Democrito [o La ragione in maschera]

Pietro Verri
DEMOCRITO [O LA RAGIONE IN MASCHERA] [1765-1768]

Testo critico stabilito da Sara Rosini (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, I, 2014, pp. 1020-1088, 931-1019)

[PRIMA STESURA]

Introduzione

È tanto tempo che si scrivono de’ libri per far ridere, che non si può in coscienza diferire più a lungo a dare al pubblico un libro serio; e in fatti diceva benissimo Plinio nel suo libro sulla coda delle rondini che gli animali più serj fra tutti gli animali sono i somarelli, e il sapientissimo Scaligero nel trattato sulla compitazione delle sillabe al capo centesimo nono provò eruditamente assai che l’uomo è un animale che fa ridere. Ma, come al capitolo antecedente abbiam veduto, l’erudizione è cosa assai buona per fare una onorata comparsa presso la Nobiltà loro, sebbene talvolta con quel ricamo si adornino le più sdruscite gramaglie, o cenci come vogliam dire, quindi perciò, esponendo la gravezza dell’importantissimo soggetto su cui versa la questione odierna, siamo sempre mai commendevoli al cospetto del riverito nostro e benevolo Leggitore, il quale vorrà, lo spero, avere la pazienza di leggere questo nostro bel libro. Poichè se noi scrivessimo questa grandiosa opera e che nessuno ci facesse la gloria di leggerci, noi resteremmo capponi terribilmente, avegnachè se la Nobiltà loro ha avuto la sofferenza di leggere il Trattato N., la Storia N., il Romanzo N., le disquisizioni N. e la Frusta N., potrà per una identità di ragione, come saggiamente dicono i curiali, leggere anche queste poche bagatelle. Ma che diranno le nobiltà loro di questa rara mia impresa? Che diranno! Poffare, lo so ben io cosa diranno, forse meglio di quello che non lo sappia la nobiltà loro. Ecco cosa diranno.

Che razza di libro è mai cotesto senza metodo e senza senso! Che pazzia a scrivere di sì fatte cose… Eh eh, per altro di tratto a tratto vi si vede qualche buon lampo… Oh è un pazzo di catena!… V’è del buon umore, e tanto tanto per divertire è buono… Per me v’assicuro che mi fa venire il capogiro tanta è la stravaganza… Forse l’autore lo ha fatto apposta per scrivere con più comodo… È un libro che non ha nè capo nè coda… È un matto… Di dove è l’autore… È Napoletano… No Bolognese… M’è stato detto che sia Veneziano… Vi sono tanti francesismi nello stile… Eppure, con tutto ciò, Nobiltà riverita, questo mio libro comando e voglio che lo comperiate, che lo leggiate e che dopo un anno che sia comparso lo troviate buono; perchè io ho sempre veduto che ho indovinato il giudizio de’ miei lettori prima che lo potessero nemmeno sospettare essi medesimi che avevano a darlo. E questo bel libro voglio che vada nelle biblioteche, e che dagli scaffali all’ordine superiore dove sarà riposto rimiri in giù tanti gravi uomini che svolgeranno consulenti, repetenti e trattatisti e, se vuole, anche sorrida un pocolino in onore e gloria de’ loro be’ studj; e voglio che questo bel libro vada sulle pettiniere delle belle e dilicate dame, e sventolino sopra di lui i sospiri de’ disiosi amanti, e da quel luogo tacito e discreto si proccuri la buona grazia della cameriera e sopporti in pace gli sgarbati accoglimenti d’un rabuffato marito, che lo chiamerà libercolo o perditempo; e voglio che i giovani lo portino al passeggio in tasca e lo leggano e ridino di cuore; e voglio che gli uomini di garbo non lo intendino in conto alcuno e ne dicano tutto il male; e voglio, perfine, che qualche filosofo gli dia pacifico ritiro e si diverta meco qualche quarto d’ora in onore e gloria della Nobiltà loro.

Capo Primo: Leggi di Roma

Dunque, per ricominciare da capo, Lettori miei, bisogna che prendiate questo libro fralle mani e lo leggiate, perchè senza di ciò non ci potremo mai intender bene, e vedrete che in questo libro vi sono delle cose superficialmente profonde, o profondamente superficiali, che dilettano, che rallegrano e che vanno al cuore. Questo breve corso di vita che ci vien dato è tanto avvelenato dalla febbre, dal mal di capo, dalla podagra, dagli avvocati, dalla pietra, dalla colica, dai medici e dai seccatori, che un po’ di buon umore è un bene prezioso, come dice il Menocchio al capo primo Lege si unquam, § Gallinarum et Pavonum quoque, capitolo de frigidis et maleficiatis. Perchè io sono grazie al Cielo Dottorato in Legge, val a dire ch’io ho fatti de’ studj utili e non ho perduto il mio tempo in bagatelle come certi altri fanno. Un giorno un certo tale mi chiamò cosa fosse la legge, ed io gli risposi che la legge era l’arte del buono e dell’equo, la scienza del giusto e dell’ingiusto. Quel tale all’udire questa mia brava risposta soggiunse cortesemente dicendomi ch’io mentiva per la gola, poichè la legge è l’arte di trovar ragioni pro e contro ogni caso, e conseguentemente di rendere inefficace ogni legge. Lettori miei, se mai una volta in vita vostra avete avuto l’onore di litigare e perdere la lite, se mai siete capaci di ripetere rispettosamente le opinioni altrui, se mai avete la nobile generosità di abbandonare la fatica mecanica di giudicare da voi medesimi gli oggetti, Lettori, per carità, fatemi ragione, e vedete se gli studj legali non sieno veramente utili alla repubblica. Primieramente dove sono molti legali ivi gli uomini escono dal fatale torpore dell’ozio, e si pongono in quel benefico movimento che dà vita e forza al corpo politico; secondariamente fate piovere dal Cielo su una città tranquilla un esercito di curiali, vedrete tutt’i cittadini animarsi e moversi lite l’un l’altro, ognuno parlerà di fedecommesso, di linea maschile, di maschio della femmina, del Fulgoso, del Malombre, dell’Oldrado e di tanti eruditissimi e celeberrimi autori, che si vendono a un testone il tomo in foglio e che spereremo che siano per vendersi col tempo anche a minor prezzo, perchè la moderazione è sempre lodevole. Gli studj legali sono utili assai, e come diceva quel bel detto mors tua vita mea, con che la nobiltà loro farà la grazia che riverentemente imploro di sostenere il mio partito. Io sono sempre stato del parere che sia cosa importantissima pel uomo di testa di proccurarsi i suffragi della moltitudine, e la ragione si è perchè costano pochissimo a ottenersi e fruttano assaissimo ottenuti che sono, e ciò ve lo provo concludentemente. Che fa mai bisogno di sacrificare per ottenere i suffragi della Nobiltà loro? Basta mostrare in ogni parola e in ogni gesto di avere una profonda stima delle Signorie loro; basta non mostrare giammai d’avere più testa delle Signorie loro; basta il visitare regolarmente tutte le Signorie loro per ogni menoma malattia che il cielo lor mandi; basta il frequentare tutti gl’inviti che viene nella bella mente della Nobiltà loro di fare; basta qualche altra minuzia su questo gusto, e la Nobiltà loro, sempre generosa, sempre conoscitrice del merito, sempre attenta a incoraggiare chi potrebbe fare onore alla Patria, accorda benignamente i suoi suffragi. E con sì poca spesa si comprano? Signor sì, con sì poco. Ma qual bene fruttano poi, ottenuti che s’abbiano? Beni grandissimi. Primieramente se sono ammalato ognuno mi viene a ritrovare e la mia camera diventa una clamorosa bottega di caffè per ristorarmi il capo. In secondo luogo alla prima diceria che si sparga di me la vedo ripetuta dal coro di tutta la riverita Nobiltà loro; in terzo luogo le mie entrate stanno quali le ho ricevute da’ miei antenati senza che creschino giammai. E tutti questi potentissimi beni poi sono accompagnati da varj pizzicotti, che fratellevolmente mi vengon dati quando entro nelle adunanze, da varj biscottini sotto il mento, e da simili amenissimi contrassegni di urbana amorevolezza. Ma lettor mio, se volete ottenere questi preziosi suffragi conviene principalmente che scrivendo (se siete capace di scrivere) abbiate grandissimo giudizio; l’affare è dilicato oltre modo e vi vuole una insigne prudenza. Primieramente scrivendo dovete proporvi per modello qualche serio argomento e grave, e trattarlo colla dignità che si conviene; nè stiate mai a fare come certi saputelli moderni di cinguettare col pubblico persino nelle stampe, e produrre certe bislacchierie che so poi io; no figliuol mio, prudenza vuol essere, e giudizio; ma giudizio sodo e del buono, che altrimenti facendo vi discreditereste, e perduto che abbiate il credito presso la Nobiltà loro, non vi resterebbe altro compenso per tornare in reputazione, se non nel caso che aveste qualche carica o qualche apparenza di ottenerla. E qui, a proposito di libri, io devo dare un amorevole suggerimento al mio riverito Lettore, che cerchi di provvedersi di libri classici, e non perda il suo tempo in leggere delle innezie che pur troppo sono frequenti al di d’oggi. Libri di giusto peso vi vogliono; i libri in foglio sono i migliori, perchè se qualcuno venisse mai a interrompere sgarbatamente la vostra lettura avete sempre la opportunità di scagliare all’interuttore sgarbato il vostro autore, e confondere e opprimere l’inimico sotto il peso ed all’urto della rispettata autorità. Ed a proposito di autorità, mi risoviene d’una osservazione che ho fatta ne’ miei viaggi, ed è che gli uomini posti in autorità hanno sempre merito, e di ciò me ne convince il sentimento universale rispettabilissimo della Nobiltà loro, la quale, per quello che debolmente ho potuto penetrare, da quattro mila anni a questa parte suole persuadersi molto ragionevolmente che il più forte abbia sempre maggior ragione; e secondo quelle tenuissime cognizioni che mi ha potuto somministrare l’arte divinatoria del cuore umano, ardirei di predire che almeno per altri quattro mila anni la Nobiltà loro e i loro nobilissimi discendenti penseranno altrettanto; e chi se la prende a male peggio per lui, e chi scrivesse per riformare la gloriosa indole della Nobiltà loro peggio per l’inchiostro e per la carta, e che ciò sia brevemente lo dimostro. Agli uomini più forti e potenti di noi ogni ragion vuole che noi presentiamo lo spinal midollo conformato in una curva di cui la convessità sia rivolta al zenit e all’occhio purgatissimo del uomo più forte e possente: in ciò sono d’accordo e il popolo e i filosofi, perchè e il popolo e i filosofi cercano di passare i loro giorni men male che sia possibile; ma chi sa un po’ di notomia non può ignorare come lo spinal midollo sia una emanazione della sostanza medollare medesima del cerebro, dove, per comune consenso di tutt’i fisici che ne sanno più di me, sta la sede dell’anima; ciò posto, le curvature dello spinal midollo frequentemente ripetute si propagano alla regione superiore del cerebro ed ivi, poco a poco, vi lasciano le opinioni di cieca riverenza, di anticipata stima e di fedelissima compiacenza di sillogismi. Appena i filosofi possono con molti stenti interporre un argine acciocchè le indispensabili operazioni della schiena non trapellino alla mente, e questa è una delle principali ragioni per cui quegli uomini forti e possenti, i quali sarebbero un zero senza la forza e possanza, detestano di buon cuore qualunque credano arginato in tal guisa, e vorrebbero spegnere al mondo la poco internamente rispettosa setta de’ filosofi.

Epaminonda all’udire queste sublimi cose non potè più stare in silenzio, e perciò interruppe dicendo ch’ei non avea mai potuto intendere come un uomo, salutando un altro, ricercasse di toccargli la mano; a che serve, diss’egli, questo toccamento? Oh bella, rispose Melchior Cano, a che serve la farina che mettiamo su i capelli, a che serve il ventaglio che tengon le dame l’inverno, a che serve cercare la natura dell’anima de’ bruti, a che serve la ragione colla maggior parte degli uomini; io credo che sia più difficile il ritrovare una cosa ben impiegata che una cosa fuori di luogo. Diceva bene Melchior Cano, e quando dico diceva bene vuol dire, Lettor cortese, che dice quello che mi piace che si dica, perchè l’amor proprio è il più fedel compagno che abbia l’uomo in tutto il corso della vita. Ma questa vita alcuni avevano concepito il progetto di renderla lunga, e costoro si chiamano alchimisti. Credevano costoro che siccome l’oro ci fa ottenere la maggior parte de’ beni che possono darci gli uomini venali, così rendendolo bevibile potesse piegare gl’intestini e i visceri nostri e placarli con una sorta di sacrificio a seguire meglio le loro fonzioni; ma l’oro potabile che riduce alla ubbidienza gli organi de’ quali siamo composti non s’è trovato, e si seguita a nascere ed a morire all’antica senza rimedio. A chi voglia per altro internarsi davvero in questa materia appare chiaramente la ribellione di molte parti di noi, le quali nè ascoltano la ragione nè la ubbidiscono in conto alcuno; il cuore è il più insigne ribelle ch’io abbia, son varj anni che si stringe e si dilata a vicenda senza che io l’abbia mai mosso a far questa funzione, egli mi fa girare il sangue per tutto il corpo e me lo spinge alcune volte alla testa con sì poca grazia che ne provo dolori sensibilissimi; egli mi va palpitando quando nol vorrei, mi fa arossire e impallidire mio malgrado. Gl’intestini hanno un moto che nella dolcissima lingua medica si chiama peristaltico (parola indiavolata che se per disgrazia un poeta la lascia impadronirsi del capo d’un verso, il povero poeta è nella dura necessità di parlare del sal catartico per far la rima), e si movono senza mia saputa; la pupilla si muove anch’essa dispoticamente, e alcuni oratori pretendono che si muovano persino i capelli: mi si rizzano le chiome in fronte, mi si sollevano i capelli per lo racapriccio, cosa ch’io ho udita più volte ma non mai veduta ad accadere. E ciò serva per la posterità alla quale deve sicuramente giungere il mio bel libro, e da esso imparerà che i capelli degli uomini del mio tempo erano fedeli, fedelissimi a stare al lor posto, se qualche vento o qualch’altro infortunio non li scomponeva.

Ma la posterità leggerà questo libro? Sicurissimamente che lo leggerà, e con che sapore! Lasciate che il mio nobilissimo libro diventi antico, vedrete circa al 1950 che comincerà qualche accademico a trovarvi delle bellezze incomparabili, e vi farà uno stupendissimo comento, e me lo farà ristampare con potentissime note in foglio grande; questo commentatore avrà nome Taddeo, sarà di pel bruno, bassotto di figura, un po’ ignorante, uomo per altro versatissimo nello stile. Caro Taddeo a venire, stroppiami per pietà meno che puoi, abbia compassione a un povero morto due secoli fa, non prendere le cose da scherzo ma prendile seriamente in questo aureo mio volume, se vuoi farti onore. Alla testa di questa nuova edizione vi sarà un eruditissimo proemio, che parlerà della mia vita e della mia estrema vecchiezza, a cui giunsi con portento universale dei medici, de’ quali non ho mai voluto far caso e con somma consolazione de’ miei eredi sepelliti prima di me. Questo insigne volume sarà dedicato a Sua Altezza Serenissima il Signor Tal de’ Tali Marchese di quattro capanne, che avrà d’entrata dugento zecchini circa l’anno, nè ciò faccia maraviglia a’ miei contemporanei, poichè il titolo d’Illustrissimo, che ormai pare troppo poco ai Marchesi odierni, sappiamo che pareva secoli sono abbastanza per i Sovrani più possenti d’Italia; e la cosa andando verosimilmente di questo passo, i Marchesi del secolo duemilesimo saranno Altezza Serenissima, i sovrani non Re si chiameranno poi Stupendissima maraviglia d’imperscutabile celestiale innalzamento ed i Re saranno Immensità di luce infinita, calpestatrice del Sole e degli Astri. In quei tempi sarà perduta l’usanza di prendere tabacco pel naso, la quale sono appena cento cinquant’anni da che s’è introdotta; ma bensì si prenderanno certe pilulette per gli orecchi, le quali vi produranno una continua piacevolissima infiammazione, la quale le farà piovere come due amenissime sorgenti, una per spalla, e sulle spalle saranno cuciti due panolini, di merletto ad ogni marchese e di tela ad ogni cittadino. Perchè la distinzione de’ ranghi, Signori miei, non è mai bastevolmente inculcata; abbiamo nelle leggi degli antichi Re franchi come si prescriveva persino il vitto secondo la qualità d’ognuno, cosicchè un Conte per esempio non potesse mangiare a tavola præter duo fercula cum potagio; un buon uomo, mio grande ammiratore, suggeriva saggiamente uno spediente per fare una ottima riforma, ed era di proibire a chi non è nobile di coltivare le scienze e le arti. Questo buon uomo merita una statua, perchè veramente il suo progetto è buono assai, ed io vuo’ bere alla sua salute… Animalaccio, soggiunge Seneca, e vuoi tu bere perchè stia sano egli? Che pazza maniera di parlare è mai la tua? Bevi per te e vuoi che vada in salute la tua bevanda a quel buon uomo! Seneca, sta zitto, che non sai quel che tu di’, affè di mio… capperi, che tu non stai a bomba; bere e’ s’intende, caparbiaccio, per me sibbene, ma col desio che faccia bene al buon uomo, e la si chiama leggiadria; la quale, siccome scrisse l’immortal uomo Monsignor della Casa nel suo divino Galateo, non è altro leggiadria che una certa cotal quasi luce che risplende nella convenevolezza delle cose che sono ben composte e ben divisate una coll’altra e tutte insieme, senza la qual misura eziandio il bene non è bello e la bellezza non è piacevole. E qui prego la nobiltà loro colle riverenti lagrime agli occhi a voler imparar bene a mente una sì bella definizione della leggiadria, che è veramente degna d’essere conservata nella bella testa della Nobiltà loro. La convenevolezza delle cose ben composte e divisate forma una luce che risplende e che si chiama leggiadria, e senza di questa luce il bene non è bello e la bellezza non è piacevole! Gran belle cose filosofiche, dalle quali ne viene la conferma di quel famoso proverbio che il bello è quel che piace. E se per esempio in qualche città d’Italia piace il fare una zuffa in un tal giorno dell’anno e porsi una celata in capo e darsi potentissimi colpi di mazza, in guisa tale che vadasi poi la sera a riposar la testa sull’incudine d’un ferrajo per poter liberarsi dall’amaccato elmo, se, dico, ciò piace, ciò dev’essere propriamente bello, e vi dev’essere per necessità quella certa cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose. E se, per esempio, in qualche altra città d’Italia in un dato giorno dell’anno si radunano i facchini, e dopo essersi devotamente preparati ubriaccandosi, un mozzo di stalla si veste alla ducale, e varj stando ritti in piede sulle spalle di altri, vanno in processione per la città portando un moggio di carbone e vi trovano piacere, ciò dev’essere veramente bello e vi dev’essere sicuramente quella cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose; e se alla nobiltà loro piace questo mio elegantissimo libro sarà pur segno che in me vi sia quella cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose, e che ciò sia, brevemente passeremo a vederlo nel secondo punto.

Ogni animale, dice Pitagora, è un animale, poichè ogni simile ama il suo simile, come vediamo che l’avaro ama a contrattar coll’avaro, l’orgoglioso ama a vivere coll’orgoglioso e il briccone astuto desidera sommamente d’aver a fare con gente tanto briccona e astuta quanto egli è; quindi nasce il famoso proverbio che ogni simile ama il suo simile. Un toro ama di vivere con un altro toro, un gallo ama di vivere con un altro gallo, i profondissimi sapienti amano di leggere il mio libro, ogni simile in somma è dimostrato che ama il suo simile, e prego la Nobiltà loro a non volersene dimenticar mai poichè perderebbe una gran bella verità. Ciò posto, entriamo passo passo in materia, poichè se non anderemo bel bello, cortese lettore, non potrete intendere questo mio stupendissimo libro; andiamo dunque, come torno a dire, bel bello, perchè se anderemo altrimenti caderemo a precipizio; ed a proposito di precipizio mi risoviene del precipitato di Mercurio, che è stato posto per isbaglio in una salsa o vogliam dire (vogliamolo pure) manicaretto, destinato a regalare un festoso convitto d’un buon piovano, per modo che il piovano, il capellano, la serva di casa, il chierico ed il priore furono in pericolo di irsene all’altro mondo, il qual fatto singolarissimo nella storia de’ miei tempi nessuno ch’io sappia l’ha sin ora registrato, e correrebbe rischio da non risapersi ne’ tempi a venire, se io non mi fossi preso l’incomodo di registrarlo; ma quando si tratta di servire la Nobiltà loro non v’è incomodo che tenga, non v’è voragine che m’arresti, foss’anco quella famosissima in cui si scagliò Curzio Cavalier Romano. Lettore, v’avviso che questa è una erudizione per provarvi se nol sapete che ho studiata la storia di Roma, e con infiniti sudori spero d’essere giunto in istato di dimostrare una grande verità, la quale mi deve certamente far un nome quando avrò la clemenza di pubblicarla. Questa grande verità consiste nel provare che Romolo e Remo non furono altrimenti alattati da una lupa, come s’è creduto da taluni; ma bensì furono allattati da una cagna che aveva sette poppe, dalle quali poi nacquero i sette colli… basta, non voglio dir di più per ora, che so benissimo che voi altri eruditi siete plagiarj diabolici, capaci di rubbarmi le mie fatiche, e ne ho una prova di sperienza del verso martelliano che dice
Il fabbro su l’incude scherza da mane a sera
verso che mi costò un mal di capo terribilissimo per poterlo immaginare, e non so come, vidi un certo poeta che me lo stampò come cosa sua ed io me ne rimasi come uno stivale, il che quando accade è sicuramente senza il consentimento mio. Oh plagiari, iniquissimi plagiarj, oh sicarj delle lettere e delle bell’arti, chi mi darà la voce, chi mi suggerirà le parole, ond’io faccia in questo luogo piovere sopra il capo vostro i fulmini inceneritori de’ rubelli. Suvvia accendetevi, lampeggiate, piombate, folgori e saette purgatrici della terra da’ mostri! Entrate folgori benefiche nelle biblioteche, ardete, incenerite tanti voluminosissimi, nojosissimi, fatalissimi pedanti; terremuoti, terremuoti, destatevi; fiumi, torrenti, scendete, ingoiate la perversa generazione, aria, acqua, terra, fuoco, quattro elementi che componete quest’universo… Ma bel bello, di grazia, Signor Almanzor, chi ha insegnato a Vossignoria che gli elementi che compongono l’universo sieno quattro precisamente e non cinque, e non mille, e non uno? Io sono un animale che de’ principj delle cose naturali non ne so nulla, e dico di non saperne nulla dopo avere lette le rare produzioni della bella mente della Nobiltà loro, eppure gli elementi sono quattro perchè due moltiplicato per due fa quattro, et probo minorem. Un libro perchè abbia un po’ di credito conviene che sia scritto con metodo, e uno scrittore che non abbia metodo non vale un fico, Lettor mio, e perciò i più grandi uomini dell’antichità (che sono veramente quelli i grandi uomini, e non voi altri moderni eruditelli, saputelli, linguacciuti, politicuzzi, politicastri, che fate de’ libriccini e de’ libraccioni sgangherati, bislacchi, pieni di petulanza e d’ardimento che fa paura), e perciò, ripiglio, i grandi uomini dell’antichità avevan metodo, e chi non avrà metodo non speri mai d’esser letto, e se sapeste, Nobiltà riverita, quanti sudori e quanti stenti costi a me questo libro per tenerlo in riga e con metodo, vedreste che piccolo impegno sia il diventar autore, e il farsi rilegare in vitello o in marocchino. Metodo, metodo vuol essere, e non si ripeterà mai abbastanza, metodo, sennò tutte le cognizioni vostre saranno come una biblioteca disordinata, e quando stenderete la mano per trovar Newton, achiapperete gli Asolani di Messer Pietro Bembo, e quando crederete d’aver nelle mani Virgilio, vi troverete L’Italia liberata del Trissino, e così va discorrendo, che la materia sarebbe fertile assai, e un autore qual mi son io, che adorando rispettosamente la Nobiltà loro non vuol però esporsi a verun imbroglio per divertirla, lascia ai posteri la briga di parlare de’ suoi coetanei.

La voce candela viene da candens che vuol dire risplendente, e mi ricorderò sempre di quel terribilissimo verso Bracchia purpurea candidiora nive per cui ebbi la gloria di ricevere dodici sardelle, e faccia il cielo che per intendere questa grand’opera mia, poichè un giorno si spiegherà nelle scuole, qualche terribile pedagogo non maltratti qualche povero fanciullo a venire. Pedagoghi, quello staffile che adoperate è l’ornamento d’un carnefice assai più che d’un uomo il quale cerca ad istruire un altro della sua specie più debole e infermo di lui. Pedagoghi, cuori di fango, voi siete i rei stromenti che imprimete coll’esempio l’idea della forza nelle tenere menti de’ fanciulli, in vece dell’idea della giustizia, fonte perenne di tutte le umane virtù. Come volete che un fanciullo, battuto da voi per la ragione che voi siete di lui più robusti, colla spinta dell’esempio non batta l’altro fanciullo più debole di lui! Fatta che sia questa prima impressione nelle tenere menti, come volete che coll’andar degli anni poi non cresca e non produca le prepotenze, le usurpazioni e la schiera d’innumerevoli vizj che opprimono la società e ci rendono simili a un covile di feroci e scaltriti animali anzi che d’uomini! Pedagoghi, pedagoghi… Ma io vado in collera e la collera non mi fa bene alla sanità, e se ho da viver vecchio, bisogna che lodi i pedagoghi che fanno bene assai, anzi farebber male a non fare così. La più sana maniera di ragionare eccola. Si fa così, dunque v’è una ragione perchè si faccia così, dunque è ragionevole il far così, dunque è una bestia chi pretende che non si debba fare così, e con questa limpidissima logica il mondo si governa e vanno le cose come devono e come possono andare. Io prego vivamente la Nobiltà loro a tener ben soda questa massima, e son sicuro che la loro bontà non vorrà negarmi questa grazia; anzi, se mai qualche cattiv’uomo ardisse di pubblicare qualche progetto per diminuire i mali fattizj che la Nobiltà loro per una eroica previdenza ha voluto sin ora sopportare; se questo indegnissimo cittadino del mondo sorgesse mai, Nobiltà riverita, all’armi all’armi gridino le signorie loro, lo perseguitino, lo maltrattino com’è ben di ragione e lo facciano servir d’esempio alla posterità, acciocchè tai scellerati stieno in dovere. Colombo ha scoperto un nuovo mondo e ha più che raddoppiato la dominazione della Spagna, e Colombo ritornò da quella spedizione incatenato sulla nave. Cartesio ha scosso il giogo della barbara filosofia, ed ha dovuto cercarsi un asilo fuori della sua Patria. Galileo ha fatto molto onore alla nostra Italia colle scoperte e fisiche e matematiche, e la storia ci fa sospettare che abbia avuto qualche imbroglio nella sua vita. Il Barone di Montesquieu Carlo Secondat, Presidente, ha pubblicato un libro sulle Leggi che onora la specie umana, e un gazettiere per ricompensarlo di vent’anni di fatica lo ha calunniato devotissimamente e inquietato assai negli ultimi anni della sua vita. Un uomo di merito ha stampato in Italia un libro col quale vorrebbe persuadere che gli uomini devono amarsi come fratelli, e non farsi vicendevolmente che i minori mali possibili, perciò stima che la tortura non sia una buona invenzione, stima che non sia una buona azione l’ammazzare gli uomini, nè l’arruotarli, nè il tenagliarli, nè lo strozzarli con una fune, e un certo Frate vagabondo lo accusa per empio, scandaloso, mostruoso, orribile e lo carica d’obbrobrj; e così va fatto e stiamo ben sodi, Signori miei, stiamo ben sodi, dico, ad avvilire certa razza di gente perniciosissima che vorrebbe introdurre delle novità. Io mi maraviglio come gli antichissimi antenati della Nobiltà loro, i quali se rispettiamo gli antichi dovevano essere rispettabilissimi, io mi stupisco, ripeto, anzi mi maraviglio molto come non abbiano lapidato per lo meno quel infame uomo che ha inventato le forbici. Oh poffare, che mostruosa novità che dovette mai esser quella delle forbici! Prima che s’inventasse, la Nobiltà loro avrà portate le ugne lunghe come la Nobiltà degli orsi, e il bel crine sarà stato verisimilmente in un leggiadrissimo disordine; vennero le forbici ed ecco precipitato tutto, si tagliarono le ugne, si tosarono i capelli, s’introdusse già il primo seme del lusso. Colui poi che inventò il pettine sicuramente sarà stato abrugiato vivo, questa si fu la più crudele invenzione di tutte, e se in quel tempo vi fossero stati e gazettieri e frati vagabondi, avrebbero trovato forbici e pettini insulse invenzioni, scioccherie goffissime, temerarie, perniciose ed insoffribili novità, e questo luminoso giudizio si sarebbe stampato con licenza de’ Superiori, con bellissimo margine, bel carattere, coll’errata corrige, e si sarebbe venduto dal libraro e comprato dalla illuminatissima Nobiltà loro.

Ma parlerò io sempre della Nobiltà loro, e non dovrò anzi scrivere qualche saggio sulla nobiltà mia, e sul nobilissimo mio sopraciglio, e sulla nobilissima mia maniera di verseggiare? Oh sarebbe un eccesso di modestia il farlo e un eccesso d’indiscretezza il pretenderlo; noi altri autori siamo per lo più molto sensibili alle lodi e per dar buon esempio agli altri di lodarci cominciamo quasi sempre dal farlo noi medesimi. Io dunque sono, lettor cortese, naturalmente qualche cosa di più di te; e la ragione è chiara, perchè vi vuol più testa a far un libro che a leggerlo, chi fa un libro insegna, chi legge impara, e se io per esempio ti dicessi, lettor cortese, para manum, tu avresti a preparar la nobilissima tua mano per lo staffile, e se ti dicessi flecte genua, bisognerebbe ginocchiarsi e non far tanto da bravo.

Ma ritorniamo al nostro Dioscoride, uomo celeberrimo per gli affetti ipocondriaci, e uomo che s’è fatto la barba tre volte in vita sua. Sapete che diceva Dioscoride? Se non lo sapete voi, lo so io, state attenti che ve lo dirò. Dioscoride diceva che la theriaca è una solennissima impostura e raccontava come un certo medico speziale per nome Andronico, non avendo un giorno veruno che lo venisse a ricercare ed annojandosi potentissimamente nella sua bottega, cominciò a togliere un vaso dal suo posto e da esso estrarre un pocolino della droga che vi si stava dentro, poi prese un altro vaso, poi un altro, sin che di tutti i vasi, scattole e scattolini della spezieria ne estrasse una porzione, e tutta questa farmacopea ridotta in un mortajo la mescolò ben bene. Ivi trovavansi i rimedj che accellerano il moto, ivi i rimedj che lo ritardano, ivi quello che risveglia, ivi quello che assopisce, ivi in una parola il caos della medicina. Questo gran caos volle il signor Andronico venderlo, e la Nobiltà loro lo trovò mirabile, eccellente, incomparabile, e tutto quello che finisce in abile e in ente, e da quel giorno a questa parte la Nobiltà loro mangia theriaca e compera theriaca, ed io so d’un tale che è fallito per buttare tutto il suo nella compera della theriaca, e faceva ungere persino le ruote della carrozza colla theriaca, sebbene la theriaca non l’abbia mai risanato da verun male; e sebbene la Nobiltà del genere umano non sia mai guarita da verun male veramente per la theriaca, pure da secoli e secoli seguita a fidarsene e a lodarla, e nessun remedio in medicina è stato mai tanto condecorato come la theriaca, e nessuna medicina ha mai contribuito tanto al commercio quanto la theriaca, e stieno pur sode le Signorie loro e non si mutino, che Dioscoride è poi sempre Dioscoride, e così la noja d’un uomo è stato un affare serio per molti secoli anche in questo. Ma qui dirà qualche criticuzzo: Dioscoride è un uomo già sepellito, e Dioscordio è una cosa diversa poichè è un elettuario. Criticuzzo, sta zitto, ch’io voglio scrivere come mi torna comodo, e se hai speso i tuoi quattrini a comprar questo libro peggio per te, e non voglio essere seccato da nessuno, ed io non t’ho nè obbligato nè consigliato a comprare le bellissime mie produzioni; ma la theriaca è buona, buonissima, e fa bene la nobiltà loro a servirsene, e lodo assai, e applaudisco e prego che il cielo mi dia il talento di farne e venderla alla Nobiltà loro.

Dunque la nobiltà mia ascende sino al tempo della venuta in Italia dell’Imperatore Federico, e un mio antenato era Palafreniere del celeberrimo Dottor Martino. Non tutti i miei lettori sanno la storia come la so io, perciò ascoltate cosa avenne in que’ tempi appunto fra il Dottor Martino e l’imperatore. Cavalcava quel Monarca fra due celebri giureconsulti, uno chiamato Bulghero e l’altro Martino, e siccome entrambi que’ Dottori erano ingegni sottilissimi e indagatori imparzialissimi della verità, così cominciarono a disputare fra di essi, uno sosteneva che l’Imperatore è padrone del mondo intero quanto alla proprietà e quanto all’usofrutto; l’altro sosteneva che è padrone bensì quanto alla proprietà ma non quanto all’usofrutto. Convenivano però in questa cardinale massima, che un uomo solo è padrone di tutto il mondo in proprietà. Mentre si dibatteva questa profondissima questione Beruldo, o Bertuldo, o Bertoldo, Palafraniere del famosissimo Dottor Martino e mio glorioso ascendente, fu balzato a terra dal cavallo e si ruppe il sedere, ed esclamò ad alta voce: Ahi il mio sedere! Quel gran Palafreniere Beruldo, o Bertuldo, o Bertoldo non sapeva forse quanto importante fosse la sua esclamazione. Essa provava che v’era un sedere al mondo che non era di quel Principe che aveva dominio di proprietà sul mondo intero; essa provava che Beruldo, o Bertuldo, o Bertoldo aveva in proprietà un sedere, che lo chiamava mio in presenza di due celeberrimi giureconsulti. Ognuno facilmente da ciò può scorgere come la sana dottrina de’ pubblicisti de’ nostri giorni sia derivata da quella conspicua esclamazione, e lo stipite da cui discendo fu il precursore d’una scenza che ha prodotto sin ora alcune persecuzioni a chi l’ha dilatata, che ha trasportata la filosofia dalle scuole ai gabinetti, e che ogni giorno più va accrescendo l’umanità e la giustizia nelle leggi sociali. Vi sono degli animali che vivono in società e degli animali che vivono solitarj. I socievoli sono le api, i corvi, le formiche, i castori e simili. Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur, e con ciò un uomo di garbo provò che non si doveva approvare l’innesto del vajuolo. Pare impossibile il vedere la serie delle corbellerie che la Nobiltà loro ha fatte dal principio del mondo a questa parte; la storia è l’archivio delle pazzie dell’uman genere, e la consulti e la legga bene chiunque voglia concepire una profonda idea di rispetto per la Nobiltà loro. Quando vedo qualche cosa di buono io mi ritiro dietro tre passi per la maraviglia, diceva un uomo che in vita sua ha somministrato meno degli altri all’archivio delle debolezze umane. Si può dare! Avete diecimila innestati in Costantinopoli, tutti risanati senza eccettuarne un solo, ne avete più di seimila in Europa; l’Inghilterra usa l’innesto senza che vi sia un solo che vi contraddica, la Svezia, la Danimarca, la Toscana tutte innestano e nessuno più muore di vajuolo; e voi volete per forza esporvi al pericolo di rimaner in preda a una ferocissima malattia che ammazza per lo meno un dieci per cento, che tarpa la pelle e diforma la fisonomia a un terzo di chi la ha! Madri, padri, zii, avi, fate a modo vostro e peggio per chi si vuol riscaldare a farvela intendere. Non è già ch’io non veneri chi osa esporsi al ridicolo ed alla vessazione per far del bene agli uomini, Signori no; ma per dirla, io ne spero tanto poco, ed amo tanto la santa pace che lascio fare e me la godo. Bene dicere de priore, facere debitum suum sic lac, sinere mundum ire sicut vadit. Bellissima massima… Ah vile, ah iniquissima proposizione! Dunque il piacere di far bene all’uman genere, per quanto ce lo permettono le nostre forze, sarà sì piccolo, sì poco nobile, sì poco da curarsi! Dunque l’interno sentimento d’una benefica virtù e la potentissima attrattiva della più augusta gloria potranno sì poco che un infingardo sentimento di dapoccagine debba superarla! Ah no; non sia mai vero che nel cuor nostro si spenga quel benefico entusiasmo che porta le anime sublimi a far grandi cose; gli errori degli uomini sono inerenti alla attuale situazion delle cose; ma gli uomini, ma gli esseri sensibili sono compagni nostri e nostri simili. Anime che conoscete la virtù, non vi lasciate distorcere mai dall’agire quanto più potete dal far bene; vero è che la moltitudine istessa beneficata da voi non vi sarà grata; vero è che quel mare procelloso che chiamasi volgo vi offenderà co’ suoi flutti, ma il sentimento interno di voi medesimi nessuno ve lo toglierà mai. Scrivete, uomini capaci di ben farlo, avventatevi arditamente contro i vergognosi pregiudizi che opprimono gli uomini e li guidano per un tortuoso labirinto d’errori. Scrivete per riscuotere i contemporanei vostri, ma non prendete il mio stile, perchè, capperi, il mio stile è mio, e l’ho inventato io a bella posta per non essere confuso cogli altri, e se vorrete imitarmi non sarete mai originale, se vorranno poi imitarmi la Nobiltà loro è libera a farlo.

Ma la corbelleria più grande l’ha fatta Marco Tullio Cicerone, quando, per aver messi al dovere alcuni pochi vagabondi senza nessun pericolo, pretese poscia in Roma il trionfo; ma il Senato non glielo volle accordare; e il valoroso Midleton dica pure quello che sa dire colla elegantissima e filosofica sua penna, che Marco Tullio Cicerone la corbelleria l’ha fatta grossa e non la scappa, e non v’è modo di coprirla. Cercare il trionfo, ma perchè? Per aver dissipati quattro gatti. Eh eh Marco Tullio, giudizio vi vuole, nè bisogna mai cercare un posto più grande di noi, se non vogliamo comparire più piccoli del posto, perchè come ho detto dissopra quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur; e tant’è vero questo bellissimo detto quanto che so io d’un certo scrittore attrabilare, che stampava delle villanissime maldicenze contro gli uomini di merito: essendo un giorno sonoramente bastonato, ricevette la correzione con quella modestia che conveniva a un maldicente; recepit ad modum recipientis, venne a casa, si stroffinò le spalle coll’acqua di regina, prese un bicchiere di vin di Cipro per ristorarsi, ringraziò il cielo d’esser fuori di pericolo, prese la penna e scrisse una favoletta in cui si descriveva come un eroe e dava parte al pubblico d’aver egli bastonato, e d’essere stato vilmente bastonato in vece quello che realmente era stato l’attore. Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. Lettor mio, da questo fattarello impara qual credito si debba a certe storie antiche nelle quali, oltre gli errori della mente dell’autore, oltre lo spirito di partito e le passioni che lo avranno mosso, vi si devono aggiungere gli errori degli scrittori di secoli e secoli. Scrivere la storia non è già un piccolo intrigo, e se volessi scriver io, in vece di questo gran libro, la storia delle cose sinceramente come vanno al dì d’oggi, sapete voi che accaderebbe? Accaderebbe che non passerebbero sei mesi ch’io sarei assassinato in qualche modo, perchè la Nobiltà loro non potrà amare la verità nuda e schietta che quando non farà più tante corbellerie, e in conseguenza spero che questo amore nudo e schietto non nascerà mai universalmente nel cuore della Nobiltà loro; e se io dovessi scrivere buonamente le poche bestialità degne della storia che ho vedute accadere dacchè rifletto sugli oggetti che mi stanno attorno, buonamente perderei per lo meno la mia libertà, e ne sia un testimonio il trattamento fatto alla Storia del Presidente du Tou, e ne potrei accennare degli esempj anche in Italia se questo appunto non mi esponesse al pericolo che devono sempre incontrare gli storici esatti. L’unica maniera per tramandare ai posteri un sincero racconto delle belle e delle brutte cose che abbiamo vedute in vita nostra si è di scrivere riservatamente, e di lasciare il manoscritto alla morte perchè sia consegnato a qualche stamperia libera; allora la Nobiltà loro non può più far male all’autore, e se vuol prendersela collo scheletro ogni discreto uomo vi si sottoscriverà; per me basta che mi si lascino passare men male che posso i giorni della mia vita, finita ch’ella sia, quand’anche mi venisse fatto il trattamento che s’è fatto ai Vampirj non me ne importerebbe un ette, e chi non sapesse cosa sieno i Vampirj legga le belle Dissertazioni del Calmet, e imparerà una lista di provatissime e chiarissime verità su questo proposito. Ma, luci belle del mio adorato Lettore, e leggerete voi tutte le belle cose che ha scritto Don Calmet? Se non volete leggerle non vi sarà gran male, fidatevene sulla mia parola in fatto di Vampirj, e se volete credere che l’opinione dei Vampirj radicata per secoli in alcuni Regni e Provincie della nostra Europa è un errore popolare, credetelo anche sulla mia parola; poichè di tempo in tempo ogni mille secoli accade questo straordinarissimo prodigio, che la Nobiltà loro prenda per vera una cosa falsa, e sono piccole, piccolissime macchie al terso splendore della folgoreggiante ragione delle Signorie loro, le quali non pregiudicano mai alla inconcussa definizione Animal rationabile. Che delle corbellerie si facciano, passa, ciò è conforme allo stato presente dell’umana natura, ma che si facciano gravemente e che con una seria stupidità, e con passo di piombo passeggi la grave ignoranza, e col misterioso silenzio si disimpegni dal non saper parlare, e con un giuoco di parole senza senso enigmaticamente si faccia credere di possedere in petto gli arcani, questa è una moda che presso me non è ricevuta, e v’avviso e vi diffido, uomini gravi, lanterne pedagoghe dell’universo, vi avviso e vi diffido che con me non guadagnerete mai terreno, perchè vi conosco addentro e sotto la pelle, e so che siete veri palloni a vento, e non me ne farete mai dubitare un istante, con tutta la più costante magia del vostro portamento e dell’increspata ed accigliata fronte. Questa solenne protesta basti per sempre. Io sono naturalmente un buon uomo, mi lascio vedere qual sono, scrivo un libro quando ne ho voglia, se trovo due fanciulli che giuochino alle noci entro per terzo a giuocare con essi, e trovo in quelle innocenti creature più ragione e più sentimento di quello che non ne trovi in tutti i più pesanti uomini del globo se ne cavassi la quintessenza. Io distinguo due sorti di gravità: una è la stolida ed è quella degli uomini d’un’età matura che si coprono spontaneamente con questa sdruscita clamide per essere riputati quello che non sono; l’altra è la serietà de’ giovani cagionata spesse volte da un principio di modestia e timidezza, principio ottimo, serietà comendevolissima e utilissima, poichè dà campo al giovane parlando poco di osservar molto, e prepararsi poi ad essere saggiamente socievole e allegro, giunto che sia il tempo. Giovani, se mai leggete il mio libro, sappiate per vostra consolazione che, se ora temete di fare una cattiva comparsa quando siete nella società, questo è un segno manifesto che voi non ve la farete essendo uomini; non vi lasciate scoraggiare, chi desidera d’aver del merito ne ha sicuramente; osservate, riflettete, e vi troverete d’esservi dati da voi medesimi in breve la più naturale educazione e la più amabile; e tutt’i sciocchi che sono a carico alla società sono tutti coloro appunto che non hanno mai ben diffidato di loro medesimi ne’ primi anni. Fate una prova, domandate a chi incontrate per la strada uno ad uno: Sei tu un ignorante? Vedrete che moltissimi risponderanno ignorante sei tu, altri diranno qualche galanteria in vostro dilegio, forse alcuno vi darà delle sassate, e rarissimi saranno quelli che vi risponderanno so di esserlo; chi sa di essere ignorante, e distingue le poche cose che sa dalle moltissime che ignora, è un uomo ragionevole e, per dirla con una parola diventata vereconda, è un filosofo. Ed a proposito di filosofia, vi fu un filosofo anticamente, fondatore della Setta d’Italia, per nome Pittagora, il quale sognò che le anime umane dopo la morte passassero ad abitare nel corpo degli animali; posta questa nobilissima ipotesi, ditemi un po’, Lettor cortese, che animale vi scegliereste voi di diventare? Io vorrei diventare un legale criminalista, perchè almeno conserverei la figura d’uomo. E se doveste possedere l’anello che renda invisibile? Oh vita mia, se l’avessi quante buffonerie non si dovrebbero scrivere sulle gazette! Ma frattanto che vado studiando per ritrovare la pietra potentissima o l’anello, non vuole la prudenza che io sveli al pubblico le prave mie intenzioni, conciossiafosse cosa massimamente che allora di leggeri indovinerebbesi che io l’autore fossi e l’unico motore de’ strani avenimenti già pubblicati, dal che malore o disaggio per aventura accadere me ne potrebbe, con iscompiglio di mia sempre riverita e sempre oltremodo rispettabile tranquillità.

