Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano

Pietro Verri
CONSIDERAZIONI
 SUL COMMERCIO DELLO STATO DI MILANO [1763]

Testo critico stabilito da Giovanna Tonelli (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, II/1, 2006, pp. 107-345)

Tardiora sunt remedia quam mala et ut corpora lente augescunt cito extinguuntur, sic ingenia studiaque oppresseris facilius quam revocaveris: subit quippe etiam ipsius inertiæ dulcedo et invisa primo desidia postremo amatur. Tacit.

Prefazione

La scienza dell’economia politica, quella cioè che misura la forza e il vigore d’uno Stato, la proporzione e la natura dei tributi, l’indole dell’industria e del commercio delle nazioni, scienza certamente la più utile e ferace di tutte per la prosperità degli uomini sia ne’ tempi pacifici sia per disporsi a sostenere con robustezza i tempi turbolenti, è stata lungamente negletta, cosicchè può dirsi che in questo secolo appena sia comparsa in Europa a spargere una luce affatto nuova e a far sentire la connessione che hanno fra loro mille legami della Società invisibili al volgo, dalla riunione de’ quali si forma il nodo che decide della miseria o della pubblica felicità. La perfezione della nautica, l’arte della stampa e le poste stabilite ormai per tutta Europa, somministrandoci una congerie vastissima di fatti, di costumanze e di leggi di altri Popoli, ci hanno spinti a meditare sulla natura degl’interessi delle diverse Società e tutti gl’ingegni europei, comunicando per questi mezzi sconosciuti agli antichi, conspirano a riscaldare e schiudere le verità come tanti specchj che ad un sol punto riflettono i raggi. Volano le nuove scoperte da Roma a Londra e da Pietroburgo a Madrid e l’intensione di pochi mesi presentemente corrisponde alla durata di molti anni addietro.

Sotto il glorioso regno d’Elisabetta produsse l’Inghilterra Gersham il quale propose i primi suggerimenti per incoraggire il commercio e da quella illuminata nazione se gli eresse una statua che anche al dì d’oggi nella Borsa di Londra mantiene viva la benemerita rimembranza d’un benefico cittadino; molte rispettabili opere di economia pubblica sono uscite da quella nazione fralle quali con particolar distinzione meritano d’esser ricordati i nomi di Giovanni Locke e di David Hume. Valenti scrittori di queste materie ha prodotto la Francia: il Maresciallo di Vauban, Savary, Melon, du Tot e ultimamente Forbonnais, dal quale abbiamo la più compita opera che sin ora siasi veduta. D. Gerolamo Ustariz e D. Bernardo d’Ulloa hanno illustrata la Spagna e dalla Germania sono uscite le opere utili 
e industriose del Barone di Bielfeld. Per ciò che spetta all’Italia universali opere non ne abbiamo, trattone quanto il S. Genovesi ha egreggiamente voluto stampare in Napoli; i due toscani Pagnini e Tavanti con molto criterio hanno scritto su alcuni rami di questa scienza e su quello delle monete non ci resta da invidiar nulla alle estere nazioni per le opere del Davanzati, Montanari, Conte Carli, 
del Presidente Neri e ultimamente del Marchese Beccaria. All’uni
versale però della scienza economica manca ancora un genio che riduca i veri principj grandi a quella nuda semplicità che il volgo suole pregiar poco, ma che gli uomini superiori al volgo chiamano vero sublime; s’accorcierebbe allora di molto la strada per cui si giunge all’acquisto di questa scienza e più universalmente spargendosi la luce delle materie economiche diminuirebbe il numero dei funesti e universali pregiudicj.

Alcuno sin ora non v’è stato che del sistema politico economico di questa Provincia abbia scritto, giacchè in questa classe non riporremo nè il Piazzoli, nè l’Oppizzone, nè il Tridi, nè il Somaglia, i quali altro non hanno che la storia dei tributi nostri e due di questi, il secondo e l’ultimo, impastata in voluminosi e infelici tomi che mettono a prova la più forte contenzione d’instruirsi; il Tridi, forse più ragionevole, non so per quale sventura è appunto il meno conosciuto. Il Sig. Negri in quest’ultimi anni ha scritto su i tributi del Cremonese ed è andato tanto avanti quanto potevasi coll’ajuto della giurisprudenza e degli archivj e merita la considerazione che avremmo per un pittore che senza il compasso descrivesse una figura che s’accosta al circolo.

L’impostura di alcuni, l’interesse di altri hanno fatto involgere sotto la nebbia del mistero i fatti della pubblica economia in questa Provincia e gli uomini, naturalmente nemici delle imprese nelle quali s’affaccia grande difficoltà, si sono appigliati al partito di riporre forse al di là del possibile quello che non hanno osato intraprendere, calunniando la natura anzi che convenire della propria debolezza. Così verrebbe condannata la intera società a vivere in tenebre eterne e per una delle contraddizioni famigliari alla umanità, mentre tutti gridano perchè vorrebbero che le cose andassero meglio che non vanno; si predica e si declama perchè nessuno pensi delle cose diversamente da quello che comunemente si pensa.

Ella è una verità già detta che ogni mutazione lascia lo addentellato per la edificazione dell’altra; il nuovo Censimento e la bell’opera del Presidente Neri hanno messo in chiaro finalmente la forza fisica di questa Provincia; la ordinazione di qualche archivio e qualch’altra fortunata combinazione m’hanno somministrati i lumi onde con mezzi privati svelare quel malaugurato spirito di mistero, padre dell’impune arbitrio e della sicura ignoranza, e sostituire in sua vece l’amore della gloria del Sovrano e della felicità dello Stato i quali inspirano una benefica libertà e sollevano l’anima e la disciolgono dai legami dei piccioli riguardi.

Lo stato di sensibilissima decadenza a cui siamo ormai ridotti è un male che quanto più tarderassi a portarvi rimedio, tanto diverrà più funesto e mortale; se per l’ottava volta tornerassi a pensare al commercio di questa Provincia, ragion vuole che non si proponghino i rimedj già sette volte ripetuti e provati costantemente inefficaci, poichè le cognizioni del commercio hanno una nuova politica introdotta in Europa, e se per l’adietro l’universale ignoranza ci lasciava
ad armi eguali, oggidì che gli altri Stati hanno rianimata l’industria e stanno pronti a profittare dell’altrui sonnolenza, ci renderanno la vittima della ostinazione nostra se indistintamente conservare ci piaccia le massime colle quali ci siamo sin ora diretti; nè ci avvedremo de’ nostri fallaci principj sin tanto che non appaja chi s’armi d’onorato coraggio e scriva e pubblichi le verità anche a costo d’offendere il privato interesse d’alcuni pochi e si esponga ad un glorioso ostracismo, giacchè il silenzio degli uomini comuni lascia miseramente perire la pubblica causa.

Queste riflessioni m’hanno determinato ad esaminare di proposito il sistema di questo Stato per ciò che concerne il commercio; questa impresa, che richiede ozio e tranquillità, addattata è appunto
a chi vive lontano dallo strepito de’ pubblici affari ne’ quali chi per instituzione di vita s’avvolge deve bensì scegliere ed eseguire cose grandi, ma non già può meditarle e produrle, proprietà attaccate alla vita domestica e privata. Ho io dunque cominciato col trascorrere ed esaminare i documenti onde formare la storia politica di questa Provincia rimontando a più di tre secoli adietro, cioè al tempo della nostra vera prosperità e dal principio del 1400 sono disceso sino ai dì nostri, dilucidando i gradi diversi per i quali dallo stato più florido siamo abbassati alla inopia ed alla innazione; e questo è il soggetto della prima parte. Indi nella seconda parte ho messo in luce lo stato attuale della nostra industria, ho calcolata la dipendenza in cui siamo dalle estere Nazioni e gli ostacoli che trova il commercio e nelle leggi e nelle massime e nei metodi adottati presentemente da noi. Finalmente nella terza parte propongo i rimedj più semplici e meno turbolenti per isciogliere queste vergognose catene e rendere la Nazione più ricca e il Sovrano più forte.

Prevedo un tempo e non è forse molto lontano, quello cioè in cui la ragione universale avrà dilatato a un dato punto l’impero che ogni giorno più va acquistandosi, malgrado gl’inutili sforzi dei tenaci adoratori delle ereditarie costumanze: se avvenga che sin là giunger possa il mio libro, farà maraviglia come vi sia stato bisogno un tempo
di provare la verità ch’io annuncio, e come per secoli abbino potuto sussistere in una parte d’Europa non isvelati, non contraddetti, non combattuti da alcuno gli errori più elementari e funesti della legislazione e della politica. Prima però che questa luce risplenda molti nemici avrà quest’opera, mossi da coloro che trovano utile nel mistero ch’io oso squarciare agli occhi di tutti; e deboli sostenitori troverà ella in questa Provincia per quella timidità che gli uomini hanno trovandosi aversarj armati di leggi e d’inveterati costumi, e per quella mancanza di contenzione per cui, anzichè reggere all’intimo esame delle cagioni, aspettano gli uomini dal tempo gli effetti per giudicare più comodamente. Qualunque siano gli sforzi di chi cerca vantaggio dall’adulazione del presente sistema e rendita dalla pubblica calamità, egli è costante che la verità svelata finalmente non potrà di nuovo ascondersi sotterra, ed al primo spuntare dell’epoca fortunata in cui le circostanze permettino di pensare seriamente a saldar le piaghe di questo Stato, verrà il mio libro tolto dalla polve di qualche biblioteca e servirà lo spero per facilitare la benefica impresa.

Che se poi frattanto qualche abile e illuminato ingegno vorrà occuparsi a perfezionare quest’opera di cui altra certamente più utile, anzi necessaria, non può immaginarsi, e rettificar voglia le mie sviste, le quali malgrado le diligenze e la più scrupolosa cautela sfuggir sogliono a chi ardisce il primo farsi strada fralle tenebre; se in questa onorata carriera vi sarà in somma chi illumini di più i nostri veri interessi ed assicuri sempre più il fondamento su cui innalzare l’edificio sacro alla pubblica felicità, lungi ch’ei tema in me una bassa gelosia, sappia ch’io rallegrerommi vedendo accresciuto il numero de’ rischiarati cittadini e donerò all’amore del merito e del ben pubblico la perdita del primato.

Compositum jus, fasque animi, sanctosque recessus
Mentis et incoctum generoso pectus honesto.
Hæc cedo ut admoveam Templis et farre litabo.

PARTE I.
DELLA GRANDEZZA E DECADENZA DEL COMMERCIO DI MILANO DAL PRINCIPIO DEL 1400 SINO AL 1750

Introduzione

La strada medesima per la quale ho voluto incamminarmi per trovare le idee chiare dello stato politico della mia Patria è appunto quella ch’io
mi sono proposto di riandare in quest’opera. Ho voluto consultare primieramente la storia municipale e colla penosa lettura de’ pochi che hanno scritto di quest’ultimi tempi e collo svolgere una vasta serie di documenti inediti ho accompagnato il destino di questa Provincia dal punto dell’antica opulenza sino alla depressione presente. Questo era indispensabile per conoscere lo spirito di questo disgraziato cambiamento, per vedere la corruzione degli antichi buoni principj, per esaminare i progetti altre volte proposti, l’indole in somma della Società, a’ di cui mali si tratta di portare rimedio. Gli errori passati con minor gelosia si nascondono e mi hanno servito di guida per esaminare le massime ereditate: ecco il fine che mi sono proposto in questa prima parte.

Se la materia di cui mi sono prefisso di trattare fosse per sè medesima meno contenziosa di quello ch’io la prevedo, non avrei posta la moltitudine delle note che trovansi per giustificare ogni avenimento storico co’ documenti dai quali l’ho tratto e per persuadere quei che non cedono al ragionamento colla autorità de’ più accreditati scrittori di commercio.

Poche sono le storie che leggonsi con diletto: la mia certamente non può pretendere d’essere di questo piccol numero; l’immaginazione ristretta fra elementi troppo uniformi di gabelle, aggravj, oppressioni e pregiudicj deve stancare l’animo del lettore con una discara monotonia. La cura della brevità mi ha fatto serrare gli avvenimenti troppo vicini, onde non resta in questa prima parte quello spazio occupato d’idee straniere che concilia l’attenzione, lasciando tempo al riposo ed alla distrazione di chi legge. Ma il rimedio era peggiore del male, la importanza e la uniformità del soggetto non hanno consigliato di prendere altro partito.

Quelli dunque che cercano soltanto di formarsi una idea di quest’opera scorrino la seconda parte e la terza lasciando la prima, ma quei pochi che hanno disegno d’informarsi fondatamente del sistema economico di questa Provincia legghino seguentemente, e sieno persuasi che il tedio che potranno provare leggendo sarà minore di molto di quello che ho dovuto superare per compilarla.

Contentus paucis lectoribus.
Horat., Sat., X, l. 1.

Capo I. Quale e quanto fosse il commercio di Milano ne’ suoi tempi doviziosi; quali le circostanze interne e esterne che lo favorivano.

Nel secolo XV la sovranità dell’Italia sull’Europa per il commercio era forse più vasta e tranquilla di quanto in prima lo fosse quella dell’armi. Venezia, Genova, Pisa, Firenze, Amalfi avevano stesa la loro navigazione non solamente sul Mediterraneo, ma per l’oceano rimontavano al Baltico e portavano ai Popoli del Nord e le nostre e le merci d’Oriente. Non fa al caso nostro la esatta ed erudita disamina del Conte Carli,[1] cioè se gl’Italiani andassero a fare personalmente il commercio per l’istmo di Suez al Mar Rosso e colà avessero stabilimenti, ovvero se d’Alessandria per le mani degli Arabi ricevessero soltanto le merci d’Oriente e di Mezzodì, come da alcuni pretendesi. Noi ci terremo ne’ limiti della Lombardia, nè usciremo da questi angusti confini se non se quanto richiederà l’interesse della Provincia per cui prendo a scrivere, come fa appunto l’anotomista che per ispiegare l’organizzazione e il moto d’una parte ricorre alle leggi universali della circolazione e nutrizione di tutto il corpo.

In questo commercio gl’Italiani portavano essi soli all’Europa cotoni, canella, sete, zuccheri, gioje, tutte in somma le droghe e le merci dell’Indie Orientali e del Levante, e ne riportavano in contraccambio panni, saje, rovesci, fustagni e simili lavori di cotone e di lana i quali somministravano travaglio e guadagno a una sterminata quantità d’operaj massimamente nella parte settentrionale d’Italia. La mercatura e le forze marittime de’ Veneziani erano assai considerabili.[2] Manteneva quella possente Repubblica undici mila marinaj[3] e a Venezia siccome a scala di tutto l’Oriente mandavasi dalle Città dello Stato Milanese solamente in panni e fustagni il valore di 695.000 (seicento novanta cinque mila) zecchini[4] ogni anno.

Nè il commercio dell’Europa coll’Asia, aperto e stabilito da’ Veneziani, li distoglieva da quello dell’una coll’altra parte dell’Europa medesima, commercio detto da’ Francesi cabotage. Anzi nel ritornar dall’oceano, facendo essi scala alle coste di Spagna e di Francia, di là tra le altre cose portavan le lane, che insieme poi colle droghe dette disopra, cogl’indachi, coi saponi e filati e drappi d’oro e di seta, colle grane, coi sali e con altre merci, ci davano in pagamento dei panni.[5] Il commercio adunque in Milano nel secolo XV era un commercio accessorio e secondario di quello de’ Veneziani; nè potea essere in altra maniera in una Città distante e dal mare e da gran.[6]

Il commercio della seta però era allora per noi svantaggioso, ricevendone da Venezia ogni anno in drappi lavorati il valore di (250. 000) dugento cinquanta mila zecchini.[7] Solo nel 1460 potè la protezione e l’industria metter qui in opera[8] 80 telari di seta, numero che in que’ tempi parve assai grande, ma senza paragone minor di quello al quale ascese poi nel secolo XVII, come vedrassi a suo luogo. L’industria adunque de’ nostri Lombardi[9] travagliava allora specialmente intorno ai lavori di lana: e nella sola Città di Milano settanta erano le fabbriche del lanifizio, sessanta mila i lanajuoli che ci campavano onestamente colle loro famiglie, e il numero de’ cittadini montava a (300. 000) treccento o più mila. Era perciò nel colmo della sua grandezza la Città nostra e degno è da credersi che allora avesse origine il detto: «che per rinvigorire l’Italia conveniva sterminare il commercio di Milano».[10] Allora fu che scavossi il canale navigabile che dalla Città mette capo nell’Adda,[11] monumento perenne della dovizia di que’ tempi felici e oggetto di perpetua riconoscenza verso i saggi e benefici nostri antenati.

Sogno, più che altro, parer potrebbe la mentovata ricchezza a chi sol riguardasse lo Stato del commercio presente, ma l’antica grandezza era effetto non solo delle circostanze universali, ma ancora dell’interna costituzione della Provincia. E poichè si è data a corsa un’occhiata alle prime, sia bene toccar qualche cosa ancora della seconda che servirà per chiuder la via all’ammirazione, giacchè non ci fanno maraviglia gli effetti se non a misura che ne restano ignote le cagioni.

Era primieramente nel secolo XV in onore il commercio, nè di que’ tempi si vedevano esclusi da verun ordine o grado i cittadini che ne facevano l’onorata professione, e questa massima cotanto sana e giovevole si mantenne in vigore sino al 1593, epoca in cui il nostro commercio fu escluso dal Collegio de’ Giureconsulti per loro decreto[12] come ripugnante alla chiarezza del sangue. La ragion poi, per la quale si riserbassero gli onori alla infingardaggine degli sfacendati e si giudicassero vili e indegni d’aspirarvi i cittadini operosi i quali travagliano ad ingrandimento e lustro della Patria, non sarà certamente facile il rinvenirla, come in fatti non l’hanno mai finora a loro grande ventura scoperta nè gl’Inglesi, nè i Fiaminghi, nè i Toscani, nè i Genovesi, nè varj altri Popoli chiari al mondo per opere di mano e d’ingegno.

Erano in secondo luogo assai tenui le pubbliche imposte dalle quali ancora tenevansi sollevati i maestri e ministri dell’opere[13] e a loro onore e comodo, a favore de’ loro edificj, si ampliò lo statuto de laute ædificando.[14]

Le tariffe erano regolate a dovere; nè quelle delle monete discordavano dalla quantità circolante de’ metalli, nè quelle de’ dazj e delle gabelle facevan guerra al commercio; e se pure nel 1409 si contravvenne a questi principj, non tardò molto il rimedio, e la pronta correzione che vi si pose fu prova manifesta della felicità di que’ tempi ne’ quali gli errori o non avevan luogo di nascere, o non avevan vita a durare che pochi giorni.[15] È pure da osservarsi che pubbliche e chiare erano le tariffe ed inserite nel codice delle leggi municipali.

Le leggi poi del commercio erano chiare, e pronta e sommaria era la ragione che si faceva a coloro che lo seguivano, non sofferendo le lor controversie le formalità de’ Giurisperiti,[16] i quali nè possono essere al fatto della natura del commercio[17] nè soglion per altra parte deviare da’ lunghi e metodici rigiri del Foro. Abbiamo però negli statuti antichi che gli affari del commercio siano giudicati da’ proprj Consoli ed Abati, «senza dipendenza o consiglio d’alcun Giurista» e che «le questioni mosse innanzi a’ Consoli non passino ad altro Giudice»[18] anzi che «niuno possa nè appellare, nè sottrarsi dalla sentenza che avran data o daranno gli Abati de’ Mercanti quando non fosse per chiedere la revisione della causa a’ medesimi Abati e Consoli che la rivedano con ducale autorità»,[19] e si stabilì persino «che gli Officiali e i Consoli, deputati sopra il commercio nelle cause spettanti al loro Tribunale, non diano in verun conto orecchio nè agli Avvocati nè ai Procuratori»; tanto temevasi di dare a’ giureperiti il minimo accesso negli affari di commercio.[20]

Con tali domestiche leggi e colla vicinanza del gran commercio co’ Veneziani doveva prosperare la Lombardia, se non che per essa e per tutta parim.te l’Italia s’andavano formando que’ ceppi che trattengono il nostro commercio in una total dipendenza da quello dell’altre Nazioni. La presa di Costantinopoli fatta dai Mussulmani aveva da una parte sbigottiti gl’Italiani e reso men libero il loro commercio; d’altra parte quel genio di novità, animatore ugualm.te degli uomini grandi e de’ fanatici cui vanno in seguito le grandi cose e l’odio volgare, aveva già mosso il Principe Enrico di Portogallo sino nel 1419 ad avanzarsi per la costa occidentale dell’Affrica a nuove scoperte,[21] con diversi tentativi era nel 1461 scoperto il Capo Verde. Viaggio fu questo, quanto glorioso per la nazione che l’eseguì e per il Principe che lo diresse, altrettanto per l’Italia fatale.[22] Nel 1497 poi Vasco de Gama, regnando Emmanuele IV in Portogallo, raddoppiò il Capo Diab detto poi Buona Speranza ed in cotal modo si aprì la strada all’Indie Orientali. Questa nuova strada, benchè assai più lunga essendo tutta marittima, recò le droghe a minor prezzo in Europa e gl’Italiani, che dal Mar Rosso al Cairo eran prima costretti a trasportarle per terra, in concorrenza de’ Portoghesi dovettero cedere e cessare il trasporto.[23] Scorsero quegli arditi e felici Argonauti la costa orientale dell’Affrica e quella dell’Asia e le isole adjacenti, tantochè nel 1514 divennero signori del commercio di Ceylan,[24] Bengala,[25] Siam,[26] Macao,[27] in seguito delle Molucche,[28] sin tanto che nel 1550 tutto fu nelle mani loro il commercio delle droghe e delle altre merci d’Oriente.

Non fa al caso nostro la storia che facilmente può vedersi negli Autori che trattano del commercio, dei diversi giri, ch’esso ha fatto dappoi dai Portoghesi agl’Inglesi, Città anseatiche dell’Impero, ai Fiaminghi, ai Francesi ed agli Olandesi; basta per noi soltanto osservare che, gradatamente indebolito il commercio delle Città d’Italia, essa pure si ridusse a quella dipendenza nella quale teneva in prima il restante d’Europa. Ciò avvenne gradatamente, poichè sebbene alla metà del secolo XVI si debba fissare la perdita del commercio d’Oriente, restò però quello del Levante[29] per molto tempo ancora, e con esso lo spaccio delle nostre manifatture di lana, delle quali quando se ne scemava per lo diverso sistema delle cose, altrettanto cercavamo a risarcircene colla introduzione delle manifatture di seta, come vedremo.[30] Avevano elleno spaccio al principio del XVI secolo in Francia e s’erano da’ Francesi sostituite all’uso delle pellicce.[31] Le fabbriche poi di Lione, nate sotto Francesco primo e poco protette sì da lui che da Enrico II.do, non s’innalzarono che nel secolo XVII a scapito delle nostre, come costantemente aviene anche a’ dì nostri.[32]

Capo II. Del commercio di Milano nel secolo XVI.

