Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano

Cesare Beccaria
DEL DISORDINE E DE’ RIMEDI DELLE MONETE NELLO STATO DI MILANO NEL 1762

Testo critico stabilito da Gianmarco Gaspari (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, III, 2014, pp. 17-46)

Heleborum frustra cum iam cutis aegra tumebit
poscentes videas…
Pers.

Il disordine del sistema monetario è sì interessante per le pubbliche
e private ragioni, che non è maraviglia che sia uno de’ più triviali soggetti di discorso nelle nazioni che hanno la mala sorte di provarlo. Nella maggior parte degli uomini manca il vigore per rimontare ai principii grandi e universali, e discomporre con analisi le mal combinate idee, unico mezzo per discoprire le vere relazioni delle cose; altri
si fanno giuoco dell’umana debolezza, e colla facile superiorità di alcuni termini non volgari constituiscono nella società un commercio
di errori, fondato sulla docilità de’ molti e sull’impostura di alcuni; quindi ne viene che declamazioni, tesi e aforismi si ripetono, in materia di monete, non migliori per lo più del silenzio.

La verità non va mai disgiunta dall’interesse della nazione, e, in conseguenza, da quello del sovrano; perciò ho cercato di renderla sensibile col metodo, colla precisione, e collo squarciare quel velo che la ricopre al pubblico: m’intendo i termini dell’arte atti solo a restringere le cognizioni fra un piccolo cerchio di persone. A tre teoremi ho ridotti i principii sparsi in più volumi; ho calcolata la natura del nostro sbilancio; ho proposto quanto credo utile per rimediare al disordine, e così far passare le nozioni di questa parte dell’economia politica dal silenzio de’ gabinetti de’ filosofi alle mani del popolo.

Mio scopo è d’essere utile alla patria, a cui anche gli errori degli scrittori servono a marcare lo scoglio a cui hanno urtato, e a risvegliare dall’indolente riposo gl’ingegni capaci di meditare: non nobis solum nati sumus, ortusque nostri partem patria vindicat (Cicer., De off., lib. I).

Parte prima
Principii universali sulle monete

Prima ch’io parli dell’attuale disordine delle nostre monete, è necessario dare un’occhiata generale alla origine e natura del danaro, ed addattare idee chiare e precise a termini comuni ma poco intesi.1

L’introduzione delle monete non nacque da una espressa convenzione (la quale non ha preceduto mai veruno universale stabilimento), ma bensì da ciò che il volgo chiama azzardo, cioè da una disposizione di circostanze non premeditata dagli uomini. I primi commerci non furono altro che baratti. Pecore, lana, buoi, frumento, ecc., si cambiavano reciprocamente; il bisogno e l’utilità davano loro nascimento.

Un incendio, un tremuoto, l’arena d’un fiume hanno verisimilmente fatti conoscere i metalli al genere umano; la religione, l’amore
e l’ambizione fecero risguardare l’oro e l’argento come sostenitori della maestà del culto, come ornamenti adatti a chi amando studiava di piacere, e come un distintivo di que’ pochi ch’erano felici per la miseria dei più.

Dilatatosi poco a poco l’uso de’ metalli, crebbe la voglia di possederli; nacque la brama di cambiare i generi superflui con alcuni pezzi lucenti, che si vendevano a peso. L’uso continuo, la facilità di farne delle suddivisioni perfettamente uniformi, la durevolezza e comodità
del trasporto, accostumarono insensibilmente gli uomini a risguardarli come un equivalente d’ogni altra2 mercanzia, sinché, dilatatosi il commercio da nazione a nazione, la pubblica utilità suggerì di non lasciare l’interesse de’ particolari arbitro del credito della intera società, e col pubblico impronto si autenticò in faccia a tutti gli uomini la verità del peso e la bontà del metallo.3

Il valore è una quantità che misura la stima che fanno gli uomini delle cose.4

Le monete sono pezzi di metallo che misurano il valore, nella stessa maniera che le libbre e le oncie misurano il peso, il piede e il braccio l’estensione.5

Di più, sono le monete come un pubblico pegno per chi le riceve di averne da altri l’equivalente di quel che ha dato; né sono puramente misure, come la libbra e il braccio, cioè nude e mere rappresentazioni; ma bensì sono misure inerenti ad una mercanzia divenuta la base del commercio.6

La lega è un metallo vilissimo, frammischiato col metallo fino. Così chiamasi lega la porzione di rame che è impastata colla maggior parte delle monete d’oro e d’argento.

La raffinazione d’un metallo è la depurazione di esso da ogni altro metallo o materia straniera. Questa chimica operazione esige perizia e spesa, quindi è che un’oncia d’oro raffinato vale la spesa della raffinazione di più che non valeva quando era frammischiata con altre materie.

La proporzione de’ metalli non è altro che il numero rappresentante la quantità di metallo necessaria per comperare una data quantità d’un altro. Essa è il risultato della rispettiva quantità d’oro, argento e rame che sono in commercio. Questa proporzione è instabile a misura che dalle miniere si estrae più o meno d’oro, d’argento e di rame,7 ed a misura che il lusso o l’avarizia ne sottraggono più o meno dalla massa circolante. Sono questi gli elementi dai quali nasce la proporzionata stima degli uomini, e, conseguentemente, il valor relativo de’ metalli.

Le nazioni diverse d’Europa, tanto internate reciprocamente per un incessante e vivo commercio, devono considerarsi come una sola nazione: sono elleno come diversi stagni comunicanti; l’allontanarsi dal comune livello gli espone o ad una funesta innondazione, o ad una perdita considerabile.

Il conio fatto al metallo né aggiunge né toglie valore alle monete, non altro essendo che un solenne attestato, di chi rappresenta la nazione, della quantità e finezza del metallo.

Il valore delle monete tanto dipende dalla natura delle cose, quanto i fenomeni del cielo e della terra dipendono dalla gravità universale.