Poi Quinto Curzio rispose all’adorata Madame: Signora, l’indiscrezione vostra è grande oltra misura, avegnadiochè di bennata e gentil donna costume sia le oneste e civili persone cortesemente e dolcemente accogliere, anzichè con villane maniere e sconci modi dileggiarle ed offenderle; e se il cuor vostro non parla in favor mio, io di buona voglia sottoporommi a’ decreti del destino e soffrirollo senza farne lamenta, sendo cosa sicurissima che quelle che sogliam inclinazioni, o propensioni geniali, comunemente chiamare, anzi che da libera scelta e disquisizione nostra, da alcuni ignotissimi e ripostissimi principj motori derivano, de’ quali la forza agir suole dagli umani desiri independente; ma l’urbanità, la cortesia e l’ospitalità, Signora, le sono virtù sempre mai inseparabili da ogni gentile spirto. – Gran be’ vezzi! Ma, domando io, son forse più rari i Quinti Curzi al mondo o gli Alessandri? Io credo che sian più rari gli Alessandri, e ciò per bene della povera specie umana; perchè i Quinti Curzj fanno un libro come un libro lo faccio ancor io, e con più metodo assai che non ha fatto Quinto Curzio; ma gli Alessandri disfanno i libri, le biblioteche, gli autori, gli stampatori, i libraj, i compratori de’ libri, i legatori, chi fa l’inchiostro, e disfanno persino i revisori dei libri, cosa che importa molto più che tutto il rimanente, perchè molti e molti revisori sono i soli che stanno in sentinella, e se vedono venire il buon senso da qualche banda gli danno subito il chi va là e indietro, e son rari i revisori che sappiano quello che bisogna sapere per essere un buon revisore e seccano poi chi sa scrivere, e perciò io, che naturalmente non amo a seccarmi, ho fatto rivedere il mio libro da un revisore discreto e che sa il mestiere, e son andato a cercarlo dov’era, e gli altri revisori dieno pure il chi va là a chi avrà la bontà di ricorrere al limatissimo e sapientissimo loro giudizio, ch’io mi ricordo di quel bel detto che cum ignorante principia non est disputandum. Va un giovane di buona fede e presenta un manoscritto ragionevole al Sig.r Revisore, ei lo riceve con severo sopracciglio e con aria magistrale facendogli sentire l’infinita distanza che passa fra chi dà da rivedere e chi deve rivedere. «Torni dopo domani, ho molto altro per le mani, vedremo.» Torna il giovane dopo domani. «Ma Signore, vi son delle magagne, ed io non posso passare il libro.» «Vediamole.» «Qui dice vi scongiuro, scongiurare non va bene.» «Signor Revisore, perchè non potrassi dire, come qui, vi scongiuro a pensar bene a’ casi vostri?» «Non si può assolutamente, scongiurare è cosa che concerne gli spiriti o infernali o aerei, muti il verbo o io non lo passo.» «Benissimo, diremo vi prego.» «Scriviamo vi prego. Avanti, alla pagina 18 dice: ho uno scrupolo, scrupolo non va bene, lo muti.» «Ma Signor Revisore…» «Non ho tempo da perdere con lei, o muti o non passa.» «Mutiamo dunque ho un dubbio.» «Dubbio piuttosto scriva.» «Ho scritto.» «Avanti, alla pagina 20, parlando del Dottor Goldoni, nomina Pamela e Moliere, queste due parole non vanno.» «Ma, signor Revisore, perchè?» «Oh che noja! Perchè Pamela è un romanzo Inglese proibito e Moliere è un autore francese che si proibirà.» «Signor Revisore, qui si parla non del romanzo Inglese, non dell’autor Francese, ma sibbene di due commedie del Goldoni, le quali s’intitolano una Pamela e l’altra Moliere, e sono state rappresentate con questi nomi per tutta l’Italia.» «Ebbene, ella nomini due altre commedie…» «Ma se queste due son quelle appunto che corrispondono alla idea che ne dò!» «Pamela e Moliere non le passo.» «Mi dia dunque il mio manoscritto.» «Lo prenda e non mi rompa più il capo.» E così torna a casa il povero giovane, incoraggiato a proseguire le lettere, e così si tiene in lena il commercio della stampa. E che dirò poi quando si ricusa di permettere la edizione d’un manoscritto prima di saper nemmeno cosa contenga? E che dirò poi quando si fa rapresaglia d’un manoscritto presentato con buona fede e non si vuol rendere! Questi fatti tutti quanti non sono chimere sognate, ma sono fatti accaduti precisamente in questi termini, e per ciò non se ne parla, perchè i giovani che amano e coltivano le lettere sono per lo più lontani dall’amare il chiasso, e la loro modestia o la strettezza delle circostanze nelle quali sono non gli permette di far valere il loro buon diritto. Ed io l’ho voluto scrivere perchè, se mai questo mio valorosissimo libro giungesse alle mani di chi ha suprema influenza in uno Stato, pensi anche a queste vessazioni pregiudicialissime agl’ingegni che si fanno clandestinamente e risolva come gli suggerisce il suo amore per la coltura della sua Provincia. I revisori illuminati sono un bene, anzi sono uomini necessarj dovunque vi siano buone leggi, poichè colla moltiplicazione della stampa non si offendano le cose venerabili o il costume o la fama de’ particolari; ma l’abuso e il dispotico capriccioso giudizio sono un male insigne per ogni ragione, e ciò proviene dalla splendidissima dottrina di que’ Revisori che osano accettare un impiego il quale non può farsi bene che da un uomo veramente saggio e illuminato. Così disse Quinto Curzio, e mi pare che il suo discorso fosse un po’ serio, e perciò mi rivolsi a Demostene per sapere se gli alberi si dovessero tagliare in Luna nuova ovvero in Luna vecchia; al che Demostene rispose:

Le cose vecchie vagliono sempre meno delle nuove, e perciò Cleopatra piacque a Cesare, piacque a Marc’Antonio e non piacque ad Augusto, il che poi dall’illuminatissima Nobiltà loro fu attribuito a gran virtù d’Augusto, ma io so bene a che debba attribuirlo e nol vuo’ dire per buone ragioni. Quanti avvenimenti i più cospicui che credonsi prodotti dalla più raffinata penetrazione, e son l’efetto di qualche muscolo, o di qualche sfintere o rilasciato o elastico! E qui mi si aprirebbe nobilissimo campo a sterminate riflessioni che si lasciano nella penna per far parere d’aver giudizio al cospetto della Nobiltà loro; e se ogni uomo adoperasse il proprio giudizio in vece d’addormentarsi sul giudizio altrui, gli uomini in generale avrebbero più giudizio di quello che non hanno. Io vaticino l’avvenire, e per esempio vedo chiaro, chiarissimo che un qualche uomo grave di quelli che ho lodati dissopra, prendendo questo aureo mio libro fralle mani e giudicandone gravemente con moltissimo spirito, troverà che in questo libro non v’è il senso comune e pronunzierà la sua sentenza in conformità di ciò, la qual sentenza sarà accettata per consenso di molti, e il mio povero capo d’opera dovrà essere trascurato per alcune settimane; e voglia il cielo che non gli si scaglino contro delle Fruste Letterarie, e non se gli scrivano delle Note ed osservazioni, ovvero non si ristampi con note critiche, beneficj tutti che la Repubblica delle Lettere vede uscire dall’officina del Sig.r Zatta di Venezia. Ed a proposito di Frustra Letteraria di Aristarco Scannabue, che ne dite, Lettor cortese, di quell’amenissima produzione! Per me credo che sia cosa più generosa il non dirne nulla; poichè quando un autore è afflitto ed abbattuto, non è una azione virtuosa l’accrescere i suoi mali; e poi ormai la memoria della Frusta è smarrita, e se volessi parlarne in questo mio libro immortale in vece di fargli torto gli farei un bene massimo, poichè meco ne passerebbe il suo nome ai posteri. Nè voglio io fare come sogliono gli Ebrei giudiziosissimamente, i quali un giorno dell’anno leggono nella Sinagoga il libro sacro d’Esder, ed ogni volta che ivi si nomina Aman esclamano tutti Perisca la memoria di lui, dalla qual funzione ne nasce che non vi sia memoria più ben conservata che quella d’Aman; la Nobiltà Ebraica cade con ciò in una tenuissima contraddizione ch’io oso presentarle riverentemente acciocchè si degnino da qui in avenire di non esclamare più contro di Aman, ma anzi di non avvedersi se è possibile nemmeno del suo nome, unica strada per farne un po’ perire la memoria. E qui esclamerebbe il divino Omero σμερδαλέον κονάβιζε, parole che hanno fatto spargere sudori potentissimi a insigni eruditi per indagare la genuina indole della voce σμερδαλέον, la quale subdorava un pocolino dell’Arabo.

Seneca si divertiva un giorno in un prato a prendere grilli con una paglietta industriosamente. Ognuno sa che quel ipocrito che predicava una virtù che non seguiva co’ fatti, e che la dipingeva con colori tanto terribili da non invogliare veruno a seguirla, ognuno sa che mostrava in faccia al pubblico un contegno maestoso e grave, e sa pure ognuno che in privato si dilettava della caccia de’ grilli, e se nessuno anche lo sapesse non preme. Un giorno dunque il Signor Seneca andava stuzzicando un grillo e lo stava aspettando perchè uscisse dalla tana; venne il grillo ed affacciatosi alla finestra: Servitor riverente al Signor Seneca, disse, che vuol ella da me? Che voglio? rispose Seneca. Voglio che tu mi renda il mio onore, o che tu mi sposi in quest’istante o che io con questa conocchia ti cavo un occhio. Allora prese il grillo un gran secchio d’acqua bollente e lo rovesciò sul capo a Seneca, il qual n’ebbe l’emicrania per tre giorni, poi dovette metter parucca, o pirucca, o perucca, come vi piace. E questa storia è vera, legitima, e confermata da infinite iscrizioni che si ritrovano sotterra ad ogni passo, e se la Nobiltà loro avesse mai avuta la benignità di crederne di simili, resta riverentemente supplicata a voler accogliere benignamente anche questa; una di più è sempre un acquisto per il cospicuo tesoro delle ragionate e limpide nozioni degli uomini posti in società. E qui mi viene, ovvero, mi cade in acconcio di ragionare, ossia, di favellare sugli errori, o vogliam dire, traviamenti che sono, o per meglio dir, sembrano radicati essere nelle menti e, direi quasi, ne’ cuori delle Nazioni ed, oserei dire, de’ Regni diversi d’Europa sul punto cioè sul modo di guerreggiare e, se tanto pur m’è lecito dire, di combattere vicendevolmente. E se la estrema pudicizia, o per meglio dir, verecondia il consentisse, alcune tenuissime osservazioncelle aggiugnerei riverentemente, qual cieco che va prudentemente con un bastone avanti per farsi strada fralla onorata folla della Nobiltà loro, in questi ossequiosissimi termini. I Granatieri, per esempio, sono, dato il caso, i soldati più vigorosi e intrapprendenti verbigrazia d’ogni altro soldato: devono dunque essere vestiti in modo che non gl’impedisca di agire, di marciare, di rivolgersi all’occasione. Vediamo come la Nobiltà loro gli veste. Un pan di zucchero in capo di pelo d’orso, il quale, se s’abbassano cade per terra, se viene una sciabolata la lascia passare felicissimamente al cranio, se viene la pioggia la lascia inzuppare tutto il capo. Il collo cinto con uno strettore che impedisce la circolazione libera del sangue; l’abito colle maniche strette che non lascia un facile moto alle braccia; una fascia di cuojo a cui è attaccata una enorme scattola coperta di cuojo ed abbellita con pesanti pezzi d’ottone, ed a che serve? A custodire trentasei cariche di fucile, delle quali sarebbe insensibile il peso se fossero riposte in un recipiente proporzionato ed aderente alla cintura. Osservo di più che nell’azione, massima essendo la premura di caricare e far fuoco, serve d’un grande impaccio tutta la gran fascia di cuojo che va dalla spalla al fianco, e co’ diversi moti del corpo movendosi la scattola pure ove stanno le trentasei cariche, si perde assai tempo a ricercarla, trovandosi ora sulla schiena ed ora sul fianco ed ora più avanti la persona. Aggiungasi a tutto ciò i tre vincoli che si fanno porre alla giuntura del ginocchio pare a bella posta per imbarazzare il passo nella marcia… In somma da capo a piedi, se vorremo esaminar le cose senza prevenzione, troveremo che l’abito del soldato è il meno atto che si potesse immaginare per vestire un soldato, e così la pensava anche il Maresciallo di Sassonia.

Ma esaminare senza prevenzione, quest’è una domanda indiscreta; perciò ordiniamo e comandiamo che d’ora in avenire si continui a vestire il soldato come vuole la moda, non mai quella importuna che si chiama ragione, la quale deve fare de’ buoni libri, sebbene molti se ne facciano senza sua saputa, ma non deve intricarsi nel regolamento delle cose di questo mondo, come diceva. E qui facendo pausa al tersissimo mio risplendentissimo stile, come nel verde aprile un uomo signorile sente un calor febbrile promosso dalla bile che va da Batto a Tile, viaggio che lo fanno tutti i poeti in qualche rima e che gli uditori ascoltano benignamente per la millesima volta, o se non volete volta dirò fiata. E poichè siamo sul proposito de’ poeti, io mi vuo’ prudentemente proccurare la loro protezione non tralasciando in questo luogo di scrivere alcune osservazioni che rispettosamente presento alle falde del sacro lor monte. Cos’è la poesia? Due sorti di poesia io riconosco; una la chiamerò una fortissima eloquenza che dipinge al vivo gli oggetti e li combina con impensate unioni, opera d’una libera e vivacissima immaginazione; l’altra la chiamerò la mecanica maestria di racchiudere le parole entro una data misura, con dati accenti e talvolta con una data desinenza. Per intenderci ancora più chiaramente, la prima la chiamerò poesia, la seconda verseggiazione. La poesia può dunque darsi anche in prosa, ma non potrà alloggiare giammai che in una mente sollevata oltra il comune livello degli uomini, e capace di quel divino entusiasmo e di quella calda pazzia con cui un uomo può fare ilusione a se medesimo e destarsi fattizj sentimenti, fattizj oggetti e passioni fattizie; questa è quella che è stata divisata col cavallo che vola; ma se sul dorso di quest’alato destriero non sede Filosofia che reggalo al corso, tu lo vedi errare e delirare ne’ suoi voli incerti, e nascerne sogni e larve che in vano cercheranno mai sempre i poeti di giustificare agli occhi de’ ragionatori.

La verseggiazione poi è una professione per se medesima tanto nobile quanto lo sia quella dei facitori d’anagrammi, d’acrostici, di bisticci e simili capricciosi studi di combinazioni di lettere o sillabe. Ora, la maggior parte della Nobiltà Pindarica è di questi misuratori di sillabe, i quali a forza d’applausi e d’uso perdono la erubescenza di scrivere delle scempiaggini, ed acquistata che hanno la facilità dello scriverle, ti vengono berniescamente a addormentare con floscissimi e goffissimi versi, ti vengono a rompere il capo con bellissimi versi di questo conio:

Un dopo pranzo dopo aver pranzato,
Mentre faceva la digestione
Io me ne stava sul letto sdrajato,
Perchè dopo pranzato, in conclusione
È sempre cosa buona il riposare
Per quanto me ne dicon le persone,
Nè si corre pericol da ammalare,
D’avere o mal di capo o mal di gola,
Senza de’ quali meglio si può stare.
E questa cosa l’ho imparata a scuola
E avrei ben spesa tutta la fatica
Quando imparata avessi questa sola

e così va dicendo.


Gran facilità, gran bella facilità, grida la nobiltà loro! Grande impudenza, grida la Nobiltà mia, gran melensagine! Oh puoffare, che maraviglia v’è che le scioccherie si facciano e si scrivano facilmente! La maraviglia è che si trovi chi le ascolti e perchè sono scritte facilmente le applauda! E questi saran poeti! E costoro, ai quali scorre il brodo di pollo per le vene, oseranno nominare estro, voli e fantasia! E costoro sederanno a scranna e saranno intrusi nella poetica famiglia, e pretenderanno di servir di modello! Oh Italia, augusta Italia, madre, cultrice, maestra delle belle cose, oh misera Patria mia! Questi, questi sono i tuoi ferocissimi Goti, i tuoi Longobardi, che deturpano ogni tuo splendore. Oh Frugoni, oh Metastasio, oh Bettinelli, oh Algarotti, oh Mozzi, oh Italiani benemeriti della Nazione e benemeriti della poesia, oh autore delle Lettere di Virgilio agli Arcadi, deh non dormite su i vostri allori, vi calga della gloria Italiana, e dopo averla accresciuta e difesa co’ vostri tratti di vera poesia, difendetela, accrescetela anco combattendo la scempiata maniera di diventar poeta che l’impotenza d’alcuni vorrebbe pur mettere in voga
versus inopes rerum nugaæque canoræ.
Stampatori d’Italia, ristampate, moltiplicate gli esemplari delle Lettere di Virgilio agli Arcadi. Mecenati d’Italia, fateli distribuire gratuitamente a tutt’i giovani inclinati alle Muse. Scrittori tutti, gridate meco e gridate ad alta voce: fuori, fuori d’Italia, scioperati poetastri, insulsissimi verseggiatori; a far scarpe, a far calze, alla marra se volete pur vivere sotto a questo cielo, ma non a sporcare, a infangare la poesia nostra ed a farla arossire in faccia ai Voltaire, ai Gresset, ai Pirron, ai Milton, ai Pope, agli Haller, ai Gesner e a quanti gentili ingegni produce l’Europa! Fate un fascio di tutte le poesie imitatrici del Berni, fatene incartar le sardelle, le anguille e i baccalà: non sono esse fatte che per i cibi quaresimali; fuori, fuori, poetastri guasta mestiere… Ma la nostra bella prosa di questo insigne libro, domando io, darebbe mai presa ai nostri amicissimi verseggiatori da scriverci contro qualche bellissimo capitolo? Noi porremo in non cale le tisicuzze loro dicerie, perchè noi siamo i Carlo Dodici delle Lettere, e quando c’incoronano prendiam la corona e ce la poniamo sul capo da noi prima che il cerimoniere lo faccia, e quando giuochiamo a scacco con un fuffetto slanciamo fuori dello scacchiere le pedine che c’incomodano, e in somma in questa nostra sublime opera facciamo professione d’un ampissimo libertinaggio letterario, il quale ci è sommamente comodo nello scrivere, perchè un libro poi non è una sassata, non è una cannonata, e si può lasciare ad ognuno la libertà di scriverlo come vuole, basta che l’autore lasci a noi la libertà di leggerlo e di non leggerlo, cosa che io accordo con plenario indulto a qualunque me lo domanda; perchè di mio fondo son uomo generoso assai, e se talvolta me la diverto in quattr’occhi colla Nobiltà loro, ciò è così per passatempo e fuggir l’ozio, per altro nel fondo del mio cuore ho una vivissima cognizione del raro merito della Nobiltà loro… Ma raro merito, raro! A tutto il genere umano! Vita mia, qual cosa vi può essere di men rara per un uomo che quella che universalmente è comune a tutti gli uomini! Zitto, ben mio. Non leggesti tu mai le gazette in tempi di guerra quando raccontano qualche fatto d’arme? Non osservasti tu mai che i gazzettieri ci danno parte che il tale ha fatto la tal bella impresa, il tal altro la tal altra, e conchiudono poi col dire che in generale tutto l’esercito s’è distinto singolarmente? Ora, da chi si deve distinguere un esercito? Se dunque un esercito si distingue, anche le prerogative del genere umano possono chiamarsi rare. Un mio caro amico direbbe che son modi di dire, con questo modi di dire ti salva ogni più majuscolo svarione, o per meglio dire ogni svarion per madornale ch’egli si sia.

In conclusione anco i poeti saranno amici miei e lodatori del mio libro. Tenete ben ferma la massima, lettor mio, che bisogna sempre farsi voler bene da tutti, e massimamente scrivendo avere riguardo di non criticare mai veruna classe di persone. Tenete pur ferma anche quest’altra massima, che scrivendo bisogna di tempo in tempo fare il verecondo e domandare per dir così licenza di scrivere una verità. Volete dir per esempio che gli uomini si determinano più per uso che per ragione? Questa è una verità cardinale, ma pure per dirla con eleganza dite così: gli uomini, se tanto pur è permesso il dire, si determinano, direi quasi, per uso più che per ragione; e così fate tre bellissime cose in un sol colpo: la prima che placate il lettore, il quale vedendovi un pover uomo non v’invidia; la seconda che scemate di forza la verità che dovete annunziare, così che ella non fa più colpo; la terza finalmente che allungate il periodo e moltiplicate le parole senza prodigalmente gettar le idee, le quali tre bellissime cose formano poi un bellissimo tutto che chiamasi pedestre mediocrità. Un’altra osservazione pure ha fatto Aristotele Spargirico sullo stile stentato e falso di alcuni, ed è quando nella scrittura s’interpongono que’ pentimenti che vanno nel discorso e che realmente diventano ridicoli, scritti che essi sieno; mi spiego: quand’io leggo così: A tal nuova io fui percosso, o per meglio dire racapricciato da capo a piedi, se ti penti di avere scritto percosso e credi che sia detto meglio racapricciato, cancella il percosso e lascia il racapricciato, e sbandisci per sempre i per meglio dire, poichè scrivendo ogni ragion vuole che si scelga il miglior modo di dire che ti si affaccia alla mente, e che in vece di lasciarne uno men perfetto e correggerlo con un per meglio dire, dì meglio di fatti, senza che i lettori siano costretti ad assorbire la serie de’ tuoi pentimenti. Si pente una fanciulla che diceva di volersi far monaca, e questo pentimento stravagantissimo la conduce a voler un marito: facciamo una seria riflessione su questo caso pratico. Una monaca, sta bene. Una maritata, sta bene. Una monaca maritata devo dire che sta male, e così monaca e maritata e percosso e racapricciato e per meglio dire, formano un pasticcio, bisticcio, capriccio, impiccio che se lo intendete voi me ne rallegro assai di cuore. Molte cose è più facile lo intenderle che lo scriverle; molte cose è più facile lo scriverle che l’intenderle, distingue tempora et concordabis jura, lo diceva un uomo che lo ha fatto ripetere a molti e molti uomini; e qui facendo divotissima riverenza, passerò ossequiosamente al Capo Primo.

Capo Primo

Dappoichè l’uman genere prese la bestiale forma che leggiadramente lo va condecorando anche oggigiorno e che s’inventò la bell’arte di comperare gli uomini neri della Guinea e del Senegal a cinquanta scudi l’uno, per farli poi vezzosamente lavorare ai zuccheri in America, cosa conformissima alla umanità che ci ordina di non mangiar fragole senza zucchero a qualunque costo; dopo, dico, che s’è presa la bestiale forma che luminosamente osserviamo, strana cosa non è e non sarà mai che escano dalle tenebre alla luce del giorno de’ libriccini, libricciatoli, libercoli, libricuzzi e simili, che non contengono nulla di grave e di serio e veramente nutritivo per i benigni lettori. Io vengo a darne un esempio senza esempio, e per farmi da capo all’origine di tutta la odierna questione convien sapere prima di tutto che vi fu un uomo che si chiamava Scanderbek, e Scanderbek significa Signor Alessandro, Scander Alessandro, Beck vuol dire Signore. E qui si prega umilmente la posterità a lasciarlo passare senza commento. Dunque siccome le pillole mercuriali contenendo il mercurio Trimegisto, che si difonde per le cataratte del Nilo sino alle sponde dell’Eufrate, cugino in terzo grado con mio suocero il qual discese dal palafreniere del dottor Martino che fece quello che ho già scritto così, virgola, nel profondo rubicondeggiare delle amene pupillette, leggiadramente sbadigliando prese fiato e disse:

Nobilissimi lettori, che discendete tutti quanti da una cospicua prosapia di generosi antenati che non hanno mai fatta o detta cosa che non fosse degna d’essere scritta in questo mio bellissimo libro, ditemi un poco, o ditemi molto, qual differenza fate voi fra un impiccato e un cavadenti? Io vedo che la nobiltà vostra corre in folla e attornia sì l’uno che l’altro, e sembra che prenda egual diletto nelle favolette che vi spaccia il cavadenti come nell’aspetto delle estreme orribilissime angoscie d’un uomo al quale pubblicamente s’annoda al collo una fune per strozzarlo e farlo perire con una iniominiosa morte. Gran bel cuore della nobiltà loro, che sa godere di così ameno spettacolo! Gran bel coraggio, di vedere insensibilmente l’estremo strazio di un disgraziato senza alcun pericolo vostro! Volete mostrare coraggio? Difendete il vostro Sovrano valorosamente quando i nemici lo costringono a mover le armi contro di essi; là in faccia ad una batteria, fra lo strepito de’ globi di ferro che vi fischiano d’intorno, avventatevi a quelle voragini di fuoco e piantatevi il primo vessillo. Volete mostrar coraggio? Correte laddove il fuoco minaccia la rovina alle case de’ vostri cittadini, ivi cercate di salvare la vita e la roba degl’infelici e meritatevi qualche lagrima di ringraziamento. Volete mostrar coraggio? Osate anche colle parole sostenere la causa della verità in faccia a chi la tradisce, osate difendere il merito oppresso, osate contraddire al maldicente gallonato che malmena il povero onorato. Così mostrerete assai meglio il coraggio e la nobile fermezza dell’animo vostro; ma mentre siete spettatori d’un uomo miserabile legato e agonizante che riceve dal carnefice il fatal colpo, uomini, uomini, siete allora uomini? Io credo che allora siate ostriche o lumache tutt’al più. E le lumache particolarmente sono amiche de’ Zoccolanti, i quali in refettorio ne fanno grand’uso, ed io ricordo che in mia gioventù delle lumache appunto raccolte da’ Zoccolanti ne ho fatto un uso particolare, poichè mi venne in capo di formarmene una bellissima parrucca di gusci di lumache tutti dorati e pendenti da un filo, ed erano tanti e sì leggiadramente disposti che mi cadevano sulle spalle e sulla schiena, e mai non fu fatta in prima una parrucca che facesse in maschera una più luminosa comparsa, nè che facesse tanto mormorio ai purgatissimi orecchi della Nobiltà mia.

Gran bel divertimento che si trova in sì fatti spettacoli! Io amo gli spettacoli che mi divertono, amo gli spettacoli che eccitano nel mio cuore una dolce emozione. Il nostro illustre Goldoni ce ne ha dati di tal sorta, e massimamente nelle sue commedie Veneziane ci ha fatto gustare de’ capi d’opera della naturalezza e maestria comica. Gridate, sbuffate, pedantini, pedantoni, cuori di marmo, gridate, urlate, che Goldoni avrà sempre in molte sue commedie le lagrime de’ cuori sensibili e gli applausi delle persone colte. Gridate, sbuffate, eccellentissimi grammatici, contro Goldoni, che le commedie belle di Goldoni sepelliranno voi e i vostri pedanteschissimi scritti, e l’Italia leggerà quelle dopo molti anni che sarà perito il vostro nome. Ma Goldoni dov’è? È in Francia. In Francia, Italiani miei, un sì benemerito vostro paesano! E la Francia offre un più onorato e liberale ricovero a un ingegno Italiano che non l’Italia! Oh, se in vece di far questo bel libro avessi forza da comandare a chi fa i libri, Goldoni illustre, tu saressi in Italia tanto bene che non ti verrebbe voglia di stabilirti altrove. Ma conciossiacosachè il mestier mio sia debolmente di scrivere così, converrà ch’io mi riposi sulla ragionevolezza della nobiltà loro, la quale anche su quest’articolo farà qualche risoluzione al solito. Epaminonda stranutò in quel punto e tutti della brigata gli dissero evviva, perchè lo stranuto è cosa per sè mortale come ognun sa e assaissimi mojono di stranuto, e si deve perciò dire evviva per tema ch’ei non moja sin tanto che la perspicacia della ragione umana non inventi l’evviva per lo sbadiglio, convulsione deliziosa per dir vero, la quale nasce alla lettura degli Asolani di Messer Pietro Bembo e di varj altri sì fatti libri. Questa proposizione merita un comento ed eccomi pronto a farvelo con tutto il cuore. Quando io dico che gli Asolani fanno sbadigliare, s’intende che fanno sbadigliare la mia nobilissima persona e i nobilissimi uomini che mi somigliano, ma ciò non toglie che gli Asolani non divertano infinitamente e deliziosamente molti e molti, ai quali lascio tutta la natural libertà di divertirsi com’è di ragione dove e come vogliono. Di più: permetto a tutt’i Dottori dell’universo, a tutt’i profondi grammatici, metodisti, antiquarj, eruditi, pesatori, misuratori, saggiatori di parole, di medaglie, di pergamene ec. di sbadigliare largamente e cordialmente sulle pagine di questo mio capo d’opera; perchè la convulsione dello sbadiglio nasce sempre quando v’è molta distanza fra l’autore e chi legge o l’uditore e chi parla. Anzi, se con un esatto quadrante si esaminassero gli sbadigli e il grado dell’angolo di ognuno d’essi, sarebbevi la scala diattonica per integrare la x, cioè la quantità per cui distano l’agente e il paziente, sia ella positiva o negativa. Ed a proposito di x, non mi dimenticherò mai d’un accidente assai curioso avvenuto a un certo tale, il quale facendo un conto d’entrata e uscita e registrando in questo conto una quantità incognita, vi appose di contro il segno x. Ora, questo benedetto segno x alcuni lo credettero una croce di Sant’Andrea e fecero spiccare le loro cognizioni araldiche; altri lo credettero un dieci numero Romano; nessuno vi fu che lo credesse un igs ventesima prima lettera dell’alfabetto, e questo certo tale non potè mai persuadere al suo prossimo che quell’x era una quantità che entrava nel suo conto, e gli fu scritto contro un bellissimo sonetto ch’io per amore del merito comunicherò al benigno lettore. Il sonetto dice così:

Povero sciocco, il genio mogolese

Ai nostri giorni molti libri legge,

E molti ne censura e ne corregge
Dell’Anglo, del Tedesco e del Francese.
E tu, animal, con l’armi ad altri prese
Al popolo t’avventi e a chi lo regge;
E non t’accorgi che l’addotta legge
Si sa che non è vin del tuo paese!
Ma il peggio è ancor che del natio costume
Poco sapendo gli abiti gli addatti

Rubati a Montesquieu, Voltaire ed Hume.
Altri climi, altre genti ed altri patti,
Grida Bertoldo, impara, e con tai lumi
Dal numero d’uscir cerca de’ matti.

Quest’è uno de’ più eleganti sonetti che abbia la poesia, v’è una profondità di pensare, una felicità di esporre, una vivacità d’immaginazione, un fuoco, una chiarezza, una precisione d’idee che consolano. Genio veramente felice, patria veramente fortunata, secolo veramente colto! E qui non terminerebbero le mie ben giuste invettive contro l’autore di quell’x scandalosissimo, se la sublimità dell’argomento non mi porgesse occasione di far parola d’un bellissimo dialogo fra Rodengot e Abubeker, dove con nobilissima eloquenza e con tratti di penna sublimi è stato attaccato l’inventore delle x maestrevolmente. Ivi primieramente vi si sfoggia una profonda erudizione poetica, poichè si citano i due versi che vi sia ciascun lo dice = dove sia nessun lo sa. Stabilisce in seguito che verità è un mal peggiore della buggia quando si fa un conto. Vien poscia a parlare elegantemente del marsupio, roma e toma, colonna e d’anda, caccaj, nostro Martino, fuori del vada, ed altre sì fatte eleganze mogolesi ch’io risparmierò a’ miei lettori. In una parola quel dialogo è stato un pezzo trionfatore d’eloquenza e di sapere. Nè qui solo terminò la pubblica vendetta contro il feroce introduttore delle x, che persino l’autore chiarissimo della Frusta Letteraria prese a far l’equazione di quell’x e la dimostrò eguale a zero, x = 0, nella seguente maniera: Politicastri, politicuzzi, infranciosati, libricuzzi, libriccini ec. Q. E. D. E la nobiltà loro sempre attenta a distinguere il merito ed a rendere giustizia ai buoni che s’interessano per i pubblici vantaggi, con perfetta cognizione di causa, prese il partito dell’y e del z e combattè vigorosamente la petulantissima x della quale ora più nemmeno si parla; e se non foss’io in qualche quarto d’ora di buon umore a sollazzarmene, se ne perderebbe affatto la memoria delle eroiche gesta de’ campioni domatori dell’x.

Ma con quest’x m’avete seccato, rispose il Padre Petavio. Al che rispos’io: Sarà, ma forse che Vostra Riverenza non ha mai seccato il suo prossimo ne’ suoi bei libri? Certo che sì, padre mio, e il far libri che seccano, Reverendissimo Padre, è cosa facile assai, ma il far libri profondi, meditati, metodici, precisi, come è il mio, è mestiere privativo di pochi. Dico di pochi, e notate bene, lettor cortese, che se dicessi d’un solo direi una corbelleria, et quidem lo provo con un esempio. Conosco alcuni i quali pare che ambischino il monopolio nelle scienze. Il Signor Antonio vuol essere il solo politico, il Signor Gaspare il solo storico, il Signor Annibale il solo architetto, ed io me ne rido del Sig.r Antonio, del Signor Gaspare e del Signor Annibale; perchè al dì d’oggi tutte le cognizioni umane si vendono nelle botteghe de’ libraj, e con esse e con un po’ di flemma si diventa qualche cosa. Nelle botteghe de’ librai s’impara a fabbricar le case, s’impara a guadagnar le liti, s’impara a scrivere le ricette per gli ammalati, s’impara a far la guerra. E in fatti ai nostri tempi l’arte di scannarci metodicamente in linea dritta appuntino s’è raffinata a segno che vi si è riposta tutta la massima dilicatezza della umana ragione. Su i libri s’impara come si faccia una bella colonna composta di tre o quattro mila eroi, i quali per la vil moneta di sei soldi al giorno e alcune bastonate vanno bravamente a infoderar le bajonette nel mesenterio di altri eroi; e i libri vi calcolano la curva che deve descrivere la bomba, la quale, osservando le leggi delle parabole, passa dal mortajo sul tetto d’un galantuomo e lo sfonda e discende matematicamente nella stanza dove un povero cittadino dabbene colla buona sua moglie allattante un bambino se ne stanno, ed ivi, ubbedendo alle leggi fisiche, scoppia e fracassa e uccide e storpia la famiglia ignorante che non ha mai saputo far altro che del bene. Su i libri s’impara a gettar le cannonate con tal maestria che il globo di ferro ribalzi conservando sempre angoli di riflessione eguali a quelli d’incidenza, e saluti cortesemente poi gambe, teste, braccia e busti d’eroi. Oh quante belle e gloriose scoperte che va facendo la rara perspicacia della mente della nobiltà loro! E chi potrebbe non venerarle? Pare che la grossolana natura ci persuada che l’onore sia dovuto alla probità, alla beneficenza, alla bontà del cuore ed alle azioni utili alla umanità. Un cittadino che esponga coraggiosamente la vita per difesa della sua Patria fa nascere quel sentimento di stima che chiamasi l’onore; sin qui la corrotta natura va d’accordo, ma la nobiltà loro trova l’onore nell’andar facendo da chirurgo delle nazioni e girare e zuffarsi per liti non proprie; la nobiltà loro consacra le sue meditazioni a perfezionare le macchine che fracassino più cranj umani in un sol colpo, e in verità che non si può fare un uso più luminoso del tempo, dello studio e della carta. Non sarebbe male il naturalizzare un po’ per l’uso de’ nostri divertimenti militari que’ serpenti caudissoni d’America, e caricarne i cannoni e gettare le serpentate fragli eroi nemici. Non bisogna disperare di nulla, chi sa che forse i figli nostri non vedano la ragione umana innalzata a questo grado! Frattanto la nobiltà loro fa bene di stare in guardia contro quel pernicioso uso dell’innesto del vajuolo, il quale per verità fa un male terribile; un benemerito letterato ha consumato tre anni di tempo e di esperienze per rettificare la costruzione delle mine, e mentre scriveva il suo trattato sull’arte di far comodamente balzar per aria due mila uomini in un sol colpo con cinquanta soli barili di polvere, mentre stava analizando questo felice metodo teneva chiuse le finestre della sua stanza per tema che l’aria umida della notte non gli cagionasse qualche flussione agli occhi. Oh vita mia, disse il sottilissimo Scoto, un uomo che esaminava freddamente come si possano fracassare due mila uomini in un colpo solo si ricordava che vi sono le flussioni d’occhi! La vostra sottigliezza, diss’io, se ne maraviglia? La ragione si trova chiara e limpida in Aristotele, propter quod unumquodque tale et illud magis: cioè se uno è addolorato per un bastone cadutogli sulle spalle, il bastone deve necessariamente essere più addolorato di lui, perchè non vi può essere nell’efetto cosa che non sia nella cagione: nel bastonato v’è dolore, dunque il bastone è addolorato. Questa è la vera maniera di ragionare, e la nobiltà loro lo conosce assai bene poichè chi ragiona così è pagato generosamente; e chi volesse ragionare un po’ diversamente, stiamo ben in guardia, attenti signori miei: chi c’insegna ad essere un po’ meno infelici è nemico nostro: sassate vogliono essere, bandi, proscrizioni, e altre volte v’era la cicuta in Atene, e i Bobadiglia hanno sempre avuto il cioccolatte.

Ma dovremo per ciò affligerci e diventar di cattiv’umore? Rispondo a questa importantissima tesi che il mal umore non paga i debiti, e che il miglior partito è quello di divertirsi delle rare produzioni della perspicacia della nobiltà loro; la quale da miljaia e miljaia d’anni va somministrando materia al divertimento de’ saggi, e sicuramente non vorrà defraudare l’aspettativa de’ saggi che nasceranno. Il mal umore viene dalla bile… ovvero dal sangue… oppure dalla saliva… in somma il mal umore viene da quel principio che fa venire il mal umore, e il buon umore nasce dalla buona sanità e dalla intima cognizione degli oggetti. Un merlo mi fa ridere, un can pomer mi fa ridere, un uomo mi fa ridere… e uno specchio, direte, lettor benigno? Uno specchio, sì signore, mi fa ridere, la mia figura ne vale la spesa. Ora voi vedete, lettori adorati, che se ho la clemenza di ridere persino del mio amabilissimo microcosmo, è giusto ch’io me la goda un poco co’ nobilissimi microcosmi vostri. Ieri sera me la son goduta davvero al teatro; forse, direte, a una bella commedia? No, padrone, me la son goduta vedendo discender dalle scale due bamboli preceduti da lacchè con torcie accese e seguitati da una coorte di camerieri, maestri, pedagoghi e servitori; per un movimento macchinale io mi sono ritirato due passi addietro, e macchinalmente pure mi apparecchiava a rendere ad essi l’omaggio che richiedesi ai figli dei Re. Sapete chi erano poi? Erano figli del Marchese tale, il quale non è nulla di più che un gentiluomo privato mediocremente comodo. E, mi direte voi, il marchese tale non avendo veruna sovranità tradisce que’ poveri innocenti suoi figli in tal guisa? Signori sì, così li tradisce, dà loro ne’ primi anni una educazione fastosa quale basterebbe a chi fosse destinato un giorno al Trono, e poi que’ poveri sventurati, giunti che sieno ad una età più matura, vedranno sparire tutta la real pompa e con un terribile decadimento troverannosi al livello degli altri. Non v’è cosa più facile che il far gustare i piaceri del fasto a un bambolo, ma per farli poi proporzionatamente gustare a un giovane vi vogliono ricchezze reali; que’ poveri traditi hanno un bastone fralle gambe e credonsi a cavallo; appena usciranno dal cerchio de’ stipendiati loro adulatori, appena proveranno la contraddizione e la indifferenza de’ pari loro pagheran cara la pompa passata! La condotta del marchese tale mi ha fatto ridere. E voi, rubiconde luci del mio adorato lettore, che direte di questo mio ridere? Ma! Le luci non dicono, dirà un pedante, le luci vedono, la bocca dice. Rispondo che il pedante non vale un zero, che le luci de’ pedanti non vedono, e le bocche de’ pedanti non sono mai utili tanto all’uman genere quanto chiuse. Le luci dicono, signor sì, e dicono di cose molte, e chi sa far qualche altra cosa oltre i libri, come per esempio mi sono ingegnato e mi ingegno tuttora di fare anch’io, intende benissimo che le luci possono dire, ed io ne conosco di quelle luci che dicono chiaramente ad uno vi voglio bene, all’altro non so che fare di voi, a un terzo mi seccate, a un quarto mi ponete in imbarazzo e così va discorrendo. Da qui si vede chiaramente che è possibile, possibilissimo un linguaggio di convenzione che sia inteso dalle nazioni diverse e che ci liberi dalla noja di imparar tante grammatiche per essere Europei. E che diverrebbero allora tanti maestri di lingue! L’obbiezione è forte, poichè è men male che cento milioni d’uomini non s’intendino fra di loro di quello che non sarebbe se mille maestri di lingua dovessero pettinar le parrucche in vece d’insegnare j’aime, ich liebe, j love, tipto, diligo e così avanti. Io veramente non cesso di profondamente ammirare la sottigliezza di spirito e l’accurata diligenza della nobiltà loro, che oltre la confusion delle lingue lascia sussistere quella de’ pesi e delle misure diverse ogni diverso villaggio d’una Provincia; il palmo, il braccio, il piede, la canna, la pertica, l’oncia, il moggio, la botte ec., tutte cose che diversificano in ogni angolo della terra, il che giova poi mirabilmente per intendersi presto nella contrattazione, il che contribuisce per rischiarare il commercio reciproco. La varietà diletta; e se si tentasse di stabilire una sola misura in Europa, costerebbe tanti sudori, tanto sangue umano e tanti tesori che sarebbe una vera pazzia solo il pensarvi. La Nobiltà loro fa benissimo a seguitar così, tanto più poi che la diversità de’ pesi e misure non cagiona mai veruno sconcerto nella vita, anzi serve egregiamente per tenere in esercizio gli aritmetici.

Ed a proposito di aritmetica, quella è un’arte che io stimo assaissimo, perchè l’aritmettica non fa mai complimenti, non adula nessuno e non si pente mai. Otto e due fanno dieci, fanno dieci per un Monarca, fanno dieci per un pover uomo, e faranno dieci da qui a un milione di secoli; in vece che la morale, Signori miei, qualche volta si piega ad alcune officiosità che non mi vanno tanto a genio e mi fanno ridere, e ne direi alcune se non fosse ch’io amo naturalmente a ridere; e voi altri uomini vi conosco, oh per dieci, se vi conosco! E siete tutti quanti buoni, giusti, discreti, ragionevoli che è una benedizione. Ed a questo proposito Lopez de Vega diceva egregiamente, quando provava che è cosa ragionevole assai il salutarsi col cavare il cappello per le strade, massimamente mentre piove, poichè lo scoprirsi le membra è prova di rispetto e nessuno oserà negarmelo, poichè tutti gli uomini più ragionevoli per provare che si rispettano scoprono il cranio che è membro anch’esso, o se non volete che sia membro sarà parte del corpo umano; e, per dirla, mi piace moltissimo veder due cortigiani lindi, impolverati, che urbanamente espongono il loro bravo sinciputte o occipite allo stillicidio ed alla irorazione di Giove Pluvio, e col cappello in mano si stanno vicendevolmente chiedendo le nuove. I Turchi non cavano mai per urbanità il turbante, per quella stessa ragione che non cavano i calzoni per urbanità; ma noi siamo assai più colti e ingentiliti di coloro; in fatti noi andiamo sempre a visitare gli amici armati d’un lungo ferro, e i Turchi bestialmente se ne vanno senza un ferro con cui all’occasione poter cavar sangue; noi che abbiamo sapore per l’antichità e che sappiamo quanto la patina dia pregio ai bronzi vetusti non ci laviamo mai, grazie al cielo, se il medico non ce lo ordina; e i Turchi sporcamente vanno ne’ bagni ogni giorno, che è cosa veramente schiffosa. Noi facciamo ogni anno nuovi tentativi per inventare un involto in cui la figura umana stia bene rinchiusa, le giubbe, gli adrienne, le cuffie, tutto si muta elegantemente; i Turchi stupidamente conservano il loro antico abito, cosa compassionevole in vero, poichè il sangue vi circola come se nemmeno fossero vestiti, e dall’insolenza del sangue poi nel circolare ne nascono, nobiltà riverita, disordini grandi, i medici hanno molto meno da fare, e la medicina… In conclusione i Turchi sono Turchi e noi siamo veri capi d’opera, e conviene che per rendere omaggio al nostro esimio merito lo diciamo da noi stessi. A che serve tanta affettazione di modestia? Sen viene un autore a domandar compatimento alla sua tenuità, alla sua imbecillità, imbecillitati meæ, tenuitati meæ, il che vuol dire, a tradurlo, che l’autore vuol che si creda che ha una virtù di più degli altri, cioè la moderazione e la modestia. Io qui piglio di fronte il mio autore e me gli avvento con un argomento cornuto: o ti credi imbecille e tenue, e lascia di fare un libro; o ti credi capace di far un libro, e lascia l’ipocrisia di chiamarti quello che cerchi da provare di non essere col fare un libro. Il mio libro è un capo d’opera, ed io ve l’ho annunziato per un capo d’opera, nè troverete mai ch’io mi chiami imbecille o tenue, Signori no, non sono tenue niente affatto, e imbecille mi par di no. Che ve ne pare, vita mia? Qualunque sia il parere della nobiltà loro non preme più che tanto, e il parere della nobiltà mia non si muterà per questo, ch’io sono un uomo poi docilissimo a sottoscrivermi alle decisioni della moltitudine. Sono stato in vita mia, e non sono per anco vecchio, sono stato per pubblico giudizio tre volte creduto uomo di merito, e tre volte creduto uomo da nulla; da qui ne è nato in me un profondissimo rispetto per le opinioni volgari. Ora che scrivo si crede e si parla bene de’ fatti miei, sarà forse l’efetto di qualche corbelleria che avrò fatta, pure io mi alzo alla stess’ora, pranzo collo stesso appetito, vivo lo stesso genere di vita che menava mentre la nobiltà loro mi guardava benignamente bieco. L’intimo sentimento di me stesso, l’opinione de’ pochi amici, i beni fisici sono le sole cose umanamente essenziali per l’uomo ragionevole che vuol vivere men male che si può.

Si disputa da alcuni se si viva men male in questo basso mondo avendo una moglie o non avendola; io non l’ho veramente, e per quel che mi pare, se potessi aver una amabile compagna come me la dipinge la seduttrice fantasia, starei meglio assai. Ma come vuoi tu ch’ella sia fatta? Lettor cortese, eccomi a soddisfarvi, son compiacente, e per questa volta ne farò la confidenza al pubblico in quattr’occhi. Io voglio primieramente che la mia sposa sia bellina, non già di quelle bellezze superlative che rinchiudono per lo più un’anima la quale lascia alla bellezza tutta la briga di farsi voler bene; ma bensì una bellezza animata, di quelle che si ravvivano e svengono col moto delle passioni, di quelle bellezze alle quali lo spirito, dirò così, dà il colorito; di quelle bellezze in somma che passano sotto gli occhi dello stolido senza che se ne avveda. Vuo’ che la mia sposina sia giovane. Vuo’ che la mia sposina abbia o poca dote o nessuna; avrei soddisfazione nel cuore beneficando una persona a me cara, ma proverei un sentimento amarissimo di viltà se mi lasciassi comperare: voglio che la mia sposina sappia ch’io sposo lei per lei. Voglio vedere sul suo volto spandersi anche per lievi cagioni quel rossore amico della virtù che è il più bel colore che separi il prisma; voglio vederla fremere al racconto d’una azione malvaggia, voglio veder le tenere sue lagrime al racconto o alla vista d’una benefica e nobile azione. Lettor cortese, se mi trovi quella che somiglia al ritratto, dammela, ch’io me la piglio senz’altri discorsi; e le vorrò tanto bene che sarà forzata a volermene, e conserverò la nobilissima mia famiglia e lascerò un altro autore, al quale insegnerò a fare di questi bei libri, e non seccherò nè la moglie nè i figliuoli neppure nella mia vecchiaja. E veramente quanto è rispettabile un buon vecchio umano, dolce, compassionevole verso l’umanità, altrettanto è insopportabile un caduco, caustico e pieno di mal umore. Io ho veduto un povero giovane abbandonato al dispotismo d’un vecchio e ricco zio. «Signor Zio, l’abito ch’ella mi vuol fare mi renderà ridicolo se lo porto, nessuno va così vestito al dì d’oggi, lo faccia…» «Eh, ragazzo senza cervello, l’uomo di garbo non bada a quello che fanno gli altri, se i matti mutano le usanze, i savi non le mutano. Il vestito deve essere così e così lo dei portare… Va benissimo…» Il giorno seguente il giovane non aveva voglia di pranzare all’ora consueta… «Signor Zio, vorrei pranzare un po’ più tardi, non ho fame…» «Eh eh, ragazzo senza cervello, non bisogna rendersi singolare, questa è l’ora in cui tutti pranzano, e in quest’ora si deve pranzare.» E così quel giovane imparava che la verità è una sola, che non v’è che una sola logica e che il più forte per lo più ha torto: cose tutte conducenti a un’ottima educazione.

Gran bella educazione che deve aver ricevuta un certo general d’Armata sotto il quale serviva un galantuomo; il galantuomo sortendo da una baruffa con vantaggio e onore volle farne in persona il rapporto al Generale per raccomandarsi alla sua grazia nel tempo istesso. Andò egli al quartiere del Generale ben educato, il quale lo ricevette sedendo in una seggiola senza appoggio e fiancheggiato da due camerieri che gli assettavano i bei crin d’oro. Il galantuomo fa le sue brave riverenze, espone il fatto suo, e Sua Eccellenza sulla seggiola faceva più che sedere frattanto, e gravemente rispondendogli colla carta alla mano la suggellò urbanissimamente, e fece partire il galantuomo consolatissimo d’aver abbracciata la carriera dell’onore. Ogni lettor cortese che sappia che anco ne’ libri vi vuole il chiar oscuro non mi vorrà male, se per immortalizare una sì bella azione ho voluto riporre nel mio quadro di queste tinte. Il chiar oscuro è l’anima di tutto in tutto. Una bellissima dama d’una straordinaria bianchezza di colorito, per farlo risaltare nel suo maggior lustro faceva mille accoglienze a un moretto che non aveva altro di buono che la pelle nera: la dama bellissima intendeva il chiar oscuro. Un bruttissimo cavagliere teneva sempre a’ suoi fianchi un dottore in Legge più brutto ancora di lui: il dottore aveva le ciglia da can barbone, gli occhi di perla, i denti di smeraldo, il naso da papagallo, la bocca da rospo e lo spirito da dottore in legge; il dottore sorpreso delle eccessive accoglienze del bruttissimo Cavagliere gli chiese alla perfine perchè tanta bontà gli dimostrasse; perchè, rispose il cavagliere, a voi solo ho l’obbligazione di non essere il più brutto muso della città; il Cavagliere bruttissimo intendeva il chiar oscuro.

