, cresca, quantunque quella porzione di base che corrisponde allo sporgimento di questo piano non appartenga alla nazione, pure questo sporgimento stesso sarà un principio d’una nuova piramide, della quale la porzione superiore apparterrà alla nazione manufattrice, e l’inferiore alla produttrice. La piramide interiore rappresenterà i risultati dei prodotti interiori, e le piramidi esteriori quelli degli este­riori prodotti. Quindi saranno tanti più utili alla nazione, quanto que­sti piani saranno più vicini alla base, perché una maggior porzione ne apparterà alla nazione, la quale abbonderà di maggiori salari, di mag­giori comodità e di una concorrenza di consumatori maggiore e più vicina alla produzione.

Da ciò ne caveremo un’utile riflessione, cioè che fino ad un certo segno una nazione può prosperare a spese d’un’altra; ma, al di là d’un certo segno, la vera prosperità nostra produce la prosperità altrui, non essendo data agli uomini un’esclusiva felicità o miseria: chiaro indizio d’una secreta comunione di cose, e d’una non intesa fratellanza volu­ta dalla natura fra il genere umano, dalla quale la più profonda filoso­fia travede che i vari nostri interessi hanno una totale ed ultima dipen­denza dalla virtù. Onde sì belle contemplazioni possono elevare l’animo nostro dalle piccole e servili viste del privato interesse nelle serene e tranquille regioni della giustizia e della beneficenza. Si è detto quanto basta per indicare i principii generali e le proporzioni colle quali, quando facesse d’uopo, conviene animare e distribuire le differenti colture esclusive d’un territorio: dal che concluderemo che bisogna nella considerazione delle arti e delle materie prime valutar prima il bisogno interno, e con questa norma fissare le differenti pro­porzioni di coltura; perché altrimenti, se le materie prime d’alcune arti fossero animate al di là del limite stabilito, ciò sarebbe a spese di altre colture egualmente necessarie, e per conseguenza a spese di tutte le arti da quelle dipendenti.

35. Ma in qual maniera potremo noi animare ed incorraggire le diverse colture in maniera che non siano né eccedenti, né mancanti la ricercata proporzione? Rispondo che fissata ne’ casi particolari, secondo le viste e limitazioni sopra indicate, la quantità di terreno necessario ad una tale coltura che si vuol introdurre, misurate e cen­site le terre tutte d’uno stato, può essere ripartita idealmente su tutti i proprietari la quantità di terra che si vuol mettere a tal coltura; e fatta questa tal ripartizione, può una legge pubblicarsi, che chi su tanta terra coltivata ne adatterà una tal porzione, né più né meno, alla desiderata coltura, sia di tanto sollevato dal tributo per un certo tempo che si impone sulle terre; e questo tanto di sollievo debb’essere cal­colato in modo che l’interesse del proprietario si trovi a questa nuova disposizione. Per lo contrario, se una nuova coltura introdotta fosse tale, che fosse determinato il proprietario dall’utilità d’escludere la proporzione indicata, si può, invece del sollievo, sostituire l’accresci­mento, e con questo aggravio ripristinare secondo l’esigenza l’antica coltura. Ecco come i tributi sono in un tempo stesso ed un freno ed uno stimolo alle diverse sorti d’industria, che, rallentati o accresciuti a proposito, fanno della confusa e moltiplice varietà d’interessi un tutto che collima al bene universale della società: ma di ciò sarà par­lato accuratamente quando tratteremo delle finanze.

36. Le colture inclusive poi seguono altri principii e direzioni, soffrendosi l’una l’altra, qualche volta aiutandosi reciprocamente, sia per leggi fisiche della vegetazione, sia per le combinazioni morali; perché, un maggior numero di mani impiegandosi ad una minor quantità di terreno e crescendo il prodotto contemporaneo, aumen­tasi l’attività del lavoro e la ricchezza conservatrice dell’agricoltura. Queste dunque possono animarsi contemporaneamente, perché più difficilmente l’una si eleverà al di sopra dell’altra, giacché essendo contemporanee le colture ed i prodotti, i sbilanci de’ prezzi ridone­ranno l’equilibrio.

37. Da queste teorie caveremo per corollario che tra due arti o manifatture, le quali possono tener luogo l’una dell’altra nei bisogni e nella facilità dello spaccio, sarà meglio preferire ed animare quella di cui la materia prima può combinarsi con altre colture, in confronto di quella che le esclude. Per esempio, se noi potessimo ridur la seta a tale facilità di esito, e a tale varietà e comodità di usi appresso a poco come la lana (e chi sa che l’industria ed il tempo, sovrano maestro delle cose, non v’arrivi), non v’ha dubbio che noi dovressimo animar più la coltura de’ gelsi, che si combina coll’altre colture, che la coltura delle pecore, o per dir meglio de’ pascoli, perché il terreno su cui vivono è un terreno quasi perduto per altri generi di coltura.

38. Finalmente non sarà inutile l’accennare di passaggio che le suddette massime d’agricoltura direttrice possono benissimo essere appli­cate all’economia privata delle famiglie. Interessar gli uomini alla fatica è una massima che c’insegnerebbe a rendere migliore la condizione dell’agricoltore, a lasciar che egli possa disporre più liberamente dei frutti della sua industria, a non usurpare con arbitraria distribuzione quel prodotto di cui conviene la divisione. In questa maniera non ascoltando inavvedutamente né il presente guadagno, né i troppo avvantaggiosi ma brevi progetti, per cui l’accorto coltivatore, esaurendo in poco tempo le forze tutte d’una terra che egli considera come non sua, isterilisce ed annichila al proprietario la sorgente delle ricchezze, si verrebbe a fare il miglior uso, sia in proprio vantaggio, sia in quello del pubblico, della fatale ma necessaria disuguaglianza de’ beni.

Così il variar le colture non può non esser caro a quel privato che considera e calcola la varietà delle risorse, la maggiore moltiplicità delle azioni delle quali diventa distributore: moltiplicità di azioni in cui la vera ricchezza consiste, ed è il segno più naturale e più stabile dell’autorità.

V. Del regolamento dell’annona

39. Le precedenti teorie ci conducono naturalmente e ci danno i mezzi onde sciogliere il tanto dibattuto problema della libera o non libera negoziazione delle derrate che servono di alimento alla nazio­ne, principalmente della derrata di prima necessità, cioè il fromento. Noi intrapprendiamo a trattare un grande e delicato argomento, su del quale non sono meno divise le penne di coloro che scrivono, come gli interessi di coloro che eseguiscono; argomento reso oscuro dall’intralciata complicatezza di tante opposte mire, e reso delicato da quella sorte di dispute che sono troppo terribili ai nudi seguaci della pacifica ragione. Molti volumi sono stati scritti su di quest’importan­te materia, e se io volessi stendere tutto ciò, che appartiene a questo soggetto, esaminare tutti i sistemi, combattere tutte le obbiezioni, spingere i sofismi negli ultimi loro ritiri, doverei assorbire per que­sto solo capo tutto quel tempo che consumar si deve a tutta la scienza.

Io mi contenterò dunque d’indicare i principali punti di vista, dai quali, più che dalle mie asserzioni, potrà ciascuno cavarne da se stes­so un risultato chiaro e distinto. Per procedere con chiarezza e con precisione, noi distingueremo vari casi ne’ quali le nazioni si trovano. Nel novero di questi casi ci contenteremo d’alcune soluzioni ipoteti­che e condizionate, non assolute e generali, come la natura stessa delle circostanze esigge dall’avveduto politico, che non vuol azzardare né in fatto né in opinione la sussistenza e la vita di migliaia di persone.

40. Prima di tutto, bisogna distinguere que’ paesi che scarseggiano della derrata d’alimento da quelli che ne abbondano. Fenomeni in tutto differenti accadono in così opposta situazione. In un paese dove il territorio non produce che poco pane e non sufficiente all’attual popolazione, ivi senza dubbio v’è condotto da altre parti. Se manca per invincibile difetto del terreno, allora nient’altro resta a fare, che o acquistar paesi che ne abbondano, o coll’industria e coll’economia cambiare i propri lavori coll’alimento; ma quando questo difetto del terreno non sia invincibile, ma prodotto da mancanza di braccia e dal­l’essere la terra occupata a coltura per allora più vantaggiosa – il che per incidenza riflettasi non esser sempre assolutamente così, ma spes­so solo relativamente –, allora la coltura del grano dev’essere incoraggita, ed il miglior incoraggimento d’una coltura non può essere che il libero spaccio del prodotto. Certamente in questo caso non si deve temere che l’uscita del grano dello stato produca la carestia, per­ché in un paese che scarseggi, essendo già avviate le introduzioni del grano, a questo scopo dirigendosi una gran parte de’ commerci e delle fatiche della nazione per il corso degli affari tutti, è già diretto in maniera, che tanto ne manca al di dentro, tanto ne venga al di fuori. La libertà del commercio fa che se ne accresca la coltura; il prezzo piuttosto alto, a cui un commercio passivo di grano rende soggetto il valore di questa derrata, ne rende utile la coltura a chi l’intraprende sotto gli auspici della libertà e in vista della potente attrattiva del gua­dagno. L’accrescimento lento, ma successivo del prodotto interiore, entra in paragone ed in concorrenza con quello che viene dal di fuori, già avviato ed assuefatto a divenir cambio dell’industria interna; non fa dunque che diminuire il prezzo del grano estero, e rendere più avvantaggioso il prodotto interno a chi lo coltiva, e meno utile il commercio esterno a chi lo fa.

41. Ciò che deve principalmente calcolarsi nel commercio reci­proco del grano fra le nazioni si è la spesa del trasporto, per la quale spesa bisogna vedere se sia pagata dal compratore o dal venditore. Quello che è certo in ogni caso si è che nel concorso generale d’una merce qualunque, che da varie parti sia trasportata ad un luogo solo, si forma un prezzo comune, essendo i venditori in reciproca concor­renza. Dunque quella parte di trasporto, dalla quale nessun venditore potrà prescindere, sarà necessariamente pagata dai compratori; ma quella spesa di trasporto, che eccede questo limite, sarà pagata dai venditori senza risarcimento, perché non potranno vendere la merce giammai al di là del prezzo comune. Ciò supposto, dunque, si riflet­ta che nel prezzo del grano estero ci è sempre una spesa di trasporto pagata dallo stato che riceve la derrata, e questo prezzo del trasporto è un rifacimento di spesa che fanno i compratori ai venditori.

Dunque la spesa del trasporto del grano in una nazione mancante di questo prodotto è in danno della nazione che riceve, e un risarci­mento alla nazione che vende; ma non è utile di questa come vendi­trice. Il valore originario d’una merce, che io voglia vendere, sia per esempio 18, il guadagno 2; io la porto a vendere, ed il trasporto mi costi ; io la vendo 25 o 29 almeno, sacrificando 1 di guadagno, perché debbo rifarmi della spesa di trasporto; se un altro non ha la spesa di trasporto che di 1, egli può venderla 20, 21, 22, 23, cioè può ven­derla a un minor prezzo e guadagnar di più. Questo può essere il caso d’una nazione scarseggiante di grano, che ne riceve dal di fuori per supplemento, e che commercia liberamente1 del proprio; essendo minore la spesa del trasporto del proprio grano in paragone di quella del trasporto del grano estero, il prezzo del grano interiore sarà mino­re per i compratori, ed il guadagno de’ venditori del grano proprio e nazionale sarà maggiore; la differenza tra questi due trasporti può dividersi in minor aumento di prezzo in favore dei compratori, ed in aumento di guadagno in favore dei venditori interni.

42. Ma tutt’altre considerazioni devono farsi quando la derrata comincia ad essere sovrabbondante, e i punti di vista sotto di cui deve essere riguardata questa sovrabbondanza cominciano a divenire più intralciati.

Non v’ha dubbio che sia necessario in ogni paese coltivatore di aprire un’uscita al superfluo de’ prodotti; questo è il principio d’ogni commercio, cioè di smaltire ciò che sovrabbonda per procurarsi ciò che manca. Ma i partigiani dei regolamenti soggiungono esser necessario di render ben precisa l’idea di superfluità: trattandosi dei prodotti di prima necessità, chiameremo noi superflua quella quantità di fromento che eccede l’annuo consumo di una nazione? Non del tutto, certamente: perché i casi fortuiti richieggono un avanzo che serva di risorsa nel caso d’una improvvisa carestia, inevitabile da chi vive sotto un cielo e sotto la moltiplice combinazione delle prepotenti cause fisiche. Chiameremo noi superflua quella quantità di fromento, la quale è utile che sovrabbondi nella nazione, accioché nasca con­correnza di venditori e si ottenga il buon effetto di tenere ad un medio livello il prezzo dell’alimento, il quale, essendo rappresentatore d’ogni lavoro, se sia di difficile ritrovo incarisce la man d’opera e ributta gli uomini da una fatica che lentamente premia e sostiene i tra­vagliatori? Aggiungo ancora essere necessaria questa sovrabbondanza, acciocché si vada all’incontro d’un grandissimo male, quale è quello dell’opinione della carestia, più terribile e più frequente della carestia medesima.

Ma, su di ciò, rispondono i partigiani della libertà che appunto per esser troppo difficile di fissare il limite dell’annua consumazione, è ben più difficile il conoscere dove cominci la superfluità, per le ragio­ni sovrallegate; essere dunque necessario di lasciare un libero corso, sia alle uscite come alle entrate: alle prime, perché il prezzo non si avvi­lisca nell’abbondanza e non si perda una così preziosa coltivazione; alle seconde, perché l’abbondanza dell’altre nazioni supplisca alla scar­sezza di quella. Dicono essere diversi totalmente i confini politici degli stati i quali dipendono dalle successioni de’ sovrani e dai tratta­ti di pace, dai confini delle nazioni commercianti, i quali dipendono dall’estensione delle pianure, dalla qualità delle terre e dalle catene dei monti, dai corsi de’ fiumi, dalle situazioni marittime mediterranee, ecc.; che la man d’opera s’equilibra ben più presto nel caso della per­fetta e reciproca libertà, che nel caso dei regolamenti, perché la man d’opera è utile ad uno stato, è quella che è regolata dal prezzo comu­ne delle nazioni commercianti: e appunto la libertà non fa altro che alzare il prezzo al di là del prezzo comune de’ generi delle nazioni commercianti, mentre nel sistema dei regolamenti il prezzo è al di sotto del comune. Dunque in primo luogo perdono i venditori; dun­que, hanno meno salario da pagare; dunque in secondo luogo si avvi­lisce la produzione, manca il prodotto, s’incarisce la derrata, e s’incarisce per mancanza, il che è dannoso, non per la concorrenza, il che è utile.

Da queste reciproche ragioni noi caveremo facilmente che è neces­sario distinguere la differente situazione d’un paese agricolo, nel caso che abbondi della derrata d’alimento. Tutti i commerci e tutti gli affa­ri si diriggono verso questa sorte di commercio, e l’avviamento ed il corso di tutte le derrate non è più l’entrata ma l’uscita. Se dunque liberamente esce il grano in tali circostanze, senza avere alcun freno ed ostacolo, possono vari casi accadere: o ne può venire al di fuori, o non ne può venire; o è facile l’uscita, e difficile l’entrata; o siamo cir­condati da nazioni che fanno lo stesso commercio, o da nazioni che ne scarseggiano esse pure, e ne ricevono da altre; o la nazione è marit­tima, o mediterranea.

43. Tutti questi casi, secondo gli amatori dei regolamenti, devono essere distinti accuratamente; e i più moderati fra d’essi, cioè quelli che non portano lo spirito regolatore a segno di voler limitare ogni sorta di contratto, accordano la libertà del commercio de’ grani sola­mente per alcune nazioni, e la negano ad altre, principalmente a quella nella quale essi vivono. Ma, secondo il mio parere, io son d’avviso che tutti questi casi chiaramente si riducono a due soli. Il primo è quello dove l’entrata del fromento è tanto facile e sicura quanto l’u­scita; il secondo, quando l’entrata sia quasi certamente impossibile, restando certa e sicura l’uscita. Gli amatori della libertà negano la pos­sibilità di questo caso; primo, per la quasi universale coltivazione del fromento, la quale si fa dappertutto dove sono terre buone e non troppo montuose, e queste tali terre qual più qual meno si trovano in ogni parte del nostro continente; secondo, perché il commercio del grano si fa per via di successiva comunicazione, e non per trasporto totale di un luogo all’altro: mi spiego. Se 30 villaggi, uno de’ quali sia ai confini, e l’ultimo verso il centro di una provincia, siano talmente disposti che ai confini pervenga quantità di grano, e che vi sia scar­sezza sempre più grande verso il centro, il grano non si trasporterà sal­tuariamente dai confini al centro, ma invece l’ultimo limitrofo villag­gio provvederà il penultimo, questo il susseguente, e così, di mano in mano, fino al centro. I contradittori della libertà asseriscono per lo contrario la possibilità di questo caso, e si appoggiano sopra sperienze.

Io non credo necessario di esaminare quale dei due partiti in tal caso abbia la ragione e quale il torto; questa è una questione di fatto, che non si può sciogliere particolarmente, ed è odioso sovente il farlo, come lo è sempre in tutte le questioni di fatto, perché la veracità dei disputanti è compromessa. Dunque si parlerà in conformità de’ due casi, lasciandone l’applicazione a quelli che dovranno essere gli ese­cutori.

44. Ognuno vede che, se il grano può venire dal di fuori, la libe­ra uscita di esso, ben lungi di essere dannosa, sarà utile, anzi necessa­ria, perché nel caso dell’abbondanza di questa derrata l’avvilimento del prezzo corrente farebbe due grandissimi mali alla società. Il primo sarebbe contro la giustizia, perché farebbe torto e danno ai proprieta­ri e venditori. La proprietà d’una cosa consiste nell’uso plenario di quella, e nel poterne ritrarre tutti quegli avvantaggi che dalla natura sua dipendono; ora, l’avvilimento del prezzo di un genere al di sotto di quello che, tolti gli ostacoli, potrebbe valere, è lo stesso che togliere una parte dei vantaggi che i proprietari potrebbero ritrarre dalla cosa propria, il che è un violare la proprietà, il che è un’ingiustizia. L’altro male grandissimo, che è una conseguenza di quello, sarebbe lo scoraggimento della coltura, onde la reale diminuzione del prodotto totale, una ben più grande e più rapida diminuzione del prodotto netto, dal quale dipende il salario dell’industria, il tributo del sovrano e le spese pubbliche.

Ma qui, prima di proceder più oltre, è necessario di avvertire quan­to vaghi siano que’ termini di venire al di fuori, di uscire dall’interno d’una nazione le varie merci. Questi termini sono meramente relati­vi: il fromento che si raccoglie in una terra vicina può dirsi esterno riguardo all’altra terra, ancorché le due terre appartengano ad un medesimo stato; parimenti due terre finitime e contigue, poste l’una al di qua del confine, l’altra al di là, non potranno chiamarsi terre este­re, né il raccolto dell’una riputarsi estero riguardo all’altro, se per tali non si reputano due terre vicine d’un medesimo stato. Tutto ciò apparirà chiaro riflettendo di nuovo altra cosa essere i confini politi­ci, ed altra i confini fisici de’ paesi. I veri confini, cioè quelli che fanno una reale differenza nel commercio de’ prodotti, per cui gli uni pos­sano chiamarsi veramente esterni rispetto agli altri, sono quelle situa­zioni nelle quali resta fisicamente interrotta la contiguità e successiva comunicazione, onde il commercio non si faccia che saltuariamente e per lunghi trasporti.

Ma se non ne può venire dal di fuori – intendomi nel senso pre­ciso qui sopra spiegato –, allora sonovi due casi da considerarsi, cioè il trasporto del grano interno fuori de’ confini, lungo e difficile, ed il trasporto facile e breve. Se il trasporto è lungo e difficile, la spesa di un tale trasporto alza il prezzo della derrata senza che si aumenti il guadagno perciò dei venditori; a questi giova piuttosto il venderlo sullo stato, perché possono aumentare il guadagno della vendita per tutte le successive porzioni d’ alzamento di prezzo, a cui ascendereb­be la spesa del trasporto; in questa supposizione non escirebbe in con­seguenza che il vero superfluo, quello cioè che sarebbe funesta cosa se escir non potesse. Dunque l’inconveniente della libera sortita, o per dir meglio della libera contrattazione, sarà in tal caso tanto minore, quanto fosse più grande la difficoltà e la lunghezza del trasporto al di fuori.

45. Resta l’unico e complicato caso, nel quale il trasporto sia breve: per la vicinanza de’ confini al centro di uno stato o al centro della massima coltura di questa derrata; sia facile, per la utilissima faci­lità delle strade, per il comodo de’ canali, e nel medesimo tempo lo stato sia disposto in maniera che non possa provvedersi de’ grani altrui, come quello provvede gli altri de’ propri; che sia attorniato da nazioni che manchino assolutamente di questa derrata, e nel medesi­mo tempo ch’egli abbia uno stretto e facile commercio con altri generi di quelle. Allora l’inconveniente d’una troppo libera contrat­tazione può essere tanto più da temersi, quanto la derrata non sia sovrabbondante al consumo, ma precisamente proporzionata a quello.

Supponiamo uno stato che si dirami e s’intersechi per mezzo gli stati altrui, in maniera ch’egli abbia molta estensione in lunghezza e poca in larghezza. Supponiamo altresì che per una non ordinaria combinazione, questo stato, non composto in certa maniera che di queste lunghe liste di terra, sia il solo, fra le nazioni che d’ogni parte lo circondano, provveduto di fromento, mentre le altre ne manchi­no, cossicché siano costrette di provvedersene altrove a caro prezzo. In questo stato, composto per la maggior parte di confini, vi sia quel­l’abbondanza che non eccede la consumazione d’un numero consi­derabile d’abitanti: vedrà ognuno (come si pretende dalli contrari all’assoluta libertà) che, supposta la libera perfetta contrattazione colle altre nazioni mancanti, può restare questo stato in un momento sprovveduto e mancante del proprio grano, attesa la facilità di farlo uscire dove i confini siano lunghi ed estesi, i trasporti facili, il bisogno pressante e moltiplicato, il guadagno considerabile.

Soggiungono i partigiani del regolamento, che non gioverebbe il considerare che, posto che quelle tali nazioni mancanti di grano pro­prio esistano separatamente dallo stato in questione, è segno che esse possono aver grano e tutte le cose d’altronde che dallo stato di cui si parla; altrimenti o sarebbero già incorporate nello stato stesso, o quel­le nazioni non esisterebbero; nel qual caso non si è certamente da temere l’uscita, perché rispondono doversi distinguere i due differen­ti trasporti, nel caso che qui si tratta. Il trasporto dello stato che s’in­sinua fra queste nazioni è facile, in modo che in pochissimo tempo da una parte e dall’altra de’ lunghi confini suoi può essere rovesciata nelle nazioni circondarie la maggior parte del grano territoriale, e in que­sta maniera costringere lo stato a dividere con due milioni di persone quel grano che basta ad un sol milione. Il trasporto del grano che da altre lontane nazioni provvederebbero le nazioni circondarie, suppo­sto che lo stato del quale si tratta non volesse accordarglielo, sarebbe un trasporto più lungo, più difficile e dispendioso, e per conseguen­za molto più tardo che non il trasporto dello stato che si dirama fra queste nazioni bisognose.

Dunque in primo luogo – dicono i partigiani della limitazione –, supposta la libera ed assoluta promiscua contrattazione, tutti i com­merci si farebbero con questo stato abbondante e fornito, e nissun commercio ci sarebbe con stati più lontani; onde nel caso di mancan­za non ci sarebbe compenso per il mezzo del grano trasportato dalle lontane nazioni. In secondo luogo, quando si supponga ancora que­sto commercio e per conseguenza il compenso alla mancanza, la com­pensazione arriverebbe troppo tardi. Il grano non si raccoglie che una volta l’anno: la distanza da una riproduzione all’altra è considerabile; dunque nel caso nostro non ci sarebbe proporzione tra la celerità con cui potrebbe distribuirsi in giro il grano dello stato, colla tardanza del trasporto del grano di più remote nazioni che potrebbe supplire alla mancanza. In pratica dunque questo preteso supplemento non ci sarebbe; la libera uscita del grano non sarebbe in concorrenza col­l’entrata; tutto il corso degli affari e delle mire si rivolgerebbe alla ven­dita vantaggiosa d’una tal derrata, frattanto che l’uscita facile e momentanea di quella non ritornerebbe in utile ed in accrescimento della coltura, perché in questo caso si suppone che la terra ne dà quanto ne può dare, o prossimamente, il che ne’ politici ragionamenti è lo stesso. La spesa del trasporto non è quella in tal caso che alzereb­be il prezzo del grano, per cui tornerebbe a conto ai nazionali di ven­derlo dentro de’ propri confini, ma la ricerca e la necessità delle vicine nazioni; mentre un tale alzamento sarebbe, è vero, tutto in vantaggio de’ venditori, ma non potrebbe per ciò impedire che il pane che basta a nutrire solamente un milione di persone, per esem­pio, non fosse costretto a dividersi fra due milioni, col disagio di tutti, coll’eccessivo incaramento della derrata medesima; dai quali effetti nasce nel popolo la carestia, o per dir meglio l’opinione di quella, fonte principale delle sedizioni e di tutti i disordini che vengono in conseguenza di quelle, sia per l’inquietudine tumultuosa del popolo, dall’una parte, sia per la fredda avidità de’ commercianti, dall’altra, che li spinge a profittare de’ panici timori e delle pubbliche calamità. Dunque tanto più facile sarà il trasporto, nel caso di un paese che fac­cia esclusivamente dalle altre nazioni circondanti il commercio del grano, tanto maggiori possono esser gl’inconvenienti dell’assoluta libertà di farlo uscire dai confini.

46. Né giova in questa supposizione il riflettere che, supposta l’assoluta libertà, molti essendo i proprietari del grano, molti i venditori e commercianti di quello, la moltiplicità di tutti costoro farà che il prezzo si mantenga sempre ad un mediocre livello, perché l’emula­zione di vendere farà in modo che gli uni, a gara degli altri, offrano un miglior partito della merce vendibile. Rispondo che una tale concorrenza di venditori abbassa il prezzo, primo, finché esiste la quan­tità assoluta della derrata che si vende; secondo, a misura che questa derrata non è d’immediata consumazione e d’inesorabile necessità. Ma quando questa comincia a mancare (e nel caso mancherebbe con successiva e rapida celerità), scema la concorrenza dei venditori, i quali vanno aumentando le loro pretensioni, accorgendosi della man­canza, ed aumentano il prezzo in vista d’un utile più sicuro. Gli uomini si riuniscono più facilmente nel medesimo scopo e nel mede­simo interesse, quanto il bene che ne sperano è più sensibile e più immediato. Nel caso nostro, essendo la derrata di consumazione gior­naliera e di prima necessità, la sicurezza dello spaccio incoraggisce i venditori ad aumentarne il prezzo senza temere rifiuto dalla parte dei compratori.

Da tali ragionamenti sembrami d’aver dimostrato che generalmen­te la libertà assoluta, ossia il non sistema, è il migliore di tutti i sistemi in materia d’annona che si possano immaginare dal più raffinato poli­tico, e nel medesimo tempo non esserci che un caso complicato, nel quale debbano verificarsi cinque rare e difficili supposizioni, il quale sia favorevole alla limitazione, e nel quale potrebb’essere più politica­mente che economicamente dannosa l’assoluta libertà della contratta­zione ne’ generi; caso nel quale può essere funesta non l’aumentazione del prezzo di quelli, ma la privazione instantanea e la mancanza della derrata. Vedremo dunque in questa supposizione quali siano le modificazioni che si devono dare alla libertà del commercio di questi generi, modificazioni che debbono scostarsi il meno che sia possibile dalla libertà medesima.

47. Prima di procedere più oltre, aggiungiamo ancora un’altra considerazione, che può essere favorevole in parte ai partigiani della limitazione, sempre però nel caso complicato unicamente qui sopra supposto. Data la piena e totale assoluta libertà in una nazione colti­vante grano, il territorio della quale si suppone stendersi ed insinuar­si in altri territori forastieri mancanti quasi totalmente di grano, allo­ra potrebbe accadere che la maggior parte delle terre fossero coltivate a grano, quando una parte di queste potrebbe ammettere varie coltu­re di varie materie prime, che sono la base di tante arti ed il comple­mento di tanti e sì diversi bisogni? Credo d’aver sufficientemente accennato quel che si debba pensare generalmente intorno a ciò nel capitolo antecedente;1 dirò qui soltanto che la piena licenza di ven­dere fuori della nazione tutto il fromento, nel caso che non ci sia con­correnza d’un simile prodotto, renderebbe nelle date circostanze van­taggiosa la coltura, talmente che si piegherebbero a poco a poco tutte le terre a quest’unico prodotto, e boschi e pascoli e lini ed altri gene­ri di coltivazione svanirebbero dalla nazione. Vi sarebbe l’alimento che paga un travaglio già fatto, ma mancherebbe la materia prima che sup­pone un travaglio da farsi. I principii esposti nel capitolo antecedente mi dispensano da un ulteriore sviluppamento di questa riflessione.

48. Quali saranno dunque, nell’accennata supposizione, le modifi­cazioni più utili che si debbono interporre alla licenza d’un tale com­mercio?

Abbiamo veduto che, a misura che il trasporto dal centro della massima coltivazione alla circonferenza è più lungo e difficile, tanto meno debbano temersi gli inconvenienti d’un’assoluta libertà, la quale nell’accennata supposizione sarebbe di gran lunga più favorevole all’uscita che all’entrata. Dunque, nel caso che questo trasporto sia di sua natura facile e breve, si dovrà procurare di renderlo artificialmen­te lungo, difficile e dispendioso, perché in questa maniera si avvera il doppio vantaggio di conservare in apparenza tutta la possibile libertà, che anima gli uomini alla fatica, e l’industria del commercio si man­tiene alacre e vigorosa, e nel medesimo tempo di frenare l’interesse personale tra quei limiti ne’ quali divenga una forza combinata con il bene pubblico, non una contraria e distruttiva di quello. Si rende arti­ficialmente dispendioso un trasporto, di sua natura facile e spedito, col mezzo delle gabelle che ai confini si pongono. La spesa della gabella equivale alla spesa d’un trasporto più lungo, spesa che non è in van­taggio né del venditore, né del compratore, e che per conseguenza, ancor che sia pagata dal secondo (il che non sempre si verifica, per­ché i compratori forastieri comprano alla concorrenza generale di tutti i mercati, non al prezzo stabilito al mercato d’una nazione in partico­lare), non diventa però giammai un utile per il primo. Anzi, la spesa di questo trasporto medesimo consiglia al venditore di risparmiarlo e vendere ai nazionali piuttosto che ai forastieri, perché nel medesimo tempo potrà vendere a miglior mercato per il risparmio della spesa del trasporto, e fare un maggior guadagno; perché risparmiando un aggravio al compratore, può dimandare per sé una porzione di questo medesimo risparmio, come già varie volte abbiamo accennato.

49. A misura che sorte una derrata dallo stato, ella diviene sempre più scarsa, il numero de’ venditori si diminuisce, quello de’ compra­tori cresce, il prezzo dunque s’alza a poco a poco; dall’alzamento dunque del prezzo, supposta libertà nella contrattazione assoluta e piena dentro i confini, si può conoscere l’abbondanza o la scarsezza del grano. Quando dunque il valore eccede quei limiti che si credono i più giusti, acciocché né la derrata sia avvilita, né l’alimento troppo difficile e costoso, onde la man d’opra riesca troppo cara in confronto degli altri paesi; quando dunque il valore ecceda questi limiti, allo­ra una gabella ai confini allunga, per così dire, e difficulta il traspor­to economicamente se non fisicamente, rende al venditore più utile la vendita nell’interno che al di fuori, e la derrata che tutta si avviava a sortire rigurgita all’indietro, il prezzo di nuovo abbassandosi in vantaggio delle arti ed in sollievo del popolo, mentre questo ribasso non riesce dannoso realmente ai venditori e proprietari del grano, come si dimostrerà qui appresso.

50. Dunque in generale si potrà dire che la massima d’un’assoluta libertà, quando la nazione sia posta nelle circostanze di potere profittare della concorrenza universale de’ contratti non solamente de’ pro­pri grani, ma ancora de’ grani altrui, sia la vera massima economica che generalmente dovrassi adottare, perché allora si stabilisce il vero, naturale e costante prezzo delle cose tutte; il quale, appunto per esser tale, sarebbe una formale contraddizione di supporlo eccedente, di supporlo dannoso a quelle medesime arti che non possono sussistere, anzi nemmeno stabilirsi e nascere senza i prodotti della terra; e i pro­dotti della terra non possono essere abbondantemente raccolti, se non a misura che compensano le spese e premiano chi li raccoglie. Quan­do poi una nazione si trovasse veramente fuori del caso di profittare dell’universale concorrenza, allora una gabella proporzionata in primo luogo al successivo accrescimento del prezzo, regolata in secondo luogo sulla distanza de’ trasporti differenti de’ grani che potrebbono concorrere col grano di questa nazione, sia il miglior metodo onde regolare questo importante commercio.

51. Per meglio sviluppare questo importante soggetto non restano che alcune modificazioni da aggiungersi, di più difficile custodia, rela­tivamente alle forze interne dello stato. Vedrà ognuno parimenti che i confini in queste circostanze non debbono consistere solo in una semplice linea di divisione co’ stati finitimi, ma una fascia che da quel­la comincia e stendesi alquanto nell’area interna, accioché il tortuoso contrabbando non abbia un punto da superare ma molti, e sia frena­to dalle ripetute probabilità di soccombere. In secondo luogo si è detto una gabella e non una proibizione assoluta, perché saranno più frequenti le contravvenzioni e gl’inconvenienti più grandi dove siano usate le proibizioni assolute, che dove siano adoperate gabelle. Per ben intendere ciò, bisogna riflettere alla natura del contrabbando, il quale cresce e diminuisce per due forze diverse: l’una, per quella che lo impedisce, vegliando continuamente contro di quello; l’altra, per la maggiore o minore spinta che hanno gli uomini a farlo.

In primo luogo v’è una differenza di circostanze fra la custodia e l’esecuzione d’un divieto assoluto, e la custodia e l’esecuzione d’una gabella proporzionata; perché i custodi d’un assoluto divieto possono più facilmente esser corrotti dal contrabbandiere, a cui, niente costan­do l’uscita, può tornare a conto una tal corruzione. È vero essersi tal­volta usato d’interessare i custodi nell’invenzione, ma questo metodo è troppo abusivo per chi pensa allo spirito della legge e del divieto, il quale consiste a far sì che la merce non esca e fare in modo che non ci sieno invenzioni, a far in modo che non ci sieno patti co’ custodi, onde divenga un oggetto di rendita e di privativa ciò che è un ogget­to di sicurezza, di precauzione. Per lo contrario, supposta una regola­ta gabella sui veri da noi accennati principii, o i custodi defraudano col contrabbandiere la gabella, ed egli è soggetto sempre ad un aggra­vio, il quale può divenir maggiore della gabella medesima, che però otterrà il medesimo effetto riguardo alla remora che si vuol frapporre all’uscita; o senza i custodi cerca egli di defraudare la gabella, e dico allora ch’egli avrà meno motivi di farlo, di quello che sotto un asso­luto divieto: il rischio di chi contravviene al divieto della gabella è la perdita della merce defraudata, o ancora qualche altro valore mag­giore.

Ci è dunque una porzione tra questa pena e la gabella; il rischio del contrabbandiere vale dunque un determinato valore, il suo gua­dagno vale il risparmio della gabella. Ma quando vi sia un divieto assoluto, il suo rischio vale il valore della merce, ma il suo guadagno vale la differenza tra il valore della merce medesima venduta al di den­tro, ed il valore di quella venduta al di fuori. Questa differenza, dove vi sono divieti assoluti, è sempre grande, a misura dell’abbondanza interiore che avvilisce il prezzo della ricerca esterna; il guadagno del contrabbandiere, proporzionale a questa differenza quando gli riesca il contrabbando, sarà maggiore; vi saranno dunque maggiori motivi producenti il contrabbando contro i divieti, che contro le gabelle.

52. Un’altra considerazione, per la quale è preferibile la gabella ai divieti assoluti, si è che coll’introduzione di questi divieti si unisce essenzialmente la necessità di concedere licenze particolari d’uscita.

Quale è in questo caso ordinario l’effetto della proibizione, suppo­sto l’arbitrio di concedere licenze, o, come si dice, le tratte? II primo si è l’avvilimento del prezzo nel tempo della raccolta: vale a dire che il prezzo de’ generi in quel tempo sarà al di sotto del naturale suo livello; in tal caso saranno alcuni che avranno l’avvedutezza e la faci­lità, in grazia del poco valore e della concorrenza forzata de’ vendito­ri, di ammucchiarne una gran quantità. Quelli che saranno ricchi di questa merce d’esito sicuro e ricercata al di fuori, troveranno certa­mente non so quali, ma infallibili modi di ottener le licenze. Le cir­costanze di molti stati, le convenzioni fra principi e principi, ed altre considerazioni esiggono queste licenze; colla licenza di cento, non è difficile che passi mille; e in pro di chi passano questi mille? Non certo in vantaggio de’ venditori, i quali hanno venduto a basso prez­zo, ma in vantaggio degli incettatori, i quali lo vendono ad alto prez­zo. Egli è facile di vedere che l’alto prezzo del grano venduto da’ venditori primi, o sia da’ proprietari e coltivatori, è utile all’agricoltura, è utile alle arti medesime, per la maggior somma di salari che distri­buisce, la quale eccede il danno che potrebbe nascere dall’accresci­mento del valore della man d’opera; ma l’istesso alto prezzo del grano venduto dagli incettatori diviene dannoso all’agricoltura, perché non ritorna sulla terra una parte della ricchezza e del valore del grano medesimo; è dannoso alle arti, perché questi incettatori, quanto si arricchiscono, altrettanto son pochi di numero, e le spese, che essi possono fare maggiori col guadagno della loro rivendita, non eccede­ranno proporzionalmente il torto fatto alle arti in grazia dell’accrescimento del valore della man d’opera.

53. Dunque pare che il metodo delle tratte arbitrarie, o comprate o gratuite, incoraggisca i tanto temuti monopoli, i quali nascono sempre nel caso in cui si prevegga dall’avveduto negoziante un salto, o almeno un veloce passaggio dal basso all’alto valore di una merce qualunque.

54. Ma la gabella non è il solo mezzo con cui si sia pensato di pre­venire la soverchia uscita della derrata di prima necessità. Tre altri metodi ci restano da considerare, i primi due de’ quali son combina­bili colla gabella, cioè i pubblici mercati e le gratificazioni; il terzo metodo poi è quello de’ pubblici magazzini, quanto ovvio, altrettan­to pericoloso.

55. I mercati sono i luoghi di ritrovo e di concorso dei comprato­ri e dei venditori, nei quali molti cercano di vendere una data merce, molti cercano di comprarla. Quando questi mercati sono frequenti in un paese, gli uni servono di norma agli altri nel fissare il prezzo delle cose; in questi adunque, per la reciproca concorrenza universale e sensibile de’ venditori e de’ compratori, si stabilisce il prezzo il più giusto ed il più utile delle merci, cioè né troppo infimo né troppo alto. La concorrenza di molti che attualmente comprano e vendono sotto la tutela e la guardia della reciproca emulazione, una tale con­correnza divisa e sparsa su molti luoghi, e questi luoghi scelti e adat­tati alle comode riduzioni degli abitatori, fanno sì che i monopoli siano prevenuti, che la facilità di perdere gli avventori prevenga le frodi: insomma che l’affluenza di molti interessi opposti, incrocic­chiandosi tra di loro, impedisca il soverchio accumulamento in poche mani d’un genere, nelle quali, imperioso, si farebbe delli bisogni altrui una privativa ricchezza.

56. Il metodo dunque dei mercati, ove si facciano i commerci dei grani, sarebbe utilissimo a fissare ed a ritrovare il natural prezzo dei grani medesimi, e ciò principalmente in que’ paesi ne’ quali, da tempo immemorabile essendosi perdute di vista le tracce infallibili della libertà del commercio, i prezzi delle cose si trovano sviati dalle naturali loro direzioni, e dalle mani della proprietà sono passati sotto quelle delle privative e franchigie. I mercati adunque servirebbero ad accostumare la nazione alla libertà medesima, ad assicurare per lungo tempo le inquietudini d’un popolo assuefatto a temere le carestie, perché senza che egli se ne accorgesse erano prodotte da’ quei mezzi medesimi che si adoperavano peraltro colla più retta intenzione a pre­venirle.

57. Due leggi si sono usate presso varie nazioni allorché si è cre­duto da quelle di dover far uso de’ mercati per l’approvvisionamento sicuro delle provincie. La prima è quella di obbligare i proprietari delle terre posseditori de’ grani di portare sui mercati una data por­zione del loro raccolto: ma perché questa non sia una violenza che distrugga la raccolta medesima, perché questa obbligazione non sia gravosa di troppo a chi vi fosse soggetto, è necessario che codesti mercati siano a portata di tutti i diversi proprietari, e perciò frequenti e ben distribuiti. Altra legge più semplice è quella che rendesse invali­do ed illegale ogni contratto di grano non fatto su tali mercati, o vera­mente esentuare i detti contratti fatti sui medesimi da una gabella qua­lunque posta sui contratti fatti fuori di essi, mentre la perdita del grano è la pena annessa alla contravvenzione di queste leggi, per l’esatta osservanza delle quali sono necessarie le notificazioni; il che dovrebb’essere eseguito gratuitamente per mezzo de’ pubblici sensali, che a tal notificazione fossero tenuti.

Ma queste leggi limitative della libertà de’ contratti, che l’uso della proprietà ristringono e modificano, perché siano osservate senza avvilimento della coltura e dell’industria, perché la frode non entri di sop­piatto a rendere frustranei gli effetti della legge, è necessario che code­sti mercati siano dalla pubblica autorità protetti e sostenuti; che privi­legi e franchigie ottengano a preferenza di tutti gli altri luoghi; che magazzini vi sieno di deposito aperti e communicabili ai venditori; che la più inviolabile sicurezza, che la più grande facilità per la con­servazione inviti ed incoraggisca i venditori del grano. I privilegi sono sempre dannosi, quando sono concessi ad alcuni esclusivamente, a preferenza di tutti gli altri; ma possono essere altrettanto utili quando sien concessi non alle persone direttamente, ma alle azioni conformi al pubblico bene, in modo che a chiunque sia aperto l’adito del godi­mento del privilegio, perché sia in suo potere di fare quell’azione a cui va annesso. Non v’è pericolo certamente che sieno monopoli dove vi sono molti pubblici mercati. La frequenza e la buona distri­buzione di quelli, la contemporaneità di molte e diverse vendite e compre, prevengono e disturbano le più fine speculazioni de’ mono­polisti. Ma nonnostante queste utilità de’ mercati, potrà ognuno vedere in quanto imbarazzo di leggi, per quanta tortuosità di cautele deve passare quella nazione, la quale dalle circostanze sia costretta a scostarsi anche un menomo che dall’assoluta libertà. Questa riflessio­ne dunque ci deve insegnare quanto sia prima necessario di esamina­re in ciascheduna nazione in particolare, colla maggiore accuratezza, e di verificare col più disinteressato scrupolo, tutte le circostanze che potrebbero consigliare la restrizione della libertà, e far credere che la nazione sia veramente nel caso d’essere esclusa dalla concorrenza universale di un genere con profusione coltivato in tutte le provincie quasi d’Europa.