Frattanto che i Portoghesi s’avanzavano a grandi passi per togliere agli Italiani la signoria del commercio d’Europa, interni mali si preparavano alla Lombardia, destinata colla perdita de’ suoi naturali Principi a diventare Provincia d’una vasta Monarchia. Ciò avvenne colla prigionia dell’ultimo nostro Duca Lodovico il Moro dal Re di Francia confinato in Loches dove morì. Dico ultimo poichè Massimiliano e Francesco II.do Sforza quasi non regnarono che con altrui autorità e per sì poco, che piuttosto apparizioni che altro si possono chiamare le loro venute in Patria.

Diciott’anni durò il regno de’ Francesi, interrotto però per tre anni, ne’ quali tornò a ripigliare il comando Massimiliano Sforza. Non fu il governo francese nè duro nè pernicioso a questa Provincia e il maggior danno che ce ne tornò fu la partenza d’alcuni Maestri di drappi di seta, i quali passarono in Francia a stabilire le arti e le leggi del nostro commercio.[33] So che fu trasportata a Blesse la biblioteca de’ nostri Duchi ch’era in Pavia per ordine del Re francese; i Sovrani capaci di tai rapine promettono un buon governo. In fatti non consta a me che durante la dominazione francese siasi fatta veruna imposizione di gabella, consta bensì che varj provedimenti pubblicaronsi favorevoli al commercio;[34] e se allo Stato s’imposero sussidj straordinarj[35] conviene donarli alle circostanze di guerra quasi incessante. Quello che contiene di rimarcabile per lo commercio la storia d’allora si è la lega di Cambray, da cui la potenza de’ Veneziani e il commercio ricevettero un crollo considerabile.

Finì la dominazione de’ Francesi colla conquista di Carlo V Imperadore. Francesco Maria Sforza fu riposto in Milano col nome di Duca, ma non coll’autorità; indi dichiarato esso reo di fellonia e decaduto dal Ducato fu deputato al governo di Milano D. Antonio de Leva, sotto del quale gravissimi danni avvennero a questa Provincia per le estorsioni enormi ch’egli vi fece.[36]

La pace di Bologna ci rese il Duca investito da Carlo V e colla sua venuta le turbolenze ebbero qualche posa; la ferace e vigorosa Insubria si ristorò presto da questi primi danni, quindi si vedono nella storia splendide e sontuose accoglienze fatte alla Principessa Cristierna di Danimarca venuta troppo tardi per mantenere la famiglia degli Sforzeschi.

Ritornò Carlo V al dominio della Lombardia dopo la morte dell’ultimo Duca successore anche per testamento. Sappiamo che interottamente la Francia disputò questa Provincia ancora per vent’anni. La storia di queste poco vigorose ma tanto più fatali rivoluzioni non appartiene al mio instituto al quale appartengono bensì i lor conseguenti, cioè i sussidj considerabili pagati dallo Stato,[37] l’accrescimento delle gabelle[38] e la imposizion delle nuove,[39] cose tutte le quali, e per loro peso naturale e per la trascuranza in cui si viveva da’ Regj Ministri sulla loro amministrazione e riparto, opprimevano il commercio.[40] E circa a questi tempi cambiossi l’antica constituzione dello Stato: nuovo codice di leggi, nuovo Senato formaronsi, le antiche buone leggi in parte furono derogate.

Era la Camera in continue premure d’aver denaro: le accresciute gabelle non erano ancora bastanti a fornirlo. Venne per conseguenza ordine da Carlo V[41] per mantenere l’armata d’imporre la contribuzione di 300.000 (trecento mila) scudi da sborsarsi in un anno, come appunto Francesco primo appena giunto alla Signoria di Milano aveva fatto,[42] e questi trecento mila annui scudi dividendosi in venticinque mila ogni mese, diedero nome al carico di mensuale. Ma sotto Francesco I questo sussidio si pagò una sol volta, ora s’impose come carico permanente.

S’è già poco fa accennato come la sproporzionata e ingiusta maniera di ripartire i carichi fosse uno de’ gravi danni che affliggevano questa Provincia: basti dire che si ripartivano tuttora a norma della popolazione del 1462, anno nel quale Francesco primo Sforza impose la regalia del sale forzoso.[43] Con questo metodo si fece adunque al bel principio il ripartimento del Mensuale,[44] poscia si divise su tutti i fondi stabili dello Stato de’ quali fu ordinata la stima ossia Censimento. Questa universale stima degli stabili immediatamente si fece 51 sulle semplici notificazioni e sopra la fallace ricognizione de’ contratti e ciò con tale precipitazione che nemmeno lasciò luogo ad esaminarli.[45] Quanto fosse lontano dal vero un tal metodo bene lo dimostra il Presidente Pompeo Neri;[46] ma non è intento dell’opera l’entrare per ora in simili discussioni, bastando l’avvertire che questo pesante tributo, imposto tutto in un colpo, oltre le accennate nuove gabelle che ferivano immediatamente il vitto dell’operajo, dovette essere un’offesa memorabile per il nostro commercio.[47]

Il Mensuale adunque fu la prima ferita profonda fatta al commercio milanese. I possessori de’ fondi stabili trovandosi aggravati per la nuova ripartizione credettero di sollevarsi addossando parte del peso ai capitali impiegati nel commercio e così ricercarono al Monarca;[48] v’accondiscese l’Imperador Carlo V; ne ordinò la stima la quale ebbe il nome d’estimo del mercimonio, nè si terminò che alla fine di questo secolo, come vedremo. Memorabile fu quest’anno in Germania per il famoso interim, e in Lombardia per quest’epoca del suo decadimento.

Quando i tributi eccedono la forza della nazione son come i gravi che dalla lor prima caduta acquistano nuovo impeto che li preme e gli spinge al basso con maggior celerità e violenza.[49] Dietro il carico Mensuale in pochi anni si accrebbero ancor le gabelle della Mercanzia,[50] nè bastando pur quest’aumento se ne introdusse un secondo tre anni appresso[51] e dietro altri due anni s’impose un nuovo carico stabile che fu chiamato tasso della cavalleria.[52]

Questo nuovo carico poteva chiamarsi un accrescimento al Mensuale, poichè s’impose col titolo di mantenere l’armata[53] e si distribuì colla medesima norma. Con questo nuovo sopraccarico si formò il bilancio camerale che eguagliava l’entrata all’uscita,[54] il che per poco tempo si mantenne, cioè per tre anni appena,[55] vedendo il nuovo carico imposto col nome di pressidio straordinario altro accrescimento al Mensuale,[56] così sempre a dismisura andavano crescendo le gravezze su questi popoli e diminuendosi le rendite del Sovrano.[57]

Questa malavveduta politica de’ Principi d’allora di rovinare i loro Popoli, quasichè la forza del Sovrano fosse qualch’essere imaginario, non il risultato delle forze de’ Sudditi,[58] mosse il Papa Pio V ad aggiungere alla bolla in coena Domini la proibizione a’ Principi d’accrescere aggravj ai Sudditi, dichiarando contro essi, senza eccezione d’alcun Monarca, tutti gli anatemi più forti. L’amore della umanità aveva dettata questa bolla del Santo Pontefice, ma ritrovò in que’ tempi ostacoli più forti di lei. Così avvenne sei anni dopo, quando si distribuì il nuovo carico de’ quattordici reali sullo Stato,[59] poi quando nuova gabella s’impose sul vitto della plebe.[60] A tante disavventure s’aggiunse una malattia epidemica per cui sino 40.000 (quaranta mila) ammalati si contarono ad un tratto in Milano,[61] nuova conferma dell’antica popolazione.

Se con tanti e naturali e artefatti nemici potesse conservarsi il commercio della Lombardia non fa bisogno di molta disamima per deciderlo. L’avveduto Pontefice Sisto V profittava frattanto del nostro cattivo governo e invitava, con fabbriche erette a spese della Camera Apostolica, con protezione e premj, gli oppressi nostri Fabbricatori a ricoverarsi in Roma,[62] e sul suo esempio i Francesi pure s’applicavano a raccogliere quel bene che lasciavamo noi sì miseramente uscire dal nostro Paese.[63]

Il commercio è appunto come i fluidi che scendono quando si fa loro il cavo. La gravità del commercio (mi sia permessa questa frase)
fa che si porti dove ritrova minori ostacoli e maggior protezione: l’utile d’una Nazione è il danno d’un’altra,[64] questa guerra è più umana bensì, ma non vi si disputa meno della potenza de’ Principati, nè la cieca fortuna, ma la condotta di chi vi presiede ha l’influenza principale nell’avvenimento.[65]

S’è già accennato come nel 1548 i possessori de’ fondi stabili cercassero dal regnante Carlo V che il commercio concorresse immediatamente a sollevarli nel carico del Mensuale e come quel Sovrano ordinasse la stima del valor capitale delle merci;[66] ora conviene osservare che questa stima non si pubblicò prima del 1595, cosicchè circa mezzo secolo vi s’impiegò per formarla,[67] nè ottenne forza di legge che dopo quattr’anni ancora oltre i cinquanta di nuove controversie.[68] Difficile era a farsi questa ripartizione[69] e i prefetti dell’estimo dovettero immaginare una nuova misura per sottoporre a stima il fondo dell’industria, non capace di peso o d’estensione alcuna.[70]

Il metodo poi, onde fu ripartito questo Estimo della Mercanzia, fu de’ più malsani e perniciosi che immaginar si potesse. Perciocchè non si distribuì in sollievo universal degli stabili dello Stato come richiedeva la vera e sana politica, ma sibbene a vantaggio di questa e di quella Terra. Di qui venne che alcune Terre restarono sollevate, ma non già l’altre che avean poco o niuno commercio. Ciò fece poi che i Coloni, affin di sottrarsi ai pesi delle gravezze, passando a gara da’ luoghi più aggravati ad altri più scarchi, restò la popolazione senza venuna proporzione distribuita, perchè ripartita non a ragione della capacità e della fertilità del terreno, ma unicamente dell’interesse e del carico mal adattato.

Un altro non minore sconcerto certamente fu quello di fissare in perpetuo l’estimo fatto del Mercimonio. I Padroni e Maestri aggravati nelle Città si rifugiavan ne’ Borghi e nelle Terre dello Stato, dove l’Estimo era tenue per la tenuità del commercio nel tempo che quello s’impose: dal che ne venne e una nuova sproporzione del carico, restando esso distribuito sopra il minor numero di coloro che rimanevano nelle città, e un pregiudizio irreparabile per i Mercatanti cittadini, i quali in concorrenza coi Borghesi e i Terrieri più non potevano vendere le loro manifatture.

Verso la fine di questo secolo si tolsero gli onori al commercio, come si è accennato nel primo capo, e nel tempo medesimo s’eresse il Banco di S. Ambrogio.[71] La proposizione di questo Banco fu fatta, come è noto, da Gio. Antonio Zerbi.[72] La Città s’esebì a ricevere in deposito qualunque somma sott’obbligo de’ suoi fondi ed a rilasciarla. Si voleva con ciò proccurare ai particolari la comodità del trasporto e la sicurezza della custodia del loro contante, si voleva trovare alla Città un capitale senza interesse[73] di cui potesse prevalersi e cavarne una rendita col giro del cambio. In questa guisa la Città si constituiva custoditrice della cassa de’ particolari.[74]

Con ragione si prevedeva che una Città suddita[75] d’un governo, il quale era allora in frequenti urgenze di denaro, non dovesse far nascere quella confidenza che i Veneziani e i Genovesi avevano per
la patria loro. Questo solo pensiero avrebbe potuto distogliere dal prosseguire l’idea, ma si credette di far nascere questa confidenza col comandare sotto pena pecunaria che nascesse.[76] L’effetto corrispose alla efficacia del mezzo, giacchè per invitare i particolari a portare denari a questa cassa si dovette accordar loro in seguito la partecipazione degli utili: cosicchè cambiò natura e constituzione il Banco sin tanto che 65 anni dopo si vide fallito.

In una nazione che non ha nè porto, nè spiaggia, nè trasportazione di molte merci di prima mano, non essendovi la necessità di girare ad ogni ora grandiose somme, queste pubbliche casse non compensano il male che fanno di moltiplicare la rappresentazione del valor delle cose. Di più non devo aggiungere. Dirò bensì che la buona regola del commercio avrebbe insinuato allora d’opporsi a questa instituzione ed ora persuade d’usare della religione più esatta verso de’ creditori affidati al sacramento della pubblica fede.

Capo III. Del commercio di Milano dal principio del secolo XVII sino verso la metà di esso.

La Spagna, che si vedeva sott’occhj la propria decadenza senza porvi rimedio, e che padrona de’ tesori del Potosì trovava la via di porsi ogni giorno più nella dipendenza delle altre nazioni d’Europa, non era sperabile che riparasse i colpi che aveva ricevuto il commercio d’una sua Provincia tanto da sè lontana[77] quanto la Lombardia. Il sistema nostro era già reso di molto complicato sì quanto alla distribuzione de’ carichi, quanto per i peculiari debiti de’ Corpi pubblici e per i diritti venduti a varj Particolari sopra essi Pubblici. Per provvedere a urgenze di denaro non si pensava all’avvenire. Si studiavano e si aggiungevano tutto dì novità ripugnanti al sistema. Gl’ingegni mediocri nè sanno, nè osano porvi mano e le menti chiare e legislatrici non potevano svilupparsi in que’ tempi[78] nè essere utili sotto un sì fatto Governo.[79] I Governatori venivano per tre anni e partivano de’ nostri affari così digiuni come eran venuti; anzi nelle turbolenze quasi incessanti di questo secolo conveniva ad essi per lo più ritrovarsi alla testa dell’armata e lasciare in balìa de’ subordinati Ministri[80] il destino politico di questa Provincia.

Tra gli altri mali si deve annoverare al principio di questo secolo l’introduzione delle monete erose,[81] cioè di pezzi di metallo ai quali
il Principe ordina che si accordi un valore sensibilmente maggiore di quello che avrebbero senza l’impronto.

De’ mali che produsse sì fatta invenzione sconosciuta ne’ precedenti secoli abbastanza ne parla il Conte Carli, nè io saprei far meglio che ripetere quanto ha già detto quest’illustre Autore il quale
ora le chiama «sicuro indizio di povertà e mal governo, ora una peste resa comune fra di noi».[82] Questo disordine nella misura universal delle cose doveva comunicare dell’incertezza al valore di esse e nel ragguaglio di questo valore consiste il commercio.[83]

Nel tempo medesimo che il Re Filippo III ordinò per sollevare il nostro commercio che si diminuisse il quinto di quanto pagava per il nuovo Estimo,[84] il Conte di Fuentes Governatore ordinò nuova gabella sulla estrazione delle interne manifatture[85] e il Magistrato altra ne pubblicò sulla introduzione delle prime materie;[86] nuove gabelle s’imposero sul vitto[87] cosicchè fra queste contraddizioni di beneficj e d’insulti andava sensibilmente mancando l’afflitto commercio.

Fra i disordini di que’ tempi aveva gran luogo ancor la licenza degli Appaltatori e Gabellieri, da’ quali alle porte si esercitavano arbitrarie estorsioni sul passaggio di tutte le mercanzie.[88] Le tariffe che da noi si chiamano Dato della Mercanzia in luogo d’essere un codice pubblico destinato a determinare i diritti[89] fra l’Appaltatore e la Nazione, non si sapeva che vi fossero, benchè sia fralle patrie leggi quella di riconoscerle e pubblicarle ogni anno.[90]

Voleva la Spagna dar la legge agli Stati vicini, perciò manteneva un’armata di 30. 000 combattenti sino dal principio del secolo[91] e questa ci stava per rendersi formidabile a’ Veneziani sottoposti all’interdetto da Paolo V; nè poteva la Spagna inviare soccorso per l’impegno in cui si trovava e colle Provincie Unite e co’ Mori, l’espulsione de’ quali era in fermento: perciò varj pesantissimi sussidi s’imposero allo Stato oltre le accennate gravezze,[92] e questi sussidj s’imposero nella maniera più ostile e rovinosa che dare si potesse. Gli Esattori erano i Soldati medesimi i quali non ricevendo dalla Camera le loro paghe[93] prendevano quello che lor tornava più in concio con propria autorità sulle terre dove alloggiavano.[94] Basta accennare questo continuo saccheggio per sentirne le conseguenze; e questo enorme disordine, malgrado i lamenti continui de’ Sudditi e i diversi ordini della Corte, sebbene non mi sia noto quando cessasse, so però che nel 1662 tuttora durava.[95]

A questa perniciosissima licenza d’esigere i tributi s’aggiungeva che gli Ecclesiastici, possessori d’un buon terzo de’ fondi dello Stato,[96] si pretendevano esenti e difendevano le loro pretensioni cogli ultimi sforzi.[97] Inutili furono le doglianze de’ Popoli[98] i quali dovettero portare il peso della metà di più de’ loro naturali aggravj. Erano pure gli Ecclesiastici esenti dal concorrere ai dazj della Mercanzia, cagione anche questa di nuovi accrescimenti.[99]

Altra non indiferente conferma della spensieratezza e indolenza del governo di quei tempi è la facilità d’accordare a’ Pubblici tutte le dispense per incaricarsi di debiti. Pareva che i Tribunali, anzi che essere posti dal Principe per conservare le leggi, lo fossero per dispensarle.[100] S’accrebbero questi debiti a enorme somma e le usure montarono al 7, 8 e sino al 10 per %.[101] Chiunque abbia riflettuto sulla natura del commercio sentirà quanto queste grosse usure gli sieno di danno, invitando elleno a deporre i capitali sotto l’ombra della pubblica fede e senza l’occupazione della propria persona.

Di più: i sovventori delle Comunità stipulavano ne’ contratti dettati dalla necessità la crudele obbligazione in solido per cui ogni particolare poteva essere convenuto in giudizio e carcerato per i debiti del suo pubblico benchè avesse sborsata la propria porzione.[102] Se Popoli così oppressi potessero pensare a manifatture e in quale scadimento e precipizio andar dovesse il commercio ognuno può vederlo per sè. Col decadimento delle nostre finanze cominciavano a uscire dalla barbarie quelle della Francia sotto il benemerito Duca di Sully. Soldato, calcolatore e ristorator della Patria, la protezione del Re lo difese, la voce di quei che dal disordine traevan le rendite si tacque, senza deviar dal diritto giunse a segno da poter fare impunemente segnalati beneficj alla sua Nazione e lasciare nella posterità una eterna memoria della sua abilità, rettitudine, del suo zelo per gl’interessi del Principe e del suo verace amore per la pubblica felicità.

Sappiamo che il timore della invasione meditata da Enrico IV Re di Francia e impedita dal paricidio avvenuto di questo Sovrano obbligò il Conte di Fuentes a mantenersi armato.[103] Al Conte di Fuentes succedette nel governo il Marchese dell’Inojosa, il quale con esercito considerabile cominciò la guerra contro de’ Piemontesi. Tutto pareva congiurasse contro il nostro commercio: una inaudita tempesta affondò quasi tutte le navi che si trovavano ne’ porti del Mediterraneo da Marsiglia sino a Napoli,[104] colpo fatale alla navigazione degl’Italiani. A quella de’ Veneziani poi fecero gravi danni le piraterie degli Uscocchi e la flotta spedita nell’Adriatico dal Duca d’Ossona grand’inimico, come sappiamo, del nome veneziano.[105]

Siam giunti a un’epoca non meno funesta di quella del Mensuale, della quale s’è parlato nel capo precedente. Siamo all’imposizione del terzo de’ dazi fatta tutta ad un colpo, cosicchè la Mercanzia, che pagava 9 sia all’entrata sia all’uscita si aggravò del peso di 12.[106] Quelli che hanno scritto dappoi delle gravezze e del commercio di questa Provincia hanno citato con ragione quest’aumento come cagione dell’ultima sua rovina.[107]

La Città dovette accrescere le sue gabelle per supplire alle straordinarie prestazioni che la facevano sbilanciare ogni anno £ 441.500.[108] Dall’altro canto la Camera aumentò il prezzo del sale,[109] indi tre anni dopo altre gravezze impose la Città, le quali immediatamente ferivano le manifatture.[110] Queste imposizioni furono fatte interinalmente, indi si propagarono sino all’estinzione dei debiti contratti, poscia col nome d’arbitrj vennero assegnate al Banco di S. Ambrogio[111] dal quale tuttora si riscuotono.[112] Frattanto il Sovrano non cessava di promettere con replicati dispacci la reintegrazione di tutt’i carichi straordinarj anticipati da’ Pubblici[113] per Reale Servigio, ma questa giusta e pia intenzione non ebbe effetto per allora.

La Lombardia dal 1620 al 1631 appena ebbe due anni di pace: ora co’ Grigioni, ora co’ Mantovani ed ora co’ Piemontesi fu, com’è noto, involta in asprissima guerra e quel poco che le lasciò per respirare la pace fu sotto gli auspicj di Filippo IV Re delle Spagne, principe erede di tutte le debolezze del Padre e dominato per sua mala ventura dal Conte d’Olivares suo principal favorito. Fra tante disavventure s’accrescevano sempre più i debiti de’ Pubblici e gli esorbitanti interessi,[114] s’imponevano nuove contribuzioni, fralle quali l’annata regia,[115] indi i tre perticati,[116] indi nuove gabelle sulle cose più comuni[117] e sul vitto della povera plebe.[118]

A tante e sì ostinate disgrazie doveva necessariamente succedere la spopolazione di questa afflitta Provincia e così avvenne. Ventiquattro mila Operaj erano già mancati dalla sola Città di Milano[119] dove tutto spirava lutto e decadimento. Gli aggravj straordinarj dello Stato, cioè tutti quelli che si ripartivano a norma del Mensuale, ascendevano a lire annue 6.000.000 (sei milioni). Nè devo io qui lasciare nell’oscurità quanto in que’ tempi si asseriva, che i Coloni in alcune parti del Ducato pagassero d’aggravj sino all’enorme somma di 20 scudi per testa, fatto che io non ardirei d’avvanzare se nol leggessi scritto nelle Instruzioni date appunto in quel tempo dalla città nostra al Marchese Cesare Visconti, destinato a rappresentare inutilmente alla Corte di Madrid l’estrema imminente rovina di questo Stato.[120]

Dopo le tante e replicate ferite fatte al commercio di questa Provincia potrebbe aspettarsi che qui la storia di esso commercio avesse fine per la totale distruzion del soggetto, se l’abituazione, gran protettrice delle buone egualmente che delle cattive cose, non lo avesse in gran parte difeso dalle violente ostilità interne ed esterne che esso commercio incontrava. Tanto è difficile che gli operosi divengan tosto infingardi, quanto che gl’infingardi si rendan attivi.[121] Gl’industriosi nostri Cittadini, mancando di mezzi per procurarsi l’antico commercio delle lane, si rivolsero alla seta che andava moltiplicando in Paese. La compensa non era adequata, ma la necessità l’aveva prescritta: nè certamente per loro scelta avrebbero lasciato i nostri Manifatturieri di servire a’ veri naturali bisogni degli uomini per somministrar loro i bisogni studiati dal lusso, legame molto meno sicuro e costante del primo. Si contavano adunque nel 1628 telari 5.000, che lavoravan di seta nella Città di Milano.[122] Se questo numero ci prova l’ulterior decadenza del nostro commercio paragonato con quello del giorno d’oggi, ci conferma altresì l’ampiezza dell’antico commercio di cui erano considerabili tanto le stesse rovine.