I seguenti teoremi metteranno nella più chiara luce coteste fondamentali verità. Farò studio di allontanarmi dai termini dell’arte per rendere queste interessantissime nozioni meno spinose anche a chi non abbia consacrata parte della vita a meditare su questo ramo della economia politica.

Teorema primo
Una egual quantità di metallo deve corrispondere ad un egual numero di lire in ogni moneta.

Un esempio servirà di spiegazione e di prova. Suppongasi che la tariffa fosse regolata in guisa che cento lire in gigliati contenessero grani d’oro fino 488, e cento lire in zecchini di Savoia grani d’oro fino 448. I banchieri e gli orefici, sì nazionali che stranieri, esaminatori dell’intrinseco, vedendosi aperta la strada ad un utile commercio, toglierebbero dalle mani del popolo quanto più gigliati potessero, rendendo adesso i zecchini di Savoia, e sarebbero essi i mediatori di questo commercio rovinoso per lo stato, in cui uscirebbero dalla nazione
 40 grani d’oro fino per ogni cento lire in gigliati, colla perdita di essa nazione dell’8 per cento. Né si speri d’impedirlo colla legge proibiti
va. L’esca dell’utile è troppo forte, la facilità di deludere troppo grande: l’esempio universale ce ne convince.

Lo stesso discorso facciasi in ogni altra moneta, sì d’oro che d’argento, e vedrassi apertamente che la trascuranza di eguagliare la quantità del metallo al numero delle lire è quel magico anello che fa subitamente sparire ora l’oro ed ora l’argento.8

Teorema secondo
Come il totale di un metallo circolante è al totale dell’altro, così una data parte di un metallo deve essere
ad una egual parte dell’altro metallo in ogni moneta.

Mi spiego. Tanti grani, tante oncie d’argento devono valere un grano, un’oncia d’oro, quante volte tutta la massa dell’argento circolante contiene la massa dell’oro.9 Siano per esempio in Europa quattordici volte più argento che oro in commercio, allora la proporzione dell’oro all’argento sarebbe come 1 a 14; e regolando le monete si deve far sì che, cambiando l’oro in argento, o l’argento in oro, qualunque sia la forma o l’impronta delle monete, io dia sempre un’oncia d’oro puro per quattordici oncie d’argento puro,10 e viceversa. Lo provo.

Se una nazione valuterà l’oro più del giusto, per esempio un grano d’oro quindici grani d’argento e non quattordici, allora gli altri popoli commercianti manderanno ivi tutto l’oro, ne estrarranno in contracambio l’argento, e la incauta nazione perderà per ogni grano d’oro un grano d’argento, vale a dire la quindicesima parte del valore dell’argento che verrà estratto; ed un editto che regolasse in questa guisa le monete sarebbe lo stesso che un bando delle monete d’argento, e un comando ai sudditi di donare alle nazioni estere 71 grani d’argento fino per ogni gigliato di grani settantuno d’oro fino, cioè più della settima parte d’un filippo, cioè più di venti soldi per ogni gigliato, il che equivale a più del 7 per cento.11

Quando poi l’oro fosse valutato meno del giusto, per esempio un grano d’oro fino grani tredici d’argento fino e non quattordici, allora da quella nazione sortirebbe tutto l’oro e vi entrerebbe d’argento una quattordicesima parte di meno di quello che dovrebbe entrarvi, il che ascenderebbe parimente ad un discapito del 7 per cento.12

A questo medesimo principio si riduce il disordine della moneta di rame chiamata erosa, qualora essa non abbia quell’intrinseco reale valore che corrisponde a quella quantità d’oro ed argento alla quale si vuole nella tariffa farla eguale. Se per esempio in venti de’ nostri soldi
 in rame non vi sia tanto valore intrinseco, che comprar possa due quindicesimi del filippo, allora il popolo, trovandosi in mano una moneta ricusata nel commercio esterno, non ammessa indistintamente nel pagamento de’ tributi e de’ grossi contratti, s’avvede della fallacia, la vàluta meno, e per gradi insensibili tende a ristabilire la natura
le proporzione. Così la lira, che al principio dello scorso secolo era la quinta parte del filippo, ora è diventata meno della settima, e col numero delle lire si contano i tributi. Di più: quanto si moltiplica que
sta moneta entro una nazione, altrettanto ne esce della buona, crescendo i prezzi a misura che crescono le rappresentazioni del valore; così la nazione cambia un valor reale con un valor metafisico, e fa tanto cattivo contratto, quanto quei creduli marinari che comprano il vento dalle streghe lappone.

Che se poi le nazioni che le fanno corona, col contraffare nelle loro zecche simil feccia di monete, estraeranno il più prezioso midollo di quello stato, allora la rovina sarà estrema. Ben è vero che può il legislatore prendersi tanto arbitrio sulla bassa moneta, quanto è più difficile e incomodo il trasporto, rappresentando essa, sotto un maggior volume, valor minore dell’altre. Gl’inconvenienti d’un’azione scemano a misura che crescono gli ostacoli ad eseguirla.

Teorema terzo
Nello stabilire il valor delle monete non si dee considerare che la pura quantità di metallo fino, nessun conto facendo né della lega, né delle spese del monetaggio, né della maggiore raffinazione d’alcune monete, ecc.

Quanto alla lega, ella è di così vile estrazione e di sì minimo valore, che può considerarsi eguale a zero13 in grazia della semplicità necessaria nel regolamento sulle monete, cosicché una moneta che abbia lega deve considerarsi come mancante di tanto peso quanto è quello della lega; e l’assegnare alla moneta calante il valore dell’intera è lo stesso che il comandare che la parte sia eguale al tutto, e che spariscano le migliori monete per dar luogo alle peggiori, le quali non suppliscono che mentalmente al reale discapito.