58. Supposto dunque lo stabilimento di questi mercati, egli è chia­ro che si potrebbe conoscere dallo stato de’ prezzi attuali, massimamente paragonati co’ prezzi de’ grani esteri, se la nazione sia nel caso di godere le franchigie dell’assoluta libertà, o veramente di dovere prestarsi a qualche limitazione; allora una gabella proporzionata alla differenza più o meno grande de’ prezzi forastieri e de’ prezzi nazio­nali, cosicché, col favore di quella, questi prezzi si adeguino, o piuttosto si compensino, dedottane la considerazione de’ trasporti, e que­sta sarà la legge la meno dannosa all’agricoltura, quantunque qualche parte la debba però essere.

59. Su questi medesimi principii sono state da varie nazioni intro­dotte le gratificazioni. Abbiamo detto, che i dazi e le gabelle sono remore e difficoltà contro le vendite delle merci, quando queste ven­dite siano dannose alle nazioni. Le gratificazioni sono per lo contra­rio incoraggimenti e stimoli, acciò che seguano i commerci utili e proficui allo stato. Le gabelle sono pagamenti del commerciante al sovrano ed allo stato, quando egli faccia un tale e tale commercio, che riesce meno utile. Le gratificazioni sono pagamenti del sovrano e dello stato a chi fa tali e tali altri commerci considerati come utili alla nazione. Le gabelle sono allungamenti e difficoltà di trasporti; le gra­tificazioni, accorciamenti e facilità de’ medesimi sono. Sono dunque le gratificazioni per rapporto alle gabelle quello che nell’aritme­tica sono le quantità negative rapporto alle positive. Servono a facili­tare l’estrazione d’un prodotto per noi sovrabbondante; servono a ricompensare il torto che si fa al commercio per la difficoltà de’ tra­sporti; servono a richiamare nell’area interiore d’uno stato una merce necessaria.

Così, di alcuni generi, di cui si voglia ritardare o diminuire l’usci­ta, ed accrescere ed incoraggire l’entrata, s’imporrà la gabella all’usci­ta e la gratificazione all’entrata, in modo che il prodotto della prima serva di fondo per l’altra. Parimenti può esser utile d’imporre la gabel­la all’entrata e la gratificazione all’uscita, allorché siavi bisogno d’in­trodurre una coltura d’un genere del quale il paese manchi, e nel medesimo tempo ne sia suscettibile. Così gli inglesi nel loro famoso Atto di navigazione imposero la gabella all’entrata del grano e la gra­tificazione all’uscita, in quel tempo appunto che il territorio non somministrava grano sufficiente alla consumazione ed andava per la massima parte incolto; perché allora tutti i coltivatori a gara si affati­carono per seminare e raccogliere una derrata così preziosa. Ma quan­do il territorio non manchi di ciò che è necessario alla consumazione degli abitanti, un tal metodo non farebbe che privare la nazione medesima degli avantaggi dell’universal concorrenza.

60. Il terzo metodo da molti proposto si è quello de’ pubblici magazzini, cioè d’una pubblica custodia de’ grani de’ particolari, o piuttosto d’una provvista, che facciano i corpi pubblici e le comunità, del grano necessario, al tempo della raccolta, avanti che si permetta l’estrazione, per rivenderlo ad un discreto prezzo al popolo. Il primo metodo, de’ magazzini pubblici, come abbiamo veduto, può essere utile quando non sia che un semplice e libero deposito, che non impedisca la libertà della contrattazione, che lasci totalmente libera la vendita ed il prezzo di quella. Ma gl’inconvenienti del secondo metodo, vale a dire delle provviste pubbliche, appariranno considerabili a chi riflette che il grano che si compra dal pubblico induce a rinchiu­dere quello che avanza ai particolari, perché lo smaltimento di quel­lo incarisce il prezzo di questo, a chi considera che colle pubbliche provviste si toglie la concorrenza de’ compratori nazionali co’ compratori forastieri; ed il grano de’ particolari non potendo essere ven­duto nella provincia al di là del prezzo fissato dal pubblico approvvisionamento, la derrata resta avvilita, e i compratori forastieri potranno comprarla a più basso prezzo di quello che non l’avrebbono, se avessero in concorrenza i compratori nazionali. Si consideri inoltre che gli amministratori e custodi di tali magazzini hanno mezzi e faci­lità di fare commerci esclusivi e privativi di grano; che la rivendita al popolo del grano per pubblico conto provvisto, accioché non sia un aggravio del pubblico, accioché siano compensate le considerabili spese di edifizi, custodi, mobili, amministratori, scrittori, controscrit­tori, e di tutto il voluminoso apparato che accompagna quasi sempre la provvidenza pubblica, suppone la privativa della pannizazione pres­so alcuni pochi, accioché il basso prezzo della rivendita sia compen­sato dal guadagno in poche mani ristretto. L’amministrazione di tali magazzini è sempre languida e pericolosa, d’un genere soggetto a mille rischi, quando non sia confidata all’interesse personale del pro­prietario.

Non s’è ancor trovato un metodo abbastanza semplice e poco dispendioso per garantire dagli assalti del tempo, dalla corruzione della polvere e dagli insetti una grossa quantità di grano insieme accumu­lata; e tale scoperta sarebbe essenziale quando si volessero introdurre i pubblici magazzini. Noi dobbiamo la più gran riconoscenza al signor Du-Hamel, filosofo francese, il quale ha trattato più felicemente di ogni altro, se non abbastanza semplicemente quanto era necessario per l’uso universale, intorno alla conservazione de’ grani; ma egli vi ha travagliato per insegnare ai particolari a custodire il proprio, non per consigliare il pubblico al pericoloso metodo de’ magazzini.

61. Dalle passate considerazioni, che ci pongono sott’occhio quali sieno i principali mezzi progettati, onde render facile, sicura ed abbondante la circolazione de’ grani, ne segue facilmente come debb’esser regolata la pannizazione, per la quale tanto complicati regolamenti si sono visti nelle nazioni, per i quali in apparenza si cal­mava l’inquietudine del popolo, e gli si forniva un pane giornaliero e sufficiente, ma diminuito e smunto da insensibili ed occulti tributi, che non ridondavano né in vantaggio del sovrano, né in quello dello stato, e certamente del pari dannosi ai venditori e proprietari dei pro­dotti, come ai compratori del pane. La complicatezza de’ regolamen­ti apre l’adito all’arbitrio, perché esige continue operazioni intorno a quelli, e moltiplica gli amministratori, che pesano tutti coll’interesse privato sul pubblico bene; le private mire grandeggiano nell’immagi­nazione ed offuscano la languida idea dell’utile universale.

62. Nelle sovraccennate supposizioni, sia dove possa sicuramente regnare la felice assoluta libertà, sia dove sian credute necessarie le anzidette limitazioni, fissati gli anzidetti regolamenti, semplici, gene­rali, tratti dalla natura medesima delle cose, credo che miglior legge intorno alla pannizazione non vi sia di questa: faccia pane chi vuole, e sia punita la frode.

Un numero di persone privileggiate esclusivamente a far pane è un numero di persone che diviene arbitro del grano che serve all’interiore consumo; quanto è più piccolo questo numero, tanto è più faci­le l’unione ed il concerto. Allora gli uomini agiscono d’accordo, quando l’utile comune della compagnia, diviso sul numero de’ com­pagni, si ripartisce in porzioni considerabili per ciascuno; per lo con­trario, gli uomini agiscono isolatamente, ed a gara gli uni degli altri, quando è piccola la tangente dell’utile comune. Dove sono persone privilegiate all’esclusiva pannizazione, ivi si stabiliranno due classi di compratori di grano, cioè i panattieri privilegiati e gli ammassatori, per venderlo al di fuori. Nel tempo delle raccolte il numero de’ ven­ditori del grano è grande, piccolo quello de’ compratori. La derrata perciò è a vil prezzo, quindi si ristringe a poco a poco in poche mani, ed allora, avviatosi il nuovo grano sia all’uscita, sia alla pannizazione, il numero de’ venditori è piccolo, quello de’ compratori grandissimo, e perciò il pane è a caro prezzo. La carezza d’un tal prezzo non è in vantaggio della classe de’ proprietari delle terre, ma soltanto favore­vole ad alcuni de’ pochi. Non è incoraggita l’agricoltura, ma resta avvilita l’industria; divien cara la man d’opera, ma non crescono l’opere medesime.

63. In secondo luogo si punisca la frode: l’autorità pubblica dev’es­sere tutrice del popolo, e con vigorosa fermezza penetrare e dissipare i tenebrosi raggiri dell’imperturbabile avidità di guadagno, principal­mente dove si tratti di cose interessanti la sanità della moltitudine. Ma nel sistema della libera pannizazione sono meno d’assai da temersi le frodi, che nel sistema della circoscritta. A misura che l’utile che si può dividere in molti si ristringe in pochi, si ristringe ancora proporziona­tamente l’influenza dell’autorità sopra de’ medesimi, perché i mezzi che rendono attivi e sagaci gli uomini vanno crescendo. Per lo contrario, libera essendo la pannizazione, la frode vien punita più facil­mente da se stessa, perché il paragone di molti che non frodano, e la gelosia reciproca dei concorrenti, allontana i compratori dal frodato­re.

Io dunque lo ripeto: faccia pane chi vuole, e come vuole. Questo è il solo editto che i migliori principii di politica economica sanno sug­gerire. Chi lo farà piccolo e men buono, purché non sia di malefica qualità, perderà lo spaccio tanto più facilmente, quanto la merce è di consumo e non di durata. Gli uni a gara degli altri si metteranno al livello desiderato dalle leggi; l’interesse otterrà ciò che le più severe inordinazioni non ottengono.

64. Resta a vedersi se, lasciato a tutti l’arbitrio di panizzare, debba essere lasciata la libertà del prezzo, o la libertà del maggiore o minor peso di ciaschedun rispettivo pane, o l’una e l’altra libertà debba esser concessa. Rispondo in primo luogo essere invero indifferente una tale questione. Rispondo in secondo luogo che la contrattazione del pane essendo affare di giornaliera necessità, ed essendo necessario d’e­vitare la confusione e di fissare e render precisa nel popolo l’idea d’un contratto che dev’esser spiccio, e di tutte le ore, per renderli più faci­le la maniera di non essere ingannati e di scoprir le frodi, può non essere opportuno di lasciare a’ pannizatori l’una e l’altra libertà, già che questa doppia libertà non è necessaria alla vera libertà di un tal commercio; essendo il prezzo e il peso d’una tal merce due quantità relative, la libertà è conservata se l’una di queste è nell’arbitrio del venditore; qual delle due si debba lasciare, apparirà chiaro se si consi­deri essere necessario in quest’assidua contrattazione di lasciare alla minuta economia, ed ai casalinghi calcoli della piccola industria del popolo, l’idea precisa e costante d’un prezzo fisso e determinato: onde l’arbitrio del peso sarà arbitrio de’ pannizatori.

65. Quando alcune circostanze particolari esigessero altrimenti, cioè che il peso ed il prezzo dovessero esser fissati ai panattieri, ciò nonnostante non sarebbe una conseguenza di questa limitazione quel­la di togliere la legge faccia pane chi vuole. Ogni restrizione di libertà, sia in commercio, sia in qualunque altro rapporto di società, dev’es­sere un risultato della necessità d’evitare un disordine, non un effetto dello scopo di far meglio.

66. Io spero che l’importanza della materia, la moltiplicità de’ pro­getti, la varietà delle opinioni e de’ discorsi giornalieri su di un ogget­to tanto interessante, mi faranno perdonare la prolissità mia, e l’insi­stenza colla quale ho cercato di approfondirne la natura. Ora passiamo ad alcuni altri oggetti che ci restano intorno all’economia agricola d’uno stato.

VI. Della coltura di altri generi di derrate

67. Si è veduto, cred’io, ampiamente con quali principii debba regolarsi la coltivazione ed il commercio della derrata di prima neces­sità. Ve n’è un’altra, che quantunque non sia derrata d’alimento, lo è però di necessaria consumazione: questa è la legna. Sia per l’uso necessario ai bisogni continui della vita, sia per il servizio quasi uni­versale che rende a tutte le arti e manifatture, sia da considerarsi anch’essa come materia prima d’un’arte particolare. Basta ciò per conoscere quanto sia importante l’abbondanza e la facilità del com­mercio della legna. Prima di esporre i principii con cui una tale eco­nomia debb’essere diretta, giova qui premettere alcune riflessioni preliminari.

In primo luogo si rifletta esserci nessuna proporzione in questo caso tra il valore della materia prima e il prezzo del trasporto. La legna, dove ci siano terre montuose ed inabili ad altre colture più lucrose, suol essere abbondante, e sul luogo medesimo vendersi a vilissimo prezzo; ma il lungo trasporto per strade difficili e scabrose, ma il difetto di canali, che come abbiamo veduto riduce sempre al quinto la spesa d’ogni trasporto, rendono preziosa una merce che natural­mente è a basso prezzo.

Seconda riflessione si è essere tale la varietà delle situazioni e la combinazione fisica delle qualità delle terre, in modo che non siavi territorio nel quale non si trovino molte terre, che necessariamente vogliano essere coltivate a boschi a preferenza di ogni altra coltura; ma che appunto la difficoltà dei trasporti, rendendo inutile ai proprietari una tal coltivazione, fa che trascurino, ovvero distruggano que’ boschi medesimi che le circostanze territoriali dimandavano.

Terza riflessione si è che, quando si dimanda il buon mercato delle legne, non si vuole intendere il vil prezzo di quella, perché vil prez­zo e non coltura sono espressioni politicamente sinonime; ma si dimanda che la legna, l’uso della quale circola per tutte le classi e in tutte le occorrenze, consista: primo, nel valor naturale de’ boschi sul luogo medesimo della coltivazione; secondo, in nessun valore inter­medio, il quale è dannoso al compratore senza pro del venditore, pesa sopra le arti, e non incoraggisce la produzione.

68. Con queste preliminari riflessioni egli è facile di vedere quali sieno i principii direttivi dell’economia de’ boschi; e, in primo luogo, noi comincieremo a fissare quelli che, essendo dettati dalla ragione delle genti sotto gli auspici della libertà, meritano la preferenza sopra di quelli che vengano suggeriti dal severo spirito di regolamento.

Dunque, primo oggetto che deve precedere le proibizioni di taglia­re, i divieti d’estrazioni, e tutto il resto delle austere prammatiche, sempre contrarie a quello spirito animatore della società, dal quale solo può più aspettarsi, che da tutto l’apparato faraginoso di leggi moltiplici e di regolamenti tortuosi, sarà quello di rendere facili i trasporti, di allargare e consolidare le strade, di condurre, per tutte le possibili direzioni, canali navigabili, opere immortali che rendono i sovrani conquistatori della propria nazione: conquiste consacrate dai ringraziamenti e dalla prosperità delle generazioni, non cementate col sangue e coi lamenti delle desolate provincie. Bisogna dunque prima tentare quale effetto nasca dalla libertà avanti di assaggiare le rigorose precauzioni della schiavitù, rendere i boschi utili ai proprietari, sop­primere tutti i valori intermedi, e allora si vedrà facilmente abbonda­re una derrata così necessaria e così vantaggiosa.

69. Ciò nonnostante, può accadere, nelle diverse e complicate situazioni delle provincie, secondo i vari rapporti dell’agricoltura col commercio, e le varie direzioni che danno alle coltivazioni i regola­menti e le imposte, può, dico, accadere che non basti per conservare i boschi l’interesse del proprietario, massimamente se i trasporti siano difficili, e difficilmente si possa togliere questa difficoltà; può accade­re, dico, che dove i proprietari non ricavino che uno scarso prodotto netto di una stentata agricoltura delle proprie terre, ricorrano alla fre­quente risorsa di tagliare i propri boschi inconsideratamente, per supplire con un capitale pronto alle continue spese di un lusso che non è in proporzione della loro ricchezza attuale, ma delle pretesioni del loro rango e della emulazione e gara di ostentazione reciproca. Frat­tanto la distruzione de’ boschi non è così facilmente riparabile, come la distruzione di molti altri generi di coltura. La lenta riproduzione, che non si fa che nel periodo di trenta o quarant’anni, è ben diversa dalla rapida riproduzione delle altre derrate. Dunque in questo tempo possono succedere gravissimi danni, ed una considerabile mancanza di una materia prima tanto necessaria per la consumazione e per le arti tutte. Al che si aggiunge che le altre materie prime possono essere supplite da quelle che sono prodotte ne’ territori forastieri, di gran lunga più facilmente che non lo possa essere la legna, per l’ampiezza e voluminosità del suo trasporto. Finalmente ella è massima della più sana politica di evitare di renderci dipendenti nelle cose di primaria necessità, per quanto sia possibile, dalle altre nazioni.

Dunque la conservazione de’ boschi può essere uno di quegli oggetti che, malgrado il sistema generale di un’assoluta libertà, può essere soggetto a qualche regolamento.

70. Mi si obbietterà di primo slancio: qual giustizia, d’impedire a ciascheduno di traere a suo arbitrio quel profitto che egli voglia dai propri fondi? Un tale riclamo nasce dall’opinione dispotica che cia­scuno ha delle cose proprie, nutrito dall’alta e profonda idea che della proprietà si è data dagli scrittori politici e giuristi. Si deve ciò non ostante considerare che la proprietà è figlia primogenita, e non madre, della società; che avanti l’unione più stretta e più intima degli uomi­ni e delle famiglie, eravi possedimento, ma incerto e precario; uso delle cose, ma non proprietà certa ed assicurata; uso di fatto, e non di diritto, e che questo diritto e questa proprietà sono nati dalla difesa reciproca con cui gli uomini, senza espressa convenzione, ma per tacita adesione di comuni circostanze, di comuni interessi, si sono garantite le attuali loro possessioni, ed accostumati a riguardarle come difese in favore di ciascuno, da tutti contro ognuno.

Da ciò si vede chiaramente essere la proprietà soggetta alle leggi, siano scritte, siano supposte dal bene universale e dalla salute comu­ne; si vedrà che l’indipendenza del proprietario e il rispetto che si deve alla proprietà sono soggette a due condizioni. L’una è che tutti sieno in eguaglianza di proprietà, vale a dire che non ci sieno pro­prietà più o meno soggette alle leggi, e che perciò le leggi che limi­tano questa proprietà sieno universali in favore di tutti contro di tutti. L’altra è che le dette leggi non rendano frustraneo e dannoso l’uso della proprietà medesima, che in vantaggio di ciascheduno è stata a ciascheduno assicurata. Dunque, quando sieno tali condizioni osservate, le proprietà, come le azioni de’ cittadini, saranno soggette alle leggi universali ed ai regolamenti in pro del pubblico bene stabiliti.

71. Dunque, se è dimostrato il fatale inconveniente del libero taglio delle legne, sarà dimostrato il diritto, la necessità, la convenien­za della conservazione de’ boschi. Ma quali saranno i mezzi onde sieno conservati, acciò non venga a mancare una sì necessaria derra­ta? Rispondo che per conservare qualunque cosa di continuo deperi­mento e consumo, bisogna che tanto se ne consumi solamente, quan­to se ne può sostituire. Dunque tanto taglio si può permettere quanto si riproduce; dunque l’annua riproduzione de’ boschi sarà la misura dell’annuo taglio. Se dunque un bosco tagliato può esser riprodotto in trenta anni, l’annuo taglio non sarà che di trenta di detto bosco. Questa limitazione di taglio un altro effetto salutare nella coltura medesima produrrebbe: si lasciano per lo più i boschi in balìa della spontanea natura; il taglio limitato produrrebbe una più diligente col­tura, ed una più esatta distribuzione.

72. Dunque sarebbe necessaria una perfetta cognizione di tutti i boschi d’uno stato; sarebbe necessario in secondo luogo che il taglio degli alberi dipendesse da una opportuna permissione, oppure, se fosse combinabile, che il bosco distrutto pagasse di più in proporzio­ne della sua distruzione, il bosco conservato pagasse tanto di meno in proporzione della sua conservazione; in maniera che l’utile del taglio cedesse al danno dell’aggravio, e la diminuzione di rendita nella con­servazione cedesse all’utile del sollievo. Io preferirei tale metodo, per­ché più semplice, e nato dalla natura medesima dell’oggetto che si ha di mira, ad ogni altro che lascia troppo presa al facile parziale arbitrio.

Queste sono le norme, appresso a poco, da seguirsi intorno alla conservazione de’ boschi esistenti, quando, conservati, bastino all’esigenza della società. Ma quali saranno i provvedimenti dove fossero mancanti ed inferiori al bisogno? quanta quantità se ne dovrebbe dun­que supplire, e come incoraggire ed introdurre una coltura, di cui lontano è il frutto, ed il premio al premuroso proprietario?

73. Rispondo col rimettere sotto gli occhi del lettore essere i boschi da considerarsi, per ciò che riguarda la consumazione, come una derrata d’alimento: essere dunque il bisogno della legna corri­spondente al bisogno degli alimenti, cioè universale e ripartibile in tutti gl’individui. Siccome per ciascuno richiedesi una minor quan­tità, o per dir meglio un minore valore di legna che nel vero alimen­to, anzi un minore spazio di terreno, che contiene una più gran massa di materia, e l’uso di questa è proporzionale alla massa intera, senza apparato di coltura e con nessuna preparazione fuori del taglio e del trasporto; siccome l’esigenza imperiosa del bisogno, nell’uso d’una tal derrata, è più suscettibile d’economia e di risparmio, meno soggetta alle vicende della carestia, senza il pericolo che l’estrazione di quella n’esaurisca ad un tratto la sorgente; se si facciano tutte queste riflessio­ni, si troverà che in proporzione di queste differenze dev’esser mino­re la quantità de’ boschi, in paragone della quantità di terreni messi ad alimento. Se si fa adunque il riparto dell’annuo alimento d’una fami­glia, e che in conseguenza di questo trovisi a quanta quantità di terra corrisponda tale annuo alimento, se si faccia sulla medesima il riparto della legna di cui abbisogna ciascuno per l’annuo consumo, e che, ridotti tutti questi calcoli ad adequato, si trovi a quanta minore esten­sione di terreno questa porzione di legne corrisponde, tali due quantità, moltiplicate per il numero delle famiglie, ci daranno la propor­zione delle terre messe a biade o a pascolo colle terre messe a boschi.

Ma il bisogno di molte arti e manifatture ne consuma una parte considerabile oltre il bisogno domestico. Dunque, in proporzione del bisogno delle arti, bisognerà crescere la relazione tra i boschi e le altre terre. Pure se si consideri che l’alimento è di consumo distinto e pro­prio a ciascun individuo, ed il consumo delle legne è comune a più individui insieme; se si consideri ancora che i boschi sono quasi total­mente colture esclusive, mentre molta quantità di legna può esser presa sulle colture inclusive, secondo la sovra espressa distinzione, se si abbia riguardo al risparmio fatto col carbone, il quale dà un più lungo e più efficace consumo ed un men dispendioso trasporto, si tro­verà che l’alterazione, che il bisogno delle arti domanda nella pro­porzione surriferita, non sarà molto grande né considerabile.

74. L’accrescimento de’ boschi dipenderà appresso a poco dai mezzi che abbiamo indicati. Sarebbe desiderabile il ritrovamento del carbon fossile, il quale produrrebbe l’abbondanza d’una consumazio­ne necessaria, e nel medesimo tempo il risparmio delle terre che ad altre colture sarebbero impiegate, nutrici d’uomini e di arti. L’indolenza divide il suo impero coll’opinione presso il genere umano, ed è forse la negligenza e la avversione delle cose nuove ed insolite, più che la difficoltà di ritrovarlo, che ci priva del carbon fossile, del quale non dubbie tracce appariscono ne’ nostri monti.

75. Un’altra coltivazione importante, e che merita tutta l’attenzio­ne delle leggi, si è quella de’ gelsi, e per conseguenza de’ bachi da seta, coltura che dall’Indie felicissime al tardo occidente trasportata, fu sul principio un oggetto di un deplorato lusso delle persone opulente, rifiutata dall’austera filosofia che i rapporti presenti delle cose soltan­to riguardo agl’individui considera, dalle antiche leggi romane avvili­ta e depressa – leggi che colla decadenza dell’Impero erano un risul­tato di un popolo superbo, e sdegnoso d’imitare, ma oppresso sotto il peso dei suoi tiranni –, invece d’essere animata ed incoraggita, ren­dendo così l’orgogliosa pompa degl’indolenti tributaria dell’industria e della fatica; coltura poi dall’Italia avidamente ampliata e promossa; dall’Italia, che dopo avere estinto il genio truculento di conquista dal­l’impossibilità di tentarla, e compressa tutta all’intorno dalle risorgen­ti nazioni, rivolse l’inquieta attività verso le arti, pacifiche ma non meno signoreggianti, delle armi, e se non con così pronto successo e con così dispotica influenza, almeno con maggiore e più placida e meno pericolosa sicurezza.

76. Una tale coltura ammette nel suo seno altre colture, e noi vediamo fra i lunghi filari di gelsi l’allegra vigna ed il sostenitore fromento crescere e riprodursi. Oltre di ciò, in poco tempo non iscarso premio fruttano i bachi da seta all’attenzione del coltivatore: e quin­di sorgere una folla di arti, che sfendano in mille fogge ed avvilup­pano il prezioso escremento di un così piccolo animaletto, e quindi spandersi anche nelle minute famiglie l’agio ed il comodo, e nuovi motivi di speranza e nuovi stimoli all’industria, che richiede per la varietà de’ talenti e delle circostanze moltiplici una varietà non mino­re d’opportuni mezzi da impiegarsi.

77. Sotto il felicissimo nostro governo, alla voce rianimatrice di tanti sovrani provvedimenti, si è rinvigorita non poco una tale coltu­ra in questo stato. Fissato il tributo alle terre sull’attuale lor stato di coltura, si è animata dal bisogno e dall’avidità la coltura de’ gelsi, che danno un accrescimento di rendita senza un accrescimento di tribu­to. Sortiva raccolta la seta dalle mani inoperose de’ nazionali per correre al di fuori, ad essere travagliata da mani forastiere e nemiche, che ci rendeano tributari dei nostri prodotti; l’ostacolo d’una gabella ha fermato questa materia prima, che nelle parti tutte dello stato si diffonde e si lavora da mani cittadine e sociali.

78. Ciò nonnostante, molti pregiudizi restano ancora da togliersi a’ particolari intorno ad una tale coltura, pregiudizi tanto più nocevoli, quanto resistono alla voce prepotente dell’interesse.

Intorno alla coltura de’ gelsi, per esempio, alcuno che gli esempi d’altre nazioni coi nostri paragonasse, e la natura della vegetazione considerasse, potrebbe sospettare che il contadino preferisse la più pronta e la più facile maniera di raccogliere le foglie del gelso, piut­tosto che la più durevole e la più utile. Un taglio inesorabile vieta a quest’albero di alzarsi all’aperto cielo, e di crescere liberamente. Il vigor vegetale diramasi più presto, ma nel medesimo tempo il tronco sostenitore s’infievolisce e si logora, e per conseguenza presto la pian­ta sen muore, sostituendosi in questa maniera un visibile ma minore guadagno, per una non prevista più considerabil perdita. Aggiungasi che l’inerzia sostiene un tal metodo, che rende più comodo al pigro e disanimato contadino lo sfogliamento degli alberi, fra i quali prima l’uno e poi l’altro restano interamente mutilati degli organi essenziali della vita vegetativa, quando, se correre in alto si permettesse alla pianta, più lungamente vivrebbe, e potrebbe somministrare al baco alimenti sempre più teneri e più proporzionati alle diverse sue età. Ella è osservazione fatta sopra i vermi viventi sulle piante, che essi dalle cime più lontane dalle radici le più tenere foglie rosicchiando, coll’invecchiarsi discendono all’alimento più duro e più forte. Così l’osservazione attenta lungi ci guida dalle strade frequentate e fallaci dell’inconsiderata abitudine, per ricondurci alle vie magistrali e per­manenti della natura. Il sottrarsi, nelle cose naturali ed umane, dall’o­pinione comune, fu quasi sempre utile a chi n’ebbe il coraggio: per­ciò l’ostinarsi a rinchiudere ed a soffocare nell’inelastico vapore d’una stanza animaletti che la natura organizzò nell’aperto cielo e nell’aria ventilata e mutabile, per sottrarli dall’intemperie delle stagioni, si è un sostituire a’ mali fortuiti le cagioni permanenti di molto maggiori malori. Stesi ed ammucchiati su d’uno strato di foglie semirose e marcite, che fermentano, nutriti di foglie all’età loro disuguali, d’un succo troppo forte e denso nei primi giorni, e troppo tenero negli ultimi, e sempre forse soverchio, li rende idropici, e gonfi d’umore, che gli uccide o li vizia talmente che apparentemente voluminosa fanno la crisalide, ma realmente povera di seta e pregna d’umori e di glutine. A rischio d’errore io ho voluto allegar tali esempi perché la curiosità di alcuno, se non altro per confutarmi, lo muova a fare spe­rimenti e ricerche, che o ne guariscan da un pregiudizio, o guidino lui alla diffidenza di ciò che si rispetta unicamente perché da una fal­lace tradizione ci viene tramandato.

79. Altri prodotti devono essere sommamente pregiati in ogni stato, e principalmente in questo, temperato e vario, che offre in ogni luogo diverse situazioni e docile prontezza all’attento coltivatore. Il lino ed il canape possono essere origini di lucrose manifatture, ed anche, secondo quelli che lo tessono, risparmio di considerabili usci­te di danaro; possono condurci ad essere per l’Italia, volendo, ciò che l’Olanda e la Slesia lo sono per l’Europa. Finalmente, il vino rallegratore merita tutta la nostra attenzione, origine d’un tributo consi­derabile per parte nostra a nazioni ora forastiere per noi. La vigna, il di cui frutto immaturo ancora si raccoglie per sottrarlo all’avida rapa­cità di chi lo fura; a cui non si consacrano quasi mai terreni unica­mente per la di lei coltura, mentre una più facile custodia ed una più diligente coltura produrrebbero; la vigna, che ci offre un così illustre esempio di paziente coltivazione nella Toscana e nella Francia, delle di cui simili situazioni il vario nostro stato ci presenta; la vigna, che tanto considerabile consumo suppone, merita le ricerche del saggio ed accorto coltivatore, e l’attenzione di chi s’interessa, o per dovere o per iscelta, al publico bene. Non giova qui l’entrare in più minuto dettaglio di ciò che noi non facciamo, di ciò che noi facciam male, di ciò che noi potressimo far meglio. Mille utilissimi vegetabili, come l’olivo principalmente, poi il zafferano, il cotone, l’indaco, l’acacia ci offrono una abbondantissima messe d’osservazioni e di ricerche, onde avere la gloria di essere promotori di cose utili, e la lusinghiera approvazione della patria, de’ concittadini e della posterità, ed anche di potere con ragione divenir superiori al disprezzo di quelli che, per imbecillità o per mal talento, sorridono graziosamente a tutte le cose nuove che escono fuori del ristretto circolo delle loro idee.

VII. Della pastorale

80. Ramo capitale di coltura e di pubblica economia si è la pasto­rale, l’arte cioè di nutrire e di far crescere i bestiami, principalmente le pecore. Queste furono da già lungo tempo in questa provincia, avita lor patria e domicilio amplissimo, dal pregiudizio e dalla pre­venzione scomunicate. Si pretende che un morso velenoso e munici­pale avveleni le vigne e le biade e tutto ciò che rodono, onde si è impedito il rinovellamento d’un ramo di rendita, che altre cagioni sicuramente hanno sbandito dal nostro stato. Dico municipale, perché in altri regni vivono pacificamente innumerabili gregge senza che avvelenino né le biade, né le vigne di que’ paesi. Dico che altre cagio­ni le hanno sbandite, perché un pregiudizio ed una opinione non sono mai state in nessuna nazione la cagione d’una rivoluzione con­siderabile ed universale, ma bensì cagioni fisiche e fatti reali, di fisici effetti, principii e cagioni.

Non è già che un piccolo paese debba principalmente ed esclusi­vamente coprirsi di greggi, e chiudere la terra all’alimento sostenito­re degli uomini, e ad altre colture che un maggior numero di quelli fanno sussistere ed agire; ma bensì che si distrugga un errore, che ne esclude anche quel numero che potrebbe vivere senza offesa ne’ ter­reni inetti ad altre migliori colture, che nutrir potrebbero un anima­le di facile sussistenza, di abbondante prodotto, padre di manifatture e di arti di richiesta universale, e di uso indispensabile e comune.

La luce de’ sovrani provvedimenti ha già eliminato un tale pregiu­dizio; resta solo a noi il secondare la forza legislativa che al nostro bene ci guida, e di non opporre quella querula ostinazione, che ci deprime negli antichi errori: errori che, di padroni che eravamo di popolazioni forastiere colle nostre lane, schiavi ci rese e dipendenti delle medesime. Egli è vero che forse cresciuto è il lavoro de’ campi dopo questa epoca, in un paese che più d’ogni altro forse dai colpi i più funesti potè risorgere e ristabilirsi, ma trattasi solamente di pro­movere, ove sia opportuno, un ramo ubertoso di commercio e di risparmio, di elevare una folla d’arti, che fuori del breve giro della nostra provincia, quasi per nostra derisione, prosperano, floride ed attive, a nostro danno, sicuri che il troppo accrescimento da se mede­simo sarà trattenuto dall’utile maggiore d’altre colture, che le mani­fatture eccitate dall’impiego delle nostre lane saranno la base ed il principio delle manifatture che sapranno impiegare le forestiere.

81. Le contradizioni sono sempre il risultato dei discorsi di tutti coloro che rispingono le cose nuove ed insolite con ostinata avver­sione; declamano da una parte che il paese è spopolato, che mancano le braccia all’agricoltura, che questa va ogni giorno decadendo, che vi sono terre incolte da ogni parte; per il contrario, quando si tratta d’in­sinuare l’introduzione delle pecore, opponesi tosto col rappresentare che ciò sarebbe dannoso all’agricoltura, base e sostegno di questo stato; tutto essere occupato da vigne, da fromenti, da gelsi o da pra­terie a miglior oggetto destinate. Ciò che in realtà si può dire si è che tratti ben grandi di paese nella nostra provincia sembrano non solo potere ammettere, ma richiedere ed esigere greggi e pastori naziona­li, che vivano nelle due stagioni, se nell’una di queste vivono li fore­stieri. Vaste colline e magre montagne abbiamo, ove lussureggiano soltanto selvatici castagneti, sterile alimento d’una vedova popolazio­ne; villaggi non pochi vi sono, che sono il ritiro solingo ed infecondo di mogli abbandonate e di pochi bambini, mentre i mariti corro­no con ammirabile e quasi unica industria ad esercitare l’attività del loro ingegno e del loro commercio nel restante dell’Europa.

Ritornano, egli è vero, con somme considerabili, a ridare la vita ed il moto a quella languente popolazione; ma ciò non è che un risulta­to passaggero d’un’industria altrove esercitata. L’esempio delle fati­che, tutti i vantaggi che sono i primari ed essenziali, la circolazione del travaglio, il muovere, l’esser mossi, il dare, il ricevere, tutti questi vantaggi sono perduti. Essi, vestiti ed alimentati tutto l’anno su fora­lo stiero terreno, portano l’avanzo a casa loro, avanzo che non è origine né accrescimento d’industria interiore. Grandi famiglie uscirono da quegli erti nascondigli, ma non perciò poi abbiamo veduto rendersi più frequente la popolazione, più fervida la coltura e l’industria loca­le, più spesse e più agiate le famiglie, soli e veri indici d’un’utile e solida industria.

Questi sono i paesi che potrebbon divenire il centro della nostra pastorale. Un’Arcadia intiera specchiar si potrebbe ne’ nostri laghi, e la solitudine selvaggia e morta de’ nostri monti vedrebbesi animata di pascoli, d’arti, di greggie e di pastori, per cui le moltiplici operazioni della lana sarebbero una inesausta miniera di perpetua dovizia.

82. Alla pastorale riduconsi le osservazioni politiche intorno alla cura de’ buoi, delle vacche, de’ cavalli, compagni, schiavi, benefatto­ri, vittime dell’uomo. Se a noi manca la pastorale delle pecore, noi ne abbiamo un’altra ubertosa, ampia, sicura prodottrice d’infallibili ricchezze: queste sono le numerose e vaste così dette bergamine, che coprono principalmente il Lodigiano: quel terreno sabbioso ed in­fecondo, destinato dalla natura palludoso letto d’acque immonde e salmastre; dall’arte degli uomini, costante ed instancabile, e reso fecondo e produttore privativo d’inesauribile ricchezza. Con artificio mirabile tutto il paese è organizzato e tessuto d’acque, che per oppo­ste direzioni, in lungo, in largo, trasversalmente, corrono ad animare con esatta ed opportuna irrigazione ogni punto d’una equabilissima superficie. Questa da una immensa popolazione di questo bestiame, che costantemente vi pasce, è mantenuta feconda ed atta alla varia e vicendevole coltura di fromento, di lino, di seta, di riso, di formaggi; quest’ultima sembra la base di tutto il resto. Annientati i bestiami, la sterilità riprenderebbe l’antico suo dominio; la morte ed il silenzio si stenderebbero su d’un paese, ove ora l’opulenza di grosse borgate, la vita patriarcale di pingui coltivatori, un lento, ma solido e costante commercio, tengono luogo di numerosi villaggi, d’una più frequente popolazione, della moltiplicità delle arti, d’un commercio più vivo e più pronto, doni invincibilmente negati alle circostanze insuperabili di quel paese. A tutto ciò aggiungasi il prodotto considerabilissimo di quei formaggi spacciarsi per tutta l’Europa, resistere più d’ogn’altro alimento al tempo trasformatore, e senza l’inconveniente dei scorbu­tici salumi, ai lunghi viaggi ed alle lunghe navigazioni; finalmente essere fino ad ora invano stati imitati da’ forestieri.

83. Io non debbo fare né un trattato di agricoltura, né diffonder­mi in tutti i dettagli di questa materia; conchiuderò adunque con alcune riflessioni, che non debbono ommettersi.

Primo. Essere la pastorale professione che non mantiene un gran numero d’uomini su poco terreno, come la coltura della vigna e del fromento, un supplemento all’invincibile sterilità d’un terreno, e che per ciò in ogni occasione debb’essere posposta a quelle, ma non perciò dovrà essere né trascurata, né avvilita, ma sì bene incoraggita coi premi e colla diminuzione del tributo, dove il bisogno lo richieda.

Secondo. Essere la pastorale la risorsa dei paesi spopolati necessa­riamente dalle circostanze sia del terreno, sia degli uomini: dove le combinazioni fisiche e morali abbiano invincibilmente alienate le braccia da qualche coltura, ivi la pastorale più oziosa e più tranquilla può essere di supplemento.

Terza riflessione sarà che la pastorale che serve al nutrimento ed all’educazione dei cavalli non merita d’essere troppo incoraggita, né avvilita. I cavalli servono agli usi utili della campagna e delle arti figlie di quella, ai facili trasporti; servono alla pompa fastosa delle città, a fomentare il sonno e la noia del ricco. Per quest’ultima parte questo lusso merita d’esser frenato, senz’esser tolto. Non bisogna togliere l’e­sempio del premio d’una industriosa ricchezza: chi travaglierà giammai colla stoica risoluzione di non godere i frutti del travaglio? Dunque se da una parte gli agi ammolliscono ed estinguono il moto in chi li gode, dall’altra accendono e pungono l’animo di chi n’è privo. Il freno principale che meriti questo lusso sarebbe di non per­metterne l’ingrandimento, in maniera che la terra, nutrice d’arti e d’uomini, non divenisse oziosa mantenitrice d’inutili cocchieri e d’in­fruttuosi cavalli. Quando questo lusso sia moderato, meglio è che sia nudrito dai forastieri che dai nazionali, perché sia rimosso l’esempio d’una terra che a migliori colture potrebbe essere destinata. Vera, ma non universale, è la massima che ogni lusso deve essere nudrito dalle arti e prodotti interni; vera, quando non si escludono vicendevolmente; falsa, quando un tal lusso non possa essere tolto ad un paese, e l’alimento di quello si opponga ad una migliore coltura: ma di que­ste considerazioni sarà più accuratamente detto, ove parleremo del lusso.

VIII. Della metallurgia, pesca e caccia

84. Poche cose restano a dire intorno a queste tre arti primitive per chi, sfuggendo la soverchia prolissità, non pretende d’essere stimato profondo coll’essere noioso. Noi scorreremo dunque rapidamente queste materie, nelle quali la politica ha poca presa e la fisica moltis­sima.

85. Primieramente, ognuno di noi sa di quanta fortuna sia ad una nazione l’esser essa produttrice de’ metalli che furono sempre o i pale­si o gli occulti conquistatori dell’universo. L’oro fu sempre l’oggetto de’ voti degli uomini ansanti al possedimento di questo metallo, pegno e rappresentatore dei piaceri e dei tormenti della terra; ma i veri politici hanno sempre veduto meglio essere acquistarlo che pos­sederlo in natura; l’acquistarlo suppone moto, azione, fatica, che sono l’anima e la vita d’ogni corpo politico; il possederlo in natura, può dirsi di possedere una droga addormentatrice d’ogni industria e d’o­gni travaglio.

Checché ne sia dell’oro e degli altri metalli preziosi, l’avere il ferro richiamato dalle mani della sanguigna discordia agli usi pacifici delle arti tutte, il vedere sui dorsi ruvidi e scabrosi delle nude montagne volversi flutti di candente metallo, ed illuminare di rosseggiante splendore le nere fucine, l’internarsi nei profondi andirivieni che le piccole mani dell’uomo seppero scavare nelle dure viscere dell’antica terra, forma uno spettacolo che, richiamandoci in un momento il vortice degli usi e delle arti a cui tanta fatica ed ostinazione è destina­ta, ci riempie la mente d’un benefico entusiasmo, per cui di lunga mano preferiremo all’oro ed all’argento il possedere ed il mettere in uso ed in valore questo metallo, metallo di difesa e di conquista, fab­bricatore di tutti i nostri agi e di tutte le delizie della vita perfeziona­tore.

86. Meritano dunque, in proporzione delle fatiche, tutti gl’incoraggimenti quelli che si condannano ad una tale manifattura, e le nazioni che posseggono le miniere di questo padre metallo, debbono con ogni diligenza investigarle e conoscerle. Quell’erte e nude cime di solitari monti, da cui si allontana l’attonito pastore, e sono soltan­to un ritiro inospitale del rapace avvoltoio o del timido daino, dagli enormi massi de’ quali appena trapela qualche pallido filo d’erba stan­ca e languente, non debbono essere soltanto il modello perenne della dominatrice fantasia del pittore e del poeta, ma l’oggetto della curiosa ricerca del naturalista, e, dietro lui, del politico indagatore, che dal mezzo della morte e della sterilità sa trovare una sorgente inesausta di movimento, animatore di tutte le opere degli uomini. Gl’incoraggimenti saranno dunque maggiori, quanto è più grande la severa esi­genza dell’uso e la dispendiosa difficoltà dell’opera stessa. Qui è dove sovente l’interesse lontano del particolare proprietario, e i presenti e voluminosi ostacoli che si oppongono, devono essere suppliti dalla mano sovrana, che riunisce le forze, che rappresenta i diritti combi­nati della società riunita: dove i premi e le gratificazioni devono esse­re con profusione adoperati: ove, per la brevità della vita, il pericolo ed i mali di chi vi travaglia, la sceleraggine a preferenza dell’inocenza dev’esser proscritta.