E quando per esempio voi, lettor cortese, ricercate di stare nella compagnia di chi sia meno di voi e sappia meno di voi, sarebbe mai per amore del chiar oscuro che lo faceste? Pensatevi seriamente. Una delle belle massime che generalmente si ripetono dalla nobiltà loro è quella che ognuno deve cercar di trattare con gente che sia più di sè. Se ognuno osservasse questa massima vi sarebbe una grande società fra gli uomini, il fantaccino non vorrebbe trattar che col caporale, il Caporale col Sergente, il Sergente coll’Alfiere, l’Alfiere col Tenente, il Tenente col Capitano, il Capitano col Maggiore, il Maggiore… andate avanti sino al Maresciallo, il Maresciallo vorrebbe trattar col Cannone, che è ancora più grande in potenza di lui, e il Cannone… Ma il fervore della debolissima orazione mia mi ha soavemente trasportato in ciampanelle, d’onde rivolgendo il timido sguardo alla ferocia del benigno lettore, forza è ch’io mi rialzi pian piano e dal profondo pelago dei baratri acquosi e sotterranei, dove il cavallo sfrenato della mia piccolezza mi ha leggiadramente inabissato, alzi la ridente cervice per farvi almeno conoscere il mio buon cuore. Car enfin, Monsieur, il faut etre tolerant dans ce monde et permettre qu’un auteur dise quand il lui plait quelque betise, ce n’est pas à l’argent du lecteur en bout du conte qu’on en veut, ce n’est qu’à sa pacience dont le fond est inepuisable, un coup d’euil à une biblioteque pour peu qu’elle soit vaste nous prouve assez la pacience des lecteurs. Per altro la medicina è una gran bella scienza, per dir vero; e mi ricordo di un tal medico, il quale visitando una ammalata e da essa interrogato se le permettesse di prendere il cioccolatte, stette alquanto pensoso per alcun tempo, poscia sciogliendo l’ipocratica voce in questi bei detti rispose: Considero che il cioccolatte è per lei un cordiale amico, un ristoro confidente, la lo prenda. L’ammalata aveva dolor di capo: Signor dottore, mi spieghi un po’ che malanno ho nella mia testa, perchè soffro questa doglia di capo? Signora, rispose il medico, Signora, questa testa è restata distesa come in una forma dolente, perciò ella sente il dolore nella parte che le duole, e l’ammalata restò, come era di ragione, illuminata e convinta sull’origine e natura del suo male; e il medico fu sempre ben pagato, e un buon uomo che aveva molto meditato sulle leggi della economia animale, e che sapeva che quando duole il capo duole il capo, ed ignorava che le teste si distendino in forme, e che queste forme sieno dolenti, e che le forme dolenti delle teste distese dieno dolore nelle parti che dolgono, quel buon uomo è sempre stato un buon uomo e nulla più, e andò tutta la sua vita a piedi, e le forme dolenti andarono comodamente in carrozza per la rara e giudiziosa beneficenza della nobiltà loro, alla quale facendo divotissima riverenza, passo all’articolo seguente.

V’è stato un oltremontano che ha tradotto un sonetto del Petrarca. Il sonetto comincia così:

Cesare, allor che il traditor d’Egitto
Gli fece il don dell’onorata testa,
Pianse dagli occhi fuor come sta scritto,
Celando l’allegrezza manifesta.

E la versione fu fedelmente scritta in questo modo: Cæsar tunc cum proditor Ægipti fecit illi donum honorati capitis, flevit ex oculis foris sicut scriptum est, celans gaudium manifestum. Alcuni pretesero che la traduzione avesse fatto torto al sonetto, altri pretesero che la traduzione avesse messo in vista il giusto pregio del sonetto; io credo che quando una traduzione fedele fa da ridere sia ridicolo l’originale. Se nell’originale v’è un pensiero la traduzione non può toglierlo, e la traduzione non può rendere un senso ridicolo se non se quando l’originale non ha altro merito che quello del suono delle parole, non già delle idee. Traducete in qualunque lingua i versi seguenti e non farete mai ridere nessuno:

Chiama gli abitator dell’ombre eterne
Il rauco suon della tartarea tromba,
Treman le spaziose atre caverne
E l’aer cieco a quel rumor rimbomba.

Eccovelo in latino trivialissimo: Raucus sonitus tartareæ tubæ vocat habitatores umbrarum eternarum. Contremiscunt vastæ cavernæ obscuræ atque aer cecus propter illum rumorem resonat. Ridete se potete a questa imagine.

Ed a proposito di ridere, giacchè è tanto tempo che siamo sul serio, io mi ricordo d’un certo Signore splendidissimo che regalò due camiscie ad un servitore: prendete, disse, queste sono due camisce, una è buona, l’altra è un po’ logora; servitevi della logora per rappezzare la buona; con che la perspicacia del mio sottilissimo leggitore intenderà perfettamente che le camisce erano buone da far carta. «Una simile spiritosità l’ho intesa anch’io», soggiunse Bartolommeo Coleone, «quando essendo in marcia il mio esercito e incontrando un capitano che veniva d’ove era diretta la marcia, gli richiesi se in quel punto eravamo alla metà del cammino; precisamente alla metà, rispose il capitano, ma l’altra metà è più lunga assai». La Regina Teodolinda interruppe allora il racconto ed «a me pure» disse «avvenne che portandomi il mio camerier d’onore i biscottini, che la sera i biscottini facevano la mia cena, e trovando i biscottini flosci e rinvenuti assai, io gli fei rimprovero perchè non gli avesse riposti prima nella stuffa; io ne li ho tratti pur ora, riprese il camerier d’onore; ma come sono essi dunque quai li trovo? Sarà, rispose, forse perchè nella stuffa non v’era fuoco». Io, che di sì fatte dicerie non mi curo, rivolsi il passo altrove e lasciai la Regina con Bartolommeo in libertà, ben persuaso che il mestiero d’essere per terzo fra una Regina ed un Bartolomeo non conviene a un letterato qual io mi sono, e che il decoro dell’alfabetto nol comporta, e venni a casa e tosto mi posi a leggere una antica cronaca che comincia così: Io, Cola da li Picirilli, che songo vissuto anni settanta nove et songo morto de mal de pietra con inflammatoria febbre, aggio scritto, de mea propria manu et per meo proprio devertimiento, chissa cronaca che contiene le poche corbellerie che aggio veduto capetare nel corzo de li dicti anni settanta nove che songo vessuto prima che lo mal de pietra et la inflammatoria febbre me togliesse da chisso nobole teatro de sapienzia che se chiama lo mondo. Da questa nobilissima cronaca io ho mirabilmente potuto scorgere che il mondo presso poco era ne’ tempi del Signor Cola da li Picirilli come lo è al tempo d’oggi, e ne ho cavata questa massima salutare: che è meglio goder delle cose come sono che il prendersi l’inutile briga di affliggersi perchè le cose diventino diverse da quelle che sono, e i caproni danno delle cozzate, i muli de’ calci, le vipere avvelenano; volete voi, lettor cortese, dare una migliore educazione ai caproni, ai muli, alle vipere? Se lo volete voi, io non lo voglio, sto dietro ai caproni, avanti ai muli e lontano dalle vipere, e me la diverto passabilmente bene anch’io. Se vedo qualche cosa buona, se vedo qualche azione nobile, generosa, benefica, in quel punto amo, onoro chi la fa e quasi tutta la generazione umana; se vedo il contrario divento di mal umore e allora prendo la penna, scrivo questo bel libro, e col pensiero di ragionare con qualche uomo del mio umore me la diverto e mi si destano mille pazzie in capo, che poi una dopo l’altra producono un tomo rispettabile come è questo. Alcuni si faranno maraviglia forse come di tante pazzie mi si aggirino per la mente; eppure non sapranno quant’altre ne ho dovuto sopprimere per il quieto vivere, e sì davvero che ve ne sono di belle; ma vivere, e vivere in pace, è meglio ancora che far ridere una volta di più i benigni leggitori. Seppure il titolo di benigno può convenire ai leggitori, che per verità quando hanno comperato con pochi soldi un’opera si credono quasi quasi d’aver comperato l’uomo che l’ha fatta, la sua fama, la sua riputazione e la sua moglie se l’avesse; bel vedere un cortese leggitore che rivolto al suo servitore: eh, dice, datemi il Menocchio, e poi sdegnosamente getta il Menocchio e dice che Menocchio è un animale, che Menocchio è un seccatore, e questo è il bel frutto che l’Illustrissimo Signor Senatore Don Giacomo Menocchio Signore e Signore e Padron Colendissimo ha raccolto per aver fatta la sua bell’opera De presuntionibus. Opera vero capo d’opera, ch’io tengo sempre sotto il capezzale quando devo giuocare al lotto.

E qui facendo una ossequiosa digressione dal mio soggetto principale, al quale ogni scrittor giudizioso deve sempre tener soda la mente, io devo comunicare alcune tenuissime riflessioncelle alla nobiltà loro sulla voce giuocare, che mi pare un po’ male impiegata talvolta. Entro in una sala, dove in mezzo a un profondo silenzio vedo intorno a una tavola otto o dieci, i quali gravemente contano le monete sulle carte, mentre uno, scorrendo attentamente ad ogni tratto collo sguardo sulle carte riposte in giro sulla tavola, seriamente divide un altro mazzo di carte in due porzioni eguali, una a dritta, l’altra a sinistra; l’ansietà, il dolore, l’affanno, la disperazione stanno scritte sul volto di quei taciti radunati; e che fanno costoro? Scielgono forse colla decision della sorte chi di essi debba essere la vittima per la salvezza comune, chi debba farla da Attilio Regolo? Signor no, giuocano al Faraone. Giuocano! E con tanta tristezza si può dar un giuoco! Ma quali efetti piacevoli produrrà questo giuoco? Il Signor Taddeo tornerà a casa senza un soldo a predicar l’economia alla famiglia, a far disperare la moglie e i figli, a togliere ad una i mezzi per vivere decentemente, agli altri i mezzi per avere una buona educazione. Il Signor Cristoforo tornerà a casa e venderà a rotta di collo un podere. Il Signor Sebastiano, più ingegnoso degli altri, troverà un amico da tradire, gli carpirà il denaro, e scopertosi poi il fatto terminerà i suoi giorni nell’obrobrio. La Signora Lucrezia… non so cosa farà la Signora Lucrezia. E i Signori Pantaleone e Pancrazio getteranno alla peggio il denaro carpito ai Signori Taddeo, Cristoforo, Sebastiano e alla Signora Lucrezia. E questo si dice giuoco, e in questa maniera s’intende di giuocare. Così si dice anche giuocar di spada e giuocar di cannone. Così si dice virtuoso un musico. Sto a vedere che col tempo si disputi dai medici se sia più sano il brodo di vitello ovvero il brodo di virtuoso. Se la nobiltà loro mi acchiappa a giuocare e se mi vince, io le perdono; quando io giuoco voglio, per dieci, trovarvi spasso, voglio che vi sia dell’allegria, della consolazione, e i miei quattrini sono tanti pegni di piaceri che avvanzo.

Non crediate però che la parola piacere sia da far paura alla buona filosofia; chi conosce l’indole dei piaceri sa e prova che non si benedice mai tanto il cielo d’averci dati de’ quattrini che allorquando si son potuti impiegare a far del bene a chi lo merita; quella è una voluttà che ti gira per il midollo dell’anima. Ma questi sono gli arcani de’ cuori sensibili, che non devonsi pubblicare ai profani, se tu sei di questo piccol numero, lettore, m’intenderai, se non lo sei e che io volessi scrivere su tal proposito quello che sento, tu mi crederesti un uomo da romanzi, ed io che son uomo da storia e da libri classici, come vedete, non voglio una taccia di tal natura. E per dirla, con questa natura i moderni filosofi mi hanno seccato non poco, voglion riformar l’universo tutto quanto a lor modo e ne citano ad ogni passo per giustificarsi la Natura. Filosofi miei (che veramente non siete filosofi), datemi di grazia una definizione: quid est Natura? Prima di stabilire questo primo annello è inutile construire tutti gli altri che formano la catena. Non conosco che una sola definizione della natura e per questa volta non penso di scriverla. Onde Cornelio Agrippa, grande scrittore di cose sottili, quella volta la scrisse grossa assai e fece ben ridere la brigata quando sostenne che il basilisco uccide collo sguardo; vi sono bensì de’ sguardi che pongono in aggitazione un galantuomo, e sin qui sono d’accordo col Signor Cornelio Agrippa, perchè l’ho provato e me ne intendo un poccolino; ma il basilisco è una vera chimera che non si è mai data che nella bella mente della nobiltà loro, la quale mi farà la cortesia di credere anche al basilisco, anche alla remora che arresta le navi, anche alla luna nuova e vecchia che regola la pioggia e il vento, ed alla innumerevole schiera di tante luminosissime verità che arricchiscono il tesoro delle umane cognizioni.

Fra un boschetto di odorosi aranci, in una placidissima serata di primavera, allo splendor della luna stava la giovanetta Fille, ascoltando il tenero lamento degli ussignuoli innamorati, e un ruscello soavemente rumoreggiando instillava nel dilei cuore un molle dolcissimo abbandono d’ogni cura molesta; quando le aurette imbalsamate leggermente scorrendole d’intorno la leggera veste aggitavano e i capegli snodati scherzevolemente scomponevano, per offerire allo sguardo, direi quasi, una incessante variazione di una sovrana incantatrice negligenza. In tale stato di cose io pian piano m’accostai a Fille e restai mutolo alquanto, preso dalla magia di sì vezzosi oggetti; poi fatto ardito, con un sospiro che partia dall’anima immediatamente le richiesi una presa di tabacco, ella me lo diè, stranutai, ed ella galantemente mi disse evviva, ed io gridando evviva me ne ritornai pe’ fatti miei. Strada facendo io vidi innalzarsi al cielo immensi globi di fumo, e frallo stridore de’ resinosi legni scagliarsi per ogni dove le scintille d’un incendio, accorreva affollato il popolo ed io pure, tratto dal bel desio di non far nulla, vi accorsi, era la figura d’una vecchiaccia che si abruggiava sollennemente; in questo secolo essendo un po’ caduta la bella usanza di servirsi delle donne vecchie per sì fatto passatempo, la vecchia era di legno e stoppa. Volli saper che fosse, e mi fu detto che quella vecchia rappresentava la Quaresima e che il popolo la bruggiava per consolazione che terminasse, dal che vidi chiaro che quella gente digiuna volontieri, e poi che tutto ciò ebbi veduto me ne venni a casa e feci alcune riflessioni salutari su di quest’argomento, sin tanto che mi posi a letto e m’abbandonai a un delizioso sonno. Sognai d’essere in una clamorosa e lugubre adunanza di dottori, che con enormi parucaccie e majuscoli collaroni sedendo su sedie d’appoggio circolarmente disposte, acremente disputavano come la terra stesse in aria senza cadere abbasso; io me ne stava cheto in un angolo lasciando urlare a loro bell’agio gl’implacabili polmoni dottorali, quand’uno, il più grave fra tutt’i gravi del consiglio, impose silenzio e cominciò la sua aringa in questi termini: «Sendochè, Padri Coscritti, la sapienza e profondità immensa, dirò così, dell’ingegno vostro e la singolare, dirò così, perspicacia del vostro acume sia giunta al di là, dirò così, del potere umano; ardito e sconvenevole sembrar potrebbe, dirò così, per avventura il mio divisamento di insorgere a favellare da solo, quasi ch’io volessi, dirò così, instruere Minervam, ovveramente il sole colle fiaccole illuminare, solem illustrare facibus. Ciò non pertanto osar sibbene il voglio, ed affidarmi, dirò così, alla umanissima benivolenza vostra esponendo lievemente il rispettoso, dirò così, mio immaginare sur un argomento il più importante e il più saccente, dirò così, che l’ampiezza dell’umano indagamento presenti. E la terra, per verità, certamente è una massa tale e sì enorme che, dirò così, può con ragione apellarsi d’ogni altra massa da noi misurabile la prima, facile princeps, e tal opinione sembrami spignere, dirò così, il mio ingegno quasi malgrado nell’altra, che la più grande fralle masse sia, dirò così, portata dal più grande fragli animali, Padri Coscritti, secondo il detto del Filosofo: similes et similia conservantur. Quindi, rivolgendo fragli animali tutti in mente, il più abile a sostener tal peso non so ritrovare dell’elefante, e perciò sul dorso, dirò così, d’un elefante opinione tengo che la terra placidamente riposi, sì che non caggia».

Appena il Dottor Massimo ebbe terminate queste belle parole, che un altro Dottore prese a così ragionare: «Io veramente su questo particolare altro non saprei far di meglio che venire su questo particolare manibus pedibusque in sententiam dell’illuminato e profondissimo Signor Dottore nostro venerando, se non avessi su questo particolare qualche dubitazione da proporre al venerando nostro consesso in favore della balena, la quale su questo particolare in ragion di mole e possanza può benissimo sostenere la terra quanto ogni altro animale, per dorsuto e nerboruto che siasi; onde che la terra stia sulla schiena d’un elefante e non d’una balena, su questo particolare ardirei dire che sub judice lis est». Allora un dottor giovine e che aveva qualche cosa d’umano nella fisonomia levossi in piedi e fatto inchino alla dottorale adunanza: «Dottori» disse «stupendi e venerandi, ammiro i sublimi ragionamenti co’ quali andate in cerca delle vere primitive cagioni delle cose. Voi avete stabilito sapientemente che la terra se non fosse sostenuta caderebbe, avete stabilito che una gran bestia la sostiene, sia ella elefante sia ella balena, non importa; e chi sosterrà l’elefante acciò possa portare la terra?». «Ah ah» replicò un caduco venerando con tuono basso e sonoro di voce, «ah ah giovinastro, giovinastro! Da quel che vedo vi perdete nella lettura di libri cattivi e non fate i buoni studj, ah ah!» e si tacque misteriosamente. Gran dibattimento si fe’ nella togata palestra, e grida e schiammazzi enormi per alcun tempo, sin tanto che, pacata la disputa e d’un comune accordo, si stabilì che un elefante veramente è quello che porta la terra e una tartaruga sta sotto ai piedi dell’elefante a sostenerlo. Io che sin a quel punto era restato mutolo spettatore, sebben non avendo l’onore d’aver mai fatto o fatto fare in mia vita verun falso giuramento per essere dottore, pure volli chiedere modestamente chi sostenesse la tartaruga. A questa arditissima e innaspettatissima proposizione impallidì per l’orrore tutta la veneranda sessione, chi bassò gli occhi a terra, chi gli alzò al cielo, e uno più facile a rinvenire da questo primo colpo ordinò ch’io immediatamente fossi riposto in carcere. La sentenza stavasi eseguendo quando mi svegliai, e fu il mio servitore che aveva una lettera da presentarmi. Apro la lettera mezzo sonnacchioso e ripieno delle idee degli elefanti, dei dottori e delle balene, e leggo così:

«Voi siete un uomo diverso dagli altri, tutti mi dicono ch’io sono una donna diversa dalle altre, dove gli altri si divertono m’annojo, stimo quello che comunemente si trascura e non valuto quello che comunemente è in voga. Avrei piacere di conoscervi perchè fra i casi possibili vedo che v’è quello che i nostri umori si accordino. Venite a prendere il cioccolatte con me, v’aspetto senz’altro».

Figuratevi, lettor benignissimo, che giocondo passaggio si fu per me quello dal sonno alla vigilia. Io non vi racconterò come sia finita quest’avventura, quest’è un fondo di cassa che mi riservo per un’opera da dar in luce co’ rami e adornamenti confacenti a tempo e luogo; l’uomo di giudizio non espone il capitale che ha tutto in un fiato, ma lo distribuisce per tutta la sua vita, e la ragione fondamentale di tutto ciò proviene dalla bell’indole della nobiltà loro, la quale, se dopo aver fatto un libro classico come si è questo, io mi stessi mutolo e neghittoso per sei o sette anni, dimenticherebbe il libro e me, se non ritornassi a onorarla e rinfrescar la memoria con qualche bagatella. Un mio dolcissimo amico non cessa mai di ripetermi questa proposizione, che un po’ di memoria è il più gran bene che resta all’uomo in questa vita: ciò sia detto per regola della nobiltà loro, la quale talvolta per vezzo suole giudicar gli oggetti di giorno in giorno come fossero altrettanti funghi che spuntano e cadono. Gli uomini volgari son come le mosche. Ma perchè mai son come le mosche, soggiunge il Padre Sanchez? Perchè la mosca dimentica tutto, annoja molto e non impara mai sin tanto che non è rovinata. Eccone per edificazione vostra, o giovanetti, un chiarissimo esempio. Domiziano Imperator Romano stavasi un giorno di Luglio nel suo gabinetto, dopo aver preso il caffè, solitario e disteso sur un soffà per riposare; quand’ecco (oh petulanza oltre modo sfacciata!, direbbe l’autore luminosissimo delle note al libro Dei delitti e delle pene) una mosca malissimo educata, una mosca ignorante tutti i riguardi dovuti alle persone Reali, una mosca disubbidiente a tutte le leggi della civiltà, del rango e della giurisprudenza, intrusasi arditamente nel gabinetto di Sua Maestà, vola scelleratamente e sceglie per punto d’appoggio de’ suoi voli scapestrati la punta del naso Imperatorio Romano. Sua Maestà, piena di benignità e di sovrana clemenza, accontentossi al bel principio d’avvertire la villanissima mosca con uno stranuto che ivi non era luogo da metter piede. Si scosse l’obrobrioso insetto a quel fenomeno, svolazzò per poco qua e là, sin tanto che, dimentica dell’avviso ricevuto, scelse di nuovo la punta del naso imperiale per farvi sua sede e vi si collocò. L’Imperatore Domiziano in questo mentre erasi già dimenticato della passata offesa e abbandonato al sonno placidamente; il solleticoso calpestio dell’insetto importunamente destollo, e colla destra distributrice de’ regni e reggitrice dell’impero fe’ cenno e minaccia alla mosca, sì che partì. La minaccia d’uno stranuto che a guisa di torrente rapidissimo avrebbe potuto affogarla, la vista d’una mano mille volte più grande di lei che mostravasi pronta a schiacciarla avrebbero dovuto far nascere nella mosca un sentimento di riguardo verso la sacra persona del Signor Domiziano; la mosca svolazzò per ogni dove e quinci e quindi, quaquaversum, e fra gli errori de’ suoi svolazzamenti dimentica di tutto vide di nuovo la punta del naso della Maestà Sua, le parve comoda per starvi sopra e vi si ficcò per la terza volta, sin tanto che l’Imperatore indispettito (patientia lesa fit furor, come dicevami il pedante che m’ha insegnato nulla o cose che non mi giovano), l’Imperatore suonò il campanello: entrarono i cortigiani, si fece la caccia della mosca rea di lesa maestà e fu con uno spillo impallata. Cercò l’Imperatore di nuovo il sonno, congedati i cacciatori della mosca, ma nell’aprire l’uscio sen’erano introdotte delle nuove mosche assai, alle quali nè gli stranuti, nè le mani, nè la sorella impalata poterono insegnar la maniera di vivere, la punta del naso le tentò tutte sin tanto che tutte furono ugualmente prese e impalate. Io conosco una mosca che pesa più di ducento libre, la qual mosca mi va dicendo da più di dieci anni che i Turchi sono sucidi, ed io ogni volta che lo dice gli dimostro e lo convinco che sono assai meno sucidi di noi; eppure la mosca torna a ripeterlo e lo ripeterà dio sa sin quando. Io conosco un’altra mosca la quale mi secca da molti anni con continue innettissime contraddizioni, e sempre la finisce col fare una meschina figura, e sempre torna a contraddire. Lettor mio, sarebbe cosa lunga se io di più volessi dirvene, fate voi stesso riflessioni e troverete che la storia naturale delle mosche pesanti è assai vasta, e se mai foste della specie, il cielo vi dia pace all’anima e non vi prendete affanno, che siete in una vasta compagnia. E qui Demostene, orator grave e vigoroso, fece rimbombar le pareti della sala con un sonorissimo cospetto! Vero, verissimo che un po’ di memoria è uno de’ più grandi beni che resta all’uomo sulla terra.

Gli uomini disgraziati sono naturalmente nemici degli uomini che hanno buona fortuna. Quest’è una verità che si manifesta in tutti i fenomeni morali dell’universo. Da questa verità ne viene che tutti quanti gli autori che hanno stampato delle opere mal vendute, e che avrebbero voglia di farsi un nome e non lo sanno o possono, devono essere nemici giurati del mio aureo libro. Alcuni diranno che non ho stile. Cosa è stile, rispondo io? Se intendete per stile quello che usate voi, avete ragione, non ho stile, e se avessi stile annojerei i benevoli leggitori come gli annojate voi, e sarebbe il mio libro in un canto polveroso d’una stamperia come lo sono i vostri, esposti alle maledizioni del disgraziato stampatore. Se poi intendete per lo stile quel modo di scrivere che piace, vedendo lo spaccio che ha il mio bel libro, autori colleghi miei, convien dire ch’io stile lo abbia. Passiamo al secondo punto; voi dite ch’io sto male di lingua. Cosa intendete per star male di lingua, ch’io non scrivo come voi altri? Ripetete quello che ho detto dello stile e troverete la risposta. Ch’io mi servo di parole che non vanno bene? Ma perchè non vanno bene! Vanno ottimamente. Le intendo io le mie parole, le intendono tutt’i benigni lettori dal fondo della Calabria sino alle Alpi, dunque sono Italiane, e se non sono Italiane saranno Tedesche, Inglesi, Schiavone, quello che volete voi, ma sono parole belle e buone, e per esempio, s’io dicessi che di voi altri non me ne importa un fico, io direi la stessa cosa come se dicessi: di voi non me ne cale nè punto nè poco, ovveramente: de’ fatti vostri non mi prendo briga, e così in infinito. Dunque io scrivo bene e bene assai, e dico cose dell’altro mondo che fanno male allo stomaco alle Signorie loro Pedantissime, ma che divertono assai in scrivendole la nobiltà mia liberissima ed amantissima della ricreazione. Ognuno ha i gusti suoi, anche in amore. Chi ama la bionda, chi ama la bruna, chi la dolce, chi la vivace, chi la semplice, chi l’artificiosa, chi impazzisce presso d’una civetta, chi s’attedia presso una romanziera, io amo l’allegria, e chi mi vuole mi pigli qual sono, chi non mi vuole mi lasci pe’ fatti miei, nessuno speri di riformarmi, sono quel che sono, ma siccome ho ricercato di essere quello che il mio naturale voleva ch’io fossi, così è impossibile il volermi cambiare. Son pochi gli uomini i quali non abbiano la frenesia di voler copiare qualch’altro uomo, e non sanno che una copia non vale mai un zero, e che il miglior partito che può prendere il saggio in questo mondo si è quello di stare nel suo naturale e cercare di riuscire men male che può nel suo genere. La società umana è come un’orchestra: i bassi devono esser gravi e maestosi, sonore e pompose le trombe, apassionati gli oboè, agili i violini e così va dicendo; ma se il contrabasso voglia esser tenero e apassionato, se l’oboè cerchi singolarmente l’agilità, se i violini cercano sopra tutto la gravità, ogni stromento, che originariamente è buono e può lodevolmente contribuire la parte sua, è fuori de’ confini suoi, diventa sgraziato e ridicolo. Così va dicendo, lettor mio, se sei contrabasso fa il tuo mestiere, se hai le gambe colla podagra non fare il ballerino, se il tuo ingegno non è vivace abbandona le pretensioni tue per brillare, se l’ingegno tuo è vivace non ti poni in capo di volerti mostrare gravemente metodico, perchè se farai altrimenti io me ne riderò de’ falli tuoi, e se tutti non te lo diranno con tanta sincerità con quanta lo dice questo mio bel libro, lo diranno però in disparte e lo faranno senza dirtelo. E questo pezzo di morale instruzione è riposto per la comodità dello sbadiglio della nobiltà loro, la quale è giusto che leggendo un libro si sollevi di tratto a tratto senza star sempre in cerimonia. Ed erano pur graziose le cerimonie quando dovevasi far la lotta e ammaccarsi le membra cerimoniosamente per far passare l’ospite primo da un uscio! Oh quante parrucche scomposte, quanti manichetti stracciati, quanti cappelli caduti a terra, quanta moves funera Dardanæ genti! Ma la bella usanza si va perdendo, nobiltà riverita, le cose buone vanno in disuso, declina il mondo e peggiorando invetera, Sannazarro il cantò sulla sua cetera, ed io sulla mia cetera ho cantato delle cose curiose assai, le quali si troveranno nel mio testamento in scriptis più tardi che si può, come ho detto dissopra a tempo e luogo.

Scende dalla scoscesa rocca di un’alpestre montagna un largo rovinoso torrente, e con orrendo rimbombo cadendo, flagella i sottoposti dirupi e scagliasi in mille parti quale impetuosa procella d’intorno spumante e rigoglioso, e gli augelletti canori lo salutano col dolce canto e i gelsomini gli fanno vezzosamente corona. Dall’opaco seno di fosca nube parte il folgoreggiante baleno funesto alle torri, e fremer sembra la natura e impallidir la luce del giorno allo strepito incessante e ferale del tuono, mentre un soave zefiro mollemente disordina il toppè d’un poeta. Trema la terra tutta, s’alzano i vortici di densa polvere, fuggono le fiere e gli uomini sbigottiti e incerti, cadono infranti i superbi edifici, si distruggono i maestosi monumenti eretti per la posterità, mentre la bella Clori prende una tazza di caffè. Sapete, lettor mio, che significa questo? Significa la pittura fedele d’un uomo di cuore vicino a una civetta. E nota bene ch’io dico uomo di cuore soltanto, poichè se fosse poi anco uomo di testa saprebbe far le pitture senza esserne mai l’originale. Per me, quando vedo una civetta, oh! oh! oh!, esclamo così e, per dirla, a forza d’esclamare mi son quasi rovinati i polmoni, perchè l’esclamazione accade tanto di raro. Oh beati elefanti, oh felici rinoceronti, oh leoni, oh pantere, oh cani barboni felicissimi, che fra di voi altri non conoscete l’arte del civettare… Ma chi ve l’ha detto che non la conoscono! Che temerità è mai codesta di decidere d’una cosa che non sapete! Chi sa che i cani barboni non scrivino anche de’ libri alla lor foggia! Oh, que’ cani barboni son pure brava gente! Sa il mio can barbone che son passato per una delle due strade che se gli presentano: fiuta ad una, e s’avvede che per di là non son passato, e s’incammina per l’altra determinatamente senza fiutare. Io prego riverentemente di riflettere in questo luogo se la nobiltà loro fa altrettanto. Il tal medico ha rovinati molti de’ suoi creduli ammalati, è un ignorante deciso, è un impostore: il can barbone dopo averlo fiutato s’incamminerebbe per altra via, e la nobiltà loro per distinguersi nobilmente dalla bestiale ignoranza del can barbone va appunto a gettarsi fralle braccia di quel tale medico. La nobiltà loro deve per propria sperienza aver imparato che le novelle che si spargono fra ’l popolo sono quasi sempre chimere sognate e appena il dieci per cento v’è di verità; il can barbone dopo aver fiutato sen’anderebbe per altra via, e la nobiltà loro crede ogni giorno la novella che si spaccia. I cani barboni non hanno nè mio, nè tuo, nè dottori, nè notaj, nè medici, nè avvocati, nè poeti petrarcheschi, nè poeti bernieschi, nè accademie poetiche, castalie, aganippee, nè caste suore, nè intonsi Apollini, nè cavalli alati, nè Ipocreni, e per questo i cani barboni ci portano la lanterna per far lume la notte, quando la luna ha la mala grazia di non volercelo fare come sarebbe sua obbligazione, perchè in conclusione quando la luna non fa chiaro la notte, il che accade la metà dell’anno, la luna non è più utile agli uomini di quello che lo sieno le opere del Tiraquel celeberrimo, che si vende colla vil moneta di cinque paoli sebbene siano due tomi in foglio, tanto va il merito decadendo in questo secolo. Io mi ricordo che anni sono la nobiltà loro si divertiva dicendo un po’ male della nobiltà mia, e allora non mi coricava mai una volta a letto che non facessi una riflessione molto dolce per l’amor proprio, ed era questo sillogismo: Quando da molti si mormora contro d’un uomo che non offende le leggi, quel uomo è un uomo di merito. Di me si mormora da molti sebbene io non offenda le leggi. Dunque io sono un uomo di merito. Oh, vita mia, quel dunque è pur caro ad ognuno! Io allora rifletteva che ai nani e gobbi non devono piacere gli uomini d’una statura proporzionata e giusta; rifletteva che gli uomini volgari sono naturali nemici degli uomini non volgari, e provava nel fondo dell’animo una sincerissima riconoscenza verso la nobiltà loro, la quale prendendosi l’incomodo di spargere le dicerie sul mio proposito mi somministrava perenni attestati del mio merito. Ma d’onde avviene, Nobiltà riverita, che ora mi lasciate così isolato e ozioso, qual demerito ho io perchè non si cerchi più di screditarmi, in che peccai, luci belle, per lasciarmi sì crudelmente in abbandono? Suvvia, accomodiamola: questo bel libro mio pieno di prudenza e di circospezione è fatto apposta acciocchè fra la nobiltà loro e la mia nobiltà si faccia la pace; suvvia, dica la nobiltà loro qualche cosarella contro di me; almeno una volta per settimana mi provino che ho del merito, se no mi vedranno languire come un giglio sullo stelo al feroce dardo del sole di Luglio, mentre la bella rosa porporina colla spina d’ogni fior vaga regina ne compiange amaramente la perdita. Capperi! disse Tito Livio Patavino, voi sapete far delle rime assai leggiadre. Signor sì, gli rispos’io, leggiadre molto e felici altrettanto. Io di più dir volea, ma tuonò a manca il cielo, la vittima si scosse e diè cozzando il corno fralle ginocchia del Sacerdote, cadde la sacra bipenne, e si trovò nell’intestino ilion della vittima il capo d’una gallina, il che indicava chiaramente che non dovevasi dar la battaglia come in fatti non si diè, e sì fatti sillogismi sono sempre i benvenuti, non è vero, nobiltà riverita? In fatti mi sovviene d’aver letto in un lunario una predizione scritta così: Mercurio ha fatto un quarto di conversione e s’è riposto nella contrascarpa del Montone per fare spavento ai colpevoli e castigare i calzolaj, e veramente buona parte dei lettori fu atterrita siccome era giusto dalla spaventevole minaccia.

E qui, per interrompere un po’ l’attenzione del benigno lettore e non abusare della sua benignissima testa obbligandolo a ragionar troppo, dal che ne nascono poi mali infiniti, mi prendo l’ardire di rimettere in campo una quistione di storia naturale bizarra assai ed istruttiva. Senza tanti preamboli veniamo al fatto. L’uomo è un agente libero che può fare quel che vuole, e può volere quel che vuole; il somarello può fare quel che vuole, ma deve necessariamente volere o non volere in conseguenza dell’azione che fanno sull’asinesca sua organizazione gli oggetti esterni, perciò il somarello non è libero. Prendo dunque un nobilissimo somarello che abbia molta fame e te lo ripongo fra due cestoni di biada, uno a dritta e l’altro a manca. Questi due cestoni sieno egualmente distanti dall’asino, e sieno i muscoli del collo del nobilissimo animale egualmente disposti al moto. Experimento sic instituto, breviter arguo. Nulla est potior ratio cur ad dexteram immo quam ad sinistram asinus se convertat, ergo neque ad unam partem neque ad aliam converti potest. Momenta virium oppositorum, si æqualia sint, plane æliduntur. Posto questo luminoso raziocinio, il nobilissimo nostro somarello dovrà restare affamato fra i due cestoni di biada col collo ritto ritto, duro duro, sin che moja di fame, entre deux selles l’ami par terre. Questa elisione di forze opposte io la provo anche nel cuore dell’uomo: se per esempio mi ritrovassi fra due tigri in uno stretto, di cui una fosse avanti, l’altra dietro di me in eguali distanze, io credo che rimarrei immobile essendo spinto da egual timore per ambo i lati; e se vi fossero di quelle tigri delle quali dice Angelo da Costanzo
Se non sei fiera tigre in volto umano
che ne averrebbe? Credo che nella sensibilità i timori si rintuzzino l’un l’altro più che non le attrattive, e perchè ciò avvenga lo dica il mio adorato lettore, che non è giusto che gli autori debbano dir tutto e i lettori nulla; un po’ per uomo, vi vuole discrezione. E credete voi che abbiano avuta discrezione molta il Signor Valerio Massimo, lib. V, cap. VI, il Sig.r Ovidio, Metam., lib. XV, il Signor Festo e simili, quando ci hanno lasciato scritto che al Pretore Genucio Cippo in una notte sieno spuntate efettivamente le corna in capo, e che gli Auguri predicendogli l’autorità Reale (tanto erano illustri e nobili le corna dopo la prima guerra Punica), Cippo volontariamente si esigliò da Roma per non diventare tiranno della Patria! Eppure così appunto raccontano il fatto questi gravi autori, e la nobiltà loro lo va ripetendo nelle Storie Romane che si stampano, ed il Sig.r Montagna ne’ Saggi, lib. I, cap. 20, vi aggiunge del suo che Cippo fosse Re d’Italia, il che vedutosi da un illuminatissimo revisore di stampe, obbligò prudentemente lo stampatore a far Cippo Re di Trabisonda, per togliere alla nostra penisola il danno d’aver avuto un Re Cippo colle corna. Questa storiella non interesserà forse alcuno de’ miei benevoli leggitori, ma ha interessato la nobiltà mia tempo fa, e in un libro che faccio io, e che perciò è cosa mia, mi deve esser lecito lo scrivere le cose che interessano me, quand’anche non importino un fico alla nobiltà loro. Ma del fatto di Cippo ne viene in conseguenza che quando le cose sono riferite da un autore classico come Valerio Massimo conviene beversele docilmente come faccio io; perchè son nato anch’io sotto il segno d’Ariete, il quale, come attesta Nerone Imperatore nel Satirico di Petronio, è un buon segno, plurimi hoc signo scholastici nascuntur et Arietini. Ognuno sa quanto sieno belle e ingegnose le questioni scolastiche. E celebre è dovunque quella su i sogni, la quale per contribuire anch’io la mia parte a renderla più celebre vuo’ riferirla quale viene proposta da alcune miliaja d’anni a questa parte. La nobiltà loro può divertirsi ad esaminarla ed a scioglierla giudiziosamente. Eccola. Tizio ha sognato che non si deve credere ai sogni. Se Tizio crede a questo sogno, crede e non crede a un tempo stesso ai sogni: non crede poichè presta fede al sogno che gl’insegna di non credere ai sogni; e crede ai sogni poichè seguita il precetto d’un sogno che gl’insinua di non credere ai sogni. Se poi Tizio rifiuta l’insegnamento del sogno di non credere ai sogni, crederà ancora e non crederà al sogno: crederà ai sogni poichè ricusa l’insegnamento di non credere ai sogni; e non crederà ai sogni poichè si mostra persuaso che l’avvertimento datogli dal sogno non merita d’essere seguito. Gran bella questione, gran sottigliezza di mente, grand’acume di penetrazione, gran bontà della nobiltà loro, alla quale raccomandando di non riscaldarsi la bella mente, m’innoltro divotamente al Capo secondo.

 

Erano pronte a scoccar da una bruna pupilletta le freccie d’oro che il nume di Gnido aquattato fralla tremula sua luce indirizzava verso il cuor mio, e già provava i palpiti nel seno nunzj della presenza del Nume, quando la bella Amarilli, la vezzosa Amarilli lasciò sfuggire dal bel suo labbro porporino una soavissima bestialità, al dolce suono della quale si calmarono i palpiti, scomparve il Nume e rimasi di stucco. Da quest’esempio ch’io tramando alla posterità imparino le amabili Ninfe quanto la coltura dello spirito accresca in esse il potere de’ vezzi loro, e quanto disdica in un giovane e leggiadro corpo vedervi alloggiare un’anima rozza e mal educata. Così disse il celebre Giasone del Maino nel suo Consiglio ottomilesimo cinquantesimo quinto, al che rispose Bertacchino famosissimo nel suo Repertorium juris che non sempre è oro quel che luce. Sentenza bella, bellissima, la quale discende da quell’antico proverbio che dice che non sempre quel che luce è oro. E per recarne un altro esempio potrei citare questo mio singolarissimo e pregievolissimo libro, in cui pare che le cose me le prenda a cuore veramente, quando per dir vero io le lascio buonamente scorrere come vanno, e tutta quella attenzione estrema, che vi pare di vedervi e nello stile e nel metodo, non mi costa nemmeno la quarta parte della fatica che v’immaginate; il metodo e la scelta giudiziosa delle frasi sono in me un dono della natura, non posso aprir la bocca ch’io parlo immediatamente con un ordine mirabile e dico ragioni sì convincenti che pochissimi le intendono; appena prendo in mano la penna che, come allor quando fendesi per impetuosissima scossa il fianco inaridito del Vesuvio vedi dal bollente seno del monte scorrere per la fatta rottura il torrente della lava rovente e distendersi per le valli sottoposte, ed incarbonire e far in polvere ogni opposto inciampo, così sgorgano dalla felicissima mia penna con ogni facilità le cose che pajono difficili alla nobiltà loro. Non è tutt’oro quel che luce. Alcuni pajono uomini di lettere e per dir vero sono da portar lettere, diceva Dionigi d’Alicarnasso, e sono costoro gente che hanno appena una leggera superficie e con molta impostura te la distendono, e tanto tanto vedendola di lontano ti par qualche cosa, come appunto se sulle cime d’un monte di vivo sasso tu vi porti della terra e la diradi e spiani attentamente, sì che nascavi una rara erbetta che di lontano inganna il passaggero e crede fertile assai quel distretto; ma viene una nube pregna d’umore e lascia piombar su quella cima dirottamente la pioggia: ecco levata l’artificiosa coltura, ecco rimastavi una infeconda rocca scoperta. Così, lettor benigno, accader suole a certi pedantuzzi, tisicuzzi, impostoruzzi quando sieno alle prese con un ragionatore. Io ho imparato colla sperienza una verità costante, ed è che gli uomini che fanno sembiante di tener celata una parte del loro merito hanno per lo più tanto vacuo quanta è la parte celata. L’amor proprio stimola a porre in vista quello che si ha di buono, e l’uomo di merito non teme mai che altri se gli accosti per conoscerlo. Gli uomini più paurosi sono coloro appunto che vanno più armati, così nella vita socievole gli uomini più ambiziosi e vuoti sono quelli che fanno mostra d’essere pieni e d’essere misteriosi. Io conosco un tale che non potrebbe dire a veruno buon giorno se non glielo dice con una cert’aria di mistero e di scaltrezza, che è l’unica cosa scaltra che sia in tutta la sua persona. L’uomo veramente scaltro è quello che non compare scaltro, come l’uomo veramente di spirito è quello che non mostra mai spirito… Oh che bel come, nobiltà riverita! Oh che beato come che ho dett’io! Mi pare che la nobiltà loro mi batta le mani, evviva, evviva! Evviva pure, rispondo anch’io. L’uomo di spirito è quello che non mostra mai spirito, bella massima! Felice ritrovato! Comodissima invenzione per la nobiltà loro! Ma se’ tu pazzo, rispose il divino Omero, se’ tu pazzo! Affè di bacco, che con que’ tuoi viva tu mi faresti uscir de’ gangheri; che diamine vai tu cercando con quella tua sbrodolata nobiltà loro! Pape Satan pape Satan Aleppe, venne cantando colla voce rafreddata il divino Dante, ed io lasciai i due divini divinamente addormentarsi colle narcotiche loro melodie e presi ad osservare la fetuccia che aveva intrecciata fralle chiome la bellissima Livia Drusilla, che s’avvanzava con passi maestosi verso il Tempio d’Apolline, ed essendo io colpito dalla singolarità della disposizione con cui la fetuccia era annodata: Signora Livia, le diss’io, qual nome date voi a quel singolare inviluppo di nastri che portate in capo? Scommetterei che o lo chiamate il Zefiro, ovvero il nodo d’amore, ovvero il sospiro. No, mi diss’ella, quest’inviluppo si chiama il Rinoceronte. Una gran bestia villana, per verità, soggiuns’io. Sarà della vostra schiatta, soggiunse la bella ninfa, ed io rimasi come un caporale filosofo in faccia d’un capitano ubbriaco, poichè per il quieto vivere è sempre bene scegliere gli esempi di tal natura dai ranghi volgari. Il volgo è sempre una gran bestia in ogni paese, dica chi vuole, vi sono in ogni città sette o otto più scaltriti o più fortunati degli altri i quali se s’accordano fra di loro faranno giudicare la moltitudine bianco o nero come lor piace. Oh Signori sette o otto, nobilissimi Signori sette o otto, non dite male del mio libro di grazia, se voi dite bene io sarò un autor celebre, se dite male, Signori sette o otto, io piangerò amaramente la mia disavventura, e poi prenderò la penna e scriverò tante cose in vostro vituperio… Che vituperio, padron mio, che modo di parlare è questo! Mi maraviglio. Un uomo onesto, un uomo bennato, non scrive mai vituperj contro nessuno; l’arte della scrittura è fatta per rendere gli uomini migliori, più felici, più illuminati. Se Vossignoria vuol divertirsi a scrivere anche per suo passatempo, non vi trovo che dire; ma vituperi! satire! contumelie! Chi le scrive merita il fango sul viso. S’ella vuol divertirsi degli uomini in generale, in buon’ora lo faccia; ma badi bene, padron mio, che un uomo d’onore non personalizza mai. E disse bene per verità quel signore. A me piace rendere giustizia ad ognuno, e quand’uno dice una cosa buona, foss’anco un mio nemico, non posso a meno ch’io non gli dica bravo; e vada per tant’altri pedantoni insorbettati, i quali, insensibili ad ogni altro afetto e tutti assorbiti dalla voglia di passar per uomini superiori agli altri, crederebbero di sconciare la scimunitissima loro gravità se dicessero un bravo, un buono all’occasione. Oh generazione prava e abominevole, oh serpenti caudissoni della repubblica delle Lettere, oh spaventacchi de’ giovani di talento, oh diavoli insorbettiti (per dieci, che ho imparato anch’io a cospettare con buona grazia!), oh nemici giurati del merito che non approvate mai nulla, che scoraggiate gl’ingegni, se il cielo infondesse in voi un po’ di merito non sareste più tanto gelosi del merito altrui, il vero merito ha una sorte di magnetismo reciproco. E qui è luogo di pubblicare un afforismo della scienza del cuore umano poco conosciuto e altrettanto incontrastabile, ascoltatemi, Lettor cortese, e tenetevelo ben bene a mente, ed è che un uomo estremamente cauto nell’approvare è un uomo estremamente limitato di animo. L’uomo che abbia un cuor grande ed una mente egualmente grande sente con molta energia i piaceri egualmente che i dolori, e quando le sensazioni si fanno con molta energia non è possibile che non trapelli l’approvazione o il rifiuto che facciamo. L’uomo di genio s’avventura all’errore per constructionem, e un uomo che non vi si avventura mai sarà sempre una mente mediocre e nulla più. Perchè convien sapere che l’animale uomo è più perfetto in ogni genere di quello che non lo sieno tutti gli animali dell’universo; ed in primis l’animale uomo vede assai meglio di quello che non vedano gli animali falcone e lince; l’animal uomo ode più finamente di quello che non odano tutti gli animali ucelli il minimo lontano mormorio; l’animale uomo odora meglio che non odorano tutti gli animali cani e bracchi e barboni ec.; l’animale uomo corre assai più velocemente che non corrono gli animali cervi; l’animale uomo appena dopo nato basta a suplire a se medesimo, il che non possono fare gli animali debolissimi figli d’una gallina o le quaglie, le quali osano camminare col guscio in capo; l’animale uomo può vivere senza coprirsi le membra, laddove gli animali orso, asino e simili devono portare il pelo per non patir freddo; l’animale uomo comanda ai leoni, alle tigri, alle pantere, e gli animali leoni, tigri e pantere, se l’animale uomo ha la urbanità di visitarle in casa loro nell’Affrica, è ubbidito puntualissimamente. L’animale uomo perfine non è d’un uniforme parere, e vedremo altri animali uomini dir bene, altri dir male di questo mio stupendo libro, in vece che nessun elefante, nessun rinoceronte, nessuna balena dirà nè bene nè male di questo stupendo libro, il che mostra la sterilità loro. S’alzò allora dall’erboso sedile la bellissima Clori e parea che il prato stesso si rallegrasse d’esser tocco dal ritondetto piede, e i fiorellini a gara cercassero di svenire sotto al dolce peso della adorata mia Ninfa, e l’aer cheto e dolce all’intorno mosso abbracciar parea mollemente la sovrana beltà. Ella ver me cortesemente rivolta: Amico, hai visto, mi disse, tu hai fatto un gran bel libro. Oh, rispos’io, quanto maggior vanto sarebbe, o vaga Ninfa, il fare chi possa fare un gran bel libro. Sorrise la vaga Clori, e il cielo di dense nubi si coperse
Intonuere cavæ gemitumque dedere cavernæ
sin tanto che dopo dirotta pioggia comparve il bel sereno; e il leggiadro Aristotele con parrucca alla Delfina e una pippa in mano venne a picchiare alla mia porta. Oh Stagirita, gli diss’io, come mai sì di buon mattino sei già intorno? Amico, diss’egli, vengo a prendere il cioccolatte con te. Entri il Signor Aristotele. Venne, vide e vinse, e se ne andò con dio dopo avermi seccato potentemente.