Quanto alle spese del monetaggio, è giusto che restino a carico della nazione, ma non vedo necessità di addossarle alle monete medesime.14 Questo accrescimento di valore, non appoggiato alla quantità intrinseca del metallo, ci farebbe ricadere in que’ disordini di sproporzione che i due primi teoremi insegnano d’evitare: la confusione rientrerebbe poco a poco nell’antico suo dominio, e si verrebbe di nuovo a fare un cambio di sostanza con apparenza, di reale con immaginario.15

Lo stesso ragionamento ci prova che le monete raffinate non devo
no valutarsi più dell’altre non raffinate; poiché, sebbene chi le conver
te in altri lavori risparmi la spesa della raffinazione, pure il vantaggio di alcuni deve cedere alla prima, e forse unica, legge di natura, l’utilità comune, la quale nella università e semplicità delle leggi consiste.

Questa predilezione delle monete più pure altro non farebbe che obbligarci a pagare una manifattura straniera, e mantenere a spese nostre gli operai delle zecche raffinatrici, le quali, estraendo il nostro oro non raffinato, ce ne renderebbero minore quantità di raffinato, e di tanto impoverirebbero la nazione facendo un traffico avvantaggioso della nostra prevenzione.16

Corollari

Queste regole, che dipendono dal fatto, non dall’arbitrio di verun legislatore, hanno seguito quelle nazioni che si son rese padrone del denaro di Europa, e che non ci lasciano godere delle ricchezze che il soverchio, che, per così dire, ne rigurgita indietro.

A misura che una nazione s’allontana da questi principii, diminuisce in essa il denaro, la scarsezza del denaro produce l’aumento degl’interessi de’ capitali, con esso i debiti, poscia i fallimenti e quindi la perdita della pubblica fede, col destino della quale va inseparabile il commercio; sicché uno stato, benché vasto, rimane come il cadavere d’un gigante, su cui passeggiano i più vili insetti.

Durante l’accrescimento della massa circolante si aumenta l’industria, che è quel fuoco sacro che i sacerdoti della patria e del ben pubblico devono sempre mantenere acceso, e che forma la felicità e la vita delle nazioni; sminuita l’industria, languisce il commercio, e sulle sue rovine s’innalza la povertà: non quell’altera disprezzatrice delle ricchezze che fu il palladio della libertà di Sparta e di Roma, ma bensì quella infingarda che produce la miseria e l’avilimento delle nazioni, che, cominciando dalla infima plebe, si solleva per gradi sino al trono.

Quello stato di guerra in cui Hobbes ha creduto essere le genti, si verifica nel commercio e nelle monete, dove ogni nazione cerca d’arricchirsi coll’impoverimento altrui,17 e combatte più coll’industria che colle armi. Aprendo le storie, si trovano dall’indolenza cambiate in deserti e solitudini le più floride nazioni.18

Lo sproporzionato regolamento delle monete è manifestamente contrario agl’interessi del sovrano; mediatamente, perché impoverisce la nazione; immediatamente, perché per un momentaneo guadagno che può aver fatto battendo cattiva moneta, perde un’annua rendita nel ricevere i tributi in quella stessa moneta cattiva, a cui ha dato il nome e il valore di buona.

Gli editti non possono cambiare i rapporti invariabili delle cose, né si possono togliere gli effetti se si lasciano sussistere le cagioni. Quella nazione che pubblicasse editti contrari al vero valore delle monete, farebbe lo stesso male che colui che tosasse o facesse moneta falsa; e, contraddittoria a se medesima, punirebbe negli altri il male che essa ha fatto.

Gli errori in questo genere, simili a quelli di calcolo, per la loro piccolezza fuggono a chi non è ben cauto e illuminato; indi, per una invisibile catena trovandosi moltiplicati all’immenso nel progresso, sono come un punto divergente, onde le nazioni si allontanano dalla loro felicità.


Il consultarsi, in fatto di monete, co’ banchieri e negozianti, i quali non al pubblico bene della patria levano gli sguardi, ma li restringono nella sfera del loro interesse, ben sovente opposto a quello della nazione, sarebbe lo stesso che se un generale consultasse col nemico il piano delle operazioni da farsi. Lo sbilancio delle monete è un fondo de’ più fertili per un banchiere.

In somma, niente è più fatale, sì nelle monete come in ogni altra classe di cose, quanto la confusione e il disordine in ciò che è la regola e la misura comune.

Parte seconda
Applicazione de’ principii universali al caso nostro

L’epoca fatale, in cui cominciò fra di noi la malattia politica delle monete, fu la medesima in cui si dette un crollo al nostro commercio, tanto florido in prima e sempre decaduto dappoi, cioè al principio del passato secolo. Fu in quel tempo che quasi l’Italia tutta non solo alterò
le proporzioni fra oro e argento, ma adulterò e circoncise la moneta bassa, e diede essere a un valore immaginario e ad un prezzo metafisico, potendosi perciò dire che la tirannia del Peripato dalle università si insinuò ne’ gabinetti e diede leggi alle monete ed al commercio.

Il raddoppiamento di Capo di Buona Speranza costò all’Italia la perdita del commercio e per conseguenza del denaro. Cambiatasi la direzione de’ viaggi, fu ella lasciata in un angolo, quando prima era il centro d’ogni commercio e la patria delle nazioni tutte. L’aumento della massa circolante, che ravvivò l’industria e fece fermentare gli animi delle altre nazioni, non servì all’Italia che ad alterare il sistema monetario; né ebbero gli italiani, avvezzi a dare la legge, l’avvedimento di seguire l’altrui, poiché la necessità delle circostanze lo esiggeva; 
né fecero regolamenti appoggiati a sodi principii, onde rimettersi a livello colle altre nazioni. Lungo sarebbe il tessere la storia di tutti que
gli editti, che non furono altro che ferite al sistema delle monete, e decreti d’impoverimento: altri vi è che ha già compilata la storia del nostro commercio, ed ha posto in chiaro il disordine con cui l’economia politica è stata trattata fra di noi per cento settanta e più anni, quanti ne durò la dominazione spagnola; se questa storia vedrà la pubblica luce, sentirà sempre più ogni buon cittadino quanto sia degno di benedizione il governo della augusta Casa d’Austria di Germania, la quale, da che felicemente regna nella Lombardia, ha distrutti in gran parte gli ostacoli che s’erano opposti al pubblico bene; ed è da sperarsi che anche nelle monete sentirà questa provincia i benefici effetti de’ veri principii, che le tengono regolate negli altri Stati suoi ereditari. Ma veniamo al caso nostro.