87. La pesca, poi, antichissima occupazione degli uomini princi­palmente delle nazioni marittime, merita tutta l’attenzione dell’eco­nomo politico. Nessun angolo dello stato dev’esser, per quanto è possibile, sottratto dall’istancabile industria degli uomini; tutta la massa d’una provincia deve essere tormentata e commossa dalle opere e dal travaglio. Quanto tributo paghiamo noi a nazioni forastiere, per essere dall’acque alimentati? La pesca è divenuta un oggetto di religiosa economia, e la cupidità degli uomini, che sempre si sottrae dai freni tutti che gli sono imposti, ha saputo trovare il modo d’adempiere alle prescrizioni d’una disciplina, e nel medesimo tempo procurarsi un compenso e forse un incentivo a tutte le privazioni che ci sono ordi­nate. Oggetto principale sarà dunque di sottrarre, coll’aumento della pesca interiore, un tributo che paghiamo ai mari estranei.

88. Finalmente la caccia, prima occupazione degli uomini erranti e selvaggi, deve essere promossa e mantenuta, dove siano animali fe­roci e dannosi all’agricoltura – all’estirpazione de’ quali il premio che si destinerebbe saria il più più pronto ed opportuno incentivo –, dove ci siano animali che pelli, peli ed altro ci forniscono per così varie ed utili manifatture. Dove finalmente non manchino braccia all’agricoltura, potrebb’essere il risparmio d’un lusso dannoso. I raffi­namenti delle mense consumano un alimento di molte famiglie per risvegliare lo stanco palato d’un annoiato ed inutile digeritore; il lusso del selvaggiume, sostituito a tali raffinamenti, sarebbe perciò utile col sottrarre dalla distruzione inesorabile d’un cuoco francese il vitto di venti persone.

89. Ma questa primogenita occupazione del genere umano, sarà ella riserbata soltanto alla delizia di pochi, o permessa a molti? Egli è giusto d’interdire a tanti intermedi proprietari, in favore di qualche enorme occupatore di terra, una occupazione che almeno dalla mol­lezza li ritrae, un’arte, immagine di guerra e di costanza, di paziente ricerca e di fortezza primigenia ed originale del genere umano? E sarà egli utile alla società, al ben pubblico, sarà egli necessario (e perché sian giuste devono esserlo) il creare in favore d’alcuni privati nuove pene e nuovi delitti, e rendere reo il pubblico con penali ordinazioni che non conducono direttamente al bene di quello? Con tutto ciò, debbono essere rispettati i divertimenti del principe: eglino sono utili al ben pubblico, perché conservano il ben essere di chi a tutti lo procura; innocente occupazione, che molti sovrani, dalla pompa abba­gliante del trono, troppo lontano dalla bassa sfera della moltitudine, ha fatti discendere a conoscere l’umile asilo della povertà e della miseria. Checché si pensi delle caccie riservate, sarà sempre vero che l’indi­stinta permissione, in tutti i tempi ed a tutte le persone, della caccia, degenererebbe in abuso, che leggi universali su questo oggetto, che egualmente assoggettino ed egualmente incoraggiscano, saranno più utili che le leggi private, e sono nell’occasione un fondo lucroso di finanze, meno odioso e meno scoraggiante di molti altri. Dico finalmente in tutti i tempi, perché, se i sentimenti di compassione sono lontani dall’animo corrispondente degli uomini in favore degli animali, tanto a noi dissimili nell’organizzazione e nelle facoltà; se le leggi dell’universo ci dimostrano che la moltiplicazione d’una specie sia a spese della distruzione d’un’altra, non essendo, dalla forza e dal­l’equilibrio della mano suprema impresso, alle cose permessa che una quantità finita e limitata alla circolazione degli esseri; il nostro inte­resse però ci consiglia che noi diamo una tregua agli animali nel tempo che la natura tutta risvegliasi e risentesi, per rianimarsi e per rientrare nel vortice della vita e dell’azione.

Parte terza.
DELLE ARTI E MANIFATTURE

Breve sarà per noi questo trattato, avendo già nella prima parte accennato alcune delle verità fondamentali intorno alle arti e manifat­ture, per quanto possono cadere sotto la considerazione dell’econo­mo politico; e molte altre non possono in questo luogo essere tratta­te, perché richieggono l’ulteriore esposizione delle altre parti di pubblica economia. Tale, e non piccolo, è l’inconveniente e l’imba­razzo che s’incontra in questa scienza, a differenza di molte altre; per­ché dove la simultanea complicazion degli affari della civil società ne fanno, per così dire, andar di fronte i fenomeni con un moto ed una direzione che nasce dal tutto, e non dalle parti ad una ad una, la debo­lezza e i limiti dell’umana natura ci sforzano a partitamente conside­rarne ed esaminarne i rapporti. Laonde, per chi ben considera, tutto deve restar sospeso nella mente sino alla fine, e la memoria deve schierarci davanti una moltitudine di considerazioni, che tutte influi­scono essenzialmente alla produzione d’un effetto sovente in appa­renza semplice ed uniforme; per il che ed è facile di ommettere alcu­ni degli elementi essenziali, ed è proclive l’animo nostro a cader prima del tempo nella decisione, e molto più per la lassitudine di ragiona­mento siamo inclinati a credere d’aver tutto bene spiegato ed inteso, quando ciò che abbiamo in poche parole concepito, in un lungo cir­cuito d’esse abbiamo trasformato.

Ma il troppo fermarsi intorno a queste metafisiche considerazioni, quantunque non inutili, se non per chi non le intendesse, sarebbe soverchio; onde, affrettandoci al proseguimento del lungo cammino che ancor ci resta a fare, diremo che sotto quattro capi principali si racchiudono le cose da dirsi in questa terza parte. Primo. Un breve quadro dei differenti aspetti sotto cui si deve considerare la grande varietà delle arti, dai bisogni e dalla cupidigia degli uomini inventate. Secondo. Per quali cagioni le medesime si avviliscono, e per quali mezzi s’incoraggiscono e mettono in vigore. Terzo. Della preferenza delle une sopra le altre, e della miglior distribuzione di quelle. Quarto. Del buon ordine e disciplina con cui devon essere mantenute.

I. Differenti divisioni ed aspetti delle arti e manifatture

1. Io non debbo tessere un lungo e noioso inventario di tutte le arti e manifatture, ma solamente esporre le classi nelle quali sono state divise, e come possono esserlo ulteriormente; il che ci sarà utilissimo a suggerirci, quasi spontaneamente, le massime che intorno ad esse insegna la pubblica economia.

2. In primo luogo, sogliono gli economisti dividere le arti unicamente per la classe delle materie che impiegano; e come quelle sono le produzioni naturali, così le dividono in arti del regno animale, del regno vegetale, del regno minerale; la quale divisione, più fisica che economica, può servirne a tesserne una esatta nomenclatura, ma non a metterle sotto quei punti di vista elevati e generali che la politica dimanda, e dai quali si rischiarano e si veggono uniti ed ordinati tutti i dettagli necessari. Ma da questa divisione si può imparare quanto sia importante per una nazione il promovere lo studio delle scienze natu­rali, studio che premiandoci della fatica colla moltiplice varietà di sensazioni aggradevoli che ci presenta, pone in vista nello stesso tempo tutte le nostre ricchezze, onde crescerne sempre l’uso e l’impiego. Un’infinità di vegetali s’innalza solamente per servire di scarso pasco­lo agli animali e di esca al fuoco, quando potrebbero forse servir di base, o almeno di parti costituenti arti e manifatture utilissime, come il cotone che involve le sementi del pioppo, e come molte inutili erbe delle quali si è tentato non infelicemente di far carta. Una gran quantità d’insetti fanno essi pure sulle nostre comunali piante, nei nostri boschi, sotto i soli e parchi auspizi della natura, grossi bozzoli di lucida e variata seta, che sarebbe emulatrice, per l’abbondanza e facilità, di quella che abbiamo con infinite cure potuta addomesticare al nostro clima.

Finalmente l’uso dei metalli, dei minerali, dei fossili può condurci a grandi scoperte sulla perfezione dei colori, sull’ammollire e rendere seguaci alla mano fabbricatrice le materie più dure e più rigide, dap­poiché la chimica, coll’analisi più accurata e coi tormentatori suoi processi, tenta instancabilmente di penetrare sino alle primarie e più segrete operazioni della natura. Da ciò possiamo vedere con quanta compassione meritano d’esser riguardati coloro, che il peso degli anni mettendo in conto di sapienza, ed onorando solo del nome d’affari il movimento e l’agitazione della cupidigia dell’oro e dell’ansietà del comando e del potere, con severo sopracciglio l’ardente curiosità gio­vanile verso questi studi condannano coi nomi d’ozio e di occupa­zioni inutili, di frivola e ragazzesca dapocaggine, estinguendo così quell’estro e quell’entusiasmo che, spingendo gli uomini con forza e con piacere verso varie direzioni, produce il più grande effetto e la più gran perfezione nel total della specie, colla minor fatica ed imba­razzo degli individui.

3. Un’altra divisione delle arti sarà: in arti di materie prime che si producono nel paese, e in arti di materie prime mandateci dai fore­stieri. Da questa sola divisione appare in primo luogo doversi preferi­re le prime alle seconde, il che non ha quasi bisogno di dimostrazio­ne, poiché le materie prodotte dal suolo, che non sono alimento, non hanno valore, se non per l’uso cui si destinano; dunque l’uso di quel­lo le materie incoraggirà la coltivazione, il non uso l’avvilirà; dunque fra due arti, nelle quali l’esito del prodotto dell’una sia in opposizione al buon esito dei prodotti dell’altra, dovrà esser preferita quella che ha la materia prima nel paese, a quella che l’ha al di fuori. In secondo luogo, non tutte le manifatture possono introdursi in tutti i paesi, perché quelle di cui le materie prime sarebbero lontanissime, e di tra­sporto difficile e dispendioso, sia per il troppo volume della materia trasportata in paragone della quantità utile e servibile dopo il traspor­to, sia per le difficoltà che le altre nazioni caute ed attente ai loro inte­ressi frappongono al trasporto di quelle, sia per altri motivi, sarà sempre dannoso il volerle, forzando la natura delle cose, stabilire, meglio essendo il farne senza; e, se non lo sia, sostituirvi un’arte equivalen­te, in ultimo anche lasciare che introducasi la manifattura forestiera, occupando le nostre mani intorno ai lavori i più ovvi e più speciali alla natura del clima, del governo e dei costumi nostri.

Questa introduzione di manifatture forestiere è sovente opportuna per aprire una uscita alle cose nostre, ed una communicazione con altre nazioni. Una terza divisione potrebb’essere in arti del bisogno, del comodo, della voluttà, della pompa ed ostentazione. Quelle del bisogno sono le più indipendenti dalla legislazione particolare dei paesi, e sono limitate dalla popolazione e dal clima; resistono con maggior vigore alle cattive leggi, e si sottraggono con maggior cele­rità e prontezza dai colpi della distruzione e dai rovesci politici: hanno dunque per sostegno principale l’agricoltura, e la consumazione dei prodotti del suolo. Spariscono allo sparir di quelle, risorgono allo risorger parimente di queste, ed a vicenda le animano e le fortificano. Dunque, dove l’agricoltura sarà animata, senza ulteriori disposizioni prenderanno esse pur proporzionato aumento, e il togliere gli osta­coli sarà l’unico scopo del legislatore.

Le seconde, quelle cioè di comodo, non prendono accrescimento che colla coltura delle nazioni, con lo spandersi del lume delle scien­ze, col diradarsi la nebbia dell’errore, col mansuefare la distruttiva ferocità dei costumi, col rendere communicanti e continue le diver­se condizioni degli uomini, colla distribuzione della massa delle ric­chezze in un maggior numero di mani. Animano più delle altre alla fatica ed al travaglio, e sono lo stimolo più pungente ed universale dell’industria, perché meno dispendiose in ciaschedun oggetto parti­colare, e sono più vicine alla speranza delle più infime classi. Non essendo così essenzialmente dipendenti dalla natura umana e dalla riu­nione degli uomini in società, le buone e le cattive leggi vi hanno un’influenza maggiore, e ricercano disposizioni più positive in favo­re di esse, che le arti del bisogno.

Le terze poi, e le quarte, quelle cioè della voluttà e della pompa ed ostentazione, sono dipendenti da una società più raffinata, e propor­zionali alla disuguaglianza de’ beni; maggiori e più vigorose dove questa è maggiore; minori e più languide dove questa è minore. Sono dunque più utili relativamente che positivamente; esse divengono un supplemento ed un correttivo delle cattive leggi, che condensano tutto il bene in poche mani, lasciando il resto nella miseria e nel biso­gno di tutto; ma sono le più mutabili d’ogn’altra, e dipendenti affat­to dal variabile capriccio, dalla noia e dalla irrequieta vanità, e così immensamente distanti dalle arti primitive e necessarie, che, assor­bendo il valore d’una gran quantità di esse, malamente e tardi lo ritor­nano a distribuire: ma di ciò più accuratamente nella quarta parte, dove si parlerà della circolazione e del lusso.

4. Una quarta divisione potrebb’essere nelle arti, nelle quali il valo­re della materia prima è di molto superiore al valore della manifattu­ra; in quelle dove il valore della materia prima sia presso a poco al livello del valore della manifattura; finalmente in quelle dove il valo­re della materia prima sia di molto inferiore al valore della manifattu­ra. Abbiamo detto che il valore della materia prima sarà rappresenta­to dagli alimenti che si debbono consumare da quelle persone, e per tutti quei tempi, che s’impiegano nelle di lei riproduzioni, e dagli ali­menti rappresentati da tutti que’ mezzi che vi concorrono; così il valore delle manifatture sarà rappresentato da tutti gli alimenti, per tutti i tempi e mezzi che contribuiscono alla formazione di quella. Le arti dunque della prima classe saranno quelle dove una gran quantità di materia relativamente alla difficoltà, lunghezza o travaglio della sua produzione, sarà da pochissime mani e in breve tempo lavorata; e in questo caso noi vedremo che arti di simil natura non diventano suc­cessive e continue rappresentazioni d’alimento per tutte le condizio­ni dei cittadini. Parimenti quelle dell’ultima classe saranno quelle arti, nelle quali pochissima materia relativamente alla brevità e facilità della sua produzione sarà lunghissimamente e con difficile travaglio fabbri­cata; nel qual caso o molte mani contemporaneamente vi si possono impiegare, o pochissime, e per lungo tratto di tempo. Vedrà ognuno che nella prima supposizione il vantaggio che da tali manifatture risul­ta sarà maggiore che nella seconda supposizione; nella quale sarà scar­sissimo, perché vi sarà un salto da pochissimo valore ad un grandissi­mo, senza valori intermedi, o sia intermedi travagli che distribuiscano l’utile sopra d’un gran numero di persone: e perciò le arti della secon­da classe sono le più utili, perché suppongono una discreta quantità di valori successivamente circolanti per un gran numero di persone in varie classi dei cittadini.

5. Quinta divisione sarà in arti dipendenti fra loro, e in arti indi­pendenti. Ciascun’arte ha per base una materia prima, e ciascun’arte ha molte arti, siano subordinate a lei, siano da lei dipendenti. Quel­l’arte sarà preferibile, che ha maggior numero d’arti da lei dipenden­ti; e, tra le arti indipendenti, dovrannosi scegliere quelle nelle quali le materie prime non si escludono tra di loro, sia nella produzione di quelle, sia dopo manifatturate, per l’uso medesimo a cui si destinano.

Ho voluto accennare queste necessarie divisioni, perché ci dovran­no in seguito servire di facile direzione ai ragionamenti da farsi. Ciò che mi resta da aggiungere, in questo capitolo intorno alle arti in generale, consiste in alcune riflessioni che non si doveano ommettere.

6. Dicesi da alcuni che in uno stato agricolo, dove un suolo felice fornisce abbondante e sicuro prodotto, non possono prosperare le manifatture: detto, che condurrebbe a negligentare questo ramo pri­mario e prezioso di azione e di prosperità in un tale stato. La ragione che se ne adduce si è perché gli uomini, fidandosi della terra alimentatrice, non sono stimolati e punti da quel bisogno, che agitando per ogni verso gli abitatori dei paesi ingrati, sterili e montuosi, li rende artigiani industri, onde procacciarsi quell’alimento che gli nega la terra su cui vivono. Ma questo ragionamento è smentito dall’espe­rienza, perché non v’è parte più agricola dell’Inghilterra, e nessuna nazione ha giammai viste nel suo seno più trionfare le arti e le manifatture; e rivolgendo gli occhi agli andati tempi, troveremo che fra di noi non era meno coltivata la terra e ferace di quel che ora lo sia, e sa ognuno quanta mole di arti e di manifatture nudriva Milano.

La ragione poi conferma il risultato dell’esperienza, la ragione che altro non è, in sostanza, che l’esperienza stessa ridotta a termini gene­rali e scientifici; poiché, prosperando l’agricoltura, crescono le consu­mazioni, e quindi cresce la popolazione; e, cresciuta quella, trovasi un superfluo, e nell’agricoltura e nei valori de’ suoi prodotti, che per necessità consacrasi alle arti quando queste non hanno ostacoli politi­ci al loro avanzamento; ostacoli che confesso doversi più facilmente trovare fra le nazioni abitatrici d’un suolo fertile, che fra quelle che ne abitano uno scabroso e magro, perché ivi la prima considerazione è usurpata dai possessori delle terre, i quali, cercando di annientare gli altri ordini dello stato, divengono gelosi della prosperità loro e cerca­no d’opprimerli e disanimarli, sforzandosi che tutto il peso dei tribu­ti sia portato dalle arti, le quali, non avendo altre forze che l’attività e libertà, prosperar non possono dove queste siano oppresse e rintuzza­te, a differenza delle terre dove l’attività e la libertà sono dalle forze naturali aiutate e sostenute.

Ma quando le arti sono dalla mano superiore e legislatrice protet­te, dove trovino vantaggi che compensino l’inferiorità della condizio­ne, dove i possessori delle terre non formino un ceto perpetuamente separato dagli altri, ivi le arti e le manifatture vanno di mano in mano crescendo coll’aumento dell’agricoltura, e questa medesima sarà da quelle conservata ed accresciuta.

L’agricoltura resiste per propria forza a tutte le scosse ed a tutti i disordini politici più facilmente che le arti, le quali, delicatissime, facilmente si perdono. L’agricoltore è trattenuto dal suolo e dalla lun­ghezza del travaglio; e siccome egli è produttore dell’essenziale ali­mento, così lo spaccio delle sue fatiche può essere stentato e langui­do, angustiato ed angariato in mille guise: ma sicuro ed infallibile. Per contrario, l’artigiano, facilmente trasportando se stesso, trasporta tutto il fondo e i mezzi del suo guadagno, e dove gli si rende più incerto un esito fin a certo segno incerto per se stesso, o si abbandona all’i­nerzia, o si ritira dentro un torpido contentamento del puro necessa­rio, o cerca sott’altro cielo un più largo, un più libero spazio, ove esercitare la propria industria.

Dove dunque l’agricoltura siavi naturalmente, per la benignità del suolo, ancorché languida e mancante, pure difficilmente si annienta; così con somma difficoltà si ristabilisce dove i cattivi stabilimenti siano arrivati a disperare la classe più paziente di tutte, quella cioè degli agri­coltori. Dico dov’ella sia naturalmente, cioè dove la natura del terre­no sia facilmente ubbidiente alla mano del coltivatore; perché dove il suolo non si vince che colla maggiore industria e cogli sforzi maggio­ri ed assidui dell’arte, ivi l’agricoltura può chiamarsi una manifattura, ed ha la delicatezza e ritrosia di quella.

Merita dunque le prime cure e la prima nostra parzialità quest’arte che il maggior numero d’uomini mantiene, la di cui prosperità ha per immancabili conseguenze tutte le arti e manifatture compatibili colla natura del suolo e col numero degli abitanti. Ma quella, bene stabi­lita, prenderà da se stessa un corso più spontaneo e vigoroso, mentre le arti in quel caso esigono una custodia più gelosa e più delicata, per­ché meno resistono alle vicende politiche.

7. Termineremo questo capitolo col riflettere che lo studio delle arti meccaniche è stato sinora abbandonato alla cieca pratica de’ manuali, i quali, non mossi che dall’amor del guadagno immediato, non le hanno che lentamente perfezionate. Eppure queste arti mede­sime contengono, come taluno ha osservato, più di filosofia, di sagacità, d’invenzione degna d’uomini ragionatori, che molti migliaia di volumi scritti con tutta la gravità e sussiego; e sono suscettibili d’esser ridotte a principii generali e precisi, onde meritare la considerazione del più contegnoso e superbo letterato.

Se dunque si aggiungesse alle istituzioni che si danno in favore della gioventù, invece d’una sterile scienza di parole, un preciso ma ragio­nato quadro delle arti meccaniche, ove fosse ridotta a principii e a viste comuni e generali quella logica di tradizioni e buon senso, che le scienze cavillose e magistrali rilegarono nelle umili officine dell’in­genuo lavoratore, ivi condotta la distratta gioventù, meglio che fra il baccalaureato e fra i portici imparerebbe a rispettare le vere cognizio­ni, senza renderla ispida e rannicchiata in se stessa, tra la volubile sottigliezza e la pupillare ferocia dei sillogismi; ed avvezzandosi a cono­scere tutti i ceti e tutta la catena degli affari sociali, ella si avvezzerà a quell’affezione e a quell’amicizia di abitudine con tutte le condizioni, che tanto contribuisce alla reciproca e tranquilla felicità degli uomini conviventi e contrattanti insieme.

II. Per quali cagioni le arti si indeboliscono e si perdono, e per quali mezzi si rinvigoriscono

8. Due cose essenziali debbono essere considerate in ogni arte e manifattura: la materia prima onde ella è composta, e l’opera di chi vi travaglia. Di due generi saranno adunque le cagioni che fanno lan­guire le arti e gli ostacoli che si oppongono alla lor perfezione: osta­coli e difetti della materia prima, ostacoli e difetti della man d’opera.

9. Il primo del primo genere sarà senza dubbio la mancanza di materie prime prodotte nel paese. Le arti non cominciano ordinariamente a prender vigore in una provincia, se non cominciasi dal tra­vagliare le materie proprie prima d’occuparsi delle forestiere, perché l’artigiano che intrapprende la manifattura ha più di che scegliere per il prezzo e per la qualità da molte mani, ha minori trasporti e minori spese da fare, ed ha un maggior agio per fare i pagamenti che egli devepremettere all’esito della sua manifattura. Da ciò si vede l’importanza di quella massima, alla quale ho consegrato nella seconda parte quasiun intiero capitolo, che la varietà delle colture in uno stato è di gran lunga più utile dell’uniformità, quantunque il prodotto di questa fosse maggiore della somma dei prodotti di quella, perché questo di­fetto sarebbe compensato dal molto maggior numero di arti naziona­li, dal minor tributo che si pagherebbe alle arti forestiere, da una cir­colazione di contratti o di valori più viva, più rapida e più universale. Oltre che la varietà delle colture è più sicura contro gli accidenti impensati e gli ostacoli reciproci che le nazioni le oppongono per la sempre vivace guerra d’industria e di guadagno. Dunque tutti gli osta­coli da noi accennati contro la coltura delle materie prime saranno ostacoli contro le arti e le manifatture medesime. Sarebbe perciò intollerabile il qui ripeterli.

10. Secondo ostacolo del primo genere saranno le difficoltà che incontrar possono le materie prime passando dai produttori ai mani­fattori. Questi possono essere di varie sorti. Primo: se la circolazione sia impedita ed interrotta da gabelle interiori, e da tutto quello stra­scico inviluppatore di formalità, che ordinariamente corredano tali pesi e gravezze. L’uomo s’arresta in una carriera piena d’inciampi e di pericoli, dove ad ogni momento deve anticipare con proprio inco­modo un valore che tardi sarà ricompensato, e meno sicuramente lo sarà, a misura che egli sia più grande e più insuperabile. Secondo: se i produttori sian soverchiamente caricati, qualunque pagamento si fac­cia, per ragione di tributo d’ogni genere, sono sempre portati dalla materia prodotta dalle terre.

Ma non è niente indifferente il tempo e il luogo nel quale questa materia paga il tributo, perché se tutto intero lo paga di primo slan­cio, subito dopo la di lei produzione, il produttore subito vuol ricom­pensarsene, e, il valore della materia prima riuscendo troppo alto, l’anticipazione che il fabbricatore è costretto di pagare è troppo forte, perché egli intraprenda lavori considerabili e ben fatti: onde minore sarà il numero de’ concorrenti alle medesime opere, e però minore la perfezione di quelle, minore buon mercato e maggiore uscita della materia prima dello stato, quando non fusse abbandonata la coltura della medesima; il che non immediatamente, né sempre, ma spesse volte e a poco a poco succede, perché i fabbricatori non possono e non vogliono ricompensare l’eccesso del tributo, onde quello, retro­cedendo, tende a rendere più dannosa che utile la coltivazione. Il peso dunque portato sempre dai prodotti del suolo debb’essere distribuito in proporzione della sua grossezza ne’ successivi passaggi della mate­ria prima dai produttori ai primi manifattori, da questi ai secondi e così successivamente, acciocché l’anticipazione che si deve fare sino all’ultimo consumatore o usatore della cosa manufatta, sia meno forte per ciascuno in particolare; il che, come dovrebb’essere, perché non sia rovinoso ma utile, si vedrà nel trattato delle finanze.

In terzo luogo, il numero dei manifattori sia da privilegi esclusivi, da restrizioni e condizioni legali ristretto ad un piccolo numero limitato ed escludente altri che potessero intraprendere un simile travaglio; perché questi, diventando legislatori o tiranni dei valori, ed essendo sicuri d’uno spaccio, qualunque sia il lavoro da essi fatto, mancano di quello stimolo che porta a perfezionare l’opera e a diminuirne il prez­zo, in concorrenza d’emoli tendenti allo stesso fine.

11. Gli ostacoli del secondo genere, cioè della man d’opera, o sia dei fabbricatori, sono: primo, la successiva imperfezione delle diverse preparazioni che soffre la materia prima che si adatta al lavoro, perché accade sovente che nelle arti subordinate ad una manifattura, per l’i­gnoranza di chi fa le prime preparazioni, le manifatture che ne risul­tano riescono inferiori di pregio e di bellezza a quelle delle altre nazioni, dove sono minori pregiudizi, e maggiore attività e cautela si adopera intorno alle materie prime. Esempio ne siano le nostre sete, la filatura delle quali essendo diversa ed inferiore a quella di Piemon­te ed altri finitimi stati, le manifatture risentono dei difetti delle prime preparazioni.

Chi s’interessa alla prosperità delle arti, trasportato sovente dal dispotico spirito di perfezione, vorrebbe che con codici penali e con ordini di gelosa e diffidente ispezione fossero prescritti metodi a chi prepara la materia prima, ch’egli fosse soggetto ad esami, a visite e ad una claustrale disciplina: metodo certamente pericoloso, e che, oltre il difetto di fare il bene con mezzi odiosi e contrari alla felicità degl’in­dividui, averebbe il rischio di disanimare ed impicciolire lo spontaneo vigor dell’industria, che esige libertà e facilità in ogni luogo e in ogni tempo.

Oltrediché, tutto ciò che si toglie all’influenza infallibile dell’inte­resse particolare, per metterlo sotto la direzione degli esecutori, diventa più favorevole ad essi, e perciò più arbitrario ed incerto, di quello che conduca al fine che si propone. Non già che ogni disci­plina debba esser tolta, ma perché è verissimo che le prescrizioni non devono essere impiegate se non dove sono necessarie, e dove il pre­mio può ottenere il fine voluto dalle leggi, ivi la pena sarebbe dan­nosa.

12. Secondo ostacolo sarà la scarsezza de’ lavoratori, la quale può essere assoluta quando la popolazione sia al di sotto di quella che possa uno stato mantenere, il che si può conoscere dalla quantità delle terre buone, inutili ed incolte, e dalla quantità delle terre che ciascuna famiglia coltiva; perché se queste eccedono il potere di ciascun brac­cio, e se la famiglia ne ha di troppo, cosicché non sia costretta a cavar­ne tutto il partito possibile, ma le basti una mediocre coltivazione ed una mediocre fatica, segno è che tali terre molto maggior numero di persone potrebbero mantenere: ma per lo più suol essere relativa.

Quando in uno stato vi sia facilità a consumar viveri senza un tra­vaglio produttivo o manufatturiere, tutti questi consumatori sono tolti alle arti ed alla gleba. Quindi per le arti ve ne resterà un minor numero, e maggiore sarà la diminuzione che ne soffrirà la manifattu­ra, di quello che la coltivazione, perché la manifattura esige un più lungo tempo, ed è costretto chi vi si impiega o di pagare il maestro, o di servirlo con nessuno o tenue sostentamento, mentre niuna di queste prevenzioni richiede la coltivazione delle terre. In prova di che vediamo ogni giorno, in quei paesi dove siano di questi sterili consu­matori, che coloro che si sottraggono al duro travaglio della terra non si rifugiano al più lucroso e più comodo lavoro delle arti, ma bensì saltano immediatamente, come i calabroni, a succhiare il mele delle api industri, e ad intorpidire in quelle condizioni che somministrano una tale facilità di vivere scioperatamente. Restando dunque più scarso il numero de’ manuali, questi esigeranno un più alto prezzo dell’opera loro; quindi, incarendo la manifattura, se ne diminuirà la ricerca, tanto dagli estranei quanto dai nazionali.

13. Terzo ostacolo, la carezza della man d’opera medesima, per la carezza dei viveri. Il valore del travaglio d’un giorno deve sommini­strare cinque alimenti circa, né più né meno, al lavoratore, perché, se se gli somministra di più, tralascerà di travagliare tanti giorni quante giornaliere sussistenze sono formate dall’eccesso del valore del trava­glio, o travaglierà più languidamente o più imperfettamente, il che è lo stesso. Ma se il travaglio somministra meno, il lavoratore tralascerà di lavorare, e dovendo necessariamente cavarne il valore di cinque ali­menti, accrescerà indebitamente il prezzo dell’opera, colla diminuzio­ne in seguito della medesima.

Ma quando sarà che il travaglio e la man d’opera siano in giusto livello colla giornaliera paga del lavorante e col prezzo dei viveri? Abbiamo detto che il travaglio d’un uomo può equivalere al travaglio di molti, che il lavoro, verbi gratia, d’un sarto che somministra abiti a molti contadini, equivale alla somma corrispondente di più giorni di travaglio pagati da tutti questi contadini per tutti gli abiti. Dunque questo travaglio può essere rappresentato da corrispondenti porzioni di terra. Dunque il prodotto di questo travaglio sarà corrispondente al prodotto di queste terre. Dunque il valor del travaglio d’ogni fabbri­catore allora sarà in livello colle spese della man d’opera, quando, dal capitale impiegato per tutta l’estensione della manifattura dedotto il valore della materia prima, e dal frutto di questo capitale dedotto il valore della man d’opera pagato cogli operai insieme colle altre spese, l’avanzo, cioè il guadagno, sarà eguale al frutto raccolto di tante terre, quanto la somma del suo travaglio e della sua intrappresa ne rappre­senta. È impossibile l’applicazione di questa teoria finché non si abbia­no in un paese dati certi ed adeguati dei prodotti delle terre, della media porzion fisica di travaglio di ciascun uomo, e la più difficile ed esatta notificazione del capitale che ciascuno impiega ne’ suoi lavori.

14. Quarto ostacolo, l’eccesso del tributo posto sulle manifatture e sull’industria personale degli uomini. Egli è vero che tali gravezze sono ricompensate dai compratori: ma, quando passano un certo limi­te, di troppo la manifattura se ne diminuisce, e se ne dirige altrove la ricerca; diminuiti i compratori, essa deve abbassarsi di prezzo, e però il tributo resterà tutto sulle spalle degli operai e manifatturieri; il qual peso, opprimendo il frutto e la speranza della loro attività ed industria, renderà torpide le arti, le quali a poco a poco dissipandosi, si rifu­gieranno dove siano allettate da una condizione più dolce e dai tributi men forti e meno sensibili.

15. Quinto ostacolo sono le formalità alle quali le arti medesime si assoggettano da coloro agli occhi dei quali s’ingrandiscono i piccoli dettagli, né ponno né vogliono innalzarsi giammai alla contemplazio­ne del tutto e della somma intera delle cose. Esami, patenti, permis­sioni, prescrizioni ed obblighi di tenere allievi, allontanano e rendo­no scabroso l’entrare in una carriera, a correre la quale anzi si dovrebbero moltiplicare gli stimoli, ed aprire tutte le facilità per vin­cere la naturale inerzia dell’uomo e l’innata sua spensieratezza, che lo porta a riposarsi negli avvenimenti giornalieri e ad abusare di quella fiducia che noi dobbiamo avere nell’invisibile provvidenza.

Lo stringere ciascuna classe d’artigiani in corpi separati che si eleg­gono capi e direttori, l’assegnare severi confini al travaglio di ciascu­na classe e all’industria di ciascun individuo, il farne famiglie, società, fratellanze, confraternite contraddistinte d’insegne e di livree semiec­clesiastiche e semisecolari, che moltiplicano le occupazioni, lodevoli invero, ma di supererogazione a spese delle più utili e necessarie, che creano pretensioni sempre nuove, e litigi e discordie sempre rina­scenti, tanto più aspre e dispendiose quanto meno si appoggiano sui veri interessi e sui veri bisogni delle arti stesse, ma piuttosto sull’avvi­cinamento e sul riscaldamento delle passioni degli uomini, che sono più durevoli a misura che hanno un oggetto più vago e più indeter­minato, non già per il fine che si propongono, ma per i mezzi che adoperano. Quindi codici particolari di ciascun’arte, custodi di tali leggi, patrocinatori e difensori stipendiati, che hanno interesse di riprodurre ciò che li alimenta. Quindi una parte di valore, che dovrebbe rappresentar travaglio ed azione riproducente parimenti valore, diviene il cambio di carte, di parole, che rintuzzano e disper­dono la forza dell’interesse e pesano sull’industria degli uomini.

16. Sesto ostacolo alle arti e manifatture, che ne ritarda più l’intro­duzione (quando manchino di quello che le faccia perdere quando sono introdotte), si è l’impiego dei capitali sui banchi pubblici che pagano interessi, rendite vitalizie, ecc., fondi tutti che, somministran­do un’annua rendita e sicura, ed un frutto netto e sufficientemente abbondante, alienano i possessori dall’impiegarli in favore delle arti e dell’industria; e da questa si esige un compenso maggiore, il quale non potendo che difficilmente portare, resta languente ed inoperosa. Ma ancora di ciò sarà meglio trattato, e si risponderà alle obbiezioni che si possono fare e le eccezioni che si possono ammettere nelle circo­stanze particolari delle nazioni che saranno annoverate, quando si par­lerà del commercio.

17. È quasi inutile il qui accennare per settimo ostacolo le difficoltà che soffrono nella circolazione le materie manufatte, come abbiamo annoverate quelle che soffrono le materie prime. Tutto dev’esser diretto da questa massima, che non ha eccezione: cioè che le restri­zioni alla libertà non devono esser poste per l’amore della perfezione, ma per esigenza della necessità soltanto; non per far meglio, ma per trattenere un disordine.

18. L’ottavo ostacolo che si oppone al progresso delle arti, è il più grande e considerabile, e appunto quello che s’è creduto da molti il più opportuno ed efficace a promoverle, cioè i privilegi esclusivi che si accordano a tali manifattori contro tutti quelli che potrebbero intrapprendere il medesimo lavoro. Le arti, come le cose tutte, non prosperano quasi mai nelle mani di un solo. Tale è la legge eterna che contribuisce a legare gli uomini in società. Ciò che ciascuno vi può aggiungere non è che un piccol grado; ed un’arte che sia nelle mani d’un solo, o di pochi, non può che restar sempre languida ed imper­fetta, arricchendo un particolare, non già la nazione, né potendo giammai sostenere la concorrenza con simili arti di altri paesi dove siavi la libertà a ciascheduno di professarle; il che produce emulazio­ne a perfezionarle e gara a scemarne il prezzo, onde le ricerche saran­no sempre rivolte verso dove spira la libertà, non dove siede il seve­ro monopolio. Non è nuovo, ed è evidente questo ragionamento: o l’arte di cui si vuole accordare il privilegio esclusivo è già introdotta nel paese, o non lo è; se è già introdotta, non si può togliere senza ingiustizia il profitto di molti per accumularlo nelle mani d’un solo, profitto però che da se medesimo tenderebbe a diminuire, perché le ricerche e l’esito scemano dove la ricerca sia tolta; o l’arte non è intro­dotta, ed allora chi ricerca il privilegio esclusivo fa ragionevolmente sospettare, anzi con ogni sicurezza si deve presumere, che egli voglia o debba esser un cattivo manifattore.

Ogni arte nuova che da qualcuno venga introdotta, dà sempre per se stessa un vantaggio in favor dell’introduttore, a preferenza di quel­li che vengono dopo di lui. È sempre più grande presso gli uomini il credito degli introduttori, sopra gli imitatori. Chi introduce un’arte nuova, oltreché può chiamarsi inventore relativamente alla nazione priva di quell’arte, già la conosce prima, e più d’ogn’altro è già pre­venuto contro gli ostacoli, ha già disposti i mezzi e preparate le cor­rispondenze. Chi vien dopo non potrà procurarsi simili vantaggi, se non molto tempo dopo l’introduzione dell’arte per mezzo del primo, cioè se non dopo avviato l’esito dell’introduttore; onde questo avrà sopra tutti gli altri maggior credito e forza, per non temere discapito al capitale da lui impiegato.

Chi dunque dimanda privativa, dimanda di potere ingannare im­punemente, e all’ombra delle leggi tiranneggiare il compratore. Chi dimanda privative è un uomo non sicuro di se stesso, il quale cerca di coprir quel rischio che una mal intesa avidità gli fa azzardare, e poco appoggiato alla probabilità di riuscire, cerca non nella propria attività e diligenza, ma nell’altrui dipendenza e servitù un reddito ed un pro­fitto. Di più, non ho difficoltà di qui ripetere, perché importante, ciò che altrove ho accennato, cioè che la concorrenza dei manifattori ab­bassando il prezzo della manifattura, e perfezionandone l’opera, au­menta di più la ricerca e lo spaccio, di quello che non scemi alla lunga il profitto di ciascheduno in particolare, supposto ch’egli avesse il pri­vilegio esclusivo, il quale, se esclude gli altri dall’esercitare un’arte simile, esclude anche ed aliena una parte dei compratori a procacciar­si le produzioni di quella. A qual fine sono state adunque concesse tal­volta tali privative, che fanno all’industria un esclusivo patrimonio?

Cagione più frequente di un simile errore si è la trepida ed improv­vida voglia d’introdurre a qualunque costo e forzatamente alcune arti nella nazione. Questa fa ascoltare ed aderire ai subdoli progetti che mettono in vista un vantaggio momentaneo, sotto del quale celasi un danno lungo e rovinoso. Meglio, secondo la sana politica, è di assai di restar privo d’un’arte qualunque, che l’accordare simili privative; meglio fissar premi e gratificazioni al primo che averà il coraggio di arrischiare un’intrapresa, che estinguere o vendere la sorgente delle azioni industriose, per cui la riproduzione e l’esito delle materie prime, e la circolazione delle opere, illanguidisce e si arena. Alle pri­vative si avvicinano le riduzioni delle arti in così dette badie ed uni­versità, che fanno contribuire gli artigiani, e per conseguenza allon­tanano molti di quelli che potrebbono accrescerne il numero; che escludono i forastieri in paragone dei nazionali, credendo di favorir la patria, col resistere a quelli che vorrebbono aumentarne le forze e la ricchezza, quasiché la stessa cosa non fosse nascervi, e stabilirvisi.

19. Fissate dunque le principali difficoltà che si oppongono allo stabilimento delle arti, facil cosa è il trovare per quali mezzi fiorisca­no le medesime, perché, non facendo le cose che si chiamano osta­coli, anzi facendo le contrarie, poco resta di positivo da farsi, e que­sto poco a due capi principali si riduce.

20. In primo luogo, s’incoraggiscono le arti e le manifatture ono­randole e premiandole. Per ciò che riguarda l’onore, crede – ognu­no che tocchi internamente se stesso, e paragoni ciò che sente colle varie ed infinite nozioni che di questo sentimento sociale hanno gli uomini avuto in tutti i tempi – doversi alle azioni utili alla società, e, come prima, le azioni del coraggio e del valore, il diritto della forza esercitato con certe solennità e certi fini, soli poteano contribuire alla pubblica utilità, soli erano onorati; così ora, estinto e calmato in gran parte il truculento furore delle discordie, rende men gelose e più communicanti le nazioni. Perché non saranno onorate le azioni di una industriosa probità, che apre con coraggio e con rischio una nuova sorgente di ricchezze, dà un nuovo esempio d’onesta e d’utile occupazione? Perché colui che, confuso tra una oscura moltitudine, ha saputo erigersi ad una sfera più elevata e divenire rappresentatore di parte dell’attiva potenza d’uno stato, non merita di seder a paro dell’assiderato ed inoperoso, nel quale appena lampeggia l’ultimo lume della gloria di lontanissimi avi, che seppero comprargli un ozio illi­mitato coll’ingegno, col sangue, colla rigorosa frugalità e talvolta con illustri delitti?

Ma alieno affatto dal mio instituto sarebbe il più insistere su tali progetti, come lontani troppo dagli attuali sistemi, quantunque non ignoti del tutto fra le antiche leggi di vicine nazioni, né totalmente disparati dalle costumanze e dai riti degli antenati nostri. E se nelle fervide e clamorose nostre assemblee tanto si deplora il decadimento di questo secolo, perché ci allontaniamo dal costume, dalle opinioni e dalle maniere degli avi e de’ bisavi nostri, io non sarò poi rimpro­verato se volessi costringere tali declamatori a rimontare più in alto, per convincerli che le novità che si propongono sono le vecchie costumanze de’ tritavi e quadritavi loro.

21. Ma l’uomo nato fra il volgo, cioè fra l’indipendenza dei costu­mi e delle maniere, è meno mosso dall’ambizione che dalla speranza d’un bene più reale ed immediato. Perciò i premi saranno i più effi­caci animatori delle arti, e faranno incurvare l’inerte alla fatica, e ren­deranno sagace l’industrioso nell’inventare e finire le opere sue.

Soglionsi talvolta invitare le manifatture con somme anticipate, che la generosa munificenza del sovrano somministra a chi si esibisce a sostenere un’intrapresa. Ma chi ben riflette troverà forse inutile, ed anche pericolosa, una simile maniera d’incoraggire le arti. Primo, per­ché, quando si ottenesse il fine, darebbe troppi vantaggi al manifatto­re, escludendo gli altri dal poter sostenere la concorrenza: il che sareb­be non introdurre una manifattura, ma un manifattore, e questi, ancorché potessero sostenere una tale concorrenza, sarebbero forse disanimati, perché l’uomo, che sempre ed unicamente cogli esempi sarebbe portato a creder che se il primo introduttore ha avuto mestie­ri della clemenza del principe, esso pure non ne potrà far senza.

Secondo, perché si corre grandissimo rischio, che il manifattore cal­coli più sull’interesse del capitale sovvenuto, che sulla perfezione della manifattura; e perché ciò egli eseguisca, sono necessarie sigurtà, ispe­zioni ed esami, produzioni egualmente dispendiose all’erario del prin­cipe, che producenti diffidenza e disamore nell’animo dell’artefice per l’arte sua. Egli è probabile che chi si ritrova con condizioni lunghe e vantaggiose d’avere in mano un capitale, cercherà di campare sopra di esso, contentandosi di esibire ogni apparenza di travaglio, più per conservarsi il diritto di prolungare la restituzione e di chiedere nuovi soccorsi, che per corrispondere con lealtà alle benefiche mire del sovrano.