Ma l’astrologia giudiziaria piacque singolarmente agli antichi medici e fragli altri al dottissimo Paracelso, il quale ci lasciò scritto nel Trattato secondo queste bellissime parole: Medico autem citra omnem defectum hoc consistere debet, ut sciat in homine caudam Draconis, et Arietem, et axem polarem, et lineam meridionalem, et ortum et occasum, quæ si ignorat apage talem ad Pilatum; e qui per universale comodo della nobiltà loro diremo in volgare che Paracelso consiglia ai medici a rivolgere le più intense loro osservazioni sulla coda del Drago che sta nel corpo umano, sull’Ariete, sull’asse polare, sulla linea meridionale, e sulle vicende dell’orto e dell’occaso, poichè da queste osservazioni nascono infinite notizie su i principj delle cose e fisiche e talora non di rado morali, per modo che chiunque le trascuri è un medico da consegnarsi a Pilato. La nobiltà loro mediti seriamente quel passo di Paracelso e troverà che Paracelso non era poi tanto sviato come pare a chi suole sfiorar appena i testi degli autori senza penetrarne il midollo. Poveri autori, in quai mani capitate voi talvolta!

Una monaca caricando un mortajo da bomba, un curiale maneggiando un quadrante astronomico, un Teologo profondo pettinando una parrucca, un gravissimo erudito leggendo questo mio incomparabile libro, sarebbero il soggetto d’una bella pittura. Quante cose non si potrebbero aggiungere a sì bella pittura se si potesse nominare Messer tale, Madonna tale; ma per il quieto vivere, Nobiltà bella e riverita, bisogna che gli autori sacrifichino tante volte il meglio delle loro idee, come altra volta ho detto, altrimenti la Nobiltà loro ne profitta, se ne diverte, e per non perdere nulla de’ leciti suoi intertenimenti si diverte a dir male di chi l’ha divertita, e gode e applaude al male fisico talora che piomba sul capo al povero autore; e per questo io, che conosco il bel genio della Nobiltà loro, prendo il cauto partito di divertirmela io con essa lei, anzi che la nobiltà loro si umanizzi con esso me a rovinarmi benignamente. Lo so ben io come fate voi altri uomini: se un libro sia scritto con qualche libertà, e instruendo gli uomini offenda l’amor proprio di alcuni pochi più forti, ogni uomo se lo tiene caro, lo legge, lo medita, non lo cita mai, ma se ne prevale per farsi onore all’occasione; e se si nomini il povero autore che gli ha fatto a proprio costo il servizio, oh che imprudente, che matto, che bestia, merita la prigione, merita il bando, è un infame e via di questo trotto; pupille vaghe e belle del mio amorosissimo lettore, vi conosco, non m’acchiappate, non mi fido della vostra protezione, mi fido del mio giudizio, e se volete erudirvi, e se volete vedere molte cose come sono, cercatele da chi vi voglia sminuzzare i bocconi, che io ho la podagra e non posso servire la nobiltà loro in sì fatto proposito. Per delle storielle, tanto tanto ve ne dico e ve ne dirò; per qualche pazzia che mi viene sulla penna, tanto tanto la lascio sfuggire; ma che la nobiltà loro abbia la soddisfazione di vedermi perseguitato per aver avuto troppo zelo nel servigio della nobiltà loro, no vita mia, non sarà mai. E qui Ermete Trimegisto si pose a sedere e cominciò con pacato stile a ragionare in tal foggia: D’un gallo se ne può fare un cappone, e d’un cappone non se ne può fare un gallo; d’un buon libro se ne può fare una critica bestiale, e d’una critica bestiale non se ne può fare un buon libro; d’una pianta se ne può fare una testa di legno, e d’una testa di legno non se ne può fare una pianta. D’una zitella se ne può fare una maritata, e d’una maritata non se ne può fare una zitella; eppure, Signori miei, quanti, oh quanti capponi che voglion farla da gallo, quanti critici animali che voglion far libri, quante teste di legno che vogliono esser credute feconde, quante maritate che vogliono parer zitelle. Oh quanti! Oh quanti!… Seccatore potentissimo, esclamò Baldassar Graziano, seccatore potentissimo siete voi, Ermete Trimegisto. State zitto, e non ci rompete più il capo co’ vostri oh quanti! La contesa andava inferocendosi, quand’ecco la vezzosa Regina d’Egitto, la divina Cleopatra, con due brune vivacissime pupillette che lampeggiavanle sotto una piccola fronte, dolcemente sorridendo s’avvanzò verso i due disputanti, e presentando una rosetta ad uno ed un anemone all’altro con una mano d’alabastro tornito, gli fè diventare quai pacifici agnellini; ballarono ciascuno un minuetto colla Regina sin tanto che sopraggiunse Marc’Antonio, il quale gli disse così: Bella Regina, io sto per perdere l’impero del mondo, ma se mi resta quello del cuor vostro non lo curo. Un filosofo che stava confuso fra la turba d’un immenso popolo disse allora sotto voce: Oh Marc’Antonio, tu sei pure Marc’Antonio. Se conserverai la forza in mano tutti spereranno da te, temeranno di te, ed a gara proccureranno di accumulare intorno di te i beni della vita; ma se di questi beni non ne hai altra cauzione che il capriccio d’un cuore, che l’ambizione o il tedio possono toglierti, Marc’Antonio, sei Marc’Antonio. In fatti Ottavio vinse, Marc’Antonio perdè e restò al vincitore l’Impero e la Regina se l’avesse voluta. Son alcune miliaja d’anni che le faccende vanno così, e la Nobiltà loro pare che abbia difficoltà ad intenderle, e si vanno lusingando d’aver fatto nascere nel cuore umano dei sentimenti che non vi possono nascere ed una imutabilità che è straniera al cuore medesimo; anche una volta di più è bene che la Nobiltà loro lo legga nel mio libro, senza però che il modestissimo autore pretenda d’ottener altro che la benignissima compassione che implora dal bell’animo della nobiltà loro. Quei che traggono profitto dalla costituzione d’uno Stato abborriscono ogni novità, quei che ne risentono il male desiderano ogni novità. I figli di famiglia sono quelli che corrono dietro alle novità con maggior desiderio, non solamente perchè l’età gli spinge a ciò, ma perchè realmente i figli di famiglia sono la porzione di uomini meno libera e felice che sia in uno Stato. Gli uomini illuminati che presiedono a una constituzione più per opinione che per forza fisica risguardano come un male e un mal grande qualunque mutazione in ogni genere; le opinioni degli uomini sono talmente connesse l’una colle altre che non puoi cambiarne una senza che tosto o tardi ella non porti influenza anche sulle altre, e come nessuna verità è talmente sterile ed isolata che da essa non vi sia, per un labirinto di fili intralciatissimo, passaggio a tutte le altre verità, così un cambiamento qualunque in uno Stato è un principio di fermentazione che si dilata con moto accellerato col tempo. Le sole mutazioni utili in sì fatti Governi sono le mutazioni che tolgono le mutazioni, cioè il ritorno agli usi primitivi. La costanza nella filosofia peripatetica era ridicola in faccia d’un fisico e d’un logico, ma era conforme ai propri principj di alcuni ceti in faccia d’un filosofo. La proscrizione della vana filosofia dalle Scuole è stato il colpo più grande e più universale accaduto alla società politica da secoli e secoli a questa parte, benchè sia stato il meno sensibile. Il ragionatore, lo spettatore del teatro del mondo ne vede i progressi, ne vaticina le conseguenze, e il Cavalier gentile attacca alla catenella dell’oriuolo la carrozzetta, il cannoncino, la pistolina e il campanello con cui rendere sonoro il passeggio. Quindi aviene che gli antichi fossero saggi assai e avveduti, esercitando i corpi loro colle varie invenzioni della ginnastica, e che da assaissimi malori mercè di essa andassero esenti, laddove noi appena ci riccordiamo d’aver braccia e gambe in proprietà, e le parti del nostro corpo articolate lasciamo in un vergognoso letargo… per altro in vece di scrivere vergognoso sarebbe stato bene a parer mio di scrivere malsano… suppongasi dunque ch’io abbia scritto malsano… voi altri, lettori cortesi, siete tanto difficili a contentare che… ma no, che non siete poi difficili, avete mostrata una somma benignità per il libro N. N. che non valeva un zero… Ma che razza di discorso è mai questo?… Egli è un discorso che vale quanto tant’altri che fate voi… Impertinente, e così si parla al lettore cortese?… Seccatore, e così s’interroga il dottissimo scrittore?… Quando si vuol esser letto si scrive come va scritto… Quando non vi piace il libro si chiude e si lascia la lettura da parte senza infastidire lo scrittore… Io vi dico che ho speso i miei quattrini a comprare il libro perchè mi dovesse divertire… Ed io vi rispondo che de’ vostri quattrini spesi non me ne preme un’acca e che quando ho scritto il mio libro ho pensato a divertir me, non voi… Ma io non mi diverto… Peggio per voi, mi son divertito io… Ebbene, io non ve ne avrò nessuna obbligazione… Va ottimamente, io non l’ho mai pretesa… Io dirò che… E qui suono il campanello e invio il benigno lettore pe’ fatti suoi. Ciò fatto, propongo una bella questione. Cominciamo dal fatto, poi verremo alle ragioni. Il fatto è così. Tizio ha patuito con Sempronio Avvocato in questi termini. Tu Sempronio mi ammaestrerai a difender le liti, e se la prima lite che farò potrò vincerla, ti pagherò mille zecchini in mercede del tirocinio; se la prima lite che farò la perdo, non potrai esiggere veruna mercede. Il buon Signor Avvocato Sempronio non risparmiò cura o fastidio per insegnar bene appuntino tutte le cabale, le sottigliezze, le distinzioni e le arti per vincer le cause, premevagli che il suo scuolare Tizio potesse vincere la prima causa che avesse trattata nel Foro. Per alcuni anni seguitò Sempronio a insegnare, Tizio ad imparare la luminosa arte di giuocare ai bussolotti col giusto e coll’ingiusto. Quand’ecco improvvisamente il Signor Tizio chiama in giudizio il Signor Sempronio e gl’intima che intrapprendeva la prima causa contro di lui per non pagarlo. O io vinco (dice Tizio) la causa, e sono assoluto dal pagarvi per sentenza del Giudice; ovvero la causa la perdo, e sono dispensato da ogni obbligo perchè ho perduta la prima causa. Al che replica Sempronio: O tu vinci la causa, e s’è verificata la condizione del nostro contratto e conseguentemente mi pagherai; ovvero tu perdi la causa, e la sentenza del giudice ti condanna a pagarmi e devi eseguirla. Si fecero bellissime scritture su questi limpidi e onesti principj, e la causa è tuttora da decidersi. Caligola si scosse in quel punto e rivolto ad un filosofo gli disse: Filosofo, dimmi qualche cosa che sia diversa da quelle che mi dicono i miei cortigiani. Tu comandi, gli disse il filosofo, perchè gli uomini ti vogliono ubbidire; gli uomini ti vogliono ubbidire perchè credono che sia loro interesse l’ubbidirti; la tua autorità dunque dipende dalla semplice opinione; guardati dunque col cattivo governo di non far nascere l’opinione negli uomini che sia loro interesse il cessare d’ubbidirti. Caligola si pose a ridere smascellatamente ed esclamò con quel bel verso Povera e nuda vai Filosofia! Caligola fu poi massacrato ed il filosofo scrisse la vita di lui e la serie memoranda delle pazzie che fece risplendere sul trono di Roma. I potenti hanno un giudice inevitabile anche in terra ed è la storia; e questa è una consolazione almeno per gli uomini di merito e oscuri, qualora soffrono i fastosi insulti di coloro, di sapere che il castigo d’aver male usata l’autorità cade sulla parte più sensibile del uomo incivilito, cioè sulla gloria e sul nome. Ma siccome quella schiatta d’uomini non sarà mai nel numero de’ miei lettori cortesi, perchè lettura e bestialità non s’uniscono mai, così lascerò intentato il bel campo che mi si presenterebbe di scrivere quello che penso sulla imperizia e imbecillità loro. Gli uomini saggi posti in dignità sanno quanto sia il pregio di quella moneta che non impoverisce mai l’erario, cioè delle maniere cortesi e oneste, sanno quante cose si fanno fare agli uomini con questo pagamento, e quanto poco vi voglia per farli fare a modo loro e contentarli nel tempo istesso; sanno che l’opinione regge l’universo assai più che non la fisica, la quale per lo più ubbidisce alla opinione. I Bascià a tre code sono terribili agli occhi volgari, sono odiosi agli occhi della moltitudine, e sono ridicoli e imbecilli agli occhi d’un sensato politico. Ma quanti sensati politici che la natura ha destinati a cucire i stivali in una bottega da calzolajo, e quanti abilissimi calzolaj che il capriccio della sorte ha fatto nascere sotto benigna stella per reggere il destino delle Nazioni… Ma che v’entrano mai le stelle, ben mio, per fare che quella piccola formica uomo che passeggia sulla piccola pillola di fango chiamata terra diventi frate vicario del Convento e non frate cuciniere! Stavansi alle grate d’un Convento di Monache un Generale, un Musico, un Fisico ed un Poeta; la conversazione andò vagando su cento oggetti diversi e sempre interrotti, sin tanto che, non so per qual combinazione, cadde il discorso su un inverno singolarmente freddo che era accaduto alcuni anni sono: gli uni dicevano è stato il tal anno, gli altri il tal altro. No, disse la Monaca, il freddo terribile fu, or ora ve lo faccio toccar con mano, fu appunto quell’anno in cui ebbe quel gran rafreddore Suor Lucia di Santa Veronica. Il Generale, il Musico, il Fisico e il Poeta, quasi che fosser d’accordo, tutti ad un tratto si lasciarono sfuggire uno scoppio di riso, e il Generale soggiunse alla Monaca: Signora, che volete che sappiamo noi di Suor Lucia di Santa Veronica! E che pretendete, che contiamo gli anni da’ suoi rafreddori? Oh Signor Generale, replicò la Monaca, Suor Lucia di Santa Veronica è una religiosa celebre per tutto il mondo, ognuno sa ch’ella ha portato in questo Monastero il secreto de’ biscottini color di rosa; quando ell’era ammalata fino il Vicario Generale è venuto a chiedere sue nuove, non v’è persona più celebre di lei dappertutto. Sarà, rispose il Generale, ma ritorniamo all’anno del terribile inverno… Signore, disse il Fisico, or ora convincerò Vostra Eccellenza dell’epoca precisa di quel gran freddo. Il freddo straordinario avvenne quell’anno appunto in cui venne in Italia la maniera di far le calamite artificiali, perchè mi ricordo che le lamine di ferro a gran pena le poteva maneggiar fralle mani, e il termometro fu dieci gradi sotto il gelo per alcune notti. La Monaca, il Generale, il Musico ed il Poeta fecero il secondo coro di risate all’udire il buon uomo: che calamita, che lamine, che termometri ridicoli, disse il Generale, io non vi chiedo di queste puerilità, si tratta di sapere se il freddo sia stato l’inverno del tal anno ovvero il seguente. Il poeta allora prese lena e, Signore, disse, nell’anno del freddo ella si ricorderà di quel famoso sonetto che fu tanto celebre in Italia:

Scaglia l’obliquo ed infecondo raggio
Dal carro impallidito il biondo Nume
Inorridisce e immobile sta il fiume
Dimenticando il fluido viaggio.

Oh oh oh, esclamarono la Monaca, il Generale, il Musico e il Fisico, il Cielo ve la perdoni colla celebrità de’ vostri famosi sonetti, voi altri poetini credete che l’universo badi ai vostri sonettini e nessuno di noi ha mai saputo che si sia fatto il sonetto famoso che citate. Dice benissimo Vostra Eccellenza, disse allora il Musico, quest’è quello che mi andava appunto ripetendo Bernacchi, che i poeti son matti. E chi è questo Bernacchi, disse il Fisico. Oh, oh ignorante, soggiunse il musico, lo saprà Sua Eccellenza assai bene chi è Bernacchi. No davvero, disse il Generale, non l’ho mai inteso nominare. Lo saprà la Reverenda Madre. In vita mia, rispose, non ho mai udito tal nome. Eh, cospetto, disse il Musico, in qual paese son io, siamo forse fra i Tartari! Bernacchi, il celebre Bernacchi, quello che ha dato l’anima e l’espressione alla musica vocale! Bernacchi, quello che ha introdotto il pomposo, l’eroico nel canto! Bernacchi, il Dio della musica. Oh, oh, oh! esclamarono la Monaca, il Generale, il Fisico ed il Poeta. Il freddo del qual parliamo, disse finalmente il Generale, è accaduto nell’anno appunto che precedette l’affare di Mahon, si ricorderanno lor Signori del fatto di Hochkirchen. È forse un ufficiale il Signor Hochkirchen, disse la Monaca? Credo se non m’inganno che sia un fiume di Germania, disse il Musico. Oh che ignoranza, oh che ignoranza, esclamò alzandosi finalmente il Generale, tutti gli avvisi, tutte le gazette del mondo hanno parlato della celebre sorpresa di Hochkirchen, e voi Signora Monaca, e voi Signor Fisico, e voi Signor Musico, e voi Signor Poeta non lo sapete! Nemmeno voi sapevate, disse la Monaca, il rafreddore di Suor Lucia di Santa Veronica. Nemmeno voi sapevate, disse il fisico, la insigne scoperta della calamita artificiale. Nemmeno voi sapevate, disse il Poeta, il celebre sonetto che v’ho citato. Nemmeno voi sapevate, disse il Musico, il nome del maestro della musica, del gran Bernacchi. E qui si divise la compagnia, ciascuno se ne tornò nel suo nido; la Monaca riferì alle Suore la ridicola ignoranza di coloro che erano stati a visitarla, de’ quali nessuno conosceva Suor Lucia di Santa Veronica, che aveva introdotti i biscottini color di rosa, e le Suore tutte quante risero di cuore a spese degl’ignoranti. Il fisico se ne andò in una società di amici suoi e li fece ben bene ridere per la cecità di coloro che non sapevano nè sospettavano nemmeno le scoperte fatte sul magnetismo. Il Poeta cominciò a stendere un capitolo contro la profana schiatta che non cura in questo secolo perverso gli spiriti gentili e i cigni cari ad Apollo ed alle caste suore che pasconsi dell’onda ascrea. Il Musico scrisse una lettera ad un suo corrispondente per fargli toccar con mano a qual segno fossero Ostrogoti gli abitatori del paese in cui si trovava, cosicchè sperava poco buon incontro nel Carnevale vicino in cui doveva far la parte di Coriolano. Finalmente il Generale concepì una dispregevole opinione degli abitatori di questo paese; ed un Filosofo ne cavò alcune riflessioni sul desiderio della celebrità, e su i diversi punti di vista d’onde gli uomini risguardano lo stesso oggetto. Una scuola di pittura è l’immagine, diss’egli, fedelissima della società umana; s’espone un corpo umano nudo a cinquanta pittori da disegnare; ognuno fedelmente lo disegna qual lo vede, chi in profilo, chi di fronte, altri dal basso in alto, altri in diversi aspetti intermedj, cosicchè la stessa figura fa nascere tanti disegni realmente diversi quanti sono i pittori. Io faccio devotamente una breve osservazione su questa bella immagine, e sia a proposito di questo mio libro incomparabile. Il mio libro è il nudo dell’accademia; lo prende per le mani un uomo di bel tempo, una signora occupata a tener in pace molti adoratori; questi guarderanno la mia grand’opera di fronte: eh sì sì, vi sono delle buffonerie curiose, è un libro che mi fa ridere, mi piace. Lo prende per le mani un austero letterato, un freddo ragionatore, questi lo guarda dall’alto al basso: oh che pazza fantasia, quest’è un libro dove non v’è nè capo nè coda, pare che sia un quadro composto di rittagli d’ogni sorte, v’è un naso di Tiziano, un occhio di Tintoretto, cuciti insieme collo spago e tassellati con rottami di pitture d’infima condizione. Lo prende per le mani un filosofo, questo lo vede in profilo, ne delinea le vere fattezze: non sarebbe difficile che ce la intendessimo fra di noi, l’autore ha temuto che gli uomini non lo leggessero ovvero lo maltrattassero se avesse con loro ragionato seriamente. Lo prende per le mani un uomo grave e ridicolo, questi lo vede per di dietro: Oh! Oh! Oh! Oh! Che libro! Che vituperio! Che roba! Oh! Oh! Oh! Oh! Lo prende per le mani uno che somiglia a me; questo per dove lo vede? Non lo saprei; ma che dirà? Dirà ch’io… non lo vuo’ dire per modestia, perchè se avessi a parlar di me medesimo sinceramente, lettor cortese, io vi direi ch’io sono una cara ed amabile creatura, e voi vedete, lettor cortese, che sì fatte lodi ognuno se le deve dare nel secreto del suo cuore, questo già lo sappiamo, ma, per forma di cerimoniale, nessuno deve proferirle; onde sia per non detto.

Sul punto in cui stava il Pio Enea per abbandonare la Regina Dido… Adagio un poco, Pio Enea! Vediamo un po’ qual pietà avesse il Pio Enea. Battuto dalla borasca, esule rammingo, approda ai lidi di Cartagine; la magnanima Dido, che ebbe cuore per fondare un nuovo Imperio, che seppe sostenere il suo regno ancor nascente contro i Principi Affricani, che è la eroina del suo secolo, la magnanima Dido lo accoglie, ristora lui e i suoi, lo benefica, spande la reale sua munificenza sopra di lui, giunge ad amarlo. Enea seconda la passione della sua benefattrice, questa irrita lo sdegno de’ Principi da lei prima rifiutati; un bandito, un avventuriere preferito ad essi doveva far nascere questo sentimento. Che fa il Pio Enea? Si pone egli alla testa delle armate Cartaginesi per assicurar la sua benefattrice da nuovi insulti? Signor no. Si stabilisce almeno presso della generosa Regina per assisterla col suo consiglio in sì critica occasione? Nemmeno. Si unisce egli col sacro nodo colla troppo credula sua amante, per coprire ogni macchia fatta al di lei nome? Neppure. Che fa il Pio Enea? Dopo aver ben mangiato, bevuto, e qui seguitan diversi participj innominabili, la pianta in mezzo ai guai e la lascia circondata da nemici che la opprimono. Il Pio Enea è costui? Costui è l’ipocrita Enea, l’Enea ingrato, l’Enea briccone in supremo grado, l’Enea vile, l’Enea del diavolo che lo porti. E voi altri, lettori cortesi, andate in teatro e non date le sassate al cappone che fa da Enea! Ma voi mi direte forse, lettor cortese, che le avventure di Didone con Enea sono un anacronismo fatto da Virgilio. Ebbene, quand’anche fosse un anacronismo, Virgilio ha dunque errato poichè ha confuse in ciò le idee di virtù e di vizio; e vuol rappresentarci per eroica una azione che di fatto è crudele, ingrata, abbominevole. Se Enea aveva i suoi Penati, il suo Palladio da portare in Italia per ordine degli Dei, non doveva lusingar la passione della Regina, non doveva nascondere il suo disegno, doveva parlar chiaro al bel principio, ricevere que’ soli ajuti che la necessità l’obbligava a ricevere, esser discreto, non lasciarsi ricolmar di tanti beneficj, resistere alla propria passione se nasceva per la Real benefattrice e partire più sollecitamente che fosse stato possibile: qui v’era la virtù, qui s’univa l’ubbidienza verso i Dei, la fede data al padre, coi doveri d’ospitalità e di gratitudine; ma come lo fa Virgilio, ei me lo fa un vile interessato disimulatore, e me lo vuol presentare come un eroe, come il pio Enea! Che poi sia o non sia un anacronismo non è cosa decisa per anco, e qui dirò come quel buon frate che argomentava in una disputa sul mese di Luglio: sudatus totus ego dicat tu; è tanto tempo che andiamo ragionando, lettor bello e cortese, che vuol la discrezione che prendiamo un po’ di riposo. S’accomodi… Anzi lei… Oh di grazia… Favorisca… Così va bene. In che si diverte Vossignoria?… Eh, così alla meglio, come ella vede… Per altro ella si occupa assai co’ suoi studi… Eh, per verità non molto… Che bell’opera sta ella travagliando?… L’opera è seria assai a dir vero, è un trattato latino De umbris idearum che voglio dedicare ad un Avvocato di grido… Benissimo, De umbris idearum, bel titolo!… E vi porrò diversi comenti in greco… Ottimamente, questo servirà a rischiarare la materia, e mi sovviene che quand’io era piccino il mio pedante mi ha fatto imparar a memoria un distico greco che ho dovuto recitare per ringraziamento d’un’accademia, e poi me lo feci tradurre e diceva così: Uditori che siete capaci d’intendere il greco, non dite agli altri ch’io con questo distico li mando a farsi friggere, e sì vedete che il mio pedante non era poi senza sale affatto ne’ suoi distici. E davvero che il sale non è facile il trovarlo in tutti i distici, perchè non tutti quei che fanno distici hanno sale, e nemo dat quod non habet.

E di voi altri gazettieri, novellieri, giornalisti letterarj non dovrò io dir nulla in questo mio stupendo libro! Dovrò io tacer di voi altri, di voi che siete tante e tante volte ora i servili stipendiati adulatori, ed ora gli aguzzini, i delatori e i norcini delle opere altrui! Io non intendo di riporre tutti i giornalisti in questa classe. Quando s’incominciarono a scrivere le Novelle della Repubblica delle Lettere, comparvero scritte da un uomo degno di scriverle, e dopo lui qualche degno seguace v’è sempre stato in Europa, anche attualmente ve ne sono, e rendo ad essi la giustizia e l’onore che si meritano. Ma voi pedantini, parolaj, cervelli piccini piccini, potentissimi construttori, sapientissimi declinatori ed inettissimi ragionatori, ma voi corruccevolissimi grammatici e scandalosi logici, abatini, improvisatorini, eruditini, grecheggiantini, poverini, poverini, io vi dò un biscottino sotto al mentino, questa sera sarete buonini, vi darò la pappina, e la conserva di cassia per medicarvi i nervi, e buona notte babbo mio bellino bellino. Suvvia, nelle vostre novelline letterarie dite qualche cosuzza contro il mio bel libro, giudicatene come già faceste sapientissimamente delle Lettere di P. Virgilio agli Arcadi, delle Meditazioni sulla felicità, del libro Dei delitti e delle pene, dite suvvia, ditene qualche nuova bestialità se non altro per rallegrare la compagnia. Povero vecchiarello che portaste sempre la pretesta nella Repubblica delle lettere, non vi stancate sul compiere della vostra carriera. Io non manderò a nessuno di voi altri giornalisti il mio libro, io non scriverò a nessuno di voi altri perchè ne diciate bene, ditene dunque tutto quello che vi torna comodo, e preparatevi a vederlo ben presto ristampato come avete veduto i tre libri accennati, dell’ultimo de’ quali fu fatta la quarta edizione nel primo anno in cui comparve, il che fa sospettare che il giudizio de’ lettori Italiani sia un po’ diforme dal vostro giudizino. Povero bimbo mio, che passeggiate col cercine nella filosofia, badate a non farvi male, e conservatevi il fiasco, la ghitarra e la fante, che questi tre beni sono assai più in mano vostra che non la gloria delle lettere. Dalla bibliografia alla ragione v’è tanta distanza quanta dalla cicala all’uomo. Ed io, voi altre cicale sebben mi importuniate collo stridore, non per ciò mi rallento o svio, ma proseguo il viaggio persuaso che al termine ch’io sia il breve periodo del vostro cicalio sarà finito, e con esso la memoria di voi. Questa persuasione mia è diversa sicuramente dalla persuasione vostra, ma credetemi, vita mia, che so quel che dico e la indovino. Ed ecco compiuto quell’atto di riverente ossequio che tosto o tardi deve ogni autore presentare al venerando tribunale gazettista per captivarsi il tesoro della buona grazia de’ giornalisti, la quale contribuisce assaissimo al credito o al discredito d’un’opera, come ognun vede, ed alla felicità d’un autore.

E voi, mia bella Cleonice, ve ne state così cheta e tranquilla all’ascoltare le tremende cose ch’io vado esponendo in onore e gloria de’ postiglioni letterari! E quelle dolci pupille, quella rosea bocca non si accendono d’una bell’ira contro di questi sicarj delle lettere! Se io sono un po’ brutale lo sono perchè ho paura che costoro non lo siano con me, e, regola generale, chiunque è molto ruvido e feroce per sistema è un uomo che ha un fondo di paura e cerca di prevenire l’incontro. E qui notate, o benigno lettore, la bellissima riflessione colla quale ho chiusa la ortichevole apostrofe ai miei cari amici giornalisti, e sappiate per istruzione vostra che queste riflessioni si chiamano epifonemi, parola che viene dal Greco e che vuol dire rei narratæ vel probatæ subjecta sententia. Io conosco un certo tale che in genere di epifonemi era un terribile scrittore, ad ogni tratto della sua narrazione v’erano pensieri, oh che bei pensieri pellegrini! In una pagina v’era tanto è vero che chi non ha giudizio opera male! nell’altra pagina tanto è vero che non bisogna irritare un uomo più forte di noi! va avanti tanto è vero che chi non bada ai suoi interessi li vede perire! tira di lungo tanto è vero che prima di risolvere bisogna pensare! In fine del bel libro io v’ho scritto di mia mano tanto è vero che tu sei uno stivale!, e questo epifonema è il più legittimo che si potesse cavare dalla lettura di quel bel libro. Ma che libro è questo, dirà taluno, diccelo in confidenza. Oh padron mio riverito, queste confidenze al pubblico sono pericolose, il pubblico si diverte di noi scrittori, i nobilissimi leggitori ci tengono come buffoni, ci prendono in mano per divertirli dal tedio, si divertono, ridono, quasi quasi ci vogliono un po’ di bene, poi temono che noi non scriviamo un secondo tomo e che in esso non cerchiamo i nostri minuti piaceri a spese loro, e la sola possibilità che ciò accada ci proccura l’onore della loro diffidenza, e per poco che ci venga fatta la guerra essi ci abbandonano, o si pongono del partito de’ nemici, i lettori sono aleati sospetti se non abbiamo in pugno il loro amor proprio, nè io mi lusingo d’avervelo, tanto è vero che non bisogna fidarsi di tutti; e da questa catena d’idee passa la tenuissima mente mia a risolvere che il nome e cognome dell’opera non si debbe dire e il grande arcano manet alta mente repostum, come dice Quinto Curzio nel suo poema sulla libertà di pensare. La Principessa Violante allora, così vedendomi ragionare, prese a così dire: È saggio, è lodevole il pensiero di non indicare giammai persona alcuna vivente o morta per oggetto di critica, chiunque abbia cuore e virtù risparmierà sempre ogni dilegio personale massimamente ne’ libri; è una viltà somma che un uomo dalla sua stanza pacatamente e impunemente stenda sulla carta delle ingiurie che non avrebbe forse coraggio di pronunciare in faccia a chi pretende di offendere; questo è un abuso del talento di scrivere, che fa sdegno ad ogni onesto lettore e copre d’obrobrio l’autore in faccia alle persone virtuose. Generalmente poi deridere i ridicoli della spezie nostra senza individuare alcuno è cosa piacevole ed utile assai; egli è vero che facendo molti ritratti di caricature a caso, varj originali vi si trovano che loro somigliano, prendi i Caratteri del La Bruyere e troverai il ritratto di molti che tu conosci, sebbene l’autore non gli abbia conosciuti mai, nè per conseguenza avuti di mira; ma chi somiglia ad un ritratto ridicolo peggio per lui, cerchi da non somigliarvi, e cesserà di lagnarsi del pittore. Veramente molto v’è da ridere esaminando le follie di questo globo; ma chi ha un’anima buona e sensibile non può sempre ridere; vi sono dei mali e degli errori nella mente de’ volgari che meritano compassione e ti commovono tutte le più dilicate fibbre della sensibilità. Felice chi cessa da ridere e prova una tenera emozione! Felice chi ha sugli occhi qualche virtuosa stilla foriera della beneficenza! E più felice ancora chi può e sa sollevare alcuno dai mali, e consolarlo nel cammino della vita! A tal discorso io, con voce umile e rispettoso atto, io mi rivolsi alla Principessa: Signora, le dissi, voi meritate di comandare agli Stati, felici coloro che avranno il bene d’esservi soggetti! L’anima vostra lampeggia con quel raggio di divinità che solo può meritare il rispetto, l’amore e l’ubbidienza d’un uomo. Non crediate che a me siano stranieri però i vostri sensi; altri sono allegri per disattenzione fisica, altri per meditata scelta di cercarsi distrazioni; dai primi so che non debbesi ricercare o pretendere una certa sensibilità; dai secondi vi si deve supporre e vivace assai, poichè con tanto maggiore studio si cerca il dissipamento quanta è maggiore la pena che provasi lasciandoci in preda alla impressione degli oggetti. Perciò, Principessa, io vado sfiorando le idee e le urto e le spingo perchè rapidamente si succedano l’una all’altra, e mi attengo a rimirarle dal canto per cui mi fanno giocondità, ingannando me medesimo e distogliendomi dall’osservarne quella parte che troppo porrebbe in dolore l’animo mio. Quando il mio dolore possa essere utile a qualunque essere sensibile, sa il cielo se bilancio un istante a soffrirlo! Ma quando io ci debbo perdere e nessuno profittarne, Principessa adorata, la ragione vuole ch’io rida e mi solletichi l’anima, e non mi prenda cruccio che il mondo non vada meglio di quello che va, perchè io non ho possanza di rimediarvi, e i sentimenti del mio cuore non li voglio impiegare inutilmente.

Bravo, bravissimo, ottimamente detto, rispose Don Lopez de Vega, il quale aveva assistito alla commedia in cui v’è il consistoro sul faldango che termina col ballo famoso. Ascoltate, di grazia, alcuni versi sciolti ch’io tempo fa avea preparati per un bravo poeta, il qual poeta, avendo accolti con somma freddezza i miei complimenti, non ha più veduto poi nemmeno l’elogio che faceva di lui; le lodi si debbon dare al merito, ma si debbono altresì ricevere con grazia, nè accogliere mai come un debito che si paga, se no, no. Ecco i versi:

La lungo tempo oziosa, e la non mai

Per vile encomio profanata cetra

Del ver ministro in man riprendo, e sciolgo
Per te, Cesare, il canto. Or ti prepara
Elmo e lorica, intorno a te già veggo
La turba di color che in Pindo cerca
Con infelice stento onore e fama;
E destar credon la vivace fiamma
Con fredde leggi e con servili esempj.
Te il vulgo imitator, te il vasto stuolo
Degli augelli notturni omai già preme;
Prendi l’egida, o vate, e ’l cor rinforzi
Di triplice metallo ampio recinto;
Ben sai che non è dato oltre ai confini,
Oltre ai stretti confin che il vulgo fissa
Impunemente sollevar l’ingegno.
Altri i tuoi carmi non servili, e il franco
Attico sale al tribunal riduce
Di spossata prudenza e li condanna:
Come se l’acqua limpida che scende
Da puro fonte gorgogliando, e spruzza
Talor le sponde, e mormoreggia, e freme
Fosse men bella di colei che giace
Inetta e paludosa, e d’alga ingombra
Vile ricetto di fangose rane!
Anime al suol curvate! In van si cerca
Per voi d’alzare il tempio alla mancanza
D’ogni energia, e si ricerca in vano
Porla fra’ Numi e fra le Dee la prima.
L’ignara turba i stolidi olocausti

Vi porti pur, ma il saggio non vedrete
Incensar l’are vostre, ove s’impone
Il servil giogo di Iapeto ai figli,

Fatti stromento di chi ardisce franco
Deriderli e servirsene. Va illesa
Dall’insidie l’altera acquila, il volo
Alzando oltre il poter del dardo ostile
Ovvero in su scoscesa erta montagna

In fra l’oscurità cercando asilo.


Quivi ho perduto il filo

Del canto mio sonoro
E giù dal sacro coro

Son caduto.
Già rotto è il mio liuto
Non mi ricordo il resto
Con canto pronto e lesto
Io qui finisco.

Perciò vi riverisco

Signori tutti quanti,

Dame, Guerrieri, Amanti

Addio, vi lascio.

E così cantando come un matto finì improvvisando il Signor Don Lopez, che per verità quasi cominciava a seccarci. Poichè quid est seccatura? Respondeo è più facile provarla che definirla. Per esempio chi ci assale con cento interrogazioni una dopo l’altra e vuol sapere d’onde veniamo, dove andiamo, dove s’è pranzato, che nuove abbiamo, quai libri leggiamo e così dicendo, quella è seccatura; così se un autore ci venga a recitare un pezzo del suo libro o a dettagliarcene il piano, l’ordine, gli encomj, la fatica senza che da noi sia di ciò richiesto, quella è seccatura; così se uno ci venga a visitare per deporre su una scranna della nostra stanza il peso della sua esistenza e venga come un creditore che ha diritto d’essere da noi tratto dalla noja assorbendo il tempo nostro in così bell’ufficio, quello è un seccatore; così se uno per mestiero contraddica a tutte le proposizioni e stia sempre colla lancia e collo scudo in pronto per entrare in lizza e disputare, quello è un seccatore; così se un uomo voglia tirannicamente impadronirsi della conversazione e perorare e declamare sopra oggetti che non interessano alcuno nè punto nè poco, quello è un seccatore. Così se io seguitassi questa figura di repetizioni più a lungo sarei uno seccatore, e perchè non lo sono mi rivolgo a discorrere di anatomia col mio dolcissimo Padre Sanchez, e sollevandolo un palmo dal suo livello favorito l’interrogo così: Favorisca di grazia la Paternità Vostra di spiegarmi perchè mai il cuore tramandi al capo dei gobbi un sangue più vivace? Risponde il Padre Sanchez che ciò accade perchè ne’ gobbi dal cuore alla testa la distanza è minore che negli altri uomini, e perciò la spinta giunge con maggiore energia. Al suon di detti sì soavi e casti io gli esibii una presa di tabacco perchè omnis labor merita premio non optat, metafora bestiale che la Signora Fatica desideri ovvero abomini il premio! Osservate la fantasia di alcuni, vogliono animare le cose che non hanno anima, e vogliono estinguerla in quelle che ne hanno. Tai sono i pedanti, dei quali siccome ho detto male altre volte, così lascerò di servirli per ora. Già dall’orrido seno delle caverne profonde il Dio de’ venti schiude gl’impazienti Aquiloni, e fremendo e sibillando s’affollano a scoppiare tutti ad un tempo dall’antro in cui se ne stavano compressi. Già le ferrate porte su i cardini ruginosi stridono e il Nume istesso che li regge impallidisce e teme d’aver loro aperto troppo libero il passo. S’alza di polve densissima un rosseggiante vortice che asconde la faccia del Sole, crollano i pini eccelsi, tutta la terra s’agita, e gli uccelli smarriti s’appiattano sotto i rottami delle pignatte; ed ecco che un bel riccio che vezzosamente cadeva sul ben tornito collo della mia vaga Lesbia si scuote, e cade sull’eburneo seno la polve di Cipro. Grande avvenimento si fu cotesto e degno della memoria de’ posteri, e quasi la mano mi trema trascrivendolo. Venne il geloso marito, e da quel riccio e da quella polve cominciò una operazione geometrica di proposizioni concatenate con corollarj e scolj, dal che ne nacque una lite terribilissima che terminò alla peggio.

La prudenza per altro è una gran bella virtù. Nullum numen abest si sit prudentia, che vuol dire prudenza? Vuol dire non far mai nulla per impeto di cuore, ma indebolire e frenare quest’impeto e pesar ben bene ogni parola, ogni atto, ogni risoluzione prima di farla. Colombo, quando s’ostinò a cercare alla Spagna un legno per andare a trovar nuove terre, pensò egli da prudente? No certamente, la prudenza voleva che se ne stesse a Genova a fare i fatti suoi senza impicciarsi del nuovo mondo. Cartesio, quando pubblicò il suo sistema e dichiarò guerra a tutte le Scuole, operò egli da prudente? No davvero, ei dovette cercarsi un asilo nella Svezia, tutta l’Europa fu in fiamme per un sacro zelo aristotelico che lo voleva distrutto; la prudenza voleva che non s’intricasse di riformar le opinioni universali. Questi due imprudenti hanno deciso dello stato odierno del commercio e dell’innalzamento universale degl’ingegni d’Europa. Trovami, ben mio, due prudenti che abbiano fatto altrettanto. Gli uomini prudenti sono buoni per conservare un sistema ben organizato, ma s’egli fosse mai corrotto e bisognoso di riforma vi vuole un ardito imprudente, purchè non sia matto, e questo pone in moto; e basta talvolta un moto rapido e turbolento perchè un sistema, da se stesso calmandosi, prenda poi una miglior forma. L’interesse pubblico è la somma degl’interessi di ognuno, se ognuno tutto ad un tempo si volge a pensare all’interesse proprio non bada più all’altrui, e quando non si bada ai fatti degli altri v’è minore curiosità, e quando v’è minore curiosità v’è minore invidia; e quando v’è minore invidia, l’accidia naturalmente svanisce, e svanita ch’ella sia, buona notte. «Voi ragionate in politica come un Bobadilia», esclamò qui il gran Savaedra, con una apostrofe da far maraviglia ai cani, perchè anche i cani provano assai bene il sentimento della maraviglia, ed io ho conosciuto un povero barbone che stava da dieci anni al servigio d’un dottore di Legge, e un giorno ascoltando da esso un silogismo finalmente chiaro e vero, il povero barbone si ritirò due passi, poi rizzatosi su due piedi abbajò terribilmente tre volte, tanta era la maraviglia da cui quella buona bestia fu soprafatta; e di queste maraviglie io ne ho vedute anche in altre professioni assai, e assai in ogni condizione di persone, cose tutte che potrei dire e non dico, perchè appunto, come diceva poc’anzi, son uomo prudente, e siccome la gente che fa male per lo più non ama da ridere, così lasceremo alla fecondità dell’immaginazione del lettore cortese d’amplificare questo nobilissimo ed abbondantissimo subietto, e rivolgendo l’orazion nostra dolcemente all’amore verremo a parlare, o per dir meglio a scrivere, l’afforismo che racchiude la grand’arte di farsi amare.

Preparate, Lettor cortese, attenzione, badate a questo importantissimo argomento, ascoltate e lasciatemi dire. Ognuno ha piacere d’essere amato, altri vogliono essere amati dalla sposa, altri dai figli, altri dai parenti, altri dal pubblico, altri da un tale o da una tale. Chi adopera a tal fine danari, chi adopera sommissione, chi assiduità, chi crede di farsi amare arricciando il toppè, chi ricorre ai filtri, agl’incantesimi, chi in somma se la prende per una strada, chi per l’altra. Attenti, Signori miei, attenti. Per farsi amare v’è un secreto solo, io ve lo voglio dire, attenti bene. Per farsi amare non v’è altro secreto che essere amabile. Eccovi il grande, il solo, l’infallibile arcano svelato, se non capite questo siete fuori di strada. Qual è l’uomo amabile? Lettori miei, voi siete curiosi assai a quel che vedo, ma come io vi sono amico voglio accontentarvi. Sapete chi è l’uomo amabile? Quello dalla compagnia del quale ognuno parte contento di se medesimo. L’uomo amabile non è quello che vi fa una conversazione brillante che umilia l’amor proprio altrui; non è quello che regalando vi fa sentire con fasto la sua superiorità; non è quello che adulandovi vi fa sentire di non stimarvi accorto a segno di distinguere l’adulazione; non è quello che servilmente approvandovi si degrada presso di voi in guisa che non vi curate de’ suoi suffragi. L’uomo amabile è quello che riconoscete virtuoso e onesto, che conversando con voi sa meritare la vostra stima e calma ogni diffidenza del vostro amor proprio, che dà risalto a quello che dite di buono, che non ha cosa che vi offenda, che in somma lascia al partire voi contento, come dissi, di voi stesso. Dilicato molto è, dira taluno, il rappresentare questo carattere; è vero: egli è molto dilicato e difficile il rappresentarlo, ma più facile è l’esserlo. Sia buono, sia benefico, sradica la malignità e il fiele del tuo cuore, troverai che naturalmente non ti scapperà mai un tratto mordace o avvelenato che ferisca l’amor proprio delle persone colle quali vivi; gli uomini veramente amabili sono i buoni, i tristi per poco ne possono portare la maschera, ma greve è la fatica e cade ben tosto. Oh uomini, se sapeste i vostri veri interessi, se foste veri politici, sareste tutti gente dabbene; se v’è un po’ di bene su questa terra questo è per l’uomo onesto e illuminato, me ne apello all’esame che ciascuno farà di se stesso e delle proprie sensazioni. Dammi un briccone sotto al Trono e vedilo tremare e girar gli occhi sospettosi ad ogni incontro; dammi un buon uomo anche in povero stato e gli leggerai la pace e la serenità sul volto. Oh uomini che avete la sventura di travviare, che odiate la virtù e il merito, che perseguitate quei che al confronto vi fanno rossore, infelici uomini, i virtuosi e gli uomini di merito sono vendicati più che non vorrebbero esserlo da’ vostri istessi interni sentimenti, rimorsi e inquietudini. Dunque in amore guardatevi dalle civette, le quali non meritano l’incomodo che un uomo di cuore le ami mai, e sieno persuasi tutt’i cuori sensibili di una grande e grandissima verità ch’io voglio loro comunicare, ed è questa: che in amore non bisogna mai prefigersi di guarire alcuno da’ suoi vizj abituali; questo è lo scoglio dove inciampa chi ha buon cuore. La Signora Beatrice ha un buon cuore, una bell’anima, peccato ch’ella sia un po’ curiosa de’ fatti altrui e che s’intrighi di cento brighe che alla fine le fanno torto; io l’amo, voglio proccurarmi la sua amicizia, le farò il bene di risanarla da questo difetto, che è una macchia al suo carattere, ella un giorno me ne saprà buon grado ed io avrò il contento d’aver resa una creatura perfetta. No ti dico, lettor caro, no, lascia la Signora Beatrice che s’intrighi pure, che faccia quello che le comoda, non secondare la tua passione tanto più seducente quanto virtuosa, no lettor mio, tu ne sarai innamorato, se ti abbandoni non la correggerai e sarai la vittima de’ suoi cicaleggi e de’ suoi intrichi. La Signora Eleonora è piena d’ingegno, ha una penetrazione e prontezza di spirito sorprendente, ha qualche notizia de’ libri, peccato ch’ella perda tanta parte del giorno in frivole occupazioni per servire alla usanza: io mi sento inclinato per lei, l’amerò, proccurerò d’esserle ben accetto, le farò vedere la vanità di tante chimere; rivolgerò il suo ingegno a oggetti più degni di lei, ella s’acquisterà un nome, un credito, si formerà una donna di vero merito. No, lettore, no bel bello, lascia il pensiero della Signora Eleonora, tu impazzeresti con lei e non ne avresti mai construzione alcuna. Lettor mio, non t’avventurare giammai con queste nobili lusinghe, se no ti troverai in fine mal contento. Se v’è speranza di trovare vera amicizia e vero sentimento, questo non lo troverai che in un cuore virtuoso, lontano dalla vanità, dall’avarizia e dall’inquietudine de’ fatti altrui, in un cuore franco e vero. Non ti porre mai in capo la bella chimera di convertire una cattiva abituazione già radicata in una donna. Se trovate un libro che parli più schietto di questo, vi sfido; queste verità le ho sperimentate io stesso, e siccome io scrivo al mio lettore come ad un amico, così gliele comunico, salvo però sempre il diritto al benigno lettore di imparare a proprio costo, il che è il modo, certo se non il più economico almeno il più efficace, per conoscere le verità, le quali Democrito diceva che stavano in un pozzo, e questo bellissimo detto ha meritato l’onore di attraversare più di venti secoli e venire sino alla nobiltà nostra, alla quale non sono venute le opere di Troglo Pompeo.