Per esporre alla più chiara luce il disordine attuale delle nostre monete, conviene esaminare la legge regolatrice di esse monete, sotto la quale viviamo; perciò la prima tavola ch’io presento contiene l’ultima tariffa di Milano, a cui di contro ad ogni moneta ho opposta la quantità di metallo fino che vi si contiene. Di più vi ho aggiunte alcune altre monete inutilmente escluse, le quali attualmente circolano fra di noi.


Mi sono appoggiato su i saggi fatti a Torino e altrove, quali ce li dà il conte Carli. L’autorità di questo illustre scrittore, la sua scrupolosa diligenza sono maggiori d’ogni eccezione. Il fino di alcune monete, poi, che mancano nella grand’opera del conte Carli, l’ho cavato dalle tavole pubblicate nella relazione del presidente Neri.

I nomi di carato, di marco, di peggio ecc., credo utile al mio fine di lasciarli; perciò le mie tavole sono affatto diverse da quelle degli altri autori; non per i soli professori di questa scienza, ma per tutti gli altri uomini di retto giudizio mi sono prefisso di scrivere, e sarò ben contento del tempo che vi ho impiegato, se essi vi troveranno la verità e la chiarezza che mi sono studiato di ricercare. I secondi rotti nella tavola seconda e terza gli ho omessi, bastando i primi a dare l’idea che credo opportuna (ved. Tavola n. I).


Questa prima tavola non è tanto necessaria ad esaminarsi per se medesima, quanto lo è considerandola come base e fonte dalla quale ne nascono le altre. In essa contengonsi i fatti, il valore intrinseco, che risulta dagli sperimenti, e il valor numerario, che risulta dalla tariffa.

Come nel primo teorema abbiamo stabilito che una eguale quantità 
di metallo deve corrispondere ad un egual numero di lire in ogni moneta, così
mi son portato ad esaminare ogni moneta per osservare se nella tariffa si fosse obbedito a questa legge. Ho calcolato quanto di fino contengano cento lire in diverse monete, e il risultato de’ calcoli è che questa relazione è differente in ogni moneta, cosicché, prendendo, fralle monete d’argento, la lira di Savoia e la genovina, possono nel cambio le nazioni estere guadagnare a nostro danno lire 10 sol. 8 den.
 4 per cento; e fralle monete d’oro, cambiando la dobla di Genova collo zecchino di Savoia, lire 16 sol. 9 den. 8 per cento di profitto possono gli Stati commercianti con noi ritrarre dagli errori della nostra tariffa (ved. Tavola n. II).

Dopo aver dimostrato nella seconda tavola le sproporzioni che sono nella tariffa fra oro e oro, e fra argento e argento, ho paragonata ogni moneta d’oro con ogni moneta d’argento, e da questo paragone ne risulta che la legge fissata nel secondo teorema non vi è osservata, cioè che l’oro coll’argento non ha una eguale e costante proporzione, ma essa è talmente arbitraria che, lasciando i rotti, ora è come uno a dodici ed ora come uno a sedici. Se due cose eguali a una terza lo sono fra di loro, ne viene che abbiamo aperta la strada alle nazioni commercianti con noi di estraere 16 oncie di fino argento per 12 oncie di egual metallo che ci mandano, e così continuare il rovinoso commercio a nostro danno coll’insigne discapito del 25 per cento (veggasi la Tavola
 n. III).

A questi disordini se ne aggiungono due altri. Il primo è l’enorme sproporzione che passa fra il filippo e i cinque soldi di Milano, poiché contengono essi circa quindici grani d’argento fino, che per ogni lire cento danno grani 6000, quando il filippo dà grani 6926 circa. La differenza è dunque di grani 926, i quali a denari 3 al grano fanno lire
11, soldi 11, den. 6 per ogni cento lire.

Il secondo è la grandissima differenza che passa fra i venti soldi in rame e la lira d’argento: poiché i venti soldi non hanno che 14/20 di valore intrinseco e sei ventesimi di valore chimerico, secondo il calcolo evidente del conte Carli, tomo II, pag. 468, al quale mi attengo, cosicché di cento mila lire in moneta di rame non se ne ha che settanta mila di vero valore reale, e trenta mila d’immaginario.

Poiché abbiamo sottoposti alla dimostrazione del calcolo gli sbagli della tariffa, credo opportuno, prima ch’io proponga i rimedi a questo male, di fare qualche cenno delle opinioni che più volgarmente si odono ripetere. E primieramente taluni credono che il nodo misterioso in questa materia sia il decidere se all’oro o all’argento si debba dare la preferenza. Questa dubitazione suppone una perfetta oscurità ne’ principii, i quali anzi insegnano di non dare preferenza veruna: quanto sin qui si è detto lo prova abbastanza.

Altri, informati che il principale commercio d’Oriente, e particolarmente della China, si fa dagli europei col solo argento ad esclusione dell’oro, vorrebbero dar preferenza all’argento. Lo sbaglio nasce dal voler calcolare due volte la medesima quantità, la quale è già stata considerata nel valor medio europeo. Noi, abitatori d’un piccolo stato, sconnessi dal commercio delle Indie Orientali, non dobbiamo aspettare dalle estremità dell’Asia veruna immediata influenza.