Poco durò in questo Stato il nuovo commercio di seta, perciocchè alla crudel carestia venuta quasi foriera tenne dietro la peste, flagello luttuoso ugualmente che noto, la quale menò tanta e sì fatta strage in Milano, che sino a 1.300 morti contaronsi in una sola giornata;[123] si calcolò che vi perissero (180.000) cento ottanta mila abitanti.[124]

Il popolo, che in ogni età e clima fu sempre grande amatore de’ prodigj e delle cagioni straordinarie, attribuì la peste ad alcuni veleni in Milano, come aveva fatto in Roma l’anno della città 423 sotto il consolato di Claudio Marcello e Caio Valerio;[125] eppure questo malore era passato dalla Valtellina a noi. Fu meno assurda l’opinione in Roma che da noi, poichè ivi almeno si sospettò di veleni i quali inghiottiti cagionavano la morte laddove da noi opinione fu che alcuni con unti malefici accrescessero per lo meno questa sciagura. Se fosse anche possibile che un uomo senza apparente interesse giungesse a questo orribil grado di scelleraggine, sarebbe ancora da esaminarsi
se sì fatte unzioni si dieno. So che il valente Brogiani nel suo Trattato de Veneno non attribuisce a verun licore artefatto la facoltà di cagionare la morte col solo tatto; nè par verisimile che la chimica fosse allora più perfezionata che non lo è al dì d’oggi. So altresì che crudeli tormenti si adoprarono affine di strappar di bocca la confessione a quegl’infelici che furono denunziati per rei di tale misfatto; e so pure, che i sogni stampati di Cardano, e di Martino del Rio servirono di codici per far perire ignominiosamente vari Cittadini[126] fra i più atroci tormenti: appiccati per i piedi, arruotati vivi, tenagliati ecc. per l’unzione, sortilegio e magia.[127] Se la colonna infame eretta al luogo della demolita casa del Mora sia un monumento del suo delitto ovvero della infelicità di que’ tempi a me non spetta il porlo a disamina nè il portarne la decisione.

Finalmente dopo undici anni di discordie quasi continue si fece la pace e buon numero delle milizie, che vivevano come si è detto sulle Comunità dello Stato, evacuarono la Lombardia. Questo lampo di pace non durò più di cinque anni, ma è credibile che se tardato avesse a comparire si sarebbe spopolata affatto questa Provincia e resa un peso inutile del Principato. Non si perdette tempo a pensare al riparo dell’imminente sterminio: venne dalla Corte ordine acciocchè si consultassero i mezzi di rimediare a’ danni sofferti,[128] grande era lo sfratto de’ nostri Cittadini[129] e i Principi confinanti invitavano gli oppressi a rifugiarsi negli Stati loro.[130] La prima volta fu questa in cui si riscosse finalmente il governo dopo un secolo di cattiva amministrazione.

Tutte le Città e i Contadi dello Stato furono separatamente citati a riferire i loro debiti e a consultare i mezzi per il loro risorgimento. Dalle relazioni di essi Pubblici si calcolano i debiti loro totali circa 
£ 30.000.000 (trenta milioni).[131] Espongono di più che tutti i fondi pubblici si erano dovuti alienare, che si pagavano esorbitanti interessi per i pubblici debiti; che i particolari erano esposti all’inumano trattamento che dava l’azione in solido a’ creditori; che infine erano condotti alla rovina dagli eccessivi tributi dall’antecedente guerra, dalla licenza de’ Soldati lasciati senza stipendio, dalla peste appena cessata e per fine dalle imunità degli Ecclesiastici le quali, cadendo sopra un buon terzo de’ fondi, aggravavano i tributi per tal modo che in alcune terre sorpassavano la rendita totale del fondo medesimo.

Fra le molte providenze che ricercarono allora i Corpi pubblici credo io opportuno di lasciar a parte le piccole cose e quelle che vennero dettate da’ privati interessi; e per attenermi soltanto alle domande suggerite dal pubblico bene, dirò che si richiese: I.o che i Soldati venissero pagati dalla R. Camera; II.do che si riducessero a usura discreta i pubblici debiti; III.zo che si togliesse a’ creditori la barbara azione in solido; IV.to che gli Ecclesiastici si obbligassero a concorrere ai carichi, che finalmente di questi carichi se ne facesse una giusta proporzionata ripartizione.[132]

Le prefate richieste in tempi sì critici non ebbero effetto e si arrestarono non so dove, per modo che dopo due anni si dovettero rinnovare sebbene senza frutto,[133] cosicchè sino al 1644 nemmeno erano state trasmesse alla Corte.[134] Così si trattavano allora i più pressanti interessi di questo Stato, ma l’occasione non è sempre costante al paro della lentezza dei direttori de’ pubblici affari; sopravenne la guerra per la invasione de’ Gallo-Alobrogi e il Marchese di Leganes, ch’era nostro Governadore, obbligato a trovarsi alla testa di più di 20.000 uomini,[135] abbandonar dovette i pensieri politici amanti della tranquillità e della pace[136] e ritornare ben presto all’andamento di prima.

E così appunto si fece imponendo e nuove gabelle sul vitto[137] e sulle materie destinate alle manifatture[138] e straordinarj sussidj,[139] e si caricò in fine sì fattamente la mano e si studiarono tanti spedienti a smunger il Popolo che mai per l’addietro non s’era veduta tal fertilità di rovinose invenzioni.[140]

Non è da stupirsi se in questi torbidi tempi nessun provvedimento si sia dato tendente a ristorare gli antecedenti mali: tutti erano occupati i pensieri nell’attual guerra, la quale in ventitrè anni che durò portò seco tutti i mali che accompagnano il disordine senza produrre nulla di grande nè per noi nè per i nemici. I grandi cambiamenti pare che scemino l’orrore del sangue umano sparso per produrli; ma questa guerra fu un continuo e lento macello che non cambiò quasi i confini e che altro effetto di sè non lasciò che quello di aver resi infelici e i nemici e noi: e di ciò fu cagione la malavveduta politica del Leganes e l’indolente connivenza del Gabinetto di Spagna. Fu preso e ripreso Vigevano e Trino nel Monferrato. Si ruppe la guerra ai Modenesi e ai Mantovani; si disputò coi nemici l’Alessandrino, il Novarese, il Regiano, il Cremonese insinattantochè colla pace conchiusa ai Pirenei si ridonò il riposo anche all’Italia.[141]

In questo mezzo le fabbriche de’ panni lani in Milano che già erano state 70 si ridussero a 15 e assai minore per conseguente dovette rendersi il numero delle pezze che annualmente si fabbricavano,[142] e in questo stato, non potendo la Spagna spedirci soccorso per le intestine guerre de’ Portoghesi e de’ Catalani ond’era occupata, prosseguiva essa coll’accrescer gli aggravj alle sue Provincie d’Italia per modo che divennero insoportabili prima ai Siciliani, che si rivoltarono, poscia al popolo Napolitano, che concorse nella sollevazione renduta celebre dalla breve sovranità di Tommaso Agnello detto Masaniello che fe’ la sperienza de’ popolari favori.

Non posso io qui risparmiare all’autore del voluminoso libro in fol. cui sta per titolo Alleggiamento dello Stato di Milano quel trattamento che si dovrebbe a qualunque osa avvanzare falsità scrivendo de’ pubblici affari; pone egli il colmo alle esaggerazioni, onde ha imbrattato il suo libro coll’avvanzare a pag. 13 che dal 1610 al 1650 fosse lo Stato di Milano in credito colla R. Camera di scudi 248.972.789 (dugento quarant’otto milioni, novecento settanta due mila e settecento ottanta nove). Appena l’Africa e l’America unite mandano in quattro anni egual somma in Europa;[143] di più pretende che ogni cittadino per gravezze pagasse l’anno in que’ tempi lire 70.[144]

Ma lasciamo queste vergognose esaggerazioni, non ad altro atte che a screditare le querele anche giuste della nazione; fatto sta, che gravissime imposte e sul vitto del giornaliere e sul Mercimonio dovevano rendere posponibili le manifatture nostre in concorrenza con quelle fabbricate in paesi meno aggravati di gabelle; e questo disavantaggio dovevano soffrirlo anche dentro del nostro Stato medesimo, sin tanto che le spese del trasporto e le gabelle alla entrata delle forestiere non giungessero alla somma de’ nostri aggravj, operazione difficile a farsi, accrescendosi l’incentivo al contrabbando a misura che la gabella s’accresce.[145] A questo fine il Magistrato forse accrebbe il dazio su panni e stoffe forestiere,[146] ma due anni dopo una providenza opposta si diede incarendo le manifatture nostre colla invenzione di nuove gabelle.[147]

Capo IV. Continuazione del commercio di Milano sino alla fine della dominazione spagnuola.

La sperienza è sempre stata l’unica e inutile maestra degl’inesperti Direttori delle pubbliche cose i quali nello scorso secolo, unendo gl’interessi della loro imperizia co’ supposti interessi dello Stato sotto la magica ombra del mistero,[148] coprivano al resto degli uomini la propria imbecillità. Facevano essi de’ saggi sulle finanze e sul commercio, come appunto gli antichi medici l’anatomia sugli uomini vivi, sinchè la tarda sperienza con qualche male irrimediabile veniva ad avvertirgli al fine della cattiva operazione che avevan fatta. Così appunto avvenne col Banco di S. Ambrogio, di cui s’è accennata la erezione alla fine del capo secondo, che come vedemmo si creò per pubblico e privato vantaggio verso la fine del secolo precedente; ora dovette comporsi co’ suoi creditori, ridurre gl’interessi al 2 per cento e i capitali al 40 per %[149] Allora si dovette conoscere quanto sconsigliata era stata la sua instituzione e si dovette conoscere a costo del commercio.[150] Quanto più sono tarde le infermità tanto più sono pericolose e mortali.

La pace de’ Pirenei die’ fine una volta alla guerra che in questa Provincia per ventitrè anni quasi continui girò intorno a desolarla. Per un anno di pace due ve ne erano stati di guerra sino a quest’ora in questo secolo e il commercio de’ Veneziani tanto importante pel nostro era in molta decadenza non tanto per le cagioni accennate nel capo antecedente quanto per l’aspra e infelice guerra sostenuta dalla Repubblica per la difesa di Candia. Ridonata dunque la pace il Re Filippo IV rivolse i pensieri a ristabilire il vigore alla Lombardia e ordinò che non si mantenessero da indi innanzi più di 6.000 uomini per sua difesa.[151] Il Magistrato nuovi regolamenti fece per togliere gli antichi e sin allora mantenuti disordini de’ Gabellieri.[152] Tutto si risvegliò: furono citati i Pubblici a esporre lo stato loro, i Tribunali a consultar le maniere da medicar le mortali ferite fatte al commercio,[153] e questa fu la second’epoca in cui sotto il governo della Spagna gli estremi mali costrinsero a pensare a’ rimedj.

I debiti de’ Pubblici si videro allora ascendere ad una strabocchevol somma.[154] Si continuava tuttora a pagare l’esercito non già col denaro delle Regie imposte a tal fine accresciute, ma delle Comunità dello Stato oltre modo gravate.[155] Gli Ecclesiastici più che mai ostinati non volevano concorrere ai carichi.[156] Gl’interessi dei debiti pubblici non erano per anche universalmente ridotti.[157] I creditori dei Pubblici conservavano ancora l’azione in solido;[158] duravano in fine tutti gli stessi disordini che già sino dal 1631 avevan i popoli svelati alla Corte e oltre ciò soffrivansi per tutto lo Stato moltissime vessazioni e dai Giudici delle monete e dai Bargelli per le osterie e le case e dai Soldati alle porte delle Città, che decimavano a loro arbitro quanto entrava ed usciva.[159]

Non cessava intanto la misera Lombardia di gridare per destare la Sovrana Clemenza, affinchè questa o con effettivo contante o colla diminuzione dei carichi a tempo volesse risarcirla almeno degli straordinarj soccorsi prestati per Reale servigio. Fu ancora in que’ tempi proposto che i creditori dei Pubblici presentassero al Senato da esaminare i lor documenti, sì perchè si sapea che a molti dei loro ricapiti mancavano le solennità; sì ancora perchè era noto che parte del lor denaro prestato fosse stato convertito in beneficio d’alcuni privati.[160] E finalmente si chiese che, liquidati i debiti pubblici, gl’interessi spettanti a’ creditori tassati fossero anch’essi come un fondo censibile affinchè concorressero agli altri pubblici pesi.

In questa occasione le adunanze dell’Arti di questa Città scoprirono anch’esse le loro piaghe,[161] essendo oltre ogni credenza sminuito il loro commercio e il numero degli Artisti e per conseguente renduto insoportabile l’Estimo del Mercimonio. La facilità poi di litigare e la libidine forense, fomentata dalla frequenza e dalla funesta attività di coloro che vivono sulla interpretazion della legge, avevano sì fattamente invasi quei Corpi che noi chiamiamo Università, Camere, Scuole e Badie, che per gli ostinati litigj si avevan già accollato gravissime somme di debiti, l’interesse de’ quali veniva a ricaddere su i membri ond’eran composti,[162] per le quali cose più care rendevansi le loro merci e fatture.

In vista di queste pubbliche rimostranze fece il Senato una consulta assai bene imaginata[163] nella quale propose i seguenti mezzi: I.mo: togliere gli aumenti de’ dazj sulle lane, ogli, sapone e altre materie prime. II.do: lasciar immuni alla entrata le lane di Spagna sull’esempio del Gran Duca di Toscana. III.zo: sollevare la gabella alla estrazione de’ panni e cappelli. IV.to: accrescere la gabella de’ panni lavorati sulle terre dello Stato. V.to: sollevare l’Estimo del Mercimonio. VI.to: bandire i panni forestieri della qualità de’ fabbricati in Milano, così i cappelli. VII.mo: proibire che ne’ Borghi si fabbrichino panni della bontà e marca di Milano. VIII: rinnovare gli ordini per ristabilire l’antica perfezione e venustà de’ panni. IX: incoraggiare i Nobili con privilegi e prerogative a darsi al commercio come i Fiorentini, Lucchesi, Veneziani e Genovesi anche allora facevano e come era in Milano altre volte. X: accordare esenzione dai carichi per alcuni anni a’ Fabbricatori che verranno a trasportarsi in Milano. In questo rispettabile monumento, degno d’un consesso che rappresenta la Sovrana Maestà, si dimostrano ad evidenza gli avantaggi che non solamente alla Nazione ma al Principe risulteranno dai consultati provedimenti per lo accrescimento della popolazione e consumo de’ generi ne’ quali sta la forza principale della R. Camera.

L’unico provedimento dato per allora fu l’appalto generale che lo Stato fece dell’alloggiamento militare, il quale appalto ebbe nome il Rimplazzo.[164] Fu pubblicata dappoi la grida del bando generale de’ panni forestieri della qualità de’ nostri e gli altri forestieri di differente qualità si sottoposero ad accrescimento di gabella[165] come appunto era stato consultato dal Senato. Per decreto del Senato furono pure citati i creditori de’ Pubblici a produrre le loro ragioni per la consulta che quel Tribunale voleva fare sulla riduzione degl’interessi.[166] Così, frattanto che in Lombardia si proponevano ottimi mezzi per risarcire il commercio, in Francia si eseguivano.[167]

Per allora non furono dati altri provedimenti, o almeno a me non son noti, e trovo conforme alla lentezza del governo d’allora ed alle circostanze de’ tempi l’averli sospesi. Era tuttora in vigore nell’interno della Spagna la guerra co’ Portoghesi, da’ quali furono i Spagnuoli memorabilmente sconfitti a Villa viziosa, e la morte del Re Filippo IV accaduta nello stesso anno lasciò il regno nelle mani d’un Re di soli quattr’anni Carlo II, sotto la regenza dell’Arciduchessa d’Austria e Regina Marianna. Di più in Lombardia v’era imminente pericolo di rompere la pace fra Modonesi e Mantovani e nel Brabante spagnuolo era entrato Luigi XIV con poderosa armata, circostanze tutte efficacissime per far diferire ogni ulterior risoluzione.

Segnossi poi in Aquisgrana la pace fralle due Corone di Spagna e Francia e ripigliaronsi i pensieri pure del nostro commercio. Fece il Senato nuova consulta[168] simile di molto a quella che or ora abbiamo ricordata e da questa si vede l’inosservanza del bando pubblicato de’ panni forestieri. Quello che si propose di più questa volta fu di formare una stabile Deputazione di persone che potessero meditare, attendere e proteggere il commercio; così pure si accennò la sproporzione del ripartimento de’ carichi e l’indole de’ debiti pubblici.

Le providenze che da Madrid vennero in conseguenza di questi suggerimenti furono ordini per la reintegrazione de’ carichi straordinariamente pagati dallo Stato per regio servigio;[169] la riduzione degl’interessi de’ pubblici creditori[170] e la destinazione di una Giunta che particolarmente invigilasse proteggesse e desse direzione al commercio.[171]

Il Sommo Pontefice Clemente X aveva dato un bell’esempio ai Sovrani d’Italia di scuotere i nuovi pregiudizj nati colla decadenza[172] e ciò fece con pubblico editto, dichiarando che il commercio in grande non facesse offesa alla nobiltà; ma la opinione più forte della verità difendeva il suo capriccioso regno da questi attacchi ed era altronde distratto il nostro Governo dal pensare ad imitare sì bei esempi dalla ribellione di Messina che attualmente si sosteneva e per cui molte milizie della Lombardia si spedirono nella Sicilia. I Commercianti frattanto avevan preso un moto assai più rapido di quello col quale si preparavano i provvedimenti al commercio. Trenta edificj di seta erano disertati da Milano.[173]

Non era bastato che il Senato avesse detto il suo parere prima nel 1662 poi nel 1668, si volle che lo dicesse una terza volta nel 1679.[174] Allora fu che si vide comunicata la debolezza della Nazione anche ai primi incaricati del suo governo; propose la Città[175] una prammatica, ossia legge somptuaria degna degli antichi Lacedemoni, il Senato approvolla con alcune aggiunte molto minute[176] e si videro proposti i più violenti mezzi per opprimere l’industria nel tempo che si trattava di rianimarla. Il lusso è sempre stata la base del commercio de’ Stati 114 soggetti a un Monarca;[177] non v’è mai stata Nazione o secolo illuminato senza di esso; e quand’anche quest’unico rimedio contro l’ozio e l’indolenza fosse un vizio politico,[178] sarebbe sempre vero che due vizj opposti sono meno perniciosi ad uno Stato che un vizio solo.[179]

Venne da Madrid l’ordine di moderare il lusso[180] ma non vedo che sia stato eseguito nulla di quanto era stato proposto. Si fecero bensì pubblicare alcune gride di bando di stoffe forestiere[181] e di proibizione d’estrazione delle materie prime,[182] le quali negli anni seguenti replicaronsi dappoi e divennero come una solennità periodica d’effemeridi. Il Magistrato abolì qualche monopolio dannoso alle manifatture[183] e ordinò la Corte la soppressione importantissima d’alcuni dazj[184] pregiudiciali al commercio, il che poi cinquant’anni dopo fu eseguito.[185]

Varj rimborsi si fecero dalla Camera ai Pubblici de’ sussidj straordinarj, come nove anni prima era stato ordinato.[186] Si diedero alcune providenze per togliere gli abusi da’ Gabellieri introdotti sino dal principio di questo secolo,[187] ma tutti questi lunghi e poco vigorosi provedimenti non potevano ridare la vita a un commercio abbattuto in prima da sì fieri colpi.

Rivolgendo una occhiata sola a quanto abbiamo scorso sin ora, vedo che la Spagna lasciò in balìa de’ suoi ministri la remota Lombardia e che i Ministri nel primo secolo della dominazione spagnuola altra operazione non fecero che una perenne creazione di nuovi tributi e gabelle;[188] e queste gravezze e tributi per tante mani passavano e per giri sì tortuosi giungevano al Sovrano, sicchè nè il Principe sapeva d’onde partissero nè il Popolo dove terminassero. Così colla ruina della povera plebe, che non può parlare se non per bocca degli Amministratori, molti di essi facevano fortune considerabili. Finalmente le cose giunsero all’estremo, cioè a quel punto nel quale era riposta tutta la speranza.[189] Si rallentò la mano sulla instituzione di nuovi aggravj, ma non si tolsero i già instituiti, si scemò il vigore col quale s’erano fatti i danni quando si sarebbe dovuto impiegarlo per recare il rimedio, così in ventinove anni di pace continua si confermò l’assioma ch’è più facile il far danno che il recar giovamento.[190]

Sopravvennero i nuovi torbidi della guerra in Lombardia verso Guastalla, i quali s’accrebbero l’anno seguente colla invasione de’ Francesi nel Piemonte. Durò ott’anni questa guerra, che fu la sesta e l’ultima in questo secolo; ogni proposizione di commercio si lasciò da parte, nè più si ripigliò sotto il governo della Spagna. Molte dispute insorsero contro la Città di Milano, che ricusava di pagare il Mensuale, e queste durarono alcuni mesi dopo i quali dovette soccombere e continuare il pagamento.

Fatta poi la pace di Riswick si spedirono altri Reali Dispacci, che ordinavano la reintegrazione de’ sussidj straordinarj simili a quello del 1671.[191] Ogni anno si pubblicava bando di drapperie estere, nè servivano queste replicate leggi che a provare la debolezza de’ Legislatori. La morte poi di Carlo II pose in tal rivoluzione e la Spagna e le Provincie d’Italia, che non è maraviglia se più non siasi pensato al commercio. Filippo V nuovo Re di Spagna conservò a sè il disputato Milanese per sei anni di guerra, indi dovette cederlo all’Augusta Casa d’Austria di Germania e così si pose fine alla dominazione spagnuola.