Quanto ho detto non dà nessun diritto di disapprovare se talvolta si sia fatto l’opposto, perché le massime di prudenza politica sono meramente relative a ciò che deve per lo più accadere, non a ciò che in qualche particolar circostanza avviene, potendosi trovar persone che fedelmente adempiano i patti convenuti, e tanta fermezza e vigi­lanza nei ministri che sappiano costringerli all’adempimento, senza disanimare né il favorito manifattore, né i successivi concorrenti.

22. Dunque premiar l’opera già fatta sarà la massima più salutare ed il mezzo più efficace a promovere le manifatture. Il premio è di un solo, ma l’emulazione è di molti, e la speranza, che è uno dei più grandi agenti dell’uomo socievole, mette in fermento l’interesse pri­vato di ciascheduno; e il profitto che ne risulta da questa prima spin­ta è tale, che in seguito, quasi senza il premio, la manifattura si dilata e rinvigorisce. Dico quasi senza premio, perché io crederei opportu­no che ad ogni classe di manifatture si conservasse il premio fissato dalle leggi, almeno per qualche tempo, finché non divenisse affatto inutile. Se esso ha servito a introdurre, servirebbe a perfezionare, a tentar nuove e più spedite manifatture di lavoro, a tenere in conside­razione le condizioni dei manifattori medesimi, essendo i pubblici premi rappresentatori della lode universale, che per lo più misura la virtù nelle deboli menti nostre.

23. In secondo luogo, per mezzo dei dazi con giusti principi isti­tuiti si animano le manifatture interiori d’una nazione. Ogni manifat­tura costa di due parti: della materia prima, e della forma che gli si dà. O la materia prima cresce in un paese, o fuori de’ suoi confini; e que­sta è manifatta parimenti o al di dentro, o al di fuori. Se la materia prima che nasce al di dentro sorte rozza e non manifatta dalle mani dei proprietari fuori dello stato, i manifattori nazionali, che potrebbe­ro impiegarla, debbono comperarla in concorrenza de’ manifattori forestieri. Se una tale manifattura o non esiste nella nazione, o soltan­to languidamente, con uno spaccio dissipato ed incerto, e se per lo contrario i forestieri hanno un esito della medesima florido ed amplo, questi potranno pagare la materia prima alquanto di più che i nazio­nali medesimi.

Vero è che la differenza del trasporto più lungo di una materia al di fuori, che del trasporto della materia prima più corto nell’interno, danno un vantaggio ai nazionali contro i forestieri, e ciò per la ragio­ne, più volte ripetuta, che i venditori della materia prima, dovendo rifarsi della spesa del trasporto, caricheranno il prezzo di quello sulla materia prima che vendono ai forestieri. Possono dunque vendere un po’ più a buon mercato ai nazionali, guadagnando di più nel medesi­mo tempo: ma se il trasporto è troppo facile e corto, la differenza può essere così piccola tra il vantaggio dei nazionali e il disavvantaggio dei forestieri, dimodoché questi abbiano un molto maggior utile, per l’esito già avviato e più vasto della manifattura, contro dei nazio­nali che non ne hanno punto, o almeno molto più lento e stentato. Che far dunque in simili circostanze, quando la materia prima, nata nel nostro suolo, fosse convertibile in manifatture per noi medesimi necessarie, o di comodo grandissimo, e voluto da tutti quelli che hanno un superfluo da spendere?

Tutti questi se ne provvederebbero dai forestieri, o perché manchi a noi, o perché migliore e più perfetta è l’opera, o perché a più buon mercato talvolta, e talvolta ancora perché la natura umana è prona a stimar le cose lontane ed ignote, sprezzando le vicine e conosciute. Noi dunque restituiremo al forastiero tutto il valore ch’egli pagò per la materia prima qui comperata, e di più sborseremo del nostro il valore della man d’opera forestiera.

Dunque doverassi cercare con ogni sforzo che non uscissero tali valori dallo stato. Perché non escano, in tali circostanze, non si deve e non si può far altro che proibire assolutamente l’uscita della materia prima, o dare tutto il vantaggio ai manifattori nazionali contro dei forestieri. Ora, proibendo assolutamente l’uscita della materia prima, meno s’incoraggirà una manifattura introdotta o languente coll’avvi­limento del prezzo della materia, di quello che un tale avvilimento alienerà la mano disanimata dell’oppresso agricoltore; o veramente sorgerà dall’avvilimento medesimo l’inestricabile contrabbando e l’ingoiatore monopolio, il quale, avendo facilissime le entrate, troverà i mezzi di rendere facilissime ed invisibili le uscite.

Dunque si darà il vantaggio ai manifattori nazionali sui forestieri, quando si allunghi per questi artifizialmente il trasporto al di fuori della materia prima, cioè si ponga un dazio all’uscita d’essa. Questo dazio deve esser pagato dai manifattori forestieri; la compera dunque della materia prima costerà di più a quelli di fuori, che ai manifattori interiori. Potranno dunque i venditori della materia prima vendere a buon mercato, e guadagnare di più, vendendo ai nazionali.

Per una contraria ragione, dovrassi dare ogni facilità all’introduzio­ne delle materie prime forestiere, le quali, lavorate nello stato, esco­no totalmente di nuovo, e ci rimborsano del valore prima uscito della materia prima comperata, e vi guadagniamo di più la man d’opera; o, se non ritornano ad uscire totalmente, ma parte si fermi nella nazio­ne, averemo sempre risparmiata la man d’opera forestiera.

Mi si dimanderà se non è possibile che l’introduzione delle mate­rie prime forestiere pregiudichi e disanimi la coltura delle medesime nel proprio paese, perché la concorrenza di quelle con queste facen­done abbassare il prezzo, il proprietario e l’agricoltore ne ricavassero una rendita troppo vile e insufficiente. A ciò facile è il rispondere, per chi riflette, che l’affluenza delle cose medesime ne scema il prezzo, ma ne aumenta lo spaccio; che le materie forestiere hanno contro loro medesime il valor del trasporto, e che perciò, ad egual grado di bontà, avranno sempre la preferenza le nazionali; e che, quando le forestiere sieno facilmente introdotte, o siano superiori in bontà alle nazionali, ne nascerà uno sforzo, ne’ produttori di queste, di perfezionarne la coltura, perché gareggino colle forestiere nella bontà, onde venderle al medesimo prezzo, ed anche a preferenza.

Dunque, un dazio all’uscita delle materie prime nazionali, e l’in­troduzione libera delle materie prime forastiere, sarà la massima rego­latrice. Ma questo dazio, primo, non deve essere che ai confini di uno stato, perché libera sia l’interna circolazione; secondo, deve essere cal­colato prima sulla differenza dei valori della materia prima venduta al di dentro e al di fuori. Quando la differenza, o sia l’eccesso del prez­zo forestiero sul prezzo nazionale sarà maggiore, ed il trasporto sarà più piccolo e più corto, tanto il dazio dovrà esser più forte. Per lo contrario, quando la differenza di questi prezzi, e più lungo e dispen­dioso sia il trasporto, tanto il dazio dovrà esser più piccolo, sino ad essere perfettamente inutile a quest’oggetto.

24. Cogli stessi ragionamenti noi troveremo l’altra massima fonda­mentale intorno alle manifatture, cioè d’aggravar l’introduzione delle manifatture estere, ed alleggerire o meglio lasciar libera del tutto l’e­strazione delle manifatture nazionali. Le medesime modificazioni, e i diversi punti di vista che abbiamo messo sotto la vostra considerazio­ne parlando delle materie prime, dovranno ammettersi parlando della man d’opera, onde sarebbe una magistrale scioperatezza il qui ripe­terle.

25. Prima di chiudere questo capitolo, gioverà qui aggiungere due riflessioni, quantunque già da noi qui accennate. L’una, che fin ad un certo segno l’altezza del valore dei generi contribuirà al progresso delle arti e manifatture, perché l’altezza del prezzo dei generi produ­ce in molti casi l’abbassamento degl’interessi del denaro; cioè quando quest’altezza di prezzo non nasca dalla mancanza e scarsezza delle der­rate medesime – sia mancanza reale, o apparente, o artifiziosa –, ma dalla libertà ed ampiezza dell’esito, sì al di dentro, che al di fuori.

Secondo: quando molti siano i proprietari delle terre producenti tali derrate, e non pochi; perché, se sono molti, l’altezza del prezzo dei generi produce una esuberanza di danaro in molte mani. Saranno dunque molti che cercheranno di prestar denaro; vi sarà dunque con­correnza tra i prestatori, e per conseguenza una gara di scemar l’an­nuo frutto dei capitali, per ottener ciascuno la preferenza sui concor­renti. Ma quando gli interessi del denaro sono bassi, molti potranno procurarsene l’imprestito, sia per intrapprendere una manifattura che col progresso dia loro i mezzi di fare dei risparmi, coi quali pagare l’annuo frutto e poscia restituire il capitale, e nello stesso tempo man­tenersi e moltiplicare l’annuo suo reddito. Il manifattore ed il com­merciante, quando possono avere un corso ed uno spaccio non impe­dito nei loro affari, calcolano in questa maniera: se posso far rientrare tre o quattro volte in un anno quel medesimo capitale di cui pago l’annuo frutto, e che quello mi renda tre, quattro o cinque degli annui frutti, uno dei quali io pago, posso senza rischio farmi prestar denaro.

Ora, tanto più sicuramente può farsi e si farà un tale ragionamento, quanto più basso sarà quell’annuo frutto del denaro. Dunque la bas­sezza degli interessi del denaro, e per conseguenza l’altezza del prez­zo dei generi, aumentano le arti e le manifatture, quando nasca dalle due condizioni sovraccennate.

Mi si obbietterà: ma l’altezza del prezzo dei generi incarisce la mano d’opera e fa crescere i salari degli operai; dunque s’incarisce la manifattura, dunque perderà una parte del suo smercio, quando ella sarà in concorrenza con simili manifatture, a minor prezzo, d’altri paesi. Rispondo perciò che dunque questa carezza di generi non può esser pregiudicievole, se non quando offenderà la preferenza del buon mercato delle nostre manifatture contro le forestiere; e, quando la dif­ferenza non fosse molta, non vi sarà molto da temere, allorché non sia pregiudicata la concorrenza nella bontà della manifattura, perché ella si sosterrà in proporzione che sarà maggiore la bontà e perfezione sulla manifattura forestiera, di quello che sia il prezzo della prima sulla seconda.

Se dunque non oltrepassa tai limiti, l’altezza dei generi, ancorché faccia alzare il salario degli operai non sarà dannosa, perché chi com­pera può comperare a più caro prezzo, chi vende non dee temere di perdere gli avventori. Allora solamente l’altezza di questi generi sarà dannosa, quando non sia successiva per gradi, ma per salti considera­bili dal basso all’alto valore; perché allora non crescendo in propor­zione i salari degli operai, questi si trovano realmente ed in un momento dimezzata la paga: la quale non consiste in una determina­ta e fissa quantità di danaro, se non in quanto questa quantità è atta a rappresentare i necessari giornalieri alimenti dell’artefice.

L’avidità reciproca degli uomini cerca di sottrarre per quanto è pos­sibile ciò che deve agli altri, né si ferma se non quando teme per ciò di venire a perdere quello che si deve a lei medesima, onde, in un salto d’un basso ad un alto valore, i padroni non daranno agli artefici un maggior soldo, se non quando temeranno di perderli e di non poterne altri sostituire alle antiche condizioni: di più, egli stesso, per una simile ragione, non potrà in un momento alzare il prezzo della propria manifattura. Vi sarà dunque in tali casi un’oscura guerra tra i compratori e i venditori, fra i maestri e gli operai, durante la quale può accadere la rovina di molte arti e l’emigrazione di molti artefici. Dunque si procuri l’altezza de’ generi sino a non pregiudicare alla concorrenza, e si procuri gradatamente; il che si otterrà meglio colla libertà, che dilata ed equilibra gli interessi degli uomini, che colla vio­lenza che li concentra e li fa sbilanciare con precipizio verso l’oppo­sto estremo, egualmente dannoso.

26. Ma di ciò si è detto anche troppo lungamente. L’ultima rifles­sione, sulla quale non posso cessare d’insistere, non certamente per­ché bisogno ve ne sia, in questa fortunata provincia dove non cessa­no i sovrani provvedimenti, ma per dissipare, per quanto m’è possibile, quel genio tenebroso ed oscuro che occultamente si sforza, colla derisione e col disprezzo, col pedanteggiare i vigorosi movi­menti della giovanile curiosità, d’opporsi alle clementissime mire del­l’Augusta Madre dei popoli.

Vede ognuno ch’io voglio parlare delle scienze, le quali hanno una troppo grande influenza sulle arti e manifatture, perché si debba ommettere ogni sforzo per ampliarle e facilitarne il progresso per ogni paese. Verissimo è quello che fu detto da alcuno, che dove si perfe­zionerà l’astronomia, ivi si può sperare che i panni saranno più per­fettamente lavorati. Chi considera i progressi della spezie umana, tro­verà che essi camminano con un certo parallelismo, onde e le più sublimi, e da noi lontane cognizioni, e le più umili ed a noi vicine, si attraggono vicendevolmente. Non è possibile che le medesime cagio­ni che eccitano curiosità in taluni, o interesse per una classe d’idee, e che gli danno agio e facilità di soddisfarlo, non operino colla medesi­ma forza su tali altri per diverse serie d’idee e di cognizioni, frattanto che la considerazione occupata da chi ha perfezionato un oggetto, non lascia luogo che a cercar nuovi oggetti per occupare simile con­siderazione.

Dunque la protezione alle scienze, la curiosità nudrita nella fervida gioventù, il premio accordato alla laboriosa virilità, togliere nelle scienze come nelle arti ogni privilegio esclusivo, per cui divengono tiranne ed usurpatrici, e per conseguenza indolenti nel perfezionarsi, ed attive nell’abbattere gli emoli e concorrenti, saranno mezzi indi­retti, ma non meno perciò efficaci, dei più diretti ed immediati, per il progresso delle arti e manifatture. Neutono, che ha scoperto il sistema dell’universo e l’attrazione equilibratrice delle cose; Locke, che, a traverso della nebbia dei termini, ha portato la fiaccola dell’a­nalisi nei più segreti nascondigli dell’intelletto umano: sotto le stesse leggi e fra li stessi costumi hanno vissuto di coloro che hanno perfe­zionato le volgari manifatture della lana, che hanno elevato il durissimo acciaio alla lucidezza ed allo splendore dell’oro, e piegato all’ele­ganza delle forme più leggiadre.

Tutta la natura ha sentito il dominio delle scienze, e le arti tutte sono state tocche dall’elettrica fiamma dell’invenzione, e col fermen­to e colla gara di tutti gl’interessi si sono ripulite d’ogni rozzezza ed imperfezione, delle quali il frettoloso bisogno le avea impastate. Non una circondotta giurisprudenza, non un misterioso e vano circolo di mediche e tradizionali formole, e non una sconnessa e fortuita con­gerie di fatti, né la curva e laboriosa imitazione degli antichi model­li, né la divota e pusillanime scelta delle parole, saranno mai le scienze miglioratrici delle condizioni degli uomini, e madri di vera ricchezza e potente prosperità nelle nazioni. Ma la scienza dell’uomo in tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma la ricerca attenta ed imparziale dei grandi fenomeni della natura, ma l’ardito congetturare, ma l’osti­nato tentare, ma il battere le strade sconosciute e solitarie che guida­no al vero, impervio al timido e cieco calcolatore delle pedate altrui, sono i soli mezzi onde si possano sperare progressi fra la moltitudine riunita; la quale non si perfeziona colla perfezione d’alcuni individui, ma coll’avvicinamento e coll’urto di molti errori, di molti tentativi, di molti interessi.

A che mai sarebbe ridotta una nazione, se le minute prescrizioni e i servili metodi di taluni volesse inesorabilmente seguire, mentre le altre, collo scorrere de’ secoli, si allontanano sempre più dall’errore infelice, e si avanzano verso il vero beato e sicuro, rischiarandosi alla luce serena ed equabile della filosofia? Questa si giacerebbe ancora prostrata ed involta nelle vecchie tenebre, e l’accumularsi dei secoli non sarebbe per lei che un uniforme tramandarsi dai padri nei figli lo scolo della barbarie, e il bulicame degli antichi errori.

Ma le arti e le manifatture, se dalle scienze prendono aumento e perfezione, dalle belle arti principalmente e dalle matematiche sono mirabilmente nudrite ed allevate. Queste l’esatto raziocinio, il fred­do paragone e i più lontani rapporti delle cose sensibili insegnano a discoprire; quelle formano il premio dell’uomo onesto, la delizia delle anime delicate, ed ingrandiscono la sfera, naturalmente limitata, dei nostri piaceri, non altro essendo che un artifizioso richiamo e con­densamento delle sensazioni più aggradevoli e le più interessanti, unito all’utilità di un fine che ciascuna bell’arte si propone; insegnano a coltivare la nostra imaginazione, la quale, se non ha l’alimento del bello e del vero, precipita nel tenebroso e nel fantastico, e se non è ricreata da spessi adombramenti della sospirata felicità, si rovescia fra le malinconiche e dubbie larve del fanatismo e della superstizione.

Dunque s’onorino le belle arti, senza eccezione; se ne premino i capi d’opera, si mantengano e si cerchino gli esemplari del buon gusto, e i principii suoi, principii inalterabili quanto l’umana natura, si stu­dino. Allora vedrassi, nelle arti e nelle manifatture, nelle stoffe e negli addobbi, nel seno dell’indolenza e fra la pompa insultante, non solo i trofei della disuguaglianza, ma l’impronta pacifica del bello, e forse ancora le seguaci virtù, se non se eroiche e strepitose, le benefiche e mansuete, le quali con una moderata voluttà spesse volte si accompa­gnano. Le scuole di disegno, le accademie di pittura, di scoltura, di architettura, i pubblici monumenti, i viaggi dei giovani studiosi, saran­no un oggetto di pubblica economia sempre interessante e sempre utile, e a noi insegneranno a rispettare la succinta modestia di colo­ro che, lontani dagli studi comuni e pecuniosi, soffrono i rimproveri e la derisione di quelli che, con imponente sopracciglio, alla conta­giosa aura popolare si fanno belli d’una scienza inutile e dannosa sovente alla nazione, quantunque utile talvolta ad alcuni particolari.

III. Della preferenza e distribuzione delle diverse arti e manifatture

27. Nella prima parte di questi Elementi noi abbiamo sufficiente­mente indicati i principii, come ancora nel primo capitolo di questa terza parte, onde subito scorgere a quali arti dobbiamo dare la prefe­renza: onde qui basterà di questa materia dare un breve cenno.

Abbiamo detto che le arti più vicine a rappresentar l’alimento sono quelle che devono essere preferite. Chiamo arti più vicine, quelle che soddisfano ai bisogni più inesorabili dopo quello: il vestito dunque grossolano, che copre le classi più laboriose, sarà l’arte che meriterà la preferenza, prima di introdurre le più raffinate. Qui non si tratta di escludere, il che sarebbe rovinoso, ma a quali debbano indirizzarsi prima d’ogni altra le pubbliche premure.

Per più ragioni saranno piuttosto quelle che queste. Perché, quan­tunque di minimo valore ciascuna in particolare, pure l’universalità e l’esigenza dell’uso formano una somma assai più considerabile, presa tutta insieme, di quello che la formino le manifatture più raffinate, le quali necessariamente esser non possono troppo numerose, almeno relativamente a quelle. I bisogni primari e secondari del popolo, più immediatamente e più facilmente soddisfatti, animano ben più l’agri­coltura di quello che le arti più remote e più straniere alla bassa e pro­miscua contrattazione.

Anche i più opulenti e lussureggianti proprietari sono costretti, nel­l’ampiezza e nel volume delle loro case e de’ loro arredi, di ammet­tere nella maggior quantità le umili e sode produzioni delle arti comuni ed universali, riserbandosi soltanto di conservare le eccelse e frivole delle arti le più fine per le lor persone e per gli usi loro imme­diati, ai quali si degnano di discendere. Quelle per lo più si formano dalle materie prime prodotte nello stato, o, se vi sono introdotte, almeno e la man d’opera, e i colori, e gli stromenti, e tutto il residuo apparato che ingombra una manifattura popolare, sono produzioni nazionali: quasi tutto ciò è forestiero nelle manifatture più complica­te e dispendiose, principalmente nei primi progressi delle medesime.

Ogni manifattura, in proporzione che è più complicata, che ado­pera un maggior numero di persone, che è più dispendiosa, un più piccolo volume di essa rappresenta una maggior massa di alimenti e di produzioni primarie destinate alla consumazione; queste, o per dir meglio l’equivalente, restituir si deve dal manifattore alla medesima, dopo ch’egli, collo spaccio della manifattura, n’averà attratto a sé una porzione considerabile.

Supponiamo dunque una nazione molto scarsa delle manifatture più usuali, e provveduta delle più fine; e fingiamo che tanto guadagni uno di questi manifattori, quanto molti dei primi. In tal caso il mani­fattore più fino non restituirà che in proporzione delle sue spese: ma le spese d’un solo che viva comodamente, sono sempre minori di quello che siano le spese di molti, presi tutt’insieme, ancorché cia­scheduno spenda un poco meno, in proporzione della vicinanza del­l’uno alla classe degli altri. Dunque la restituzione del guadagno, e la restituzione che se ne fa nelle classi subalterne, sarà sempre più tarda e meno egualmente distribuita, a misura che le manifatture hanno meno per oggetto i bisogni più universali e necessari, che quelli più particolari e superflui. Ma quando sieno abbastanza stabilite le mani­fatture di primo uso e di prima necessità, l’ascendere alle più raffina­te, oltre che la condizione delle cose medesime, vi ci conduce natu­ralmente: sarà sempre ottimo l’accelerarne i progressi, perché allora, soddisfatti coll’interno travaglio i bisogni popolareschi e d’ampia uni­versale esigenza, il guadagno delle arti raffinate sarà fatto sulle altre nazioni, e per conseguenza crescerà nello stato la massa delle ric­chezze, o sia delle cose utili e piacevoli, o almeno ciò che le rappre­senta e che le dà un diritto di acquistarle.

Ma la comune esigenza medesima non sarà la sola primaria norma onde scegliere le manifatture; bisognerà ancora aver riguardo alle materie prime, che il suolo è capace di produrre nelle date circostanze. Sarebbe per esempio un pazzo consiglio lo spatriare presso di noi l’accostumato lino, per alloggiare il forastiero cotone; così, quantun­que le lane sieno le materie prime che, dopo l’alimento, offrono i più comuni e men dispendiosi comodi della vita, e ci difendono nelle necessità le più indispensabili, io però non crederei perciò che si dovesse abbattere l’immensa popolazione dei nostri gelsi, e dissipare le 115.000 vacche che pascolano i nostri prati, e il grano alimentato­re diminuire, per coprire questa fertile provincia di pecore. Dunque in tali circostanze si permetteranno le pecore dove possono sussister­vi, e in moltissimi luoghi lo possono, senza dar loro una preferenza che alieni gli uomini dall’incominciato corso di proficue accostuma­te colture che naturalmente vi si stabiliranno. Bastano per incomin­ciare i più grossi lanifizi, in favor dei quali, lasciando libera o vera­mente premiando l’introduzione delle lane forastiere, potranno prendere in breve tempo un aumento considerabile, e riacquistare l’antica superiorità. Così non potranno tali arti animarsi e perfezio­narsi in pregiudizio delle arti della seta, il giornaliero di cui aumento chiaramente ci richiama a rivolgere ogni cura ed ogni attenzione verso una produzione e verso una manifattura assai più utile a noi per l’abbondanza che per la perfezione, dalla quale ancora siam lontani, per la folla di inestricabili pregiudizi nei quali siamo involti, pregiu­dizi che più allignano profondamente sempre mai nei facili e fecondi terreni, che nei magri ed ingrati, ove siede, maestra sollecita ed inquieta, l’inesorabile necessità.

28. S’è detto abbastanza intorno alla preferenza delle diverse arti. Ora sarà opportuno toccar qualche cosa del luogo migliore ove stabi­lirsi possono le manifatture; il che sarà detto in una parola, col dir che meglio è che siano nella campagna che nella città, e nei luoghi di campagna più vicini alle strade regie, solide e spedite, vicino ai fiumi ed ai laghi, dove le acque ed i trasporti rendono minori le spese di cui è aggravato il manifattore. Quelli, che la vanità trasportano dall’individuo alla nazione, restano abbagliati senza dubbio nel vedere, tra una immensa moltitudine di popolo, ammucchiata ed avvolta nel fumo d’una capitale, la folla ed il mormorio di numerose ed ampie mani­fatture, ed odierebbero il volerle allontanare nell’aperta e solitaria campagna. Ma io li prego di considerare a quanto maggiori inconvenienti siano soggette le manifatture cittadine, e condensate, ed a quanto minori le manifatture villareccie e sparse. Le derrate le più necessarie, il vitto ed il vestito, poi l’alloggio, e gli operai medesimi, costano molto più nella città che nella campagna, perché ivi costano di più, dove siavi maggiore consumazione per la derrata d’alimento, e questa essendo più cara, più cara rende ogni cosa necessaria a tutti quelli che concorrono ad una manifattura. Gli uomini esigono un salario maggiore non solamente perché più necessario, ma perché, quanto le città sono più grandi, i mezzi di vivere oziosamente si fanno più frequenti e più facili, ed ivi si forma una concorrenza tra il prezzo che l’inerzia divora, e il prezzo che il travaglio esibisce, onde la man d’opera diviene più cara e difficile.

Per lo contrario, alla campagna un salario anche più scarso è una fortuna per il contadino. Una manifattura o due, che intorno ad un villaggio ben coltivato si stabilisca, aumentano ordinariamente la popolazione; l’industria di quelli, il superfluo di essa trova un impie­go, e tutti veggono sotto gli occhi uno stato, al quale possono avvi­cinarsi raddoppiando l’attività delle lor braccia e l’esattezza della lor frugalità. Le manifatture hanno un esito che dipende da moltiplici e varianti circostanze; sono soggette a frequenti intervalli d’inazione; i lutti, che il cerimoniale ancor consagra in Europa, sospendono qual­che volta ed arenano un numero considerabile di manifatture, e le guerre ed altri avvenimenti producono il medesimo effetto. Se tali manifatture sono costipate nelle città, una immensa moltitudine d’o­perai resta senza pane e senza risorsa, a peso del pubblico, o a peso dei manifattori medesimi, i quali si rovinano col diminuire giornal­mente i propri capitali. Se sono alla campagna, gli operai non saran­no giammai tanto stranieri alla terra presente che li circonda, che non abbiano un compenso col lavorare interinalmente la terra medesima. Questi operai, essendo tolti dalle rustiche famiglie, conservano sem­pre qualche piccola porzione di terreno, che unitamente mettono in valore; colla sospensione della manifattura non cesseranno però d’ogni sorte di fatica e di produzione. Qual differenza immensa, per que­sto solo articolo, fra le manifatture della città e quelle della campagna! Una maggior consumazione, essendo più immediata e più vicina alla produzione, animerà di più l’agricoltura, e l’esempio d’un commer­cio più vivo renderà più attento l’agricoltore a mettere in valore le terre, onde risparmiare tanto che basti per incominciare un commer­cio ed avviarsi ad un cambiamento di fortuna.

Finalmente, i considerabili guadagni che le estese manifatture met­tono in istato di fare gli opulenti manifattori, quando siano vicini gli uni agli altri, eccitano un lusso ed una gara d’ostentare le proprie ric­chezze, il quale tende a poco a poco a rovinare le manifatture medesime. Il lusso dei proprietari delle terre è meno pericoloso, perché appoggiato ad una riproduzione limitata, costante e periodica. Si rovi­nano le famiglie, si diminuiscono le produzioni del suolo, ma la terra non fugge, e solamente passa d’una mano nell’altra. Ma il lusso dei manifattori e commercianti è, da una parte, fomentato dal momenta­neo accumulamento di grossi guadagni, ed ingrandito dall’aspetto di ampie somme che vanno e vengono continuamente. Dall’altra parte, i rischi, sempre in proporzione dei guadagni, sono maggiori, ed ogni diminuzione del capitale è un annientamento non solo della ricchez­za del manifattore, ma quasi sempre ancora della ricchezza d’uno sta­to: perché s’interrompono e si diminuiscono le operazioni tutte, che interrompono la manifattura medesima, senza speranza che sieno so­stituite; perché le spese della dissipazione non ricadano nelle mani dei primi manifattori, ma si disperdano in vantaggio dei piccoli commer­cianti: il che può tornare in utile dello stato, per questa parte, ma in maggior danno per l’altra, annientando una sorgente di travaglio pro­duttivo. Finalmente le manifatture del medesimo genere, se troppo vicine le une alle altre in una città, non tanto contribuiscono all’abbassamento del prezzo per la gara reciproca di vendere, quanto sono gl’inconvenienti sopra indicati; e può talvolta avvenire che si sforzino ciascuna di accordarsi insieme per erigersi in corpo privativo, danno­so alla nazione egualmente che alla perfezione della manifattura.

29. In ultimo vi sono delle arti, delle quali la prosperità è dannosa al molto maggior numero di esse, ed a tutta la catena degli affari e delle azioni economiche dello stato. Siavi, per esempio, in una nazio­ne abbondanza di filugello (materia prima cresciuta nel paese che for­nisce buone, solide e poco dispendiose manifatture per il piccolo lusso del popolo), e nella medesima siavi fabbrica privativa di tele di coto­ne dipinte, nella quale e la materia prima e i colori, e tutto, sia straniero, fuorché la sola man d’opera; chiara cosa è che questa mani­fattura potendo per la privativa prevalere sulla nazionale dei filugelli, ne avvilirà la produzione, e vi sarà una produzione meno estesa e meno proficua per un gran numero di artigiani, un minor vantaggio per gli agricoltori e proprietari delle terre, un’uscita di denaro dalla nazione: uscita che però potrebb’essere ricompensata con una mag­giore entrata per lo spaccio al di fuori della manifattura, ma che però non ristorerebbe la perdita dei maggiori vantaggi che nascerebbero dall’impiego d’una materia prima cresciuta nel paese, che parimente potrebbe sortire. È qui da avvertire che è sempre maggiore la con­correnza tra le manifatture di materie prime nazionali della concor­renza tra le manifatture di materie prime forestiere, a pari esigenza ed abilità a soddisfare ai bisogni a cui tali arti sono destinate. Le relazio­ni sono più vicine, le corrispondenze più facili, le condizioni dei con­tratti meno rigorose e più indulgenti. L’uomo è più eccitato dalle cose presenti, che dalle lontane; dunque la concorrenza tra le manifatture di filugello sarebbe sempre maggiore della concorrenza tra le mani­fatture di cotone, e per conseguenza lo spaccio sarebbe anche perciò sempre più considerabile.

30. Altro esempio di queste due prosperità, contrarie l’une alle altre, di diverse arti e professioni, si è questo: dove i trasporti sono dif­ficili, un gran numero di persone vive su tali trasporti; dove non siano regolamenti che rendano facilissimo e di pochissimo valore il viaggiare, ivi crescerà, in proporzione delle necessità ed esigenza di tali viag­gi e trasporti (esigenza che può divenir frequente in un paese agrico­lo e manifattore, nonnostante tali difficoltà), la prosperità e i profitti dei trasportatori, e vetturali e simili. Ora, una grandissima facilità e bontà delle strade, le diligenze, i procacci, i canali, ed altre istituzioni che rendano a buon mercato qualunque trasporto, farebbero danno e torto ad una quantità di persone che un tal mestiere esercitano, ma nel medesimo tempo renderebbero più animato il commercio dei generi e delle materie prime, più numerose e più frequentate le arti tutte, e questo accrescimento essendo d’immensa quantità, più utile alla maggior parte, di quello che sia il danno recato a questi traspor­tatori: danno più passaggero che durevole, perché prestissimo cresce­rebbero le occasioni dei trasporti meno lucrosi, ma più frequenti; dunque doverassi poco curare la ricchezza d’una tal professione, in confronto del danno che questa ricchezza apporta a tutta la mole degli affari economici della nazione.

IV. Della disciplina con cui le arti devono esser tenute

31. Le cose dette negli antecedenti capitoli ci renderanno assai spediti in questo. Tre sono le qualità, dicono gli scrittori di economia, che si ricercano in ogni arte e in ogni manifattura: bontà e varietà e buon mercato. Chiamasi buona una manifattura: primo, quando otti­mamente soddisfaccia all’uso per cui è destinata; secondo, quando sia durevole, sia nel tutto, sia in ciascuna delle sue parti; terzo, quando sia fina, cioè quando non vi sia impiegata più materia di quella che fac­cia d’uopo all’uso presente dell’arte medesima.

La varietà poi è richiesta tanto, quanto sono vari i capricci, i gusti e le maniere di sentire degli uomini, i quali, se si rassomigliano mol­tissimo nelle primarie operazioni della loro facoltà, divengono poi dif­ferentissimi nelle più complicate, quali sono appunto le arti e mani­fatture delle nazioni colte e raffinate. Questa varietà è tanto più necessaria, quanto ella si scorge non solamente nei diversi uomini, ma ancora nello stesso individuo, il quale, a misura che è disocupato, si stanca dell’uniformità, e dimanda mutazione e novità. Quindi il capriccioso predominio della moda sulle anime frivole e oziose, le quali, mancando di grandi oggetti e di ample occupazioni che assorbiscan la maggior parte della loro sensibilità, questa rivolgono ad osservar continuamente esse e gli altri, e le cose che loro stanno d’attorno, onde ne nasce una continua inquietudine e gara, negli uni di distinguersi, e negli altri di tosto assomigliar coloro che si distinguo­no, ed un continuo entrare ed uscire, sempre però nel breve giro delle medesime cose, appresso a poco, perché il peso dell’abitudine vinci­trice, e l’autorità de’ costumi generali, non permettono cangiamenti subitanei del tutto e delle parti più essenziali, ma solo delle piccole ed accessorie. Dunque quanto più le arti soddisferanno ad un maggior numero di queste capricciose esigenze, tanto maggior esito avranno, e tanto maggior profitto recheranno a chi le professa; dunque ogni arte che involve colori, forme, disegni, dovrà aver sempre un ampio corredo ed una moltiplice raccolta di tutte le varietà di cui sono suscettibili gli oggetti da quella fabbricati, incominciando dalle nude e semplici forme che rigidamente servono all’uso soltanto, estenden­dosi poi molto nelle temperate combinazioni del bello, non esclu­dendo totalmente il minuto e l’esaggerato del capriccioso e bizzarro: il che se ne avverrà con iscandalo dei conoscitori e dei buongustai, ritornerà però in profitto ed in progresso delle arti: le quali prevaleranno in quelle nazioni che prima delle altre si sono rese arbitre delle forme, e con dispotica incostanza le hanno più delle altre sapute variare, perché non altro resta a queste che la tarda imitazione, e quel­le hanno in favor loro la prevenzione del primato, tanto più forte, quanto il soggetto è più indeterminato e fantastico.

Della terza buona qualità d’ogni manifattura, cioè del buon merca­to, non occorre qui parlarne, essendo cosa manifesta per se medesi­ma, e già più volte toccata ne’ passati paragrafi, come prodotta dalla concorrenza e dalla libertà.

32. Dunque ogni buona disciplina delle buone arti deve avere per iscopo di procurare queste tre qualità, bontà, varietà e buon mercato; accioché la bontà conservi ed aumenti il credito dei manifattori, la varietà alletti ed inviti ogni genere di persone, ed il buon mercato fac­cia risolvere e moltiplicare gli avventori, sì nazionali che forestieri. Ora, la pubblica economia non ha per oggetto che il tale manifatto­re, piuttosto che il tale altro, abbiano riunite ne’ loro prodotti le sud­dette tre buone qualità, ma che queste dominino nella maggior parte, in maniera che siino atte a procurare un grande esito della nazionale manifattura; nella stessa maniera ch’essa non cerca la ricchezza d’uno piuttosto che d’un altro, purché la ricchezza sia molta e ben distri­buita. Ora, una sufficiente libertà da se medesima procurerà queste tre buone qualità delle manifatture, e sforzerà col mezzo sicurissimo dell’interesse, perché, dopo moltiplici sperienze, l’esito si fisserà pres­so quel manifattore che darà alle sue merci le tre suddette qualità nel maggior grado possibile, e sparirà affatto da quelle cui mancano. Onde, lasciata alle arti la forza espansiva della libertà ed il vigore che dà naturalmente all’animo la gara degl’interessi, si otterrà meglio l’in­tento che colla moltitudine de’ precetti, col rigore degli ordini, che rendono diffidenti ed alieni gli animi da una intrapresa per se stessa difficile ed avventurosa.

Dunque la disciplina delle arti non dev’esser coattiva e legislatrice, se non dove si prevegga che non mai, o troppo tardi, l’interesse pri­vato giungerà ad unirsi col pubblico, dove la scoperta delle frodi è lenta e remota, ed il guadagno che apportano è presente e conside­rabile. Verbi gratia, quando la perfezione della manifattura richiegga essenzialmente preparazioni complicate ed anticipazioni di spese, ivi senza dubbio è meglio che la cosa sia non fatta che mal fatta; ivi le leggi coattive, che impongano condizioni per le quali non si faccia tal cosa, se non in tal maniera, e pene proporzionate ai contravventori, sono senza dubbio necessarie ed utilissime, perché, col moltiplicarsi la concorrenza degl’individui alla medesima arte, non s’accumulino errori sopra errori ed inganni sopra inganni, onde il complesso del­l’arte intera cadrebbe in discredito, svanirebbe una parte delle forze produttive d’uno stato. Quindi in quelle arti nelle quali la frode può celarsi per un tempo considerabile, e produrre un gran vantaggio al manifattore – come nelle stoffe dove entrano colori, nei metalli, nelle preparazioni delle pelli, o in altro, nelle quali o il lung’uso, o la consumazione, o la chimica soltanto possono svelarne i difetti, per cui la buona e la cattiva opera all’occhio e presto non si conoscono –, sono salutari quelle leggi che prescrivono e la dose degl’ingredienti, e i tempi e i luoghi migliori dell’artifizio, ed eseguito, lo assoggettano all’esame ed al riconoscimento; della bontà del quale se ne dà più pubblica ed autentica testimonianza col bollare a segni riconosciuti e riservati ogni produzione che debba esser messa in vendita, sia dentro, sia fuori dello stato. Né questa precauzione sarà mai riputata una violenza ed un legame fastidioso per la libertà delle arti, perché non è giusto che i buoni soffrano dai cattivi, né la maggiore dalla minor parte, cioè la nazione dai particolari; né i buoni manifattori giammai se ne querelano, né perciò si distolgono dalle meditate intraprese per una tal soggezione, se non quando si volessero troppo pedanteggiare, o si molestassero con inutili formalità, o di questi bolli se ne facesse un articolo troppo oneroso di finanza, o un laccio per fare inciampa­re in pene pecuniarie i poco avveduti; il che è troppo lontano dalla moderazione dei tempi presenti, perché ciò accada. Io però (quando le circostanze dell’esazione del tributo non richieggano altre viste) non so se sia necessario assoggettare coattivamente le manifatture di tal genere di defraudazione facile, in vece di lasciar la libertà a tutti d’assoggettarvisi, mediante una pubblica e severa dichiarazione, che quelle merci che averanno il bollo – ch’esser dovria gratuito più che fosse possibile – avranno la pubblica fede ed autorità garante della bontà e fedeltà con cui sono eseguite; le non bollate restino al rischio ed all’esame e fiducia di ciascheduno, colla diffidenza che possono ri­svegliare, mancando di questo solenne testimonio, e col timore d’una pena considerabile che si dovrebbe infliggere scoprendosi la frode.

Parmi che un tal mezzo sarebbe più conforme a quello spirito di libertà con cui le arti vogliono esser trattenute, né meno efficace del metodo universale e perquisitorio, perché sufficiente sarebbe a con­servare la buona fede dell’esterno commercio; e tutti i buoni ed utili manifattori vi si sottometterebbero tanto più volentieri, quanto que­sta sommessione darebbe loro un vantaggio ed una preferenza sopra i renitenti.

33. Vi sono alcune arti, le quali, per la preziosità della materia, la quale rappresenta in piccol volume un gran valore, e perciò la fortu­na intera di molti, ricercano una più stretta disciplina. Tali sono, per esempio l’oro, l’argento e le gemme. Queste arti pare che esigano, a differenza di tutte le altre, d’essere riunite in un corpo solidale, il quale, osservando più da vicino e più strettamente tutti i suoi mem­bri, risponda al pubblico colla massa di se medesimo. Da queste viste nasce ancora l’uso universale, che dette arti non sono sparse per le città, ma riunite in un luogo solo, onde si difendano e si diano reci­procamente soggezione. In queste, come ancora nelle arti dove siavi complicazione d’ingredienti e facile frode, si può ammettere l’uso che domanda esami e prove di chi vuole impiegarsi ad una tale arte, e tant’anni di servizio e di esercizio presso un maestro già riconosciuto ed approvato. Le cose anzidette dimostrano l’utilità e sovente la necessità di tali mezzi; ma io non veggo a qual fine tendano, se non ad avvilire e ad inceppare l’industria, simili prescrizioni e riserve in tutto il resto delle arti per le quali non militano le medesime ragioni. Chiara cosa è che un falegname ed un calzolaio, ed un sarto ed un fabbro ferraio possono essere in solo loro danno (quando per altra parte sia indennizzato il particolare) cattivi artefici ed ignoranti; né per essi doversi esigere esami, né da loro esibirsi i così detti campioni e capi d’opera di professione.

Dobbiamo perciò concludere col non mai abbastanza ripetuto assioma, che la disciplina coattiva e le pene hanno per sola regola la necessità, che le leggi animatrici ed i premi sono i soli mezzi che dimanda la perfezione; e che, tra questi due moventi estremi dell’uo­mo, tutto il resto è meglio combinato dalla libertà e dalla concatena­zione ed urto degl’interessi lasciati a loro medesimi ed ai loro natura­li andamenti, per cui tendono ad equilibrarsi ed a riunirsi.

Parte quarta.
DEL COMMERCIO

Eccoci arrivati alla parte la più interessante dopo l’agricoltura, e la più estesa di tutti questi Elementi, vale a dire al commercio preso in tutta la sua estensione, cioè nelle origini e conseguenze che ne deri­vano, e nei mezzi che lo accrescono o lo diminuiscono; delle quali cose dando noi i principii, li daremo colla maggior brevità e nello stesso tempo nella maggior ampiezza possibile; qualità benissimo combinabili da chi non cerca d’invilupparsi nella moltiplicità de’ det­tagli storici, e, sfuggendo la pompa d’una posticcia erudizione, cerca di formarsi una solida e ben digerita serie di adequati principii degli oggetti intorno ai quali medita e si affatica.

E per seguire la legge sinora da noi fedelmente osservata, di richia­mar le cose alle origini, noi comincieremo subito dal mostrare come da tenuissimi principii il commercio sia andato avanzandosi a tanta mole ed a tanta complicazione di affari; onde, seguendone i di lui progressi, si vedrà nello stesso tempo la serie delle cose da trattarsi.