Vorrebbero altri che dai limitrofi soltanto prendessimo la legge. O i limitrofi sono in equilibrio col resto d’Europa ed hanno le loro tariffe regolate secondo la verità e natura delle cose, e allora sarà bene regolarci con essi, non perché sieno limitrofi, ma perché, andando essi per la strada vera, dobbiamo esser loro del pari; o i limitrofi si allontanano da questa strada, e allora, in vece di unirci con essi, il che sarebbe un volere discapitare in società, regolandoci anzi secondo la verità, verremmo a cavar profitto dagli errori da essi fatti.

V’è chi dice: essendo piccolo paese il nostro, non è possibile fissarvi regolamento né dar legge alle monete. Se questa proposizione si intendesse nel suo buon senso sarebbe una vera massima, cioè che non abbiamo noi bastante influenza sull’Europa per mutare la relazione de’ metalli, onde ci conviene ricevere la legge, non darla. Ma chi così parla forse non ha di mira questo principio. In ogni caso un paese anche piccolo può regolare la legge monetaria in guisa che il valor numerario corrisponda costantemente alla quantità dell’intrinseco, e che costantemente pure conservisi la proporzione da metallo a metallo, il che vuol dire aver ben regolate le monete.

Taluni pensano d’aver rinchiuso in un solo aforisma la scienza monetaria col dire che bisogna che una moneta non compri l’altra. La proposizione contraria è appunto la vera, se la parola comperare significa avere un valore proporzionato; se poi s’intende che comperare significhi aver un valore eccedente intrinseco con eguale numerario, o sia eguale intriseco con eccedente numerario, allora sarà una proposizione esposta con termini inadequati.


Altri non mancano, i quali, vedendo ineseguite le passate gride monetarie, vanno incolpandone il popolo, anzi che la cattiva natura della legge, e disperano di regolar bene le monete, perché il popolo non vuole ubbidire. Sin che vi saranno saggiatori e acqua forte non si potrà ingannare il popolo in materia di monete. Quel niso che porta il popolo ad accrescere il valor numerario delle monete, è appunto una correzione che per istinto la natura stessa cerca di fare allo sbaglio della legge monetaria. Gli esteri, gli argentieri e i cambisti ricevono le sole monete dove il valor numerario sia accompagnato da più intrinseco, e il popolo preferisce più le monete che più universalmente
si ricevono. Facciasi una legge conforme alla verità, e cesserà la disubbidienza del popolo, o, per dir meglio, l’errore della legge.19

Né sarei io del parere di quelli i quali temono gli argentieri come capitali nemici del regolamento monetario; profitteranno essi bensì de’ nostri errori, ma, fatta che sia la legge veridica, o fonderanno essi le monete per trasmettere l’oro e l’argento lavorato fuori, ed è sicuro che non solo rientrerà eguale quantità di metallo, ma di molto maggiore per il prezzo della manifattura; o colle monete fuse eserciteranno la loro arte per gl’interni nostri bisogni, e certamente non si toglieranno dalla massa circolante le monete che a misura che la massa totale medesima s’accresce; dal quale accrescimento prende norma il lusso. I mobili d’argento e d’oro sono come un tesoro al quale ricorrere nelle estremità, senza che frattanto la massa circolante sia grande a segno di pregiudicare le nostre manifatture nella concorrenza.20

Alcuni finalmente per rimediare a’ nostri disordini ricercano le paste delle nazioni che possedono miniere, onde battere moneta. Io stimo assurdo e contraddittorio questo progetto. Le nazioni padrone delle miniere non danno le paste a chi le vuole, ma a chi porta a loro un equivalente; o le paste ci verranno in iscambio del denaro che invieremo, e allora al più daremmo colla mano destra quello che ricevessimo colla sinistra: dico al più, poiché la spesa della trattazione, del trasporto e del conio sarebbero in perdita nostra, e così non si farebbe che dare accrescimento ai mali che il progetto dovrebbe alleggerire. Che se si pretende che le paste ci venghino in vece delle nostre mercanzie, allora il ricercare le paste vorrà dire che conviene stabilire e proteggere un buon commercio d’industria, che ponga un tributo su i bisogni e i piaceri delle altre nazioni; ma per far questo non si comincia dal domandare le paste.


Quanto poi al desiderio di mettere in lavoro la zecca, io osservo che per un paese come il nostro, che non ha miniere né commercio maritimo, due soli sono i casi ne’ quali può battere moneta con profitto. L’uno è riformare la moneta bassa ed aggiungere in sostanza quello che non ha che in apparenza; l’altro è quando egli sia circondato da altre nazioni nelle quali regnino ancora le tenebre e il caos fra le monete. Allora, estraendo dalla mal regolata nazione le migliori monete
in iscambio delle peggiori che vi si introducono, e riducendo le prime alla forma delle seconde, si arricchirà la nazione avveduta a spese dell’altra, e sarà questo un costante tributo pagato dall’indolenza alla industria. Fuori di questi due casi, il battere moneta non è altro che una commedia di trasformazioni, una perdita inevitabile di metallo nelle operazioni della zecca, ed un pubblico discapito, il quale si converte talvolta in bene d’un progettista, che con pagliati sofismi maschera il proprio guadagno col manto del vantaggio del sovrano, inseparabile da quello della nazione.21

Dopo aver fatti vedere i disordini del presente sistema monetario e
la insufficienza de’ mezzi volgarmente proposti, ora è tempo che, venendo alla conclusione, proponga i rimedi per questa malattia che va ogni giorno più inferocendo, e che è il soggetto delle conferenze de’ ministri e de’ discorsi del popolo.

Primo rimedio è construire una tariffa in cui la stessa quantità d’oro fino vaglia sempre lo stesso numero di lire in ogni moneta, e così dell’argento; o sia che vi sia una costante equazione fra il valor fisico ed il valore numerario. Di più: deve in essa tariffa aver l’oro la costante proporzione coll’argento di 1 a 14 ½, poiché questa è la vera proporzione media europea al dì d’oggi, come lo ha dimostrato evidentemente il conte Carli in quasi tutto il suo secondo tomo.