In quale stato ricevesse la Spagna questa Provincia, in quale la lasciasse, noto è abastanza da quanto abbiamo veduto. Di 300.000 abitanti che aveva trovati in Milano 100.000 ne lasciò. Le 70 fabbriche di lana a sole 5 erano ridotte[192] e soli 25 mulini da seta lavoravano[193] alla fine di questa dominazione, la quale in 172 anni che durò non istabilì in questo Stato verun pubblico monumento che obbligasse la posterità a ricordarsene; si abolirono le antiche patrie leggi, si mutò la constituzione, si deformò il sistema. L’illimitata autorità che la Corte lontana lasciava al Governatore assoggettava questa misera Provincia ad un Sovrano variabile ogni tre anni, cui altro pensiero non doveva premere che quello d’impinguarsi e trasportare quanto più poteva le spoglie della Nazione. Frattanto alcuni Magistrati e primarj Cittadini impunemente col favore dell’oscurità laceravano la pubblica causa
per tal modo che vedevansi riuniti tutti i mali della Repubblica e della Monarchia in un mostruoso sistema che aveva per base la licenza ed offendeva molti premiando pochi. Allora si videro alcune poche fami
glie radunare scandalose ricchezze[194] per la carriera del Foro, mentre la Nazione dallo stato più florido correva all’estrema decadenza.[195] Allo 123 spirito del commercio si sostituì lo spirito del litigio; l’impero de’ Curiali s’estese sulle scienze, sulle arti, sulle finanze, sulle monete, sul commercio e su tutte le Regie e Civiche Amministrazioni,[196] Provincie che in nessuna parte dell’Europa colta gli sono soggette.

Capo V. Del commercio di Milano sotto l’Aug.ma Casa d’Austria di Germania sino al 1750.

Poichè per la fortunata industria dell’altre Nazioni perdè l’Italia l’antico lustro del suo vasto commercio, a tale stato si ridusse (come anche lo nota il Conte Carli, che la guerra guerreggiata divenne per essa quasi un oggetto di compiacenza qual ramo maggiore del suo attivo commercio. La Francia sola, collegata colla Spagna nella difesa della Lombardia, vi fece colare una prodigiosa somma di luigi d’oro,[197] i quali però non furono bastanti ad impedire che le gloriose armi austriache non s’impadronissero di Milano, dove fu dichiarato Governatore il Principe Eugenio di Savoja. S’è veduto come da un secolo inutili suppliche e querele avessero fatte i Pubblici per redimersi una volta dalle estorsioni e ingiusti riparti che si facevano per gli alloggiamenti militari: appena il Milanese fu sotto il governo austriaco che questi cessarono col nuovo regolamento della Diaria.[198] Sia effetto della buona fede ereditaria negli Austriaci Monarchi, sia anche della esatta disciplina delle truppe, fatto sta che questa fu l’epoca che finì del tutto il libertinaggio militare sulle Terre dello Stato: male certamente de’ maggiori che si sieno sofferti nel secolo passato.

Altro male restava, nè certamente meno fatale: cioè l’ingiusta ripartizione de’ carichi. Basti il dire che facevasi essa parte a norma dell’antica popolazione del 1462, cioè sulle stara di sale; parte a norma dell’antico Censimento fatto sotto Carlo V. I Tribunali e i pubblici avevano da gran tempo esclamato sull’aperta ingiustizia di questo ripartimento[199] veramente mostruoso.[200] Erano le Comunità abbandonate alla forza de’ Potenti interessati,[201] i Pubblici nella tutela degli Amministratori, arcana la scienza della distribuzione e in conseguenza assai arbitrario il metodo di formarla. Fra questo disordine il Conte Prass presentò alla Maestà di Carlo VI un progetto per ridurre il carico alla maggiore semplicità, accrescere le Regie Entrate e sollevare i Popoli. Il Sovrano l’accompagnò con Reale Dispaccio d’intera sua approvazione:[202] così anche in mezzo alle turbolenze della guerra pensava a beneficare lo Stato.

Troppo dovrei discostarmi dal mio proposito se volessi entrare nel merito del progetto; basta dare un’occhiata alle risposte de’ Pubblici per deciderne. Suole l’amore della verità riscaldare talvolta lo stile e l’imaginazione, ma non mai d’un riscaldamento scolastico. Fatto sta che tante difficoltà e dilazioni si frapposero a questo sistema che per nove anni si disputò per non ammetterlo,[203] sinchè nel 1718 si rifiutò, cercando unitamente i sudditi dal Sovrano un nuovo Censimento, come vedremo. La gloria di formare questa difficile uguaglianza era riservata al regno dell’Augusta Figlia di Carlo VI.

Duravano le vicende della guerra nella Spagna, nè queste impedivano che l’Imperatore Carlo VI, allora III Re di Spagna, desse i maggiori contrassegni della sua Real benevolenza a questo Stato,[204] ordinando providamente che si procurasse il bene e il sollievo de’ Sudditi a costo eziandio del suo Real Patrimonio;[205] nè vedendo posti in esecuzione i suoi ordini più volte con nuove lettere li replicò.[206] Condonò in oltre quel Pio e generoso Sovrano alcune rilevanti partite delle quali erano i Pubblici debitori alla Camera.[207] Ordinò di sopprimere il dazio alla introduzione della seta greggia,[208] benchè nemmeno questa volta si facesse. Tanti e sì efficaci e sì salutari ordini non bastavano a scuotere questo sistema della indolenza ch’è l’ultimo periodo della miseria.[209]

Il commercio di Milano era allora in uno stato ben peggiore di quello in cui si trova al giorno d’oggi. La Camera de’ Mercanti era composta appena di 130 individui,[210] laddove nel 1750 se ne contarono poi sino a 464.[211] Contendevano i Mercanti la perpetuità da’ loro Abati tirannicamente introdotta nel loro offizio ch’era elettivo e mutabile[212] e dalla Città pretendevano per altra parte che si mantenesse in vigore il divieto dell’estrazione dei bozzoli detti volgarmente galette,[213] e per conto del preteso divieto ottennero dal Senato la consulta in loro favore.[214]

Nell’anno medesimo la Città deputò una Conferenza ossia Giunta di Patrizj incaricati particolarmente di prendere cura de
gli affari del commercio.[215] Fu essa composta di quattro Giureperiti[216] e quattro di spada. S’interessarono essi con molto zelo e pubblicarono colle stampe molti regolamenti intorno il filare, torcere e tingere le sete e sulla partizione de’ metalli. Fece essa Deputazione l’anno dopo la sua fondazione una consulta al Governo[217] da cui si vede la vera premura di soddisfare alla incombenza assunta; e se non era allora facile in Italia l’alzarsi sino alle massime universali del commercio, per la minore notizia che si aveva degli Autori oltramontani i quali avendo il commercio possono meditarvi,[218] si vede però che non perdonossi a impegno e fatica per impossessarsi del dettaglio, senza del quale non v’è sistema che possa ridursi ad efetto. La Città pure fece consulta sul commercio[219] e il Senato l’anno seguente sulla stessa materia di nuovo scrisse.

Varj accidenti in questi anni intorbidarono gl’interessi della nostra Provincia. La guerra colla Porta Ottomana, l’invasione della Sicilia fatta dagli Spagnuoli e il timor che recava il Duca Vittorio Amedeo di Savoja armato ai nostri confini erano circostanze poco
a noi favorevoli, che unite alla lentezza del nostro sistema politico, ritardavano le beneficenze di Cesare su questo Stato. Venivano non134 dimeno dispacci dalla Corte per proteggere il commercio,[220] per il quale il Senato fece nuova consulta,[221] indi si pubblicò grida proibitiva de’ panni[222] e drappi forestieri.[223] Ma queste lettere, consulte e gride non furono quanto al sortire effetto più fortunate di tant’altre consimili, ch’io mi fo lecito di non ricordare per risparmiare delle nojose ripetizioni inutili a dar lume alla storia.

Per questi nuovi infausti accidenti la caduta del nostro commercio passò tant’oltre che (per dir solo di queste) di 40 officine di Battiloro che ne’ passati tempi contavansi in questa Città si ridussero ad una sola meschina sopra la quale cadeva l’aggravio dell’Estimo di lire 1.200 annue;[224] nuova conferma che allora fosse assai più oppresso il commercio che ora non è, perciocchè nel 1750 se ne trovò cresciuta una intera decina.

S’eresse poi nuova Deputazione sul Commercio: fu questa fatta a nome del Principe e composta di Regj Ministri. La Civica già instituita poteva rappresentare bensì la parte di protettrice de’ Commercianti col Principe; ma non così quella del Principe co’ Commercianti, come era bisogno per il più pronto corso necessario negli affari di commercio. Sotto questa Deputazione[225] cominciò il commercio a rialzarsi considerabilmente come da qui a poco vedremo.

I pubblici clamori contro il progetto del Conte Prass terminarono in questo tempo colla supplica che lo Stato unitamente presentò al Reale Soglio di Carlo VI implorando la Deputazione d’un Tribunale imparziale che facesse nuova esatta stima de’ beni e a proporzione di essi con equità distribuisse il tributo che tanto enormemente era mal diviso. Accondiscese il Monarca a questa supplica e si stabilì la Giunta del Censimento, la quale per 15 anni s’occupò a quest’oggetto, sinchè l’ultimazione di questa importante providenza venne interrotta dall’invasione de’ Gallo-Sardi nel 1733.[226] Pare che appunto in que’ tempi ricadesse il periodo di pensare al commercio e ciò vedesi nella scrittura allora pubblicata alle stampe dal Ronzio,[227] ma vedesi in essa pure signoreggiare lo spirito curiale del monopolio anzi che la luce de’ veri principj economici e gli efetti vi corrisposero.

Ma per tornare alla Regia Giunta del Commercio,[228] vide essa, dopo la grida pubblicata nel 1720, prosperare mirabilmente le manifatture nostre di seta, cosicchè in due anni osservò i telari di seta ascendere al numero di 744 nella Città di Milano[229] da soli 130 ch’erano. Fa maraviglia questo considerabile effetto prodotto da una grida di bando, cioè da quel medesimo mezzo tante volte adoperato inutilmente e prima e dopo,[230] ma cesserà lo stupore se si consideri che appunto nel 1720 tutta era in precipizio la circolazione della Francia per il sistema del Law e di più l’anno medesimo si manifestò la peste in Marsiglia, la quale anche l’anno seguente fece strage; per lo che interrotto fu ogni commercio dell’Italia colla Francia. Pare di questo bene ne fossimo debitori più alla peste che a qualunque altra direzione politica; nè que’ che dappoi hanno citato tal fatto si sono risovvenuti di questa circostanza. Quest’esempio prova bensì che qualora non vengano a noi i drappi di Francia, le nostre interne manifatture vanno prosperando, ma nè prova che questo sia l’unico mezzo, nè che le gride le abbino mai fatte prosperare.

In fatti: cessò la peste e con essa la proibizione.[231] Innondarono di bel nuovo questa Provincia le manifatture francesi, si diminuirono i telari nostri e in pochi anni si ridussero a soli 500[232] e ritornarono gl’Italiani nello Stato di meritare il rimprovero che dà loro il Muratori[233] con queste parole: «provveduti dalla natura di quanto può bisognare al loro nobil trattamento, invasi delle novità delle mode e più che d’altro vaghi delle manifatture oltramontane, pagano eccessivi tributi a’ Principi non suoi».

L’Augusto Carlo VI, gran Protettor del commercio in tutti i suoi Stati, ordinò al Cancelliere di Corte Conte Sizzendorff di formare 
un progetto per far rifiorire una volta il commercio della Lombar
dia, per il quale aveva sin allora fatto già tanto dal canto suo. Progettò quel Ministro di allontanare da tutti gli Stati di S. M. i drappi di Francia e di accordare libero accesso a’ nostri negli Stati Ereditarj
 di Germania, proponendone il compenso in rame, cera, tele, ferro e panni comuni. Così si ammetteva una interna circolazione fra Sud
diti d’un istesso Monarca, membri tutti d’un Corpo politico e si apriva adito a provedere colle nostre manifatture gran parte della Germania. Venne questo rispettabile progetto segnato nel 1723 10 marzo e corredato dalla approvazione Sovrana in questi termini: «Io approvo questo progetto e voglio che sia messo in esecuzione senza dilazione alcuna. Firmat. Carlo».

Qualunque non appassionato uomo credere dovrebbe con questo nuovo sistema ristabilito finalmente l’abbatuto commercio della Lombardia; nè cadrà in mente che un voglio sovrano, il quale non ammetteva dilazione alcuna tanto salutare alla Nazione, dovesse rimanere inefficace: eppure così rimase. Lo fu per l’eterne[234] procedure che per sistema si danno agli affari più semplici, lo fu per la poca cognizione (convien pur dirlo) che v’era del commercio nelle Giunte destinate a invigilarvi. Erano esse nella necessità di mendicare i lumi e i pareri da’ Negozianti, l’interesse de’ quali non è sempre quello della Nazione,[235] ed essendo state da’ Negozianti ingannate, esposero con buona volontà il loro poco provido parere. I Tribunali che per instituto loro non sono consacrati alle meditazioni del commercio, le quali per la loro estensione e importanza richiederebbero tutto l’uomo, adottarono il parere delle Giunte e così gli errori dopo un lungo giro di procedure da’ Negozianti passarono al Governo.

Si trattava nel progetto di compensare le nostre manifatture di seta con rame, cera ec. Si trattava per i Negozianti di perdere i loro Corrispondenti, che da altre parti mandano loro le merci che esebiva il progetto. Si trattava dunque per i Negozianti di perdere, mutando strada, tutte le loro pratiche e le raffinate cognizioni acquistate colla sperienza di molti anni. Si trattava in fine per essi di cambiare un utile sicuro e calcolato coll’incertezza del risarcimento. Non è quindi maraviglia se i Negozianti con ogni sforzo persuadessero alla Giunta che sarebbesi fatto cattivo negozio lasciando di ricevere dall’Impero, da’ Veneziani e da Genova le merci proposte nel progetto, sulla apparente ragione che da queste parti le abbiamo a miglior mercato e con minore dispendio di condotta che non avessimo avuto dagli Stati Ereditarj.

La Giunta Regia del Mercimonio, non penetrando lo spirito privato de’ Commercianti,[236] addottò queste ragioni e le espose nella consulta.[237] Approvossi in essa consulta il progetto per la parte che risguardava l’estrazzione delle nostre manifatture, ma non per l’altra che spettava il corrispondente: come se discreta cosa fosse che gli Stati di Germania in favor nostro aprissero un ramo di commercio totalmente passivo.

Non pensarono dunque allora i Deputati sul commercio all’interesse della Nazione presa nel suo tutto; nè fecero osservazione alla differenza che passa fra il ricompensare le esterne manifatture co’ frutti dell’interna industria e il pagarle con effettivo contante. Nello stato attuale il commercio di panni, tele fine, rame e cera è un puro commercio per noi rovinoso che fa uscire ogni anno una non tenue somma di denaro. Il progetto ci esibiva la strada di bilanciarci con altrettante merci lavorate da noi e se ora manteniamo 50.000 sudditi d’altri Principi per provederci di questi generi, il progetto ci suggeriva di mantenerli negli Stati soggetti al nostro medesimo Sovrano, i quali a loro spese avrebbero altresì mantenuti altrettanti Operaj nella nostra Provincia; il che non fanno le piazze che ora ce le somministrano.[238]

Tutto ciò vale supponendo anche la diversità del primo prezzo e delle spese del trasporto allegata da’ Negozianti d’allora, del che pure ne dubito in vista della strada di Trieste. Non mi fermerò io di più nell’esame di quest’affare, dirò solamente che a questi capi proposti nel progetto potevansi aggiungere gli specchj, oggetto di qualche importanza, i quali compriamo da’ Veneziani assai impuri ed a più caro prezzo che non ci costano quelli dell’Austria condotti in Milano. S’è toccato quanto basti a provare che nè gli ordini più efficaci del Sovrano, nè le instituzioni più salutari per la Nazione avranno mai effetto sintanto che dovranno passare per l’interminata trafila dell’antico sistema lasciato dagli Spagnuoli e sin a tanto che si prenderanno per maestri del commercio i Negozianti, come delle monete i Cambisti.[239]

Fralle migliori scritture che mi sono cadute sott’occhi nella presente materia è certamente da riporsi la consulta fatta dal Senato in questi tempi.[240] Proponesi in essa l’esenzione alle materie prime: olio, sapone ec. e quanto serve alle interne fabbriche; alleggerimento dell’Estimo del Mercimonio; permissione a’ Nobili di commerciare; diminuzione delle gabelle all’estrazione delle interne manifatture e colla protezione continuata al commercio l’invito agli Operaj passati altrove a ritornarsene: «ut ab alienæ fortunæ exemplo, quod omni ædicto potentius est, capiant absentes consilium remigrandi ad patrios lares», nelle quali parole piene di verità e di senno stanno a parer mio rinchiuse le principali leggi del commercio. Ed è da dolersi che quelli i quali erano particolarmente delegati per consacrarsi allo studio del commercio non si sollevassero a questi universali principj sull’esempio del Supremo Tribunale di Giustizia che incidentemente soltanto scriveva su questa materia. È da dolersi pure che avvisi tanto provvidi e giusti rimanessero dimenticati nella polve di qualche disordinato archivio, onde si vide in necessità il Senato medesimo di rinnovarli cinque anni dopo per risvegliare s’era possibile dalla lunga e mortifera sonnolenza gl’interessi del commercio.

In questa nuova consulta[241] parla il Senato quella libertà e schiettezza, che sono i veri caratteri del zelo e della ragione e degni di chi dalla beneficenza del Sovrano è prescelto a provedere alla prosperità dello Stato.

Aveva frattanto ridotte a buon termine le sue operazioni la Real Giunta del Censimento, eretta come vedemmo nel 1718. Fra gli altri punti dibattevasi principalmente in essa Giunta quello che concerne il censimento del commercio, ossia l’Estimo del Mercimonio. La Città di Milano fece le più valide istanze in favore della libertà del commercio acciocchè si preservasse immune[242] e così pure sollecitò la Città di Como. Le altre Città dello Stato per lo contrario lo volevano soggetto al carico. La Giunta del Censimento presentò a S. M. le sue occorrenze su questo in una ampia e distinta consulta,[243] in cui molto si può vedere intorno il nostro commercio (sebbene non convenga adottare senza disamina tutti i fatti ivi rapportati e presi indistintamente dagli antecedenti scrittori). Tutte le rimostranze fatte e da’ Milanesi e da’ Comaschi furono inutili e l’Estimo del Mercimonio restò sul piede antico, come lo è pure al presente,[244] di qual danno egli sia al commercio è noto bastevolmente.[245]

Mentre i benefici e sin allora poco fruttuosi sforzi dell’Augusto Carlo VI stavano combattendo tuttora contro la tenace cattiva instituzione del nostro sistema, invasero improvvisamente questo Stato le armi gallo-sarde, si dissipò la Giunta del Censimento sul compiere dell’opera e furono abbandonati fralla confusione del cambiato dominio i progetti di commercio. Si fece da lì a due anni la pace comperata collo smembramento del Novarese e Tortonese ceduti al Re di Sardegna.

Quello che sino dal principio del suo regno aveva il Glorioso Monarca comandato replicatamente che si facesse, finalmente lo volle fatto a favore di questo Stato colla soppressione totale delle gabelle sulle lane, olio, sapone, droghe per tingere, sete greggie[246] tutte in somma le materie prime purchè sieno destinate alle fabbriche del Paese. Di più: ridusse alla sola quarta parte le gabelle sulla estrazione delle manifatture fabbricate nello Stato.[247] Questa provvidenza ricercata inutilmente da più d’un secolo, se anche fosse la sola, basterebbe a lasciare il nome di Carlo VI in perpetua benedizione presso ogni buon Cittadino.[248]

Cessò, come è noto, questo Grande e benemerito Monarca di vivere. L’amica e la nemica fortuna gli furono accanto a vicenda, ma la beneficenza non discostossene mai. Molto si operò sotto il suo regno per proteggere il commercio e in Ostenda e in Trieste e in tutti i suoi Dominj. L’Augusta Maria Teresa Imperatrice Regina per felicità de’ suoi Popoli fu destinata a regnare dopo di lui, ma dovette difendere l’eredità de’ suoi Maggiori garantita da’ Principi d’Europa contro la metà dell’Europa medesima. La protezione del Cielo, la giustizia della causa, il valore de’ Sudditi e i voti dei buoni furono per lei e, dopo ott’anni di ostilità, colla pace d’Aquisgrana si assicurò tranquilla sul trono.

Questa incomparabile Sovrana, delle virtù di cui avrà molto da parlare la storia, potè appena volgersi a’ pacifici stabilimenti che pensò al commercio. Pubblicò essa salutari regolamenti negli Stati Ereditarj di Germania per favorire le interne manifatture e per suo Real Dispaccio[249] ne mandò copia, coll’ordine di conformarci ai medesimi regolamenti quanto lo permettevano le nostre circostanze. Aggiunse a questo altro benigno dispaccio[250] in cui dichiarò libera l’introduzione delle nostre manifatture negli Stati di Germania, da’ quali venivano escluse le francesi. In questa guisa si rinnovò il progetto del Conte Sizzendorff, cogli avvantaggi che allora desiderava la Regia Giunta del Mercimonio.

Questa sovrana benefica providenza restò pure inutile come le altre; nè questa inutilità degna è di perdono a chi ne fu la cagione, massimamente nelle circostanze di allora, per le quali avevamo abondanti mezzi per aprire un ramo di commercio lucroso colla Germania[251] e con esso dar l’anima e la vita a questo Stato. Diverse consulte furono fatte su questo dispaccio d’evidente utilità,[252] il quale dispaccio co’ tanti giri perdè la sua forza e finì dimenticato presso gli altri negli archivj.[253]

I fatti posteriori e gloriosi al regno della Benignissima nostra Sovrana sono recenti alla memoria di tutti. Ognuno sa lo ristabilimento fatto da Essa della Giunta del Censimento, onde sotto il suo felice regno s’è dato finalmente termine all’arbitrario e ingiusto scompartimento de’ tributi, oggetto di tante e sì lunghe querele de’ miseri Popoli; è pubblica la soppressione d’una quantità di Ministri ed Officiali, che ad altro più non servivano, salvo a distrarre le rendite della Camera ed obbligarla alla minima necessità ad aggravar la mano sul Popolo;[254] è nota l’erezion della Giunta che attualmente pressiede; ed è pur noto che s’è trovato e destinato un fondo a proteggere ed ajutare il commercio: il perniciosissimo monopolio dell’indico tolto, le fabbriche nuove di panni, drappi, mussoline, cristalli, nastri e tele dipinte sono sotto gli occhi di ognuno, ne parleremo nella seconda parte.

Quanto si è sin ora colla maggior precisione e imparzialità esposto giova cred’io a darci un’idea dell’indole e spirito particolari al dì d’oggi del nostro sistema politico; con questa premessa ardirò io entrare a far l’analisi dello stato attuale del nostro commercio e de’ suoi vantaggi e disavantaggi sì fisici che d’opinione. L’amore del vero e della Patria mi spronano a farlo, benchè abbi presenti agli occhi gli esempi di quasi tutti i scrittori di scienze economiche e il detto del Sig. di Forbonnais che «les désordres accumulés pendant des siècles ne laissent au zèle des vrais citoyens et des hommes d’État qu’un sentier glissant environné de précipices», Considerat. sur les Finances d’Espagne, pag. 132.