I differenti e successivi bisogni degli uomini hanno determinate e suggerite le diverse operazioni ch’essi doveano fare per soddisfarli; perché gli uomini ignoranti e selvaggi tutto al presente, pochissimo al futuro riguardando, di pochissime cose accontentandosi, ognuno da se stesso si procacciava e si adattava le cose sue. Così le arti e le produ­zioni de’ popoli cacciatori dovettero essere scarsissime. Un sasso sca­gliato, un rozzo bastone, quindi un legno più acuto e pungente, e poi un arco, erano i soli arnesi di quelli, e ognuno se li faceva, e procu­rava secondo il bisogno; le spoglie degli animali uccisi erano da cia­scheduno dalle proprie prede per uso di vesti torte ed avvolte d’intor­no: così del resto.

Le occupazioni e i mezzi dei popoli pastori fattesi più lunghe e più ragionate, e questi più numerosi, fecero crescere e la quantità dei biso­gni, e la copia delle arti onde appagarli. Dunque le arti e le produ­zioni dei popoli pastori furono in maggior numero e più complicate di quelle dei popoli cacciatori. Ma crebbero a dismisura e le une e le altre nei popoli agricoltori; così che, rendendosi sempre più facili e più certe le operazioni produttive delle cose utili e soddisfacenti i bisogni e i comodi della vita, e crescendo la vicendevole e varia avidità e ricer­ca delle medesime, nacque a poco a poco una abbondanza ed un superfluo di ciaschedun prodotto dagli uomini operato al di là dell’e­sigenza del bisogno particolare, che avea ciascuno indotto ad operare tal cosa piuttosto che tal altra; onde chi mancava di una cosa che trovavasi sovrabbondare ad un altro, dava di quella che si trovava avere di superfluo, essendoli quella dall’altro similmente richiesta; onde, visto per esperienza essere più facile il fare sempre la stessa cosa che il farne diverse, s’indusse ciascuno degli uomini a cercare di moltiplica­re la quantità di una sola produzione per averne, un dì, soverchio del bisogno, il quale poi potessero cambiare con altre cose, che loro biso­gnassero, da altri fatte e moltiplicate colle medesime viste. In questa maniera nacque il commercio, ed uno stato distinto e formante epoca nel genere umano, quale è quello dei popoli commercianti, dal quale solo noi dobbiamo riconoscere il raffinamento, la coltura e la perfe­zione presente della specie umana.

E come prima nessuna cosa era stimata, se non a misura ch’ella era utile a soddisfare le esigenze e i comodi della vita, dal che ne venne l’idea e la parola di valore, cioè avere forza, abitudine, abilità ad adem­pire ad un fine; così, in questo ultimo stato di cose, le cose cominciaronsi a stimare secondo che divenivano atte a procacciarne delle altre. Onde il valore assoluto divenne in seguito relativo e venale, e significò la podestà che avea ciascuna cosa di essere cangiata con tutte le altre; e la quantità, che di ciascuna cosa si dovea dare per un’altra, determinò e si chiamò il prezzo di questa. Dunque primo oggetto di questa parte sarà la teoria del valore e del prezzo delle cose. Ora avvenne che, per alcune cagioni universali ed indispensabili, alcune merci per la frequenza, generalità e facilità ad essere contrattate, diven­nero la misura comune e il modello di paragone al quale si rapporta­vano e si misuravano i valori di tutte le altre cose. Questa misura comune fu chiamata moneta; quindi secondo oggetto sarà la teoria e i regolamenti della moneta.

Reso più fitto e più spedito il commercio delle varie produzioni, molti si diedero a fare ed a vendere le medesime cose, molti a comprarle; quindi la concorrenza, terzo oggetto. Frattanto che queste stesse cose, e sopra tutto la misura comune, o sia la merce, d’univer­sale paragone del valore di tutte le altre merci, andò successivamente passando d’una mano nell’altra, il qual complicato fenomeno chiamossi circolazione: l’esame della natura e conseguenze della quale forma il quarto oggetto. Si distinsero le nazioni, e si fermarono frat­tanto in diverse e disparate situazioni, e sotto costituzioni, leggi e forme di governo differenti si riposarono, facendo corpi separati e distinti. Quando ciascuna di queste nazioni acquistava un maggior numero di ricchezze di quello che fornisse ad altre nazioni per un reciproco commercio, si disse che faceva un commercio attivo; quan­do ne dava una maggior quantità di quella che ne riceveva, si disse che facesse un commercio passivo, che or cresce, or diminuisce a vicenda per varie cagioni; e questa maniera di considerare il com­mercio chiamasi bilancio del commercio, quinto oggetto. Da tutte queste complicate combinazioni nacque la disuguaglianza nelle ricchezze e le diverse maniere di spenderle; onde il lusso, sesto oggetto. Questo lusso, questa circolazione, questo bilancio del com­mercio, ed il commercio medesimo, sono trattenuti e diretti principal­mente dalla quantità del denaro. Ora, questo denaro può avere varie destinazioni, e in primo luogo molti possono esser bisognosi di questo segno rappresentatore di tutte le merci, e pegno e sicurezza di ottenere una determinata quantità di cose necessarie o desiderate; molti possono trovarsi nella situazione di prestarne a chi ne richiedes­se, a certe condizioni però utili al prestatore, ricompensanti il danno che egli soffre privandosi per un tempo determinato di tali valori; dun­que settimo oggetto sarà degli imprestiti e degli interessi del denaro.

In secondo luogo, rendendosi sempre più larga ed estesa l’attività delle nazioni commercianti, diversi individui di quelle si trovano a gran­di distanze a vicenda debitori e creditori, ed averebbero di mestieri di trasportar sempre con rischio e con dispendio considerabili valute a grandi intervalli, se non si fosse trovato il modo, con lettere di cambio, di cedersi e tramutarsi vicendevolmente debiti e crediti rispettivi, e di trasportare colle lettere di cambio i fondi senza trasportare il denaro; quindi la teoria e natura del cambio, ottavo oggetto da considerarsi.

In terzo luogo, spessissimo il solo motivo della sicurezza e della faci­lità e celerità delle contrattazioni ha indotto chi presiede alla pubblica felicità ad aprire dei pubblici depositi, sotto la tutela della suprema autorità, dove potesse ciascuno mettere il proprio denaro con sicurez­za ricevendone un biglietto di credito, il quale poi circolava nella con­trattazione colla medesima forza che aver potesse il denaro che esso rappresentava; talvolta i pubblici bisogni esigevano che si prendessero dai privati denari ad imprestito col pagarne un annuo frutto, al quale danaro dai particolari ricavato si sostituivano parimente autentici biglietti che entrano in circolazione; quindi nono oggetto sarà dei banchi, dei monti pubblici, loro vantaggi ed inconvenienti, e leggi di quelli. Da questi tre ultimi oggetti, che ingrandiscono e stringono le relazioni delle nazioni le une colle altre, ne nasce il credito pubblico, cioè la confidenza che hanno reciprocamente i diversi corpi dei nego­zianti di differenti nazioni gli uni verso degli altri, il che come nasca, cresca, si mantenga e si diminuisca forma il decimo oggetto di questa parte. Questi oggetti formeranno la materia di altrettanti capitoli, ai quali aggiungeremo un undicesimo, che tratterà di alcuni punti di disciplina commerciante: se convenga escludere per esempio alcuni ceti dal commercio; se sian giammai utili le compagnie esclusive di commercio; qualche cosa intorno alla navigazione, più per l’integrità della materia che per bisogno che ne abbi la nazione milanese, tutta mediterranea e limitata alla piccola e breve navigazione dei laghi e dei fiumi, esclusa dalla grande ed autorevole del mare. Finalmente sarà ter­minata tutta la materia dal così detto commercio d’economia e dalla differenza delle leggi e principii di questo col commercio di derrate e manifatture, non ommettendo qualche cenno intorno a quel commercio che i negozianti chiamano commercio di speculazione, pro­creatore di così rapide ricchezze e così pronti fallimenti: le leggi de’ quali, per prevenirli e frenarli, chiuderanno questa quarta parte.

I. Del valore e del prezzo delle cose

1. Le cose tutte, considerate per se stesse, chiamansi valore, più o meno secondo che sono più o meno stimate; e più si stimano, primo, a misura che più contribuiscono a soddisfare ai bisogni, a crescere le comodità, a nutrire le delizie della vita; in secondo luogo, a pari attitudine a soddisfare a tali esigenze e a tali fini, a misura che sono più rare e più difficili a trovarsi. Le cose comuni e che si trovano dapper­tutto, quantunque essenziali, come l’aria e quasi sempre l’acqua, non hanno alcun valore; nella medesima maniera le cose di nessun uso, comodo o piacere, quantunque rarissime, non sono punto stimate, e sono di niun valore. Ma questa utilità e questa rarità delle cose non è sempre assoluta ed universale, ma spessissimo varia e relativa. Molte cose cessano affatto d’esser utili, perché si è trovata la maniera di sosti­tuirne delle altre e più facili e più utili; il valore adunque delle prime cessa e diminuisce, di molte invece si aumenta, perché si sono scoperti nuovi usi e nuove utilità delle cose medesime; di più, moltis­sime sono rare in un paese ed abbondano in un altro, e senza allon­tanarsi dai medesimi luoghi tali individui ne hanno copia, e tali scarseggiano.

2. Da qui ne nacquero i diversi baratti che gli uomini fecero di varie con varie cose, ed il valore venale di ciascheduna di queste, cioè la maggior o minore attitudine che abbiano ad esser cambiate colle altre. Vi siano due merci sole, e due soli individui, che l’uno abbia vino, e l’altro frumento; se si levi la quantità di frumento che uno abbia necessità per se stesso, e la quantità di vino che l’altro vuol rite­nere per sé, tutto il resto del frumento dell’uno varrà tutto il resto del vino dell’altro, quando amendue siano indifferenti a spogliarsi dei loro resti rispettivi di vino e di frumento per cambiarseli reciprocamente, e di maniera che tutto il frumento varrà la metà di tutto il vino; il terzo di tutto quello il terzo di tutto questo, così parimenti di tutte le parti e frazioni delle due merci, ancorché il frumento fosse doppio, triplo, quadruplo del vino. Così se l’avanzo del fromento dell’uno stasse in dodici vasi, e se l’avanzo del vino dell’altro stasse solamente in sei vasi eguali, i dodici del frumento valerebbero i sei del vino; sei del primo, tre del secondo; quattro di quello, due di questo. Ma il valore d’una cosa è l’attitudine a cambiarsi con un’altra: dunque quel valore sarà maggiore che otterrà una maggiore quantità della cosa che si prende in cambio; sarà minore quello che ne otterrà una minore. Dunque quanto meno daremo d’una merce per tanto più riceverne d’un’altra, altrettanto dirassi quella avere maggior valore di questa. Dunque in questo caso il vino averà maggior valore del formento, e il valore del vino sarà al valore del fromento 12 : 6, o sia 2 : 1; onde, se è lecito di geometricamente esprimersi in queste uniche circon­stanze, il valore di una cosa all’altra sarà in ragione reciproca delle loro quantità assolute.

Ma supponiamo che colui il quale possiede il frumento abbia meno bisogno di vino, di quello che il posseditore del vino abbia necessità di fromento; in tal caso il posseditore di frumento vorrà dare una minor quantità di fromento, o per l’istessa quantità di fromento dimanderà più vino di quello che dimanderebbe, se le esigenze e le richieste fossero dall’una e dall’altra parte eguali e corrispondenti. Nel nostro caso, il frumento, più richiesto del vino, averà per questo riguardo un maggior valore, onde, se vi siano dodici vasi di frumento e sei di vino, senza una tale disparità di bisogno, due vasi di fromento vagliono solamente un vaso di vino; nel caso dell’accennata disparità, due vasi di fromento varranno qualche cosa più che un vaso di vino, o meno di due vasi di fromento varrà un vaso di vino; dunque il valo­re del frumento sul valore del vino crescerà o scemerà in proporzione diretta delle richieste rispettive di ciascuna cosa. Tra due persone sole contrattanti non è possibile calcolare la quantità a cui la disugua­le ricerca farà salire il prezzo d’una cosa, e discendere il prezzo del­l’altra; ognuno cerca di dare meno che può, e di ricevere più che sia possibile. Ma supponiamo che le dodici misure di fromento sieno divise fra due persone, una delle quali ne abbia sette, e l’altra cinque; egli è certo che a bisogni ed a richieste eguali e contemporanee, due di fromento ne compreranno una di vino, come nel caso anteceden­te; ma se i bisogni e le richieste sieno disuguali, cosicché il possedito­re delle sette di frumento abbia più bisogno di vino che il possedito­re delle cinque, egli è evidente che potrà dare una maggior quantità di fromento per lo stesso vino che l’altro potrebbe avere, o veramen­te per la stessa quantità di fromento ricevere minor quantità di vino; per conseguenza il valore del fromento diminuirà: onde generalmen­te il valore d’una cosa diminuisce col crescersi il numero dei vendi­tori. Figuriamoci ora, come nel primo caso, un possessore di dodici misure di frumento, ed un altro di sei di vino, indi un terzo che abbia parimenti nove altre misure di vino; il solo che ha le dodici di fru­mento non potrà ottenere che una misura di vino da chi ha solamen­te le sei, ed una e mezza da chi ha le nove, per le due ch’egli darebbe a ciascuno separatamente. Colui che ha le sei misure di vino doverà ciò non ostante darne 1 1/2 per due di fromento, costretto dall’altro, ugualmente bisognoso, che può fissare un tal prezzo al suo vino. Quindi vediamo crescere il valore del frumento crescendo i compra­tori: onde generalmente cresce il valore d’una cosa col crescersi i compratori della medesima. Ma se il possessore del frumento averà bisogno di vino, egli sarà costretto a rimettere alquanto della sua pre­tensione, e si accontenterà di 1 1/4 che ciascuno dei due doverà dare per le due misure di fromento; perché quegli, che non ha che sei misu­re di vino, doverà crescere sempre un poco l’esibizione; quegli che ha le nove doverà sempre diminuirla: e questo moto contrario dovrà finire finché s’incontrino al medesimo prezzo; il che non può avvenire se non allora che il prezzo del primo da 1 sarà asceso ad 1 1/4, e il prez­zo del secondo disceso da 1 1/2 ad 1 1/4. Questo valore di 1 1/4 chiama­si medio valore, o sia, insubricamente, adequato, perché infatti ad una eguale distanza è da 1 e da 1 1/2; il quale medio valore è quello che si considera dagli economi come il punto fisso intorno a cui si possono calcolare i guadagni e le perdite.

Ma questo valore delle cose sarà ancora alterato da altre considera­zioni, se il possessore del frumento sarà distante dal possessore del vino, o quegli lo porterà da questi o questi da quello. Il trasporto è un travaglio che ha il suo valore; chi trasporta, vuol essere reintegrato della propria fatica; in caso di eguali bisogni ed esigenze, i trasporti si compenseranno o si divideranno; ma in caso di bisogni disuguali, cioè quando uno cerchi più di comprare di quello che uno di vendere, il trasporto sarà pagato dal compratore; o quando l’uno cerchi più di vendere, che l’altro di comperare, il trasporto sarà pagato dal vendi­tore. Ma qui giova riflettere che i termini di venditore e di compra­tore sono perfettamente reciproci e correlativi. Per dare una più pre­cisa definizione del venditore o del compratore, non supposta ancora la moneta, non essendo ambidue che cambiatori di cose con cose, diremo quello de’ cambiatori essere il compratore che ha bisogno e che dimanda, ed il cambiator venditore esser quello che dà il super­fluo, e concede e rilascia: onde il trasporto è sempre pagato da chi ha il bisogno, e la differenza dei trasporti dev’essere combinata colla dif­ferenza de’ bisogni; onde a misura di queste differenze si darà dai ven­ditori e compratori di fromento e di vino più o meno di queste der­rate, in ragione composta delle diverse esigenze e delle differenti distanze fatte per il trasporto delle derrate.

3. Andiamo più oltre. Supponiamo ora che oltre colui che ha le dodeci misure di fromento e colui che ha le sei di vino, siavi un terzo che possegga quattro pelli ed abbia bisogno di vino e di fromento, come gli altri due desiderano aver delle pelli, oltre il bisogno che hanno uno di vino e l’altro di fromento. Supponiamo che questi due abbiano già contrattato tra di loro due misure di fromento per una di vino; il padrone delle pelli darà una pelle per tre misure di fromento: ora per tre misure di formento potrebbe avere una misura e mezza di vino; dunque darà una pelle per una misura e mezza di vino, dunque il fro­mento potrebb’essere considerato come misura comune delle pelli e del vino. Così di mano in mano aggiungendosi altre merci, ciascuna delle quali può essere cambiata con frumento, ed il frumento con tutte, potremo rapportare i valori di ciascuna merce alla quantità di fromento che per ciascuna si ottiene; onde sarà detto tale merce vale­re tanto fromento, tali altre tanto di più o di meno.

Ora supponiamo che vi sia un altro padrone di quattro pelli, ma che queste pelli siano state da lui preparate ed acconce in modo che ser­vano più all’uso cui sono destinate, e siano rese più belle, più pieghe­voli, più lisce; egli è certo che se il primo non darà le sue pelli greg­ge, ed ancora rozze e non preparate, che per tre misure di fromento per ciascuna, il secondo dimanderà delle sue qualche cosa di più: quei medesimi che cercheranno le pelli saranno pronti a dargliene. Se tutti fossero inabili a far ciò che ha fatto il conciatore delle pelli, questi potrebbe dar la legge a tutti gli altri, ed esiger sempre di più per le sue pelli finite, finch’egli prevedesse che gli altri non cesserebbero d’offe­rire; ma se altri possono fare e hanno già fatto questo lavoro, questi daranno il meno che potranno: quello dimanderà il più che gli sarà possibile, ma il limite intorno a cui si fermeranno sarà valutando il tempo che ha dovuto impiegare il padrone delle pelli per la sua fattu­ra; colla quale valutazione costui si contenterà di ricevere, e quegli di dare in frumento l’accresciuto valore delle pelli. Supponiamo che ad acconciare ciascuna di queste pelli egli abbia durato il tempo necessa­rio a consumare per proprio alimento una misura di fromento, o che facendo altra fattura avrebbe potuto procacciarsela; i chieditori delle pelli saranno pronti a valutare ciascuna di queste pelli preparate una misura più delle tre di fromento, prezzo delle quattro prime ancor gregge; il lavoratore poi delle pelli, sapendo esser questo il termine o limite a cui gli altri lavoratori possono darle, per timore di perdere il suo guadagno, o per dir meglio il valore della sua fatica, le cederà a questo prezzo. Adunque le pelli conce varranno ciascheduna quattro misure di fromento, o, in questa supposizione, due misure di vino, mentre le gregge non varranno ciascuna che tre di fromento e una e mezza di vino. Dunque il valore d’una cosa lavorata crescerà in pro­porzione del tempo necessario a lavorarla: e se più persone sono nel medesimo tempo impiegate a questo lavoro, crescerà ancora in pro­porzione del numero delle persone che s’impiegano al detto trava­glio. E per riunire le dette proporzioni in una, basta dire che la misu­ra di questo valore di tempo e di persone sarà l’alimento che in detto tempo da tutte queste persone si consuma, come abbiamo nella prima parte spiegato.

E infatti, egli è naturale che ognuno stimi il suo travaglio per la sua durata, e che questa durata si valuti dalle cose che frattanto dai trava­gliatori si consumano. Tale è il linguaggio tenuto dagli artefici e bot­tegai; e può ognuno colla propria sperienza aver conosciuto che essi con formole di tal natura si scusano con chi si lamenta dell’alto prez­zo di qualche cosa. Se un altro più industrioso trova il mezzo di rad­doppiare il prodotto nel medesimo tempo, non perciò si contenterà di dimandare il semplice prezzo della sua opera, che, quantunque doppia perché fatta nel medesimo tempo della prima, non sarebbe misurata che dall’alimento di tutto quel tempo; ma, avendo assuefatti i com­pratori a prendere i suoi lavori per un tal prezzo, dimanderà il mede­simo prezzo per il medesimo lavoro, quantunque fatto nella metà meno di tempo. Lo stesso avverrà s’egli trova la maniera di risparmia­re il numero delle persone; e questo valore è propriamente quello che chiamasi guadagno; e il minore o maggior guadagno, che si fa su ciaschedun contratto, determina il buon mercato o il caro prezzo delle merci rispetto alle lor simili. Finché uno non ha emoli o cooperatori a far le medesime opere, egli dà la legge ai compratori, e terrà il prez­zo sempre alto, fino al limite in cui teme che si ributtino dal compe­rare. Quando vi siano concorrenti, la legge sarà fissata da chi può dar il lavoro al minor prezzo, ed il limite di questo minimo prezzo sarà il valore della man d’opera, cioè gli alimenti che nel minore spazio di tempo, dal minor numero possibile di persone, facienti li suddetti ed altrettanti lavori, si consumano.

4. Suolsi comunemente distinguere il valore estrinseco ed il valo­re intrinseco. Questa maniera di scrivere dà luogo a molti equivoci, per togliere i quali si rifletta che gli uomini non si servono di questa distinzione che per le cose da essi lavorate, e danno il nome di valo­re intrinseco al valore della materia prima di cui l’opera è composta, e di valore estrinseco al valore dell’opera medesima. Ma questa distin­zione è più apparente che reale, perché anche il valore della man d’o­pera è determinato dalle stesse considerazioni che determinano il valore della materia prima. La quantità del travaglio d’una cosa para­gonata alla quantità di travaglio di un’altra, sta essa pure in ragione reciproca delle quantità loro assolute. Il numero de’ venditori, quello dei compratori, le maggiori o minori richieste, la spesa dei trasporti influiscono egualmente sul valore del travaglio che sul valore della materia prima, e tanto l’una come l’altra sono rappresentate dalla stes­sa e comune quantità di cose che successivamente servono alla consumazione.

II. Della moneta

5. Negli ultimi paragrafi dell’antecedente capitolo abbiamo visto come tra li quattro contrattanti fromento, vino, pelli rozze, pelli conce, siasi potuto stabilire un rapporto ed una misura comune di tutte queste diverse e disparate merci per mezzo del frumento, il quale è entrato successivamente in contrattazione con tutte, onde ciascuna ha potuto barattarsi col frumento, e per conseguenza barattarsi anche fra di loro. Quella merce adunque la quale, per le circostanze de’ com­merci, degli usi e dei bisogni delle nazioni, acquista la qualità d’esser cambiata successivamente con tutte le cose, così che le diverse quan­tità di essa con ciascuna cosa cambiate servono di misura comune a giudicare del valore del tutto, chiamasi moneta. Da questa definizione sola si veggono discendere le due proprietà sovrane della moneta, cioè l’una d’essere un segno rappresentatore di una certa determinata quantità di ciascuna cosa (due misure di frumento nella supposizio­ne del fine dell’antecedente capitolo rappresentano una misura di vino, 2/3 di pelle non concia e 1 1/2 pelle conce); l’altra d’essere un pegno ed una sicurezza di ottenere tutte queste determinate quantità di cose, perché, supponendo che queste cose siano in contrattazione, si suppone che siano richieste tutte, e tutte dimandate, onde ciascuno accetterà e riceverà, anche non volendone far uso, il fromento, per­ché potrà cambiarlo con ciò di cui egli ha bisogno. La quantità di moneta che si dà per ciascuna cosa, chiamasi prezzo: onde si vedrà subito, di primo slancio, due cose poter avere il medesimo prezzo ed avere diversissimo valore. Il valore indica il rapporto d’una quantità con un’altra, il prezzo indica solamente la quantità della cosa che si riceve per quella che si dà. Dirassi che un sacco di grano, che vale quaranta lire, in tal luogo siavi a caro prezzo, quando un bue a que­sto medesimo prezzo vi sarebbe a buon mercato; il prezzo sarebbe lo stesso di quaranta lire, ma il valore diverso, perché indicherebbe poco grano, e moltissimi buoi.

6. Ma le monete ormai presso tutte le società colte e commercianti consistono in pezzi di metallo d’oro, d’argento e di rame, coniati con pubblica autorità, che stabilisce un prezzo a ciascheduna di queste monete. Bisogna dunque vedere come gli uomini tutti siansi com­binati a servirsi di moneta, cioè come aventi le due generali qualità sovraindicate di questi tre metalli, e come sia nata la forma, la diver­sità di esse. La storica analisi della introduzione e delle alterazioni della moneta ci indicheranno e ci forniranno facilissime dimostrazioni della teoria di quella, massimamente dopo aver ben compresa la natura del valore in generale, non altro essendo il danaro, né altro giammai potendo essere, se non una vera merce, che per l’universale contrat­tazione combaciasi e misurasi con tutte le altre merci.

7. Trasportiamoci coll’imaginazione su di un vascello europeo alle coste dell’Africa, dove abbondano l’oro, l’avorio e le altre merci pre­ziose e care agli europei, ma dove manca il più funesto e il più neces­sario fra tutti i metalli, il ferro: l’utilità degli stromenti di ferro portati dagli europei sarà presto riconosciuta dagli africani, e il ferro medesi­mo, sia lavorato sia da lavorarsi, sarà universalmente ricercato; ciascu­no porterà ad offerire parte delle sue ricchezze all’europeo per cam­biarle in altrettanto ferro. Si stabilirà dunque un paragone generale di tutte le merci di queste coste con il solo ferro; diverrà comune e gene­rale la valutazione di esse in ferro, e senza dubbio dopo le prime con­trattazioni gli europei divideranno il ferro in tanti parti simili ed uniformi, in maniera che nei contratti di quei paesi si dirà da tutti, che tal merce val tanto di peso o tante misure di ferro, e tal altra altrettan­ti pesi o misure di ferro. Né questa maniera di apprezzar le cose sarà introdotta tra soli europei ed africani, ma tra di loro medesimi anco­ra, perché essendo il ferro di ricerca universale, entrerà nell’interna contrattazione e circolerà ancora tra di loro; ed il paragone di tutti i valori diventando in questa maniera facile ed uniforme, tutte le idee di stima e di valutazione vi si piegheranno e vi si adatteranno. Di più, anche nei cambi immediati di merce con merce, ancorché non segua contratto di ferro intermedio, essendo di già la mente assuefatta a paragonare ogni merce con quello, le dimande, le esibizioni e tutta l’altercazione del contratto si farà in misura di ferro, senza che il metallo in verità v’intervenga.

Molti cercheranno di vendere e di cambiare il superfluo delle pro­prie ricchezze per averne il corrispondente in ferro; primo, perché il ferro essendo di ricerca universale e comune, sono più sicuri di imme­diatamente cambiarlo per ciò che potesse loro occorrere, di quello che potessero farlo avendo presso di sé varie e moltiplici specie di merci non da tutti, né sempre ricercate e volute; secondo, perché più facil­mente conservabile e custodibile di quello che possono esserlo altre merci di egual valore, ma più voluminose ed alterabili; terzo, perché, essendo uniforme e simile a se stesso, si rende a ciascheduno più faci­le ed arrendevole il calcolo delle proprie ricchezze e delle pro­prie spese, e la divisione in parti simili. Così dovrebbe succedere nell’Africa, e così in fatti è accaduto, come si può vedere dalla costante e non equivoca asserzione di tutti i viaggiatori, dai quali sappiamo che tutto nelle coste d’Africa si valuta in sbarre di ferro: nella qual parte di mondo, prima in ogni luogo interveniva realmente in tutti i contratti il ferro, poscia dove continuò, dove cessò d’intervenirvi; ma la maniera di valutare e d’esprimere la stima ed il prezzo delle cose si conservò e si continua tutt’ora, mentre si cambiano sbarre di ferro di schiavi, d’oro, d’avorio, di pepe, per sbarre di ferro di collane di vetro, di coralli, di bacili di rame, sbarre di ferro di panno e di stoffe euro­pee. Tali espressioni, che paiono contradittorie ed assurde, prese così litteralmente, cessano di esserlo considerando come il ferro è divenu­to moneta in quei paesi.

Parimenti, in un altro paese, dove si porti varietà di ricchezze per prenderne di un solo genere, per le stesse ragioni questo sol genere di derrate e di merci diverrà moneta; così nell’Islanda, dalla quale il resto del Settentrione esporta, in cambio delle mercanzie europee, una gran­dissima quantità di pesce, il pesce è divenuto moneta, e le espressio­ni del valore sono tutte indicate in pesci: così in quei paesi dicesi un pesce di panno, ecc. È volgare l’osservazione che il motto latino pecu­nia venga dalla parola pecus, antica primaria ricchezza de’ popoli pasto­ri, la quale essendo la più abbondante e comune serviva di paragone e di misura universale di tutte le cose commerciabili, e che le anti­chissime monete, improntate quali di pecore e quali di buoi, abbiano preso il loro impronto da ciò che prima serviva di moneta, alla quale il più corrispondente metallo di più comodo maneggio si sostituì.

8. Da quanto si è detto sin ora si vedranno le seguenti conseguen­ze: prima, che quella merce diverrà moneta, che per le circostanze dei commerci diverrà di universale ricerca e contrattazione. Seconda: fra due merci di eguale ricerca e contrattazione, quella diverrà moneta, che sarà più divisibile in parti più uniformi e similari. Se in una nazio­ne la moneta fosse di pecore, indi venisse in contrattazione commune e promiscua il ferro, siccome una pecora non è affatto simile all’altra, l’una essendo pingue e l’altra smunta, l’una più bella e lanuta e l’altra meno, come i mezza pecora, un quarto di pecora, una frazio­ne di pecora non si conservano né si possono dividere senza distrug­gerla e renderla inutile, ma una libra di ferro può dividersi in similis­sime parti, che siano metà, quarti e frazioni uniformi del tutto, così è naturale e infallibile che gli uomini di quella nazione comincieranno dal paragonare il comune valore di pecore col parimente divenuto comune valore di ferro, ed abbandoneranno l’antica espressione e l’an­tica moneta per la recente, di gran lunga più comoda e più utile a tutti i casi diversi e a tutti i generi di contratti e di commerci. Terza con­seguenza sarà che tra due merci d’eguale ricerca e contrattazione, e di eguale divisibilità ed uniformità in parti simili ed analoghe, quella averà la preferenza per divenir moneta, che sarà più conservabile e meno soggetta ad alterazione; e fra queste quella principalmente sarà più in pregio, che sotto il minor volume averà il maggior valore, per­ché di una custodia e di un trasporto più facile e suscettibile. Così per queste ragioni l’oro e l’argento saranno preferiti al ferro ed al rame.

Ma qui è necessario fare un passo di più, dicendo che quella merce, la quale divenga di un uso giornaliero ed indispensabile, che debba trasformarsi continuamente in lavori di servizio comune, cesserà di esse­re moneta in confronto di un’altra di un uso meno comune e meno universale, quantunque generalmente ricercata ed apprezzata. Se vi sian due merci, egualmente divisibili in parti e frazioni simili, egual­mente durevoli e conservabili, ma l’una d’uso, e l’altra di ornamento, dico che la prima cesserà d’essere moneta, e lo diverrà quella di orna­mento, o almeno che quella d’uso sarà, come moneta, meno ricercata e meno universalmente stimata di quella di ornamento e di lusso.

L’ornamento ed il lusso nudriti sono da ciò principalmente che piace agli occhi, e da ciò che è raro, ma assai più da questa seconda qualità che dalla prima. A misura che le cose sono più rare, minore quantità di quelle rappresentano un più gran valore, onde il posseder di que­ste indica ricchezza, cioè potenza di soddisfare alle proprie voglie. Ognuno cerca di mettere in mostra e di ostentare questa potenza, perché la sola ostentazione di quella è produttrice di piaceri e di auto­rità a chi ne fa pompa, e di servigio e di dipendenza a chi n’è lo spet­tatore. Da un’altra parte, quando la ricerca di queste merci d’orna­mento è sufficientemente diffusa, nasce in ciascuno la sicurezza e la confidenza di trovarne esito quando egli voglia privarsene, per otte­ner le cose che gli bisognano, ed è altresì naturale che ognuno comin­ci dal volersi disfare delle cose superflue e di ornamento, per ottene­re ciò che gli fa un piacere immediato o soddisfa un indispensabile bisogno. Quindi dal valutare le cose tutte per mezzo d’una merce durevole ed uniforme e divisibile comodamente, ma di uso nelle arti necessarie della vita, passeranno gli uomini a valutarle colla merce che abbia le medesime qualità, ma che sia più stimata per il lusso e per la pompa che per l’uso di necessità e di bisogno. Onde vediamo subito per quarta conseguenza che la moneta passerà dai metalli di servizio ai metalli preziosi, quelli restando solamente in commercio come merci e non come monete, e se come tali, nel giro dell’interna circo­lazione e nei contratti spicciolati, non nelle grosse contrattazioni e nel­l’esterno e grandioso commercio. Dico nei contratti spicciolati, perché la preziosità della materia racchiudendo un gran valore sotto un picco­lo volume, ne verrebbe in conseguenza che la minuta contrattazione delle più piccole e comuni cose richiederebbe una suddivisone in parti consimili della merce moneta, o sia del metallo prezioso, che ne svani­rebbe il comodo maneggio di quello, riuscendo impossibile l’esattezza della divisione e facilmente smarribili le minute frazioni che ne risulterebbono, onde le ulteriori divisioni si fanno con metalli meno preziosi.

Da ciò si vede chiaramente come l’oro, l’argento ed il rame siano per quasi universale convenzione divenuti moneta, convenzione che rigorosamente tale non può dirsi, non essendo intervenuti patti espressi, né radunata una dieta generale del genere umano per erige­re in moneta questi tre metalli: ma piuttosto io la chiamerei adesione, la quale per necessità e progresso di circostanze legò gli uomini a valutare universalmente ogni merce colla quantità di questi metalli, che per ciascuna si esigeva e si offeriva. La lucentezza inalterabile del­l’oro e quella dell’argento, e la longevità della loro durata, la facilità con cui si adattavano al comodo ed al piacevole degli usi della vita, la rarità loro, per cui molto valore con poco ma uniforme e facilmente divisibile volume rappresentava, gli elevò al rango di moneta, più ricercata e più stimata di quello che fossero i metalli meno preziosi, meno rari, meno belli, quantunque d’una utilità più domestica, e di un bisogno più irrefragabile per gli usi della vita, restando però que­sti per la minuta e continua folla dei frequenti e popolareschi con­tratti, all’uso dei quali l’oro e l’argento non si sarebbero potuti piega­re, né comodamente dividere. Frattanto che molti cercavano di questi metalli preziosi per farne pompa, pochi per farne uso, tutti, essendo sicuri di poterli vendere e contrattare, li ricevevano in cam­bio delle proprie merci, per ridurre ad un più piccolo, più sicuro e più uniforme volume le loro ricchezze.

9. Io qui non debbo dilungarmi per conghietturare ne’ dispersi rimasugli dell’antichità la storia dell’introduzione dei metalli nel gene­re umano; basteranno alcune generali riflessioni per il maggiore schia­rimento delle cose da dirsi. E, in primo luogo, le arene dei fiumi mescolate di particelle metalliche, i vulcani eruttanti liquido e candente metallo, i casuali incendi, ed anco gli spontanei tentativi dell’umana curiosità, in somma in vari luoghi, e per varie maniere e con lunga assiduità di prove, furono essi palesi, e l’uso loro. Checché ne sia di questa introduzione, egli è certo, in secondo luogo, che il ritrova­to e l’uso dei metalli ignobili è stata l’epoca delle arti e delle inven­zioni le più utili all’umanità, e il ritrovato e l’uso dei metalli preziosi ha fissata l’epoca dei commerci, che divennero estesi, rapidi, facili, diretti da viste profonde, e, spingentesi nel futuro, aumentarono e strinsero le relazioni reciproche degl’individui. Prima di quest’epoca, i commerci tutti erano cambi momentanei, più diretti dai bisogni immediati degli uomini, egualmente frettolosi nell’esigere e nell’offerire, che dalla simultanea concorrenza di molti ed opposti interessi, la quale equilibra tutte le cose, e rendendole tutte vendibili e contratta­bili le riduce al vero ed assoluto. I metalli entrarono in commercio come le altre cose; non ebbero valore che in proporzione della quan­tità e della ricerca che se ne faceva; ma questa ricerca divenne univer­sale, e la quantità restò limitata sino ad un certo limite, costante per lungo tempo, più ristretto per l’oro, più ampio per l’argento, e mol­tissimo di più per il rame.

10. Abbiamo veduto come l’oro e l’argento esser possano divenuti moneta, perché sono stati merce d’universale contrattazione. Ma qui avvenne ciò che presso agli uomini in tutti i tempi avvenir suole, che la cupidigia e l’interesse particolare vi condussero il disordine, sempre seguace delle ottime cose. La rarità e la ricerca dei metalli preziosi indusse alcuni a falsificarli ed alterarne la sincerità, conservandone l’ap­parenza, onde con poco valore ottenerne uno considerabile, abu­sando così della buona fede e della premura de’ cercatori. Ma questi si dovettero prestamente accorgere dell’alterazione del metallo, che esigevano netto e scevro d’ogni materia estranea e meno rara e ricer­cata. Si allontanarono dunque dal commerciare con quelle nazioni presso le quali questa frode era frequente, ed esse perderono a poco a poco ne’ loro metalli come monete le due proprietà, d’esser segni e pegni d’ogni valore. Che fece la pubblica autorità in così critiche cir­costanze, nel sentire ed accorgersi dei mali comuni? Cominciò ad esi­gere che ogni pezzo di metallo, che i privati passavano in commer­cio, fosse riconosciuto ed approvato come non alterato, ma come vero e legittimo oro ed argento. Quindi passò ad apporvi un segno indicante la pubblica e solenne garantia della finezza e bontà di esso, lasciando forse ai particolari l’arbitrio del peso e del volume dei pezzi metallici, che come monete entravano in contrattazione. Ma l’abuso, la diversità, la confusione esigerono di più che fosse riserbata sola­mente al pubblico o al principe – che è l’amministratore ed il rappresentante supremo di questo pubblico – l’autorità di dividere il metallo in quelle porzioni, e di segnarlo in quelle maniere che meglio giudicava convenire. Quindi, ridotti i pezzi di metallo in porzioni eguali ed uniformi di peso e di figura, si coniarono con pubblica ed esclusiva autorità, cioè vi si appose un segno, che indicasse sì il peso della moneta che la bontà del metallo; cosicché quelle che il medesi­mo segno avessero, e il medesimo peso, autenticassero avere un sicu­ro ed identico valore, onde la buona fede dei contratti fosse salva e tranquilla, e l’attività del commercio pronta ed animata.

Ho dovuto distinguere il peso del metallo dalla bontà dello stesso, perché sono realmente due differenti proprietà della moneta. Le diverse maniere di separar l’oro e l’argento dalla materia bruta che vi è frammista nella miniera, ed anche la necessità di doverli ridurre ed impastare in comode e determinate figure, per la varietà de’ valori che debbono rappresentare, esigono che si alteri la purità di questi metal­li e che vi si unisca altra materia metallica, la quale in tal caso chiama­si lega, e la bontà del metallo significa la maggiore o minor quantità di metallo puro, e reciprocamente la minore e la più gran quantità di metallo inferiore, che sotto il medesimo peso vi si contengono. Se in una moneta d’argento vi siano 22 danari di puro argento e due di metallo vile o di lega, ed in un’altra simile sianvi 23 denari d’argento puro ed un solo di lega, si dirà che le due sono del medesimo peso, ma che la prima è d’inferiore bontà della seconda. Per giudicare e valutare la bontà dell’oro si è adottato generalmente il metodo di divi­dere il peso d’una moneta qualunque in 1 /24 parti, e di trovare quan­te di queste parti siano d’oro fino e quante di lega. Queste parti di una immaginaria divisione chiamansi carratti, onde l’oro purissimo chia­masi di 24 carratti, e l’oro meno puro sarà di 23, 22, 21, di 20 1/2 car­ratti, ecc.; i quali numeri indicano la proporzione della quantità d’oro fine alla quantità di lega contenuta in ciascuna moneta; onde una moneta d’oro di bontà di 22 carratti significa che delle 24 parti di tutta, nelle quali tutto il peso si divide, 22 sono d’oro, e 2 di materia estranea ed eterogenea. Nell’argento poi si divide tutta la massa in 12 parti che chiamansi denari, e si valuta la bontà dell’argento coll’indicare quante di queste parti o denari siano d’argento fine e puro, e quante di lega. Così una moneta d’argento dirassi alla bontà di 11 denari, quando, dividendone il peso in 12 parti, si troverà sempre 11 parti di puro argento ed una di lega, o sia 1/12 di metallo eterogeneo ed 1I/12 di argento in ciascuna e qualunque porzione di quelle mone­te. Questa bontà, valutata sopra caratti 24 per l’oro e sopra denari 12 per l’argento, chiamasi titolo; onde il conto delle monete autentica, o dovrebbe autenticare, due cose, cioè il peso e il titolo di quelle.

11. Ma qui bisogna, per proseguire la materia e rischiararne il più importante di quella, richiamare ciò che abbiamo di sopra indicato, che non l’oro solamente, ma l’argento ancora si sono trovati, se non nell’origine, ben presto però in seguito simultaneamente in promiscuo commercio ed universale, onde ciascuno di essi è divenuto non solo segno di valore di ciascuna cosa, perché con ciascuna cosa è stato cam­biato, ma l’uno ancora è divenuto segno e pegno dell’altro; l’oro, misura e termine di paragone del valore dell’argento, o viceversa; onde con ogni esattezza può dirsi che l’uno era moneta dell’altro e tutti due moneta di tutte le cose; e la quantità d’oro, che si dà in cambio d’una tal altra quantità d’argento, è il prezzo del medesimo argento, come la quantità d’argento, che si dà in cambio di una determinata quantità d’oro, è il prezzo dell’oro. Abbiamo visto il valore di due cose esse­re l’uno all’altro reciprocamente, come le masse, cioè che se di una quantità di cose A, ve ne sia il doppio, triplo e quadruplo, ecc. delle cose B, uno di A varrà 1/2, 1/3, 1/4 di B, quando il bisogno e la richie­sta de’ possessori B sia indifferente, o eguale da ambedue le parti. Ora, posto in commercio simultaneamente l’oro e l’argento, e supposto che non sia richiesto piuttosto l’uno che l’altro, il che sovente non è vero riguardo alla natura de’ commerci esterni, a qualche accidentale cir­costanza interiore, quantunque quasi sempre lo sia nella circolazione interna, sarà dunque il valore dell’oro alzatore dell’argento, come la massa di tutto l’argento alla massa di tutto l’oro, e come il tutto al tutto, così una parte ad una parte corrispondente. Se in una nazione vi fossero cento libbre d’oro in tutto, ed in tutto mille libbre di argen­to, la quantità d’argento sarebbe decupla della quantità dell’oro; dun­que l’oro sarà stimato 10 volte l’argento, perché la sua massa nella sup­posizione non è che 1/10 della massa d’argento; dunque una libbra, un’oncia, un denaro, un grano d’oro varrebbero 10 libbre, 10 oncie, 10 danari, 10 grani d’argento; un’unità qualunque d’oro, cioè un dato peso di esso, comprerà 10 unità d’argento, cioè 10 uguali pesi di que­sto. Un tal valore dell’oro paragonato col valore dell’argento chiama­si proporzione fra l’oro e l’argento, e in questo caso direbbesi che la proporzione fra l’oro e l’argento è 1 a 10. Supponiamo ora, che stan­do ferme le 100 libbre d’oro in quella nazione, alle 1.000 libbre d’ar­gento da lei possedute se ne aggiungano altre 400; finché questo accre­scimento è ignoto ai commercianti, finché queste 400 libbre di argento non entrano in circolazione sensibile, basteranno 10 oncie d’argento per avere un’oncia d’oro, e la proporzione resterà immobi­le, 1 a 10. Ma quando si accorgeranno gli attenti ed avveduti dell’accresciuto argento, quando per qualche circostanza si farà sentire ai posseditori d’argento bisogno dell’oro, e non averanno difficoltà, e si farà gara e concorrenza di ciascuno nell’accrescere sopra le 10 once d’argento qualche oncia di più per avere l’oncia d’oro, finché arrive­ranno a darne 14 di quelle per una di queste; nel qual caso quelli che hanno l’oro si fermeranno dall’esigere di più, perché sicuri di aver l’oro ad un tal prezzo quando essi vogliono, e perché comincierebbe parimente a nascere concorrenza e gara tra di loro in favore dell’ar­gento. La proporzione tra l’oro e l’argento che prima dicevasi essere 1 : 10, ora dirassi essere salita 1 : 14; e allora ogni moneta d’oro con­tenente, per esempio, 100 grani d’oro fine, si potrà cambiare con una moneta di argento contenente 1.400 grani di fine argento. Lo stesso cambiamento avverrà se invece di accrescersi la massa d’argento si sce­merà la massa dell’oro, perché allora doverassi dare lo stesso argento per una minor quantità d’oro, o una maggior quantità di argento per lo stesso oro. Se restando le 1.000 libre d’argento scemasse l’oro dalle 10 0 fino alle 60 , facendosi sentire il bisogno dell’oro, le 1.000 libre dell’uno si darebbero per le 60 dell’altro e non più per 100; e la pro­porzione fra l’oro e l’argento ascenderebbe non più 1 : 10, ma come 1 : i6 2/3, perché se 60 d’oro comprano 1.000 d’argento, 30 ne com­prano 500, 15 ne comprano 250, 3 si cambiano con 50; ed uno d’oro – 1 grano, 1 denaro, 1 oncia – si permuteranno con i6 2/3 di grani, denari ed once d’argento. Parimenti supponiamo scemata la quantità d’argento, restando ferma la quantità d’oro, cosicché sianvi di 1.000 libre d’argento solamente 800, sendovi 0 libre d’oro; allora sarà l’oro all’argento come 100 : 800, cioè 1 : 8; cioè il valore dell’oro si abbasserà ad essere solamente ottuplo dell’argento, di decuplo ch’era prima. Così, se crescesse la quantità dell’oro, per esempio dalle 100 libre alle 200, restando le 1.000 d’argento, sarebbe solamente 1 : 5, invece di 1 : 10, 1 : 8, 1 : 14, 1 : i6 2/3, come nei casi antecedenti.