Secondo rimedio. Siccome la proporzione fra i metalli varia per le diverse vicende del commercio e delle miniere, così non può sperarsi di fissare una legge perpetua alle monete; ma bisogna, tenendo perpetui i principii stabiliti, secondare l’instabile livello d’Europa. Sarebbe per ciò indispensabile, per ovviare a i disordini a venire, la scelta d’un ministro particolarmente consacrato a questa materia, il quale, colle tariffe di tutte le nazioni alla mano, vegliasse al cambiamento della proporzione, e con questo termometro riformasse al bisogno il prezzo delle monete e fissasse col mezzo de’ saggi il valore delle nuove monete che s’introducono; giacché le nobili monete estere è per lo meno inutile il proscriverle22 da un paese così limitato come lo è il nostro.23

Io ho costrutta una tavola in cui il valore di tutte le monete che sono registrate nell’ultima tariffa di Milano, come pure di alcune altre bandite,24 viene esattamente regolato secondo i canoni da me stabiliti.25

Ho voluto scrupolosamente porvi i primi rotti per sino de’ danari, acciò in essa la sola verità avesse luogo, non il mio privato arbitrio; sebbene, qualora si trattasse di pubblicarla come legge, converrebbe forse in alcune monete discostarsi qualche poco dall’estrema esattezza in grazia del comodo conteggio (ved. Tavola n. IV).

Conservo presso di me tutti i calcoli fatti per la costruzione di queste mie quattro tavole, e mi farò piacere di persuadere colla dimostrazione chiunque dubitasse della verità dei risultati, né sapesse da se medesimo dalla prima tavola, contenente i fatti, esaminare le conseguenze che formano le altre tre.

Confesso che sarebbe ottimo provvedimento il rifondere la moneta di rame, ed aggiungere ai soldi quei sei ventesimi che mancano per ogni lira; allora corrisponderebbe la lira a due quindicesimi appunto
di filippo; ma se mancasse il fondo per questa pubblica beneficenza, egli è sicuro però che frattanto, ristabilendo la vera proporzione fralle monete d’oro e d’argento, chiuderemmo l’adito al funesto commercio che si va facendo col cambio delle monete, e ci metteremmo in caso di profittare della sproporzione altrui. Allora la moneta bassa dovrebbe considerarsi non come vera moneta, ma come in parte una rappresentazione di essa, appunto in quella guisa che si considerano le cedole di banco.26

L’amore della verità, il zelo per gl’interessi dell’augustissima Sovrana e della patria, oggetti entrambi ai quali per tanti dolci vincoli l’onesto suddito e cittadino si sente legato, mi hanno guidato in queste brevi riflessioni. Sarò troppo ricompensato, se potrò accorgermi di essere stato in qualche modo utile in una materia sì interessante; ma in ogni caso sarò contento del mio destino, se gli uomini che hanno la intenzione eguale alla mia lo saranno del mio desiderio.

 

NOTE

1 «L’affare della moneta e del conio … vien riputato per un mistero grande,
 e difficile molto a comprendersi, non già perché sia veramente tale in se stesso,
 ma perché quei, che per interesse loro lo trattano, ne ravvolgono il segreto (ed in ciò consiste il vantaggio loro) in misteriose, oscure ed inintelligibili maniere 
di dire, le quali poi, accettatesi dagli uomini per qualche cosa di significante, in virtù di una preventiva opinione della difficoltà del soggetto in una materia non
 sì di facile penetrabile da altri, che da quelli della professione, sono lasciate passare senza esame»: Locke, Nuove considerazioni ecc., Part. 2, art. 2, sez. 1.

2 «Les Athéniens n’ayant point l’usage des métaux, se servirent des beufs, et les Romains des brébis; mais un beuf n’est pas la même chose qu’un autre beuf, comme une pièce de metal peut être la même qu’une autre»: Montesq., Esprit des Loix, Liv. XXII, chap. II.


3 «Origo emendi vendendique a permutationibus cœpit; olim enim non ita erat nummus, neque aliud merx, aliud pretium vocabatur, sed unusquisque secudum necessitatem temporum ac rerum utilibus inutilia permutabat, quando plerumque evenit ut quod alteri superest alteri desit: sed quia nec semper, nec facile concurrebat, ut cum tu haberes quod ego desiderarem invicem haberem quod tu accipere velles, electa materia est, cuius publica ac perpetua æstimatio difficultatibus, permutationum æqualitate quantitatis subveniret, quæ materia forma publica percussa usum dominiumque non tam ex substantia præbet quam ex quantitate, nec ultra merx utrumque, sed alterum pretium vocatur»: Paullus, leg. I, ff. de Contra. empt. Se questa filosofica analisi di Paolo non fosse caduta sotto gli occhi de’ peripatetici glosatori, i quali nella parola electa materia e forma publica credettero di vedere le loro misteriose forme sostanziali, e interpretarono colle formole del Gius civile le parole publica ac perpetua æstimatio, trascurando il Gius pubblico, non avremmo veduto l’errore dettar tanti regolamenti di monete. Chiaramente spiegossi il gran giureconsulto Paolo nella leg. 63 in princip. ff. ad L. Falcid., che pretia rerum non ex effectu neque ex utilitate singulorum, sed communiter funguntur. Ma tale è la condizione di tutte le società degli uomini, che la scienze, le arti, la legislazione, il commercio e la prosperità si dieno la mano, e che gli errori partiti dalla bocca de’ pedanti dilatinsi a segno d’infestare la legislazione e la gloria d’una nazione.