Pompeo per altro ha fatta una sporca figura quando Cesare passò il Rubicone, coll’andarsene in Grecia come un poltrone e farsi poi scacciare di là in Egitto, dove finì i suoi giorni per la bontà del Signor Tolomeo, gran tagliatore di teste Romane. Su quel punto di storia io vedo gran disparere fra gli autori, quei nati in un paese Repubblicano dicono roba dell’altro mondo contro Cesare, quei nati sotto a Monarchie dicono un po’ di male di Pompeo e un po’ di bene di Cesare; noi non entreremo in questo profondissimo argomento, e lasceremo ad ognuno la sua opinione. Volete credere che il basilisco uccida collo sguardo? Credetelo. Volete credere che il fulmine sia una pietra e che di queste pietre fulmini se ne danno? Credetelo. Volete credere che si dia un pesciuolino chiamato remora che arresta le navi? Credetelo. Volete credere ai maghi, alle streghe? Credetelo. Volete credere che se andassi avanti di questo trotto avrei de’ guai? Credetelo pure, che questo lo credo anch’io e perciò paro il cavallo. Le opinioni non bisogna toccarle agli uomini, essi le risguardano come il loro patrimonio, essi considerano per lo più la loro esistenza attaccata ad esse; alcuni le attaccano con argomenti e con ragioni, qualche cosa si guadagna ma lentamente; altri fanno loro la guerra col ridicolo, anche con ciò si va acquistando terreno. Altri per provare che hai torto ti pongono prigione, e questo è un modo efficacissimo per convincere l’intelletto, come ognun vede. In altri tempi s’è adoperato qualche raziocinio ancor più fervido per illuminare umanamente, ma al dì d’oggi che i costumi sono ammolliti si accostuma più di rado, con mortificazione di tanta gente di buon cuore che ama i spettacoli pubblici e la giocondità. Ma così va il mondo, in un secolo piace una cosa, nell’altro un’altra, non v’è che questo mio bellissimo libro che sia destinato per piacere a chiunque. E per dir vero chi mai rozzo e illitterato a tale segno, e delle venustà e lepori sì fattamente avverso essere potrebbe, che sorridendo di tratto a tratto non dia a sì nobile e raro lavoro di sincerissima lode e di meritato applauso un onorato tributo? E vaglia il vero (che per lo più non vale molto), e vaglia il vero, riveriti ascoltanti, tondo e’ converria dir che fosse più dell’o di ghiotto, colui che per entro non vi scorgesse con sottilissime e dilicatissime fila tessuta la metodo, per opera della quale menando, per mo’ di dire, il can per l’aja, questo bel libro ti conduce da un vero all’altro pel tortuoso labirinto della vita umana. Ma pensandovi seriamente nessuno potrà negarmi che nella spiegazione dell’origine de’ fonti i fautori dell’acqua piovana non prendano un granchio; ed eccovi come. Essi tengono conto della quantità de’ pollici d’acqua che cade ogni anno in una Provincia, e trovano ch’essa basta a far correre i fiumi, senza considerare che quell’acqua la possono calcolare due, tre e più volte, poichè è una supposizione assai gratuita quella di credere che tutta l’acqua che piove venga dal mare. Ma d’onde, direte voi, vengono i fiumi? Dalle montagne, rispondo io. E nelle montagne chi vi porta l’acqua? Chi ve la porta! Lo sapete voi? Signor no. Nemmeno io. Dunque noi resteremo ignoranti? È meglio essere ignoranti che in errore. Un bambino appena nato è più vicino alla verità che la maggior parte di coloro che passano per gente che sa tutto. Io stimo più il mio cuoco che mi sa fare de’ buoni pudding di quello ch’io stimi quei che dicon di sapere cosa sia la gravità, come si formi il pensiero, come vi siano sensazioni, apreensioni, giudizj, volizioni, volontà e tante e tantissime belle cose sulle quali ho scritta una volta una lunga lettera ad un mio dottissimo corrispondente, che sarà stata intesa certamente da lui ma non già da me. Egli è verissimo per altro ch’io sono pigro assai nello scrivere lettere, vi si perde un tempo infinito e non si conclude mai nulla; se quello che si scrive molte volte su tanti pezzetti di carta che si fanno correre la posta ogni settimana, se si scrivesse di seguito, troveremmo in fine d’un anno fatto un libro, e nella maggior parte de’ commerci di lettere quanti sublimi pensieri non vi si troverebbero! Si vales bene est, una gran novità che sia bene lo star bene! Ah gran bell’esordio! Ego quidem valeo, me ne consolo assai e il cielo lo conservi sempre in buona salute. Nil habeo quod scribam, dunque lascia stare di scrivere. Vale, la riverisco. Questa somiglia assai a un’altra che ora voglio dire. Un galantuomo era Capitano ed era di guardia colla sua Compagnia. La prima notte che gli toccò quest’uffizio in tempo di pace, il Signor Capitano cena ottimamente, poi si distende sopra un soffà e s’addormenta. «Her Hauptman», Signor Capitano, grida un Caporale. «Vas ist es neis?» risponde il Capitano, che v’è di nuovo? «Non v’è novità alcuna», risponde il Caporale. «Ebbene, va per i fatti tuoi.» Il Capitano ripiglia sonno, e di là ad un’ora un altro Caporale «Signor Capitano!» «Che v’è di nuovo?» «Non v’è nulla di nuovo». In somma, tutta la notte i Caporali vengono a svegliare il Capitano per dirvi che non v’è occasione di svegliarlo. Questa pare una stravaganza eppure non la è, poichè se altrimenti si facesse dormirebbe il Capitano, dormirebbe il Tenente, l’Alfiere, il Sergente, il Caporale, il Capofila, il Soldato, il Tamburino, e se si dormisse nel militare non si potrebbe dormire nel politico, come ognuno facilmente può scorgere, e tanti valorosi eroi che si accontentano della vil moneta di sei soldi al giorno, se si lasciassero dormire una notte a lor modo, forse pretenderebbero di essere pagati di più il giorno seguente, perchè in questo mondo una cosa chiama l’altra. E per provarvelo con sodi fondamenti vi debbo raccontare un fatto che nessuno ha mai scritto forse per riguardi politici, ma che io che non vi bado alla politica stamperò per la prima volta, accada che se ne vuole accadere. Grandi cose si sono dette e stampate sulla origine del celebre Tamas Colikan e molti romanzi si sono venduti col titolo della sua vita; chi lo fa Persiano, chi Tartaro, chi Greco. Tutte freddure. Il vero nome di questo illustre conquistatore della Persia è Tommaso Colica, nato in Sicilia in una terra vicina a Palermo. Tommaso aveva un fratello minore che si chiamava Nicola, erano tutti due povera gente. Tommaso faceva il barbiere in Palermo, e si dice che avesse una mano leggerissima ed un dono del cielo singolare per applicare endemi, volgarmente clisteri. Il povero Nicola era più ignorante e per guadagnarsi il pane stava colla livrea a servire la moglie d’un Avvocato celebre del paese. Ora, questa moglie dell’Avvocato era donna d’un umore capriccioso assai, amava gli ucelli e singolarmente gli ussignoli, e il guardiano di queste bestioline era Nicola, al quale la Signora aveva raccomandato e raccomandava la custodia de’ suoi cari ussignoli. Era già più d’un anno che Nicoluccio faceva bene il suo ufficio, s’era affezionato alla sua padrona con buon cuore, nè mai più pensava di dovere abbandonar quella casa. Quand’ecco un giorno accidit in puncto quod non contingit in anno: per distrazione Nicola Colica lascia socchiuso l’uscio della stanza degli ussignoli della moglie dell’Avvocato celebre, un gatto mariuolo v’entra; i gatti hanno come sappiamo una perfida morale, salta di qua, salta di là, cadono le gabbie, strillano gli uccelli, sbrana uno, squarcia l’altro, torna la Signora a casa, bastona Nicola, lo scaccia per sempre, Nicola si vuol gettar nell’acqua e affogarsi, Nicola è disperato, si consiglia con Tommaso, il fratello non ha di che soccorrerlo, Nicola si ricorda d’un buon Religioso Agostiniano che aveva conosciuto poichè veniva frequentemente dalla moglie dell’Avvocato celebre, va dal Religioso, prende il partito di farsi Frate Laico Agostiniano, lascia il nome di Nicola e prende quello di Fra Romualdo. Dopo quattro anni ch’era Frate Professo, siccome veramente non aveva mai avuto altra spinta a farsi frate che la disperazione, così impazzì, gli parve d’essere divenuto un profeta; cominciò a spacciare una folla di sciocchezze dicendo di essere Profeta e impeccabile, l’inquisizione lo seppe, lo pose prigione, lo fece esaminare dai medici, i quali giudicandolo dal polso dissero che non era pazzo sebbene parlasse per anni senza senso comune; alle corte, fu abbrucciato vivo insieme con Suor Geltruda, altra pazza, e ciò avenne in Palermo l’anno di grazia 1724. Il povero Tommaso Colica non potè più resistere alla vergogna di stare in Palermo, nè in que’ contorni, dove s’ha ribrezzo sino al terzo grado di un parente morto arrosto per la pietà di que’ divoti. Tommaso andossene in Turchia, di là passò nella Giorgia, si pose a servire poi da Caporale un Principe della Migrelia; nel Caucaso molti v’erano malcontenti, per una serie d’avenimenti divenne loro capo, invase la Persia e vi si stabilì. Ecco dunque come un gatto che entrò per una porta socchiusa in Palermo in casa della moglie d’un Avvocato celebre produsse la detronazione del Sofy di Persia, la rivoluzione di quell’Imperio e per consenso un moto in tutta l’Asia, tanto è vero che, come dissi, una cosa chiama l’altra, e perciò i legali dicono res clamat ad dominum, sebbene nessuno abbia mai intesi i clamori delle cose che chiamano i loro padroni. Che teste da parrucca che sono mai que’ legali! Che diamine di metafora, che le cose chiamino i padroni! Non sapete, Signori dottori miei, che v’erano delle cose prima che vi fossero dei padroni? E allora presso chi esclamavano le cose? Le cose non chiamano nessuno, le cose fanno il fatto loro costantemente, si perfezionano, si corrompono, pesano, s’attraggono, forse fanno cento altre funzioni ignote a me e notissime ai Dottori, i quali sanno tutto fuori che dubitar di non sapere, le cose sono cose, e gli uomini si sono voluto dividere le cose fra di loro, e sono essi che gridano alle cose non le cose a loro, dunque mutate, o legali, il vostro bel proverbio e scrivete in vece domini clamant ad res. Ma credi tu, lettor mio, che muteranno? Respondeo quod non. I legali o non leggeranno questo mio bel libro, o l’intenderanno tutto al rovescio di quello ch’io l’ho inteso, e res clamabit ad dominum almeno per due secoli ancora, sintanto che nasca il giorno in cui si scriva per l’umanità un Codice non accozzato dall’assurdo ma architettato da un giureperito filosofo, tollerante della fatica, protetto dalla pubblica autorità, costante fralle dicerie, e voglioso più che della gloria attuale di far del bene, combinazione come ognun vede non molto facile ad accadere.

Quest’è un imbroglio, disse Attilio Regolo, quest’è un imbroglio, Signor mio, terribilissimo, e del quale ne ho parlato tante e tante volte, Signor mio, che omai sono stanco di parlarne, ed è, Signor mio, che gli uomini passano, signor mio, tutta la loro vita a prepararsi per vivere, e poi, signor mio, viene la morte e poffete, ecco, signor mio, finito il giuoco. Prepararsi a vivere sta bene, ma, signor mio, dopo la prefazione bisogna poi, signor mio, vivere, e così, signor mio, chi ammassa sempre quattrini per i bisogni futuri e si priva, signor mio, per tutta la sua vita de’ bisogni presenti fa, signor mio, una corbelleria, perchè viene il beccamorto e, signor mio, ti porta via, e viene l’erede e, signor mio, s’impadronisce dello scrigno e ride, signor mio, ed ha ragione. Al che rispos’io devotamente che se il mio erede vuol ridere gli perdono, perchè, affè di dieci, i quattrini vanno e vengono ed io, affè di dieci, non sono avaro. Allora Attilio Regolo, benissimo, soggiunse, nè per te il dico; ma lasciami, Signor mio, sfogare liberamente su questo punto perchè ne ho bisogno. E quanti ve ne sono, signor mio, che tengono i loro poveri figli in Collegio a languire sotto il dispotismo di chi è legislatore, giudice, esecutore inapellabile ad un tratto e, signor mio, lasciano un povero giovine sino ai venti, ventuno e talvolta, signor mio, ai ventidue anni a prepararsi, signor mio, a vivere? Questa è una baronata, Signor mio, perchè se la vita dell’uomo è per adequato trentatre anni, impiegandone ventidue per imparare a vivere restano soli undici anni di vita e, Signor mio, non siamo più ai tempi ne’ quali si vivevano sei, sette, otto e più secoli. E tanti, Signor mio… Io che vidi che l’amico Attilio non era per terminarla sì tosto, presi l’espediente d’addormentarmi e così fu, onde non seppi più cosa si abbia detto, so che fra il sonno vidi la mia gentile Fillide tutta in arnese di semplice pastorella coronata di rose, la quale volgendomi uno sguardo tenero e lusinghiero mi disse così:

Le nottole ossia i pipistrelli sono animali terribili, se taluno per malora ti si viene a ficcar sul capo ti si attacca ed insinua per modo che puoi bensì tagliarlo in mille minutissimi pezzi, ma distaccartelo signor no, a meno che non ti rasi affatto e non ti formi una chierca monastica perfettissima. Davvero! Sì signore. Ma chi ve lo ha detto? Me lo ha detto un filosofo profondo, un pensatore di mestiero, un sagacissimo assaggiatore di verità che lo crede cosa provata, provatissima. Padron mio, questo vostro filosofo profondo, pensatore matricolato e assaggiatore della zecca delle verità l’ho per sospetto assai, questa è una bestialità che nemmeno un bambolo la crederebbe. Le nottole non sono di vischio, de’ capi ve ne sono, delle nottole ve ne sono, se questo stranissimo fenomeno fosse in natura sarebbe notissimo. Ma perchè volete voi ch’io giuri sulla parola di questo vostro dicentesi filosofo, quai verità ha egli scoperte perchè io gli creda? Eccovele e stupite. Egli ha scoperto che è cosa buona il ricevere tutti gli atti d’amicizia e il non farne mai quando costino il minimo sacrificio. Egli ha scoperto che è bene eccitare la compassione degli amici quando s’è nell’avversità, e trattarli con protezione quando s’è nella fortuna. Egli ha scoperto che quando s’è giunto all’altezza è bene dare un calcio alla scala e rovesciarla. Bravo! Bravissimo! Mi rallegro con sì belle scoperte! Il vostro grand’uomo perderà gli amici, si troverà debole, pusillanime ed isolato; crederà d’essere a cavallo e si troverà un bastone fralle gambe; passerà la vita fra i rimorsi, l’imbecillità, l’avvilimento e le contraddizioni. Il vostro non è filosofo, ma commediante in filosofia, è un giuocatore di bussolotti degno di commiserazione agli occhi di chi pensa, e perciò le nottole se vengono sul capo anche partono dal capo, lasciandovi quello che v’hanno trovato, che che ne pensi il vostro professore di ragione. Io vorrei vedere una città in cui ciascuno sinceramente fuori della porta di sua casa ponesse un cartello che indicasse le pretensioni di chi vi abita. Per esempio se ora troviamo Qui s’insegna leggere, scrivere e far conti ovvero Qui abita il celebre cavadenti Sparisci, allora si dovesse vedere Qui sta di casa il Sig.r Tale che è il più bel giovane della città, di questi più bei giovani almeno dugento ne troveressimo. Qui alloggia il Sig.r Tale che conosce la verità, di questi almeno mille ve ne sarebbero e nemmeno uno mi saprebbe rispondere cosa è verità. Qui sta un uomo di senno, sarà un timido metodista incapace di ergersi un dito dal suolo, che striscia servilmente sulle pedate altrui. Qui trovasi un filosofo, sarà un infelice roso dall’ambizione che, trovandosi dimenticato dagli uomini, vorrebbe vendicarsene col persuadere che li disprezza. Qui alberga un uomo che sa vivere, entra e troverai un camaleonte, un proteo che prende il colore dell’oggetto che ha seco, che s’investe della sua forma, declama contro il secolo se parla al vecchio, pone in ridicolo le scienze se parla ad un ignorante che ha ingegno, entra a maledire l’uomo di merito oscuro se parla coll’impostore ciarlattano di scienze, deride la frivolità degli uomini di mondo col solitario, deride la malinconia del solitario cogli uomini di mondo. Termina quest’uomo che sa vivere il corso della versatile sua carriera disprezzando se stesso, disprezzato da chiunque ha sentimento, dopo aver affaticato e sacrificato assai nulla gli resta che una avvilita vecchiezza e un vano desiderio di raggiungere la felicità, dietro l’ombra di cui ansante e disinvolto ha potuto correre per tutta la vita. Qui alberga un uomo che è erudito. Entra ed ascolterai tre o quattro mila nomi d’autori, cinque o sei mila storielle col giorno ed anno, se ragioni un istante, se un istante ti mostri sensibile sei perduto, vattene fuori di questa casa. Qui trovasi un letterato che fa libri. Entra pure, troverai primieramente un panegirista di se medesimo, egli ti parlerà di tutte le sue opere, dell’edizioni diverse che se ne sono fatte, degli applausi avuti, egli parlerà con disprezzo degli altri uomini di lettere contemporanei, loderà quei che non sono più in vita, a misura che sarà più scaltro tutto ciò sarà ricoperto d’una tinta di urbanità e bontà di carattere. Qui abita un uomo di singolare pietà… Maldicenza! Maldicenza! Così esclamò a questo passo un certo tale che s’era sin allora divertito meco della nostra specie, godendo della satira che aveva già incominciata; ed io mi tacqui, ben persuaso essendo che cominciava a passeggiare sulle ceneri sovraposte alle bragge ardenti. Io sono uomo pacifico naturalmente, vedo le cose come sono, ma le dico poi sino ad un certo segno, mi fido d’alcun lettore cortese che m’intenderà anche a mezza voce, e mi diffido di tutti quanti coloro che hanno bisogno ch’io loro parli chiaro. Le cose che fanno male a me e bene a nessuno non le faccio mai, e se questa semplicissima massima fosse generalmente adottata, la metà dei mali della società sarebbe tolta, e l’altra metà dei mali si toglierebbe se gli uomini generalmente accettassero questo semplicissimo assioma: non conviene far male altrui senza un reale utile proprio. Signori sì, non vi stupite, pensatevi e vedrete che è un caso metafisico quello che una mala azione renda felice veramente chi la commette; lo può rendere apparentemente per breve durata, ma il rimorso interno, il disprezzo di noi stessi, la disistima altrui, l’alienazione degli uomini dabbene, la contraddizione perpetua che abbiamo in noi sono mali incompensabili, i quali vanno sempre in groppa del male che facciamo agli altri. La buona morale potrebbe dedursi dai semplicissimi principj del nostro solo interesse ben inteso ch’ei sia, ed io vedrei volontieri un catechismo fatto su questo piano da darsi in mano ai fanciulli, e lo vorrei affatto indipendente dalla religione. Oh dagli, dagli, eretico, bestemmiatore, camiscia inzolferata, pece greca, zolfanelli, paglia, legna, fuoco, fuoco! Bel bello, anima mia, moderate la eccessiva carità fraterna, lasciatemi, non mi fate arrostire piamente, no, ascoltatemi e poi direte il parer vostro. È meglio un uomo che manchi alla religione ed alla onestà umana, ovvero uno che mancando alla religione stia però fedele ai doveri della onestà umana? È meglio ossia men male il secondo. Se la morale ossia i precetti della onestà non li fondiamo che sulla religione, cosa succede? Succede che tosto che l’uomo s’induce a peccare contro la legge rivelata, con somma facilità pecca indistintamente contro i doveri della morale, e con tal nome intendo i doveri della onestà umana; che se la morale avrà una base da sè fondata sul nostro interesse ben inteso, se l’uomo avrà ben conosciuto che per interesse proprio non gli conviene dipartirsi dalle leggi morali, allora quand’anche abbia la sventura di offendere la religione rispetterà però la morale e conseguentemente sarà men cattivo come uomo. Ora ditemi un po’, Signor mio benedetto che volevate farmi arrosto, la maggior parte degli uomini non è egli vero che s’allontanano dai doveri della religione? Signor sì, la credono, ma vi mancano. Che un uomo mangi di grasso il venerdì, peggio per lui, a me non fa alcun male; ma che un uomo mi sia ingrato, sia insensibile ai miei mali, mi amareggi co’ suoi discorsi, mi umigli col suo fasto, mi annerisca presso gli altri uomini ec. ec., questo mi scotta, padron mio; ora, è interesse d’ognuno il fare che quand’anche un uomo abbia dei peccati, non perciò diventi un briccone. Se vi fossero tanti birbanti quanti peccatori la cosa anderebbe troppo male e sarebbe la società distrutta. Ergo, fissa la morale, come diceva, sopra una base doppia, una sia la religione, l’altra l’interesse. Lasciamo ai ministri del Santuario a far il primo edificio nelle menti degli uomini, il filosofo faccia l’altro, che farà un beneficio insigne al genere umano. Volete vedere di più se io ho ragione? Osservate che nella minuta plebe i peccati sono sempre accompagnati da qualche bricconata. Se il tuo staffiere è sallace e si abbandona al vizio, presto ti ruberà; negli uomini che hanno ricevuta educazione più nobile ciò non accade; tu trovi molti peccatori onoratissimi altronde, perchè? Perchè nella nobile educazione si è piantata la morale anche sulla base della parola onore, la quale comunque sia regge da sè. Piantiamola in vece sull’interesse, cosa comune ad ogni uomo, e vedrete se sarà stabile, e se avrete maggior numero di gente onesta. Qui mille cose mi resterebbero a dire, ma ragionare va bene per un poco, un bel giuoco annoja, onde torniamo al filo del nostro discorso.

Berenice aveva la chioma, come ognuno sa; ella fece voto agli Dei di tagliarsela se il marito ritornava sano dalla guerra. I Dei allora si dilettavano di far parrucche, e altronde in que’ tempi i Dei non eran punto generosi, volevan sempre il da ut dem ovvero il fac ut faciam. Gl’interpreti delle antichità vogliono che fosse di fresco sposata Madama Berenice quando fece un tal voto, lasciamo la verità a suo luogo; fatto sta che la chioma fu tagliata ed ora s’è trasformata in sei milioni di stelle, delle quali la minima è cinque milioni di volte più grande del globo terraqueo. Che zazzera sterminata! Ma così è, quando il genere umano si prende l’incomodo d’inventare fa le cose con magnificenza, come splendidamente anch’io stendo questo immortale mio libro che mi costa fatiche terribili. Sono i travagli d’Ercole, lettor mio cortese, questi ch’io superai per te, sai quanto pochi scrittori ponghino in carta le idee veramente che loro sono proprie? Pochissimi, rarissimi sono, ben mio. Un tale che sarà un pusillanime, un imbecille primæ magnitutidinis ti scrive un trattato De vigore animi, e con uno stile robustissimo, audacissimo, impetuosissimo pare che sia alla testa d’un esercito e s’avventi ad una voragine di fuoco; un sorcio, frattanto che così scriveva l’autore, fe’ digrignare una scranna della stanza, e l’autore impallidì e ansante rifugiossi altrove. Un altro autore ti fa un libro sulla beneficenza, sulla virtù sociale, ti cadono le lagrime al leggerlo, ti pare impossibile il resistere alla vista della miseria altrui senza sollevarla; sappi, ben mio, che quell’autore è l’uomo il più duro e insensibile che si dia al mondo, sappi che non gli caderebbe un bajocco di mano quand’anche vedesse un uomo cader per terra dalla fame. In conclusione io non dirò già che l’uomo sia perfettamente diverso dall’autore in ogni caso, signor no, non dico questo; dico bensì che molti uomini quando prendono la penna in mano per fare un libro s’investono d’un carattere imprestato, come appunto se dovessero rappresentare una parte sul teatro, e che talvolta questo carattere è opposto al loro originario, talvolta è diverso, e più o meno quasi sempre è abbellito; l’autore va sempre alla pettiniera e si liscia quanto più può prima di mostrarsi al lettore. Io perciò ti dico d’aver superati i travagli d’Ercole perchè ho fatto tacere la mia vanità, non mi sono curato di nulla, ho buonamente scritte le idee mie, propriamente mie, nello stile mio propriamente mio, e mi sono lasciato vedere spettinato e in disordine quale sono in rerum natura.

In Francia e in Inghilterra vi sono de’ colleghi miei, in Italia sono io il primo, primissimo che fa un libro senza studio… ma no, conosco degli altri che hanno fatto libri senza fatica alcuna; per esempio ne conosco uno che ha fatto un libro pieno d’algebra senza sapere nulla affatto d’algebra, ha scritte delle righe e delle pagine con molti A . a + b2 – x = y, ha posti molti √, alfabetti greci, Ebraici, altre cifre e cose strane, e tante e tante di queste figure vi ha scritte che ne è risultato un libro stampato. Libro che nessuno ha mai inteso, nè intenderà mai. Mo cancherazz cousta qussi qui l’è mo couriousa pour assà pour assà, la ’m par na babalana grossa pour assà pour assà! Eppure la cosa è precisamente ne’ termini ne’ quali ho l’onore d’esporla all’Eccellenza Vostra, e il libro veramente è stampato e pubblicato; non se ne parla perchè pochi sono nel caso di conoscere se abbia senso o non l’abbia, e quanti, oh quanti colleghi di questo eroico autore l’hanno scappata perchè hanno scritto latino! Conosco una dissertazione sulla città di Novara che comincia così: Novaria Asiaticum certe nomen est, sive ab Ægipto sive aliunde devenerit. Se in buon Italiano avesse scritto colui che Novara è una parola Asiatica sicuramente, Novara! Novara! Se in Italiano avesse cominciato a riporre l’Egitto nell’Asia! Oh povero autore! Egli ha avuto giudizio, ha scritto latino e nessuno ne fa caso. Ma io, Signori miei, io me ne vengo col mio bravo libro scritto in lingua umana, intelligibile, piana, e se ne dico delle corbellerie la nobiltà loro m’intenderà e peggio per me. Ma chi sa che anzi non sia meglio per me? Molti, credo io, detestano gli uomini di un merito eminente perchè il merito di essi umilia il loro amor proprio. Molti detestano un autore e vorrebbero pure aver forze per trovarlo in errore, per ciò appunto che in leggendolo hanno dovuto trovarsi inferiori nel paragone. Io ne ho conosciuti di molti che erano mossi da questi principj, forse senza che nemmeno se ne avvedessero. Un uomo che scrive peggio di me è un adulatore della mia vanità, un uomo che scrive come io so scrivere è un uomo che lusinga pure il mio amor proprio, perchè mostra che quello ch’io so fare è degno delle attenzioni del pubblico; anzi, molti celebrano con mille elogi le opere di questo genere, cioè le mediocri, quelle che essi medesimi saprebbero fare, perchè è loro interesse che il pubblico onori e applauda i talenti che hanno ancora essi. Ma i libri scritti con viste luminose, vaste e nuove, se qualche circostanza fortunata non li sostiene, o tardano ad essere conosciuti, o soffrono persecuzioni, guerre, critiche le più accanite del mondo. Un autore che colla superiorità sua umigli il lettore, per poco che il lettore abbia pretensione d’essere bello spirito, se lo rende nemico. È in natura questo sciagurato sentimento d’invidia e d’odio; poche sono le anime felici che vi contrapponghino un altro più nobile sentimento vincitore, ed è la coscienza della superiorità propria nell’avere il coraggio non volgare di onorare il merito anche a costo di nostro impicolimento. Allora noi ricompriamo il discapito dell’ingegno con altrettanti vantaggi di magnanimità e d’indole generosa, contratto in cui certamente non si perde. Ma dati questi principj senza fine, il benigno lettore s’annojerebbe, laonde, rivolgendo la sublimità dell’eloquenza nostra ad altro oggetto, diremo qualche cosa anche de’ poveri Gesuiti.

Ma puoffare il mondo rio, dirà forse il P. Busembaum, puoffare il mondo rio, maldicenza sopra maldicenza, iniquità sopra inquità, questo bel libro è il libro del vizio, il libro in cui o seriamente o motteggiando si taglia a dritta e a sinistra, si tinge, si scotta tutto, è una vera maldicenza stampata. Rispondo al molto Reverendo Padre Busembaum. Cosa è virtù? La virtù, non parlo nè della fede, nè della speranza, nè della carità, questi sono atti di religione; la virtù di tutt’i secoli, di tutte le nazioni, di tutte le religioni è un atto utile alla società, questo è stato sì ben provato da un uomo che non posso citare perchè son prudente, che è inutile il ripeterlo e farne comprar di nuovo ai miei benigni lettori la dimostrazione in questo libro. Hoc posito, hisce præmissis, dica il molto Reverendo Padre Busembaum se sia un atto utile alla società il dir bene di tutti, ovvero il non dire mai male di nessuno. Questo è un atto utile a tutt’i bricconi, i quali vengono pareggiati in tal guisa agli uomini onesti, ed è un atto dannoso alla società, a cui giova che il vizio venga compresso e raffrenato con tutt’i modi possibili, e la bontà protetta, distinta e onorata. Se un uomo non dice mai male di nessuno o di nessuna azione, se leggermente conserva la dolcezza in ogni discorso, dì pure, Reverendo mio Busembaum, che quell’uomo sente poco, conseguentemente val poco. La maldicenza è un vizio quando è suggerita da motivi personali, da spirito di privata vendetta, da gelosia del merito e da sì fatti bassi principj. Ma quando tu dici male di chi fa male al pubblico, tu difendi la causa del genere umano; e quanto più amore hai per l’umanità, tanto più devi commoverti contro chi l’offende, e scagliare con vigorosa e libera eloquenza i dardi atterratori de’ malvaggi. Un cuore virtuoso deve per organizazione dir male di chi fa torto agli altri, ed essere animato contro il vizio. Le lodi di quello saranno un vero balsamo per gli uomini che le meriteranno; laddove un melenso lodatore di tutto, un cauto e circospetto parlatore che non s’avventura mai ai sentimenti della natura, non può mai far piacere colle sue pulite e artefatte lodi. Dico che la satira in somma è vizio quando rivolge l’acuta sua punta contro la virtù, ma sintanto che inquieta il vizio è un bene e il Padre molto Reverendo Busembaum ha torto. In fatti

Quando spunta in Ciel l’Aurora
E s’infiora = il vago crine
Rende alfine = col suo viso

Il bel riso = al Cielo e al mar.

Il bel viso del molto Reverendo Padre Busembaum era composto di squisitissimo verderame, spruzzato d’un poccolino di giallo santo, parente prossimo del cardo santo, e quando faceva un sorrisino il Padre Busembaum lasciava travvedere le maraviglie della sua bocca, due o tre denti e un gran pezzone di tabacco da masticare che vezzosamente passeggiava da dritta a manca sotto le scarnate sue guancie, e così stava allegramente il Padre Busembaum, gustando il sublimissimo piacere di rendere felici gli uomini insegnando loro quando si debba adoperare un dito e come e sin dove, notizie tutte importantissime, come ognun vede, e da trattarsi in tomi in foglio; perchè non fanno poi tutti gli scrittori come faccio io, io sono quello che sono e mi vedete, lettor mio, precisamente come sono, e mi vedreste di più se tutt’i lettori fossero come me scrittore, ma chi può prevedere in quai mani capiterà mai questa mia opera sublime? Se ti capita per lettore un qualche A. F. D., stai fresco, povero libro! E chi è cotesto costui A. F. D.? Chi è! È un uomo che mi ha scritto contro un libraccio enorme di quattrocento e più pagine; perchè ha creduto che un lunario, opera illustre della mia penna, contenesse cose terribili contro di lui. Perchè ha creduto di leggere turbanti, Geltrude, osservazioni parietarie e simili parole che non vi sono, e dopo due anni di dimenticanza è venuto a pubblicare un tomaccio spaventoso. Ma questo non è tutto. Il meglio si è che trovò un partito di gente che lo predicava per un libro scritto bene, e con giudizio. Onde, ben mio, se mai questo povero mio libro va nelle mani dei Busembaum, o dei A. F. D., o dei panegiristi di essi, o di qualche gazettiere letterario, o di qualche corrispondente milanese del Giornale di Bouillon, o di sì fatta gente, capperi! Spunta la vaga rosa e co’ profumi deliziosi che esala invita i molli zefiretti a scherzarle d’intorno, e Flora con uno sguardo di compiacenza la rimira quale regina de’ fiori e il più nobile ornamento del suo regno.

[SECONDA STESURA]

Lagrimevole oltremodo e miseranda condizione dell’umana prevaricata natura, e strabocchevole sorgente di crepacuori ed angustie crudelissima, è di presente, e come la storia de’ trasandati tempi pur troppo sovente ci ricorda alla mente, si fu; anzi per l’interminabile corso de’ secoli a ragion dobbiam dire che sia per essere, avvegnadio che l’avenire al passato somigli, come di certo sappiamo, non tanto per ragione quanto per costante sperienza, quella voglia inserita intimamente in ogni vivente di conservare se stesso più che possibil sia dai legami disciolto e in libertà, se non naturale, che troppo funesta talvolta riesce per l’abuso che i nostri simili di essa fanno o far possono sopra di noi degenerando in licenza ed offesa, almeno civile; poichè da essa tante luttuosissime stragi, sangue e rovine ti vengon fuori dal centro del cuore, spiccando le profonde inesbarbicabili radici sino alla pianta de’ piedi, i quali nelle donne Chinesi sono più piccoli che il piede Reale di Parigi, se pure è vero che qualche Re francese abbia avuto quella poca bagatella di piede. Onde da tanto tempo, Lettor mio benedetto, si stanno scrivendo e stampando dei libri con moltissima fatica, che m’è venuto voglia di scrivere un libro senza fatica, e lasciare buonamente che la natura faccia quello che vuole e la mano dritta corra pure, scrivendo quello che passa per la mia nobilissima fantasia, senza studio alcuno. Poichè quando l’autore scrive, cancella, sospende, riflette, si pente, torna da capo, s’annoja per necessità nel ripulire, meditare, organizare l’opera sua; quindi, annojato qual è il di lui stile, necessitate consequenti porta la noja nel cuore del benigno lettore; un annojato annoja, regola generalissima, quindi (ed ecco un secondo quindi) il lettore non bada più al libro, e te lo getta da un canto, e tutto il profitto che l’autore si aspettava di difondere negli animi altrui, nuove idee o nuovi sentimenti, è svanito per l’effetto infallibile della noja. Se io dunque annojassi me stesso, regalerei a voi questa proficua mercanzia e non leggereste, Lettor mio, questo libro. Oltre di che gli autori, studiando, meditando, limando le opere loro, si lisciano, fanno le loro toilette e ti si presentano mascherati e ingentiliti talmente che umiliano l’amor proprio del lettore. Ora, se il lettore fa mai la terribile riflessione di credere che l’Autore dell’opera non stimerebbe lui se personalmente lo conoscesse; s’ei vede nel suo autore un certo tuono artefatto, concertato o imponente, si difida, non diventa amico dell’autore, e resta nella peggiore disposizione di tutte di ricevere le impressioni che gli vuol dare. Onde io voglio essere amico del mio Lettore, voglio che mi veda quale sono: scrivo dunque la storia del Sig.r Marco Porzio Catone, e vi troverà il benigno Lettore erudizione quanta ne vuole: questa è il mio studio favorito, l’erudizione, e sebbene colla scorta di essa erudizione abbiamo veduta fare onorata comparsa le più sdrucite gramaglie, o cenci come vogliam dire, quindi perciò, esponendo la gravezza dell’importantissimo soggetto su cui versa la questione odierna, siamo sempre mai comendevoli al cospetto del riverito nostro e benevolo Leggitore, e speriamo che vorrà farci la gloria di leggere queste poche bagatelle che abbiamo avuto l’onore di scrivere, il che se non accadesse resteremmo capponi terribilmente.

 

Hanno avuto i lor partigiani il Poema N., la Storia N., il Romanzo N., il Trattato N., la Frusta N. Questo mio libro è meglio certamente delle opere citate. Ergo anch’io avrò i miei partigiani. Ma che dirà la gente di questo libro? Che dirà! Ecco cosa dirà.

Che razza di libro è mai questo, senza metodo e senza senso! Son pensieri sopra nessun soggetto, velut ægri somnia. Che pazzia!… Eh eh, per altro di tratto a tratto vi si vede qualche lampo… Oh è un paz
zo da catena!… V’è del buon umore, e tanto tanto può far pensare… Per me, v’assicuro che mi fa venire il capogiro… Forse l’autore lo ha fatto per suo maggior comodo così… È un libro che non ha nè capo nè coda… Mi piace però che la virtù ed il buon costume sono sempre rispettate in mezzo alle buffonerie… È una satira continua, una maldicenza universale… No, mi pare anzi che vi sia della giocondità e del buon cuore… È un matto… Di dove è l’autore? È Veneziano… No è un Genovese… Mi è stato assicurato che il libro è fatto in Bologna… Vi sono tanti francesismi nello stile… Eppure, con tutto ciò, uomini e donne, giovani e vecchj, compratori e leggitori di libri quanti siete, questo mio libro voglio e comando che lo compriate, che lo leggiate e che dopo un anno che sia comparso lo troviate un libro bello e buono. E questo bel libro voglio che vada nelle biblioteche, e che dagli scaffali dell’ordine superiore dove sarà riposto rimiri in giù tanti gravi uomini che svolgeranno consulenti, repetenti e trattatisti e, se vuole, anche sorrida un pocolino in onore e gloria de’ loro studj; e voglio che questo bel libro vada sulle pettiniere delle belle e dilicate Dame, e sventolino sopra di lui i sospiri de’ disiosi amanti, e da quel luogo impolverato, tacito e discreto si proccuri la buona grazia della cameriera e sopporti in pace gli sgarbati accoglimenti d’uno svogliato e caustico marito, che lo chiamerà libercolo o perditempo; e voglio che i giovani lo portino al passeggio in tasca e che se lo tengan caro; e voglio che i pedanti non lo intendino e ne dicano ogni male; e voglio, per fine, che qualche filosofo gli dia pacifico e onorato asilo fra’ suoi pochi libri e si diverta meco qualche quarto d’ora con un riso innocente sulle pazzie degli uomini, fra quali si comprendono e le vostre e le mie. Sebbene non è pazzia il passar bene il tempo, e tale lo passo scrivendo; potrebbe esserlo forse lo stampare quello che ho scritto; ma perchè? Per deciderlo bisogna vedere se io non farò pensare nessuno, e se non avrò fatto passar bene il tempo a nessuno, il che non sarà. In ogni caso, siccome nessuno mi ha obbligato a scrivere, così nemmeno io obbligo nessuno a leggere, e la pazzia sarà di chi seguiterà a leggere se non vi trova piacere; del che vi avverto sul bel principio, acciocchè nessuno m’incolpi mai di averlo tradito. Son galantuomo sempre, anche quando faccio la figura di autore, il che non vuol dir poco.

Il breve corso di vita che è dato al uomo di passare su questa terra è avvelenato da una serie infinita di mali: febbre, podagra, mal di capo, colica, pietra, astma, medici, seccatori, legulei, oh cielo, che robba! Un po’ di buon umore è una consolazione e un balsamo che
va al cuore, e ne parla di ciò pur bene il gran Menocchio al capo ottantesimo nono Lege si unquam, paragrafo Gallinarum et Pavonum quoque, Digestis, de frigidis et male!ciatis. Dunque vedete, mio caro Lettore, che anch’io so di legge, ed ho fondamenti sodi e duri come
un macigno. Un giorno un certo Signor Antonio chiamò ad un certo Sig.r Baldassarre: cosa è la giurisprudenza? Il Sig.r Baldassarre da bravo, paffete, gli diede la risposta: La giurisprudenza è l’arte del buono 
e dell’equo, la scienza del giusto e dell’ingiusto. Il Signor Antonio, che 
era un uomo curioso assai, nego, disse, nego iterum, semper nego. La giurisprudenza è l’arte di trovar ragioni pro e contro in ogni caso, e conseguentemente di rendere inefficace ogni legge. Lettor mio, se mai avete avuta in vita vostra la bella sorte di aver ragione, litigare, annojarvi, spendere e perdere poi la lite, sarete voi per il Sig.r Antonio ovvero per 
il Sig.r Baldassarre? Se mai avessi a difendere la giurisprudenza quale ella è per l’Italia dal tempo del Sig.r Dottore Irnerio sino a dì nostri,
 io invocherei primieramente l’ajuto di tutti quei valentissimi uomini, i quali hanno la nobile generosità di abdicare la fatica mecanica di ragionare da loro medesimi sugli oggetti, e rispettosamente ripetono le opinioni altrui, e poi verrei a convincere in questa guisa. Suppongasi una città in cui tranquillamente ognuno coltivi e posseda il suo, fagli piovere un nembo di curiali sopra e vedrai tutt’i cittadini animarsi, accendersi, disputare, moversi lite l’un l’altro; ognuno parlerà di fedecommesso, di linea maschile, di maschio della femmina, di Fulgoso, di Malombre, di Oldrado e di tanti eruditissimi e celeberrimi autori che si vendono a tre paoli per tomo in foglio; ciò posto, del che nessuno dubiterà, dico io: più gli uomini sono in attività e moto e più è la vita e il vigore del corpo politico. Ergo, la sana politica vuole che si proteggano i curiali, i quali allontanano il mortale letargo dell’ozio dalla Nazione, e l’ozio è il padre dei vizj; anzi vuole la politica che si multiplichino, poichè il numero de’ sudditi è la vera misura della forza politica di uno Stato.

Io sono sempre stato del riverente sentimento che sia cosa importantissima pel uomo di testa di proccurarsi i suffragj della moltitudine, e la ragione si è perchè costano pocchissimo a ottenersi e fruttano ubertosissimamente ottenuti che siano. E vaglia il vero, interniamoci ben bene nella questione. Peto abs te: cosa fa mai bisogno per ottenere questi suffragj? Basta con ogni gesto, con ogni parola, con ogni azione mostrarti persuaso del merito singolare delle persone colle quali vivi; basta non lasciar mai travvedere di avere più testa degli altri uomini; basta rinunciare al libero sentimento di virtuosa ingenuità; basta far credere che trovi dello spirito dove vi è pazzia, della prudenza dove vi è imbecillità, della sapienza dove vi è pedantismo, della grazia dove vi è una sconcia afettazione, della eloquenza dove vi è un mare di paro
le, della dignità dove vi è una malanconica e ridicola gravità. Queste poche minuzie bastano, purchè si osservino a tempo, per guadagnare 
i suffragj del pubblico. Allora passi per uomo gentile e uomo di questo mondo, e sebbene tu non facessi mai altro che sorridere di quando in quando ai discorsi altrui, sarai giudicato uomo di vero spirito e di penetrazione. E poi? E poi quei pochi uomini prescielti dal Cielo, i quali vedono più in là del comune degli uomini, quei pochi uomini dei quali
 la stima pesa più che quella di mille volgari, dei quali la benevolenza e l’amicizia è più attiva ed utile di quella volubilissima del comune degli uomini, non vi stimeranno un zero, vi guarderanno come un vero camaleonte che non ha un colore proprio, versatile, indefinibile, buono 
o cattivo, ragionevole o scimunito, benefico o insensibile a vicenda della compagnia in cui per azardo siete riposto. Chiunque ricerca la stima universale cogli ufficj e colla flessibilità mostra un’anima debole 
e un cuore da nulla, e corre dietro ad una chimera che alla prima diceria che si sparga svanisce e lo lascia in una improvvisa solitudine senza guida delle sue azioni. La opinione della moltitudine l’uomo di merito se la acquista colle azioni benefiche e vigorose: un po’ di durezza nel carattere spesse volte è indizio di virtù, la più bella è come 
il diamante; ma nei primi anni quegli uomini, privilegiati e destinati
 ad essere buoni ed utili confratelli della specie nostra, necessariamente non debbono avere la confidenza nè la stima comune, poichè le idee d’un uomo capace di essere sopra il volgare non possono essere idee analoghe alle volgari, e gli uomini sono sdegnati troppo di vedere che un giovane osi credere vero quello che essi riprovano, e cercano 
di vendicarsi della indifferenza che il giovane mostra per il giudizio loro. Ma stia sodo il giovane; ascolti il mio consiglio, stia sodo, cerchi la verità indipendentemente dalle opinioni altrui, vada avanti: verrà l’occasione in cui egli abbia da operare, e allora rapidissimamente si raduneranno i suffragj per lui, poichè gli uomini piegano finalmente 
ai fatti, se resistono ai ragionamenti, e con una bella azione, con un buon libro, coll’ottenere ed esercitar bene una carica, darà al pubblico una dimostrazione di quello ch’egli è. Il pubblico giudica sempre dei fatti, perciò viene la opinione comune negli uomini di supporre un vero e intrinseco merito presso coloro che stanno riposti in dignità. Sono almeno quattro mila anni che si crede che il più autorevole abbia sempre maggior ragione e, secondo quelle tenuissime cognizioni che mi ha potuto comunicare l’arte divinatoria del cuore umano, ardirò di predire che almeno per altri quattromila anni la nobilissima stirpe umana e i nobilissimi di lei discendenti penseranno altrettanto, e che ciò sia vero brevemente lo dimostro così. Agli uomini più forti e potenti di noi ogni ragion vuole che noi presentiamo lo spinal midollo conformato in una curva di cui la convessità sia rivolta all’occhio purgatissimo del uomo più forte e possente: in ciò sono d’accordo i filosofi col popolo, perchè i filosofi e il popolo ricercano di passare i loro giorni men male che sia possibile; ma chi sa un po’ di notomia non può ignorare come lo spinal midollo sia una emanazione della sostanza medulare del cerebro medesimo, dove, per consenso di tutti quei fisici che ne sanno più di me, sta la sede dell’anima; ciò posto, le curvature dello spinal midollo, frequentemente ripetute, spingono le oscillazioni sino alla superiore regione del cerebro ed ivi, poco a poco, vi imprimono le opinioni di cieca riverenza, di anticipata stima e di fedelissima condiscendenza di sillogismi: cosicchè appena i filosofi con molti stenti possono interporre un argine che impedisca alle indispensabili operazioni della schiena di trapellare alla mente o lasciarvi l’impronto. Questa è la ragion cardinale per cui quegli uomini forti e possenti, i quali sarebbero un zero senza l’aventizia forza e possanza, detestano sincerissimamente qualunque credano arginato in tal guisa, e vorrebbero spegnere al mondo la poco internamente rispettosa setta de’ filosofi. Così diceva Marco Porzio Catone, e diceva pur bene! Ora, padron mio stimatissimo, quando io dico che un tale diceva bene, sapete cosa realmente dico? Dico che un tale dice quello che mi piace che si dica, perchè l’amor proprio è sempre il più fedel compagno che abbia l’uomo in tutto il corso della vita.