12. Egli è giusto di prevenire una obbiezione che naturalmente si presenta, la quale potrebbe imbarazzare taluno: cioè che la proporzio­ne fra l’oro e l’argento dipende dalla maggiore o minor quantità del­l’uno e dell’altro che trovasi in una nazione, e dove molte nazioni communichino strettamente fra di loro con molta mole di reciprochi commerci, dalla maggiore o minor quantità di questi metalli possedu­ti da tutte queste nazioni. Ora, chi ha mai conosciuto e chi potrà mai conoscere quanto oro e quanto argento siavi, non in molte, ma in una sola nazione che abbia ampio commercio, e dove tali metalli sono tanto e così variamente divisi e sparsi? Rispondo che bisogna distin­guere la proporzione fra i metalli bruti dalla proporzione fra i metalli coniati. Questa seconda dipende originariamente dalla prima. Ora, dopo che la suprema autorità avocò a sé, per ovviare i frequenti disor­dini che gettavano nell’incertezza, e soggettavano alla frode ed al discredito ogni commercio, il privilegio di battere moneta, il sovrano diventò quasi il solo ed il più grande posseditore dei metalli bruti, e tutti i metalli coniati doveano passare per la maggior parte nelle sue mani, sia per ragione di rifondere le vecchie monete nelle nuove, sia per ragione dei tributi. Ora, dalle masse rispettive d’oro e d’argento ch’egli si trovava avere, paragonandone la quantità di ciascuna, potè di slancio fissare una proporzione fra l’oro e l’argento, e tanto più lusin­garsi d’essersi approssimato alla vera, quanto più ampia era la mole di metallo raccolta. S’egli, raccogliendo da tutte le parti oro ed argento, trovavasi di avere 14 volte di più questo che di quello, nel distribuire le monete nuove ricevendo le vecchie o il metallo non monetato, nel pagare le truppe, i ministri e tutto l’ampio corredo che accompagna la pubblica autorità, si trovò in istato di cambiare senza contrasto un grano d’oro con quattordici d’argento, e di dare e far ricevere l’una per l’altra, indistintamente, una moneta di cento grani d’oro per una di argento di mille e quattrocento. Dopo vedremo che se il principe, come principale posseditore dei metalli preziosi, può fissare e deter­minare la loro proporzione, egli non può farlo senza suo danno sopra principii arbitrari, ma che l’interesse suo e quello dei sudditi lo sfor­za sempre di seguire la legge delle masse rispettive che sono in corso.

Egli è naturale che, fissata la proporzione fra le monete d’oro e di argento, nel passaggio e ritorno che fanno i metalli dalla zecca e dal­l’erario del principe alle mani dei sudditi, e dai sudditi alla zecca ed all’erario, tutti i particolari nelle loro contrattazioni seguano ed obbe­discano ad una tal fissata proporzione. Ma sopravenendo una nuova quantità d’oro o una nuova quantità d’argento, la proporzione antica si altererà in due modi: primo, accorgendosi il sovrano, dai tributi raccolti e dai metalli portati al conio, dell’alterata quantità di metallo, perchè ricevendo da tutti indistintamente oro e argento, se egli dopo qualche tempo trovasi di aver ricevuto rispettivamente più argento e meno oro di quello che prima riceveva, sarà segno evidente essersi scemato l’oro o accresciuto l’argento, e così viceversa. In secondo luogo, anche tra i particolari si altererà la proporzione fra i metalli prima che il principe lo faccia, quando si faccia sentire il bisogno del metallo che non sia cresciuto, o che anzi sia scemato, perché i posses­sori del metallo accresciuto daranno qualche cosa di più di questo per avere quello. I più grandi posseditori dell’uno e dell’altro metallo saranno quelli che comincieranno ad alterare la proporzione, perché, sapendo appunto di esser tali dall’esame delle loro casse, si determine­ranno gli uni ad esigere più o meno, gli altri parimenti ad offerire secondo le maggiori dimande e bisogni. Dico poi che questa altera­zione di proporzione, che questo di più di metallo accresciuto rispet­tivamente, che si comincierà a dare per il metallo rispettivamente sce­mato, crescerà finché l’un metallo sia all’altro come le alterate masse respettive valutato; ma non eccederà questo limite, perché, ancorché in una serie di particolari contratti si trovasse tale eccesso, dovrebbesi successivamente retrocedere fino al limite sovra indicato, perché farebbesi infallibilmente sentire all’opposto il bisogno dell’altro metallo.

13. Sì come trovasi una proporzione tra l’oro e l’argento, così ve n’ha una tra l’oro e il rame e tra l’argento ed il rame, perché il rame è parimenti divenuto moneta presso le nazioni, quantunque metallo non prezioso, per la necessità ed il comodo della piccola e sminuzza­ta contrattazione. Il valore delle minute e copiose merci che il popo­lo generalmente compra e vende, rappresentato in metalli preziosi, lo ridurrebbero a monete ed a proporzioni troppo piccole ed incom­mensurabili, onde è necessario metallo più vile, o sia più comune, che con una massa sensibile rappresenti tutti i minimi valori della giorna­liera circolazione. Questa ancora, oltre il momentaneo lucro, è stata la ragione che ha fatte alterare le monete d’argento, e ne ha fatte batte­re quasi dappertutto delle miste di molto rame e di pochissimo argen­to, e tali monete furono chiamate monete erose nel linguaggio econo­mico e finanzesco, a distinzione della pura moneta di rame che pro­priamente non chiamasi erosa.

Fissato il valore dell’oro in argento, dell’argento in rame, si trova subito il valore dell’oro in rame, cioè quanta quantità di rame, o sia quanto peso di quello si deve dare per un dato peso di argento, e quanto per un dato d’oro. Se due once d’argento equivalgono a 1/7 d’oncia d’oro, quando la proporzione tra l’oro e l’argento fosse di 1 : 14; se la proporzione fra l’argento e il rame fosse uno a cento, cen­to once di rame darebbero un’oncia d’argento, dunque duecento on­ce di rame darebbero 2/7 d’oncia di oro, o sia mille e quattrocento once di rame darebbero due once d’oro, o settecento di quello un’on­cia di questo, cosicché la proporzione tra l’oro ed il rame sarebbe in tal caso arbitraria, 1 : 700. Questo valore dei metalli preziosi, tutti rap­portati e paragonati ad una terza ed infima moneta, ha dato origine al valor numerario, valore che prima non era punto distinto dal valor reale. Tanto valor numerario d’oro significa propriamente tanti pesi e tante reali porzioni di rame o di moneta erosa, quante se ne dà per il dato peso d’oro; lo stesso dicasi del valore numerario dell’argento.

14. Purché il dato peso di rame sia quello che proporzione esige per un dato peso d’argento o d’oro, l’ulteriore divisione di questo dato peso di rame è perfettamente arbitraria rispetto al valore intrinseco, né dovrà la pubblica autorità avere in questo altri riguardi, fuori che quelli che si debbono al risparmio delle spese della monetazione, ed al comodo maneggio della moneta di rame, acciocché facilmente misuri le diverse gradazioni de’ minimi valori; perché se la divisione del dato peso sarà in molte parti, il peso o la massa di ciascuna sarà più piccola; se in più poche, sarà maggiore. Ma supponiamo ora che, fatta una volta la divisione di un dato peso di rame corrispondente al valo­re d’un dato peso d’oro o d’argento, si rifonda e si faccia altra mone­ta di rame, in cui si conservi la medesima divisione, ma ciascuna por­zione sia più piccola e più leggera di quello che fossero le antiche porzioni o monete ultime di rame, o erose; allora il valore numerario sarà lo stesso, ma sarà alterato il valore intrinseco, cioè, finché si darà lo stesso numero di monete di rame per una data moneta d’oro o d’argento, si darà minor quantità di rame di quella che si dava prima per una eguale quantità d’oro e d’argento. Lo stesso dicasi dell’altera­zione delle monete miste. In questo caso, il valor numerario è diver­so dal valor reale, perché cambiando il rame non monetato con l’oro e l’argento, si darebbe più rame per l’istesso oro, o argento, che dando rame monetato del nuovo ed alterato conio, ed il valor reale sarà eguale al valor del peso di quel rame, così monetato e sminuito, più quella porzione di rame che manca realmente alla nova monetazione, per giungere alla vera proporzione fra le monete vili e le monete nobili d’oro e d’argento.

Se le monete di rame, siano le giuste prima della nuova moneta­zione, siano le sminuite, si chiamassero lire; se prima di questa epoca per cinque di queste lire si otteneva una moneta di un’oncia d’argen­to; se si diminuisca di 1/5 di peso ciascuna di queste monete chiamate lire, finché non si accorgano i commercianti dell’alterazione, si daran­no ancora cinque lire per un’oncia di argento; ma realmente si darà lo stesso numero di lire, ma non la stessa quantità di metallo, che in que­sta supposizione non sarà che la quantità di rame contenuto nelle sole quattro lire del vecchio conio. Che avverrà accorgendosi di questa alterazione, e quali saranno gli effetti ed il tempo di questo accorgi­mento? Se ne accorgeranno gli abitatori dei confini, i quali commer­ciano per necessità e per vicinanza cogli abitatori d’altri stati, nei quali non sia seguita la medesima alterazione; e questi medesimi accorgerannosene, perché interessati a far questa scoperta; se ne accorgeranno quelli che lavorano i metalli preziosi per gli usi ed il lusso della vita, i quali manifattori sono in necessaria relazione coi forestieri, i quali la quantità vera, sola, di metallo, considerano nei rispettivi commerci che di essi si fanno.

Questi commercianti in grosso dell’argento, per esempio, saranno i primi ad avvedersi che dando il loro argento per il rame non hanno più la medesima quantità di metallo che prima avevano; onde due effetti seguiranno immancabilmente. Primo, che esigeranno qualche cosa di più dell’antico prezzo dell’argento, perché possano avere l’e­quivalente di ciò che prima aveano, onde possano quando vogliano riavere e ricomperare l’argento venduto coll’intrinseco equivalente di rame; il quale intrinseco non più dalle antiche tre lire è rappresenta­to, ma dalle nuove sei: onde, alterato il valore della moneta di rame, o sia diminuitone il suo valore intrinseco, conservandone lo stesso numero, cioè la stessa apparente divisione, si alzerà il valor numerario delle monete nobili d’oro e di argento. Secondo effetto sarà che quel­li che averanno molte di queste diminuite cinque lire di rame si affret­teranno di cambiarle coll’argento, e quelli che averanno l’argento, per timore di perdere 1/5 del suo valore cambiandolo colle alterate mone­te del paese, lo manderanno fuori, cambiandolo con merci o con altro argento e oro, presso coloro che gli danno ancora l’antica e superio­re valutazione. Mancherà dunque presso questa nazione la quantità di argento; dunque si farà sentire il bisogno di quello, si dovrà dunque pagare tal bisogno: dunque oltre il valore intrinseco dell’argento si doverà pagare il bisogno che se ne ha, e perciò e l’oro che si darà per l’argento, e le merci che per quello ricevere si venderanno, saranno più basse di valore, cioè se ne darà una maggior quantità di quella che prima se ne dava per il medesimo argento. Nel medesimo tempo tutte le merci, che nei spicciolati contratti prima si vendeano per una, due, tre, quattro, cinque delle antiche lire, e per le parti e frazioni di quel­le lire, diverranno vendibili a più caro prezzo, perché i rivenditori di quelle merci per il minuto consumo ed uso popolaresco le comprano all’ingrosso dai commercianti e dai produttori e manifattori, e le com­prano colle monete nobili, le quali hanno avute in cambio di mone­te di rame, delle quali per la supposta da noi alterazione hanno dovu­to darne in maggior copia di quella che davano prima; sono perciò costretti, nel vendere al minuto le proprie merci, e ricevendone il prezzo di monete di rame, di alzare il prezzo di quelle per adeguare il valore speso nel comperarle colle monete nobili, e per non perdere in un commercio che essi hanno stabilito per guadagnare.

Noi faremo a poco a poco gli stessi ragionamenti per quelle nazio­ni che alterano la proporzione comune fra oro ed argento, e che fra le monete dell’istesso metallo l’istessa quantità di metallo non ha lo stes­so valore numerario in tutte le monete. Figuriamoci una nazione cir­condata da altre nazioni, colle quali ha la maggior parte del proprio commercio, e le quali danno quindici once d’argento per un’oncia d’oro, mentre quella non ne dà per un’oncia d’oro che quattordici once d’argento. Quelle porteranno le loro quindici once d’argento presso la nazione che dà un’oncia d’oro per sole quattordici d’argen­to, cioè dove si valuta l’argento più del dovere, o sia del comune valo­re, e per queste quindici once otterranno un’oncia d’oro ed 1/14 d’on­cia, mentre commerciando l’argento colle altre nazioni, che danno per l’oro lo stesso argento, quindici once d’argento non darebbero che un’oncia d’oro. Questa nazione perderà dunque il suo oro, che sarà estratto da tutte le altre nazioni, che si accorgeranno che per lo stesso peso d’argento si può aver ivi più oro che altrove. Dunque oncia 1 e 1/14 d’oro presso ad una tal nazione è equivalente ad un’oncia d’oro solamente presso le altre nazioni, perché tutte due queste diverse quantità d’oro equivalgono alla medesima quantità d’argento. Dunque un negoziante, che averà ricevuto quindici oncie d’argento dal di fuori, averà sborsato un’oncia e 1/14 d’oro, o l’equivalente in merci di questa quantità d’oro. Ora, dentro ogni nazione, con un’oncia e 1/14 d’oncia d’oro si hanno più cose che con una sola; dunque per avere le quindici d’argento ha dovuto dare più cose, che non darebbe un altro negoziante nelle altre nazioni per le medesime quindici oncie d’argento. Ma dare più cose di quello che darebbe un altro per lo stes­so prezzo, è vendere a più buon mercato, e vendere a più buon mer­cato è ricevere meno denaro. Dunque la nazione che dà quattordici once d’argento per una d’oro, mentre tutte le altre colle quali è in relazione danno quindici per uno, riceve meno di quello che doverebbe ricevere. Per una simile ragione si può dire che comprerà dalle altre nazioni a più caro prezzo, o, che è lo stesso, meno cose riceverà per lo stesso prezzo al quale le altri nazioni le riceverebbero. Un negoziante di questa nazione ha quattordici oncie d’argento da spen­dere al di fuori e cambiarle in altrettante merci; ora queste quattordi­ci once d’argento nella sua nazione rappresentano più cose che non presso le altre nazioni, perché abbiamo supposte le altre nazioni com­mercianti, e nelle quali, prescindendo dall’oro e dall’argento, l’ab­bondanza e la scarsezza delle cose si compensano, e i bisogni sono comuni e reciproci, e perciò medesimi, e proporzionali i valori delle cose tutte. L’aver egli adunque quattordici oncie d’argento, signifi­cherà per esempio averle egli cambiate con quattordici misure di vino. Ma supposto lo stesso valore, cioè la stessa abbondanza e biso­gno di vino presso l’altra nazione, e perciò mutabile colla stessa quan­tità d’oro, cioè un’oncia d’oro in ciascuna delle due nazioni; dando le sue quattordici oncie d’argento il suddetto negoziante al di fuori non averà più un’oncia d’oro come al di dentro, ma un’oncia meno 1/14 e però non più quattordici misure di vino, ma sole tredici; dunque averà avuto meno per più; dunque averà comprato a più caro prezzo.

15. Mi si obbietterà facilmente, per qual ragione si deve rapporta­re il valor dell’oro piuttosto alle proporzioni forestiere che alle nazio­nali. A ciò rispondo facilmente, che chi compera cerca di rapportare le sue offerte al più basso prezzo corrente delle cose vendibili; per lo contrario, chi vende sostiene le sue dimande sul più alto; né in que­sta opposizione si potranno accordare ambidue, se non l’uno e l’altro, costretti dalla concorrenza dei compratori e venditori, acconsentano nel prezzo comune di quelle cose che sono in contratto. Ora, dove si suppongano i bisogni eguali o proporzionati tra di loro, ed eguale presso a poco la quantità delle cose commerciabili, o, se non eguale, almeno le differenti quantità disuguali così communicanti che formi­no una sola massa, sulla quale i prezzi si stabiliscano, il prezzo comu­ne sarà fissato dalle nazioni che seguiranno la comune proporzione fra l’oro e l’argento, non da quella che l’averà alterata e diversa, sia nel più, sia nel meno. Dunque questa dovrà ne’ suoi contratti obbedire realmente a quella proporzione che non segue. Facendosi sentire presso una tal nazione il bisogno dell’oro, del quale, come abbiamo veduto, anderà a poco a poco a restar priva, bisognerà, cambiandolo coll’argento, oltre le quattordici oncie per ogni oncia d’oro, dare qualche cosa di più d’argento per pagare il bisogno e la scarsezza del­l’oro; onde in realtà da se stessa sarà costretta ad accostarsi alla vera proporzione, ascendendo dal dare quattordici once a darne quindici d’argento per una d’oro. Ciò infallibilmente accaderà nei grossi con­tratti e nell’alto commercio, dove la sola quantità di peso e bontà del metallo si considera; ma ne’ piccoli, continui e giornalieri contratti, che si fanno quasi tutti in monete d’argento, che sono le più abbon­danti e comuni, e in monete di rame, che le rappresentano imme­diatamente, si alzeranno i prezzi di tutte le cose vendibili. Chi com­prerà, comprerà con monete d’argento, un’oncia delle quali averà il nome di equivalere ad 1/14 d’oncia d’oro; ma doverà dare un mag­gior numero di queste monete, finché un’oncia di esse equivalga sola­mente al valore di 1/15 d’oncia d’oro.

Lo stesso ragionamento si faccia nel caso opposto, vale a dire dove, per esempio, invece di quindici d’argento per una d’oro, che si sup­pone la proporzione comune, diasi sedici per una; allora le altre na­zioni porteranno tutto l’oro per avere su di ciascuna oncia di quello un’oncia d’argento di più. Resterà dunque una tal nazione scarseggiante e poi priva d’argento e sovrabbondante d’oro; doveri dunque, cambiando l’oro con l’argento, pagare coll’abbondanza di quello la scarsezza di questo, cosicché verri da se medesima nei grossi contrat­ti a ristabilirsi la comune proporzione. Nei contratti poi piccoli e con­tinui, si abbasserà il prezzo delle cose vendibili, cosicché, per le cose che equivalgono ad un’oncia d’oro, si sia dato solamente in argento l’equivalente di quindici oncie e non di sedici. Ma frattanto, venden­do presso le altre nazioni le cose sue, riceveri solamente il valore di quindici oncie d’argento per quelle cose che dentro gli sono valutate per sedici, finché la communicazione non abbia ristabilito l’equilibrio, e comprando sborserà al di fuori solamente le quindici once, mentre nel di dentro, per la stessa merce, si doveranno sborsare le sedici: onde frattanto questa nazione sminuirebbe il suo commercio interno, e farebbe sortire anche l’argento per questo motivo, sminuendo perciò la massa delle sue ricchezze, e sottraendo dall’interna circolazione una parte di valore.

16. Noi abbiam veduto gli effetti dell’alterata proporzione fra l’oro e l’argento; ora è facile vedere gli effetti dell’alterato valore fra le monete d’uno stesso metallo. Egli è certo che sia nell’oro sia nell’ar­gento, in qualunque maniera siano coniati, e qualunque nome di moneta portino, un grano, 12, 20 di ciascheduno, debbano aver sem­pre lo stesso valore. Se dunque in una moneta un grano d’oro vale quindici grani d’argento, ed in un’altra solamente quattordici, cosic­ché fosse fissato lo stesso valor numerario ad ambedue in proporzio­ne del loro peso, le altre nazioni cambierebbero tutte le monete d’oro dove vale quattordici, per aver quelle dove vale quindici, e spoglie­rebbero quella nazione d’un grano d’argento per ogni grani quattor­dici di esso, cioè un sette per cento in circa averebbe di perdita in tutte le sue vendite e in tutte le sue compere.

Lo stesso dicasi delle monete d’argento. Le nazioni porteranno quella moneta d’oro in cui è valutato più del dovere l’argento, per avere quella dove è valutato meno, se l’alterazione sta nelle monete d’oro; o viceversa, se l’alterazione sta nelle monete d’argento. Quan­do poi una moneta d’oro di titolo inferiore, o sia di minor quantità di metallo fino, è valutata come un’altra di miglior titolo, il che è lo stes­so caso già in altri termini accennato, ed è sovente accaduto in una rifusione di monete, o per infelicità di circostanze o per il momenta­neo vantaggio, o non sapendosi in altra maniera imporre un imper­cettibile tributo; avverrà che le monete migliori, in confronto delle quali sono valutate le inferiori, o sortiranno prestissimo dalla nazione, o saranno rinchiuse e sottratte dalla circolazione, con grave danno di tutti gli ordini, perché resta avvilita l’industria e l’attività d’ogni com­mercio, rendendosi incerto, difficile e scarso il segno rappresentativo ed il pegno sicuro d’ogni valore e d’ogni fatica. Si imitano e si rifab­bricano dalle altre nazioni colle monete migliori le inferiori, e queste con minor reale ed intrinseco metallo innondano la nazione e la spo­gliano sempre più di denaro; onde tutti i disordini ne seguono nel corpo politico, che nei corpi fisici sono cagionati dalla siccità e dallo stagnamento del fluido animatore.

17. Per ultimo, non sarà inutile il qui notare per incidenza l’anti­co errore della maggior parte dei forensi, i quali decidevano che le restituzioni del denaro dovessero farsi rendendo lo stesso valor nume­rario; per il che se anticamente cinque lire fossero state prestate, cin­que odierne lire si dovessero restituire. Ma se le antiche cinque lire contenevano il valor reale d’un’oncia d’argento, e le odierne ne con­tengano due terzi solamente, secondo questa poco legittima decisio­ne si restituirebbe meno di quello che si è ricevuto. Quindi molti valent’uomini hanno sostenuto che tanto reale metallo siasi ricevuto, tanto reale metallo si debba rendere; onde non più cinque lire, ma sette, e dieci, con questa norma si debbano pagare. Pure ciò non sem­bra soddisfare totalmente all’equità, perché se coll’oncia d’argento un secolo fa io aveva il doppio delle cose che per la medesima possa avere al presente, chi mi ha prestato allora quell’oncia d’argento ha ceduto il diritto d’avere il doppio delle cose che si hanno adesso. Ora, chi rende, dovendo rimettere il creditore nel pristino diritto, dovrà ren­dergli quanto gli basti per avere il doppio di queste cose: dunque non un’oncia d’argento, o sette e dieci delle nostre lire, ma due oncie d’ar­gento, o quindici lire doveri rendere, onde abbia il diritto del doppio delle cose che con un’oncia d’argento si hanno. Ma la varietà e la mancanza di notizie e la diversa abbondanza delle cose rendono dif­ficile l’esatto computo di quanto giustamente si deve rendere. Sem­bra che per approssimarsi al vero si debba aver riguardo alla quantità di metallo paragonata col prezzo dei generi di prima necessità nel tempo dell’imprestito, perché questi sono i più comuni, i più noti e i meno variabili di tutti nel valore.

Darò qui finalmente un brevissimo cenno delle correnti propor­zioni fra l’oro e l’argento nelle diverse principali nazioni. In Alemagna come 15 1/2 : 1; in Olanda 14 1/5 : 1; in Inghilterra come 15 1/5 : 1; in Francia 14 47/100 : 1; al Giappone 8 : 1; alla China, l’antica europea, 10 : 1; alle Indie Orientali come 11 : 1.

Ciò che mi resta a dire sulle monete appartiene più al cambio ed ai banchi che alla teoria generale, e sarà in breve trattato. Io non ho voluto in tal materia, come in nessun’altra, particolareggiare, non essendo ispezione del professore di Pubblica economia, ma dei ministri e magistrati, di formare i progetti e rappresentare i pubblici disordini.

III. Della circolazione e concorrenza

18. Noi abbiamo riuniti questi due oggetti, perché dovranno bre­vemente essere trattati: sì perché sparsamente e diffusamente ancora dove accadeva ne sono stati esposti i principii e le massime più neces­sarie ed occorrenti, come ancora per la brevità del tempo e la moltiplicità delle materie che ci angustiano.

Visto che sia la moneta e l’uso amplo universale di essa, cioè di esse­re misura generale di ogni valore, si vede subito quanto questa fon­damentale costumanza di contrattare, e questa uniforme maniera di baratti abbia aggiunto di facilità, di sicurezza e per conseguenza di sti­molo ai commerci tutti quanti, e quanto accrescimento ne abbia avuto la circolazione. Questo vocabolo, preso nella sua massima semplicità, è destinato a rappresentare il passaggio che fa un corpo qualunque da un luogo ad un altro, finché ritorni al punto di dove era partito. Applicando agli affari economici questa nozione, diremo una derrata o merce essere in circolazione quando, partendo dal primo possessore o produttore, passa successivamente in altre mani, finché ritorni al primo. Ora, di tutte le derrate e merci intorno alle quali tutta la mole dei commerci s’aggira, altre si consumano ed altre servono all’uso continuo dei nostri bisogni e comodi; la sola moneta come tale non si destina né all’uso né alla consumazione, ma si dà e si riceve come pegno e misura delle cose tutte che si consumano e si usano. Quelle dunque entreranno o sortiranno ad ogni momento dalla circolazione, distruggendosi presso il consumatore, fermandosi presso l’usatore; questa sola potrà continuare a passare per tutte le mani successivamente e ritornare ai primi posseditori. Dunque la sola circolazione della moneta dovrà essere considerata in questo luogo.

Ora, siccome in ogni società economica niente si dà se non per ricevere, niente si riceve se non si è dato, ed ogni contrattazione e baratto suppone due azioni equivalenti o credute tali, ciascuna della quali appartiene rispettivamente a ciascuno dei contrattanti: dunque la circolazione della moneta sarà una fedele rappresentatrice delle azioni che si fanno dai cittadini. Chiunque avrà attentamente considerato la natura del valore esposta nel primo capitolo di questa parte, avrà veduto che un zecchino può, per esempio, rappresentare successivamente una certa quantità di vino, poi una certa quantità di frumento, indi un determinato numero di pelli. Quanto più rapidamente questo zecchino sarà passato per un maggior numero di mani, tanto maggior numero di cose avrà egli misurato e rappresentato. Dunque di un tanto maggior numero di azioni fatte sarà indizio e misura; quanto più lentamente sarà passato per un minor numero di mani, tanto meno di azioni averà rappresentato. Sarà dunque il numero delle azioni dei cittadini in proporzione della quantità di moneta circolante, del numero delle mani per le quali ella passa, e del tempo più breve nel quale fa questi passaggi. Ma se il tempo sarà più breve, supponendo che la moneta non si rinchiuda, ma continui a circolare o almeno a produrre altre azioni, passerà necessariamente in altre mani; dunque quest’ultima considerazione si riduce a quella del passaggio per un maggiore o minor numero di mani, o sia un maggiore o minor numero di rappresentanze.

Ora, noi abbiamo veduto che il rappresentatore universale di ogni valore è l’alimento, o sia la consumazione. Ma questa consumazione essendo continua e contemporanea in molti, ed a questa riducendosi tutte le spese e tutti i baratti che in tutti i commerci si fanno, ogni moneta arriverà infallibilmente o una volta o l’altra, dopo raggiri, a cambiarsi immediatamente con qualche cosa, di cui l’uso è la consu­mazione. Ma se si prendano in massa tutte le consumazioni diverse che si fanno da tutte le diverse classi e condizioni di cittadini, si tro­verà (come accade sempre in tutte le masse grandi, e di graduate e varianti quantità combinate) che, compensandosi il più col meno, trat­tandosi massimamente di soddisfare bisogni d’individui simili e presso a poco costanti, si troverà, dico, a un di presso eguale la giornaliera ed attuale consumazione che in una volta si fa, a tutte le altre combina­zioni giornaliere e di altre volte. Ma in una attuale consumazione la moneta dell’uno non può servire ad un altro, perché combinandosi amendue a consumare nello stesso tempo, è necessario che abbia cia­scuno la moneta che gli dà questo diritto a consumare. Dunque la quantità della moneta circolante sarà proporzionale alla quantità della giornaliera ed attuale consumazione. Quindi, sia detto qui per inci­denza, non è fuor di luogo il sospetto ch’io ho, e che per altro merita più matura considerazione, del potersi sciogliere questo problema; cioè che, data una moneta qualunque e dato il valore rispettivo che ha in due nazioni, si possa conoscere la rispettiva forza e ricchezza di quelle nazioni. Perché se, avuto riguardo alla popolazione e consumazione, paragonerò la quantità di cose che con uno zecchino si possono con­temporaneamente comperare in una nazione A, col numero di cose parimenti contemporaneamente comperate nella nazione B, la forza, la ricchezza, o sia il numero delle azioni o prodotti della nazione A saranno a quelli della nazione B in ragione reciproca di questa quan­tità: cioè più forte la nazione, quanto è minore il numero delle cose che con uno zecchino si hanno, a pari popolazione. Ma lo zecchino si sottodivide in tante monete ultime di rame che unite insieme lo rappresentano, e l’ultima e minima moneta di rame rappresenta il minimo valore di una cosa contrattabile. Quando dunque nelle mone­te di rame non è stata artifiziale la divisione, ella si è fatta secondo il bisogno, cioè si è divisa la misura di universal paragone, finché la quantità assoluta di denaro corrispondesse ai bisogni contemporanei, o sia all’attuale consumazione, e fin dove la rapidità di circolazione in questa supposizione non potesse supplire. Dunque, in questa supposi­zione, il valor numerario tanto maggiore di una stessa moneta indi­cherà altrettanto minor forza, minori azioni e minore circolazione, e così viceversa. Si potrebbero perciò stabilire alcune tavole, nelle quali, colla popolazione e col numero delle cose da una moneta variamente in varie nazioni rappresentate, si verrebbe a conoscere la rispettiva forza delle nazioni. Ma basta avere accennata una tale importantissima speculazione, per chi ama di meditar profondamente in questo ogget­to, il tempo non permettendo di più oltre sviluppare una tale teoria.

Ma, per ritornare ond’eravamo partiti, quando crescerà la massa cir­colante crescerà infallibilmente la consumazione attuale. Supponendo l’abbondanza relativa eguale, e crescendo l’attual consumazione, cre­scerà infallibilmente la massa circolante. Troppo lungo sarebbe, a chi molte altre cose deve dire, il fermarsi maggiormente su tutte le con­siderazioni che per altro meriterebbe questa verità. Riflettasi solamente, in primo luogo, che la circolazione tien luogo di danaro effet­tivo per le cose che non sono di attuale consumazione. Siavi uno che abbia trenta mille monete, e due che abbiano ciascuno quindici milla capi di merci; le trenta milla monete varranno le trenta milla cose. Ma se uno non avesse che 15.000 monete, ei non potrà comperare che i quindici milla capi di merci dell’uno, ma quell’uno, ricevute che aves­se in prezzo delle sue quindici milla cose vendute, le quindici milla monete, potrebbe con queste ricomperar dall’altro gli altri quindici milla pezzi di robba; ed ecco come quindici milla monete, passando per due mani successivamente, sono state equivalenti alle trenta milla monete.

Dunque la quantità del denaro circolante, moltiplicata per il nume­ro delle azioni che va successivamente rappresentando, sarà eguale al valore totale di tutte le azioni e cose prese insieme, se fossero tutte in una volta poste in contrattazione. Dunque uno stato che avesse la metà meno di denaro d’un altro stato, ma che invece facesse far quat­tro giri al suo denaro intanto che l’altro stato ne facesse solamente due, sarebbe egualmente ricco e forte di questo secondo; anzi, se questo doppiamente danaroso non facesse fare alla sua moneta che un movi­mento, mentre l’altro, metà meno danaroso, ne facesse quattro, sareb­be un tale stato colla metà meno di denaro al doppio ricco dell’altro, perché 100.000 monete in un sol contratto rappresentano 100.000 azioni, ma 50.000 in quattro contratti ne rappresentano 200.000. Non è dunque la quantità assoluta del denaro che forma la ricchezza e prosperità d’uno stato, propriamente, ma la rapidità e prontezza del suo movimento. Non sono i segni, ma le azioni rappresentate da questi segni che formano la forza e la felicità de’ cittadini.

19. Le azioni adunque produttive ed utili debbono eccitarsi l’una l’altra, come le ondulazioni d’un fluido messo in moto da qualunque causa impellente; e la quantità dei segni accresciuta in uno stato non è utile perché accresciuto sia il volume e la massa di questi segni, ma perché durante l’accrescimento fanno crescere il numero di questi movimenti, accelerano i già nati, e nuovi ne producono. Lo stesso dicasi della diminuzione, appresso a poco: non è dannosa precisa­mente come diminuzione, ma perché una tale diminuzione rallenta ed estingue il numero delle azioni che si producono nella società, non trovandosi pronto e facile l’accostumato denaro a rappresentare i valori delle diverse cose che entrano in contrattazione, e delle azioni che si producono. Se in proporzione della diminuzione si procurasse di accelerare il movimento del denaro diminuito, o sia si trovasse un mezzo di aumentare la circolazione, nissun danno ne verrebbe dalla diminuzione alla società. Mi rincresce di dover passare troppo rapida­mente sopra una così bella speculazione, ch’io sono costretto di lascia­re alla sagacità e alla meditazione de’ miei uditori.

20. Riflettasi in secondo luogo che quanto si è da noi diffusamen­te spiegato intorno alle cause aumentanti la prosperità delle arti e del­l’agricoltura, ed alle cause che vi si oppongono, dovrà considerarsi come causa acceleratrice o ritardatrice della circolazione, onde non si deve qui ripetere noiosamente.

21. Riflettasi in terzo luogo che la circolazione del denaro si aumenta, e si rende sempre più facile, come la circolazione di tutte le altre derrate, massime nelle grandi distanze. A misura che la moneta è più voluminosa, più difficilmente e meno comodamente divisibile o adattabile a tutti gli generi di contrattazione, il suo trasporto costa tempo e fatica, ed acquista un valore che entra a diminuzione per così dire della di lei forza rappresentativa. Dove il trasporto fosse nullo, ivi tutto il resto delle cose essendo eguali, la circolazione sarebbe massi­ma. Da questa verità alcune importanti luminose conseguenze si dedurranno ben presto: doveasi soltanto qui accennare.

22. Ma ciò che la circolazione in generale più d’ogni altra cosa conduce al massimo punto di velocità, si è la concorrenza nella mas­sima sua estensione, cioè a dire la concorrenza di tutte le cose valuta­bili con tutte rispettivamente: abbiamo già veduto che sia concorren­za in tutto il decorso di queste lezioni; giova solo qui avvertire dover questa esser generale; ed è appunto questa universale concorrenza che aumenta il moto e l’azione, senza la quale giacerebbe tutto nel silen­zio vuoto ed immutabile della morte. Questa è che, rendendo ogni cosa prontamente correspettiva rappresentatrice d’ogni altra, anima l’industria e la speranza d’ogni membro della società. Questa con­correnza dev’esser massima tra le azioni scambievolmente operatrici, non tra le azioni che a nessun risultato finiscono, di cui ne rimanga vestigio ed effetto. Di quelle se ne deve, per quanto è possibile, aumentare il numero all’indefinito; ma di queste dev’esser il limite la rigorosa necessità, e in queste dev’esser impiegato il superfluo che non può in quelle esser adoperato: massima importante non meno per la pubblica che per la privata economia, e la quale forse ancora non infe­licemente alla morale ed alle bell’arti tutte potrebb’essere applicata.

IV. Del commercio

23. Dalla circolazione delle azioni economiche a vicenda producentesi le une le altre, e rappresentata dalla circolazione del denaro, dalla concorrenza di molti a far le medesime cose ed a venderle, e di molti a comperarle o per la consumazione o per l’uso, nasce il commercio, il quale va distinto dalla parola contratti, baratti, ecc., in quanto queste si destinano a rappresentare singolarmente il cambio attuale d’una merce con l’altra, o l’attuale compera o vendita di una determinata cosa o azione, o anche di un determinato diritto a qualche cosa. Ma il commercio è una parola collettiva, destinata a rappresentare la suc­cessiva serie di tutti i contratti che si fanno, sia di tutte le merci, sia d’una classe distinta di quelle. Si suole definire da molti il commercio per il cambio del superfluo col necessario; ma questa definizione non sembra esattissima, perché non sono ben definite le parole troppo generali di superfluo e di necessario, le quali sembreranno chiarissime a chi, saltando dalle parole alle cose, non si ferma giammai a rendersi conto esatto delle proprie idee. Cambiasi spessissimo il superfluo col superfluo; onde, invece della suddetta definizione, un’altra migliore e più adeguata potrebbe sostituirsi, cioè essere il commercio il cambio del non utile, o del meno utile relativamente, con ciò che relativa­mente è più utile, presa questa parola utile nel suo primario e gene­rale significato, cioè di ciò che serve, siano le cose utili e servibili di necessità fisica o morale, o di semplice comodità, o anche di delizia e di piacere.

24. Dividesi parimente il commercio in interno ed esterno; chia­masi interno quel commercio che si fa dentro i confini d’uno stato, esterno quello che si fa cambiando cose qualunque, che siano pro­dotte o manufatte, o almeno rappresentanti un qualche valore o una qualche azione fatta dai membri componenti quello stato, con cosa d’una simile natura d’altri stati. Questa definizione di commercio interno ed esterno, non avendo altro rapporto che a’ confini poli­tici di uno stato, ne ha uno dunque immediato riguardo al sovrano, e ciò in due maniere: al sovrano come sostenitore dei pesi dello stato, ai quali ognuno deve concorrere per mezzo delle proprie azioni o del­l’equivalente di queste azioni, il che con il commercio si ottiene; al sovrano, come distributore giusto ed equabile della pubblica felicità, cioè della felicità di tutti quegl’individui che gli sono soggetti. Ora il commercio non si fa soltanto per cambiare uguali cose con eguali cose, ma cercando di dar meno di ciò che meno serve, per avere quanto più si può di ciò che serve. Egli è vero che il commercio suppone ugua­glianza, cioè stima simile da una parte e dall’altra, la quale stima deter­mina, come abbiamo veduto, il valor delle cose. Ma questa stima varia, secondo le occorrenze, in vari tempi e in vari luoghi. Se dunque con una determinata quantità d’una merce venduta ho comperata una cosa stimata 10, e che questa cosa stimata 10 la rivenda in un tempo ed in un luogo, quando non più 10 ma 12 sia stimata, avrò un profitto di due; sicché ripigliando con queste 12 della medesima cosa nel luogo dove 10 è stimata, potrò averne 11 ed 1/3; e così di mano in mano, per serie, cresceranno questi profitti. Premessa questa nozione, si tro­verà che, riguardando il sovrano come ricevitore ed amministratore dei valori dovuti dai membri d’una società per la conservazione e tutela della medesima, il commercio interno vi avrà rapporto in quan­to esso è l’effetto e nel medesimo tempo lo stimolo alla produzione di tutti i valori, una parte dei quali è dovuta allo stato ed al sovrano. Ma il commercio esterno potendosi fare con profitto, cioè col ricevere per una determinata quantità di valori una molto maggio­re, servirà di stimolo maggiore e più efficace onde aumentarne questa produzione di valori, nel medesimo tempo che facendo acquistare una parte considerabile di questi valori prodotti da’ sudditi di altri stati, i cittadini fanno realmente pagare una porzione del tributo e dei pesi dello stato alle altre nazioni. Riguardando poi il sovrano come distributore della felicità pubblica, il commercio interno vi ha bensì un immediato rapporto come animatore e creatore di produzioni e di opere, ma non come commercio di profitto; perché il profitto di un cittadino è a spese dell’altro, ella è una mano che riceve dall’altra, onde per questo titolo non solleva i membri dello stato. Ma il com­mercio esterno, oltre l’influenza ch’egli ha, simile al commercio inter­no, di animare e stimolare alla produzione di nuovi valori, ha l’altra considerabile come commercio di profitto, perché i profitti del com­mercio esterno sono in vantaggio dei cittadini a spese dei non citta­dini, onde cresce la somma dei valori per i membri dello stato, senza la perdita di nessuno dei membri dello stato medesimo.

25. L’accrescimento del denaro in uno stato anima l’industria e l’attività dei cittadini, come abbiamo già indicato; ma questo denaro già accresciuto non ha più influenza alcuna sull’industria medesima, se non in quanto, sottratto per qualche circostanza dalla nazione, vi ritornasse per una qualche altra; perché allora, mentre ritorna ad aumentare la massa circolante, trovando ciascuno maggior facilità e maggior copia di denaro più dell’usato guadagnata, raddoppia le sue fatiche e la sua diligenza. Oltre di ciò il denaro, accresciuto di trop­po, fa diminuire e perdere il commercio esterno: perché l’aumentato volume dei segni indica l’abbondanza del denaro, e per conseguenza l’avvilimento del suo prezzo. Un minor numero di segni, che la stes­sa merce rappresenti, indica minore abbondanza, e perciò maggiore stima di quello. Quelli dunque che averanno denaro, procureranno di spenderlo dove è in maggior stima, cioè dove vale di più, o sia ottie­ne più cose, che dove è in minore stima, vale meno e meno cose ottie­ne; onde, ad eguale bontà di mercanzie, saranno preferite le nazioni più povere di denaro alle più ricche. Onde una nazione che averà una massa circolante più considerabile, supposta eguale bontà e quantità di prodotti, perderà, nella concorrenza con quella che abbia una minor massa circolante.