4 Un matematico direbbe che il valore d’una merce è in ragione composta dell’inversa della somma delle merci medesime, del numero de’ possessori, della diretta de’ concorrenti, del tributo corrispondente, della man di opera, e dell’importanza del trasporto, cosicché, adoperando le lettere iniziali di questi elementi, sarà: v · V :: mtci / sp · MTCI / SP, e dividendo la massa dell’oro e dell’argento in parti proporzionali a mtic / sp, ed essendo la proporzione dell’oro all’argento come d. e, sarà mtic / sp o. mtic / sp A :: d. e.

5 Un filosofo le chiamerebbe segni reali di valore, come i caratteri e le paro
le sono segni dell’idee delle cose e dei loro rapporti.

6 «De même que l’argent est un signe d’une chose, et la représente, chaque chose est un signe de l’argent, et l’État est dans la prosperité selon que d’un côté l’argent représente bien toutes choses, et toutes choses représentent bien l’argent»: Montesqu., Esprit des Loix, liv. XXII, chap. II.

7 Se si lasciasse di scavare argento, continuando tuttavia ad estrarre oro dalle miniere, questi scemerebbe poco a poco di pregio fino a cedere all’argento la dignità di primo metallo.

8 «Un État suspend pour long tems la circulation, et diminue la masse de 
ses métaux, lorsque il donne à la fois deux valeurs intrinseques à une même valeur numéraire, ou deux valeurs numéraires à une même valeur intrinseque»: Forbonnai, Élém. du commerce, Tom. II, chap. 9, pag. 85.

9 Per fare questo calcolo non è necessario il cercare la precisa quantità d’oro e d’argento circolante fralle nazioni che commerciano, il che sarebbe impossibile; ma colle loro tariffe osservando qual prezzo diano all’oro sopra l’argento ciascheduna di esse, prenderne il valor medio, in questa guisa. Ridotte le proporzioni dell’oro all’argento ai minimi termini di 1.a, 1.b, 1.c, 1.d ecc., il valor medio sarà a + b + c + d ecc. / 1 + 1+ 1 + 1 ecc.

10 «Nel determinare il pregio dell’oro e dell’argento … ciascheduna delle genti è per legge dell’interesse proprio tenuta a comprendervi e contarvi non quella porzione sola che ne possiede, ma tutta quella intera massa che sa trovarsene dentro l’universale circolo del commercio»: Locke, Saggio sopra il giusto pregio delle cose, Part. 1, sez. 2, § 5.


11 «Comme toute société a des besoins extérieurs, dont les métaux sont les signes ou les équivalens, il est clair que celle dont nous parlons payera ses besoins extérieurs relativement plus cher que les autres sociétés, enfin qu’elle ne pourra acheter autant de choses au-dehors. Si elle vend, il est également évident qu’elle recevra de la chose vendue, une valeur moindre qu’elle n’en avoit dans l’opinion des autres hommes »: Forbonnai, Élém. du commerce, Chap. 9, pag. 73, Tom. 2.


12 Sia l’oro = o, e l’argento = a, e sia o. a. :: c. d., sarà od = ac; ma se una nazione faccia o. a. :: c.d.  ± e, sarà od + eo = ac quando realmente ac = od; vi è dunque una differenza ± eo. Dico che questa differenza sarà in discapito di quella nazione; poiché se la proporzione sarà c.d. + e, le nazioni vicine cambieranno a con o col profitto eo per ogni ac, e se la proporzione è c.d. e, le nazioni vicine cambieranno o con a, ed ella verrà a riceverne per ogni ac solamente od eo in vece di od, cosicché, se alle altre nazioni od frutta eo, od + eo frutterà edoo + e2 o2 / do = eo + e2 o2 / d, e di nuovo do + 2eo + e2 o / d frutterà edoo + 2e2 o2 / do + e3 o2 / d2 = ed3 o3 + 2d2 e2 o3 + de3 o3 / d3 o2 = eo + 2e2 o / d + e3 o / d2 ecc.

13 Benché in una gran somma di metallo fino la lega possa ascendere a qualche valor sensibile, pur nondimeno il non considerarsi la lega nelle monete impure è un compenso al non valutarsi nelle monete più pure la maggiore raffinazione dell’oro; così la trascuranza di questi due dati, che si compensano l’un l’altro, rende più semplice e più pieghevole il regolamento delle monete.

14 «Car il ne seroit pas convenable qu’une égale quantité d’argent valût beaucoup plus ou beaucoup moins dans un seul et même endroit, étant considérée comme marchandise, que quand elle tient lieu de monnoye, c’est à dire qu’une seule et même chose, employée pour se mesurer elle-même, fût plus
ou moins grande n’étant que mesurée que n’étant que mesurante»: Puffendorf, Droit de la Nat. et des Gens, liv. 5, ch. 1, § 16.

15 La comune opinione degli uomini e, quello che è più, l’autorità d’alcuni rispettabili scrittori, non è in mio favore. Fra questi ultimi pare da annoverarsi
il conte Carli, al quale, come italiano, devo tutta la gratitudine per l’onore che
 co’ suoi scritti ha fatto alla comune nostra patria, e, come scrittore di monete, devo la venerazione che l’amore del merito inspira verso i maestri dell’arte. Sembra dunque esso appigliarsi alla opinione contraria nel tom. II, pag. 409, Delle monete ecc. In questo unico punto oso io discostarmi da questo grand’uomo. Le ragioni addotte mi paiono convincenti; addattando poi le teorie universali al caso presente, delle monete provinciali ormai non se ne vede più alcuna fra di noi: se dessimo loro un valore superiore all’intrinseco, rientrerebbero con tanto profitto de’ rivali e discapito nostro, quanto sarebbe il valore arbitra
rio accresciuto. Quanto il sistema monetario è più semplice, tanto è più atto a
far movere la gran macchina del commercio, nella quale, come in tutte le altre,
la moltiplicità degli ingegni e delle ruote rendono men comodo l’uso e più breve la durata.