Ma questa vita, se fosse un po’ più lunga di quello ch’ella è, mi accomoderebbe assai meglio, poichè venti anni mi hanno fatto impiegare i miei Signori Parenti per insegnarmi a leggere, scrivere, studiare un po’ di Latino e difendere e attaccare diverse opinioni sulla natura delle cose, spiegate da un maestro che non poteva sapere la natura del
le cose; e poi, dopo questi venti anni, ne’ quali anche m’hanno insegnato a stare a cavallo, a ballare, a giuocar di spada, a intendere la musica ecc., dopo questi vent’anni sono uscito alla luce della società ed 
ivi, uomo nuovo e forastiero alle usanze, ho dovuto impiegare un altro pajo d’anni ad erudirmi sul tuono di parlare, sulle materie da discorrere, sul gesto che doveva avere passeggiando, sedendo, mangiando, bevendo ecc.; e poi, dopo questi ventidue anni, ho cominciato per vo
ler vivere, ma mi si diceva e ripeteva sempre: è troppo presto, vi vuole maggior esperienza, vi vuole maggiore maturità; e così siamo giunti 
ai trent’anni. Ora, se trenta anni della vita si debbono impiegare ad apparecchiarci a vivere, la vita poi, ragionevolmente, dovrebb’essere almeno il doppio dell’apparecchio: sarebbe ridicola una suonata la quale non durasse assai più del tempo impiegato ad incordare lo strumento. Dunque, per non essere ridicoli, almeno novant’anni bisogna viverli, e gli alchimisti vi hanno pensato, ma hanno pensato male: credettero costoro che siccome l’oro fa fare a modo nostro la maggior parte degli uomini, così dovesse far fare a modo nostro i visceri del nostro microcosmo (parola greca), e questa buona gente si sono posti a cercare di scioglier l’oro, di renderlo bevibile e placare gl’intestini a forza d’oro. Ma gli alchimisti sono matti, poichè gl’intestini si piegano tanto all’oro quanto mi piego io che non farei un passo per venalità. Oh, gl’intestini sono diabolicamente ostinati e voglion moltissime volte fare a lor modo, fanno il lor moto peristaltico or bene or male, senza abbadarmi come se nemmeno fossero roba mia. E il cuore! Oh briccone, quel cuore si stringe, si dilata a vicenda, senza che mai io l’abbia mosso a questa operazione, egli mi fa girare il sangue per tutto il corpo e me lo spinge alcune volte alla testa con sì poca grazia che ne provo dolori sensibilissimi; egli mi va palpitando quando nol vorrei, mi fa arrossire e impallidire mio malgrado, è una cosa terribile! E la pupilla dell’occhio, che dispoticamente mi si contrae e mi si dilata, senza un’ombra di subordinazione a me, che pure sono il proprietario! V’è una ribellione di costoro, dei membri del nostro corpo; anzi alcuni oratori hanno dei moti anche più strani, cioè il moto de’ capelli. Mi si rizzano le chiome in fronte, ho udito dire, mi si sollevano i capelli per lo raccapriccio, cosa per altro ch’io non ho mai veduta accadere, avendo osservato che i capelli stanno sempre fedeli, fedelissimi al loro posto, se qualche vento, fenomeno o infortunio non li scompone; almeno tale è la sperienza mia. Pure, se gli oratori lo dicono, siccome non possono nè debbono mai favoleggiare, così bisogna credere che i capelli si muovono come si muovono le orecchie di alcuni animali, benchè le orecchie del uomo non sieno articolate al moto; e ciò serva per l’erudizione della posterità.

Ma credete voi, dirà il benigno lettore, che la posterità leggerà il vostro libro? Sicurissimamente che lo leggerà, e con qual sapore! Lasciate pure che questo mio libro diventi antico e vedrete, circa l’anno di grazia 1950, che un qualche accademico comincierà a trovarvi delle bellezze sorprendenti, lo farà ristampare con bel margine, col mio ritratto, e forse, aimè!, forse vi farà i commenti; sa il Cielo cosa mi farà dire! V’è stato un astrologo che mi ha detto che costui avrà nome Taddeo, sarà di pel bruno, bassotto di figura, un po’ moltissimo ignorante e uomo per altro versatissimo nello stile. Questo Taddeo, per accattar qualche profitto, vi aggiungerà un proemio eruditissimo sulla mia vita e parlerà molto della estrema vecchiezza alla quale giunsi con portento universale de’ medici, de’ quali non ho mai voluto far caso. Vi sarà al bel principio una dedicatoria del Sig.r Taddeo a Sua Altezza Serenissima il Sig.r Marchese un tale, nè ciò faccia maraviglia a’ miei contemporanei, poichè il titolo d’Illustrissimo, che omai pare poco ai Marchesi odierni, sappiamo che secoli sono pareva abbastanza per i più possenti Sovrani d’Italia; e la cosa andando verosimilmente
 di questo passo, i Marchesi del secolo duemillesimo saranno Altezza Serenissima, i Sovrani senza dignità Regia si chiameranno Stupendissima maraviglia d’imperscutabile celestiale innalzamento ed i Re coronati saranno chiamati Immensità di luce infinita calpestatrice degli Astri e del Sole. In quel secolo sarà perduta la usanza di prendere il tabacco pel naso, sono appena cento cinquant’anni dacchè si è questa introdotta; in vece si prenderanno certe pillullette per gli orecchj, le quali vi produrranno una continua piacevolissima infiammazione che le farà piovere come due amenissime sorgenti, una per ogni spalla, e sulle spalle saranno cuciti due pannolini, di merletto ad ogni Marchese e di tela ad ogni cittadino. La distinzione de’ ranghi, ovvero, per meglio dire, degli ordini delle persone, ha il suo bene ed ha il suo male, come ogni altra cosa, più o meno. Se la nobiltà non si acquistasse che colle azioni veramente virtuose, cioè veramente utili alla società, la nobiltà sarebbe un premio dato alla virtù, tanto più grande quanto che perpetua ne’ posteri la memoria di quella virtù che l’ha cominciata, e tanto più utile al pubblico quanto che anche nei discendenti illustrati resta un riccordo perenne dell’utile che v’è nel servir bene la società, e spinge gli uomini a servirla. Ma poche sono le famiglie che realmente abbiano così cominciato ad esser nobili. Chi può ammassare un buon patrimonio non manca mai di mezzi per nobilitare se stesso e i discendenti, onde la nobiltà è il premio spesse volte in origine della rapina, sebbene altre volte anche lo sia meramente d’una onesta industria. In questo caso, che è il più comune, perchè mai avranno gli onori della nobiltà i discendenti di chi non ha fatto alcun bene alla società, che anzi è un male di molti piccoli patrimonj che se ne formi un solo, perchè più sono distribuite le ricchezze e più sono poste in valore, e più cittadini non sono miserabili. Perchè dunque l’odiosa distinzione fra i sudditi del medesimo Sovrano è chiamare gli uni nobili e gli altri plebei, quasi di due razze si fossero i membri della medesima famiglia umana? Non basta forse alla virtù la attrattiva propria per se stessa, non basta la venerazione che tosto o tardi il pubblico tributa alla virtù luminosa, che sarà costretto un uomo di confessare se stesso inferiore ad uno stolido nato da un tritavo uomo di merito, ovvero nato da una pubblica sanguisuga che lo ha arricchito? Bene, bene, bravo davvero, il Signore! Parla divinamente, e vuo’ bere alla sua salute… Animalaccio, soggiunse Marco Porzio Catone, animalaccio, e vuoi tu bere perchè stia sano egli? Che pazza maniera di parlare si è mai cotesta! Un bicchier di Borgogna che entra nel tuo ventricolo come può dar
 la salute a quel buon uomo che ti sta a vedere e non altro? Marco Porzio, sta’ zitto, che non sai quel che tu dì, affè di mio… capperi che 
tu non istai a bomba; bere e’ s’intende, caparbiaccio, per me sibbene, ma col disio che faccia bene al buon uomo, e la si chiama leggiadria; la quale, siccome scrisse l’immortal uomo Monsignor della Casa nel suo divinissimo Galateo, non è altro che una certa cotal quasi luce che risplende nella convenevolezza delle cose che sono ben composte e ben divisate una coll’altra e tutte insieme, senza la qual misura eziandio il bene non è bello e la bellezza non è piacevole. Oh, vedete se Monsignor della Casa era una gran testa! Ha conosciuto, quel gran Monsignore, che la convenevolezza delle cose ben composte e divisate forma una luce che risplende e che si chiama leggiadria, e senza di questa luce il bene non è bello e il bello non piace! Bellissima definizione, chiara, semplice, piena di filosofia veramente! Così, per esempio, in qualche città del mondo piace di fare una zuffa in un tal giorno dell’anno e porsi una celata in capo e darsi dei potentissimi colpi di targa o mazza, in guisa tale che vadasi poi la sera a riposar la testa sull’incudine d’un ferrajo, per cavarla fuori dall’ammaccato elmo; se, per esempio, si vorrà dire che vi sia in ciò della leggiadria, significherà questo che ivi vi sia quella certa cotal quasi luce che risplende della convenevolezza delle cose. E se, per esempio, in qualch’altra città del mondo in un dato giorno dell’anno si radunano i facchini, e dopo essersi devotamente ubbriacati vestono uno stalliere con manto ducale, e stando alcuni ritti in piede sulle spalle di altri, vanno in processione portando leggiadramente un moggio di carbone ad una chiesa con suoni, pifferi, sciabole sguainate e rumore immenso, converrà dire che ivi pure siavi quella cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose. E se in qualche città del mondo in un dato altro giorno si espone al pubblico saccheggio una collina di prosciutti, salcicciotti, pagnotte e simili tentativi della volgare fragilità, per il che leggiadramente corron pugni, si rompono le teste, le braccia, le gambe dei cittadini, converrà dire ch’ivi siavi pure quella cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose. E qui facciam punto alla figura rettorica, perchè la cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose mi potrebbe far scrivere diverse altre verità che non sembrerebbero agli occhi di tutti avere la cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose; onde usiamo prudenza, il che vuol dire timore, ma un timore che cade in constantem virum, perchè, dato il caso che molti mi perseguitassero per effetto della cotal quasi luce che risplende dalla convenevolezza delle cose, io poi alla fine sono un uomo solo, e sin che si tratta di uno per uno, tanto tanto la si può incontrare, ma multorum obtrectatio devicit unius virtutem, io non voglio essere Orazio sol, voglio piuttosto essere Orazio in buona compagnia, nella quale risplenda la cotal quasi luce della convenevolezza delle cose.

Ogni simile ama il suo simile, proverbio antichissimo. È egli vero? Un toro non ama un altro toro, un gallo non ama un altro gallo, un avaro non ama a contrattar coll’avaro, l’orgoglioso la rompe coll’al
tro orgoglioso, un briccone astuto sfugge il suo simile, l’ambizioso detesta il suo simile. Come mai dunque si viene a raccontarmi che ogni simile ama il suo simile? Io osservo che le passioni espansive, cioè che stendono l’attività dell’uomo fuori di lui, escludono l’amore del simile, poichè il simile ci dimezza l’oggetto che cerchiamo più esteso che si può; le passioni concentrative in vece fanno nascere l’amore del nostro simile: osservate che in un disastro tutti diventiamo fratelli e amicissimi. Perchè? Perchè tutti siamo invasi da una comune passione concentrativa, che è il timore. In una tempesta di mare tutt’i passaggeri diventano tenerissimi fratelli, così in un tremuoto, così in qualunque occasione in cui il timore ranicchj l’uomo e lo concentri. Perciò i caratteri timidi si collegano fra di loro più facilmente. Gli uomini che amano le lettere non tanto per captivarsi l’opinione e la gloria quanto per migliorare la propria essenza e rettificare il proprio giudizio, facilmente si amano; laddove all’incontro que’ letterati non filosofi che fanno servire le umane cognizioni di stromento alla gloria ed alla fortuna, rare volte sono veramente amici, perchè la gloria e la fortuna sono passioni espansive. Quegli uomini semplici, onesti, curiosi di scoprire la verità, che segregandosi dal rumore, dal vaneggio e dalla chimera comuni consacrano alla istruzione propria e pubblica le ore della loro vita, quegli uomini innocui, anzi benefici, che commiserando la cecità in cui vivono i più, cercano di disseminare le verità utili nel pubblico, s’espongono coraggiosamente ai latrati dell’invidia, agli ululati della vigile impostura; quei cittadini ingenui che onorano la virtù, provano entusiasmo per il merito, amano le scienze per le interne attrattive loro, e se provano un piacere naturale al uomo, cioè quello della gloria, e se la cercano, la cercano però più nel beneficare co’ lumi loro l’umanità, nell’accellerare la dissipazione degli errori nocivi alla società di quello che la cerchino nel fastosamente imprimere nel pubblico una idea di loro superiorità; questi tali, dico io, sono giojelli della nostra specie degni dell’amore e della stima di ogni onest’uomo. Ma quei letterati pseudo filosofi, i quali, nemici nati del merito che possa loro essere posto in confronto, cercano con ogni più studiato artificio di nasconderselo agli occhj; quei letterati che per parere giganti vorrebbero tagliar le gambe a chi non sia nano; quei che prendon le lettere e le scienze come un mestiere e vi sudano come il fabbro sull’incude, che ne farebbe pur senza se avesse modo di star bene con altro genere di vita; questi letterati, dico io, non saranno mai amici, ed il simile non amerà il suo simile, poichè son letterati espansivi che vogliono oltre il loro anche quello degli altri. Ma questi letterati meritano più compassione che altro, poichè la loro vita è amarissima: gelosie continue, rancori, mortificazioni, un momento di bene e cento di mali, è la loro vita un tessuto sottilissimo di tanti artificj, di tante cabalette, intorno le quali sudano da disperati; viene l’uomo buono, semplice, franco e illuminato, squarcia la tela, smaschera l’ipocrisia, ed eccoti a ricominciare. Credetemi, lettor mio, che la migliore furberia di tutte, la più raffinata politica, sapete qual è? Essere uomo illuminato e onesto. Date circostanze eguali, l’uomo buono va sempre più lontano di chi non lo è e vive più felice. Tiberio non fu mai beato come Lucullo. La storia di Roma l’ho studiata anch’io, e so benissimo cosa era Lucrezia Romana, e sono stato a Roma, ed ho veduto la statua di Marforio e tante belle antichità, e la giuncata fiorita, e la porta Cavalleggieri, e la barcaccia, e il Noviziato de’ Padri Gesuiti, e tante tante belle cose ho vedute in Roma Caput Mundi.

Il fabbro su l’incude scherza da mane a sera

bellissimo verso martelliano, il quale è stato stampato da un bravo poeta, mio grande ammiratore. Quello scherza è bello, bello, bellone, bellissimo: il fabbro scherza! Evviva! Poveri fabbri, se potessero dire anch’essi il fatto loro! Il Sig.r Poeta se ne sta agiato sulla sua scranna, al suo tavolo, colla tabacchiera vicina, a finestre chiuse, buona beretta in testa, buona pelliccia indosso se è d’inverno o, se d’estate, in una comoda e leggiera sopraveste. Il Sig.r Poeta si dà il grande incomodo di immergere di tempo in tempo una penna d’oca nel calamajo, e dice di sudare sudori olimpici, e dice d’incanutire co’ lavori febei, e ci viene poi a contare che quel povero galantuomo del fabbro, quando con una pesante mazza gronda sudori e lavora sul ferro, sta scherzando sull’incude! Mi pare veramente che quel Sig.r Poeta sia come i postiglioni che scendendo da cavallo si lagnano talvolta d’aver dovuto portare di peso quel maladetto cavallo! Perchè portare? Perchè gli hanno ammaccato la mandibola col premergli il morso. Poveri cavalli, se poteste dire 
il fatto vostro! Dopo aver dovuto galoppare portando sulla schiena un bue d’un postiglione che pesa cinquecento libre, tocca al postiglione a dirmi che ha portato il cavallo! Io amo il cavallo, è una bella e buona creatura; amo anche l’asino: non è una creatura veramente tanto bella, ma è buona buona, e la sola cosa che mi dispiace nell’asino è la sua gravità; fu già osservato che l’asino è il più grave e serio animale di tutti, vi serva di ricordo quando vedete degli uomini gravi, per vostra buona regola; perchè io sono amico del mio Lettore, e vi do dei buoni ricordi; fra gli altri, contate anche questo, che dovunque vedete gravità e taciturnità, ivi vi sta sotto del vacuo, regola che non falla mai, se
 la gravità e taciturnità sono abituali. Volete che ve ne dia la ragione? Eccola. Ogni uomo ama di farsi valere più che può; un uomo che sta grave e taciturno sa bene ei medesimo che tutt’al più può far nascere 
del dubbio s’egli valga o no, può far nascere del timore e dei riguardi, ma stima sentita non mai, poichè non sbuca fuori con cosa che la produca. Ora, ambendo anch’egli come ognuno di farsi valere più che può, siate sicuri che perciò tace, perchè non sa dire cosa che possa eccitare la stima altrui; perciò sta grave per allontanare gli uomini dai quali teme d’essere conosciuto. La gravità è la cassa ferrata d’un fallito. Chi vale realmente non teme d’essere conosciuto, anzi da se stesso si annunzia. Questa regola generale però può avere eccezione, ed è se si tratta d’un giovane sensibile, poichè il timore può renderlo imbarazzato e quasi grave suo malgrado, e la voglia che ha di parlar bene e la diffidenza che ha di riuscirvi possono renderlo taciturno; può anche aver eccezione negli uomini astratti e assorbiti dalle speculazioni, ma negli uomini fatti e di mondo siate sicuri che i gravi e taciturni sono vuoti. Gli uomini la loro buona mercanzia ordinariamente la ripongono in mostra fuori della bottega.

Ma io considero che noi andiamo ragionando terribilmente, e che un po’ di ragione va bene, ma troppa alla fine stanca, e poi chi sa che 
i pensieri che pongo in questo mio studiatissimo discorso non vi sia chi me li rubbi, e trasfondendoli in un libro serio e dove ragioni poco con apparenza di ragionar molto, non mi faccia un plagiato e mi tolga
 il mio senza nemmeno citarmi? Oh plagiarj, ingiustissimi, iniquissimi plagiarj! Oh sicarj delle lettere e delle belle arti! Chi mi darà la voce, chi mi suggerirà le parole, ond’io faccia piovere sulla rea testa d’ognuno di voi i fulmini della vendicatrice eloquenza! Io non vi vorrei nemmen per questo ammazzare. No, non vorrei nemmeno farvi infelici, vorrei farvi più giusti e meno nojosi. Vorrei bensì sfogare il mio sacro furore sulle biblioteche, oh, là sì che spietatamente e da buon Calmuco ti vorrei fare una catasta di tanti libri, libracci, libriccini, libriciattoli, libercoli tutti, parti d’impostori, di plagiarj, di pedantuzzi, di seccatori terribilissimi, e darle il fuoco ed infertilire il terreno colla cenere, che sarebbe la sola parte utile di tanti libri. Col fuoco si disciolgono le cose ne’ loro elementi, e gli elementi sono quattro: aria, acqua, terra e fuoco… Ma chi gli ha veduti, gli elementi, per dirmi che siano quattro precisamente, e non cinque, e non mille, e non uno solo? Gli uomini meno riflettono e più affermano. Des Cartes pensava, ma pensava ad un romanzo sulla natura delle cose, e disse gli elementi essere: la materia globosa, la materia striata e la materia sottile. I chimici pensano, ma pensano che perchè ne’ loro alambichi non esce alla fine che sale, zolfo, mercurio e capo morto, questi sieno gli elementi delle cose. Io non faccio romanzi, non distillo niente affatto, non credo ai quattro elementi e dico che non ne so nulla dopo aver veduto quello che gli altri su quest’articolo hanno detto. Per discoprire un qualche canto dei secreti naturali, per alzare il sacro velo che ricopre tutti gli oggetti vi vuole dubbio, esame e metodo, nel che sta tutta la logica, la quale è la sola scienza, prendendo nomi diversi dagli oggetti ai quali si rivolge. Metodo, metodo! Oh, è pure una bella cosa il metodo! Se nel mio scrivere non vi bado più che tanto, ciò avviene perchè mi piace più il comodo che il metodo, ma questo non lascia però che il metodo non sia una parte essenziale della logica. Figuratevi una testa che non ha metodo e sia riempiuta di fatti, sarà come appunto una biblioteca disordinata: stenderete la mano per trovare Newton, acchiapperete gli Asolani di Messer Pietro Bembo; credere
te d’aver nelle mani Virgilio e vi troverete L’Italia liberata del Trissino, e così va discorrendo, poichè anche questa bella figura rettorica bisogna soffocarla qui e non andare più oltre a nominare contemporanei, per quanto se ne abbia la benigna intenzione, per non mancare alla prudenza della quale si è parlato poco fa. Ma ho io parlato? Signor no che 
non ho parlato, ho scritto. Ma come dunque mi va dicendo, Sig. Marco Porzio Catone, d’avere parlato, se non ha veramente parlato? Respondeo che si legge in più autori che parlano le stelle, parlan le piante, i sassi, i venti, tutte le cose parlano. Petrarca fa che tutto parli di Madonna Laura, io non pretendo tanto quanto Petrarca, io pretendo soltanto che il mio libro parli di tempo in tempo un po’ di ragione, e se questo è, perchè non volete passarmi questa minima libertà oratoria? Me lo ha insegnato il mio maestro di umanità, che più volte mi esibì delle sferzate, ma siccome non vi diedi mai il mio assenso, così fu un’esibizione sterile, coll’ajuto del Cielo che mi ha dato buoni muscoli. Pedagoghi, quello staffile che adoperate è l’ornamento d’un carnefice assai più che d’un uomo il quale cerchi d’istruire un altro della sua specie più debole e infermo di lui. Pedagoghi, cuori di fango, voi siete i rei stromenti che imprimete coll’esempio l’idea della forza nelle tenere menti de’ fanciulli, in vece dell’idea della giustizia, fonte perenne di tutte le sociali virtù. Come volete che un fanciullo, battuto da voi per la ragione che voi siete di lui più robusti, spinto dal vostro esempio non batta l’altro fanciullo più debole di lui? Fatta che sia questa prima impressione in quei molli cuori, come volete che coll’andar degli anni poi non cresca e non produca le prepotenze, le usurpazioni e la schiera d’innumerevoli vizj che opprimono la società, e ci rendono simili ad un covile di feroci e scaltriti animali anzicchè uomini! Pedagoghi, pedagoghi… Ma io vado in collera e la collera fa male alla sanità, e se ho a viver vecchio, bisogna che mi guardi dalle cose che fanno male, ergo bisogna ch’io non vada in collera. Che volete farvi, poco a poco anche lo staffile dei pedanti si toglierà, lo spero almeno. Gli uomini sono quello che la educazione gli fa essere: un uomo istrutto a forza di sferzate sarà egli mai un coraggioso soldato, un incorrotto e invincibile giudice, un onorato e ingenuo mercante, un buon marito, un buon amico, un buon cittadino? Un buono schiavo non sarà mai un buon uomo. Caligola era ottimo schiavo, fu pessimo uomo e detestabile principe, non v’è virtù senza una sorta di libertà d’anima. Queste verità sono evidenti, ma la maggior parte degli uomini ragionano così. Si fa così, dunque v’è una ragione perchè si faccia così, dunque è ragionevole di fare così, dunque sarà una chimera il dire che non si debba fare così, dunque delira o abusa della ragione chi propone di togliere un uso ereditario, e per questo chiunque ha cercato di togliere i mali venuti per antica tradizione è sempre stato il ludibrio della fortuna e non ha potuto godere della gloria, che è venuta dopo la morte a risarcire in vano una vita passata fralle tempeste. Colombo ha scoperto un mondo incognito, in premio d’avere raddoppiato la dominazione della Spagna è ritornato in Europa incatenato su quella nave istessa ch’egli aveva guidata con ardimento e valore sommo per mari sconosciuti. Des Cartes, romanziere, è vero, della natura, ma illustre riparatore dei dritti della ragione umana, che la portò nelle scuole occupate dalle parole, che indicò la strada del vero anche travviando, ha dovuto cercarsi un asilo fuori della sua Patria, e ben duro lo ritrovò, confuso co’ pedagoghi di null’altro curanti che di sapere le lingue che più non si parlano. Gallileo, lo scopritore del Cielo, esimio astronomo e geometra che col nome suo illustra la Italia nostra Patria, come visse? La storia ci fa sospettare ch’egli abbia avuto qualche imbroglio nella sua vita. Giannone, Fra Paolo Sarpi, due illustri uomini, di costumi e di virtù esemplarissimi, vollero esaminare quai confini avesse il potere del Sovrano in faccia d’ogni ceto vivente ne’ Stati suoi, qual dritto avesse una potenza estranea di comandare ne’ Stati altrui; e Giannone morì in carcere, Fra Paolo Sarpi fu stillettato. Carlo Secondat, Barone di Montesquieu, Presidente, ha pubblicato un libro sulle Leggi che onora la specie umana, e un miserabile gazettiere ricompensò vent’anni di fatica di un valent’uomo calunniandolo piissimamente e amareggiando gli ultimi anni della vita di lui. È uscito in Italia un libro col quale si vuol persuadere che conviene al genere umano il farsi vicendevolmente i minori mali possibili, che la tortura non è una bella 
o utile invenzione, che si potrebbe far di meno di tenagliare, romper vivi, abbruggiare, strozzare, mazzolare gli uomini, e che i delitti s’impedirebbero più con leggi più miti ma inflessibili. Appena uscì, che fu accusato d’essere un empio, un settario, uno scandaloso, un mostro orribile e gli si scagliarono indosso tutti gli obrobrj. È vero che il pubblico rese giustizia a quest’ultimo, ma… Sarei pur curioso di sapere quante maldicenze si saranno scagliate contro il primo inventore delle forbici e del pettine. Non sono poche invenzioni, coteste? Figuratevi che bella comparsa avranno fatto i nostri ascendenti anteriori a queste invenzioni. Che graffiatura di ugne, che ispida bar
ba, che capelli rabuffati! E le belle Ninfe, che figure! In verità che le Laure e le Beatrici saranno state gustose in que’ secoli antiforbiciarj e antipettinari. Pure, quanta roba si sarà scritta allora… ma no scritta, detta contro quel novatore, cervello torbido, refrattario della società, nemico della patria, che avrà immaginato di tagliarsi le ugne e di pettinarsi! E per quello bisogna lasciar andar l’acqua alla china, vivere e lasciare che il mondo vada come vuole, bene dicere de priore, facere debitum suum sic lac, sinere mundum ire sicut vadit. Oh vile, abiettissima proposizione! Dunque il piacere di far bene all’uman genere, per quanto lo permettono le nostre forze, sarà sì piccolo, sì poco nobile, sì poco da curarsi? Dunque l’interno sentimento d’una benefica virtù e la potentissima attrattiva della più augusta gloria potranno sì poco che un infingardo sentimento di dapocagine debba superarla! Anime sublimi, cuori capaci di spingervi a cose grandi, non vi piegate a queste massime di schiava indolenza che cercano pure da piantare in voi i timidi o gl’invidiosi. Conoscete quai sieno gli errori degli uomini, dissiparli tutti forse è una chimera, molti sono inerenti alla attual situazione delle cose; ma gli uomini, ma gli esseri sensibili sono compagni nostri, son nostri simili. Anime che conoscete la virtù, no, non disperate di fare il bene, non si fa mai tutto quel che si tenta, ma non si tenta mai totalmente in vano, un’orma vi resta, vi resta un seme, e il tempo lo feconda e lo schiude. È vero che la moltitudine istessa beneficata da voi non vi sarà grata, quel mare procelloso vi offenderà co’ suoi flutti, ma il sentimento interno nessuno ve lo toglierà mai. Scrivete, uomini capaci di ben farlo, avventatevi arditamente contro i pregiudizj che opprimono gli uomini e gli guidano per un tortuoso labirinto di artefatte miserie. Scrivete per riscuotere i contemporanei vostri, ma non prendete il mio stile, perchè il mio stile è robba mia e me lo sono inventato a bella posta per me, perchè non voglio essere confuso cogli altri. Io ho i miei occhi, il mio naso, la mia bocca e così va dicendo, nella guisa medesima io ho il mio stile e lo dico mio perchè non l’ho preso o imitato da nessuno, e non faccio come taluni che in una riga sono il Bembo, in un’altra il Cocchi, in un’altra l’Algarotti, in un’altra Davanzati, coloro sono pasticcieri ovvero galenici che impastano la theriaca, dove v’entra un miscuglio di tutte le cose create. Un certo Sig.r Andronico, che faceva da medico e da speziale per guadagnare doppiamente, siccome era uso degli Arabi e anche lo è al dì d’oggi uso dell’Asia, un certo Sig.r Andronico dunque, non avendo un giorno veruno che lo venisse a ricercare ed annojandosi potentissimamente nella sua bottega, cominciò a prendere un vaso e da esso estrasse un pocolino della droga che vi si stava dentro, poi prese un altro vaso vicino, poi un altro, sinchè da tutt’i vasi, vasetti, scattole, scattolini della spezieria ne estrasse una porzione, omettendo soltanto i veleni: tutta questa farmacopea la pistò ben bene in un mortajo, la incorporò con un po’ di mele ed ecco inventata la theriaca, solennissima impostura in cui si ritrovano i rimedj che accellerano il moto, quei che lo rallentano, quei che risvegliano, quei che assopiscono: un caos, in una sola parola, nel quale prevale un po’ l’opio, onde talvolta calma, come appunto fanno li stili di quei scrittori pasticcieri galenici imitatori de’ stili altrui. Ma siccome, malgrado la intrinseca incompatibilità della theriaca, pure se ne vende ed è in alcuni luoghi un capo di commercio, attesa la singolare bontà de’ Levantini massimamente, così anche di queste letterarie theriache i librai non mancano di farne buon conto, poichè i Levantini vi sono anche in letteratura e in grosso numero.

Ma la corbelleria più grande l’ha fatta Marco Tullio Cicerone, quando, per aver messi al dovere alcuni pochi vagabondi, e ciò senza alcun suo rischio, pretese al ritornarsene in Roma gli onori del trion
fo. Il Senato ebbe giudizio e non glielo accordò; il valoroso Midleton dice tutto quello che si può dire con somma eloquenza e filosofia per salvarlo, ma ha bello scrivere, che la corbelleria Marco Tullio Cicerone l’ha fatta grossa e non vi è discolpa. Cercare il trionfo per aver dissipati quattro gatti! Eh, Marco… Eh, Marco Tullio Cicerone ha torto, non bisogna mai cercare un posto più grande di noi, se non vogliamo comparire più piccoli noi del posto. Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. Un uomo di testa e di cuore, che ha principj ragionati di condotta, che conosce la natura del cuore umano e le vicende della società, che balzano un uomo ora alla fortuna ora alla miseria, riceve una carica e continua ad esser lo stesso affabile, cortese, amico, soffre la contraddizione come prima: quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. Un altro in vece, che non abbia della virtù e della ragione che il manto, che non ha principj chiari e fermi per giudicare e di se stesso e degli altri, appena avrà un baleno di fortuna o di carica o di applauso, ecco mutate tutte le relazioni fra di lui e gli altri uomini: eccolo sul teatro a rappresentare la scena, non è più l’uomo che si vede, è il personaggio, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. Se il primo caderà in disgrazia, se la fortuna rea lo perseguiterà, presenterà una faccia addolorata bensì, ma non avvilita, non oppressa, e lutterà contro l’avversità; il secondo caderà avvilito nel fango, e come un fanciullo che teme l’orco, avrà perduto ogni consiglio, ogni scorta. Perchè? Per quel bellissimo detto che quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur, come appunto un certo scrittore sattirico ricevette un carico di bastonate colla umiltà che si debbe ad una salutare ammonizione e le recepit ad modum recipientis, poi dopo, ritornato a casa, si fè stroffinar le spalle coll’acqua di Regina, bevette un bicchiero di Cipro, ringraziò il Cielo d’esser fuori del guajo, e presa la penna scrisse la descrizione delle bastonate ch’egli aveva date potentissimamente a quel rivale che le aveva date a lui: tutto dipende in questo mondo dalla disposizione in cui ci troviamo noi, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur, e questo bellissimo assioma servì mirabilmente ad uno scrittore di medicina per sostenere che l’innesto del vajuolo è una pazzia, tanto è vero che quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. L’uomo comune è come un fluido, prende esattamente la figura del vaso in cui si ripone; e per esempio, un buon uomo che altro non faceva che leggere ed ammirare i cinquecentisti s’incappò un giorno a fare il galante con certa Ninfa, la quale, poco gustando i vezzi di lingua e disgustata anzi da un villanissimo nasaccio che aveva il buon uomo e da una ridicola paruccaccia scarmigliata che non aveva egli nemmeno riposta bene in mezzo alla testa, gli fece un mal garbo, che egli recepit nella maniera la più comica del mondo. Signora, diss’egli, Signora, l’indiscrezione vostra è grande oltra misura, avegnadiochè di bennata e gentil donna costume sia le oneste e civili persone cortesemente e dolcemente accogliere, anzichè con villane maniere e sconci modi dileggiarle ed offenderle; e se il cuor vostro non parla in favor mio, io di buona voglia sottoporrommi ai decreti del destino e soffrirollo senza farne lamenta, sendo cosa sicurissima che quelle che sogliam inclinazioni, ovvero propensioni geniali comunemente chiamare, anzichè da libera scielta e disquisizione nostra, da alcuni ignotissimi e ripostissimi principj motori derivano, de’ quali la forza agir suole dagli umani desiri indipendente; ma l’urbanità, la cortesia e l’ospitalità, Signora, le sono virtù sempre mai inseparabili da ogni gentile spirito. E così, fatta una profonda riverenza, a cui con uno scoppio universale di riso si rispose allegramente, se ne andò il nostro purista, rassettandosi la perucca o parrucca o pirucca, qualunque ella si voglia essere, e borbottando qualche periodo per provare ch’egli aveva ragione. Ma io distinguo. Aveva ragione egli ed aveva ragione la Ninfa. Egli aveva ragione di pretendere anche un no con cortesia; ma ella aveva ragione d’essere seccata da un seccatore e di ridersi di un uomo che a forza di studiar le parole non sa parlare che non faccia ridere. Se tutti gli autori avessero scritto il fatto loro naturalmente, semplicemente, con grazia sì, ma non con circonlocuzioni eterne e contorcimenti di frasi, allora potreb
be un galantuomo imparare a parlare dai libri; ma se la maggior parte de’ nostri scrittori di lingua sono talmente abindolati, artefatti, sconciati che non v’è parola che naturalmente sia posta al suo luogo, se i pochi pensieri stemprati in un diluvio di parole servono a quelle e non queste ad essi, se il suono dell’armonia e della rotondità del periodo è il principale stentatissimo studio de’ nostri cinquecentisti, al quale sacrificano ogni altra cosa; se hanno scritto non per la testa, ma per 
i soli orecchj, chi vorrà imitarli parlando si farà ridicolo dovunque, e chi li vorrà imitare scrivendo non avrà mai l’alto onore d’essere letto
 da me, che tengo caro il mio tempo e lo divido fra i miei doveri e i miei piaceri; per il che, non essendo gli autori di lingua nel numero per me nè degli uni nè degli altri, sono sempre occupato per essi. E questa bestemmia in Crusca mi si perdoni; alcuni anni fa non avrei ardito di scriverla, ora per una volta me la lascio sfuggir di mano alla buon’ora, sperando che fra vent’anni sia per essere una verità comune.

Oh, riguardo a questo, poi, è sicuro che da qui a vent’anni moltissime proposizioni che ora i Revisori delle stampe non lasciano passare,
 si stamperanno. In molti Stati anche d’Italia bisogna rendere giusti
zia al buon Governo che sull’articolo della stampa si è fatta qualche buona riforma; ma in alcuni resta ancora da farsi. Alcuni di questi Revisori ignoranti per primo principio, sfrontati e impostori poi per conseguenza, pajono vere sentinelle poste e assoldate dalla barbarie 
per dare il chi va là al senso comune e far disperare un giovane autore che cerchi d’avventurare i suoi pensieri al giudizio del pubblico. Io so d’un giovane che portò con buona grazia, accompagnato anche da qualche timidezza, naturale in un giovane sensibile, il suo manoscritto 
ad un Revisore. Il Revisore lo vide entrare nella sua cella, e senza muoversi dal suo seggiolone magistrale dove se ne giaceva, squadrollo da capo a piedi, e con sovracciglio increspato e duro, che vuole?, gl’intimò con voce imperiosa, facendogli sentire la distanza infinita che passa fra chi rivede e chi si fa rivedere. Il giovane cortesemente gli dice che era venuto a dargli l’incomodo di rivedere un suo manoscritto per la stampa. Seccature, replicò il benigno Revisore, sempre a rompermi il capo. Prende le carte, se le ripone dispettosamente da un canto, poi dice al giovane che si lasci vedere poi. Fa passeggiare varj giorni il giovane prima di dargli riscontro. Finalmente gli dà retta. Signore, vi son delle magagne, ed io non posso passare il libro. Mi faccia la cortesia di mostrarmele, che son pronto a cambiar quello che non approva. Oh, sarebbe cosa da non finirla mai più, da capo a fondo v’è dell’impiccio. Ma pure? Veda, veda, qui dice vi scongiuro, scongiurare non va bene. Signor Revisore, perchè mai non potrassi dire, come qui dice, vi scongiuro a pensar bene a’ casi vostri? Perchè non si può assolutamente, Signor mio, bisogna ch’ella impari che scongiurare è cosa che concerne gli spiriti o infernali o aerei. Ebbene, dirò dunque vi prego in vece di vi scongiuro. – Veda, veda, dappertutto saltan fuori; a pagina 18 dice: ho uno scrupolo, questo significa profanare l’ascetica. Ebbene, mutiamolo, scriverò ho un dubbio. – Dubbio piuttosto. Veda, veda, due pagine dopo, parlando del Dottor Goldoni, nomina Pamela e Moliere, è pieno di cose che non posson correre. Ma perchè, Sig.r Revisore, non potrò io nominare due commedie del Dottor Goldoni, la Pamela e il Moliere? – Crede lei ch’io sia obbligato a renderle questi conti? Pamela e Moliere le dico che non vanno bene, e voglio anche dirlene il perchè. Pamela è un romanzo Inglese proibito e Moliere è un autor Francese che si proibirà. Ma io non parlo nè del romanzo Inglese nè dell’autor Francese, ma sibbene di due commedie del Goldoni, le quali s’intitolano una Pamela e l’altra Moliere, e sono state rappresentate con questi nomi per tutta l’Italia. Ebbene, ella nomini due altre commedie. Ma se queste son quelle appunto ch’io debbo accennare per indicare delle prime rappresentate
 ed applaudite senza le maschere italiane! Pamela e Moliere le dico che non posson correre, o le cambj o non le passo. E così tornossene a casa il buon giovane, maledicendo la fatica che aveva fatta, scoraggiato dallo scrivere mai più: non era nè ricco, nè assistito da alcuno che potesse dire la sua ragione o fargli stampar altrove l’opera sua, che altronde non mancava d’essere scritta bene; egli col primo applauso avrebbe seguitato naturalmente la carriera, si sarebbe fatto un uomo di merito; si è dato in vece all’ozio, a civettar colle donne, ed a quel punto ha terminati i suoi progressi. Io so altri casi ne’ quali si è ricusato il permesso di stampare un manoscritto prima di vederlo, unicamente perchè era una apologia d’un tale autore. Io so altri casi ne’ quali si 
è fatta rappresaglia d’un manoscritto presentato con buona fede e si è ricusato di renderlo al suo autore, e questi fatti non sono chimere, sono accaduti con mia scienza. Ma non se ne parla di moltissimi consimili che occorrono, perchè i giovani capaci di farsi un nome nelle lettere, per lo più, prima di farselo, son poveri figlj di famiglia che vivono segregati dalla società ne’ loro studj, che sono modesti e timidi nelle cose della vita: sono stretti dovunque dalle circostanze, le quali bene spesso, anche nella propria famiglia, danno ad essi dei nemici, onde non hanno mezzo da apellarsene, nè probabilità di essere ascoltati, nè modo di darne almeno notizia al pubblico e far valere il loro buon diritto. Io però ho voluto lasciar correre la penna anche su questo articolo, acciocchè, se mai questo mio libro giungesse nelle mani
 di chi ha influenza sul destino degli uomini, veda e conosca quante vessazioni e quanti crudelissimi ostacoli attornino un giovane che cominci la carriera d’essere glorioso e utile alla sua Patria, e vi pensi e risolva come gli suggerisce il suo amore per la coltura del suo Paese. I Revisori illuminati e discreti sono un bene, anzi sono uomini necessarj dovunque vi sieno buone leggi, poichè colla moltiplicazione che 
la stampa fa dei scritti non si offendano le cose venerabili o il costume 
o la fama dei cittadini; ma l’abuso e il dispotico capriccioso giudizio sono un male insigne per ogni verso. Molti lumi e molta urbanità vi vuole per far bene questo mestiere, e non bisogna escludere che le cose che apertamente offendono i tre oggetti da rispettarsi; altrimenti, che ne accade? Avvilite e soffocate gl’ingegni del vostro paese: muojon di fame i vostri stampatori, che son pure artigiani da incoraggiarsi e prottegersi, perchè colla loro manifattura vi portano denaro o v’impediscano che ne esca, e date l’utile ai stampatori forastieri, ai quali i nazionali manderanno, potendolo, i loro scritti; e tutto ciò senza potere impedire che entrino poi nello Stato queste naturali produzioni del vostro suolo manufatte dal forastiere, e si spargano e si leggano da chiunque; ed anche questa verità me la lascio scappar di mano per ora, e da qui a vent’anni Marco Porzio Catone dice che s’intenderà comunemente, perchè i pregiudizj vecchj valgon meno delle verità nuove, e di fatti Cleopatra piacque a Cesare, piacque a Marc’Antonio, e ad Augusto non piacque. Gli storici ci vengon a dire che questo si fu un tratto della somma virtù di Augusto, ed io vi dico che la cosa è chiara, perchè Cesare e Marc’Antonio la conobbero prima, ed Augusto la conobbe che già cominciava la Signora ad invecchiarsi, onde la virtù del Sig.r Augusto è in ragione inversa della età, la quale ragion inversa non vuol dir altro se non che più cresce l’età d’una donna e meno virtù vi vuole per resistere. Anche i matematici che voglion passare per tanto semplici e schietti hanno, ne’ loro termini, la loro brava impostura. Ora, se gli storici entrassero un po’ nel midollo delle cose, credete voi che ci avrebbero vantato tanto il distacco d’Augusto da quella vecchia strega? Quanti avvenimenti, i più cospicui, i più eroici, i più magnificati della storia, i quali dagli scrittori si attribuiscono alla più raffinata penetrazione, sono in realtà l’efetto di qualche muscolo o rilasciato o elastico?

E qui lascerò luogo al mio Sig.r Taddeo, che dovrà commentare questo libro, siccome di sopra ho detto, di farvi una nota ben lunga ab enumeratione partium dei casi diversi ne’ quali i grandi avvenimen
ti delle nazioni sono nati da questi principj. Io non ho voglia di farlo, perchè bisogna lasciare che il benigno Lettore faccia qualche cosa anch’esso, e bisogna con un libro cercare di fare schiudere anco i pensieri altrui, se vogliamo che il Lettore sia contento dell’opera nostra. Il fatto si è che Seneca si divertiva un giorno in un prato a prender grilli con una paglietta industriosamente. Sa ognuno che quel ipocrito predicava una virtù che di fatti non seguiva, e con tanto orribili colori la dipingeva, che se non vi fosse al mondo altra virtù che quella di Seneca, sarebbe difficile che alcuno la potesse amare. Sa ognuno altresì
 che Seneca in faccia al pubblico mostrava un contegno grave e maestoso, ma sa ognuno pure che in privato si dilettava della caccia de’ grilli, e di ciò ne son pieni gli autori. Un giorno adunque il Signor Seneca, stuzzicando un povero grillo, stava aspettando perchè uscisse dalla tana; venne il grillo, ed affacciatosi alla finestra: Servitor riverente al Sig.r Seneca, disse, che buon vento? Che vuol ella da me? Che voglio, rispose Seneca. Voglio che tu mi renda il mio onore, o che tu 
mi sposi in quest’istante o che io con questa spada ti cavo un occhio.
 A questa vigorosa proposizione prese tanto sdegno il grillo che lasciò piombare una pignatta di brodo sul cranio al Signor Seneca, il quale,
 così mal concio com’era, prese un po’ d’aceto, spaccò una montagna e 
se ne ritornò a casa sua. Ma queste non le son cose da scriversi in un libro, queste sono pazzie, vaniloquj da contare ai bamboli… Bel bello, Lettor mio, bel bello, che io vi posso provare che la vostra sentenza che così precipitevolmente mi date è ingiusta, perchè vi sosterò e vi proverò che in molti libri che e voi e tutto il genere umano stima e onora vi si trovan delle cose tanto credibili quanto la mia di Seneca col grillo, dette seriamente, ripetute con riverenza e adottate comunemente senza tanti strepiti, onde non avete ragione alcuna di prendervela con me più che con altri. Quando degli autori vi vengono a raccontare sul sodo che i buoi o altre bestie hanno parlato, quando gli storici vi vengono a dire che Annibale fece un’insalata sulle Alpi e coll’insalata potè passarle, che le Vestali portavano l’acqua ne’ vagli, che cadevano gli scudi in Roma dal Cielo, vi domando io, in coscienza vostra, se vi dicasi meno di quello che io vi ho voluto dire? Ed anche in questo luogo, crediatemi pure che taglio assai per prudenza, cioè per quel timore cadente in un uomo costante del quale ho dissopra detto quello che m’occorreva; peraltro avrei delle belle cose da dirvi. È vero ch’io non sono Padovano, ma, anche senza esserlo, pretendo d’avere tanto dritto di scrivere sulla carta quanto ne aveva Livio di scrivere sul papyro. Ognuno spaccia la mercanzia propria, v’è un mercato fra gli uomini di errori, di opinioni, di fanatismi che compriamo e vendiamo incessantemente assai più che non facciamo il pane ed il vino: rare volte si parlano due uomini che non corra nel dialogo qualche commercio di questa mercanzia; piantati che siano poi bene nella moltitudine questi principj da qualche singolare combinazione, entra la forza d’inertia a ritenerlo, a perpetuarlo. Ne siano testimonio gli Ebrei, miei stimatissimi e riveritissimi padroni. Costo
ro non l’hanno mai perdonata al Signor Aman, primo ministro di Sua Maestà Persiana alcuni secoli fa; una volta l’anno celebrano essi una solennità in cui si legge di rito il sacro libro di Esder, ed ogni volta che
 ivi si nomina Aman batton de’ piedi, schiammazzano e gridano pera
 la memoria di lui, dalla qual funzione ne nasce giudiziosissimamente 
che non vi può mai essere memoria più ben conservata che questa appunto di Aman, di cui tutti gli Ebrei in perpetuo sapranno il nome,
 se non riformano la solennità. Moltissime volte gli stabilimenti umani, fatti esaminando l’oggetto da un canto solo, ottengono un fine precisamente opposto a quello che s’è voluto. Un Legislatore va quasi sempre male quando va dritto; mi spiego: quando un Legislatore vuol rimediare a un disordine e colla legge piomba adosso immediatamente a quel disordine, è fuori di strada; bisogna andare alla cagione e conoscerla, poichè l’immediata cagione spesse volte è un effetto, e molte e molte generazioni si trovano in politica, onde bisogna con molta sagacità indagare lo stipite d’onde deriva il disordine e collà spingere dritto la legge. Nei paesi floridi gli uomini vanno dritto e le leggi vanno oblique; ne’ paesi corrotti vanno in vece obliquamente gli uomini e dritto le leggi; e poi la corteccia degli oggetti è quella che per lo più sola percuote, l’interno ben molte volte si dimentica per l’apparenza. Vedetene un esempio sul vestito militare. Se v’è cosa che certamente sia essenziale ad uno Stato si è la propria sicurezza dalle esterne invasioni: a questa son destinati i soldati, dunque è massimo oggetto quello di preparare il soldato alla più pronta e valida maniera di combattere. Posto ciò, osservate i Granatieri: sono essi il fiore dell’esercito, i più vigorosi e intrapprendenti guerrieri trascelti dall’armata. Si pone sul loro capo un pan di zucchero di pelo d’orso, il quale, se si abbassano cade per terra, se viene una sciabolata la lascia passare felicissimamente al cranio, se viene la pioggia ne inzuppa tutto il capo del povero granatiere. Gli si cinge il collo con uno strettore che impedisce la circolazione libera del sangue; un abito gli si pone indosso colle maniche strette, per modo che con difficoltà muove le braccia; sopra quest’abito gli si addossa una fascia di cuojo che diagonalmente lo cinge come il Zodiaco, e a questa fascia di cuojo sta appesa e appoggiata su i lombi una enorme scattola coperta di cuojo e di ottone, affine di riporvi trentasei cariche di fucile, delle quali il peso sarebbe insensibile se fossero riposte in un recipiente proporzionato e aderente alla cintura. Nella azione, colla premura e moto in cui si trova il soldato, ora questa scattola gli sta sul fianco, ora su i lombi, e perde tempo e fatica a ritrovar le cariche. Due vincoli ha alla cintura il povero granatiere: i calzoni e la bajonetta; tre vincoli ha al ginocchio, e nella marcia moltissimo l’impicciano. Il Maresciallo di Sassonia tutti questi errori gli ha veduti, e ne’ Sogni, stampati col suo nome, vi sono cento cose eccellenti e per vestire e per attendere e per cavalcare meglio, più comodamente, più ragionevolmente, più conformemente al fine a cui è destinato il militare. Se si vestissero i soldati com’egli propone, costerebbe meno, soffrirebbe meno, perirebbe meno, marcierebbe più un reggimento di quello che ora accade e sarebbe più lesto nella battaglia; ma quell’esterna apparenza la vince, le verità stanno sempre molto tempo nei libri prima che passino alla massa del genere umano, e se nel secolo presente è più rapido il passaggio all’uman genere, ciò accade perchè credo che giammai ne’ secoli addietro 
vi sia stato tanto numero di uomini che leggessero, e di ciò ne siamo debitori alla stampa, sola invenzione che ha moltiplicato i libri e resi 
di facile acquisto. La stampa, le poste e l’ago magnetico hanno data una nuova forma all’Europa; ora siamo una sola nazione divisa in più provincie: una incessante comunicazione rende concittadini tutti gli uomini che pensano, come tutti gli uomini che commerciano da una estremità all’altra, e tutte le forze conspirano a condurci alla coltura, checchè ne dicano tanti accozzatori di parole, de’ quali mi viene, ovvero mi cade, in acconcio di favellare, o per dir meglio di ragionare, e sono quegli accademici che cadendo in errore, o vogliam dire travviamento, agognano, ossia vorrebbero, pure che il mondo restasse, ed oserei dire invecchiasse, qual è, e si spegnessero, se tanto è possibile, quelle scintille, forza è pur ch’io il dica, di luce, le quali, se mal non m’appongo, brillano a dir vero agli occhj di molti, e questo è appunto lo stile d’uno schiavo ammaccato sotto il giogo, che trema nell’annonziarti le sue idee e ti domanda perdono umilissimo ad ogni tratto di quello che ti vuol dire. Chiunque ha questa schiavitù, questa spossatezza nell’animo, impari a dipingere in miniatura, faccia una raccolta di farfallette di bei colori, coltivi un giardino d’anemoni e di gionchiglie, ma non abbia mai la malinconia di fare lo scrittore nè in prosa nè in versi.