Da tutto ciò si può comprendere di quanta importanza sia l’au­mento e la conservazione del commercio esterno, non solo per l’uti­le aumento di denaro entrato, ma ancora per il non meno utile, e tal­volta indispensabile, sfogo di denaro uscito; e quanto inopportuna sia l’impossibile idea di coloro che vorrebbero che una nazione conten­ta di se stessa facesse di meno di tutte le altre, ed in una beata e tota­le indipendenza tutta in se medesima e nei confini suoi si concentrasse. Il commercio esterno egli è quello che, togliendo gli uomini dall’infeconda uniformità, gli spinge al moto ed al cangiamento, al quale moto e cangiamento per legge inesorabile di natura sta fissa la perpetuità e la durazione delle cose, il benessere e la perfettibilità degl’individui.

26. Si divide il commercio esterno in commercio di produzioni ed in commercio di economia. Il commercio di produzioni è quello che si fa o colle derrate cresciute nello stato, o colle cose parimenti fab­bricatevi. Il commercio di economia è o di trasporto o di rivendita, ed è quello che si fa per mezzo delle produzioni e manifatture d’altri stati, andando a comperarle ne’ luoghi della loro origine, indi portar­le e rivenderle alle altre nazioni, profittando sui trasporti e sulla rivendita.

27. In generale, se il prezzo, cioè il danaro rappresentante la somma delle cose vendute, è maggiore del prezzo, cioè del danaro rappresen­tante la somma delle cose comperate, dicesi che la nazione abbia un commercio attivo. Se il prezzo della somma delle cose comperate sia maggiore del prezzo della somma delle cose vendute, dicesi che la nazione faccia un commercio passivo. Se questi due prezzi sono eguali e si compensino tra di loro, dicesi che la nazione è in bilancio. Ma in qual maniera una nazione può ella mai comperare per lungo tempo di più di quello ch’ella venda, cosicché ella faccia escire e con­sumi tutto il denaro ricavato, e ne debba di più: se niente v’è di gra­tuito in questo mondo, e se ogni contratto è qualche cosa per qualche cosa? Rispondo che certamente non per lungo tempo, né continua­mente, ma per qualche tempo può il prezzo delle compere eccedere il prezzo delle vendite, perché tutto il denaro che esiste in una nazio­ne non è perciò tutto in circolazione. Dunque il denaro, che morto e inattivo giace nelle mani dei particolari, può per qualche tempo sup­plire a pagare l’eccesso delle compere sulle vendite, al quale non è potente di soddisfare il danaro circolante; ma, quello finito, doveri senza dubbio scemare ben presto la possibilità di comperare di più di quello che si vende, anzi sminuirà la quantità del denaro medesimo che è in circolazione. Se le cose comperate siano di quelle di uso con­tinuo e comune, escirà una parte del denaro circolante che sarebbe destinata alla riproduzione delle cose che si vendono, onde scemeran­no le azioni utili e produttive delle cose che si vendono, ed anche il commercio interno doverà indebolirsi. Ma nel medesimo tempo, sce­mata la quantità del denaro, si abbassa il prezzo delle cose tutte che si vendevano prima, quando maggior copia di moneta era in circolo a più alto prezzo, onde per questo capo ritornerà la nazione impoverita a riguadagnare ed a rimettersi da se medesima in bilancio con vendite più frequenti. Onde, chi ben considera le nazioni che hanno un con­tinuo commercio ed una aperta communicazione tra di loro, e un incessante andare e venire di cose, non possono mai ridursi ad uno stato continuamente passivo l’una rispettivamente all’altra, ma bensì tendono continuamente all’equilibrio. Una di queste nazioni perde per alcuni anni, ma riprende e guadagna per alcuni altri il già perdu­to.

Sono dunque fallaci tutti quei disperati calcoli che da alcuni auto­ri si fanno, che rappresentano nazioni europee come in uno stato di stabile e continua passività, rispetto alla somma totale di tutti i loro commerci. Questi calcoli, con qualunque grande apparato di diligen­za e di esattezza possano esser fatti, non possono a meno d’esser falla­ci, ogni qual volta per necessaria conseguenza ne risultasse una lunga e continua perdita, ma possono bensì esser utili o veridici, qualora le conseguenze necessarie siano solamente per la perdita che fa una nazione su tali particolari articoli di merci e per tempi limitati. Si potrebbe a mio parere dimostrare con geometrico rigore che ogni nazione, finché non scemi o cresca la somma delle sue azioni valuta­bili, non è attiva né passiva, ma in bilancio, e che, malgrado tutti i calcoli troppo incerti e su dati troppo inesatti necessariamente com­putati, questo è lo stato di quasi tutte le nazioni europee durante inter­valli lunghi e sensibili di tempo; e che non si altera per qualche tempo questo stato di bilancio e di equilibrio di ciascuna nazione, se non quando realmente cresca o scemi la somma delle azioni produttive, non la somma dei puri cambi e contratti. Ma un tale paradosso per molti mi porterebbe in una discussione troppo oziosa e speculativa, e troppo aspra e lunga, perché io debba fermarmi più oltre sopra di ciò.

28. È dunque utilissimo il sapere la bilancia del commercio di una nazione, cioè l’indagare di tempo in tempo lo stato delle vendite e compere che si fanno dai nazionali cogli esteri. Se una nazione perde attualmente, non si deve per ciò lasciarla correre da se stessa al ristabi­limento, quantunque infallibile, perché lo ristabilimento non nasce talvolta se non collo scemamento delle azioni produttive. Il metodo per fare quest’esatta bilancia di commercio è una operazione assai complicata e laboriosa. Dipende principalmente la maggiore di lei esattezza dai registri delle dogane più o meno bene tenuti, perché, se in questi siano confuse l’entrata e l’uscita delle merci, né bene indica­to il luogo donde le merci vengono e dove sono inviate, i risultati riterranno l’incertezza e la confusione della loro origine, e sarà perduta la principale utilità di questa operazione, la quale non consiste nel sapere astrattamente quanto nel totale perda e guadagni la nazio­ne, ma piuttosto verso qual parte e con quali merci ella perda, e verso qual altra e con quali altre guadagni, onde incoraggire tal sorte d’in­dustria e frenare tal altro rovinoso commercio.

La mole di questi registri è numerosa, ma lo spirito d’ordine e il prendere le cose da quel punto di vista chiaro, che le cose tutte hanno ed hanno in un sol modo, sono capaci di condurre a fine ogni vasta impresa. Ciò che è inevitabile si è che i registri della dogana non segnano tutte le merci; perché quelle che sono esenti dalla gabella non sono soggette al registro, e quelle che lo sono, non possono esserlo interamente ed adequatamente alla somma tutta del commercio, per il contrabbando, il quale cresce in proporzione del peso della gabella, della piccolezza del volume, della vicinanza del centro del commer­cio ai confini, della complicata corruttibile esattezza dei custodi: quantità tutte, che siccome rendono quasi incalcolabile la quantità del contrabbando su d’ogni merce particolare, così renderanno più o meno erroneo il bilancio totale e particolare per ciò che risulta dai registri delle dogane. Per quelle merci poi che da questi registri non possono sapersi, altra strada non vi sarebbe che il metodo delle notificazioni che si possono esigere dai particolari commercianti: metodo egualmente fallace, perché, ingelosendo per lo più gl’interessati, essi notificano sempre meno del vero. Egli però è da osservarsi che, sia nel commercio d’entrata, come in quello di uscita, essendo eguale gelosia a nascondere la verità, e dall’altra parte osservando gli uomini da cui si esige rendimento di conti, anche nella menzogna, una certa pro­porzione al verosimile ed alle apparenze conosciute, si possono que­sti errori nel confronto delle partite di uscita con quelle d’entrata ricompensare. Ma il voler sapere esattamente tutto il vero della fac­cenda suppone nelle dogane e nelle leggi mercantili tutte quante una severità ed un apparecchio spaventevole di lente formalità, che offen­dono ed aggravano di troppo la delicatissima natura del commercio, e la sdegnosa industria rallentano ed estinguono.

L’operazione continuata però per molti, anzi per tutti gli anni, con quella esattezza che può combinarsi colla dolcezza che si vuole sem­pre avere nel reggere le cose di traffico, tutte sull’interesse privato e timoroso degli uomini appoggiate, conduce ad utilissime cognizioni. In generale però si può sapere se una nazione faccia commercio atti­vo o passivo, cioè, per parlare con precisione, se cresca la somma dei suoi prodotti, ovvero scemi, da’ quattro seguenti indizi che contem­poraneamente si verifichino. Sarà dunque segno di prosperità e di aumento della somma dei prodotti di una nazione, cioè di vero com­mercio attivo, quando nel medesimo tempo: primo, crescerà la popo­lazione; secondo, prospererà l’agricoltura, sia in intensione come in estensione; terzo, scemeranno gl’interessi del denaro; quarto, si alzerà il prezzo delle cose tutte. Averei scritto inutilmente sin qui se agli occhi di ognuno non saltasse immediatamente come queste quattro condizioni non possono verificarsi simultaneamente in una nazione, se questa non prosperi o non aumenti il suo profitto sopra le altre nazioni, ma con una maggiore estensione di commerci; perché la popolazione accresciuta indica maggiori prezzi di consumazione, l’au­mento dell’agricoltura indica il maggiore aumento, uso ed esito delle materie prime, l’abbassamento degl’interessi del denaro indica un maggior numero di danarosi ed aventi un superfluo da impiegare, ed un minor numero di bisognosi d’imprestito, e perciò aventi una mag­gior forza originaria e reale; mentre l’incaramento delle cose tutte, combinato con questi primi tre fenomeni, non può nascere che dall’aumentata copia di denaro e dall’aumentata circolazione; il che non può nascere, nel presente caso, dal puro commercio interno, ma dall’aumentato spaccio e profitto al di fuori, che solamente potevano fare questo cambiamento in tutte queste dipendenze dell’economia inter­na d’uno stato.

Dunque, con pari ragionamento, sminuendo la popolazione, ral­lentandosi l’agricoltura, alzandosi gli interessi del denaro, abbassando­si il prezzo delle cose, sarà un segno infallibile che la somma dei pro­dotti e di azioni d’una nazione, rispetto a quelle con cui era ed è in attuale commercio, sia scemata e diminuita; onde farà un commercio passivo fino all’indispensabile equilibrio, a cui necessariamente deve in seguito mettersi.

29. Noi abbiamo distinto due specie di commercio: commercio di produzioni, il qual consiste in materie prime e in manifatture; com­mercio di economia, il quale consiste nel trasporto delle produzioni e nella compera e rivendita di queste produzioni. Per riguardo al primo commercio, di cui solo parliamo per ora, e che è il più comune ed il più universale, e nel medesimo tempo il più durevole e desiderabile, egli è facile il vedere come fiorisca e come aumenti, come soffra lan­guore e diminuzione; perché in tutti questi Elementi avendo diffusa­mente annoverate le cause tutte per le quali aumentansi e diminuisconsi le produzioni delle materie prime, crescono e scemano le opere della mano degli uomini, quelle saranno tutte di prospero e grande, o di piccolo ed infelice commercio.

30. Solamente, dunque, restringendo sotto un sol punto di vista quanto nei trattati d’agricoltura e delle manifatture si è partitamente divisato, diremo che per quattro mezzi principali si aumenta il com­mercio d’una nazione, cioè cresce la somma delle utili azioni.

Primo, per la massima concorrenza sia dei compratori come dei venditori, sian pure nazionali o esteri come si voglia; e questa si ottie­ne col maggior grado di libertà a tutti di fare quel commercio che più piace, non limitata che da quella disciplina che piuttosto aumenta a ciascuno il potere di ben fare, e toglie quello di far male altrui ed alla società. Questa concorrenza da sé sola fa nascere i commerci utili veramente allo stato, cioè alla maggior parte, e da sé sola distrugge ed annienta quelli che sono dannosi allo stato medesimo, ed al minor numero soltanto proficui; e distruggendo per legge di continuità ogni salto dal basso all’alto valore, impedisce il temuto monopolio, che in pochi ristringe l’industria ed il premio di quella. Secondo mezzo si è il basso prezzo della man d’opera, il qual basso prezzo nasce e dalla concorrenza medesima, e dal togliere i mezzi di vivere oziosamente agl’infingardi, e col libero commercio interno delle derrate, che nasce dalla concorrenza e dalla libertà, onde ogni opera nel minor tempo possibile e dalle più poche mani che si può venga fatta; cosicché il risparmio di mani in un’opera aumenta la varietà ed il numero di altre fattibili opere in uno stato. Il terzo consiste nella massima facilità dei trasporti, il che da’ canali, dalle strade solide e sicure, dagli alberghi ben provveduti, dal facile noleggiamento de’ carri e bestie da traspor­to si ottiene. Il quarto mezzo finalmente consiste nei bassi interessi del denaro. Questi bassi interessi nascono pure dalla concorrenza e libertà del commercio, e perciò dall’ampiezza di esso, dalla libertà del commercio delle derrate, e perciò da quell’altezza dei generi che nascono dalla concorrenza e dalla libertà medesima, dall’esser quasi tutte le terre d’uno stato coltivate, e ben coltivate; il quale essere bene coltivate nasce pure dalla libertà, e dall’esser queste in molte mani e non in poche distribuite; il quale pure nasce da un’altra libertà. I bassi interessi del denaro facilitano gl’imprestiti, ed aumentano lo stimolo a render molto fruttifero quel medesimo capitale, che, dando per un sol movimento un piccolo profitto, sforza il commerciante a non riposarsi, finché non abbia fatto fare al proprio capitale tanti movi­menti, cioè non abbia egli moltiplicate tante azioni utili, che equi­valgano a un gran profitto e ad un alto interesse, che nel medesimo tempo in una sola volta altrove si potrebbe ottenere.

V. Del lusso

31. Da tutta la mole de’ commerci, dal ristringersi le terre in un minor numero di mani, dall’accumularsi grossi capitali presso alcuni, dalla disuguaglianza in somma delle ricchezze nacque negli uomini una differente maniera di servirsene; imperciocché una gran parte di essi appena ha tanto di che protrarre una laboriosa vita, e la squal­lida famigliuola nell’umile oscurità senza invidia alimentare. Molti posson viver più largamente, e godere di un certo agio e di un certo comodo, ed anche di ostentare altrui e di rendersi osservabili per una succinta pulizia e per un’ombra di potere, col quale tacitamente gli altri più poveri minacciano e padroneggiano. Alcuni poi abbondano totalmente di mezzi onde i comodi e i piaceri tutti della vita procac­ciarsi, che, assorbita facilmente e stanca la facoltà limitata che ha cia­scuno di godere e di sentire, sono costretti per vanità e per fasto di render partecipi altrui del loro potere e dei mezzi che hanno d’acqui­starsi un gran numero di piaceri; onde lo splendore del ricco e la superba di lui liberalità non diferiscono dalla compassionevole ed opportuna beneficenza, se non per la differenza dei motivi e il poco discernimento con cui impiega i suoi doni e dissipa i suoi tesori.

Ho voluto tessere questa diceria per descrivervi che sia lusso, e cosa s’intenda dagli uomini per questa parola presso a poco. Dico pres­so a poco, perché è difficile il dare una definizione precisa di un ter­mine, del quale le idee che racchiude variano moltissimo presso gli uomini, secondo le differenti condizioni in cui essi sono, e i differen­ti gradi di coltura con cui vivono. Chiameremo noi lusso ogni spesa che sia al di là del necessario? Ma in che consiste questo necessario? È egli l’ultimo estremo con cui l’uomo possa vivere semplicemente, o l’ultimo estremo soltanto con cui possa vivere senza dolore? Ma ciò varia secondo la diversa educazione e i diversi temperamenti degli uomini. Chiamerassi lusso ciò che serve a farci fuggire il dolore, o sol­tanto ciò che ci procura piacere? Ma dove finisce il dolore, dove comincia il piacere? L’esser privi d’un piacere è per moltissimi un grandissimo dolore. A taluni il non essere rilucenti d’oro cagiona una cupa afflizione; non sarebbe lusso per questi una tal maniera di vestir­si. Dirassi allora lusso ogni spesa al di sopra della condizione in cui l’uomo è posto? Ma chi ha mai fissati i limiti che separano queste con­dizioni, e potrà mai assegnare che tali spese sono della condizione del cittadino, e tali della condizione del gentiluomo? Lungo e superfluo sarebbe il qui dare le definizioni tutte, che date si sono della parola lusso; perché con questo nome chi ha voluto una nozione complessa significare, chi un’altra; onde le questioni sono nate, se il lusso sia utile o dannoso agli stati nella politica e nella morale; se alla felicità dell’uomo contribuisca o veramente all’infelicità. Nostro istituto non è d’ingolfarci in simili ricerche, ma bensì fissare con esattezza che si debba intendere per lusso economicamente, e quale influenza abbia sull’economia degli stati questa maniera di vivere e di spendere degli uomini chiamata lusso.

Per ben definire il lusso, bisogna prendere soltanto le idee che non variano fra tante che si aggiungono a questa nozione. Premetteremo dunque, in grazia di questa definizione, che vi sono dolori, per fuggire i quali è necessario porre il piacere, la privazione del quale piace­re è appunto il dolore che si sente. Vi sono dei dolori per togliere i quali basta allontanare la causa dolorifica; quantunque nell’allontanare un tal dolore sentiamo piacere, allontanato però ch’egli sia, non si sente più piacere alcuno. Cacciata ch’io abbia la fame, che è un dolo­re di questo secondo genere, con qualunque cibo, non sento più pia­cere alcuno; ed il dolore che dalla fame risulta, non nasce dalla con­siderazione che io sia privo d’un cibo piuttosto che d’un altro, ma da una impressione indipendente dalla natura e situazione delle nostre idee. Che se io ho avuto desiderio d’un tal cibo piuttosto che di un tal altro, e di cui la privazione mi dispiaccia, questo è un dolore del primo genere, per guarire del quale non posso far altro che cercare del cibo, e darmi quello o un equivalente piacere per guarire da quel dolore, ovvero da savio e moderato vincere la mia inquietudine.

Finalmente premetteremo che la causa impellente ed immediata d’ogni nostra azione si è il dolore, perché non agiremo giammai, anche in vista d’un piacere o di un utile grandissimo, se prima non nasce in noi una inquietudine, prodotta da quel piacere o da quell’u­tile, che vivamente si presenta all’animo, e ci cagiona un dolore ana­logo a tutti gli altri dolori. Appartiene alla scienza dell’anima, e non all’economia pubblica, l’estendersi in questa verità, e svilupparne tutte le conseguenze e tutti i di lei aspetti: basta averla sufficientemente accennata, e che sia sufficientemente sentita da chi, esaminando atten­tamente se stesso, troverà di non avere mai agito se non per isfuggire un dolore, e la libertà medesima proverà consistere nel potere un uomo eccitare in se stesso, quando il voglia, inquietudini contrarie a quelle che lo potevano condurre al male.

Onde, tutto ciò premesso, definiremo il lusso ogni spesa che si fa per togliere i dolori, che sono una privazione dei piaceri; nella quale definizione s’involve necessariamente l’idea di porre un piacere che duri anche dopo tolto il dolore che c’inquieta, o almeno oltre il fine di liberarci dal dolore medesimo. Chi si cruccia di non avere un tal cibo si cruccia non solo di non cacciarsi la fame, ma ancora di non gustare un tal sapore, mentre qualunque non nauseoso cibo basta a chi cerca solo di sfamarsi.

32. Da questa definizione risulta, in primo luogo, che il lusso è di tutte le condizioni e di tutti i tempi fra li uomini sociabili: perché in tutti i tempi e in tutte le condizioni essendo avvezzi gli uomini, dalle scambievoli relazioni e dai reciproci aiuti, non solamente a soddisfare i bisogni, ma eziandio a soddisfarli piacevolmente e comodamente, e ciascuno osservando che tanto più piacevolmente e comodamente vivea, quanto maggior numero dei suoi simili poteva indurre a pro­curargli questi comodi e piaceri, e che ciò più facilmente e più fre­quentemente otteneva, quanto più sopra gli altri poteva rendersi osservabile e distinto; nacque negli uomini il bisogno dei piaceri, o sia l’indeterminato sentimento di privazione, o sia la noia, e la voglia di distinguersi, o sia la vanità, che sono le due sorgenti del lusso, come appare dalla definizione data.

Data la società, vi saranno infallibilmente noia e vanità negli uomi­ni, perché sono conseguenze infallibili delle relazioni che nascono fra quelli che contrattano fra di loro. Dunque vi sarà sempre lusso, preso nell’esteso suo significato. E in fatti, chi considera in grande ed in esteso la natura umana tutta quanta, troverà fra i selvaggi medesimi impresse profondamente queste due qualità dell’animo nostro, cioè il bisogno dei piaceri, nell’avidità con cui si avventano ai liquori ine­brianti, coi quali la politica europea li lusinga e li captiva; nella mol­titudine delle loro feste e delle loro danze guerriere, e in tutto l’ap­parecchio complicato di lunghe e solenni cerimonie, che fanno essi pure (che noi crediamo così vicini alla rozza e semplice natura, e così lontani dalle arti ed istituzioni nostre) nei loro funerali, nelle nozze ed in tutte le epoche singolari della vita umana. La voglia poi di distin­guersi è evidente in loro, a chi considera quant’oro e quante gemme gregge e rozze abbiamo loro carpito dalle mani per poche filze di coralli, per poche chincaglierie di vetri colorati, e in quanto pregio siano presso gli affricani, e quanto superbi li facciano andare – essi che seminudi vanno quasi sempre – uno sdrucito cappello ed una rappezzata sopravveste, misero rifiuto d’un europeo, cambiata con oro e con uomini, e della quale i loro monarchi e i grandi fanno gala nei giorni solenni e nelle udienze le più maestose. I più poveri poi, che non hanno una fortuna grandiosa, si contentano, per comparire e distinguersi, d’infiorarsi e cauterizzarsi la pelle, onde rendersi fra gli altri osservabili per una pelle nobile e perpetuamente signorile. E chi, fra quelle antiche repubbliche, così vantate per la povertà e frugalità loro, volesse il lusso ricercare, ve lo troverebbe senza dubbio, checché ne dicano alcuni. In Isparta medesima, in quella Sparta ove Licurgo introdusse un misto di militare e monastica disciplina, eravi e il biso­gno dei piaceri e la voglia di distinguersi, ma e l’uno e l’altra erano talmente amalgamati colla costituzione politica, che tutto era utile e virtù pubblica, almeno secondo ciò che la non critica storia degli anti­chi ci ha tramandato, invece che tal altro lusso in altre costituzioni può essere dannoso. Si annoiavano i lacedemoni, ma della pace e della sicurezza, e voleano sentire le scosse del rischio e del tumulto. Il suono della lode era lor grato e soave; e per lo più lo era, quando usci­va confuso ed avvolto di mezzo allo scroscio delle lance ed alle spade, e misto dei gemiti lamentevoli dei vinti e prigionieri nemici. Io credo che ognuno di quei sobri e severi lacedemoni sorridesse fie­ramente nel trovarsi circondato di ferro e pesante sotto l’armi, e le più belle e più minacciose ricercasse con molti sforzi; e le donne loro, che indurivano l’animo a resistere alle molte impressioni della natura e del sangue, l’inalienabile loro vanità impiegassero in quei severi abbiglia­menti, che si avvicinassero al vigore ed alla robustezza maschile. Da ciò si può vedere che chi volesse schiantare il lusso da una nazione, farebbe lo stesso progetto che chi volesse distruggere alcuna delle facoltà inerenti all’uomo; e che questo lusso può essere egualmente dannoso che utile, secondo che combina o si oppone, o più tosto risulta dalle circostanze e dalle leggi d’uno stato, buone o cattive.

Il dolore dunque che nasce dalla privazione dei piaceri, fa nascere l’amor dei comodi e l’avidità delle sensazioni aggradevoli, che lusin­ghino o solletichino l’inoperosa nostra esistenza; fa nascere di poi la sollecita ed inquieta voglia di distinguersi, e tutte le minuzie della vanità, onde rendersi gli uomini propizi e servizievoli. Due sorti di lusso vanno principalmente distinte, cioè due maniere di fuggire il dolore che nasce dalla privazione del piacere. Perché io posso e sce­gliere piaceri e comodi, e cercare di distinguermi con azioni che non siano in alcuna maniera produttive ed operative su qualche soggetto, o, più generalmente, che non suppongono cambi di qualche cosa con qualche cosa, ovvero che suppongono cambio. Può chiamarsi la prima specie lusso di azioni, o sia morale e politico, ed a queste scien­ze appartiene l’esaminarne la natura e l’influenza. La seconda specie può chiamarsi lusso di contratti, o sia economico, del quale succinta­mente si debbono qui esporre le massime relative.

33. Amendue queste sorte di lusso si dividono ciascuna in lusso di comodo e in lusso d’ostentazione; ma noi, fermandoci al lusso eco­nomico, divideremo le spese di lusso in quelle che cambiano prodot­ti con prodotti, o prodotti con azioni, verbigrazia servizi personali, gran numero di livree, ecc. Vede ognuno che quelle specie di lusso che cambiano prodotti con prodotti, essere di gran lunga più utili di quelle che cambiano prodotti con azioni, e che anzi queste possono essere dannose, in quanto le persone impiegate ad esercitar queste azioni possono esercitarsi a produrre e a formare prodotti, perché sian comodi all’uso di tutti. Ma questo danno non sarà reale nelle nazio­ni, se non allora, quando manchino le braccia alle terre ed alle arti, e queste non mancheranno se non quando il commercio delle derrate e manifatture sia incagliato; perché, coltivate le terre al sommo grado, fiorenti essendo le arti alla massima concorrenza, cioè per ambidue alla massima libertà possibile, il contratto di lusso di prodotto con azione, oltrecché ne scemerà il numero in paragone dei contratti di lusso di prodotti con prodotti, può farsi senza danno, perché colui che ha ricevuto il prezzo di questa sua azione, lo cambierà con qualche altro prodotto. Da ciò si vede uno degli effetti mirabili della circola­zione, la quale fa in modo che anche le azioni inutili non cagionino perdita né di tempo, né di produzioni nella società, a misura che que­sta circolazione è più rapida e più estesa; anzi fa in modo che le mede­sime azioni, inutili e viziose in altre circostanze, producano l’ottimo effetto della concorrenza dei compratori in favore dei venditori delle cose consumabili, onde, restandone alto il prezzo, la ricchezza origi­naria ed unica della terra in vigore si mantiene.

34. Ora le spese, qualunque esse siano, che cambiano prodotti con prodotti, saranno più utili allo stato facendosi con prodotti del mede­simo paese cambiati fra di loro, perché, supponendo equipollente il valore d’una cosa cambiata con un’altra, amendue queste cose rappre­senteranno travaglio ed alimento circolante nello stato, al doppio di quelle che rappresentino cose che si cambino per un prodotto fore­stiero; perché il prodotto forestiero suppone la metà, o almeno una parte proporzionale al prezzo del travaglio e degli alimenti eccitati al di fuori. Dunque il cambio delle derrate colle manifatture nazionali sarà più utile che con manifatture forestiere, e il cambio delle mede­sime con manifatture più immediatamente vicine all’alimento, cioè soddisfacenti ai comodi più estesi e comuni, più utile di quelle che soddisfano ai più raffinati. Ma qui giova considerare che le spese di lusso sono proporzionali alla disuguaglianza dei beni e delle condizioni. Perciò, in primo luogo, diremo che a misura che i beni sono in poche mani ristretti, l’influenza delle spese fatte dai posseditori di questi beni si va ristringendo, perché, a misura che il prodotto parte da più pochi, ogni operazione che attrae a sé una parte di questo pro­dotto non può essere che in conseguenza di un’altra, e questa di una altra, fino a tutto dipendere dai primi e pochi posseditori; onde tutto si rissentirà della necessaria limitatezza dell’origine, quantunque gran­di si vogliano supporre le spese di questi pochi. A misura poi che que­sti posseditori di beni si moltiplicano, l’influenza del lusso si allarga più immediatamente, perché crescono le temporanee ed indipenden­ti spese che si fanno da molti possessori, onde, nel tempo che passa dalla produzione alla riproduzione, nel primo caso si faranno da un minor numero di cittadini un minor numero d’azioni di quello che nel secondo; onde, anche per conseguenza, i prodotti stessi, quando il commercio al di fuori sia stretto e ritenuto, averanno minor buon valore.

Dirassi qui: se tutte le terre fossero divise a tutti ugualmente, sce­merebbero le opere d’altrettanto di quello che se le terre fossero tutte nelle mani d’un solo. Rispondo che non occorre qui esaminare quan­to ciò sia vero; ma, in primo luogo, questa eguale distribuzione di terre è una cosa impossibile, come abbiamo già nella seconda parte dimo­strato; in secondo luogo che, trovandosi eguali gli effetti di queste due estreme cagioni, ciò potrebbe condurci (se io non temessi di abu­sare del tempo e dell’obbligo che mi corre di non perdermi troppo in teorie troppo recondite) a ricercare qual sarebbe la distribuzione delle terre che producesse il massimo numero di azioni utili e produttive, o sia qual proporzione debba correre tra il numero dei proprietari delle terre e il numero degli altri abitanti d’una nazione, supposti tutti industriosi ed operai in qualche maniera. Basta accennar qui di pas­saggio che la soluzione del problema dovrebbe apparentemente coin­cidere in ciò, che tanti dovrebbero essere i posseditori di terre quan­ti bastino perché misurino e stiano tante volte nel numero di tutti gli abitanti, quante il prodotto di tutte queste terre può entrare a misu­rare il massimo numero di tutti i travagli, non che si fanno, ma che si potrebbero fare da una riproduzione all’altra; e che da se stessa acco­standosi la terra alla massima produzione, si accosterà alla miglior distribuzione. Ma tutto ciò non è opportuno al nostro scopo ed ai limiti d’una istituzione elementare.

Per lo che, ristringendoci alle più ovvie verità che intorno al lusso ci restano ad esporre, diremo in secondo luogo che le condizioni degli uomini essendo divise con molta disuguaglianza e quasi, direi, per salti, di maniera che il rango e la condizione essendo misurati non dalla quantità de’ beni soltanto, ma eziandio dalla qualità, nascita ed altre relazioni politiche delle persone, l’educazione, le passioni, le abi­tudini variano, non tanto in ragione dei beni di fortuna di ciaschedu­no, ma ancora della situazione in cui è posto; per conseguenza osser­vabile fenomeno si è che il lusso d’una persona è tanto più grande, quanto è maggiore la differenza che passa tra la condizione di chi è immediatamente al di sopra di lei, e di chi è immediatamente al di sotto; perché la voglia di distinguersi, e la scelta dei piaceri per rap­porto a noi viene nell’animo nostro, imitatore, e sedotto dagli esempi, determinata dal paragone che noi facciamo delle situazioni differenti de’ nostri concittadini. Ora, quelli che sono a qualche distanza elevati sopra di noi o abbassati al di sotto, non ci feriscono così immediata­mente l’imaginazione, né siamo interessati ad esaminarli, perché non entrano se non rade volte nella sfera della nostra attività, come coloro che sono immediatamente al di sopra e al di sotto; onde ci sforziamo di eguagliare la apparente felicità degli uni, e di innalzarci al di sopra degli altri. Perciò, dirette che siano le prime classi dei cittadini verso le spese di lusso più conformi al vantaggio economico d’uno stato, tutte le altre classi, per un retrogrado movimento, andranno coll’esempio solo uniformandosi alle prime mosse e direzioni.

35. Dalle cose fin qui dette sarebbe abusare del tempo il più oltre minutamente insistere e ad una per una esaminare la bontà e il danno che all’economico degli stati derivano da tutte le diverse spese di lusso. Solo giova qui fermarci un momento ad esaminare se le pram­matiche che una avara malinconia di molti amerebbe d’introdurre, non siano anzi direttamente opposte al fine per il quale si desidere­rebbero. La ricchezza degli stati non nasce realmente che dalla fatica degli individui; la fatica degli individui bisogna appagarla; non si determinano gli uomini a fare questi pagamenti, se non per conver­tirli in mezzi di godere ciò che più gli soddisfa. Di più, l’uomo non fatica, se non in proporzione dell’utile immediato che spera da quel­la provenirne; gli utili di questa fatica sono somministrati dalle spese dei ricchi, ossia di quelli che posseggono al di là del necessario fisico. Quanto le prammatiche eseguite saranno maggiori, tanto minori saranno le spese di questi ricchi, o siano gli utili di queste fatiche; tanto minori saranno i mezzi di convertire i pagamenti in soddisfazioni. Dunque le fatiche medesime e le spese sulla terra sminuiranno, e per conseguenza le produzioni; dunque sarà sminuita quella ricchezza, per conservare ed accrescere la quale si dimandano le prammatiche. Quindi a togliere sensibilmente e generalmente le spese perniciose, il che basta al fine economico degli stati, basterà l’esempio che le prime classi dipendenti dal sovrano possono dare; basterà la libertà del com­mercio, che farà rivolgere una gran parte delle spese sterili in spese utili.

VI. Degl’interessi del denaro

Brevissimo sarà questo capitolo, perché noi in più luoghi di queste lezioni abbiamo parlato degl’interessi del denaro, onde solo qui gio­verà toccare alcuni sommi capi che non si doveano omettere.

36. E in primo luogo diremo che la parola interesse significa gene­ralmente una relazione che passa tra una cosa, o oggetto qualunque, ed una persona, come atta a ricevere una utilità qualunque da quella. Ma, prendendo questa parola più strettamente, ella significa quell’uti­lità che nasce da una cosa qualunque, frattanto che la medesima o il diritto di quella si conserva presso il proprio padrone. Ogni cosa è atta a produrre questa utilità; onde ogni cosa ha il suo interesse proprio e naturale. È bene di sviluppare questa proposizione. L’interesse della terra, fonte primaria d’ogni ricchezza, è la costante e periodica sua riproduzione; gli interessi delle fatiche sono i salari che da quelle si ricevono; gl’interessi delle azioni personali, dei servizi, degli studi, ecc., sono le ricompense e le paghe; gl’interessi dei manifattori sono i guadagni che fanno sull’esito della manifattura, dedotte le spese, ecc. L’interesse dell’industria è tutto il profitto che si cava dall’industria medesima, finché il negoziante o l’industrioso conserva il diritto o il mezzo d’impiegarvela. Il denaro è la misura de’ valori di tutte queste cose, terre, fatiche, azioni, manifatture, commerci d’industria; dunque gl’interessi del denaro saranno le utilità che possono nascere da que­sto denaro come rappresentante qualcheduno di questi valori, che le sue rispettive utilità produce.

Ma, come abbiamo veduto, l’alimento è la misura comune di tutti questi valori, ed il lor vero ed universale rappresentante; l’alimento è l’utilità misuratrice di tutte le altre utilità, e questa utilità nasce dalla terra. Dunque ogni somma di denaro rappresenta e può rappresentare una qualche porzione di terra, e l’interesse di questo denaro rappre­senterà il frutto annuo, o sia la periodica riproduzione di queste terre, e varierà colla variazione di questi prodotti, e l’interesse medio sarà il prodotto medio. Questo adunque è il vero e legittimo interesse del denaro, o sia l’ordinario interesse di giustizia. Da ciò nasce una chiara differenza tra il mutuo, commodato e l’affitto. Perché il mutuo sarà il ceder la cosa per un tempo, senza cedere la reale utilità che ne può pervenire; il commodato sarà il ritenere il dominio della cosa, donandone l’utilità naturale della medesima; l’affitto sarà parimente conservare il dominio e la proprietà, vendendo l’utilità naturale di quella. Da qui nasce una chiara differenza tra l’interesse e l’usura: per­ché l’interesse è l’utilità immediata della cosa, e l’usura è l’utilità del­l’utilità. Perciò l’interesse detto mercantile, che è sempre maggiore dell’interesse ordinario, non è usura; perché l’interesse mercantile è una utilità di cose che naturalmente fruttano più in mano del commerciante, che non frutterebbero sulla terra produttrice, onde uno è padrone di non cedere questa per lui naturale utilità.

Molte sarebbero le conseguenze che nascer potrebbono da queste chiare definizioni per la dottrina degl’interessi, che ha molta estensio­ne, sia nel diritto naturale e pubblico, sia nel diritto civile; ma sareb­be un uscire dal mio istituto e voler mettere mano nell’altrui messe, s’io volessi trattarne.1 Dunque passando immediatamente a ciò che appartiene alla nostra scienza, dirò che essendo il prodotto delle terre la vera misura dell’interesse del denaro, il valore di questi prodotti, o sia l’interesse della terra paragonato coll’interesse degl’imprestiti, saranno la vera norma onde giudicare della vera prosperità degli stati. Quando l’interesse dei prestiti è maggiore di questo interesse della terra supposta corrispondente al capitale, è segno che pochi sono i prestatori e molti i chieditori del prestito; dunque poca esuberanza dei valori nelle mani dei particolari, dunque tutto ciò di cui è indizio la scarsezza e cattiva distribuzione di questi valori: il che, dopo le tante cose fin qui dette, sarebbe un far torto alla penetrazione degli uditori il qui annoverare.

Supponiamo esservi un banco pubblico, che riceva denari pagando interessi di poco maggiori dell’interesse della terra corrispondente: si abbassino gl’interessi fino al livello del prodotto annuo, coll’alternati­va di riprendere il capitale: se il più gran numero dei particolari riprende il suo capitale, egli è segno che l’agricoltura è in istato di poter prendere accrescimento; se, malgrado la diminuzione, lasciano i loro capitali sul banco, egli è segno che l’agricoltura non è più suscettibile di accrescimento. Quando gl’interessi del denaro sono al livello del­l’interesse annuo della terra, è un gran segno della prosperità d’un paese, tutto il resto delle cose uguali essendo. E se gl’interessi del dena­ro fossero minori dell’annuo frutto delle terre, sarebbe, in proporzio­ne del minoramento dell’interesse, sempre maggiore la prosperità dell’agricoltura; perché sarebbe un segno che tutti fossero prestatori e quasi nessun creditore, il che significherebbe esuberanza di valori in tutte le mani che hanno proprietà sulla terra; ma sarebbe forse egual­mente un segno della scarsezza delle arti e manifatture, e per conseguenza del non massimo travaglio possibile in una nazione. I partico­lari non troverebbero alla fine il migliore spaccio ed il migliore impiego dei lavori che cavano dalla terra; dunque a poco a poco doverebbe scemare lo sforzo di render fruttifera al maggior grado la terra medesima e minorare l’agricoltura. Ma l’inconveniente non è da temersi, perché, data la libertà delle terre e del loro commercio, gl’in­teressi dell’imprestito verranno da sé al livello dell’interesse della terra.

La moltiplicità delle cose che ci restano a dire, e l’angustia del tempo, non mi permettono di promovere più oltre questa teoria, la quale di bellissimi e rigorosi problemi è suscettibile. Mi basta di aver messo sulla via quelli de’ miei uditori che averanno compreso come la terra è l’unica produttrice di nuovi valori; come l’immediata con­sumazione è il rappresentante universale d’ogni travaglio e d’ogni azione; come per esempio che l’interesse del denaro in una nazione al sei per cento può essere equivalente all’interesse del due per cento in un’altra, perché ambidue possano rappresentare lo stesso annuo frutto delle terre dall’istesso numero di produttori e colla medesima facilità procurato, e simili. Ma guai a colui che tutto vuol dire inse­gnando, e niente lascia alla penetrazione di chi l’ascolta. Fluttuano le cose ascoltate e svaniscono dalla mente degli ascoltatori, che non hanno occasione di opporre la reazione, per così dire, del loro spiri­to alle impressioni dell’istitutore: e un solo ragionamento esatto fatto da noi stessi getta più di luce su d’una scienza, e quella più radical­mente e stabilmente piantasi in noi per questo solo, che per dieci ragionamenti fatti da un altro.

VII. Teoria del cambio

37. Abbiamo veduto che sia interesse del denaro, che il vero inte­resse è l’annuo frutto, o sia riproduzione, della terra; dunque nella nozione dell’interesse entra necessariamente la considerazione del tempo. Quel denaro, ch’è un segno e un pegno del valore nella mano del proprietario, potrebbe col tempo produrre un nuovo valore, non per se stesso, ma come indicante ed equivalente una porzione di terra: dunque l’interesse del denaro è l’interesse, ossia l’utile, del tempo. Il cambio, o sia un valore ceduto in un luogo, per avere un equivalen­te in un altro, ha il suo interesse specifico e particolare; cioè l’interes­se del cambio sarà l’utile del luogo. Da questa sola considerazione ben sviluppata nasce la teoria del cambio. È superfluo il qui osserva­re il significato generale della parola cambio: ognuno lo intende. Pari­mente abbiamo veduto, nell’Introduzione di questa quarta parte, l’o­rigine del cambio strettamente detto, dalla quale origine la definizione è manifesta. Egli è nato dalla promiscuità dei commerci, per cui in due o più diversi distanti luoghi v’erano a vicenda promiscui e reci­proci debiti e crediti. Eranvi, per esempio, nel luogo A alcuni debi­tori al luogo B, ed alcuni creditori dello stesso luogo B; parimenti, nel luogo B, alcuni debitori al luogo A, ed alcuni creditori dello stesso luogo A. Supposti eguali questi debiti e crediti reciproci, cioè che tanta somma sia dovuta da A in B, da alcuni di A, quanta alcuni altri dello stesso A debbono da alcuni di B ricevere; invece che i debitori di A e B andassero in B a pagare il debito e vi trasportassero il reale dovuto valore, e i creditori di A da B ricevessero un equivalente valore dai debitori loro di B, e parimenti quelli di B andassero a portare il valo­re in A, e facessero i creditori venire in B il valore dovuto, si è molto facilmente dai creditori immaginato di cambiarsi i debitori rispettivi, e dai debitori convenuto di scambiarsi i creditori; così i creditori di A da B, invece di farsi pagare dai primi e veri loro debitori di B, si sono fatti pagare dai debitori di A che doveano a quelli di B; e i creditori di B da A si sono fatti pagare dai debitori di B, che doveano ad A. Questa è la natura del cambio, cioè una compensazione di pagamenti fatti in un luogo, in grazia della compensazione dei crediti e debiti possibili fra due diversi e distanti luoghi. Ma non sarebbe possibile il verificare questo contratto, che si fa senza esborso o trasporto del reale valore dovuto tra persone che sono distanti tra di loro, e in tempi differenti, se non vi fosse una autorità pubblica che garantisse e proteggesse la fede di questi contratti, ed un segno credibile e riconosciuto dalle parti interessate, onde contestare il contratto seguito.