16 Come per le semplici e universali leggi del Creatore la natura si anima e si mette in moto, la confusione si disperde e cede, così con semplici e universali leggi la società si ravviva e si mantiene, cedono il disordine e l’anarchia. Quanti saranno impiegati a raffinare i metalli nella nostra nazione, saranno altrettanti cittadini, i quali il pane riceveranno dal regolamento ch’io propongo. In oltre l’assegnar maggior valore alle monete più raffinate non impedirà a chi le possiede di volerne riscuoter qualche agio da chi ne ha bisogno per qualche uso, e così si verrebbe a pagare due volte l’istessa cosa, l’una in grazia della legge, e l’altra di quella fatta da chi si prevale dell’altrui bisogno; se questi è straniero, sarà un raddoppiamento di perdita.

17 Le perdite in questo genere sono come le corrosioni d’un fiume, che, quanto ne perde una riva, altrettanto ne guadagna l’opposta, ed un abile politico potrebbe forse, esaminando i libri de’ negozianti inglesi ed olandesi, calcolare la felicità e miseria delle altre nazioni d’Europa.

18 «À voir aujourd’hui la Colchide, qui n’est plus qu’une vaste forêt où le peuple qui diminue tous les jours ne defend sa liberté que pour se vendre en détail aux Turcs et aux Persans, on ne diroit jamais que cette contrée eut été
du tems des Romains pleine de villes, où le commerce apelloit toutes les nations du monde. On n’en trouve aucun monument dans le pays; il n’y en a de traces que dans Pline et Strabon»: Montesq., Esprit des Loix.

19 Gli uomini sono troppo amanti del loro ben essere per discostarsene un momento. Una legge contraria a questo non è mai in vigore. A questa resisto
no le leggi fondamentali di natura, che sono scritte nel cuore dell’uomo con caratteri più indelebili che non in bronzi o in marmi, che cedono al tempo distruggitore. Le leggi arbitrarie, per la loro insussistenza altro non fanno che avvezzare il popolo a non considerare la trasgressione delle leggi come fatale al proprio vantaggio. L’indocilità degli uomini è quasi sempre effetto d’un vizio nella legislazione.

20 Veggasi Davide Hume, Disc. Polit. sur l’argent.

21 «Que dans un besoin de l’État un ministre imprudent permette pour une somme à des traitans de faire des quarts d’écu d’un argent moins fin de la moi
tié de celui des écus, et cependant de la valeur numéraire d’un quart d’écu … l’habile négociant et l’étranger feront leur payement en quarts d’écus et tâcheront de recevoir en écus que feront refondre en quarts, avec profit de moitié. Le Roy ne sera plus payé qu’en quarts d’écus, et ce qu’il aura tiré de cette fabrication tournera à sa perte et à celle de l’État, en faveur de l’étranger»: Melon, Essai politiq. sur le commerce, chap. XII.

22 Fra gli altri paesi che così costumano, vi sono in Germania Hambourg e Francfurt sul Meno, che ricevono indistintamente qualunque moneta al vero intrinseco: Bielfeld, Instit. Polit., T. I, ch. XIV, § 29.


23 «E per levare ogni tentazione di guadagni e tutti i segni nettare, e la cosa far tutta orrevole e chiara e sicura, vorrebbe della moneta tant’essere il corso, cioè spendersi per quell’oro o argento che v’è, e tanto valere il metallo rotto o in verga, quanto in moneta di pari lega, e potersi a sua posta senza spesa il metallo in moneta e la moneta in metallo, quasi animale anfibio, trapassare. In somma vorrebbe la zecca rendere il medesimo metallo monetato ch’ella riceve per monetare»: Davanzati, Lezione delle monete, pag. 157.


24 Se lo zecchino di Genova non è stato falsificato, ma è quale ce lo danno i saggi di Torino estratti dal conte Carli, Tom. II, pag. 342 e 346, lungi dal meritare di essere escluso, merita un maggior valore del gigliato.

25 Io ho preso per campione dell’oro il gigliato a lire quindici, valore a cui le orecchie del popolo sono accostumate, indi ho dato egual valore numerario, cioè lire quindici, alla porzione d’argento fino, che contenesse quattordici volte e mezzo il peso del fino del campione dell’oro. In questi dati il grano d’oro viene
a valere soldi quattro, denari due 1254/1633, e il grano d’argento denari tre 13/29 crescenti. Se a taluni non piacesse la scelta del gigliato, si può co’ principii stabiliti formare un’altra tariffa, prendendo il filippo o la doppia di Milano per campione. Oltre l’abituazione del popolo, altre ragioni mi hanno determinato alla scelta del gigliato a lire quindici. Li dieci soldi che si aggiungono alle quattordici e mezzo (prezzo presente del gigliato secondo la tariffa) scemano di più del tre per cento la sproporzione fra la moneta di rame e la stabile. La lira, che è la misura comune delle pubbliche e private ragioni, non soffre in questa maniera quelle sensibili alterazioni che producono l’incertezza e i litigi ne’ contratti. È inutile l’avertire che i prezzi di questa tariffa suppongono le monete né tosate, né calanti. Quando un gran numero di queste s’introduce in uno stato, si dovrebbe, a proporzione del calo, scemare il prezzo.

26 Le cedole di banco sono fatali all’aumento della massa circolante. Esse non fanno che raddoppiare il valore numerario senza aumentarsi l’intrinseco, circolando il denaro che rappresentano e la sua rappresentazione, cioè le cedole. Se la moneta di rame è da proscriversi perché contiene il trenta per cento di meno, molto più sono da proscriversi le cedole, che contengono di meno il cento per cento. Una nazione, se non ha tanto di intrinseco che basti per pagare i suoi debiti, non gli pagherà giammai collo scrivere su una carta devo tanto d’intrinseco. Le cedole di banco sono una confessione di un debito, non un pagamento, e chi le cede ad altri non dà danaro, ma cede un credito.