PARTE II.
STATO ATTUALE DEL COMMERCIO DI MILANO

Introduzione

Gli Stati d’Europa hanno reciprocamente le medesime relazioni che sogliono avere le private famiglie una coll’altra. A misura che l’antica barbarie fece luogo alla luce della ragione crebbero i bisogni degli uomini e divennero sì forti che la feroce nemicizia e la stupida gelosia delle diverse Società dovette piegare. Poco a poco trovò ogni Nazione i mezzi col commercio d’avere in sua mano le produzioni de’ climi anche più rimoti; di dar valore all’eccedente le proprie consumazioni e di accrescere l’industria, la popolazione e i comodi della vita. Il lusso e l’amor del piacere hanno contribuito ad incivilire gli uomini, a stabilire la fraternità e la buona fede, a mettere in orrore la crudeltà e la tirannia, a promovere le scienze e le arti più efficacemente di quello che non avessero fatto i severi insegnamenti de’ passati filosofi.

Le pellicce, i lini, i panni, i pesci del Nord, gli zuccheri e i minerali d’America, le droghe ed i profumi dell’Asia, gli avorj ed i metalli dell’Africa, quanto in somma l’arte degli uomini ha saputo ritrovare sul globo utile e dilettevole alla vita, tutto ritrovasi al dì d’oggi in ogni punto della terra di Europa, cosicchè noi Europei anzi che formare diversi Popoli sembriamo radunati in una Nazion sola composta di diverse famiglie, tanto è incessante la vicendevole communicazione.

Come le private famiglie devono conoscere le proprie forze e in fine dell’anno esaminare le partite d’entrata e uscita, così deve fare una Nazione. Come un buon Padre di famiglia cerca di accrescere il frutto delle proprie terre e del suo traffico e di diminuire le inutili spese quanto è possibile, così deve fare chi presiede ad ogni Nazione.[255] Il commercio è il più importante oggetto del ben pubblico e della forza del Sovrano, e la bilancia del commercio è conosciuta ormai per la sola misura del potere, della considerazione e della felicità d’uno Stato.

Questa bilancia appunto esamineremo primieramente in questa seconda parte e, come nella prima abbiamo ricercato nella storia politica i fili per condurci a conoscere lo spirito del nostro sistema, così ora con libera imparzialità passeremo ad esaminare l’indole dell’attuale nostro commercio, gli avantaggi e disavantaggi che gli sono particolari, gli ostacoli che l’incatenano, i pregiudicj che eternizzar vorrebbero i nostri danni e così porre in chiara luce la natura del male che ci affligge, dalla quale ben conosciuta spontaneamente poscia si presentino i rimedj e spero in vista di quest’esame potrassi a noi dire con Bacone:[256] «Cum rerum vestrarum status non a vi ipsa rerum sed ab erroribus vestris male se habeat, sperandum est illis erroribus missis aut correctis magnam rerum in melius mutationem fieri posse».

Capo I. Dell’indole e del bilancio del commercio nostro.

V’è stato chi ha intrappreso di formare il bilancio del commercio nostro, il quale si vede in una dissertazione ms. che nel 1754 cominciò a correre per mano d’alcuni; merita lode l’autore perchè abbia mostrato il primo un lampo delle scienze economiche, le quali non per anco erano penetrate sino a noi; nè maraviglia esser deve se per non essere stato da veruno preceduto e per la misteriosa timidezza colla quale si tengono fra di noi occulti i fatti della pubblica amministrazione e dispersi e segregati in varie parti egli siasi allontanato da quella scoperta, della quale andava in traccia con ingegno bensì, ma con intera mancanza di notizie.

Molto in questi ultimi anni ha messo in chiaro il nuovo Censimento, molto la riordinazione di qualche archivio e in ajuto mio computar devo molta fortuna e costanza, onde con mezzi privati ho potuto da diverse parti raccogliere e mirare il primo sotto un sol punto di vista le notizie preliminari alla interna direzione di questo Stato, la mancanza delle quali è stata forse la catena più forte che sin ora ci ha tenuti nella funesta e vergognosa dipendenza dalle estere Nazioni, malgrado i generosi soccorsi e i provvidi ajuti de’ Clementissimi Sovrani d’Austria.

L’Autore anonimo ha preso per fondamento del commercio attivo la semplice opinione d’alcuni; io ho preso per fondamento i registri giustificati del Magistrato Camerale e della Regia Ferma; l’Autore ha calcolato il commercio passivo colla sola notizia del numero de’ Mercanti, io prendo di mira i registri della dogana, dalla quale sola potiamo verisimilmente stabilire la quantità delle merci che realmente entrano ogn’anno nello Stato. Questi principj sono di peso talmente diverso ch’io mi credo dispensato dal confutare i risultati de’ suoi.

Ne’ conti d’una Nazione l’esattezza geometrica non è possibile trovarla, nè è possibile ad un privato, il quale non può radunare le notizie di fatto che con ufficj, lo schivare in una moltitudine di cose ogni errore; oso bensì affermare che questi saranno della natura di quelli che con un zelo imparziale e con una costante diligenza non era nelle mie circostanze possibile distinguerli. Scrivo quello che penso e credo il vero; le obiezioni alle quali quest’opera avrà dato soggetto, poichè sia consegnata al pubblico, porranno sempre più in luce questa materia e contribuiranno forse a rendere più chiara e semplice l’amministrazione delle nostre finanze.

§ 1. Quali sieno i capi del nostro utile commercio.

Si è veduto nella prima parte come e per quali ragioni siasi annichilata l’antica industria de’ Milanesi, i quali sì gran nervo d’utile commercio traevano dalle loro manifatture. Ora la principale e direi quasi l’unica sorgente del commercio lucrativo sono i frutti che immediatamente ci somministra la terra.

1.mo La miniera più abondante del nostro commercio è la seta. Di questa parte greggia, parte filata, ne manda il Milanese agli Svizzeri, all’Impero, a Genova ed a Lione qualche porzione se ne estrae di tessuta in fazzoletti, calze e stoffe lisce, manifatture le quali vanno principalmente nella Germania.

2.do Devono considerarsi per la loro importanza i grani de’ quali la fecondità del terreno ne somministra in quantità maggiore del bisogno di circa un milione d’abitanti, quanti appunto ne comprende lo Stato.[257] Vicini Popoli ci attorniano i quali ne mancano e tali sono gli Svizzeri, i Grigioni, parte del Novarese, il Parmigiano e i Genovesi. De’ nostri risi poi se ne trasportano anche al Levante per la superiorità della perfezion loro.

3.zo Il lino deve registrarsi dopo i grani: la principale raccolta di esso fassi sul Cremonese e qualche parte del Lodigiano e molto di esso se ne spedisce particolarmente alla volta della Romagna.

4.to I caci, conosciuti da tutta l’Europa sotto il nome di parmigiani, devono valutarsi in nostro vantaggio. Un frutto si è questo particolarmente proprio del Lodigiano, sebbene ancora sul Pavese e in qualche parte della Provincia del Ducato se ne fabbrichi. La bontà di essi dipende forse talmente dalla natura de’ pascoli, che non credo possibile il contraffarli altrove; in fatti i Francesi inutilmente lo hanno tentato in Normandia.[258]

5.to Del burro altresì ne esce dallo Stato e va sul Piacentino, sul Parmigiano, sulla Romagna, sul Cremasco e Bergamasco e Bresciano.

6.to I terreni, che da molte delle nostre famiglie possedonsi negli Stati ceduti al Re di Sardegna, sono un importante articolo da registrarsi alla partita dell’utile commercio per il denaro che per essi ne entra nello Stato.

Sono questi gli articoli sensibili del nostro attivo commercio, al quale poco e quasi nulla aggiungono alcuni resti di manifatture di carrozze, cioccolatte, ricami d’oro e d’argento e simili. Tutti questi rami esamineremo in seguito uno ad uno, ma prima diasi una vista generale ai capi del nostro commercio rovinoso.

§ 2. Quali sieno i capi del nostro commercio rovinoso.

I.mo Quasi tutto il commercio de’ panni e lavori di lana altre volte così utile a questa Provincia ora fassi a sua rovina; dallo Stato Veneto, dagli Svizzeri, dalla Germania, Francia e Inghilterra ci vengono le manifatture di lana più necessarie per il vestito sì de’ Nobili che dell’infima plebe: due sole fabbriche sono in Milano di panni ed una
in Como, miserabili avanzi della passata industria,[259] mentre nelle sole valli di Bergamo vediamo attualmente sessantacinque fabbriche di lanificio, le quali girano ogni anno venticinque milioni (25.000.000)
di lire venete, come appare da’ loro notificati.[260] Una colonnia sì è questa di altrettanti nostri originarj Cittadini, i quali sotto il dominio veneto ritrovarono sicurezza, asilo e protezione, mentre si opprimeva il commercio fra di noi; e luttuosa vista è l’osservarli al di là de’ confini imponendoci colla loro industria un grave annuo tributo tanto più stabile e fermo, quanto che ha per garanti l’indispensabili nostri bisogni della vita.

2.do I commestibili molto importano nella partita del nostro debito e sotto questo nome comprendo l’oglio, il vino, l’acquavite, i caci forestieri, i pesci salati e simili. La terra non produce vino bastante in questa Provincia e ne riceviamo dall’Oltrepò, dal Parmigiano. Così l’oglio particolarmente d’ulivo ci viene per la maggior parte dal Genovesato e il rimanente dalla parte di Ferrara e i più scelti dalla Provenza e dalla Toscana.

3.zo Dopo i commestibili dobbiam registrare tutte le tele sia di lino fino, sia di cottone[261] o di canapa, le quali ogni anno fanno uscire una rimarchevole somma di contante. Le tele di lino fine vengono dall’Impero, dalla Francia e talune dall’Olanda; pochissime sono quelle che dalla Boemia e dall’Austria venghino a noi.

4.to Gli animali poi d’ogni sorte sia per gli usi della campagna, sia per quelli della città sono un capo del nostro debito particolarmente cogli Svizzeri da’ quali ci vengono quasi tutti i cavalli e la maggior parte de’ buoi.

5.to Le droghe vengono in seguito da rimarcarsi e comprendono il zucchero, caccao, cera, cannella, caffè, vainiglia, garofani e simili, le quali per la maggior parte ci vengono per la strada di Genova.

6.to Dopo le droghe devono annoverarsi i metalli. Il ferro, che ci viene somministrato dalle miniere della Valsasina e che lavorasi a Lecco, basta a piccola parte de’ bisogni del nostro Stato; la massima parte del ferro ci viene dal Bresciano e dal Bergamasco. Il rame per lo passato venivaci dal Tirolo e da altre parti della Germania, ora le abondanti miniere scoperte nel Piemonte e nella Savoia ce ne somministrano la maggior parte.[262] Il piombo ci viene per la parte di Genova, dalla Romagna, da Inghilterra e dagli Olandesi. I metalli nobili d’oro e d’argento non ci vengono che monetati o manufatti.

7.mo In seguito a’ metalli registreremo le pellicce e i cuoj d’ogni sorte: i cuoi in massima parte ci vengono dalla volta di Genova, le pellicce dagli Svizzeri e dal Nord.

8.vo La volgare opinione ripone le stoffe di seta forestiere fra i primi capi del nostro commercio passivo; il lusso d’alcuni pochi opulenti Cittadini ferisce gli occhi e la mente di chi non vede che i popolareschi bisogni col ripetuto lor numero devono superare di gran lunga nella bilancia economica gli oggetti brillanti del lusso. Le stoffe di seta dunque meno importano de’ succennati capi, come vedremo; basti saper per ora che di esse stoffe quelle chiamate solie, cioè i damaschi, i velluti, i veli, taffetà, amoerre, rasi e simili ci vengono da Genova, da Firenze e da Torino. Le altre stoffe poi chiamate a opera, cioè a varj colori con oro o argento, ci vengono per lo più da Lione.

9.no I beneficj concistoriali posseduti per lo più da chi abita a Roma; i sali e il tabacco che ci vengono dalla Dalmazia, dalla Grecia e talvolta dalle coste d’Affrica; i legni sì d’opera che da fuoco e il carbone, che da’ Stati Sardi vengono a noi; i saponi, che riceviamo da Genova e da Venezia, gli specchi di Venezia, la carta di Bergamo, i libri forestieri, i pesci salati di Olanda e di Ferrara, i vini preziosi di Francia, Spagna ec. e infiniti altri oggetti del lusso, orologi, scattole, ventagli, vezzi e simili, tutte sono perenni sorgenti che smungono il denaro fuori dalla nostra Provincia.

10.mo Finalmente s’aggiunga agli articoli accennati il denaro che deve ogni anno colare in Germania per la paga delle milizie mancanti a questo Stato e per il vestito e l’armatura di quelle che vi soggiornano. Questi sono i capi sensibili del nostro passivo commercio.

Dopo questa occhiata generale passiamo ora a esaminare la questione importantissima e con tanto inutili discorsi dibattuta sempre e non mai rischiarata, cioè se il commercio nostro sia veramente attivo ovvero passivo.

§ 3. Se gli argomenti tratti dalla natura del cambio sieno valevoli a definire presso di noi l’indole del nostro commercio.

Molti per definire l’indole del nostro commercio si appigliano alla natura del cambio. Egli è evidente che una Nazione, qualora abbia il commercio passivo preponderante, deve trasmettere ogni anno al saldar de’ conti il contante proporzionato al debito e così al contrario deve riceverlo la Nazione che abbia preponderante il commercio attivo, giacchè le lettere di cambio altro non sono che o la cessione d’un credito o la confessione d’un debito il quale devesi realizzare al saldo de’ conti.

Questo trasporto efettivo del contante, che è una indispensabile conseguenza del commercio,[263] costa spesa e pericolo, e qualora i Negozianti possino evitarlo, vuole il loro interesse che lo evitino. Da qui ne siegue che se la nostra piazza è in credito colle altre, le lettere di cambio che essa spedisce sono una cessione di credito la quale risparmia al Negoziante il pericolo e la spesa dell’efettivo trasporto; quindi è che chi ricerca la lettera ottiene qualche agio e riceve nel paese dove è pagata o eguale o maggiore somma di quella che ha sborsato; ma se la piazza nostra è debitrice, le lettere di cambio da essa spedite sono una confessione d’un nuovo debito, per saldare il quale deve farsi l’effettivo trasporto, quindi chi ricerca la lettera deve ricevere tanto meno nel paese dov’è pagata quanto importerà il pericolo e la spesa del trasporto futuro.

Su questi principj generalmente veri credono taluni di potere definire dall’esame de’ cambj fatto per molti anni se la nazione sia attiva ovvero passiva a misura che il cambio guadagna o perde; ma questo metodo di ragionare, ottimo ne’ paesi che hanno le monete bilanciate secondo la naturale quantità del fine metallo, è di nessun peso fra di noi che viviamo da più d’un secolo e mezzo in un perenne disordine di monete; cosicchè il cambiare una moneta coll’altra, per l’arbitraria valutazione data dalla nostra legge monetaria, porta un utile che serve di stimolo incessante a farne un commercio malgrado gli epiteti di «scandaloso» e «vergognoso», che nelle gride ad esso vien dato. Di ciò parleremo più di proposito al cap. 3 § 3.

Poichè dunque la moneta presso di noi disgraziatamente è divenuta mercanzia, ne viene che l’utile d’estraerne una specie o d’introdurne un’altra sia tale da ricompensare le spese del trasporto ed il pericolo di esso; ora sul trasporto e sul pericolo, essendo fondato l’argomento del cambio, esso è di nessuna forza al caso nostro.

Ad altri fili convien dunque appigliarsi per cercare la verità in questo labirinto di cose e sieno questi l’esaminare ad uno ad uno i capi dell’attivo e del passivo commercio, conosciuti i quali stabiliremo con sicurezza e con intima cognizione la vera natura e il bilancio del nostro commercio.

Capi del commercio attivo.

§ 4. Della esportazione della seta.

Qualunque sia la forma sotto cui esce la seta da questa Provincia, sia in bozzoli, sia filata, sia greggia, ella è soggetta al pagamento della gabella della Mercanzia. La seta greggia ha di più altra nuova gabella, di cui parlerassi al cap. 3 § 5; e l’esportazione de’ bozzoli è generalmente proibita se non v’è espressa licenza della Cancelleria Segreta.

Chi volesse calcolare l’annua quantità di seta che si raccoglie nello Stato sul testimonio del notificato de’ bozzoli stabilirebbe un prodotto minore del vero. Una universale pusillanime timidezza, frutto delle lunghe e antiche vessazioni, è radicata negli animi particolarmente degli abitanti delle nostre campagne, cosicchè diffidano e temon male d’ogni notizia che da essi per pubblica autorità venghi ricercata.

Di questa verità mi son io convinto scegliendo il notificato dell’anno 1751, il quale passa per essere il più esatto che siasi mai fatto sin ora, e paragonandolo colla annua esportazione della seta tratta per adequato di varj anni dai registri della dogana, ed ho trovato il notificato minore dell’uscita di libre di seta undicimila cento seddici (11.116), ossia la parte si vorrebbe far credere maggiore del tutto, non essendo l’uscita che una parte del raccolto.

[264]

P-VERRI-Considerazioni-TAVOLA-A

 

Per confermarci la fallacità del notificato ha servito la tavola, che qui si annette [Tabella n° 1], contenente l’attuale stato de’ filatoj di seta i quali tutto l’anno lavorano, nè altra seta lavorano che quella che è nata fra di noi. Cinquecento otto (508) sono i vallichi di torto, ossia tramma e ducentoquaranta (240) i vallichi di filato, ossia organzino. Un vallico di tramma lavora verisimilmente all’anno libre di seta ottocento (800) e un vallico d’organzino libre di seta cinquecento (500). Saranno dunque lavorate ogni anno libre di seta in tramma quattrocento sei mila e quattrocento (406.400) e in organzino cento venti mila (120.000) cioè in tutto libre di seta cinquecento ventisei mila e quattrocento (526.400).[265]

Ma di seta non lavorata ai filatoj ossia greggia ne esce dallo Stato; e dalle annotazioni della Cancelleria Secreta consta che da dieci anni
a questa parte è la esportazione di essa:

P-VERRI-Considerazioni-TAVOLA-B

cioè per adequato libre cento venticinque mila quattro cento una (125.401) le quali, aggiunte alla partita di libre cinquecento ventisei mila e quattrocento (526.400) che si lavorano, formeranno l’annuo prodotto della totale raccolta della seta in libre seicento cinquantuna mila ottocento una (651.800). Dunque il prodotto vero della seta del Milanese è ducento quarantuna mila e dieciasette libre (241.017) più di quello che appare dal notificato, il che convince il notificato erroneo del terzo circa.

Ma le libre di seta che escono dallo Stato sono, come si è veduto, 421.934, dunque se ne lavorano in manifatture interne libre ducento ventinove mila e ottocento sessanta sette (229.867).

Valutando poi la seta che esce ogni anno a lire seddici per verosimile, confondendo organzino, tramma e greggia ad un promiscuo prezzo, sarà l’annua rendita per l’esportazione delle suddette libre di seta 421.934 il valore di lire di nostra moneta sei milioni settecento cinquanta mila e novecento quaranta quattro (£ 6.750.944).

§ 5. Della esportazione de’ grani.

Delle leggi e del sistema del nostro commercio de’ grani qui non prendo a ragionare; sarà questo l’oggetto che tratterassi nel capo 4.to di questa seconda parte; per ora della sola quantità di questo commercio vuole il metodo che si parli.

Non v’è chi dubiti che lo Stato di Milano non raccolga grani al di più del bisogno degli abitanti; ora questi abitanti eccedono il numero d’un milione, come abbiamo veduto, e valutando il consumo di ciascheduno a sole due moggia e mezzo[266] dovrà essere la raccolta de’ grani maggiore di moggia due milioni e cinquecento mila (2.500.000). Ma i notificati de’ grani estratti dai registri del Magistrato Camerale, e formatone l’adequato di sette anni cioè dal 1750 al 1758, suppongono il raccolto di sole moggia un milione e seicento quaranta quattro mila (1.644.000), dunque anche il notificato de’ grani è fallace di circa la terza parte almeno.

Ma oltre il consumo degli abitanti, di grano se ne trasporta agli altri Stati[267] e primieramente agli Svizzeri, ad alcune terre del Re di Sardegna ed ai Grigioni è stata fissata per trattato una determinata quantità di grani alla quale si dà il nome di limitazione, cosicchè sino alla quantità convenuta resta a questi Stati permesso d’estrarre i grani del Milanese, pagando però i patuiti diritti. Lo stato delle accennate limitazioni è il seguente:

P-VERRI-Considerazioni-TAVOLA-C

cosicchè lo stato dell’esportazione di grano per le limitazioni sarebbe di some cinquanta due mila (52.000) se gli Svizzeri levassero tutta la quantità convenuta, ma essi soltanto ne estraggono some ventitrè mila e settecento sessanta[268] (23.760), dunque le limitazioni importeranno solamente some quaranta cinque mila e settecento sessanta (45.760) ossia moggia sessantotto mila e seicento quaranta (68.640).

Oltre le limitazioni vi sono le tratte d’arbitrio e così chiamansi le esportazioni de’ grani che si concedono dal Magistrato indipendentemente da veruna convenzione con altri Stati; variano elleno ogni anno, ma per fissarne un adequato osserviamone il triennio passato, non essendo possibile avere più lunga serie; e questo medesimo più d’un anno di cure e sollecitudini e industrie m’è costato, tanta è la gelosia con cui dagli ufficiali del Magistrato Camerale si custodiscono come arcani della Monarchia questi fatti dell’economia pubblica.

P-VERRI-Considerazioni-TAVOLA-D

Da ciò consta per adequato che l’annua esportazione de’ grani per tratte d’arbitrio è di some sessanta cinque mila e quattrocento cinquanta (65.450).

Fissando dunque il promiscuo prezzo di lire dodici al moggio a tutti i grani e valutando i contrabbandi[269] colla stabilita misura dei dieci per cento, sarà l’esportazione di essi ogni anno:

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cioè un capo di vendita di lire 2.201.956.

§ 6. Della esportazione de’ lini, cacio e burro.

Consta da’ registri dell’Impresa della Mercanzia che cento trenta mila (130.000) pesi di lino eschino per adequato all’anno dallo Stato. I più fini di essi vanno a Genova, ma la maggior parte si manda alla volta di Sinigaglia d’onde passa al Levante. Questo commercio è principalmente del Cremonese e ne riceve gran parte del pagamento in cottoni, onde alimenta le reliquie dell’antico lavoro de’ fustagni tanto florido un tempo, come si vide al principio di quest’opera ed ora ristretto a circa ottomila (8.000) pezze d’esportazione, le quali s’incamminano quasi tutte verso il Parmigiano.