Dunque questa sorte di compensazione, che chiamasi cambio, si farà per mezzo d’una lettera o d’una cedola, la quale colle formalità riconosciute dalle leggi dia il diritto al presentatore di quella, cioè al creditore sostituito, di farsi pagare dal sostituito debitore. Ambrogio, milanese, è creditore di cento zecchini da Giorgio, di Genova; Carlo, milanese, è debitore a Giovanni Battista, di Genova, di altri cento zec­chini. Quando questo contratto fosse noto a queste quattro persone, invece di fare la doppia dispendiosa operazione, per la quale Giorgio mandi ad Ambrogio i cento zecchini a Milano, e Carlo mandi a Gio­vanni Battista i suoi cento a Genova, è naturale che convengano che Carlo paghi a Milano cento zecchini ad Ambrogio, dal quale, ritiran­done la ricevuta, Ambrogio trasporterà in Carlo le sue ragioni verso Giorgio per mezzo di questa stessa ricevuta; Carlo rimetterà al suo cre­ditore Giovanni Battista, col rimettere questa ricevuta medesima, le sue cedute ragioni, colle quali quest’ultimo si potrà far pagare da Gior­gio, in Genova stessa, del credito dovutogli da Milano. Ecco in che consiste il cambio originariamente. Ma non è necessario che vi siano sempre quattro persone: basta che ve ne siano tre; non è necessario che vi siano due debiti e due crediti anteriori; basta un credito o un debi­to solo, anzi la pura credibilità reciproca, sulla fede de’ commercianti. Né è necessario che le persone che immediatamente fanno il contrat­to di cambio, siano immediatamente debitrici e creditrici a vicenda. Mi spiego. Ambrogio deve avere da Genova zecchini cento da Gior­gio; basta ciò perché segua un cambio, se vi sia un Carlo qualunque, il quale, in Milano, né debba ricevere né dare, ma che abbia bisogno di spendere, sia personalmente sia per mezzo d’altri, in Genova, cento zecchini. Che farà egli? Egli porterà cento zecchini a questo Ambro­gio, e ritirerà da lui un viglietto di cento zecchini, col quale cede a Carlo il suo credito verso Giorgio, oppure ordina a Giorgio di paga­re a Carlo i cento zecchini e Carlo, sia personalmente presentando il viglietto, sia cedendo autenticamente ad altri il medesimo viglietto, farà sborsare a Giorgio, in Genova, questi cento zecchini. Figuriamo­ci che Ambrogio non sia realmente creditore di Giorgio, ma che invece siavi fra di loro fiducia, corrispondenza e certezza, onde farsi a vicenda creditori e debitori quando il vogliano: tanto sarà lo stesso; e Giorgio sborserà sulla presentazione del viglietto o della lettera d’Ambrogio li cento zecchini a Carlo, o a chi Carlo, per mezzo d’una sua firma e della cessione del viglietto, avrà ceduto quest’ordine d’Ambrogio.

38. Da qui si vede manifestamente che la sostanza del cambio con­siste in due pagamenti che si compensano, uno fatto nel luogo dove si ritira la lettera di cambio, l’altro nel luogo dove si esibisce per ricambiarla in denaro; e che fra questi due luoghi vi può intervenire qualunque numero di persone intermedie, anzi molti luoghi interme­di, dove senza nessun reale pagamento si vadano successivamente tra­sportando il primo credito e debito originario, ed anche diverse let­tere di cambio, cambiata l’una per l’altra, potendovi essere due negozianti, che siano in corrispondenza di un credito in un terzo, senza aver corrispondenza tra di loro. In secondo luogo, essere necessario al cambio il reciproco commercio di merci ed anche di denaro, perché per la communicazione reciproca del commerciante dei diversi luoghi, compensati che saranno i debiti e i crediti nel prender le lettere di cambio e nell’esibirle, non potrà continuare il cambio, se dal luogo debitore non si trasporti effettivo denaro al luogo che accetta d’esse­re debitore.

39. Ecco spiegata sufficientemente la natura di questo contratto; ma non ne ho ancora spiegato tutti i misteri. Abbiamo detto che devono intervenire nel contratto due pagamenti che si compensino. Ma due cose che si compensino debbono essere al pari tra di loro, cioè vi deve essere parità ed equivalenza in questi pagamenti. In che consiste questa parità ed equivalenza? Nel ben intendere questa parità consiste tutto il mistero del cambio. Due sorti di economie si danno negli affari umani: la parità reale, fisica e sensibile delle cose che si paragonano, e la parità di stima e di valutazione tra le cose parimenti paragonate: chiameremo l’una pari reale, l’altra pari politico. Nel cam­bio, dunque, che consiste in due pagamenti che si compensano, e che non si compenserebbero se non fossero paragonati tra di loro, vi saran­no due sorti di parità: la parità fisica, o sia il pari reale, e la parità di stima, o sia il pari politico. Il pari reale consiste in eguaglianza di quan­tità e similitudine di qualità: tanta quantità d’oro fine per altrettanta quantità d’oro similmente fine, qualunque sia la figura e la forma esteriore che a quest’oro si voglia dare. Lo stesso dicasi dell’argento. Se nelle nazioni commercianti non vi fosse che una sola specie di metal­li, solo oro e solo argento, cento oncie d’argento pagate in un luogo darebbero il diritto d’avere le stesse cento oncie d’argento in un altro per mezzo del cambio, prescindendo dalle circostanze attuali del con­tratto. Se questo che paga le cento oncie d’argento a Milano, lo fa perché ha più bisogno di ricevere queste cento oncie d’argento in Genova, di quello che abbia, colui che le riceve in Milano, bisogno di ricevere questo valore, può darsi che si paghi in Milano due oncie di più questo bisogno che ha in Genova, onde pagherà cento due per ricever cento: ma questa è una circostanza dei contrattanti, non dipendente dalla natura e purità del cambio. Parimenti, se tra le nazio­ni commercianti corra la stessa proporzione tra oro e argento, la parità del cambio sarebbe sempre reale, perché cento oncie d’oro pagate in Milano, prescindendo sempre dalle circostanze dei contrattanti, sareb­bero ricompensate col pagare in Genova mille quattro cento oncie d’argento, quando la proporzione fosse egualmente a Milano come a Genova di 1 : 14.

Ma che sarà quando la proporzione tra le nazioni commercianti fosse, come è assai sovente, ed in alcune nazioni sempre, diversa? Quando a Milano la proporzione tra l’oro e l’argento fosse come 1 : 14, ed a Genova come 1 : 15? In questo caso, cento oncie d’oro pagate in Milano sarebbero eguali a mille quattro cento once d’argen­to, e cento oncie d’oro pagate in Genova sarebbero eguali a mille cin­que cento d’argento. Dunque cento oncie d’oro pagate in Milano non sono stimate egualmente che cento oncie d’oro pagate in Genova; e mille quattro cento oncie d’argento pagate in Milano equivalgono a mille cinque cento pagate in Genova. Che penseranno tre contrattan­ti in queste circostanze? Colui che riceve un valore a Milano per farne pagare un altro al suo conto in Genova, deve supporre dovere o aver dovuto trasportare a Genova quel valore ch’egli riceve, e sul quale dà la lettera di cambio; perché difatti, quantunque dimorante in Milano, egli calcola il pagamento che fa fare, come se egli andasse a pagare in Genova. Ora, costui in questo caso vorrebbe portarvi oro piuttosto che argento, perché in Genova quest’oro vale 1/14 di più che non in Milano. Parimenti, colui che paga in Milano per ricevere in Genova, si deve supporre che in vece di prendere la lettera di cambio per Genova vi possa, o vi abbia già trasportato immediatamente il suo denaro: dico immediatamente, perché le spese del trasporto non devo­no qui esser considerate, perché non influiscono sul pari del cambio, ma sul prezzo di quello,1 e sul fare risolvere i contrattanti a far piutto­sto che non fare questo contratto, come vedremo più abbasso. Ora, se egli vi avesse trasportato oro per spender oro, avrebbe avuto un vantaggio, perché spendendo cento oncie d’oro in Milano, averebbe speso il valore di mille quattro cento oncie d’argento; spendendole in Genova, averebbe speso il valore di mille cinque cento. Similmente colui che pagherà a Genova il valore ordinatogli a Milano, considera che se facesse il pagamento che deve fare in Milano (dico che deve fare, perché sarà sempre una compensazione d’un fondo o valore cedutogli, perché doveva prima quel valore, o lo deve dal momento che segue il pagamento che per suo conto si fa in Milano), egli con mille quattro cento oncie d’argento pagherebbe un valore di mille cinque cento in Genova. Quali saranno, in questa disparità di mire, le altercazioni dei contrattanti? Colui che deve dare la lettera di cambio dice: cento oncie d’oro in Genova mi vagliono mille cinque cento d’argento, oppure novantatré ed un terzo d’oncia d’oro mi vagliono lo stesso in Genova che qui cento, cioè mille quattro cento. Colui che fa il pagamento a Milano per ricevere lo stesso valore in Genova, dove ha di bisogno di cento once d’oro, o del valore corrispondente in Genova, dice: di mille quattro cento once d’argento in Milano posso farne cento d’oro, che, portate in Genova, mi pagheranno il valore di mille cinque cento once d’argento. Dice colui che deve pagare in Genova la lettera di cambio di cento once d’oro, o sia del valore suo corrispondente: il valore ch’io pagherei in Milano è di mille quattro cento once d’argento, mentre qui le pago con mille cinque cento. Che fare in questa opposizione d’interessi, durante la quale non potrebbe seguire alcun contratto? È necessario che ciascuno rilasci un poco delle sue pretensioni; ma, siccome ciascuno cerca di rilasciare meno che sia possibile, così non si potranno accordare se non prendendo un termi­ne di mezzo; cioè colui che paga in Milano, per esser pagato in Geno­va, si contenterà di pagare in Milano mille quattro cento cinquanta once d’argento, ovvero novantasei once 3/7 d’oro; e quello che dà la lettera, di riceverle per metterle in conto del corrispondente di Geno­va, il quale pagherà le cento once d’oro e le mille e cinque cento d’ar­gento: nel qual caso chi perde sull’oro guadagna sull’argento, e chi perde sull’argento guadagna sull’oro.

Due piazze corrispondenti hanno un commercio promiscuo di cose, e la concorrenza produce e stabilisce un prezzo comune a que­ste cose di comune commercio. Ma l’oro è una vera merce che ha il suo prezzo in cose o in argento, e l’argento un’altra vera merce che ha il suo prezzo in oro o in cose. Dunque l’oro avrà il suo prezzo comune tra Milano e Genova, e l’argento averà il suo. Ma se in Mila­no la proporzione resta come 1 : 14, a Genova come 1 : 15, Milano sarà costretto di abbassare il prezzo dell’oro sull’argento, e Genova di abbassare il prezzo dell’argento sull’oro, finché s’incontreranno in questo moto contrario. Dunque la proporzione si stabilirà su questa regola, e sarà realmente 1 : 14 1/2. Il pari politico è dunque una com­pensazione momentanea fra il valore dell’oro e dell’argento, per le reciproche perdite e guadagni che si fanno tra le piazze commercian­ti per la disparità di proporzione, la quale tenderebbe a portar l’oro di Milano in Genova, e l’argento di Genova in Milano, come abbiamo veduto nella teoria delle monete.

40. Credo che a sufficienza io abbia spiegato che sia il pari politico nel cambio. Ora, questo pari politico, questo pari di mezzo tra i diver­si valori del cambio dell’oro coll’argento, è il punto medio, o sia il livello sul quale si misura il prezzo del cambio. Noi abbiamo detto che è necessario, per istabilire il pari politico, di prescindere dalle circo­stanze attuali dei contrattanti, perché se colui il quale ha un valore in Milano ha più bisogno di averlo in Genova, egli doverà pagare questo bisogno; per lo contrario, se quello che deve pagarlo in Genova per il pagamento da lui fatto in Milano, ha più bisogno di ricever questo valore in Milano di quello che conservarselo in Genova, pagherà egli invece un tal bisogno, e questo prezzo del bisogno sarà il prezzo del cambio, o sia l’interesse del luogo, il quale nel nostro caso sarà deter­minato dal rapporto dei bisogni dei contrattanti. Per rapporto a colui che prende la lettera di cambio, se egli paga il bisogno maggiore d’a­vere un valore in Genova piuttosto che un valore in Milano, pagherà dunque al disopra del pari politico; cioè, nel caso nostro, invece di pagar l’oro in ragione di quattordici e mezzo, lo pagherà qualche cosa di più, e si dirà avere il cambio al di sopra del pari. Se invece l’altro ha un maggior bisogno di ricevere un pagamento in Milano che non quello d’esser pagato in Genova, egli riceverà l’oro al di sotto del pari politico; cioè, nel caso nostro, per l’istesso oro gli sarà dato un poco meno che in ragione come uno a quattordici e mezzo, e si dirà per lui essere il cambio al di sotto del pari. Se i bisogni sono eguali, pagherà e sarà pagato coll’esatta parità, o sia proporzione tra le diverse propor­zioni correnti, e si dirà che il cambio è al pari.

41. Ma, essendo le piazze commercianti in promiscua corrispon­denza tra di loro, le circostanze dei particolari contrattanti, o siano i suoi bisogni particolari, restano modificati da tutto il resto dei bisogni degli altri rispettivi contrattanti delle due piazze. Si stabilirà una con­correnza, e si farà un prezzo comune, in vigore del quale contrappo­nendosi e compensandosi questi bisogni, sinché possano esserlo, da quella parte dove sarà l’eccesso del bisogno, si doverà finalmente paga­re un prezzo proporzionale all’eccesso di questo bisogno, e questo prezzo di tutto questo eccesso di bisogno si ripartirà su tutti i cambi che si fanno in queste piazze commercianti; onde quella piazza che ha dal suo canto un eccesso di bisogno di pagare dei valori nell’altra, pagherà questo prezzo così ripartito; in vece di pagare in ragione di 1 quattordici e mezzo, exempli gratia, pagherà qualche cosa di più, ed il cambio sarà per lei al di sopra del pari; e quando sarà pagata riceverà meno d’uno quattordici e mezzo, il che è lo stesso, e quella nazione che farà così con questa di cui parliamo, e della quale diciamo avere il cambio al di sopra del pari, lo averà al disotto riguardo a questa.

Ma quali sono quelle nazioni che hanno questo eccesso di bisogno, le une sopra le altre? Sarà quella nazione che anderà debitrice all’altra in grazia dei reciproci commerci, cioè quella la quale, dopo compen­sati quei debiti, ch’ella può, coi crediti ch’ella si trova avere verso l’al­tra, rimane ancora debitrice d’una somma a questa nazione. Se ella non vi trasporta il suo denaro, non potrà continuare ad aver commer­cio con quella; dovrebbe dunque fare un reale pagamento. Ma il tra­sporto di questo denaro costa una spesa. Se ella dunque trova chi paghi in questa piazza creditrice quelle somme ch’essa doverebbe trasportar­vi, contentandosi questi di esserne rimborsato nella piazza medesima debitrice, i negozianti debitori, o quelli nei quali si trasfonde questo debito, potranno pagare e doveranno, oltre il rimborso che si farà al pari politico o reale, questo servizio, che loro risparmia la spesa d’un trasporto. Questo prezzo del cambio al di là del pari sarà alla somma cambiata, come la spesa del trasporto dell’eccesso del debito a tutto questo eccesso. Se dunque Genova fosse debitrice a Milano, colui che paga qui in Milano 1 : 96 3/7 oncie d’oro, che vengono al pari mille quattro cento cinquanta d’argento, nell’arbitraria supposizione da noi fatta, riceverà in Genova qualche cosa di più di queste mille quattro cento cinquanta once d’argento; onde Genova avrà il cambio con Milano al di sopra del pari, oppure Milano averà il cambio al di sotto del pari con Genova, perché colui che pagasse le mille quattro cento once a Milano per avere in Genova le 96 3/7 d’oro che sono al pari politico, riceverebbe più di 96 3/7 a Genova, oppur pagherebbe qual­che cosa di meno di mille quattro cento oncie d’argento a Milano.

42. Un altro principio del prezzo del cambio sarà la provisione, cioè il prezzo del travaglio e industria de’ cambisti, sia di quelli che ricevono il pagamento, come di quelli che lo rimborsano. Se, per esempio, il cambio fosse al di sotto del pari, il prezzo o la provisione può rimettere al pari il valore della lettera di cambio, perché deve pagare questo prezzo colui che prende questa lettera; se è al disopra, questo prezzo diminuirà parimenti il vantaggio di chi fa il pagamen­to per il luogo debitore.

43. Un terzo principio o elemento del prezzo del cambio sarà la consumazione o la deteriorazione della moneta, la quale non porta più intrinsecamente quella bontà e quel peso che il titolo e l’impron­ta di essa promettono. Abbiamo veduto che le monete si alterano in mille guise. Nel cambio si valuta e si ricompensa alla realità l’errore dell’apparenza.

44. Finalmente un altro opposto principio servirà ad alterare, o piuttosto a sminuire il prezzo del cambio che si paga da chi prende la lettera di cambio; questo si è l’interesse del tempo. Chi paga a Mila­no per ricevere a un mese, a due, a tre il rimborso in Genova, non deve ricever lo stesso, come se fosse sul momento rimborsato. Se quel denaro ch’egli ha pagato in Milano fosse restato in sua mano, avrebb’egli potuto fruttare un interesse annuo; dunque proporzional­mente gli sarà computato l’interesse del tempo che tarda ad esser rim­borsato.

45. Giova qui avvertire che chi prende la lettera di cambio, chi la dà e chi la paga, non fanno mai questo calcolo, ma quasi sempre confondono i pari con il prezzo e tutti gli elementi componenti que­sti prezzi. Essi sanno che tanti soldi milanesi cambiano con tanti soldi di Genova; tengono conto e danno le notizie di tutte le alterazioni del cambio diverse da Milano a Genova, diverse da Milano in Francia, diverse da Milano a Venezia, e ciò chiamasi sapere il corso del cambio, e le variazioni di esso. Io non debbo qui trattenervi più a lungo ed invilupparvi in questa difficile ed estesa materia, mentre non è del mio istituto lo spiegare la scienza del cambio per l’utilità di un privato negoziante, onde ho trascurato a bella posta tutto quell’imbarazzo di termini componenti la lingua del cambio, dietro i quali si nasconde tutto l’artifizio degli attenti cambisti, i quali dirigono le loro specula­zioni in modo di farsi debitori dove il cambio è al di sotto del pari, e di farsi creditori dove il cambio è al di sopra del pari, perché così ven­gono a pagar meno del debito fatto, ed a riscuoter di più del credito che hanno: onde fanno un doppio profitto. Ma questa operazione non può da essi esser eseguita se non hanno i mezzi d’avere estesa cor­rispondenza, e le notizie le più pronte ed esatte delle variazioni e del corso del cambio nelle principali piazze d’Europa, ed una grandissima pratica della bontà intrinseca e del vero e falso valore delle monete, in somma tutte quelle pratiche cognizioni che meglio s’imparano al banco che sui libri, perché la mente ha sempre sott’occhio la realità e l’esecuzione, la quale non può che confusamente essere sui scritti che noi leggiamo, anche i più diffusi e chiari, adombrata.

46. Dunque, terminando la teoria del cambio per quel rapporto ch’egli ha coll’economia politica, diremo che il cambio è d’una gran­dissima utilità, perché aumenta la circolazione, la facilità e la moltiplicità dei contratti, per i quali contratti moltiplici si dà tutto il valo­re alle produzioni del suolo di cui sono suscettibili, tutto il valore alle opere dell’industria; anima la concorrenza, la quale equilibra tutti i profitti in maniera che ciascuno vende il più caro che sia possibile, e compra al più buon mercato che possibile sia. Egli è adunque sterile di sua natura; egli non è un commercio attivo, ma una delle princi­pali molle che spingano la circolazione.

Diremo in secondo luogo che dal cambio si può conoscere se una nazione somministri ad un’altra più denaro di quel che ne riceva, o viceversa – come dicesi comunemente – se faccia commercio pas­sivo o attivo (dico propriamente, perché se fa commercio passivo di denaro con una nazione, lo fa attivo di mercanzia); perché il cambio di questa nazione sarà un cambio d’una nazione debitrice, sarà dun­que al di sopra del pari; sarà un cambio di nazione creditrice, sarà al di sotto del pari. Ma facendosi molte volte il cambio per mezzo di piazze intermedie, qualche piazza intermedia può esser creditrice della nazione creditrice per rispetto all’altra, o debitrice della debitrice. Bisognerà dunque dedurre dal prezzo del cambio, o aggiungere, quel­la quantità che cresce o che manca per ragione dell’opposta relazione della piazza intermedia.

Non mi dilungo in queste ricerche, perché credo che facilmente saranno intese da chi ha ben compreso gli antecedenti, né giammai lo saranno da chi non gli avrà ben compresi.

VIII. De’ banchi pubblici e delle monete di conto e credito

47. Noi abbiamo veduto come gli uomini divengano possessori delle ricchezze, e come queste ricchezze siano rappresentate da una misura comune, chiamata moneta; abbiamo pure veduto che la moneta, o denaro, oltre l’esser misura di tutti i valori, è un pegno ed una sicurezza di ottener quelle cose che da quella sono misurate. Varie mire possono avere i possessori di queste ricchezze: l’una, la custodia sicura di quelle, accioché non periscano o si disperdano; la seconda, una facile maniera di spenderle, cambiarle e contrattarle, risparmiando sempre, per quanto è possibile, la spesa del trasporto, che diminuisce l’utilità del fine che nel contratto si propongono; una terza, d’impiegar questa ricchezza, ch’è misurata con denaro e da lui rappresentata, che gli porti un periodico profitto, in quella maniera che, impiegandola su d’una terra, questa gli darebbe una costante riproduzione. Di più, diverse mire possono avere quelli che han biso­gno di queste ricchezze; perché, non potendole ottener gratuitamen­te, amerebbero di trovar chi gliele prestasse per mezzo d’un pegno che assicurasse il prestatore, o per mezzo di un profitto che gli paga­no: insomma cercano che loro sia ceduto un valore in un tempo per restituire lo stesso valore in un altro. Finalmente lo stato medesimo ed il sovrano sono talvolta bisognosi di un soccorso straordinario per le occorrenze improvvise del di lui dominio, per il qual bisogno non trova opportuno talvolta di accrescere il tributo, perché, passando un certo limite, sminuirebbe invece di aumentare le proprie forze; diventa egli medesimo un nome dello stato debitore verso alcuni par­ticolari, che sono in caso di prestagli il necessario denaro. Da queste e simili circostanze sono nati i banchi pubblici, che in ogni parte d’Eu­ropa sono stati e sono, cioè luoghi ove molti particolari hanno riuni­te le loro ricchezze, sia per custodirle semplicemente, che per darle ad imprestito sopra di un pegno o sopra di un annuo profitto, sia anche solo per contrattarle fra di loro, acciocché tutte queste operazioni, combinate e riunite in un sol luogo, e da tutti rispettato e meritevole della confidenza universale, si rendessero più facili e più sicure e meno dispendiose a ciascuno in particolare.

48. Da questa origine e definizione dei banchi pubblici si deduce in primo luogo che l’unione delle ricchezze è la circostanza essenzia­le che forma e caratterizza il banco, e che perciò non è egualmente essenziale che tutte queste ricchezze siano materialmente riunite in un luogo particolare; basta che le ricchezze siano riunite, cioè che siano sicuri gli amministratori di trovare la ricchezza dove ella sia. Si posso­no formar banchi solamente di denaro, ma anche di terre, le quali non potendo che essere nel luogo ove sono, non possono esser comprese sotto il titolo di un banco, se non coll’esser vincolate ad adempire ad un fine comune. In secondo luogo, da una unione di ricchezze par­ticolari: chiunque porta ad un banco la propria ricchezza, o sia il pro­prio denaro, o un valore qualunque, non lo porta gratuitamente, non abbandona la proprietà di questo valore, ma ve lo porta perché così ottiene quel fine ch’egli si propone. È dunque necessario che la sua proprietà non sia confusa, e che gli sia assicurato il fine per cui egli ha voluto portarla al banco e riunirla colle altre. Dunque il proprietario di questa ricchezza acquista un diritto riconosciuto dal banco sul banco stesso, che gli assicura il fine e la proprietà del valore confida­togli, a quelle condizioni che sono state legittimamente convenute. Questa assicurazione si fa registrando esattamente in un libro i nomi dei depositanti, la qualità del deposito e le condizioni colle quali è stato fatto, e rilasciando al proprietario medesimo un viglietto auten­tico, che gli dà il diritto di riprendere o contrattare la somma conve­nuta ed enunziata nel viglietto medesimo. Il proprietario in questa maniera diviene un legittimo creditore del banco, e il viglietto e il pubblico registro diviene una misura e un pegno di valore, come lo possono essere le vere e reali monete, ogni qualvolta questo viglietto e registro possa esser realizzato in quella moneta e in quel valore ch’egli rappresenta, e a quelle condizioni colle quali è stato fatto e cedu­to. Se chi possiede la moneta cessasse di poter con essa acquistar le cose che gli bisognano, la moneta diventerebbe una materia superflua ed affatto inutile; onde, chi fosse pieno d’oro, se l’oro non fosse egli stesso convertibile in alcuni usi, sarebbe ciò non ostante realmente povero. Dunque, parimenti, se i possessori di viglietti o gli scritti al pubblico registro non potessero realizzare quel valore, e in quella maniera che si trovano registrati, il viglietto ed il registro sarebbero una carta tinta d’inchiostro, e nulla più.

Dunque il valore di questo viglietto o registro consiste nel credito ch’egli ha, o sia nella sicurezza di poter essere realizzato. Ma non si può sul banco medesimo realizzare, se non tanta ricchezza reale ed effettiva quanta vi è stata portata. Dunque tanti viglietti, e non più, possono i banchi lealmente rilasciare. Il sistema di Law è un esempio funesto di essersi voluto allontanare da questo principio, che, per esser troppo chiaro, non perciò è stato esattamente seguito, ma fre­quentemente anzi vi si è andato all’incontro: esempio non raro agli uomini.

49. Questi viglietti, adunque, rappresentanti vera ed esistente ric­chezza, possono circolare e passare d’una mano nell’altra, come la ricchezza medesima, della quale non sono altro che rappresentatori, potrebbe farlo. Gli uomini non hanno sovente bisogno di movere la ricchezza dove ella si trovi, e dalle mani di chi realmente la custodi­sce, ma soltanto di acquistare il diritto che altri aveano sopra di essa, e i profitti che da quella ne derivano. I viglietti venduti adempiono meglio a questo fine di quello se non vi fossero; perché altrimenti bisognerebbe o trasportar la ricchezza medesima da un luogo all’altro, o che i contrattanti si trasportassero essi medesimi con certe formalità sul luogo della ricchezza, l’uno per cedere, l’altro per ricevere l’alie­nato diritto; e tutti questi trasporti e formalità divengono dispendiosi, e per conseguenza tendenti a sminuire il valore venale delle cose in favore degli agenti intermediari, non in favore dei veri comprato­ri o dei veri venditori.

50. Prima di passar più oltre, giova qui il definire alcune delle cir­costanze che ordinariamente accompagnano il giro d’un pubblico banco, cioè la così detta moneta di banco.

La moneta reale è un pezzo determinato di metallo, che, in pro­porzione del suo peso e della sua qualità, misura ed assicura un deter­minato valore. Grani, denari, once, libbre d’oro, d’argento, di rame sono le reali monete delle nazioni d’Europa. In origine non v’è stata che questa moneta, ma in seguito è avvenuto che questa reale mone­ta ha servito a dare il nome a quella divisione di parti, che indicava il diverso rapporto delle monete reali tra di loro: mi spiego coll’esempio delle nostre lire. Ai tempi di Carlo Magno la libbra era una vera e reale moneta, cioè un peso d’argento di dodici once circa, e il soldo era la ventesima parte di questo peso di dodici once; non eravi una moneta sola che pesasse dodici oncie, ma v’erano de’ veri soldi, venti dei quali pesavano realmente queste dodici once d’argento. Ma, alteratosi il soldo, cioè riducendosi il soldo effettivo d’argento ad essere la metà, 1/3, 1/10, fino un novantesimo dell’antico suo peso, questi venti soldi non misurarono più il peso di dodeci once d’argento, ma sibbene il peso della metà, terzo, decimo e novantesimo di queste dodeci once d’argento; ma ritennero sempre però il nome di libbra, che in quello di lira degenerò;1 e queste lire, ch’erano originate dalle vere antiche libbre, servirono a misurare il prezzo ed il valore di tutte le monete d’oro. In questa maniera è nata la moneta di conto, cioè un nome ed un numero significante il prezzo delle differenti reali monete. Ciò supposto, cioè che la moneta di conto non è una moneta, al nome della quale corrisponda realmente un tale e determinato pezzo di metallo coniato, ma una uniforme e semplice misura di tutti i dif­ferenti pezzi di tutti i metalli coniati, vediamo ora che sia la moneta di banco. Supponiamo che uno porti al banco, sia di deposito, sia semplice, sia di profitto, sia in qualunque maniera, lire trenta mila.

Egli è certo ch’egli porta questo valore, perché in qualche maniera gli è utile il portamelo. Ma se in qualunque maniera gli è utile, egli è giu­sto ch’egli paghi quelle spese che sono necessarie alla custodia, al regi­stro, all’amministrazione qualunque, che la natura del banco possa esi­gere. Supponiamo ora arbitrariamente, per comodo del computo, che lire trenta mila portate al banco costino al banco di spese sei mila lire, per tutto quel tempo che stanno sul banco. Il proprietario per riceve­re un credito di lire trenta mila dovrà pagarne trenta sei mila, o, se paga trenta mila, riceverà il credito di sole venti quattro mila. Se costui, che ha il credito del banco di lire ventiquattro mila, vendesse questo suo credito, gli sarebbe pagato lire trenta mila da colui, a cui torna il conto di sostituirsi alle ragioni del primo creditore. Dunque lire ventiquattro mila sul banco equivalerebbero a lire trenta mila effettivamente, e tutte le monete che il banco pagherà saranno ragguagliate a questo valore, o sia secondo questo rapporto, 20 : 25; e quando i creditori si realiz­zeranno sul banco, il creditore sarà pagato con monete che in banco varranno venti quattro mila lire, e fuori di banco saranno spese per lire trenta mila. Vede ognuno che in questo caso arbitrario egli è lo stesso come se il creditore del banco pagasse l’esorbitante interesse del venti per cento per salario al banco depositario. Non è questo il caso, né così considerabile la differenza tra la moneta di banco e la moneta fuori di banco, perché ordinariamente l’uno o il due per cento sono l’ordinario salario del banco che al più i creditori devono pagare.

51. Abbiamo già accennata una delle utilità dei banchi, e questo si è il potersi da quello conoscere il possibile aumento o no dell’agri­coltura; perché, sminuendosi sul banco gl’interessi, se i capitalisti riti­rano i loro capitali, è segno che vi è un impiego migliore da sperare; se non si ritirano, è segno che l’agricoltura non è più suscettibile d’au­mento. L’altra utilità accennata si è quella di potersi con quelli rimediare ad un pressante bisogno dello stato, e per guarire un maggior male. Ma per ciò fare sono necessari molti riguardi, perché non si può farlo con una banca di semplice deposito senza alienare il deposito medesimo, cioè arrischiando un fallimento; perché, quando si combi­nassero le circostanze che non venissero nuovi depositi a farsi sul banco, e li depositatori volessero ritirare il deposito, il banco non averebbe di che fare la restituzione. Non sempre si può fare apertamente dimandando il danaro, e rilasciando tanti viglietti autentici che abbia­no il corso del denaro; perché questi viglietti non averanno corso se non averanno credito; non avranno credito se non con la sicurezza di potersi realizzare, e convertirsi in denaro, quando si voglia.

Ben è vero che, in caso che questa sicurezza vi sia, un numero determinato di viglietti può tener luogo di danaro in quello spazio nel quale trovasi questa sicurezza. La moneta è un segno d’un valore; un viglietto può esser segno parimenti di un valore. La moneta è un pegno d’una mercanzia venduta, che dà il diritto di comprarne un’al­tra; è dunque un pegno intermedio d’un cambio d’una merce con un’altra. Nel nostro caso, un numero di viglietti autentici, determina­to non maggiore di quello che possa essere l’attuale quantità di valore che trovasi ad ogni momento in circolazione, può ottenere il medesi­mo fine quando abbia il credito, cioè divenire un pegno intermedio di un cambio d’una merce coll’altra. Dunque a queste sole condizio­ni possono divenire una vera moneta; ma non saranno mai una mer­canzia, se non in quanto sono realizzabili. La moneta si realizza da se medesima, non avendone una nazione che non ha miniere, giammai al di là di quello che debba averne, supposto il proprio commercio libero perfettamente. Ma sarebbe difficile il conoscere ed il fermarsi nei limiti del necessario nel rilasciare questi biglietti. Non avendo dunque i viglietti altro valore se non in quanto sono realizzabili, faci­litano bensì la circolazione, ma non aumentano la massa reale dei valori circolanti, come qualche insigne scrittore avea supposto. Non si alzano dunque i prezzi delle cose; in questo caso non pregiudicano alla concorrenza, non fanno alcuno cattivo effetto, sebbene tutti i cat­tivi effetti fossero capaci di produrre se non fossero realizzabili.

52. Finalmente un banco che paghi un interesse ai sovventori, deve avere di che pagare questi interessi; il che, quando il banco è per lo stato e per il sovrano, che è lo stesso, non si può fare che per mezzo di un sopracarico, o alienando una parte del tributo già imposto, la quale operazione a molti gravi inconvenienti è soggetta. Perché un sopracarico diminuisce a poco a poco la riproduzione, e per conse­guenza le rendite tutte del sovrano e dello stato, perché estingue negli uomini quell’interesse personale che li stimola ad agire ed a superare quegli ostacoli che naturalmente oppone la terra a chi la coltiva; onde non possono questi sopracarichi che essere un oggetto di straordina­ria risorsa, non un metodo costante, perché sarebbero distruttivi della nazione e della forza stessa che è nel sovrano. L’alienazione poi di un tributo deve produrre a poco a poco lo stesso effetto, perché questo tributo non essendo un sopracarico, e quello che è regolato sui biso­gni del sovrano e dello stato, ma smembrando una parte della ren­dita che serve a questi bisogni, non diminuiscono i bisogni stessi; dunque, alienata una porzione del tributo, bisognerà riimporre la porzione alienata. Questa dunque diverrà un sopracarico distruttivo della ricchezza e della produzione, e per conseguenza della forza fisi­ca e reale della sovranità stessa. Da ciò si può incidentemente osser­vare quanto sagge e giuste siano le disposizioni di quei sovrani, e quanto benefiche – checché ne dicano alcuni –, le quali tendono a redimere ed a riprendere dalle mani dei particolari, nelle quali sono cadute, quelle porzioni di tributo che furono già alienate; poiché, ridotte in questa maniera le rendite pubbliche al vero e solo loro proprietario, cioè il sovrano, allora egli medesimo vorrà e dovrà togliere tutto ciò che sopracarica la nazione; perché questo sopracarico, ben lontano dall’arricchirlo, vedrà che lo impoverisce, facendo languire, anzi annientando una parte di quella maggior riproduzione che la terra potrebbe sostenere, e della quale può e deve avere una predile­zione. Ma non è questo il luogo dove trattare di queste materie.

Da quanto abbiamo detto si son potute vedere le utilità de’ banchi pubblici e loro inconvenienti, e come le banche di deposito, quelle de’ pegni, quelle di assicurazione possono servire a facilitare la circolazione, che mantiene il movimento ed il vigore delle fatiche utili e produttive, e come quelle degl’interessi siano le più soggette ad inconvenienti e rischi.

IX. Conclusione

53. La scarsezza del tempo, che ci costringe a strozzare quelle materie che ancora ci rimangono a trattare, mi sforza a stringere in questo capitolo tutto ciò che dovea esser diviso in vari, e chiudere così questa quarta parte.

Dalla facilità e promiscuità dei commerci di varie nazioni, dalla libertà e vigore del commercio sì interiore che esteriore, nasce quel fenomeno politico e morale che chiamasi credito pubblico. Egli altro non è che quella confidenza e fiducia che provano i sudditi riguardo agli altri sudditi, i membri di una nazione con quelli di un’altra, di poter sicuramente e facilmente cambiare e contrattare il valore che posseggono con altri che possono desiderare. Quando nasce questa reciproca confidenza sia fra gli uomini, sia fra le nazioni, ella diviene d’una reciproca utilità; e questa medesima confidenza, che è un effet­to della prosperità e della facilità del commercio, diviene a vicenda cagione di maggior prosperità e facilità del commercio medesimo.

Come si ottenga, in tutte queste quattro parti lo abbiamo dimostrato. Solo qui diremo che questo importante ramo della morale economi­ca degli stati merita d’essere gelosamente conservato. La facilità della circolazione, il libero commercio delle derrate e delle opere dell’in­dustria, la concorrenza dei venditori e quella de’ compratori, lo faran­no crescere, ed ancora fino ad un certo segno lo conserveranno. Ma dove vi sono passioni ed appetiti, vale a dire dove vi sono uomini, è necessario altresì di punire la frode e di prevenire la mala fede; altri­menti le ricchezze si rinchiudono e malamente si distribuiscono, o con tale cautela e diffidenza si contrattano, che languisce ogni ripro­duzione, e per conseguenza si annienta la ricchezza e la forza mante­nitrice degli stati.

54. Un proprietario d’un qualunque valore fallisce ogni qualvolta la somma del suo debito eccede la somma del suo credito; ciò può accadere per accidenti che prevedere non si possono. Questi fallimenti non fanno perdere la confidenza e il credito pubblico, perché sono rari, perché non nascono dalle circostanze e relazioni dei contrattanti tra di loro. Ma se ciò accade per colpa vera o per frode di chi fallisce, farebbero perdere questo così prezioso credito pubblico. Bisogna dunque punire i fallimenti, bisogna punirli proporzionalmente al delitto commesso, bisogna punirli con quelle pene che sono relative alla natura del delitto. Chi contratta, contratta per ricevere utilità dal proprio contratto; dunque chi froda dovrà in primo luogo risarcire il valore che ha frodato; di più, deve restar privo di altrettanto valore, o sia di altrettanta utilità, di quanto egli ha voluto frodar gli altri. La pena dunque del doppio sembra dettata dalla natura del delitto stesso. Ma quando la frode è fallimento, il debito eccede la facoltà di chi fal­lisce; mentre dunque v’è impossibilità a soddisfare con i propri fondi sia al risarcimento, sia alla pena del delitto, rimane la necessità dell’e­sempio. Dunque bisognerà supplire con pene personali; ma queste pene doveranno prender la norma della naturale e propria legge del doppio, indicata dalla natura del delitto. Ora, si può calcolare di quan­to valore sia un uomo nella condizione in cui egli è, perché tanti gua­dagni in tanto tempo averebbe egli coll’industria sua prodotto a se stesso. Dunque la carcerazione ed il travaglio obbligato, per tutto quel tempo che vale la pena del doppio, la quale sarà la pena conveniente in questi casi. Ma ciò appartenendo più tosto alla scienza legislativa, basta averlo accennato, senza entrare in più lunghe discussioni.

Si previene la mala fede col registro pubblico ed obbligato dei con­tratti. Ma qui bisogna avvertire che non tutti i contratti doverebbero essere registrati; non i contratti che si compiono nell’atto che si fanno, ne’ quali uno paga e l’altro vende; non tutta la folla de’ minuti con­tratti che servono all’uso continuo delle cose commerciabili, perché senza inconvenienti possono lasciarsi all’autenticità dei libri mercanti­li, ed è colpa reciproca di chi non si cautela in questa sorte di contratti; ma quelli che consistono in terre vendute o in denari prestati ad inte­resse ai proprietari delle terre, dai quali parte la vera e sola ricchezza, debbono esser registrati perché sian noti alla pubblica autorità, la qual protegge i loro diritti primordiali. Se dunque la terra cambia di pro­prietario, ciò dev’esser parimenti noto per la medesima ragione di tutela e di proporzione. I danari prestati contengono una promessa di futura restituzione. Questi capitali rappresentano una proprietà, che deve esser sicura e protetta in favore del proprietario. Chi la presta, ne cede l’uso; chi la prende ad imprestito, potrebbe frodarne la restitu­zione, ed usurpare per conseguenza la proprietà altrui: dunque usur­pare ciò che è uno degli elementi costitutivi, cioè la sicurezza della propria persona, e propri diritti. Dunque devono esser registrati que­sti contratti, acciocché si possa vedere da chicchessia se uno ha anco­ra proprietà libere e non impegnate all’altrui restituzione.

Si obbietta che molti contratti non si farebbero, i quali si fanno per esser tutti fondati sul mero credito. Si risponde esser libero a chi si voglia di prestare con questa fiducia; ma l’autorità pubblica non glie­ne garantirà la restituzione. Di più, dato il maggior vigore alle arti ed alle terre, non importa che tali contratti sul mero credito non si fac­ciano, perché la maggior prosperità dell’agricoltura dal maggior nume­ro di questi contratti non dipende, ma da altre cagioni, in questi Ele­menti annoverate. Il credito pubblico fra nazioni e nazioni si man­tiene per le stesse vie e la stessa buona fede che regnar deve tra priva­ti e privati, con tanto maggiore esattezza, quanto è maggiore l’in­fluenza di molti, che di pochi.

55. Ciò che io avrei dovuto soggiungere a questa quarta parte erano principalmente tre articoli: l’uno intorno al commercio di eco­nomia, l’altro intorno al dubbio, se la nobiltà debba fare il commer­cio, il terzo intorno alla così detta speculazione mercantile. In quan­to al primo, noi l’abbiamo già definito, ed abbiamo già conosciuta la differenza che passa fra questo ed il commercio di produzioni. Solo, diremo che chi fa il commercio d’economia non ha altri valori che quelli che l’industria si procura. L’industria non moltiplica le materie, non crea nuovi valori; solo la terra madre può farlo. Dunque tutta la ricchezza del commercio di economia consiste in salari; dipende dun­que totalmente dai proprietari delle materie prime. Dunque il com­mercio d’economia appartiene ed influisce più sulla prosperità di quelle nazioni che producono queste materie, delle quali ne incoraggisce e facilita la produzione, perché ne facilita lo spaccio e l’uso, di quello che sia utile alla nazione in cui sono questi commercianti di economia; ma possono esser utili, in quanto facilitano il cambio delle produzioni interne colle esterne. Sono dunque utili come agenti intermediari; se i loro salari sono troppo forti, essi stessi perderanno il loro commercio, e cesserà la riproduzione. Dunque l’essenza di que­sto commercio consiste nei piccoli guadagni, ma frequentemente ripetuti: massima che il negoziante che pensa in grande, e che cono­sce i veri suoi interessi, non perde mai di mira.

56. In quanto al secondo articolo, la questione è mista di conside­razioni morali e politiche, oltre le economiche, e sarebbe di lunga discussione. Per ciò che spetta al lato economico, è facilmente sciolta. Escludere la nobiltà dal commercio è separare dalla concorrenza universale un numero d’uomini; da tutti questi Elementi si sa quanto sia dannoso il diminuire la concorrenza: dunque economicamente sarà dannoso l’escludere la nobiltà dal commercio. Per terminare la questione, si dovrebbe definire che sia la nobiltà, come influisca sulla nazione, come i privilegi di essa non debbano essere i privilegi del commercio.

57. In quanto al terzo ed ultimo articolo della speculazione mer­cantile, diremo che questa in nient’altro consiste che nell’avere anti­cipatamente le più esatte notizie, e nel prevedere dove sia o sarà abbondante una merce, e perciò a miglior mercato; e dove sia o sarà scarsa, cioè a più caro prezzo, e nel sapere a tempo e con minore spesa trasportarla da un luogo all’altro. Lo speculatore trasporta a poco a poco, non tutta in una volta e in un momento, la merce dove è richiesta, perché facendone un trasporto troppo considerabile nuocerebbe a se stesso, col far diminuire il prezzo ch’egli vuol alto conser­vare per cavarne profitto.

Queste ed altre cose, che tutte s’aggirano intorno a questo ordine, sono le considerazioni che formano la speculazione mercantile, della quale il tempo inesorabile non permette che più oltre vi faccia parola.