Oh i versi, gli abbiamo giusto nominati approposito. Che vitupero è questo mai che in questo secolo ha preso voga per l’Italia col nome di poesia berniesca? Cos’è poesia? La poesia è una fortissima eloquenza che dipinge al vivo gli oggetti, e li anima e li combina con impensate unioni, opera d’una libera e vivacissima immaginazione. La poesia dunque può darsi anche senza il metro, nè potrà trovarsi giammai se non in un’anima sollevata oltre il comune livello degli uomini, e capace di quel divino entusiasmo e di quella calda pazzia con cui un uomo può fare illusione a se medesimo e destarsi fattizj sentimenti, fattizj oggetti e passioni fattizie. Questa è la poesia che è stata divisata col cavallo che vola, e se sul dorso di quell’alato destriero non siede Filosofia che reggalo al corso, tu lo vedi errare ne’ suoi voli incerti, e nascerne sogni e larve che in vano cercheranno i poeti di giustificare agli occhj de’ ragionatori. Questa poesia riceve una grazia poi mirabile dal metro, e sia efetto di educazione nostra, sia un secreto sentimento di riconoscenza per la difficoltà superata, ancora una maggior grazia ottiene colla rima. Posto ciò, cosa saranno i poeti bernieschi? Saranno poeti che non sono poeti. Saranno fabbricatori di versi e trovatori di rime, e il lor mestiero sarà tanto nobile e sublime quanto lo è quello di far bisticci, anagrammi, acrostici e di combinare le sillabe in ogni altra prescritta maniera. Ma dirà taluno: hanno il merito della facilità, della naturalezza, e per questo piacciono. Dico io: cosa vi dicono ne’ loro scritti? Stringete: non v’è una idea per lo più che valga la carta che sporcano. E voi stimate chi facilmente dice dei nulla, chi naturalmente lascia andare quel che vien viene? Ma sapete che ogni galantuomo avrebbe vergogna di questa facilità che voi vantate tanto? Credete voi che sia un dono del Cielo tanto raro lo scrivere sì fattamente dei versi? Eccovene che ve ne regalo subito subito:

Un dopo pranzo, dopo aver pranzato,
Mentre faceva la digestione
Io me ne stava sul letto sdrajato,
Perchè dopo pranzato in conclusione
È sempre cosa buona il riposare
Per quanto me ne dicon le persone,
Nè si corre pericol da ammalare,
D’avere o mal di capo o mal di gola,
Senza de’ quali meglio si può stare.
E questa cosa l’ho imparata a scuola
E avrei ben spesa tutta la fatica
S’anco imparata avessi questa sola.
Io lascio che ciascun quel che vuol dica,
Lascio che vada…

E così ti fanno dei libri e più volumi talvolta. Gran bella facilità! Grande naturalezza! Gridate meglio, paesani miei, grande impudenza! Gran melensagine! Qual maraviglia v’è mai che le scioccherie si facciano e si scrivano facilmente! La maraviglia si è che vi sia chi regga ad ascoltarle, a leggerle, ad applaudirle! E saran costoro poeti? E costoro, ai quali scorre il brodo di pollo per le vene, oseranno nominare le sacre parole: estro, voli, fantasia? E costoro s’usurperanno una scranna nella famiglia poetica e pretenderanno di servir di modello del buon poetare! Oh Italia mia, augusta Italia, madre cultrice, maestra delle belle cose! Oh mia dolce Patria, costoro, costoro sono i tuoi ferocissimi Longobardi, deturpatori del tuo splendore! Oh Frugoni, Metastasio, Bettinelli, Algarotti, Mozzi; oh Italiani benemeriti della nazione e benemeriti della poesia! Deh, non dormite all’ombre de’ vostri allori, vi calga della gloria d’Italia, e dopo averla accresciuta colle opere vostre piene di poesia, salvatela, combattendo quella scempiata maniera di poetare che l’impotenza d’alcuni vorrebbe pur mettere in voga, versus inopes rerum nugaæque canoræ. Stampatori d’Italia, ristampate, moltiplicate gli esemplari delle Lettere di Virgilio agli Arcadi, ristampate, moltiplicate le Dodici lettere Inglesi. Scrittori tutti che odiate la barbarie, gridate meco e gridate ad alta voce: fuori, fuori dalle belle arti, scioperati poetastri, insulsissimi verseggiatori; a far scarpe, a far calze, alla marra, alla marra, ma non a sporcare, ad infangare la poesia nostra ed a farla arossire in faccia ai Voltaire, ai Gresset, ai Pirron, ai Milton, ai Pope, ai Haller, ai Gesner e a quanti gentili ingegni produce l’Europa! Fate un fascio di tutte le poesie imitatrici del Berni, fatene incartar le sardelle, le anguille e i baccalà: non sono esse fatte che per i cibi quaresimali; fuori, fuori, poetastri guasta mestiero!

Dappoichè l’uman genere prese la bestiale forma che leggiadramente lo va condecorando anche oggigiorno e che s’inventò la bell’ar
te di comprare gli uomini negri del Senegal a cinquanta scudi l’u
no, per fargli poi vezzosamente lavorare ai zuccheri in America, cosa conformissima alla umanità, che ci ordina di non mangiar fragole senza zucchero; vanno ogni anno perendo di naufragi, di scorbuto e d’altre malatie varie migliaja d’uomini per andare e venire dall’America all’Europa. Dappoichè per ben dodici milioni d’uomini si sono scannati da noi nell’America Meridionale per insegnare a quella gente
a leggere e scrivere, noi prendiamo il cioccolatte che non avevamo prima che si scannassero questi dodici milioni di Americani. È stato egli un bene per l’Europa il far conquiste in America? Valeva anche la spesa d’esterminarvi delle intere Nazioni inermi? Le Colonie che vi abbiamo traspiantate conserveranno esse sempre il cuore Europeo anche dopo molte generazioni? Sarà egli sperabile che soffrino sempre con rassegnazione la dipendenza da stati tanto rimoti? È egli stato un buon contratto privarci di tante famiglie, colà trasportate, nel tempo che in Europa abbiamo tanti paesi tuttora incolti per mancanza di uomini? Il caccao, la vaniglia e una nuova quantità di zucchero e di legni da tingere ci rifanno essi abbastanza delle perdite fatte e di quelle che ogni anno facciamo de’ nostri Europei? La soluzione di questo problema dipende assolutamente dal vedere cosa valutiamo il cioccolatte. Io, che il ciocolatte lo valuto poco e che preferisco il caffè, sono di parere che, se tutt’in un momento noi perdiamo le carte nautiche d’America, cosicchè nessuno vi sappia più andare nè alcuno più di colà venire in Europa, sarà quello un momento assai più fausto per il genere umano di quell’altro momento in cui Colombo s’imbarcò per farne la scoperta. Nè questo vi sembri contradditorio colle lodi che dissopra ho date a Colombo.

Io non vi ho presentato Colombo come un uomo benefico, ma sibbene come un grand’uomo. Per intenderci, definiamo: cosa è grand’uomo? Il grand’uomo è quello che supera grandi ostacoli per fare una grande rivoluzione: così Alessandro, così Cesare, così Maometto, così Gengiskan sono grandi uomini, sebbene abbiano fatto 
più male assai che bene al genere umano; per questa parte meriterebbero più la detestazione della società che la gloria, e in questo caso è Colombo; ma siccome tutte queste anime straordinariamente energiche e ambiziose di vasti oggetti devono avere per costruzione somma generosità, nobiltà di sentimenti, elevazione, magnanimità, le virtù in somma dell’eroe, così i contemporanei gli hanno ammirati senza orrore ed hanno perdonato i sommi mali che facevano in massa per
 le beneficenze che parzialmente usarono. Colombo poi non si sa che abbia versato il sangue dei poveri Americani, nè poteva egli prevede
re l’abuso che sarebbesi fatto della scoperta fatta da lui. A leggere la storia di quelle conquiste, a vedere come ci rappresenta il Vescovo di Chiappa le cose come sono andate, si sente la natura a rivoltarsi contro propriamente. Io non so, qualche volta l’uomo mi pare un animale crudele. Se si va a impiccare un disgraziato, vedo in folla la gente che corre per contemplare comodamente l’estrema miseria di quel uomo. Taluni credono di far prova di coraggio coll’assistere a quest’orrore. Coraggio! Ma qual pericolo correte voi, per dire di mostrar coraggio? Starvene in ogni sicurezza a vedere annodare al collo d’un infelice legato, squallido, palpitante un laccio, strozzarlo, calpestarlo, slogarli l’osso del collo! Che insensibilità, che crudeltà è mai la vostra di andare per vostra scelta a sì disumano spettacolo! Vuoi tu mostrare coraggio? Difendi valorosamente il tuo Sovrano quando per salute della Patria è costretto a muover le armi: là, in faccia ad una batteria, fra lo strepito di globi di ferro che ti fischiano d’intorno, scagliati contro a quelle voragini, sbaraglia i custodi di quegli ordigni fatali e piantavi il primo vessillo. Vuoi tu mostrare coraggio? Corri laddove il fuoco minaccia rovina alle case de’ tuoi cittadini, ivi avventurati, salva la vita e la roba degl’infelici e meritati qualche lagrima di ringraziamento. Vuoi tu mostrare coraggio? Ardisci, anche colle sole parole, di sostenere la causa della verità in faccia a chi la tradisce, ardisci difendere il merito oppresso, contradire al maldicente autorevole, giustificare l’uomo di onore abbandonato; ma l’essere tranquilli spettatori d’un uomo avvilito, oppresso, legato, agonizante, divenuto bue da macello, è questa prova di coraggio? Uomini, uomini, siete allora uomini ovvero siete ostriche o lumache?

Io amo gli spettacoli che mi divertono, amo gli spettacoli che eccitano nel mio cuore una dolce emozione. Il nostro illustre Goldoni
 ce ne ha dati di tal sorta, e singolarmente nelle sue commedie Veneziane ci ha fatto gustare de’ capi d’opera di maestria comica: ivi tutto è vero, tutto è buono, malgrado gli emoli suoi ha delle commedie che passeranno alla posterità dopo che non si saprà più nemmeno il nome
 de’ suoi indiscreti critici. È un comico che ha fatto molto onore alla Italia. Ma Goldoni dov’è? È in Francia. In Francia, Italiani miei, un sì benemerito nostro paesano! E la Francia offre un più liberale e comodo ricovero ad un ingegno Italiano che non l’Italia! Oh, se in vece di far io questo libro avessi forza per comandare a chi fa i libri, Goldoni illustre, tu viveresti in Italia tanto bene che non ti verrebbe voglia di stabilirti altrove. Io ho conosciuto degli uomini convertiti al bene dalle commedie sue: egli ha saputo invitare gli uomini ad esser buoni. Bisogna nella commedia prender di mira alcuni difetti e lasciarne alcuni altri per bene. Mi spiego. Vuoi tu mettere sulla scena in dilegio un avaro? Se hai voglia soltanto di far ridere va benissimo; ma se pensi di convertire l’avaro perdi il tempo. L’avaro veramente comico e ridicolo non spenderà il paolo per la porta del teatro, non vengon mai al teatro gli avari sordidi, e la predica la fai senza ascoltatore. Se vuoi mettere sulla scena il bruttale, il rustico, farrai ridere, ma nessuno di quei che sono nel caso si compiace mai d’ascoltare la commedia. Bisogna prendere di mira i vizj sociali e que’ vizj che si trovano nell’uditore. Io ho veduto un maldicente di professione corretto alla commedia del Caffè; così i sentimenti di famiglia, l’amorevolezza fra padre e figlio, fra moglie e marito, quei sacri e dolci nodi di famiglia che hanno la massima parte d’influenza sulla felicità umana, quanto caramente li colora e li rende amabili il Goldoni! La virtù sempre in trionfo, sempre onorata. In somma, molte commedie sue son mediocri, alcune anche son meno, ma talune, massimamente le scritte in Veneziano, sono capi d’opera, e in tutte generalmente v’è sempre qualche penellata da maestro; e quando Goldoni vuole che l’uditore stia attento lo sa far stare, quando vuole che pianga lo sa far piangere, e lo sbadiglio non si vede mai, se non in quelle scene nelle quali ei medesimo avrà sbadigliato scrivendole. Lo sbadiglio nasce sempre dalla distanza che passa fra l’autore e chi legge o l’uditore e chi parla: se con un esatto quadrante si esaminasse l’ampiezza dello sbadiglio e il grado dell’angolo di ognuno di essi, sarebbevi la scala diattonica per integrare la x, cioè la quantità per cui distano l’agente e il paziente; onde, data la elevazione della testa di uno dei due, si saprebbe che l’altro è più in su o più abbasso di tanto quanto fosse riconosciuto essere lo sbadiglio; poichè uno stolido è tanto distante da un uomo che abbia principj come questo da quello, ed essendovi disanalogia fra le idee dei due, sono strane le idee dell’uno all’altro egualmente.

Perciò non vi è uomo sulla terra il quale non possa avere un circolo in cui sia stimato, un altro in cui sia disprezzato, un circolo in cui paja amabile, un altro in cui paja pesantissimo alla società; tutto sta, Signori miei, a saper sciegliere bene il suo nido, e quando ci troviamo in un circolo nel quale ci stiamo a disagio, cavarcene con buona maniera. Nella società degli uomini è facilissimo lo starvi bene se scegli quella che fa per te; è difficilissimo a starvi bene se scegli male. Io non vi trovo mai piacere a stare in una compagnia se la mia anima non vi sta tanto comoda come le mie membra in un vestito ben fatto; subito che vedo che debbo avere dello spirito e che se ne pretende da me, non me ne resta più un soffio: le pazzie, le riflessioni, se non nascono naturalmente sul momento dalla feracità naturale della testa, non valgono. Alcuni si tormentano per mostrare dello spirito, si apparecchiano per la conversazione, per la strada ripetono la loro lezione, portano la loro valigia col tal fattarello da raccontare colla tal riflessione da farvi sopra, e se v’è un uomo un po’ accorto, s’avvede subito che è roba preparata come alcuni giuochi di bussolotti. Questi tali uomini di spirito di mestiere per lo più non ne hanno moltissimo, e sono come le donne che si danno il bianco: ti sorprendono al primo aspetto, poi ti piaccion meno di quelle che hanno la pelle naturale, per poco che abbiano una fisonomia che abbia grazia. Val più un tratto di cuore, una sortita nata sul luogo, una riflessione passagiera per dare grazia ad una conversazione che tutto lo stento e lo sforzo di accozzar provvisione di spirito e portarvelo poi rancido da spacciare, facendovi stentatamente la strada. Vi è la sua architettura gotica anche in questo, cioè l’abuso degli ornati. Ma questo male della vita socievole è rarissimo e si trova soltanto nelle compagnie più scelte; l’arte massima di viver bene nel
le compagnie si è d’accontentare delicatamente l’amor proprio degli
 altri e mostrare di avere spirito bastante per valutare tutto quello che 
si dice di buono, senza curarsi mai di dire meglio. Questa è la grande 
arte degli uomini che aspirano al titolo di amabili; ma voi vedete qual merletto di sottilissime fila tocchi loro a tessere: alcune compagnie di queste più raffinate sono una unione di finissimi cortigiani ai quali manca il Monarca che almeno gli premj di tanta fatica. Questo non è il mio cerchio, io voglio dunque che la decenza e la bontà sieno l’unica qualità caratteristica di quel cerchio nel quale vivo, se viene dello spirito è sempre il ben venuto, ma non si va mai a cercarlo: alcune volte si pensa, alcune si delira, siamo tutti onesti amici, si ride tutte le volte ma senza animosità, si canta, si suona, si legge, si dice liberamente il proprio parere, e questo è il cerchio nel quale facilissimamente vivo. Perchè? Perchè io sono analogo agli altri e gli altri a me. Perciò, se nelle grandi adunanze ciascuno volesse sinceramente dire quello che sente, la noja, il tedio e l’amarezza si vedrebbe che sono i veri sentimenti universali; ma pochi osano dirlo, perchè credono che ogni persona gentile goda delle grandi feste e temono di mostrarsi rozzi e di cattivo senso se manifestano di non provarne contento; perciò vedi sparsa un’allegrezza stentata e mascherata su i volti dei più, onde ogni individuo, credendo veramente che gli altri tutti godano, teme di passare per un misantropo se non mostra di godere altrettanto. Da qui a vent’anni io pure predico che di grandissime adunanze non se ne faranno più tante, e gli uomini e le Dame si soddivideranno in piccoli crocchi, livellandosi ciascuno al posto suo; conseguentemente da qui a vent’anni il genere umano si seccherà meno nelle conversazioni, nelle quali da più secoli si va per ritrovarvi piacere e si ritorna col tedio o il fiele nel cuore.

Molte sere poi io me la passo bene anche solo, o leggo o scrivo o penso, anzi mi piace assai alternare la solitudine e la buona società: una dà risalto all’altra. Un autore che se ne sta solo colle sue idee scrivendole passa delle ore deliziose, ed io per esempio, se non fosse così, non seguiterei a scrivere questo libro. Ciascuno poi scrive sopra quell’argomento che gli dà più piacere. Un letterato fra gli altri scriveva sopra la costruzione delle mine, tre anni d’esperienze v’impiegò ed ha trovato l’arte di far balzare in aria comodamente due mila e cinquecento uomini in un colpo solo con appena cinquanta barili di polvere, il che è una economia prodigiosa e un beneficio insigne fatto, come vedete, al genere umano; quello che mi fece più specie poi si fu il vedere che quel rettificatore delle mine mi pregò che gli chiudessi i vetri della finestra, perchè temeva che l’aria umida della notte non gli cagionasse qualche flussione agli occhj. Oh vita mia, e sarà vero che mentre un uomo tranquillamente medita ed analiza il metodo per fracassare duemila e cinquecento cranj, braccia e gambe in un sol colpo, abbia pensiero della flussione agli occhj? Ne’ tempi nostri l’arte della guerra è una scienza che si tratta ne’ libri colla più esatta precisione: v’è il metodo di scannarci in linea dritta appuntino esposto colla massima delicatezza dell’umana ragione. V’è il modo descritto per fare una colonna composta di tre o quattro mila eroi i quali, per la generosa ricompensa di sei soldi al giorno e alcune poche bastonate, vanno bravamente a infoderare le bajonette nel mesenterio
 di altri eroi. V’è calcolata ingegnosissimamente la curva che deve descrivere la bomba, la quale, osservando la legge delle parabole, passa 
dal mortajo sul tetto d’un cittadino e lo sfonda, e discende con moto accellerato per numeri dispari nella stanza dove un povero uomo che non ha mai fatto torto a nessuno se ne sta colla povera sua moglie ed 
un bambino allattante, ed ivi, obbedendo alle leggi fisiche, scoppia e fracassa e uccide e storpia la famiglia ignorante che non ha mai saputo altro che far bene. V’è su i libri l’arte di gettar le cannonate con tale maestria che il globo di ferro ribalzi conservando sempre angoli di riflessione eguali a quelli d’incidenza, e vada sfiorando a chi la testa, 
a chi la coscia, a chi il braccio, spargendo le membra amputate degli eroi. Mi pare cosa strana come tranquillamente un uomo possa al suo tavolo scrivere e meditare per raffinar tanto sulla maniera di ammazza
re con poca spesa e maggiore abbondanza i nostri fratelli. Per poco che la cosa si perfezioni, io sto a vedere che si facciano venire da America 
i serpenti caudisoni, e se ne carichino i cannoni e si giunga a gettare
 le serpentate fra gli uomini nemici.

Chi espone la sua vita per difesa del Sovrano e della Patria fa nascere quel sentimento di stima che chiamasi l’onore, e se lo merita: ma
 chi fa il soldato di mestiero e va scorrendo di qua e di là per la terra, cercando di battersi ora per un Principe ora per un altro, e vive faccendola da sgherro ossia chirurgo delle Nazioni per liti non sue, non so capire come possa meritarsi quello che chiamasi onore. La guerra 
è un male insigne della specie nostra, molti animali hanno più giudizio di noi e nessuno, ch’io sappia, uguaglia la ferocia nostra per distruggersi! L’onore è dovuto alla probità, alla beneficenza, alla bontà del cuore ed alle azioni utili alla umanità. Cittadini che difendete la Patria bravamente, sudditi che difendete bravamente il legittimo Sovrano, che fate professione di difenderlo, siete degni di ogni lode e di ogni onore. Ma, uomini, non raffinate tanto industriosamente l’arte infernale di inzuppare la terra di sangue umano, e se temete la flussion d’occhi, temete anche i rimproveri della umanità propter quod unumquodque tale et illud magis: il che vuol dire, secondo le scuole, che nella cagione vi è sempre di più di quello che v’è nell’effetto. Per esempio, se uno è addolorato per un bastone cadutogli sulle spalle, il bastone deve necessariamente essere più addolorato di lui, perchè non vi può essere nell’efetto cosa che non sia nella cagione: nel bastonato vi è dolore, dunque il bastone ha del dolore perchè il bastone dà dolore. Nemo dat quod non habet, ergo il bastone ha dolore. Sapete pure, Lettor mio, che vi sono dei trattati in questo mondo lavorati e ragionati presso poco come ora ho fatto io, e sapete altresì che quegli uomini fortunatissimi che hanno saputo ragionare così bene sono stati generosissimamente ricompensati. Bulghero e Martino, celeberrimi ragionatori su questo gusto, erano carissimi all’Imperatore Federico e gli ammetteva all’onore di cavalcare con lui. Un giorno questi due famosissimi Dottori disputarono se il mondo fosse tutto quanto dell’Imperatore… o no… m’inganno… che il mondo fosse tutto quanto dell’Imperatore era già cosa chiara e decisa; disputavano se fosse tutto il mondo solamente dell’Imperatore in proprietà ovvero se oltre la proprietà vi avesse anche l’usufrutto. Bulghero era d’un parere, Martino era d’un altro parere, io sono d’un terzo parere, che il mondo sia di chi lo ha fatto e che nel mondo comandi più chi ha più numero di persone persuase che è giusto che comandi. Si dice sempre che comanda il più forte e si dice bene, ma andiamo un passo più in là.

Chi è il più forte? Colui che ha maggior numero d’uomini persuasi che è bene il difenderlo: la opinione è la direttrice della forza. Perchè un governo si mantenga, vi vuole una data quantità di opinione: se questa universalmente è sparsa su i membri tutti dello Stato, non vi è più bisogno di milizia per contenere il sistema internamente. Se poi poca opinione v’è disseminata nei membri, bisogna che tanta opinione sia condensata nella milizia quanta supplisca al difetto comune. Per conciliarsi questa comune opinione, quasi tutti i fondatori de’ vasti Imperj persuasero al popolo che la Divinità ordinava l’ubbidienza ad essi: Alessandro, figlio di Giove; Numa e Romolo, l’uno amico d’Egeria, l’altro figlio di Marte; Maometto, Profeta di Dio; tutti cercarono d’interessare le sacre opinioni dei popoli in favor loro. Cesare fece parlare i Libri Sibillini, Carlomagno non dimenticò di coprire con manto sacro l’ambizione: in somma, quasi tutti i fondatori di grandi Stati conobbero che l’opinione è la regina del mondo e che la opinione più forte è quella che sta appoggiata alle religioni dei popoli, quindi cercarono di render sacro agli occhj degli uomini il loro potere. Ora le opinioni col progresso dei lumi vanno rettificandosi, e sempre più si conoscerà generalmente che il genere umano sparso su questo globo ha dritto di starvi men male che si può, conseguentemente che un Sovrano che fa e cerca la felicità pubblica ha il più legittimo dritto per comandare, ed è fortuna di questo secolo che i Sovrani d’Europa presentemente siano ottimi Principi, i quali di nissun altro titolo si gloriano più quanto di questo, fondato sulla gratitudine e sul
la cordialità de’ loro sudditi. Io lo scrivo schiettamente, vedete bene, Lettor cortese, che in questo mio libro un elogio rettorico sarebbe fuori di luogo, tacerei se non pensassi così; informatevi voi medesimo delle Corti e di chi ha conosciuto da vicino i Sovrani di questo secolo, 
e i vivi e quei che non lo sono più, e vedrete che ho ragione: sono umani, sono benefici, amano le arti, proteggono le scienze e i lumi, rimediano a i mali fatti nei secoli passati e generalmente governano
 per il bene dei popoli.

Se volete conoscere se uno Stato diventa più o meno felice, osservate la popolazione: a meno che qualche straordinaria sciagura non 
la distrugga, in un paese ben regolato s’accresce, e sminuisce dove
 sia mal regolato. Dove v’è maggiore facilità di vivere, ivi si fanno più matrimonj. A taluno forse verrà curiosità di sapere se io sia ammogliato o no. Rispondo di no; ma non per questo ho io fatto voto di 
non prender moglie, anzi, se potessi trovare una compagna amabile 
a modo mio, volontieri la sposerei. Vorrei una giovane bellina, non
 già di quelle bellezze superlative che rinchiudono per lo più un’anima 
la quale lascia alla bellezza tutta la briga di farsi voler bene; voglio una fisonomia animata, di quelle che si ravvivano e svengono col moto delle passioni, di quelle bellezze alle quali lo spirito dà la freschezza, di quelle bellezze che passano sotto gli occhi dello stollido senza che se ne avveda; non mi curo che sia ricca, posso onestamente campare col mio e mantenerla lontana dalla povertà; non mi piace nè comprare nè essere comprato, e dei due voglio piuttosto fare io un beneficio alla sposa che riceverlo da lei. La vorrei vivace e sensibile, pronta a fremere al racconto d’una azione malvaggia, pronta a spingere qualche lagrima sul ciglio in vista d’una benefica e nobile azione. Quei colori che si succedono facilmente sul volto sono i più belli che separi il prisma, sono le insegne della virtù. La vorrei generosa, disinteressata, benefica, compassionevole, e le perdonerei tutte le spensieratezze e le vivacità possibili. Quando l’avrò trovata, la sposerò e poi farò nascere un altro autore, gli darò buona educazione e gl’insegnerò a scrivere come faccio io, e da qui a trenta o quarant’anni comparirà il secondo tomo poi di questa mia opera, tanto che rimanga qualch’uno che sappia scrivere un libro con metodo, che una cosa chiami l’altra e vi sia la cotal quasi luce che risplenda dalla convenevolezza delle cose, nel che fa consistere Monsignor della Casa la leggiadria, siccome abbiamo veduto. Insegnerò a mio figlio a scrivere con franchezza e con verità, la modestia va bene, modestia vuol dire aver modo, aver misura, misurare se stesso e non pretendere al di più di quello che ci compete. Ma non vuol già dire avvilimento o falsità, due cose le quali non sono virtù umane. Il gran precetto antico è nosce te ipsum, il che vuol dire esaminati, conosciti, poni le tue buone qualità da una parte, poni le cattive dall’altra, paragona i tuoi crediti co’ tuoi debiti in faccia del genere umano, e poi tranquillamente, cautamente decidi come sei.

Un autore che mi venga a fare il gradasso e che comincia da profeta a scrivere apri questo libro e impara non è nè urbano nè modesto, perchè forse io non avrò nulla da imparare da quel suo libro; ma nemmeno posso io approvare che un autore mi venga a dire cento cose che non pensa ei medesimo sulla tenuità de’ suoi scarsi talenti, sulla piccolezza sua e simili officiosissime falsità colle quali avvilisce se stesso. Se l’autore ha fatto stampare il suo libro, egli ha dunque giudicato se medesimo capace di fare un libro, ed è una ipocrisia da ridere che un uomo, mentre vuol provare che non è un meschino, protesti di credersi un meschino. L’uomo ragionevole quando parla ha un tuono semplice e deciso, quando scrive fa lo stesso, e quando non è capace di fare una cosa in faccia del pubblico, lascia stare di farla. È una contraddizione manifesta il protestarsi di non saper fare una cosa e nel tempo stesso farla spontaneamente; questi sono complimenti musicali: prima di cantare sono sempre rauchi i musici e dopo il trillo sempre si dice bravo dai spettatori, sono cose di convenzione.

Ma io vorrei che fra gli uomini si stabilissero delle altre convenzioni un po’ più interessanti di queste. Ogni paese ha una misura e un peso diverso: qui va a braccio, là a palmo, altrove a canna, altrove a piede, altrove a auna, e questi piedi e queste braccia ecc. sono diversi in ogni paese, anzi talvolta ve ne sono diversi nella stessa città. Questo è un incomodo sterminato per ogni commerciante: perchè non si fa 
una volta una convenzione, almeno fra di noi Europei, di scegliere 
una misura universale e un peso universale? Allora da Napoli a Londra, da Madrid a Pietroburgo, s’intenderebbero gli uomini quando dicessero un braccio o una libra. E a chi costerebbe danno questa convenzione? A nessuno. Che fatica costerebbe? Un foglio di carta in ogni Stato. Se si volesse poi fare anche una convenzione universale di moneta sarebbe pur comoda, ma conosco che questa costerebbe assai più, perchè porterebbe una rifusione universale. Bisognerebbe dividere le monete in oncie, denari e grani: ciascun Principe vi porrebbe il suo impronto, ma dovrebbe ogni oncia contenere realmente un’oncia d’argento fino; vi si aggiunga poi più o meno lega, ciascuno a suo piacere, e l’oro colla proporzione universale coniarlo anch’egli in monete del valore di due oncie d’argento o due e mezzo o tre, come si vuole, ma che fosse sempre una parte aliquota della misura universale.

Un’altra convenzione sarebbe pur comoda: liberarci da tanti maestri di lingua e non obbligarci più a perdere tanto tempo a studiare le grammatiche Francese, Inglese, Italiana, Tedesca, Latina, Illirica, cosa da sepelire la testa d’un galantuomo in un diluvio di parole imparate a memoria. L’illustre Leibnitz l’aveva progettata la lingua universale. Almeno per la scrittura si potrebbe immaginare questa lingua universale: abbiamo i numeri aritmetici i quali si leggono differentemente da diverse nazioni, così potrebbero ritrovarsi dei segni universalmente significanti una tale determinata serie d’idee. Di questa lingua universale qualche possibilità se ne vede in due begli occhj: ve ne sono di que’ destrissimi che si fanno intendere a maraviglia dal Tedesco, dall’Inglese, dallo Spagnolo, dal Francese, dall’Italiano, e si farebbero intendere alle falde della famosa torre dove le lingue si sono confuse; con una occhiata sanno pur dire: vi voglio bene, non so che fare di voi, mi annojate, mi ponete in imbarazzo, siete indiscreto, e cento e cento belle cose e cose non belle sanno dire, due occhj animati, a chi sappia la loro lingua universale, che se talora poi hanno a parlare con chi non gl’intenda, la colpa non è loro, ma il caso è raro. Se tutti non intendono le ciffre numeriche non perciò è men vero che esse sieno una scrittura universale in Europa. L’aritmetica è un’arte che stimo moltissimo perchè è un’arte che non fa mai complimenti con nessuno. Otto e due fanno dieci: fanno dieci per il povero, fanno dieci per il ricco, fanno dieci per chi ubbidisce, fanno dieci per chi comanda. Alcune volte chi ha scritto di morale non ha fatto così: l’ha piegata con certe officiosità a certe cortesie verso i più potenti che mi pare che non vadan bene. La virtù è amabile, bisogna rappresentarla qual è, ma la virtù è sempre la stessa: ella è comune al ricco e al povero, e vorrei che gli scrittori di gius pubblico, di natura e delle genti e che i Casuisti diventassero un po’ più aritmetici e stassero sodi: otto e due fanno dieci per tutti.

La ragione universale è la stessa a Costantinopoli e a Parigi; anzi, se avessi a giudicare dell’esterno, ve n’è più in Constantinopoli e nell’A
sia tutta che non in Europa: se non fosse altro, essi almeno, gli Asiatici, hanno trovato un involto in cui la figura umana vi cape dentro bene, fa una nobile comparsa e agiatamente vi sta. Essi da più secoli si trovan bene così e non cambiano; noi per lo contrario siamo in una continua inquietudine, pare che siamo venuti al mondo l’altro 
ieri: cambiamo maniera d’alloggiare, di vestire, di scranne, di tutto 
e facciamo nuovi tentativi applaudendocene sempre e proscrivendoli
 poi sempre l’uno dopo l’altro. Date uno sguardo ai ritratti da due se
coli a questa parte, sì degli uomini che delle donne, e poichè avrete disapprovato il cattivo gusto del vestirsi dei nostri vecchj, pensate un momento e giudicate se sia per piacere a quei che verranno da qui a trent’anni il modo vostro attuale di vestire. I Costantinopolitani ci deridono, noi altri Franchi, ed hanno ragione; i ragazzi ci fanno le fischiate per le strade, ci guardano come pazzamente vestiti, con fessure da ogni parte della nostra tonaca, e se ci vedono poi scoperti il capo l’un l’altro in segno di riverenza, cosa bellissima per le strade, singolarmente se piove. Veramente, in molte cose abbiamo un torto grande; il tempo rimedierà a molti mali, s’introdurranno molte cose ragionevoli, mi pare che le nazioni vadano al bene, mi piace questa speranza e mi lusingo che i nostri successori non prenderanno per giuoco tante cose che per tali le prendiamo noi.

Appunto sul giuoco merita che si faccia un po’ di riflessione. Entro in una sala, un uomo sede in mezzo ad una vasta tavola con avanti distesa una pianura di monete d’oro, è attorniato da molti astanti i quali seriissimamente ripongono delle monete sopra dei pezzi di cartone. L’uomo che siede in mezzo lentamente divide un fascio di pezzi di cartone, riponendone uno a dritta, l’altro a sinistra, e scorrendo attentamente collo sguardo ad ogni tratto sulle monete altrui, come l’astuto greco frigia agmina circumspexit. Un silenzio profondissimo regna, e sulla faccia di quei taciti astanti regna il dolore, l’ansietà, l’angustia, l’affanno, la disperazione. Si decide forse in questo lugubre consiglio quale di costoro debba sacrificar la vita per la salvezza comune? La sorte debb’ella trasciegliere fra questi infelici chi sia l’Attilio Regolo de’ nostri tempi? No, giuocano. Giuocano! E con tanta tristezza si può dare un giuoco! Ma quali effetti piacevoli produrrà questo giuoco? Uno ritornerà a casa senza denari a predicare una sordida economia, a far disperare la moglie e i figlj, a togliere a questa i modi per vivere decentemente, a quelli i mezzi per avere una buona educazione. L’altro mancherà di parola ad un creditore, il quale sarà in pericolo di fallire per ciò e di rovinare la famiglia e gl’innocenti e numerosi suoi figlj. Questo scaltramente troverà un amico da tradire, carpiragli il denaro col pretesto d’un contratto ideale, scopertosi poi il fatto caderà nell’obrobrio. Quella, per occultare al marito la perdita fatta sulla parola e soddisfare al debito… non so cosa farà. I vincitori poi getteranno alla peggio il denaro acquistato con sì poco tempo e fatica, poi, per la speranza di averne di nuovo, si rovineranno come
 gli altri. E questo è giuoco? Sarà un giuoco, ma che fa ribrezzo, non 
che fa orrore. Sarà un giuoco come si dice giuocar di spada e come
 da taluni si dice d’una batteria di cannoni che giuoca bene, ed io non vedo che da qui a vent’anni si permetterà più di giuocare così la virtù,
 la pace delle famiglie e il costume in nessuna parte d’Europa. Onesti uomini quanti siete, sappiate che moltissimi, tanto onesti quanto lo siete voi, hanno cessato di esserlo per quella catena di avvenimenti ne’ quali gli ha portati questo macello che volete chiamare un giuoco.


Tra un boschetto di odorosi aranci, in una placidissima serata di primavera, allo splendor della Luna vidi una vaga fanciulla; i teneri lamenti di due rossignuoli inamorati e il soave e placido mormorio d’un ruscello vicino pareva che scacciassero dal cuore ogni pensiero e cura molesta; le aurette imbalsamate leggermente scorrevanle intorno 
la volubile veste, e aggitando i capegli snodati scherzevolemente li scomponevano in varie foggie, offerendo allo sguardo una incessante variazione d’una sovrumana incantatrice negligenza. Io rimasi mutolo in pria e dimentico di me stesso per la magia di sì vezzosi oggetti; poscia a poco a poco lentamente mi accostai, e frenando a gran pena i sospiri che volevan partirsene immediatamente dall’anima, pensai come dovessi cominciare a parlarle; ella frattanto stavasene credendosi sola ed io, in guisa che pur m’intendesse, gridai Chi va là? La fanciulla a precipizio se ne fuggì, nè potei più ritrovar nel boschetto altro che gli aranci, il ruscello e il raggio di Luna, poichè persino gli ussignuoli si tacquero, ond’io indispettito me ne ritornai verso casa. Strada facendo un nuovo impensato oggetto s’offrì al mio sguardo: globi vastissimi di fumo, scintille e fiamme che s’innalzano al Cielo, grida e strepiti, stridor di legni resinosi, popolo immenso che attornia l’incendio, tutto mi raccapriccio per tema d’una rovinosissima sciagura. Accorro e vedo la figura d’una vecchiaccia di statura colossale che solennemente e con allegrezza dagli astanti si stava abruggiando. Chiesi la spiegazione di ciò e mi fu detto che quella vecchia di legno e stoppa rappresentava la Quaresima, e che il popolo la bruggiava per consolazione che terminasse, dal che vidi chiaramente che quella gente digiuna volontieri.

Tutt’i caratteri degli uomini, i quali per minimi gradi variano all’infinito fra di essi, originariamente si riducono a tre classi primigenie, le quali sono come i tre elementi dei costumi umani: nebbiosi, entusiasti, vedenti. Questa si è la prima generazione di tutte le umane differenze ne’ caratteri. Alcuni vedono languidamente gli oggetti con contorni indecisi e incerti, e come se una nebbia fosse fra l’oggetto ed essi. Altri vedono un oggetto solo con moltissima distinzione e colorito vivacissimamente, per modo che esso solo occupa tutta l’anima loro. Altri finalmente vedono più oggetti in una volta distintamente e li paragonano e ne giudicano. I primi li chiamo nebbiosi, i secondi entusiasti, gli ultimi vedenti. I nebbiosi sono i caratteri più comuni del genere umano, e son quelli che rare volte possono giudicare delle loro cose per intuizione propria, che si reggono sulle opinioni, che vivo
no incitando e si trovano smarriti ogni volta che accada ad essi una combinazione di cose non preveduta: uomini incerti del lor destino, deboli ne’ loro principj, fluttuanti sempre ne’ loro stessi sentimenti, ai quali l’universo presenta un ammasso di cose larvate e dubbiosamente conosciute. La virtù e i vizj dei nebbiosi sono versatili e la imbecillità
 si stende su tutte le loro azioni: son uomini, in somma, che lentamente passeggiano sopra un terreno sconosciuto spinti ad agire più
 dal timore che da verun altro principio. Gli entusiasti si dividono in due classi: gli uni sono quelli che costantemente sono percossi dalla immagine di quel medesimo oggetto, e questi sono o pazzi o fanatici
o eroi, dipendendo la diversità dalla natura del fantasma vincitore; gli altri sono quegli i quali vedono energicamente un solo oggetto per volta, ma or l’uno or l’altro oggetto gli occupa, e questi sono i poeti,
 i pittori, gl’imprudenti arditi, gl’innamorati e simili. Questi non possono mai avere nella loro vita una condotta ragionata, si movono per impeto, non per iscelta; incostanti nella amicizia come nello sdegno, dimenticano il passato, non si volgono all’avvenire, ed occupati avidamente dal momento presente non vedono nè sentono che una sola fortissima sensazione, che li rapisce interamente: uomini capaci d’un volo, incapaci d’un lampo di virtù, capaci d’un delitto, ma non mai costantemente buoni o costantemente malvaggi. La vita di essi è un tessuto di contraddizioni, la loro società è amabile per intervalli, è insoffribile se è continuata. I vedenti finalmente formano la terza classe degli uomini, che è la più piccola delle altre, e sono quegli i quali distinguono i contorni esattamente degli oggetti, industriosamente li confrontano, prevedono gli effetti, calcolano le relazioni e si determinano dopo aver dubitato ed esaminato. Le azioni di essi sono sempre la diagonale media di molti paralellogrammi, i lati de’ quali esprimono i molti oggetti che li determinano. La condotta dei vedenti è un seguito d’azioni concatenate, le quali vanno dritte ad uno scopo, la amicizia loro non ha i trasporti dell’entusiasta, ma è costante, attiva e utile più di ogni altra. Essi non sono mai eroi: chi ha conosciuta la vanità della gloria non può esserlo, e chi ha esaminata l’indole della felicità non cede alla chimera della gloria; se essi vedon bene, la loro morale è sicura, poichè è sempre interesse nostro il non mancarvi. Essi sono la parte ragionevole della specie nostra: padri discreti, mariti compiacenti, amici utili, onesti cittadini. Tale è il carattere dei vedenti. Ma questi tre caratteri in ogni uomo si trovano sempre mescolati almen qualche poco insieme, e dalla proporzione di uno di questi tre elementi cogli altri due ne nascono le infinite degradazioni dei caratteri. I nebbiosi son timidi, gli entusiasti sono impetuosi, i vedenti sono industriosi giudiciosamente. Mi pare che maneggiando bene questi tre principj e paragonandoli al clima, alle leggi ed ai costumi delle Nazioni, vi potrebbe scaturire una generazione d’idee interessanti e nuove e limpide, e fors’anco utili per le teorie universali sul genere umano, il quale merita d’essere conosciuto almeno almeno quanto i satelliti di Giove, dei quali si predicono l’ecclissi con tanta esattezza.

Ma per ora non ho voglia di trattenermi su di questo serio argomento, passiamo ad un altro argomento buffone che è stato trattato colla maggiore gravità possibile da un ceto di Dottori. Tutti questi chiarissimi e sapientissimi uomini erano stupefatti pensando al gran prodigio come la terra stia in aria e non cada. Per discutere questa sublimissima questione, si radunarono nella loro aula, dove disposti in circolo molti seggioloni, ciascuno di essi fu riempiuto da un Dottore avente una enorme paruccaccia ed un esimio collare. Il Bidello con voce rauca e nasale propose l’argomento; in prima molti raschiamenti fecero rimbombare la volta di quella lugubre adunanza, poscia poco a poco s’andarono riscaldando; e gl’implacabili polmoni dottorali a due, a tre ad un tempo istesso cominciarono a dibattere la questione, quando uno de’ più gravi fra tutt’i gravi di quel eruditissimo e profondissimo circolo, imposto silenzio, così prese a parlare: Sendo che, Padri Coscritti, la sapienza e penetrazione immensa, dirò così, dell’ingegno vostro e la singolare, dirò così, perspicacia del vostro acume sia giunta al di là, dirò così, del potere umano; ardito e sconvenevole sembrar potrebbe, dirò così, per avventura il mio divisamento d’insorgere e favellare da solo, quasi ch’io volessi, dirò così, instruere Minervam, ovveramente il Sole colle fiaccole illustrare, solem illustrare facibus: ciò non per tanto osar sibbene il voglio ed affidarmi, dirò così, alla umanissima benivolenza vostra esponendo brevemente il rispettoso, dirò così, mio immaginare sur un argomento il più importante e il più saccente, dirò così, che l’ampiezza dell’umano indagamento presenti, dirò così, ad enucleare, discutere e definire. E la terra, per verità, certamente è una massa tale e sì enorme che, dirò così, può con ragione apellarsi di ogni altra massa da noi misurabile la prima, facile princeps, e tal oppenione sembrami spingere, dirò così, il mio criterio all’altra finissima oppenione, che la più grande fralle masse sia, dirò così, portata dal più grande fra gli animali, secondo il detto del Filosofo similes et similia conservantur. Quindi, rivolgendo nella mia mente gli animali tutti e rammemorando quanto, dirò così, Plinio ci dice sulla preferenza che gli elefanti hanno e sulla prestanza del corpo loro procera e colossale, oppenione tengo, dirò così, che a sostenere la più gran massa possibile di necessità faccia d’uopo del maggior animale possibile, laonde, dirò così, sul dorso d’un elefante creder m’è forza che placidamente riposi, dirò così, la terra sicchè non caggia.