Valutando dunque questo lino a un prezzo medio di lire dieci il peso, ne verrà l’annua entrata di lire un milione e treccento mila (1.300.000), alle quali aggiungendo i contrabbandi col fissato principio sarà l’importanza del lino lire un milione e quattrocento trenta mila (1.430.000).

L’articolo del cacio per il solo Ducato è un commercio passivo e quello che parrà strano, benchè sia di fatto, si è che vivendo noi fralle officine di caci, stimati e conosciuti per tutta l’Europa, pure in Milano facciasi più uso de’ caci svizzeri e dell’Ossola che de’ nostrali. Per adequato de’ registri della Mercanzia di cacio parmigiano ne entrano in Milano all’anno ottantacinque mila libre (85.000) e di cacio svizzero e dell’Ossola libre quattrocento cinquanta mila (450.000).

Ma quello che ha di mira la natura del nostro lavoro è la quantità della esportazione de’ caci nostri e questa, per adequato de’ citati registri della Mercanzia, è annualmente:

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alla qual somma aggiungendo i contrabbandi e valutando la libra di cacio soldi dodici (12), l’importanza de’ caci sarà annue lire un milione ducentosettanta tre mila quattrocento settanta sei (1.273.476).

La principale sorgente de’ burri è il Lodigiano d’onde ne esce per lo Stato Veneto, Parma, Piacenza e persino per la Romagna. Dai registri della Mercanzia consta che l’annua uscita dallo Stato è per adequato di libre trentasette mila quattrocento venticinque (37.425), le quali, aggiunti i contrabbandi[270] e valutate a soldi venti (20) la libra, formano lire d’entrata quarantuna mille e cento sessanta sette (41.167).

§ 7. D’alcuni capi che restano del commercio attivo.

Poche e in mal ordine sono le manifatture di questo Stato; pure qualche sorte di utile danno i fustagni e le bombasine, le calze e fazzoletti di seta, i riccami d’oro, i transiti e qualche carrozza, chioderia di Valsasina e cioccolatte; nè usciremo dalla verosimiglianza fissando il prodotto di tutti questi capi ad un milione e mezzo; io di ciò non ho potuto produrne esatta contezza come del resto, ma quanto ho veduto e inteso tutto mi determina a stabilire tal somma ben persuaso che la rendita non possi essere maggiore di lire 1.500.000.-.-.

E qui sarebbero finiti i capi del nostro attivo commercio, se non avessimo a considerare un importante bensì ma impenetrabile articolo ed è questo: i beni posseduti da’ Milanesi sulle terre del Re di Sardegna, le rendite delle quali colano fra di noi. Mancano a me i mezzi non solo, ma anche le idee onde imaginar come calcolarne il prodotto e il rispetto dovuto alla verità m’obbliga a ricordare bensì questa vista, ma a dichiararla una quantità incognita. [Cfr. Tabella n. 2]

Capi del commercio passivo

§ 8. Importanza delle mercanzie introdotte ogni anno.

Un’occhiata alla tavola che qui si annette darà una idea della uscita annua del denaro da questo Stato per le merci forestiere che vi si consumano. [Cfr. Tabella n. 3] I fondamenti d’onde l’ho tratta sono que’ registri medesimi della Mercanzia, i quali non mai in prima furono esaminati, ma al finire d’ogni locazione passano alle mani de’ pescivendoli, sebbene sieno il codice più sicuro d’ogni altro per distinguere se la Nazione si mova verso il bene o verso il male e quale sia e dove il suo male medesimo.

Maraviglia però non è se tal trattamento siasi fatto a questi registri i quali sono tanti, sì voluminosi e scritti con tal confusione, che fa disperare di poterne trarre verun lume. Le merci vi sono scritte non divise in classi, non separatamente le estratte o le introdotte, ma confusamente e col solo ordine dell’azardo con cui si presentano ai passaggi, ossia alle gabelle, ciascuna delle quali ha il suo libro, quindi, dopo una stoffa di seta entrata, trovasi il cacio uscito e così costantemente.

Devo por freno alla mia candidezza e tacer il nome dell’onorato e industrioso Cittadino da cui ho ricevuti i massimi ajuti per compilar questa tavola, la quale mi costa sei mesi di fatica spero non inutile a questo Stato. Molte osservazioni fatte su i libri originali della Mercanzia e molte diligenze ripetute, tutte mi confermano l’esattezza e verità di questi risultati.

Infinite piccole cure vi abbisognarono per ridure a una sola misura o peso la medesima merce, che per un complicato sistema spesse volte mentre a Cremona si valuta a peso, a Milano si valuta a braccio e talvolta in altra provincia a numero e in altra a valor capitale; molte e ripetute sperienze per fissare un vero valor primitivo adequato alle merci medesime, cioè dedotto l’utile del Mercante e la gabella. Per decidere questo prezzo universale a’ generi, che sono suscettibili di più e meno, o secondo la perfezion loro ovvero secondo l’abondanza, ho preso un punto di mezzo fra il massimo e il minimo per adequato di dieci anni.

Le mercanzie ivi notate hanno tutte pagata la gabella nel 1752, onde non v’è da temere che il risultato sia maggior del vero. Dai soli registri della Mercanzia è dunque dimostrato che il debito dello Stato è di lire annue diciotto milioni, novecento cinque mila e ottocento settanta (18.905.870) alle quali aggiungendo i contrabbandi al 10 per % fanno l’uscita di annue lire venti milioni settecento novanta sei mila quattrocento cinquanta sette (20.796.457).

§ 9. Altri capi del commercio passivo non registrati nella Mercanzia.

Il numero delle staja di sale che s’introduce nello Stato realmente dagl’Impresarj è un mistero che inutilmente cercherei di sapere; sarebbe per altro questa la pietra di paragone con cui deciderebbesi la questione che durante la locazione presente dell’Impresa s’è sempre dibattuta fra i Sudditi e l’Impresaro, cioè se sia o no d’inferiore qualità di quello che è stato stipulato nel contratto il sale che tuttora si distribuisce. Io non ho presa veruna contezza di questa disputa, pare però inverisimile che lamentele tanto costanti e universali di questi Popoli, appoggiate su un fatto di particolare sperienza d’ogni individuo, possino essere destitute di fondamento; e strana cosa pare che ciò essendo, siasi lasciata la libertà agl’Impresarj di aggravare oltre il patuito contratto il tributo di questi Sudditi senza che almeno si migliorasse la condizione della Regia Camera. Qualunque siasi il fatto, la quantità vera del sale che dall’Impresaro si distribuisce è talmente custodita che non è possibile saperla; atteniamoci però a un verosimile: si calcola che ogni abitante consumi sei libre grosse di sale l’anno, sono gli abitanti un milione dicianove mila e settecento settanta (1.019.770) saranno dunque libre di sale (6.118.620), ossia staja[271] dugento cinquanta quattro mila novecento quaranta due (254.942); aggiungasi la terza parte di questa somma per gli usi de’ commestibili salati, particolarmente de’ caci, cioè staja ottanta quattro mila novecento ottanta (84.980) faranno in tutto staja di sale treccento trenta nove mila novecento ventidue (339.922).

Lo stajo di sale, che vendesi a lire 14 sol. 5 dan. 6, costa di prezzo primitivo circa lir. 1 sol. 10; il danaro dunque che verisimilmente s’estrae ogni anno per la compera de’ sali sarà di lire cinquecento nove mila e ottocento ottanta tre (509.883).

L’affitto dell’Impresa del Tabacco è di lire dugento cinquanta sei mila settecento cinquanta due (256.752). Il prezzo naturale del tabacco è un terzo di quello che si vende; l’annua uscita per comperare il tabacco deve essere dunque maggiore di lire ottantacinque mila e cinquecento ottanta quattro[272] (85.584).

I Benefici Concistoriali, de’ quali qui annetto la tabella, sono in massima parte posseduti da chi abita fuori dello Stato o in Roma, o in Legazioni o in Nunciature, può dunque considerarsi il prodotto di essi un ramo del commercio passivo, tanto più che se qualche piccola parte resta in Provincia, l’omessione che faccio delle dispense e delle bolle di gran lunga la supera; escono dunque per quest’articolo ogni anno ottocento ventiquattromila lire (824.000). [Cfr. Tabella n. 4]

Sono assegnati alla Cassa Militare sei milioni annue di lire per il pagamento delle milizie, le quali non mai essendo complete e ricevendo le monture tutte e le armi dagli Stati Ereditarj, ne viene un capo di commercio passivo per la Lombardia verisimilmente un milione annuo di lire (1.000.000).

Veggasi ora in un’occhiata lo stato del nostro bilancio nella tabella che annetto. [Cfr. Tabella n. 5]

§ 10. Conclusione.

In vista di quanto si è detto, giudichi ognuno quale sia veramente la natura del nostro commercio e disputisi ancora se è possibile in favor dell’attivo. Se le molte e lunghe guerre del passato secolo e le tre memorabili del presente non avessero fatto colare nella Lombardia i metalli preziosi della Spagna, della Francia e della Germania, a quest’ora sarebbe verificato nello Stato nostro quello che l’Autor dello Spirito delle Leggi dice, cioè: «un Paese che trasmette meno derrate o merci di quello che ne riceve si pone da se medesimo in equilibrio coll’impoverirsi, cosicchè ne riceverà ogni dì meno sin tanto che giunto alla povertà estrema non si riceva più in conto alcuno».[273]

In fatti credono alcuni che sia prova d’un commercio attivo il vedere tuttora del contante fra di noi dopo massimamente le rimesse fatte in Germania colla or ora finita guerra, ma converrebbe paragonare il denaro che ora circola colla prodigiosa quantità che circolava nell’ultima guerra d’Italia per dedurne qualche prova. Il decadimento del prezzo de’ grani e del vino, ridotto alla metà di quello che era sono solamente 14 anni, avrebbe anzi dovuto far conoscere palesemente che abbiamo il commercio passivo preponderante, poichè la raccolta di essi non è duplicata, nè la popolazione diminuita della metà, nè v’è che la diminuzione del denaro da cui possa derivare questo cambiamento.[274]

Capo II. Della natura delle leggi e della forma delle giuridiche procedure attinenti al nostro commercio.

Da che fu scompagginato l’originario sistema della Lombardia, e con ciò decretato il decadimento dall’antica sua prosperità, sette epoche ritrovammo nella prima parte nelle quali risvegliaronsi i Regi e pubblici Amministratori per ristorarlo e furono queste nel 1631, 1662, 1668, 1713, 1721, 1723, 1749. Si ascoltarono in quelle occasioni diversi Corpi pubblici, le Università, alcuni Negozianti e Cambisti creduti i migliori; i Ministri s’adunarono in conferenze, scrissero molte consulte e tutto inutilmente; si protessero alcune particolari fabbriche, si accordarono privilegi ad alcuni nuovi Fabbricatori e rinnunciò persino il Sovrano con provvida beneficenza a’ suoi diritti in favor loro sulle gabelle, e tutto questo non fu mai bastante a rimediare al male, nè a stabilire manifattura alcuna che abbia potuto innalzarsi a costante prosperità. In vista di questi pubblici fatti conviene accordare che i mezzi impiegati sin ora non sono bastanti a rimettere il commercio e il voler cercare ostinatamente la salvezza pubblica coi mezzi medesimi sarebbe un volere che date le medesime cagioni succedino efetti diversi.

Io credo buoni alcuni degli accennati rimedi parziali de’ quali abbiamo costume di prevalerci e il non vederne buon efetto mi fa ragionevolmente sospettare che dalla natura del sistema medesimo venga la infezione che contamina e spegne per un vizio intrinseco e universale tutti i particolari provvedimenti.

La felicità o decadenza d’uno Stato è il termometro più sicuro per decidere della bontà o incoerenza delle leggi che lo governano: non s’è veduta giammai Nazione florida con leggi cattive, o Nazione abbattuta con buone leggi.[275] Giusto è dunque esaminare ingenuamente lo spirito e la natura delle nostre leggi non già ripetendo gli encomj che ad esse ciecamente si fanno da chi o non le ha lette, ovvero per una superstiziosa servitù altro non ne ha ritratto che una stupida venerazione, ma penetrarle conviene con quella tranquillità ed imparzial contenzione, colla quale è giusto che un uomo esamini i lavori di altri uomini.

§ 1. Sotto quali leggi viva il nostro commercio.

La legge scritta sotto cui ora viviamo è quella delle Nuove Constituzioni pubblicate l’anno 1541. Questo nuovo codice abolì in gran parte le patrie leggi degli Statuti sotto la tutela de’ quali era salita questa Provincia al colmo della felicità. Il primo dono si è questo fattoci dalla dominazione spagnuola: nè certamente è facile imaginare qual beneficio si mostrasse allora di fare a questo Stato sì florido, popolato ed opulento col mutarvi le sue originarie leggi. So che, mutate che furono e stabilita con questa mutazione la curiale cavillazione in luogo della scienza preside ai pubblici affari, tutto andò sensibilmente in rovina nè altro male perdette il Milanese dappoi che l’invidia delle emule Nazioni. Se quegli uomini che allora osarono ergersi in Legislatori avessero avuta la riverenza che pur si meritavano le sante patrie leggi ereditate dai giudiciosi loro antenati e autenticate colla costante pubblica felicità, se avessero sentito in somma che è più grande conoscere e custodire il buono che il sostituirvi nuove invenzioni men belle di propria creazione, non avrebbero stesa una mano o interessata o imbecille a deturpare l’antico sistema e a cancellare le antiche leggi; nè ragion vuole che ora si abbia per il loro lavoro quel riguardo che essi non ebbero per le ereditate costumanze che avevano la ragione e la speranza in propria difesa.

Aggiunger conviene al codice delle Nuove Constituzioni una smisurata mole di editti, chiamati gride,[276] pubblicati dappoi, non da al
tro spirito dettati spesse volte che da quello di formare nuove rendite al Legislatore, proibendo le azioni le più innocenti e comuni de’ Cittadini per obbligarli a comperar la licenza di farle. Non prenderò io qui a trattare di proposito dello spirito di tutta questa moltitudine di leggi, se non quanto ha immediata influenza sul commercio. Utile per altro e gloriosa fatica sarebbe quella di un buon Cittadino che a trattare quest’argomento si prendesse in tutta la sua ampiezza, giacchè siamo ridotti a tale stato che pochissimi sono gli abitatori di questa Provincia i quali non sieno rei e non portino seco il corpo di delitto per essere messi pubblicamente alla tortura,[277] tanto abuso si è fatto per l’adietro della facoltà legislatrice fra di noi.

La speranza d’ogni privato d’arricchirsi è quella che anima l’industria, la quale ben diretta forma l’utile commercio, ma la speranza d’arricchire suppone la sicurezza a ciascuno di quello che è suo. Questa sicurezza non può aversi se non quando le possessioni private venghino regolate nel codice delle leggi colla maggiore possibile chiarezza e precisione, di modo che al Giudice o al Tribunale qualunque di giustizia altro non spetti che il decidere se il caso controverso sia quello della legge. L’esempio de’ più colti Regni d’Europa ce lo conferma e tale era lo spirito dell’antico sistema nostro, come vedesi ne’ Statuti stampati nel 1502, fol. 54: «Verba statutorum Communis Mediolani serventur ut jacet littera». La vera e sana legislazione è quella che lascia il minore arbitrio possibile al Giudice, come osserva Bacone: «Optimam esse legem quæ minimum relinquit arbitrio judicis».[278]

Quando le leggi scritte decidono la proprietà de’ beni, i forti egualmente che i deboli vivono difesi dalla loro tutela, ma quando esse leggi si piegano all’arbitrio del Giudice «allora le leggi[279] in mano 
del potente e dell’astuto sono sempre arme pronte e forti ad offendere ed ingannare, ma non già arme da difesa in mano del debole e dell’ignorante». Quindi è che i due offici del Legislatore e del Giudice devono per intrinseca incompatibilità essere divisi, il primo rissiede costantemente presso la persona Sacra del Sovrano, il quale non lo comunica che per tempo limitato, il secondo non mai presso il Sovrano si trova, ma bensì presso Magistrati eletti dal Sovrano per esercitarlo costantemente. Dalla confusione di questi due offici nascer deve la dissoluzione della Monarchia o per una universale licenza o per una universale schiavitù: chiunque abbia meditato su i principj de’ Governi non può essere di diferente opinione e l’Autore dello Spirito delle Leggi chiaramente prova che «qualora nella medesima persona o nel medesimo corpo di magistratura la possanza legislativa è unita alla facoltà esecutrice non v’è più libertà, poichè si può temere che il medesimo Monarca o il Senato non faccia delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente».[280]

Posti questi evidenti principj vedasi la Nuova Constituzione, libro primo, titul. de Senatoribus. Il Senato, instituito giudice supremo e inapellabile, unisce alla giudicatura l’autorità «constitutiones Princi
pis confirmandi et infirmandi» ed oltre ciò «tollendi et concedendi quascumque dispensationes etiam contra Statuta et Constitutiones». Così tutte le leggi cessano d’essere tali e prendono la natura di semplici consigli che il Senato può trascurare a sua voglia; così altra legge non veglia ad assicurare la proprietà di ciascuno che la libera opinione di questo supremo Corpo; dal che ne nasce una universale incertezza, mortale allo spirito d’industria e del commercio. Maraviglia esser dunque non debbe se, da che fu stabilita colle Nuove Constituzioni questa dispotica unione di legislazione e di giudicatura, l’attività e l’industria de’ Cittadini sia andata totalmente in rovina, mancandole il vero sostegno della sicurezza fondata su leggi universali, scritte e inviolabili; le liti crescono colla pubblica incertezza e dove «sia divenuta arte il movere ed alimentare ingiusti litigi, dietro alla quale come ad onorata professione si corra da tutte le parti, che le liti anche giuste non si veggano giammai finire; in quella Nazione dico convenendo a’ Proprietarj stare in continua e crudele guerra per difendere ciò che è suo, qual industria e quale spirito d’industria si può mai allignare?» [281]

«In tutte le città commercianti vi sono pochi giudici e molte leggi» dice il Pres.te Montesquieu;[282] nello Stato nostro avviene all’opposto, che molti sono i giudici e i legislatori e nessune leggi, preso il vocabolo nel vero significato; e questa è una inevitabile conseguenza d’aver sottoposte le leggi ai Giudici, non i Giudici alle leggi, come la natura d’ogni buon governo insegna e come anche sentì Bacone con queste parole: «Decernendi contra statutum expressum sub ullo æquitatis prætextu Curiis Pretoriis jus ne esto hoc enim si fieret judex prorsus transiret in legislatorem et omnia ex arbitrio penderent».[283]

§ 2. Della legge di costume ossia pratica.

Nè l’incertezza della proprietà ha sola origine nell’indebolimento della autorità delle leggi scritte, altre leggi non scritte si citano fra di noi sul fondamento delle quali è lecito decidere della libertà e delle fortune d’ogni Cittadino e queste leggi si chiamano pratica. Non v’è voce più ripetuta o rispettata nel Foro di quella, ed è questa pratica una legge introdotta dalla consuetudine, comunicata per tradizione,
 la quale ha più peso nel giudicare di quello che ne abbia la legge scritta; non v’è codice su cui sia compillata, non v’è modo di apprenderla che con lunga sperienza de’ casi particolari, non mai si giunge
a possederla interamente, cosicchè chi fra di noi si determina allo studio della legge vive ne’ primi anni in una continua incertezza sebbene abbia le decisioni ne’ testi letterali delle leggi. Con questa pratica abbiamo rinunciato ad uno de’ massimi vantaggi che il genere umano ha ritratti dalla invenzione della scrittura, e ci siamo trasportati a quello Stato nel quale trovavansi le Società degli uomini prima che s’inventasse l’arte dello scrivere, cioè in quello de’ selvaggi d’Affrica e d’America, tanto più di essi infelici quanto maggiore è il numero delle relazioni d’un uomo incivilito cogli altri.

Questa miserabile pratica è un manto rispettato dal Popolo sotto cui taluni coprono la propria incapacità ed hanno potuto innalzarsi
a godere ne’ pubblici offici di ricche pensioni senza rendere la loro vita in alcun modo utile al Sovrano o alla Patria e spargono e confermano così nella Nazione quello spirito di venerazione al mistero dal quale nasce l’impunità dell’arbitrio[284] e l’ostacolo più forte alla perfezione di tutte le scienze ed arti fra di noi, discreditando così la teorica in ogni genere, ossia la cognizione delle cose per i principj: così
le finanze, il commercio, le vera giurisprudenza, la medicina, l’agricoltura, l’architettura e simili cognizioni, che danno vita e moto alla Società, le vediamo pur troppo torbide fra di noi mentre i vicini Italiani che d’intorno ci stanno conservano ancora presso l’Europa l’antica gloria degli ingegni.

Ma risguardando la pratica, per quel solo aspetto che rende incerta la proprietà e arbitrarj i giudicj, non saprei dire di più di quello che il giudicioso Autore delle Instituzioni politiche ha detto nel tom. I, cap. VI, § 22:[285] «non parlo della legge di pratica, l’uso della quale dovrebbe esser dovunque abolito poichè apre la porta a mille cavillazioni, a mille interpretazioni, a mille false prove pro e contro ogni caso. Ridicol cosa si è il voler governare i Popoli con leggi che non sono scritte e delle quali non possono sapere il tenore». Questa crudele pratica s’è radicata presso di noi dopo il codice delle Nuove Constituzioni; diverso assai era lo spirito delle originarie leggi che regnavano fra di noi ne’ tempi migliori quando una sola era la legge che regolava i privati diritti e questa inviolabile e scritta, non soggetta a interpretazione come abbiamo osservato; anzi la pratica era espressamente proscritta nelle chiare parole dello statuto: «Consuetudines non allegentur contra jura scripta nec ad eas probandas recipiatur probatio nisi quatenus hoc reperiatur in scriptis jure municipali cautum».[286]

In questa guisa, corrotto che fu col nuovo codice l’antico sistema, tutto diventò incerto poichè soggetto all’arbitrio ed agli affetti privati dei Giudici; quindi gli Avvocati, i Procuratori e i Notaj divennero le persone più impiegate e arricchite di tutte, perciò tutti a quella professione intorno s’affollano i giovani che abbino qualche tintura di lettere o ambizione di pubblici impieghi e quindi ne nasce lo sproporzionato numero de’ Curiali, che ammucchiati trovansi in questa piccola Provincia, quanti soli basterebbero divisi che fossero a tutti i vasti Regni dell’Augustissima Sovrana Nostra.[287] Un male sì è questo del quale le sensate persone spesse volte si lagnano anche fra di noi, poichè i Curiali in molto numero anzi che essere utili alla Patria sono positivamente perniciosi, cosicchè ella sarebbe meglio con tanto minor numero di Cittadini per le liti che spargono e fomentano, occupando così gli uomini in officj inutili alla Nazione; invece che varie altre professioni per la curiale neglette possono accrescere
i lumi, la gloria e la ricchezza dello Stato, e ciò perchè il curiale tanto s’arricchisce quanto impoverisce un altro Cittadino laddove l’Artigiano e il Negoziante ben diretto che sia il commercio o impedisce l’uscita del denaro dallo Stato ovvero ve ne introduce di nuovo colla propria industria. Di questa libidine forense stabilita dall’antico Governo spagnuolo anche in Napoli così ne parla il Genovesi:[288] «Un lungo litigio, oltre ad impoverire due famiglie, le occupa in altro che nella fatica… accresce l’esca degli Avvocati e de’ Proccuratori e conseguentemente fa che molti del ceto che travaglia vi accorrano, essendo questa la natura degli uomini tutti, di affollarsi intorno a quei mestieri che maggior lucro e onore promettono e dove essi credono che si stenti meno».

§ 3. Del metodo de’ nostri Giudicj nelle cause di commercio.

Altro colpo anche più immediato si diede al commercio nel codice medesimo delle Constituzioni col sottomettere le cause di commercio alla decisione curiale contro le più espresse proibizioni de’ nostri originarj Statuti. Ogni lite per causa di commercio di qualunque somma ella fosse era secondo le antiche nostre leggi giudicata
da un consesso di Negozianti e Mercanti, ai quali presedevano i Consoli e Abati loro, del che s’è parlato già (part. I, cap. I); anzi l’apellazione non davasi, come ivi si vide, che scegliendo in parte nuovi giudici dal Corpo stesso de’ Mercanti, i quali pronunziavano
la seconda sentenza Ducali authoritate e inapellabile. S’escludevano persino negli antichi Statuti i Curiali dal dare consiglio ai Consoli nel giudicare, e proscritti restavano Avvocati e Procuratori dai giudicj mercantili con formole espresse: «Consules et Abates judicent absque consilio alicujus sapientis»[289] ed altrove «non debeant audire Advocatos nec Procuratores in quæstionibus coram eis vertentibus».[290] Tali erano le leggi sotto le quali la sola Città di Milano aveva treccento mila abitanti e settanta fabbriche di solo lanificio, del quale faceva co’ Veneziani l’utile commercio di cento venti mila annui zecchini.[291]

La Nuova Constituzione derogò alla esclusione data ai Giurisperiti nelle cause di commercio e stabilì che qualora agli Abati e Consoli «causa eis videatur ardua et dubia … de Collegio Iurisperitorum Mediolani» si scelghino otto Dottori e da quegli «Abbates secreto consilium assumant»;[292] si tolsero così quegli argini salutari che i saggi antichi Legislatori nostri avevano interposti fra lo spirito commerciante e lo spirito forense e, tolti appena che furono, quel torrente dapprincipio impercettibile innondò con rapidissimi progressi, cioè un anno dopo, allorchè quel Senato dichiarato legislatore dal codice portò la legge che «ad instantiam alicujus mercatoris possunt etiam judices ordinarii cognoscere de causis reservatis jurisdictioni Mercatorum»,[293] e così abolita la suprema giurisdizion consolare nel commercio, si lasciò l’arbitrio a qualunque Mercante più opulento o malvagio di stancare colle procedure del Foro il suo avversario e tiranneggiare così il buon diritto e la sollecita esecuzione della giustizia.

Chi dice commercio dice un essere che prende anima dal moto: più la circolazione è pronta, più liberi sono i canali e tanto più prospero e florido è il commercio. Il Fabbricante o l’Operajo non possono abbandonnare senza grave discapito le officine che esiggono la loro presenza, nè lasciar depositato in mano di chi lo contrasta un capitale sulla sollecita circolazione di cui cavano la sussistenza. Mi servirò io qui delle parole dell’immortale Presidente Montesquieu a tale proposito: «Senofonte, nel libro delle rendite, vorrebbe che si stabilissero premj per quei Prefetti del commercio che sbrigano le controversie con maggiore sollecitudine … gli affari del commercio non sono pieghevoli alle formalità, sono essi bisogni giornalieri ai quali il dì seguente succedono altri simili; conviene adunque deciderli alla giornata; non così avviene delle altre azioni umane le quali interessano il tempo a venire nè accadono sì di sovente; non prendiamo molte volte la moglie, non facciamo ogni giorno donazioni o testamenti, non usciamo di minor età che una volta in vita».[294] Queste verità sono evidenti a segno che qualunque persona che sinceramente vi rifletta sarà costretta a dire col Sig.e di Melon che: «il commercio non può senza grave detrimento sottoporsi alle formalità delle giurisdizioni ordinarie e che quanto più una nazione diventa commerciante tanto la giurisdizione consolare diviene più indispensabile».[295]

§ 4. Come si trattino le cause di commercio presso altre Nazioni.

Cosa strana in vero è nella nostra Provincia il vedere le dispute delle lettere di cambio e d’altri contratti mercantili portate a un Tribunale di Giureconsulti ai quali convien definire i primi termini elementari del negozio e dopo un lungo corso d’informazioni e procedure vedere i Giudicj obbligati a mendicare il voto da’ Commercianti medesimi. Non così fanno le Nazioni d’Europa che hanno il commercio protetto da una saggia legislazione, non così facevano i giudiciosi nostri maggiori i quali ben sapevano che gli uomini sono quali gli fanno essere le leggi e che quest’essere è così pieghevole per natura, che non solamente obbedisce all’impressione del clima al quale l’Autore dello Spirito delle Leggi attribuisce forse una troppo irresistibile possanza, ma cede e prende la figura che piace al Legislatore di dargli; così il valore, l’industria, la corruzione e l’avvilimento, dando un’occhiata universale ai tempi trascorsi, le vediamo succedersi l’una l’altra strisciando su quasi tutti i punti della terra con un continuo moto.

Nell’Inghilterra adunque quando si tratta di decidere cause di commercio il Giudice s’adrizza ai giurati con queste parole: «Questa è materia di commercio che io non intendo e che voi possedete, me ne rimetto al vostro parere».[296] Nel Regno di Francia ogni apellazione o ingerenza de’ Giudici ordinarj nelle cause di commercio è vietata colle più espresse formole. Nel celebre editto di Luigi XIV[297] così sta scritto: «Dichiariamo nulle tutte le ordinazioni o sentenze fatte da’ nostri Giudici o da’ Giudici feudali quando sieno di rivocazione a quelle emanate dai Giudici e Consoli. Proibiamo sotto pena di nullità di cessare o sospendere le procedure e gli atti esecutivi delle sentenze di essi Consoli, così d’impedire che si proceda avanti di essi. Vogliamo in virtù della presente ordinazione che le sentenze suddette de’ Consoli sieno eseguite e che la parte che avrà presentata supplica ad altro Tribunale per farle cessare, rivocare, sospendere, o in qualunque modo impedirne l’esecuzione, così come i Procuratori che avranno segnate le suppliche, gli Uscieri o Sergenti che le avranno presentate sieno condannati ciascheduno alla pena di lire cinquanta». Così nella più colta parte d’Italia le cause di commercio vengono giudicate da’ Mercanti o nel Tribunale di Livorno o in quello de’ Consoli di mare in Pisa.

Ma senza ricercar più oltre gli esempj estranei bastar dovrebbe a un Milanese il luminoso esempio dell’Augusta Sovrana nostra la quale in tutti gli Stati e regni Ereditarj non permette che le cause di commercio sieno soggette agli ordinarj Giudicj, ma con leggi, procedure e giudici particolari ha provveduto a tutte le diferenze che accadere potessero, così in Vienna, in Trieste e in fiume trovansi le Camere di Commercio le quali diriggono e lo difendono da ogni strepito forense; ed è da sperarsi che il benefico genio della Sovrana, che ha sparsa questa luce ne’ Stati Ereditarj a togliere dai ceppi il primo mobile dell’industria de’ suoi Popoli e a rischiarare i veri principj del ben pubblico, penetri sino a questa rimota e languente Provincia a ravvivarla, a scuoterla e ad eccitare sempre più le benedizioni di questi fedeli e abbattuti suoi Sudditi fissando con leggi positive il fluttuante dritto di proprietà e sottraendo il commercio dall’incompatibile giogo della curiale vessazione.

§ 5. De’ fallimenti.

Esso è principio evidente che non può sperarsi un florido commercio se non colà dove vigorosa protezione accordi la legge al buon diritto e pena irremissibile alla mala fede ed all’inganno, e severa per modo da distogliere col terrore gli uomini dalla comoda strada di vivere coll’altrui. Quando le leggi e i Magistrati con principj conosciuti e stabili proteggono i beni de’ Cittadini cresce la fiducia dei Popoli e con essi la scambievole comunicazione de’ contratti; ma laddove incerta e precaria è la proprietà e impunita la frode tutto spira difidenza, l’usura entra in luogo dell’utile industria, nè vi può essere quella comunicazione che chiamasi commercio; la Nazione perde il suo credito presso le altre e presso sè medesima. Da qui ne viene che il voler lasciare senza pronto ed esemplare castigo i fallitori colpevoli e volere far risorgere il commercio egli è volere appunto una contraddizione.

Il delitto del fallito doloso merita d’essere nella classe de’ delitti pubblici come quello che immediatamente s’avventa al credito nazionale, come fa appunto il falsificatore di monete; entrambi questi delitti ragion vuole che sieno nella classe medesima, poichè entrambi s’oppongono allo stesso bene ch’è la sicurezza de’ contratti, base del commercio e della felicità d’uno Stato. Questa verità s’era intesa da’ nostri Maggiori poichè nell’antico statuto troviamo l’ordinazione ducale sul fallito doloso in questi termini: «ipso facto post fidem fraudatam … noster et status nostri rebellis factus sit et censeatur et rebellium quorumcumque aliorum penam incurrat perinde ac si ob quancumque majorem altioremque causam rebellis noster existimari et esse mereretur».[298] Più esaminiamo le originarie leggi di Milano e più s’accresce motivo di rispettare e invidiare la sapienza degli Avi nostri, i quali sì bene intendevano gl’interessi del commercio, che basta vedere le leggi da essi fatte per conoscere che dovevano ascendere a quella gloria di ricchezze della quale s’è di già altrove parlato. Ma tutto questo felice sistema è stato dalla Nuova Constituzione miseramente corrotto; non più si considera nel nuovo codice il fallito doloso come ribelle di stato, ma come reo semplicemente d’un delitto non capitale, nè la pena giunge sino alla morte che nel caso di fuga, e quand’anche ciò avvenga la legge offre un rimedio ancora: «hæc tamen pœna ita demum locum habebit nisi fedifragi intra tres menses a die publicationis facte de eorum fuga concordes erunt cum creditoribus suis».[299] Inutile era fissare la pena di morte in tal guisa, poichè l’interesse de’ creditori è di richiamare il fallito per avere da esso i lumi onde venir
in chiaro del poco che rimane; l’interesse de’ creditori è di ottenere colla dolcezza che i parenti del fallito, se è possibile, concorrino a una porzione del debito. Con questa inutil legge la Nuova Costituzione abandonò il credito della Nazione in mano de’ privati interessi e un delitto, che per natura e per legge originaria era saggiamente risguardato come pubblico, si convertì in una semplice azione privata; così sottrasse il nuovo codice il delinquente ai colpi della azion fiscale per la pubblica vendetta e lo consegnò in mano di chi ha il massimo interesse di salvarlo e di chi per sentimento d’umanità e per principio fondamentale di religione non può usare altrimenti. Ragion vorrebbe che il Principe fosse sordo anche alle istanze favorevoli de’ creditori medesimi, poichè non del loro solo risarcimento si tratta, ma di quello della Nazione che essi soli non possono rappresentare.

Nè qui si ferma la Nuova Constituzione nel proteggere i falliti dolosi; prodigiosa cosa è il vedere come suggerisca ella stessa i mezzi onde il reo si sottragga alle ordinarie procedure degli ordini mercan
tili, cioè ottenendo o dal Governo o dal Senato lettere di salvocondotto nelle quali espressamente si deroghi alla giurisdizione degli Abati e Consoli: «Si concedantur per Principem literæ salvi conductus per eas derogatum esse non intelligatur jurisdictioni et ordinibus Abbatum», indi s’aggiunge: «nisi in ipsis literis prædictis omnibus fuerit derogatum. Non tamen ad executionem personalem devenire possunt contra earum literarum formam».[300] Ben diverso è lo spirito di questa nostra legge da quello del codice mercantile di Luigi XIV dove così sta scritto: «qualora il fallimento trovisi doloso ogni lettera o salvocondotto ottenuto sarà nullo, benchè sia stato accordato o interinato contradditoriamente».[301]

L’impero curiale, stabilito col nuovo codice, mette in potere de’ Legali tutti i concorsi de’ creditori, allora è che infinite distinzioni e riserve pongonsi in campo di dote, fedecommessi, chirografarii, istromentarj, ad formam legis scripturas, poziorità e simili; così per anni e lustri si protrae disputando la divisione del patrimonio del fallito mentre un Dottore amministra la disputata sostanza, la quale talvolta corre la disgrazia di scemarsi considerabilmente, cosicchè, computate le spese de’ patrocinatori, la perdita del tempo e gl’incomodi, alla fine trovano per lo più i creditori ch’era meglio per il loro interesse abbandonare al bel principio ogni loro credito.

Scandalosa vista in vero fanno nella Città nostra tanti falliti anche colpevoli che ad ogni tratto s’incontrano, molti de’ quali col fallire pare che altro non abbiano perduto che i debiti; scandalosa cosa pure è a udirsi la proposizione che ormai è divenuta un proverbio fra di noi cioè «che per esser bene convien fallire». A memoria di uomini non s’è mai dato un esempio contro i fallitori dolosi e in quest’anno medesimo (1762) in due soli mesi cinque fallimenti sono accaduti tutti di considerazione ed uno di quasi due millioni. Lasciare intatti questi vizj radicali e politici e voler rianimare il commercio è volere una cosa impossibile.

§ 6. Come si trattino da altre Nazioni i fallimenti.

Ciò ben intese Luigi XIV nel suo codice mercantile dove dapprincipio così s’esprime: «Ci siamo creduti in obbligo di provvedere alla stabilità del commercio con leggi capaci di assicurare fra i Negozianti la buona fede contro l’inganno e prevenendo gli ostacoli che gli frastornano dal loro travaglio colla diuturnità delle liti, onde consumano la parte più liquida delle loro sostanze».[302] Le leggi di Francia sino dal principio dello scorso secolo condannavano a morte il fallito doloso,[303] indi nel citato codice mercantile la stessa pena si confermò in questi termini: «I falliti dolosi saranno inquisiti straordinariamente e puniti colla morte»,[304] ed a proposito di questa legge mi servirò qui delle parole del Savary: «non è possibile peccare di troppa esattezza o di troppo rigore in questa materia, poichè v’è sempre da temere che l’indulgenza per i falliti di questa natura non tenti i Negozianti a cadere in questo delitto colla fiducia della impunità e che in conseguenza non rovini il commercio colla rovina della buona fede e della sicurezza».[305]

Bella è la legge di Genevra, che tende al pagamento dei falliti anche innocenti escludendo dalla Magistratura e dal gran Consiglio chiunque non abbia soddisfatto ai debiti di suo Padre: non era giusto obbligare il figlio ad adire l’eredità del Padre oberrata da’ debiti, ma è saggio consiglio che il Legislatore faccia servire l’ambizione de’ Cittadini alla pubblica sicurezza e, come dice l’immortale Presidente Montesquieu,[306] che la fede privata acquisti la forza della pubblica fede.

§ 7. Dello spirito col quale la legge risguarda i nostri Mercanti e Operaj.

Finalmente ella è una verità conosciuta che lo scopo d’ogni legislazione dev’essere la sicurezza e felicità pubblica, onde a misura che un Cittadino fa ingiuria al dritto altrui deve ritrovar la legge terribile, ed a misura che un Cittadino rende se medesimo utile alla Società deve ritrovarla benefica madre e protettrice. Abbiamo veduto sin ora la Nuova Constituzione mancante di questo salutare rigore contro i violatori della pubblica sicurezza; ora conviene esaminare se verso gli utili Cittadini conservi quel dolce carattere di madre che invita alla industria.

La legge di natura e delle genti lascia la libertà ad ogni uomo di rinunciare alla Società di cui è nato membro e di trasportarsi a vivere dove vuole:[307] l’unico vincolo che può obbligare un uomo a trattenersi nella Patria è la difesa che da essa riceve de’ proprj fondi, ai quali rinnunciando ogni vincolo è sciolto; quindi è che se la legge delle Nuove Constituzioni contentata si fosse di dire soltanto: «Omnibus mercatoribus, artificibus, magistris apothecæ et eorum operariis cujuscumque exercitii interdictum est recedere a civitate Mediolani ut in aliis locis extra dominium habitent ad finem ut ibi artem exerceant sine licentia speciali Principis vel Senatus. Quod si contrafactum fuerit … pœna confiscationis bonorum erit»,[308] allora dico: la legge sarebbe stata crudele bensì e imprudente, ma non ingiusta, laddove soggiungendovi: «Operarii autem si solvendo non erint tribus ictibus equulei plectantur» la legge è divenuta ingiusta; e l’enormità dell’ingiustizia cresce col proclama inserito nel codice medesimo,[309] ove si legge: «recedentes ab hoc Dominio sine expressa facultate suæ Excellentiæ ut alibi artem suam exerceant incurrunt etiam pœnam mortis»; poichè quell’azione che non può essere che Reale l’ha il Legislatore trasmutata in personale.

Ho chiamata questa legge crudele quand’anche non fosse, come la credo, ingiusta; e questa crudeltà consiste nell’avvilire la condizione
de’ Cittadini utili e industriosi ad una indegna schiavitù, degradandoli e privandoli di quel prezioso e naturale diritto che lascia godere alla più infingarda e vil plebe anche fra di noi. Ho dato il nome a questa legge di imprudente, poichè altro efetto ella non può produrre che attestare alle estere Nazioni che i Commercianti sono mal trattati fra di noi, giacchè non si proibirebbe l’uscita de’ Commercianti se non cercassero d’evadere, e ognuno sa che chi è ben trattato nella Patria non cerca d’abbandonarla e andare peregrinando: così si distoglie qualunque avesse mai pensiero di venire a stabilirsi fra di noi.
 Di più questa legge è inutile al fine medesimo che si propone. Il delitto non può essere commesso che allorquando il delinquente è fuori della giurisdizione e per conseguenza non più soggetto alle sue pene. Come difendere i confini d’uno Stato mediterraneo e di pianura quale è il Milanese? Sogni d’ammalato son questi, in fatti, dac
chè fu pubblicata cotesta legge, suo malgrado si sono portati i nostri Commercianti ed Operaj ne’ Stati vicini, come altra volta si è veduto, ed il commercio è andato sempre più in rovina. Chi per ritenere i Commercianti ha preso il partito di degradarli all’essere di schiavi ha imitato i selvaggi della Lovisiana, i quali per avere un frutto tagliano l’albero al tronco;[310] nè seppe che tutti i violenti mezzi non ottengono alcun placido fine e che il commercio col rigore e colla forza non s’è veduto giammai crescere ma bensì all’ombra della dolcezza, della giustizia e della protezion delle leggi. Così la intese il Sig.e Vattel:[311] «Conviene – dic’egli – applicarsi a far che vi sia un sufficiente numero d’abili Operaj in ogni professione. Le attente cure del Governo, i saggi regolamenti, gli ajuti prestati a tempo produranno quest’effetto senza far uso della forza coattiva, funesta mai sempre all’industria»; così la intese il Presidente Montesquieu quando disse che: «le pene s’aggravano perchè si rende difficile l’obbedienza»[312] e che: «un Legislatore prudente sa prevenire la disgrazia di diventare un Legislatore terribile»[313] e altrove: «qualunque pena che non derivi dalla necessità è tirannica poichè la legge non è un semplice esercizio del potere».[314]

Non pretendo io già d’asserire ingiusta ogni particolare ordinazione per cui si vieti ai Lavoratori d’una determinata manifattura l’uscire dalla Nazione. La salvezza del Popolo è la suprema legge, lo so, e il ben pubblico esigge talvolta che per l’universale utilità si devii dalle regole ordinarie verso alcuni pochi; così avviene ne’ Stati Ereditarj della Augusta Sovrana nostra nelle manifatture degli specchj, nelle miniere e simili lavori, gli artefici de’ quali potrebbero portare in altri Stati i metodi e raffinamenti che non vi sono e diminuire così l’utile che al dì d’oggi ne ritrae la loro Patria; ma la legge universale sta per la libertà e quella servil legge che ha avviliti i Commercianti fra di noi merita correzione dall’umano e benigno genio dell’Augusta Casa d’Austria, la quale fa consistere la sua grandezza nel regnare su Popoli felici e nell’accoppiare «res olim dissociabiles principatum et libertatem», come Tacito scrisse di Trajano.

Tutte le altre colte Nazioni d’Europa lasciano la libertà naturale ai Commercianti, trattine alcune municipali manifatture d’importanza
e ristrette a un piccol numero. E a tal proposito giovi il riferire la legge d’Inghilterra, la quale a me sembra piena d’equità e di sana politica. Trovasi nello Statuto di Giorgio primo decretata la pena di tre mesi di carcere e cento lire sterline contro chi corrompe qualun
que Artigiano e cerca farlo uscire dal Regno, ma l’Artigiano che esce
a stabilirsi altrove non è punito d’altra pena che della perdita della naturalità inglese.[315] Giusto è che il sollecitante, il quale procura al Re
gno la perdita d’un Cittadino utile, abbia positivo castigo, ma l’Artigiano, il quale ha usato del naturale arbitrio per farsi membro di al
tra Società, non ha castigo. Egli ha rinunciato alla Nazione, libero è
alla Nazione il rinunciare a lui e a non più risguardarlo come Cittadino, ma bensì come semplice uomo.

§ 8. Conclusione del secondo capo.

Lo spirito adunque delle nostre odierne leggi e il metodo delle giuridiche procedure attaccano il nervo e la vita dell’industria e sono invincibili ostacoli che incontra il commercio. Questo sistema, venutoci coll’antico Governo degli Spagnuoli, questo codice, da essi pubblicato nel 1541, sono opposti ai principj degli originarj Statuti di Milano. La ragione, l’esempio degli altri Stati floridi d’Europa, l’esperienza domestica ci provano ad evidenza qual delle due legislazioni nostre sia da preferirsi se l’antica o la moderna. Ogni pensiero di rianimare il commercio è immaturo sin che sussistono le accennate corruzioni di leggi, ogni particolar operazione favorevole al commercio sarà inutile e perduta nè si vedrà risorgere questa Provincia che allora quando i privati diritti saranno protetti e garantiti da leggi scritte, le procedure brevi e semplici, la mala fede vigorosamente punita e i commercianti non avviliti.[316]

Capo III. Della direzione del nostro commercio.