E qui si tacque il gravissimo Dottore e il ceto profondissimo applaudillo, incurvandosi tutte quante le sterminate perucche in segno di ammirazione. Dopo breve silenzio un altro Dottore ritondotto di viso espose così il parer suo: Io veramente su questo particolare altro non saprei far di meglio che venire su questo particolare manibus pedibusque in sententiam del profondissimo Signor Dottore Collega nostro Venerando, il quale su questo particolare ha detto in poco veramente il dicibile; una dubitazione però mi lascia indeciso: se veramente l’elefante e non
 la balena sia su questo particolare il più possente animale a sostenere la gran massa terrena; e ciò tanto maggior peso fammi su questo particolare quanto che la balena, appoggiando tutto il vasto suo corpaccio sull’acqua, parmi su questo particolare forse più atta a sostenere un vastissimo peso di quello che sembri esserlo su questo particolare l’elefante, che non si regge 
se non su quattro gambe; laonde su questo particolare, sebben conven
ga interamente nella saggia opinione dell’esimio Signor Collega, quanto
 alla massima, ardirei su questo particolare soggiungere che quel de’ due animali porti la terra, o l’elefante o la balena, sub iudice lis est. Aveva terminato appena il secondo di parlare che un nuovo Dottore alzossi, e fatta una circolare inclinazione, ripostosi a sedere, parlò in questa guisa: Ecelentissime e profondissime sono le cose, Signor mio, che sono sta
te con tanta dottrina e sapienza proferite dai Venerandi Signori Colleghi,
 e tali che appena ardisco di presentare un mio dubbio, nè, Signor mio, m’indurrei a farlo giammai, se la antichità tutta quanta, Signor mio, non
 mi costringesse a riccordarlo, poichè non credo che siavi ragione alcuna valevole, Signor mio, a dimenticarci Atlante, il quale per consenso di secoli è il portatore della terra, la quale, Signor mio, può essere benissimo portata da quell’istesso che l’ha portata ne’ tempi antichi e, Signor mio,
 la legge chiaramente c’insegna che evidens esse utilitas debet ut ab eo 
iure recedatur quod diu æquum visum est. Allora un Dottore più giovane, e di cui la parucca restò sola immobile quando tutte s’erano inchinate al ragionamento del primo, disse queste brevi parole: E chi sostiene Atlante e la balena e l’elefante carichi del peso della Terra? Un fremito improviso si sparse in tutto il peruccato cerchio, chi rimirò attonito il vicino, chi alzò dispettosamente le spalle scuotendo il capo, chi lasciò cadere la mano con impeto sulla sbarra del seggiolone, chi stroffinò i piedi sul pavimento, chi impallidì, chi s’accese: tutto fu 
in convulsione ed orgasmo il dottorale collegio. Vi fu chi sostenne che la domanda era ultronea e fuori del quesito, altri sostennero che a lui non spettasse di proporre simili difficoltà cavillose e mendicate, tutti si maravigliarono come un Dottore imberbe, fatto Dottore unicamente per compiacere a suo padre che assolutamente lo volle vedere in parrucca e collare, tanto ardisse di proporre al ceto venerando. In somma stava per nascere una sedizione, quando il Dottor Massimo, fatto colla destra cenno agli altri perchè l’ascoltassero, ed era lo stesso che dapprima aveva parlato, in tal guisa parlò: Orrevole sempre mai, Padri Coscritti, si fu in ogni secolo e presso ogni nazione l’uso, dirò così, dell’umana ragione; ma altrettanto funesto e rovinoso, dirò così, agli Stati ed ai Regni interi si fu la intemperanza, dirò così, di ragionare ne quid nimis. La balena è a dir vero un pensamento felicissimo e nobilissimo, ma dove, dirò così, troveremo noi mari fuori della terra per riporvela? Atlante sapientissimamente fu suggerito e proposto, ma dall’antichità sappiamo esser egli stato, dirò così, metamorfosato in un duro alpestre monte, per lo che inetto appieno sarebbe, dirò così, a portare cosa alcuna sulla schiena, poichè schiena, a parlar propriamente, più non gli rimane. Resta dunque l’elefante solo, dirò così, a supplire all’uopo, ed acciocchè non rimanga vestigio alcuno, dirò così, di dubbio, dir conviene che i piedi dell’elefante sieno piantati sulla schiena d’una vastissima tartaruca. E qui suonato il campanello, si disciolse il valorosissimo collegio nel momento in cui il giovane Dottore stava a decidere su qual base la tartaruca si dovesse riporre. Partirono i perucconi e i collaracci guardando bieco il giovane, estatici del discorso prudentissimo del Dottor Massimo, soghignando a spese del giovane ch’essi credevano confuso e annientato.

Se questa scena è una pura immaginazione mia, non lascia per altro d’essere simile a molte altre che sono accadute e accadono; spessissime volte l’uomo crede di sciogliere la difficoltà e non fa che allontanarla un passo: come una catena che sostenga un peso, per provare come così regga, non basta provare che un annello è sostenuto da un altro, bisogna finalmente venire al chiodo che sostiene il primo annello della catena. In molti autori, anche classici antichi, trovo quest’errore di logica: vanno ai piedi dell’elefante e tutt’al più sino alla tartaruca e non più. Gli antichi erano uomini, ve ne sono stati di sommi ne’ secoli passati, forse anche le produzioni le più illustri saranno perite, ma erano uomini, gli antichi, come lo siamo noi, e mi è parsa sempre assai strana la servile adulazione colla quale li vantano i pedagoghi, fors’anco perchè non sono tanto umiliati dalla gloria di chi è molto lontano da essi per secoli, e non potendo annientare i contemporanei colla loro forza intrinseca, cercano di farlo coll’antichità tutta quanta in massa. Vi sono dei pezzi eccellenti ne’ scrittori antichi e ve ne sono di eccellenti ne’ moderni, l’uomo ragionevole si pone in mezzo ai secoli e indistintamente cerca il buono e il bello dov’è. Che guerra non v’è stata in Francia in questo secolo per Omero? Tutte le persone disappassionate trovavano che i poemi d’Omero sono pieni di cose 
che veramente non si sa come possano piacere. Il Signor Perrault tante cose ha pur dette, massimamente sulla Principessa Nosicaa, la quale giunta presso il Re suo padre, gli vennero incontro i fratelli suoi, begli come i Dei, e distaccarono dal carro le mule, e presero i panni che la Principessa aveva voluti lavare nel fiume, e riposero ogni cosa nel palazzo che aveva le mura di bronzo e le porte d’oro, con due cani d’argento che non diventano mai vecchj e che il saggio Vulcano aveva fatti per custodire il palazzo del magnanimo Alcinoo. Ma, dicono i difensori di Omero, bisogna leggere il poema nel suo originale, non bisogna giudicare dalla traduzione, nella traduzione si perde tutto. A ciò rispondo anch’io: è vero che nella traduzione si perde la grazia originale dello stile, e quella venustà e forza che è propria della lingua del poeta, ma delle traduzioni d’Omero molte ve ne sono e in Italiano e in Latino ed in Francese e in tutte le lingue colte d’Europa, nè può mai in una traduzione perdere un poeta o un oratore le idee sue, le quali si esprimono con diverse parole in ogni lingua: se la bellezza del poema è intrinseca, se v’è in tutt’insieme di avvenimenti ben condotta, se vi sono caratteri ben contrapposti e disegnati, se vi sono idee nobili, giudiziose, sublimi, se in somma vi è la bellezza intrinseca della poesia, tutta quanta rimane in una versione ben fatta, anzi una versione è la prova più certa della vera poesia: quella che vi regge è tale, quella che non regge tradotta e perde tutto non si può dire che una cattiva produzione che aveva la corteccia poetica. La traduzione è il crociuolo. Ponivi una catena d’oro ed una simile di rame dorato, fondile, la prima rimane sempre un pezzo d’oro, l’altra amalgama quella poca corteccia d’oro nella massa del rame, e te ne resta un metallo di poco valore: lo stesso fa la traduzione. La traduzione è anco paragonabile all’intaglio in rame: un quadro veramente bello, una pittura ben dissegnata, falla incidere in rame, darà piacere anche senza colori; se la pittura non avrà altro di buono che il colorito, potrà piacere al primo colpo d’occhio, ma se la fai incidere, ogni merito suo è svanito. Proviamolo coll’esempio. Facciamo una letterale traduzione servile di due pezzi di poesia: il primo sia il sonetto del Petrarca

Cesare, allor che il traditor d’Egitto
Gli fece il don dell’onorata testa,
Pianse dagli occhi fuor come sta scritto,
Celando l’allegrezza manifesta.

Quanti restano incantati dalla sola armonia di questi versi. Traduciamoli e vediamo cosa ne rimane: Cæsar tunc cum proditor Ægipti fecit illi donum honorati capitis, flevit ex oculis foris sicut scriptum est, celans gaudium manifestum. Ebbene, è questo un bel tratto di poesia? È un freddissimo racconto di un pezzo di storia con entro una miseria ed una freddura. La miseria è il dire che si pianga dagli occhi fuor, perchè nessuno ha mai creduto che si pianga dagli occhi dentro; la freddura è celare una cosa manifesta: eccoti la collana di rame dorato che ritorna rame nel crociuolo. Vediamo un pezzo di poesia del Tasso e proviamo se riesce meglio:

Chiama gli abitator dell’ombre eterne

Il rauco suon della tartarea tromba,
Treman le spaziose atre caverne

E l’aer cieco a quel rumor rimbomba.

Eccovelo in un Latino meschinissimo, facciamo il possibile per renderlo ridicolo; diciamo così: Raucus sonitus tartaræ tubæ vocat habitatores umbrarum eternarum. Contremiscunt vastæ cavernæ obscuræ atque 
aer cecus propter illum rumorem resonat. Ridete, se è possibile, e negate che anche in mezzo a questo barbaro Latino non vi si veda l’anima
 del poeta; è vero che tutto il vezzo l’ha perduto, ma l’ossatura ben piantata vi resta. Ciò posto, bisogna per necessità concedere che se un autore, tradotto che sia, non piace, la colpa è dell’autore medesimo
 e che gli entusiasti per lui sono stati colpiti dalla corteccia dello stile
 e dell’armonia, ed hanno giudicato su questa, dimenticando i difetti intrinseci del poema. Io ho una antica cronaca scritta con uno stile il più semplice, nella quale mi compiaccio assaissimo di tempo in tempo leggendone un pezzo: essa traducendola sarebbe sempre la stessa. Figuratevi che comincia così: Io, Cola da li Picirilli, che songo vissuto anni settanta nove et songo morto de mal de pietra con inflammatoria febbre, aggio scritto, de mea propria manu et per meo proprio devertimiento, chissa cronaca che contiene le poche cose da ridere che aggio viduto capetare nel corzo de li dicti anni settanta nove che songo vissuto, prima che lo mal de pietra et la inflammatoria febbre me togliesse da chisso nobole teatro de cose varie che se chiama lo Munno. Et aggio veduto no homo ricco che donò due tonache a no pover homo et disse: tieni chisse
 dua tonache; una è buona, l’autra è sbregata; servete de la sbregata pe’ rattoppare le squarci che so ne la buona. Et aggio viduto no homo che pe’ viaggio chiese a no litterato che incontrò se fosse alla medietà de lo viaggio,
 et lo litterato respose: etiam sete alla medietà precise, ma l’autra medietà
 est chiù lunga. Et aggio viduto un homo che se ne iva a piede et havia de
le pera in scarsella et pe’ no portare chiù lo peso de le pera le manucò. Et aggio viduto un homo… In somma, è un volume di 468 pagine, tutto scritto così naturalmente che mi diverte moltissimo: il mio Cola de li Picirilli non è di que’ scrittori che con la penna in mano s’invadono d’un entusiasmo artefatto, diventano gradassi e spaccamonti forsennati, e deposta la penna nel calamajo ritornano flosci e imbecilli e povera gente; il mio Cola de li Picirilli, quando scrive, è lui medesimo che scrive e ti si presenta buonamente qual è, e perciò mi piace.

Certi scrittori che vogliono parere inspirati o ossessi, e che con uno stile enfatico gettano sul popolo ampullas et sesquipedalia verba, e ti vengono a spacciare il fatto loro attoniti e stupefatti essi medesimi del loro gran sapere, non mi quadrano. Mi piace il vero e il semplice, e questo piacerà in ogni secolo e presso di ogni Nazione: il merito delle verità utili e luminose non ha bisogno di alcuna ciarlatanesca arte per essere sostenuto, basta annunziarle naturalmente con chiarezza. Alcuni filosofi in questo secolo hanno voluto riscuotere il pubblico, vestendo i loro scritti con frasi da Profeta, forse è stato utile dapprincipio questo artificio per risvegliar l’attenzione, ma ora che l’attenzione del pubblico è già svegliata, vorrei quasi far stampare il mio Cola da li Picirilli, e su quella antica cronaca forse modererebbero le gigantesche pretensioni e renderebbero umana la loro maniera di scrivere; non mi piace che una verità abbia sempre avvanti di lei un postiglione che suoni il corno, due lacchè con torcie a vento, e che rumoreggiando, spargendo fuoco e fumo, non entri mai in città senza un bisbiglio; mi piace che le verità grandi facciano, come i principi grandi, il loro moto senza tanto strepito succintamente. È vero però che in ogni libro, come in ogni cosa, vi vuole il suo chiar oscuro, acciocchè abbia risalto; così un autore di tempo in tempo fa bene ad alzarsi su i trampani, purchè non vi stia sempre, il che stanca e annoja. Il chiar oscuro è l’anima di tutto. Una bellissima Signora faceva mille accoglienze ad un moretto che non aveva di buono altro che la sua pelle nera, e ciò perchè al confronto risaltasse l’estrema bianchezza di lei: la Signora intendeva assai bene il chiar oscuro. Un cortigiano bruttissimo teneva sempre al suo fianco un certo Dottore in Legge che aveva le ciglia da can barbone, gli occhj parevan due perle, i denti erano di finissimo smeraldo, il naso papagalleggiava assai, la bocca era sul taglio dei rospi e così va dicendo, il povero dottore in Legge non sapeva dire
 una parola approposito. Sapete perchè il cortigiano se lo teneva tanto vicino? Per far credere che v’erano delle figure al mondo più deformi della sua: il cortigiano intendeva assai bene il chiar oscuro. Taluno vuol primeggiare e spacciarsi per uomo di molto spirito nella società, vede comparire un uomo che ha spirito, ed egli amutolisce e se ne va, perchè intende che il chiar oscuro non vi sarebbe più.

Un mio intimo amico ad ogni tratto va ripetendo una massima sua cardinale, ed è questa: un po’ di memoria è il più gran bene che resta
 al uomo. Trovo che il mio intimo amico ha ragione: la maggior parte degli uomini giudicano degli oggetti come se fossero funghi che di giorno in giorno spuntano e cadono, questo è il vizio degli entusiasti
 dei quali ho già scritto. Sono moltissimi uomini come le mosche,
 che dimenticano tutto, inquietano assai e non imparano mai a costo della propria rovina. Domiziano Imperator Romano stavasi un giorno di Luglio nel suo gabinetto, dopo aver preso il caffè, solitario e sdrajato sopra un soffà per riposare; quand’ecco (oh petulanza oltre modo sfacciata!, esclamerebbe qui taluno) una mosca incivilissima, ignorantissima dei riguardi dovuti alle persone Reali, disubbidientissima a tutte le leggi, una mosca perversissima, intrusasi arditamente nel gabinetto di Sua Maestà, vola e ronzola sceleratamente e sceglie per punto d’appoggio de’ scapestrati suoi voli la punta del naso Imperato
rio Romano. Il serenissimo principe, pieno di benignità e di sovrana clemenza, con un potentissimo stranuto avvertì la mosca villanissima
 che ivi non era luogo da metter piede. Si scosse l’obbrobrioso insetto a quel fenomeno, svolazzò per poco qua e là, sin tanto che, dimentica dell’avviso ricevuto, scelse di bel nuovo la punta del naso Imperiale per farvi sua sede e vi si collocò. L’Imperator Domiziano in questo frattempo erasi già dimentico della passata offesa e s’era placidamente abbandonato al sonno. Il solleticoso calpestio dell’insetto importunamente destollo, ed egli colla destra distributrice de’ Regni e regitrice dell’Impero fe’ cenno e minaccia alla mosca, sì che partì. Un po’ di memoria del passato avrebbe resa cauta quella petulantissima alata creatura. Lo stranuto, a guisa di torrente rapidissimo, avrebbe potuto affogarla, la mano mille volte più grande di lei avrebbe potuto annientarla: tutto dimenticò la stolida mosca, svolazzò di bel nuovo e quinci e quindi quaquaversum, e fra gli errori de’ suoi svolazzamenti fu di bel nuovo colpita dalla punta del naso della Maestà Sua, le parve comoda e vi si ficcò sopra per la terza volta, sin tanto che Domiziano, indispettito (patientia læsa fit furor, diceva il mio pedagogo maestro), suonò il campanello: entrarono i domestici, si fece la caccia della mosca rea di Lesa Maestà e fu con uno spillo impalata sul momento e riposta vicino al luogo del suo misfatto. Cercò quel Principe di nuovo il sonno, congedati i cacciatori, ma nell’aprire l’uscio s’erano introdotte delle nuove mosche assai. La vista della compagna impalata, gli stranuti, le mani, niente bastò ad insegnar loro il modo di vivere, la punta del naso le tentò tutte quante, chi sa cosa avesse mai sulla punta di quel naso! Il fatto si fu che tutte quante finirono impalate. Molti uomini sono precisamente compagni di queste mosche, e fra questi vi sono tutti quanti i seccatori, massimamente i seccatori interrogativi, i quali vi fanno un processo verbale ogni volta che v’incontrano per sapere d’onde venite, dove andate, cosa fate, dove avete preso l’abito che avete indosso, quanto vi costa, se frequentate il tale, se vedete la tale ecc. ecc. ecc., cose da far morire. Ebbene, a queste mosche voltate cento volte le spalle, troncategli cento volte il discorso, torneranno per la centesima prima volta ad annojarvi. Di questi seccatori se ne trovano più assai nelle città piccole che non nelle grandi, nelle vaste adunanze di uomini vi sono oggetti vasti, incessanti occupazioni, tutto è moto rapido, spettacoli, traffici, pompe, novità d’ogni sorta, sempre l’uomo è quasi condotto in giro dal gran vortice, nè ha luogo tanto di agire da sè; ma nelle città piccole tutto è minuto, la noja, il tedio di non sapere come impiegar le ore fanno nascere la curiosità, poi la briga, poi 
la cabala: vi si vive piuttosto male che bene, ammeno di non volervi vivere interamente a se stesso. Nelle città grandi ogni uomo può essere lui medesimo, può vestirsi come vuole, pensare e vivere come vuole, basta osservar le leggi del Paese e non più, vi si vive quieto; ma nelle piccole città, sotto pena di un ridicolo inespiabile, bisogna diventare l’ombra e l’eco degli altri, e l’uomo, quando è lui medesimo, è sempre più amabile di quello che non lo è mai allorchè è copia, sia pur perfetto quanto si voglia l’originale. Molti uomini sono o ridicoli o sgarbati per nient’altro se non perchè, in vece di rettificare se stessi, hanno abbandonato il fondo del loro carattere originale per imitare il tuono,
 il portamento, le frasi e la maniera di pensare di un altro uomo. Altri sono organizati per essere giulivi, altri per essere saggi e tranquilli, altri
 per essere sensibili e compassionevoli, altri per essere rigidi e fermi; se ciascuno perfezionerà le proprie naturali disposizioni, ne nasceranno degli uomini amabilissimi, onestissimi, benefici e virtuosi; ma se il vivace vuole imitare la fermezza e la serietà d’un uomo di merito, se
il tranquillo o rigido vuole modellarsi sulle grazie naturali del faceto e 
così va dicendo, ogni cosa riuscirà fuori del suo luogo, dappertutto vi
 sarà la stentatura e la afettazione, e quei che nella classe loro potevano riuscir buoni diventano forzati, sconci e ridicoli ricopiando una maschera che non è fatta per essi. Questa verità sarebbe cosa utilissima, 
se si potesse spargerla nel pubblico. La società umana è come appunto una orchestra: i bassi devono esser gravi e maestosi, sonore e pompose 
le trombe, appassionati gli oboè, agili i violini, e così dicasi di ogni altro stromento; ma se il contrabasso voglia esser tenero e appassionato, 
se l’oboè cerchi singolarmente l’agilità, se i violini si studiano d’essere gravi e pomposi, eccoti come ogni stromento, che pure originariamente è buono e può lodevolmente contribuire la parte sua, sia fuori
 de’ confini suoi. Eccoti ogni cosa divenuta sgraziata e ridicola. Se hai le gambe colla podagra non fare il ballerino, se il tuo ingegno non è vivace, abbandona la pretensione di brillare, volgiti ad altri studj e riuscirai ad ottenere la stima altrui; se il tuo ingegno è vivace, non imi
tare l’uomo gravemente metodico: ciascuno, in una parola, consulti se stesso e cammini per quella strada su cui la natura lo ha riposto.

Ma questa natura è una parola curiosissima, e quello che v’è di più curioso si è che molti uomini, altronde filosofi, se ne servono, la è sfuggita anco a me dalla penna, ma se taluno mi chiedesse buonamente la definizione della natura e cosa io veramente intenda di significare con questa parola, sarei davvero imbrogliatissimo, e credo che quei filosofi che hanno tanto scritto per le leggi della natura, se fossero interrogati cosa è natura, sarebbero tanto imbrogliati quanto lo sono io. Scende dalla scoscesa rocca d’una alpestre montagna un largo rovinoso torrente, e piombando con rimbombo orrendo sul piano, flagella i sottoposti dirupi e scagliasi in mille parti quale impetuosa procella d’intorno spumante e rigoglioso, e gli augelletti canori lo salutano col dolce canto e i gelsomini gli fanno vezzosamente corona. Dall’opaco seno di fosca densissima nube parte il folgoreggiante baleno, funesto alle torri, e fremer sembra la natura e impallidir la luce del giorno allo incessante, ferale strepito del tuono, mentre un soave zefiro mollemente disordina il toppè d’un poeta. Trema la terra tutta, s’alzano vortici rosseggianti di densa polve, fuggono gli armenti e le fiere, e gli uomini, sbigottiti e incerti, fuggendo s’ammucchiano, cadono infranti i superbi edificj, si distruggono i maestosi monumenti eretti in vano per i secoli a venire, mentre la leggiadra Amarilli prende una tazza di caffè. Appunto questo stranissimo confronto di idee mi pare che rappresenti al vivo un uomo di cuore unito ad una civetta. Noi colle civette comunemente facciamo troppo e troppo poco: facciamo troppo quando le stimiamo a segno di sperare che ci possan dare dei sentimenti che superano le forze loro, facciamo troppo poco poi quando togliamo ad esse tutta la nostra stima a segno di non crederle capaci di niente di buono. Se potessimo giungere a quel segno beato di non pretendere mai dagli altri se non se quello che possono darci, saremmo più saggi, più giusti e più felici che non siamo. Noi per lo più andiamo dal pero e vogliamo che ci dia una rosa, andiamo dal persico e vogliamo che ci dia le fragole, andiamo dal coccomero e vogliamo che ci dia un ananas: siamo noi giusti allora? Siamo noi saggi? Abbiamo noi ragione dappoi di lagnarci degli altri? La colpa veramente è nostra. Bisognerebbe prima di pretendere cordialità, sentimenti di amicizia vera, interessamento per noi, officj, consiglj buoni, bisognerebbe esaminare attentamente se cerchiamo il frutto che può dare l’albero; ma non lo facciamo, ma l’amor proprio ci adula e ci fa sperare che avremo tanto potere da creare sentimenti nuovi, se non vi sono. Farlo tacere, questo amor proprio, non è possibile; contrapporvi la probabilità contraria, questo sì si può fare, almeno 
per essere ingannati più raro che sia possibile. Sebbene tristo colui 
che non è mai ingannato in vita sua dal cuore, segno che il cuore può assai poco sopra di lui; dirò un paradosso: non saprei essere amico di uno che sia sempre stato ragionevole. Non v’è che il mio can barbone che è sempre stato ragionevole, e sempre siamo vissuti insieme
 da buoni amici. Quei cani barboni son pure la brava gente! Sa il mio can barbone ch’io son passato per una delle due strade che gli si presentano: fiuta ad una, s’avvede che per di là non sono passato, e determinatamente senza fiutare s’incammina per l’altra. E dite poco? Un tal medico è un ignorante deciso, ha rovinato molti de’ suoi creduli ammalati, è un impostore limpidissimo: il can barbone lo fiuterebbe e poi si incamminerebbe per altra strada, e moltissimi uomini invece si vanno ad avventurare a lui. Le novelle che popolarmente si spargono, l’esperienza ci prova che appena il cinque per cento si verificano; su questa esperienza il mio can barbone fiuterebbe, poi s’incamminerebbe per altra strada; in vece moltissimi uomini accolgono e ripetono la millesima novella popolare colla fiducia che sia vera, e per la millesima volta s’espongono ad essere disingannati. Quei cani barboni non hanno nè mio, nè tuo, nè notaj, nè medici, nè poeti petrarcheschi, nè poeti bernieschi, nè accademie poetiche, castalie, aganippee, nè caste suore, nè intonsi Apollini, nè cavalli alati, nè Ipocreni, e per questo, poveri cani barboni, tocca a loro a portarci la lanterna di notte per far lume, quando la Luna ha la scompiacenza di non volercelo fare come sarebbe dover suo. La Luna per la metà dell’anno non è più utile agli uomini di quello che lo sieno le opere del Tiraquel celeberrimo, di cui i due tomi in foglio si vendono a cinque paoli e non più moneta corrente.

Una Monaca che sta caricando un mortajo da bomba, un Curiale che sta maneggiando un quadrante astronomico, un Teologo profondo che sta pettinando una parrucca, un gravissimo erudito che sta leggendo questo mio libro, sono quattro bei soggetti da far intagliare in rame dall’Hogarth. Hogarth era un valent’uomo, ha cercato di far bene agli uomini co’ suoi rami: vi ha posto in esecrazione il vizio, vi ha rappresentato fedelmente il ridicolo, ha cercato d’inspirare dei buoni ricordi agli uomini per gli occhi, e per allettarli a ricordarsene gli ha presentati con contorni tanto comici e buffoni che è una delizia l’adornarne la stanza, nei momenti di ozio dai un’occhiata alla stanza e ti fa ridere, per poco che abbia senso, per il ridicolo nel disegno. Benedetto Hogarth! Abbiano pace le onorate tue ceneri, sia scritto il tuo nome nel tempio della beneficenza e passi ai posteri la memoria del valor tuo e della tua bontà. Bisogna ciascun di noi ingegnarci, procurare di far del bene agli uomini nostri fratelli. Le cose serie, la morale esposta per trattati non si difonde mai comunemente, qualunque cosa che abbia lo spinoso apparato di dissertazione stanca ed allontana; bisogna nel teatro, nei libri, nella pittura, da ogni parte stimolare i progressi al bene e prendere l’oportunità di dire agli uomini quello che può loro esser utile nel tempo che li divertiamo, bisogna accostarci all’orecchio loro con aspetto giulivo e procurare di renderci grati ad essi col manto d’una decente e ingenua follia, e allora v’è più speranza che ci ascoltino. Sferziamo i pregiudizj e i ridicoli della specie nostra, ma stiamo sempre lontani da ogni personalità. Dipingendo molte caricature è impossibile che non s’incontri taluno che somiglj ad una di esse. Un animo onesto e ben nato non si degrada mai ad offendere alcuno in particolare ne’ scritti suoi: i vizj in generale, i pregiudizj in generale sono gli oggetti ai quali s’avventa. Sarebbe pur tempo che dall’Italia si sbandissero tante inurbanità e contumelie letterarie che propriamente fanno nausea e ci fanno un torto massimo presso gli Oltramontani. Sarebbe pur tempo in cui vedessimo stamparsi le critiche delle opere che ne son degne, ma critiche fatte con precisione, con severità, con analisi rigorosa, decentemente, coltamente, civilmente scritte. Due persone colte e bennate oserebbero mai dirsi in faccia la minima parte
di quelle villanie che da alcuni scrittori si sono stampate vicendevolmente? E le lettere, le belle arti, i liberali studj, è egli cosa convenevole l’infangarli a segno di servirsene per vomitarsi contro obrobrj e contumelie canagliesche quali si sogliono dire in una bettola d’ubbriachi? È vero che di modi simili non se ne conserva l’uso che presso i più rettili scrittori della nostra Nazione; un Muratori, un Maffei, un Giannone, 
un Cocchi, un Algarotti e sì fatti colti ed onorati scrittori ricevettero bensì dei getti di fango, ma appena degnarono d’accorgersene; pure anche al dì d’oggi vi sono scrittori che pajono, alle frasi loro, allevati fra i facchini e la ciurma del popolo. I Francesi conservano assai più decenza di quello che non facciamo noi: molte critiche e controversie si sono vedute in Francia in questo secolo, ma ingiurie grossolane ivi un uomo si disonorerebbe se le scrivesse. E in fatti, v’è coraggio forse nello scrivere su un pezzo di carta che il tale è un asino, una bestia, uno scioperato e simili villanissime frasi? Queste provano la bassezza di chi le scrive e non più: e se un sentimento sì giusto e sì degno d’un cuore onesto diventerà comune, non oseranno più quei cani latranti delle stampe sporcare i foglj con sì fatti vituperj. Gli uomini che scrivono per il pubblico son debitori al pubblico d’instruirlo e mostrare agli occhi di tutti che colui che consacrasi alle lettere diventa onesto, discreto e virtuoso, e professa sentimenti nobili e decenti, e se s’erigge in maestro del pubblico non ne è indegno. Da qui a vent’anni anche questa riforma sarà fatta, è impossibile che andando avanti la coltura universale non movano sdegno questi vilissimi modi. I libri debbono esser dettati dall’amore della verità, dall’amore della virtù, dall’amore degli uomini, non mai dal fiele, dalla magra invidia, dalla calunnia e da simili vergognosi sentimenti.

Ed in buon punto ho finalmente nominato l’amore, dolce incanto delle anime sensibili, il quale stende la influenza sua agli occhi d’un filosofo assai più lontano che non pare a chi superficialmente lo esamini. Moltissime azioni di uomini anche provetti e che pajono lontanissimi dall’amore nascono da lui. L’amore è un sentimento naturale al uomo ed inerente alla sua organizazione medesima, in vece che l’ambizione, la gloria, l’avarizia e simili sono sentimenti artificiali, i quali, sebbene originariamente emanino dal comune primo mobile del uomo, pure per tante generazioni vi distano che quasi pajono d’una diversa indole. All’amore dobbiamo la nostra esistenza, il ripulimento nostro, la cortesia, le qualità tutte, che formano quell’ammasso di talenti che chiamasi urbanità; l’amore è la passione la più possente e la più comune agli uomini, compresivi anche molti che operano per lui senza saperlo essi medesimi. Molti giovani uomini, molte giovani donne desiderano di far nascere l’amore per essi: chi cerca di farsi amare col denaro, chi cerca di farsi amare colla sommessione, chi colla assiduità, chi cerca di farsi amare arricciando il toppè, chi finalmente ricorre ai filtri, alle diavolerie; cento e cento strade diverse si battono 
per farsi amare, eppure non vi è che una strada sola per ottenere questo fine, non vi è che un secreto solo, ed è l’essere amabile. Ora, cosa è l’essere amabile? Qual è l’uomo amabile? L’uomo amabile non è mai quello che vi fa una conversazione tanto spiritosa che umiglj l’amor proprio altrui; non è quello che regalando fa provare altrui il fasto e la superiorità sua; non è quello che adulando fa sentire di non stimare accorta a segno la persona ch’egli adula da sentire e distinguere la adulazione; non è quello che servilmente approvandovi si degrada presso 
di voi in guisa che non vi curate de’ suoi suffragj. L’uomo amabile è quello che riconoscete virtuoso e onesto, quello che conversando con voi sa meritare la vostra stima e calma ogni diffidenza del vostro amor proprio, quello che a tempo sa dare risalto a ciò che dite di buono,
 che non ha cosa che vi offenda, che in somma al partirsene da voi vi lascia contento di voi stesso. Non è tanto il fare, quanto il lasciar fare 
e il dirigere bene il fare altrui che forma l’uomo amabile. Taluno dirà che molto è dilicato il rappresentare questo carattere, è vero: molto dilicato e difficile si è il rappresentarlo, ma altrettanto più facile si è l’esserlo. Sia buono, sia benefico, sradica la malignità del tuo cuore, troverai che naturalmente non ti scapperà mai un tratto mordace o avvelenato che ferisca l’amor proprio delle persone colle quali vivi. Gli uomini veramente amabili sono i buoni, i tristi per poco ne posson portare la maschera, ma grave è la fatica e cade ben tosto. Uomini, se intendeste i vostri veri interessi, se foste veramente accorti, sareste tutti gente dabbene. Se v’è un po’ di bene su questa terra egli è per l’uomo onesto e illuminato, me ne apello all’esame che ciascuno farà di se stesso e delle sensazioni proprie. Dammi un briccone con autorità, e vedilo girar gli occhi sospettosi, impallidire, tremare ad ogni incontro; dammi un buon uomo anche in povero stato, e gli leggerai la serenità e la pace sul volto. Oh uomini che avete la sventura di travviare, che odiate la virtù e il vero merito, che perseguitate quei che al confronto vi fanno rossore, infelici uomini! Quei che perseguitate, quei che odiate sono vendicati più che non vorrebbero esserlo da’ vostri istessi interni sentimenti. Rimorsi, inquietudini, mal contentamento di voi medesimi: queste sono le crudelissime sensazioni che vi tormentano, queste sono le vere Erinni simboleggiate dai Greci. Quando sarete buono, non desidererete di mortificare l’amor proprio della gente dabbene; quando non desidererete di mortificare l’amor proprio della gente dabbene, non lo mortificherete; quando non lo mortificherete, partiranno contenti da voi; quando partiranno contenti da voi, vi troveranno amabile; quando vi troveranno amabile, sarete amato: ed eccovi data succintamente la teoria dell’amore. Si rischia molto, tanto in amore quanto in amicizia, quando si forma il progetto di guarire altrui da qualche vizio abituale, questa è la chimera a cui corron dietro le persone benefiche. Supponiamo: la Signora tale ha un buon cuore, una bell’anima, peccato ch’ella sia un po’ troppo curiosa de’ fatti altrui, che s’intrighi di cento brighe che non le appartengono, le quali poi scoppiano con una scena che le fa torto in faccia del pubblico; tu vuoi procurarti l’amicizia di lei, ne hai della inclinazione, formi il progetto colla tua amicizia, co’ tuoi consiglj di risanarla da un tal difetto, di togliere questa macchia dal suo carattere, di renderla una creatura perfetta, e già ti compiaci della gratitudine ch’ella un giorno ne avrà per te, e con queste virtuosissime, seducentissime apparenze ti si va raddoppiando il genio che nasce per lei. No, uomo onesto, uomo benefico, no, fermati! Tu rischj troppo, tu metti in forse la tua pace e la tua reputazione: la Signora tale non si muterà, tu ne prenderai una fortissima passione e resterai miseramente tu stesso la vittima de’ suoi cicaleggi e de’ suoi intrighi. V’è la tal altra Signora che ha molto ingegno, molta penetrazione, prontezza di spirito sorprendente, ha qualche notizia de’ libri, peccato ch’ella perda tanta parte del giorno in frivole occupazioni per servire all’usanza, visite, officiosità inutili che le assorbiscono la intera giornata. Tu vuoi legarti con lei e colla tua amicizia farle conoscere le chimere che la ocupano, tu pensi di rivolgere il di lei ingegno a curiosità degne di lei, pensi di farla diventare il centro della colta società e darle un nome. No, non avventurarti, o uomo benefico, lascia questa incantata speranza, se no ti appassionerai, impazzirai 
e non ne otterrai mai nulla! I caratteri, quando sono una volta spiegati 
e decisi, difficilissimamente si mutano, e quando si tratta di scegliersi un amico o una amica non bisogna scegliere una persona viziosa colla speranza di renderla buona; bisogna sceglierla già decisamente buona, lontana dalle vanità, dall’avarizia e dalla inquietudine de’ fatti altrui.

Prendo adunque un nobilissimo somarello che abbia molta fame e te lo ripongo fra due cestoni di biada, uno a dritta e l’altro a manca. Questi due cestoni sieno ugualmente distanti dall’asino, e sieno i muscoli del collo del pazientissimo animale ugualmente disposti al moto. Sciolgo una benda che in prima aveva posta agli occhi dell’asino, sicchè contemporaneamente veda i due oggetti. Experimento sic instituto, breviter arguo. Nulla est potior ratio cur ad dexteram immo quam ad sinistram asinus se convertat, ergo neque ad unam partem neque ad aliam convertetur; momenta enim virium oppositorum, si aequalia sint, plane æliduntur. Dunque il povero somarello dovrà restarsene col collo ritto ritto, duro duro, sinchè moja di fame in mezzo alla biada. Se per esempio vi trovaste in uno stretto fiancheggiato da altissime muraglie
 e che vedeste due tigri, una avanti, l’altra dietro di voi, che s’incamminano entrambe verso di voi a distanze eguali, che fareste? Se poi fossero di quelle tigri del celeberrimo Angelo da Costanzo
Se non sei fiera tigre in volto umano
che fareste? Nol so. Paride il pomo avria diviso, divide et impera, si suol dire, e se il consiglio si dà per un comando d’usurpazione, passa,
 ma se mai il consiglio si pretendesse che fosse da buon politico per
 un governo stabile, dico che è un errore. Quanto sono in maggior numero e più conspiranti le forze, tanto maggiore è l’azione in politica come in mecanica; perciò quando è più unita e uniforme l’immagine della felicità nei membri d’uno Stato, tanto più conspiranti e possenti saranno le forze per ottenerla, onde la vera massima d’un illuminato Legislatore sarà non già dividi e impera, ma bensì unisci e spingi. Nelle Nazioni selvagge, ristrette a poche idee e signoreggiate dai soli bisogni fisici, facilmente si uniscono le forze e naturalmente si spingono alla felicità; ma nelle nazioni passate per i gradi diversi di coltura tanto sono varj e molteplici in ogni uomo gli aspetti della felicità, che s’incrocicchiano e si elidono le forze, e tendono a distrarre e lacerare l’organizazione anzicchè a spingerla al bene. Nelle Nazioni colte, adunque, se non vi si crea una idea trionfatrice e universalmente non si sparga nelle opinioni degli uomini, per modo che entusiasti in quel punto si uniscano e vi si spingano, non sarà mai sperabile una vigorosa tendenza al bene. L’amor della Patria, l’idea dell’onore, i robusti sentimenti di religione, il desiderio della libertà civile: uno di questi sentimenti bisogna che cautamente il Legislatore lo coltivi e lo fomenti sino al fanatismo, per rendere alla società incivilita la robustezza selvaggia, la quale sola è capace di far cose grandi, poichè cose grandi non si fanno se non con molto numero di forze vigorosamente cospiranti. L’accorto Legislatore d’una nazione corrotta e languente, in cui infiniti sono i bisogni, creerà un bisogno artefatto vincitore di tutti gli altri bisogni, e per tal modo avrà data l’anima alla sua Nazione. Dividi e comanda è una cabaletta, unisci e spingi è il desiderio d’un eroe. Quando il Barone di Secondat va indagando i principj motori degli uomini sotto diversi Governi, realmente cred’io va cercando qual sia il bisogno fattizio in cui deve il Legislatore riunirli per rendere cospiranti le forze, e siccome questo bisogno basta che sia una semplice opinione, così non si è curato d’esaminare intimamente l’indole dell’onore o della virtù, bastandogli indicare quella idea, qualunque ella si fosse, che, impressa generalmente negli animi de’ tali uomini, sia la più conducente a fargli agire senza scomporre la forma originaria del Governo. Quel Romano che deridendo gli Aruspici gittò i polli a bere nel mare poichè non volevano tripudiare, era un incautissimo uomo, poichè offendeva il principio motore de’ Romani, e fu battuto. Alessandro che diè la sciabolata sul nodo era un grand’uomo anche in quella azione, poichè con quel taglio rese cospiranti le idee di tutti quei che credevano ai vaticinj e se ne prevalse. Il punto sommo, nel formare la constituzione di uno Stato, si è di salvare sicurezza e libertà, e collocarle per modo che si limino il meno che si può. In uno Stato corrotto quei
 che reggono traggono i massimi vantaggi dai mali pubblici, perciò abborriscono qualunque novità; i figlj di famiglia in vece desiderano le novità non solamente perchè il vigore della età ve li spinga, ma perchè essi realmente sono la porzione meno libera e felice che sia in uno Stato, onde nel cambiamento la probabilità per essi è di migliorare.

È una cosa crudele per altro che i giovani, i quali sono essi poi che all’incontro difendono la società, siano tanto abbandonati dalle leggi; ma se si facesse altrimenti, s’allontanerebbero troppo i cittadini dall’ammogliarsi, e anche in ciò bisogna prendere con discrezione un punto di mezzo. Gli uomini illuminati che presiedono ad una constituzione debole e vacillante riguardano come un male e un mal grande qualunque mutazione in ogni genere. Le opinioni degli uomini sono talmente connesse le une colle altre che nessuna è talmente sterile ed isolata sì che da essa non vi sia, per un labirinto di fila intralciatissime, passaggio a tutte le altre opinioni; così un cambiamento qualunque in uno Stato è un principio di fermentazione che si va dilatando con moto accellerato in progresso. Le sole mutazioni utili in sì fatti governi sono le mutazioni che tolgono le mutazioni, cioè il ritorno agli usi antichi. La costanza nella filosofia peripatetica era ridicola in faccia d’un fisico, ma era conforme ai principj di alcuni ceti in faccia d’un filosofo. La proscrizione della vana filosofia delle Scuole è il colpo più grande e più universale accaduto alla società da secoli e secoli, benchè sin ora non sia stato molto sensibile. Il ragionatore, lo spettatore del teatro del mondo ne vede i progressi, ne vaticina le conseguenze, e il Cavalier gentile appende alla cattenella dell’orivolo la carrozzetta, il cannoncino, la pistolina e il campanello, per il che rende sonoro il passeggio. Oh, in questo, poi, credo che veramente dobbiamo cederla agli antichi, poichè abbiamo inventata la ingegnosissima macchinetta dell’orivolo, che è una invenzione della quale possiamo gloriarci: a ben considerarla pare impossibile come la mano del uomo abbia potuto far un lavoro così esatto e minuto; se un antico alzasse la sua testa dalla tomba e volesse disputare sulla perfezione delle arti, io gli mostrerei una ripetizione, e credo che riporrebbe il capo sotto al coperchio e lo chiuderebbe; ma se appesi vi fossero tanti frivolissimi ciondoli come si usa e come si può concedere ai bamboli e non più, avrei rossore a presentarlo. Colle mode nostre troviamo la strada di rendere ridicole anche le cose più belle, ma anche questi ciondoli da qui a vent’anni spero che non si porteranno più.

La disputa si riscaldò assai e già già potea chiamarsi una feroce contesa, quand’ecco la vezzosa moglie di Menelao, la divina Elena, con due brune, vivacissime pupillette che lampeggiavanle sotto una piccola fronte dolcemente sorridendo, s’avvanzò, e presentando una rosa all’uno ed un anemone all’altro con una mano d’alabastro tornito, gli fè restare attoniti e sorpresi, e quai pacifici agnellini divennero. Volle la bella greca che una dilicatissima cena terminasse il disidio, e Paride che stava accanto a lei: Dea, le disse, se un regno perdessi per rendermi a voi grato, mi troverei contento. Un simulacro di Pallade era nella gran sala, ed a que’ detti appassionati s’udì una grave voce uscire dal simulacro medesimo, la quale rese mutoli i convitati e così disse: Incauto! Sin che hai la forza in mano spereranno e temeranno, e rivolti a te gli uomini a gara ti offriranno i beni della vita; s’essi non hanno altra base che il capriccio d’un cuore, che la vanità o il tedio ti posson togliere, misero te! Pallade ragionava così perchè era una statua e le statue non hanno mai trasporti, ma Paride si curò poco di quel salutare ricordo, e se la fama lo ha poi trattato male, se lo è meritato col tradire vilissimamente l’ospitalità.

La fama però è una cosa curiosa: ciascuno crede che quello che lo occupa ed occupa quella società in cui vive sia veramente l’occupazione di tutto l’universo, e crede che sia fama quello che è appena l’ogget
to della curiosità nel suo mestiere. Stavasi alle grate di un Convento di Monache un Generale, per accidente vi erano pure un Musico ed un Poeta che dovevano accomodare un motetto, e v’era il Medico ivi venuto per visitare le Monache ammalate. Il Generale, che da solo a
 solo si annojava in quella visita, procurò che costoro si trattenessero 
a far ciarle insieme. La conversazione andò vagando su cento oggetti diversi e sempre interrotti, sin tanto che, non so per quale combinazione, si parlò di un Inverno singolarmente freddo sofferto alcuni anni sono: gli uni dicevano è stato il tal anno, gli altri dicevano è stato il tal altro. No, disse la Monaca, il freddo orribile fu, or ora ve lo faccio toccare con mano, fu appunto in quell’anno in cui ebbe quel gran raffreddore Suor Lucia di Santa Veronica. Non si potevano trattenere dalle risa i quattro ascoltatori, e il Generale non potè a meno di non dirle: Signora, che volete che sappiamo noi di Suor Lucia di Santa Veronica! Credete voi che noi contiamo gli anni da’ suoi raffreddori? 
Oh Signor Generale, replicò la Monaca, Suor Lucia di Santa Veronica 
è una Religiosa famosa, ognuno sa che ella ha portato in questo Monistero il secreto de’ biscottini color di rosa; quando ella era ammalata persino Monsignor Vicario è venuto a chiedere sue nuove, è famosa, Suor Lucia di Santa Veronica. Sarà, rispose il Generale, ma ritorniamo all’anno di quel terribile Inverno. Signore, disse il medico, credo che Vostra Eccellenza avrà un’epoca sicura. Il gran freddo fu appunto in quell’anno in cui venne in Italia la maniera di far le calamite artificiali, perchè mi riccordo che le lamine d’acciajo a gran pena le poteva maneggiar fralle mani, e il termometro… Per amore del Cielo, cosa mi andate imbrogliando colle calamite e i termometri!, disse il Generale. 
Il Poeta allora prese lena e, Signore, disse, appunto sul freddo di quel terribilissimo Inverno si ricorderà Vostra Eccellenza di quel famosissimo sonetto che fu fatto:

Sveglia l’obliquo ed infecondo raggio
Dal carro impallidito il biondo nume
Innorridisce e immobile sta il fiume,
Dimenticando il fluvido viaggio.

Oh, oh, oh, esclamarono la Monaca, il Generale, il Musico ed il Medico. Il Cielo ve la perdoni, disse il Generale, colla celebrità de’ vostri famosi sonetti che non ho mai inteso a nominare, voi altri poetini credete che l’universo abbadi ai vostri sonetti! Dice ottimamente Vostra Eccellenza, soggiunse allora il Musico, questo è quello che mi andava appunto ripetendo Bernacchi, che i poeti hanno delle pretensioni gigantesche. E chi è questo Bernacchi, disse il Medico che voleva vendicarsi delle sue calamite. Oh, oh bella, replicò il Musico, lo saprà bene Sua Eccellenza chi è Bernacchi famoso. No davvero, disse il Generale, non l’ho mai inteso a nominare. Lo saprà la Reverenda Madre. In vita mia, rispose, non ho mai udito tal nome. Eh, cospetto, disse il Musico, mi pare impossibile! Bernacchi, quello che ha dato l’anima e l’espressione alla musica vocale, Bernacchi, quello che ha introdotto il pomposo e l’eroico nel canto, Bernacchi, il Dio della musica! Sbadigliò alla veemenza di questa declamazione il Generale: Datevi pace col vostro Bernacchi, che noi non abbiamo mai avuto che fare niente con lui. Sapete, Signori, quando fu quel freddissimo inverno? Fu l’anno avvanti che si facesse la sorpresa di Hochkirchen. Era un Prussiano forse questo Hochkirchen?, disse la Monaca. Il Musico, che era stato in Germania: Oibò, disse, è un fiume di Germania. Il Generale non potè più starsene quieto: Ma cospetto, disse, cospetto! Non v’è cosa più famosa al mondo della sorpresa di Hochkirchen, tutti gli avisi, tutte le gazzette del mondo ne hanno parlato. Rimase per qualche intervallo mutolo il circolo, ciascuno vi si trovava male: il Generale se ne andò e ciascuno fece lo stesso. La Monaca riferì alle Suore la ridicola ignoranza di coloro che erano stati a visitarla, de’ quali nessuno conosceva Suor Lucia di Santa Veronica che ha introdotti i biscottini color di rosa, e le Suore ne risero smascellatamente. Il fisico se ne andò in una società di amici, e li fece ridere ben bene sulla cecità di coloro
 che nemmeno sospettavano delle scoperte fatte sul magnetismo con tanto utile della navigazione e con tante speranze per le scoperte che
 si possono tentare. Il Poeta cominciò a stendere un capitolo contro la profana turba che in questo secolo perverso non cura gli spiriti gentili 
e i cigni sacri ad Apollo ed alle caste suore bevitrici dell’onda ascrea. Il Musico scrisse una lettera al suo corrispondente per fargli toccar con mano a qual segno fossero barbari gli uditori che dovevano ascoltarlo nel Carnevale a far la parte di Coriolano, per il che non sperava più d’avere buon incontro. Il Generale prese opinione che il paese fosse estremamente ignorante. Un Filosofo da tutto ciò ne cavò alcune riflessioni sulla fama, sulla celebrità, sulla chimera presso di cui tanti ansando corron dietro, e concluse che gli uomini lo stesso oggetto lo guardano sotto un particolare punto di vista.