Chiunque abbia in sua vita esaminata l’intima natura dell’uomo sa che il principio impellente d’ogni azione mondana è l’amore di se stesso e che la prima e universal legge colla quale si determina è la propria felicità. Tutte le imprese degli antichi Lacedemoni, o de’ prischi, virtuosi Romani, quelle che sembrano più spogliate d’amor proprio sono emanazioni di questo primo principio, talmente raffinato dalla educazione politica che i gradi intermedj sfuggono alla vista degli uomini volgari. Ne viene quindi in conseguenza che il pretendere che gli uomini preferischino il ben pubblico al loro privato, come con molte declamazioni soglion ripetere i poco sensati Legislatori, egli è un volere imputare a delitto che gli uomini sieno uomini, laddove i Legislatori saggi e illuminati pongono ogni cura a far sì che i privati trovino il loro massimo bene nel contribuire al ben pubblico; e come la gravità è quella che fa rovinare una mal fondata fabbrica e l’abile architetto la fa servire a rendere sodo ed eterno il suo edificio, così gl’interessi privati de’ Cittadini, i quali sotto una cattiva legislazione lacerano la pubblica causa in mano d’un abile politico, diventano conspiranti e collimano unitamente alla prosperità dello Stato.

Non v’è negoziante al mondo il quale non preferisca la propria ricchezza alla ricchezza della Nazione e là dove il commercio viva sotto un cattivo sistema il negoziante può aricchire se stesso impoverendo lo Stato;[317] ma qualora il sistema del commercio sia ben diretto e tutto collimi e dipenda da un principio, [e] questa circolazione vivificante viene guidata con leggi uniformi, si determina per dir così il livello ai fluvidi, nè v’è più chi trovi guadagno privato laddove v’è perdita per lo Stato.

§ 1. Delle tariffe ossia Dato della Mercanzia.

Le tariffe (che noi chiamiamo Dato della Mercanzia) sono il primo mobile per la direzione del commercio; sono elleno agli occhi di chi rifletta sulle pubbliche materie la parte più preziosa della economia politica e il capo d’opera della legislazione, poichè dalle tariffe dipende in gran parte il rendere il commercio d’una Nazione utile o rovinoso.

Per convincerci di questa verità basti riflettere che il prezzo delle merci ha una grande influenza a determinare quale più debba essere preferita. Sia il prezzo de’ panni di Bristoll eguale al prezzo de’ panni
di Padova, compresa la condotta[318] sino a Milano, sia la loro bontà e altezza eguale: se la tariffa sarà eguale nella imposizione della gabella a tutti questi panni, ne entreranno presso poco metà di Padova, metà da Bristoll; ma chi dirigge il commercio colla tariffa può dare la preferenza a quella delle due fabbriche che gli piace, aggravando il tributo sull’altre; poichè allora i panni più aggravati dalla tariffa costeranno di più e nessuno vorrà spendere di più, avendo mezzo di provvedersi egual mercanzia spendendo meno.

Chiari sono cotesti principj, i quali io non isvilupperò con quella esattezza che si richiederebbe se il lavoro che ho per le mani fosse destinato ad instruire ne’ principj della scienza economica e non anzi ad adattarli ai bisogni particolari del Milanese. I primi elementi d’ogni scienza sono semplici e chiari, così la legislazione delle tariffe su pochi e limpidi fondamenti s’appoggia,[319] non però credasi così facile il combinarli e il conformarli alle circostanze particolari d’ogni paese. Molti lumi delle Nazioni estere, molti usi, molte leggi di esse bisogna non ignorare e molto combinar conviene per compillare una provida tariffa e con molte spinose e delicate operazioni deve l’esperta mano legislatrice condurre la linea fra la dipendenza de’ forestieri, la concorrenza della Nazione e il pericolo del contrabbando il quale cresce colla gabella.

Un esempio servirà a darne idea. Suppongasi che il Milanese manchi di tele fine e di panni, e sovrabbondi di lavori di seta, cioè calze, taffetà, amoerre ec. Può avere le tele e panni dall’Austria e dall’Impero e, computata la condotta, d’eguale bontà e prezzo giunti a Milano. Ma i Mercanti dell’Impero vogliono il rimborso in contanti e quelli dell’Austria si contentano di riceverne il pagamento colle nostre manifatture di seta. Se la tariffa aggraverà indistintamente le tele e i panni d’Austria e dell’Impero eguale quantità ne manderà l’Austria e l’Impero a un di presso. Ma siavi un abile direttore della tariffa, egli aggraverà le tele e panni dell’Impero più di quelle dell’Austria e così con un solo tratto di penna impedirà l’uscita del denaro dalla Nazione ed avrà accresciuto lo spaccio delle nostre manifatture di seta, poichè le tele e panni ci verranno dall’Austria e i Mercanti d’Austria che hanno bisogno delle manifatture di seta, trovandosi un credito con noi, le commetteranno anzi a noi che ad altri paesi. Questi luminosi principj sono di tale evidenza ch’io non dubito che possa veruna persona ragionevole pensare altrimenti e non sentire la massima importanza d’una ragionata costruzione delle tariffe della quale scrive così bene a proposito l’Autore delle Instituzioni politiche (tom. I, capo XII, § 21 e seguenti) ch’io ad esso consiglio di riccorrere qualunque ricerchi quella più minuta informazione che non è compatibile colla natura del mio lavoro.

Ne’ tempi della ricchezza nostra le tariffe erano inserite nel codice de’ Statuti, e così rese pubbliche a ciascheduno come vuole la natura d’ogni legge, ma come i nostri illuminati Maggiori conoscevano l’impossibilità di fissar leggi immobili al commercio, che per sua natura ad ogni tratto cambia relazioni e circostanze, così per legge patria era stabilito che ogni anno le tariffe si esaminassero da otto Delegati e ogni anno si pubblicassero colle mutazioni che le circostanze de’ tempi ricchiedevano.[320] Due condizioni dunque esiggono le tariffe: molti lumi e molta applicazione in chi le forma, e pubblica notorietà, formate che sono, acciocchè questo timon della nave ben la dirigga a misura che il vento cangia ed acciocchè i dritti fra il Negoziante e il Sovrano sieno palesi, nè soggetti ad odioso arbitrio.

Stabilite queste verità fondamentali, e veduto l’esempio de’ nostri antichi, non si può senza maraviglia dare un’occhiata allo stato in cui sono fra di noi le tariffe. Abbiamo veduto nella prima parte (cap. 3) come sino dal principio dello scorso secolo il visitatore D. Luigi di Castiglia trovasse stabilita una arbitraria vessazione alle gabelle senza che nemmeno vi fossero tariffe di sorte alcuna. Queste tariffe dippoi sono state inutilmente un soggetto inesausto delle pubbliche rimostranze e nello scorso secolo e nel presente,[321] senza che mai sieno state ben pubblicate o decise, ed incredibile parrà alle estere Nazioni quello che pur troppo è un fatto per noi, cioè che all’arbitrio degl’Impresarj siasi talvolta abbandonata questa importante parte della legislazione senza che alcun Regio Delegato o Tribunale vi abbia nemmeno aggiunta l’approvazione,[322] sebbene per sistema la construzione delle tariffe sia dipendente dal Magistrato Camerale.

§ 2. Delle monete.

Un altro capo d’importanza per ben dirigere il commercio è la giusta proporzione della tariffa delle monete, le quali, essendo misure universali del valore delle cose commerciali e di più pegni dei dritti che gli uomini hanno sulle cose medesime, se esse non sono legalmente bilanciate ne viene una pubblica incertezza nell’interno della Nazione ed una perenne perdita colle Nazioni commercianti con noi. Qual influenza abbia il disordine delle monete sulla pubblica economia e sul commercio lo fa vedere bastantemente l’Autore delle Riflessioni politiche sulle finanze e sul commercio in quasi tutto il tomo secondo, a cui ricorra chiunque voglia vedere la materia trattata da’ suoi principj.

Ne’ tempi ne’ quali fioriva il commercio fra di noi doveva necessariamente essere ben regolata la moneta, in fatti per attestato del Conte Carli[323] celebre ed esemplare era l’ordine ed il regolamento delle nostre monete e per servirmi delle frasi di quest’illustre italiano: «Le monete che ne sortirono si resero non solo celebri e ricercate, ma eziandio lo specchio e la norma di tutte le altre».

La dominazione spagnuola rovesciò ogni armonia di monete verso il principio dello scorso secolo e risguardò i proclammi delle monete non più come una dichiarazione del giusto valore de’ metalli coniati, ma come un atto arbitrario di legislazione, s’inviluppò in un caos di astrusi termini la semplice legge monetaria e tanti editti e tanti dal principio dello scorso secolo a questa parte si accumularono, che ormai potrebbe compilarsi un codice di sole leggi monetarie pubblicate da quell’epoca sino al dì d’oggi, leggi dettate tutte dal medesimo spirito e in conseguenza tutte ineficaci a guarire il male che ci opprime.[324]

Il primo ch’io sappia che in questo secolo abbia a noi scoperti i veri principj e proposti i rimedj è il Presidente Pompeo Neri, delegato
a ciò dal Governo; le cure di questo illuminato e ingenuo ministro altro non produssero che un eccellente libro stampato nel 1751.[325] Il Conte Carli poscia pubblicò l’erudita opera Delle monete e dell’instituzione delle zecche d’Italia, in cui viene trattata la materia in tutta la
sua estensione in quattro tomi. Finalmente nel 1762 comparve una luminosa e breve scrittura del Marchese Cesare Beccaria Bonesana col titolo Del disordine e de’ rimedj delle monete nello Stato di Milano, stampata in Lucca, la quale per la brevità e chiarezza, come per la grandezza e forza delle ragioni, pareva dovesse riscuotere e portar nuova luce a questa importante materia,[326] ma questi benefici avvisi,
 per grande sventura della nostra nazione, sono tuttavia dimenticati sotto la polve di qualche biblioteca per servire presso la posterità alla storia dello spirito umano; frattanto inutilmente parlano la voce della pubblica miseria gli avvisi di alcuni illuminati e negletti cittadini e l’esempio delle tante gride costantemente innosservate.

Cagione di sì fatto disordine presso di noi si è non esservi alcun Ministro o Conferenza che abbia particolare ispezione sulla materia delle monete. La zecca e i campioni sacri de’ pesi pubblici sono abbandonati alla privata convenienza d’alcuni Artefici, nè v’è chi pensi fra di noi alle monete, se non che nel caso del più pressante disordine. Il Governo sceglie allora a suo piacere alcuni Giureconsulti i quali radunati in una Giunta trattano di quest’affare e, col parere de’ Cambisti (di quelli cioè che traggono il massimo profitto dallo sbilancio istesso delle monete), si esclude ovvero si diminuisce il valor numerario della moneta che più innonda, si pubblica una grida per lo più interinale, indi si scioglie la conferenza ritornando ogni Consigliere della Giunta al suo Tribunale sin tanto che, innondando di bel nuovo o la moneta proscritta o altra in sua vece, obblighi a pensare ben presto a un nuovo Consiglio.

Così i cambj ed i contratti tutti sono in una perpetua fluttuazione e la Nazione tiene aperto un ramo d’incessante passivo commercio colle piazze corrispondenti e a questa rovinosa corrosione cercasi tuttora riparo col proibire ne’ proclammi l’esportazione del denaro, quasi che la piazza creditrice volesse regalare il denaro ovvero la piazza debitrice avesse un terzo spediente per non esportare il contante nè dichiararsi fallita. La lunga e ripetuta sperienza di ottantotto gride inutili non ha potuto per anco farci sospettare l’errore de’ principj su i quali le fabbrichiamo nè indurci a leggere gli autori che ci hanno additata la vera ed unica strada di rimediarvi.[327] [Cfr. Tabella n. 6]

§ 3. A chi sia confidata la direzione del commercio.

Le tariffe dunque delle gabelle sono confidate al Magistrato, quelle delle monete a diversi consigli volanti, il resto del commercio a due altri capi indipendenti e sono la Giunta del Mercimonio e il Tribunale di Provvisione. Alcune manifatture e fabbriche sono immediatamente sotto la direzione del Governo e tale è per esempio quella di velluti e stoffe d’oro piantata da Eugenio Brunetta, alla direzione di cui nè la Giunta del Mercimonio nè il Tribunale di Provvisione ebbero alcuna parte.

La Giunta del Mercimonio fu eretta nel 1751 e fu composta da quattro Senatori, un Questore ed un Avvocato fiscale. Le occupazioni del loro instituto ne’ Tribunali di giustizia de’ quali son mem
bri occupa il loro tempo, per modo che appena due o tre volte l’anno possono unirsi per parlare degli affari di alcune fabbriche confidate alla loro direzione e tali sono quelle de’ nastri, delle tele indiane, delle mussoline e de’ camellotti.

Il Tribunale di Provvisione è un Tribunale civico, che ogni anno si muta ed ha sotto la sua tutela tutte le Arti e Mestieri della Città registrati in Corpi col nome di Camere, Università, Scuole e Badie e da questo Tribunale vengono giudicate le cause sulla distribuzione del tributo e su varie controversie le quali in grado d’apellazione si portano poi al Senato.

Tale è il sistema sotto cui vive il nostro commercio cioè diretto da cinque dipartimenti distinti e di nome e di massime e di mire, gelosi vicendevolmente dell’autorità, cosicchè in vece che siavi quella mente reggitrice che ad un solo principio riduca e ad un solo scopo indirizzi il moto di tutte le parti la causa pubblica sottoposta ad una mostruosa oligarchia è distratta da mille movimenti parziali, onde siamo come in una nave dove tre indipendenti pressedessero, uno al timone, l’altro alla bussola ed un terzo alla direzione del viaggio.

§ 4. Quale sia il regolamento d’alcune nuove manifatture.

Veggasi ora in quale stato trovisi il commercio sotto un sì fatto sistema, seppure di sistema il vocabolo è lecito adoperare per significare una mancanza d’ordine. Nuove fabbriche sono:

Prima: la fabbrica de’ nastri con telaj che d’una sol mano molti ne lavora ad un tratto e fu questa introdotta da Marc’Antonio Gallone nel 1753, venendo ad esso accordato il privilegio esclusivo e perquirendi per anni venti oltre le lire 40.000 (quaranta mila) somministrategli dal fondo della seta greggia di cui parleremo frappoco. Questa fabbrica ora è languente a segno che in breve sarà estinta con pericolo che il capitale affidato si perda.

Seconda: la fabbrica delle tele di cotone dipinte introdotta nel 1757 dai fratelli Rhò, avendo essi ottenuto il privilegio esclusivo per anni venti di più la somministrazione di lire 80.000 (ottanta mila) dal suddetto fondo della seta greggia.[328] Si obbligarono i fabbricatori a piantare nel secondo anno dieci telaj, nel terzo venticinque, nel quarto cento, nel quinto dugento per tessere le tele da dipingersi e in quest’anno 1762 che è appunto il quinto anno nemmeno quattro telaj hanno in esercizio.[329]

Terza: la fabbrica de’ panni in Como eretta nel 1756 sotto il nome di Natale Stoppa. Se dovessimo giudicare de’ progressi di questa fabbrica dal consumo che fa della lana, esente giusta il Reale dispaccio
del 1739 eseguito poi nel 1754,[330] dovressimo crederla in prosperità poichè consumò il primo anno balle di lana 35 poscia nel 1760 ne accrebbe il consumo sino a balle 148. Ma nella mancanza in cui siamo di delegati sul commercio, alcuno non v’è che possa assicurare che cotesta lana siasi convertita in manifattura, nè il nome della fabbrica abbia servito ad eludere la Regia Gabella per convertirla poi in altri
usi. La medesima mancanza pure ci fa temere che, non essendovi chi prescriva leggi alla fabbrica o riconosca la manifattura, essa non si falsifichi o nelle tinture ovvero nella tessitura, dal che ne verrebbe un utile attuale al fabbricatore bensì, ma una nuova perdita di credito della Nazione presso i forestieri. Fatto sta che ora è ridotta a mali passi, nè trova quell’esito che s’era promesso, per modo che pur troppo in breve si prevede che dovrà essere spenta.

Quarta: la fabbrica di velluti e stoffe di seta all’uso di Lione piantata in Milano da Eugenio Brunetta nel 1760, cui furono somministrate lir. 75.000 dal fondo della seta greggia. Da’ primi saggi che ne uscirono veduti e approvati dalla Imperial Corte se ne poteva sperare buon esito sì per la eleganza de’ lavori, che per la discretezza del prezzo. Molte fatalità vi si sono attraversate, a queste è venuta in seguito la morte del fabbricatore con cui è perita l’arte di leggere i nuovi disegni e di piantare telaj de’ lavori più squisiti. Tuttora si spera da alcuni di sostenerla, ella attualmente è molto languida; forse gettandosi al partito di tessere le stoffe più comuni di seta e colla vigilanza di Regi deputati potrebbe produrre qualche utile sensibile alla nazione, ma l’esempio delle altre fabbriche che hanno preceduto codesta non ci dà luogo a sperare che sussistendo l’universale sistema si sostenga immune dalla universale sventura.

Altre tre fabbriche vi sono: di cristalli sul Lago Maggiore eretta nel 1760, di mussoline e camellotti in Milano stabilite posteriormente; piccoli oggetti sin ora e di tenue speranza.

Questo è il solo frutto che il commercio ha risentito dalla gabella imposta sulla seta greggia nel 1750, tutta destinata per Reali Dispacci[331] a impiegarsi per ajutare il commercio, la qual gabella sino a mezzo il 1761 aveva già fruttato lire 711.182 sol. 15 (settecento undici mila cento ottanta due e soldi quindici).

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§ 5. Quale sia il regolamento de’ Corpi delle Arti e Mestieri.

Dallo stato delle nuove fabbriche passiamo ora ad esaminare quello delle altre manifatture originarie sottoposte al Tribunale di Provvisione e tributarie del Banco di S. Ambrogio. Quasi ogni arte o mestiere forma fra di noi una piccola Società che ha il nome ora di Università, ora di Camera, ora di Badia ed ora di Scuola. Di questi corpi ho potuto registrarne sino 78 in mezzo all’oscurità in cui vengono tenuti da noi questi pubblici fatti, non posso assicurare che qualche piccola Scuola o Badia manchi alla tabella ch’io qui aggiungo. Questa tabella presenta in un solo aspetto lo stato del nostro commercio del 1595 paragonato con quello del 1750. Veggonsi in essa le nuove arti introdotte, le antiche smarrite, l’antico e l’odierno tributo, il numero de’ componenti, le spese straordinarie che fanno e perfine i debiti e crediti di coteste comunità. Un’occhiata sulla tabella darà una chiara idea dello stato attuale di queste Arti. [Cfr. Tabella n. 7]

Questi Corpi mercantili e artigiani sono stati per la massima parte eretti durante la Dominazione Spagnuola. Vediamo negli originarj antichi Statuti la legge favorevole alla libertà in questi termini: «Quilibet Civitatis et Ducatus Mediolani et terrarum subjectarum statutis Communis Mediolani, vel aliunde, tam masculus quam femina, tute et impune et ubique et in quolibet loco in Civitate et Ducatu Mediolani et in locis suppositis statutis ut supra, possit facere et exercere ac operari quamlibet artem seu artificium ministerium et laborerium cujuscumque generis et materiei sit nisi in contrarium jure municipali reperiatur cautum»[332] e questo gius municipale, come consta dal codice medesimo, non esiggeva cautele che per alcuni pochi mestieri o esercizj che interessavano la pubblica fede o la sanità dei Cittadini.

Ben diverso è presentemente lo spirito che regna fra di noi. Un industrioso e povero giovine che voglia cercare un onesto sostentamento nelle Arti o ne’ mestieri è costretto a farsi registrare nel Corpo della sua professione il che s’esprime col vocabolo passar Badia o farsi matricolato. Mancano a molti i mezzi per farlo, molto arbitraria è la tassa che i vecchi del Corpo talvolta impongono, particolarmente ai forastieri i quali quanto sono più abili tanto maggior invidia e ostilità trovano in questi matricolati, per tal modo che impunemente li sottopongono a innumerabili vessazioni, mancando un Regio Delegato che vi invigili e protegga la gioventù bene inclinata e gli artigiani forestieri di abilità, e quindi poi la gioventù cade nell’ozio e nella mendicità e ben sovente finisce col vivere di rapina, male che da un secolo e mezzo a questa parte si cerca inutilmente di guarire colla mano del carnefice.

Queste Università, Scuole, Badie ec. tutte unite pagano più di 81.000 (ottantuna mille) lire annue al Banco di S. Ambrogio; di più: varie spese fanno in comune per messe e solennità periodiche, per liti e contenzioni forensi, il che ascende alla somma di più di 46.000 (quarantasei mila) lire annue, le quali unite al tributo formano la totale annua spesa della somma di lire 127.000 (cento ventisette mila) come può vedersi nella tabella. L’interno riparto della suddetta somma in ogni Università ec. è abbandonato alla legge che i componenti vogliono prescrivere cosicchè, essendo loro interesse di sgravarsi quanto possono sul nuovo che cerca d’essere matricolato, esso rimane come una vittima abbandonata a quei giudici che sono nel tempo medesimo la parte aversa. Una sorta di tributo alcuna università impone col nome di Dazio d’Oltramonte, il titolo, la percezione e la conversione di cui meriterebbero molto esame; in somma tali ostacoli trova l’industria de’ buoni Cittadini che maraviglia non è se anche per questo capo il numero degli Artisti e degli Operai vada scemando.

Un altro male e grande trovasi in queste Università ec. ed è che a ciascheduna pressiede un Curiale col titolo di Cancelliere o di Sindaco, il quale fomenta in esse lo spirito di scambievole gelosia, di lucro o di precedenza, poichè la ricompensa di esso Curiale è modica ne’ tempi pacifici, ma, attizzate che sieno alle liti e invase dal contenzioso genio del Foro, l’autorità è lucro del Curiale e cresce a dismisura. I componenti le Università facilmente danno il loro voto per una lite che si rappresenta loro come poco dispendiosa e di esito sicuro, lo spirito di partito gli spinge, facil cosa è il contrarre debiti a questi corpi immortali; quindi ne vengono poi un accrescimento enorme di peso, una perdita di tempo importantissima, uno scisma fra que’ Cittadini che dovrebbonsi dare vicendevol soccorso e perfine troppo frequenti fermentazioni utili bensì ai forensi, ma luttuose per la nazione, per tal modo che possono queste università paragonarsi alle antiche Repubbliche della Grecia se se ne eccettui la virtù.[333]

§ 6. Delle leggi particolari de’ Corpi, delle Arti e Mestieri.

Ogni Università, Scuola, o Badia ha i suoi statuti, i quali, se in un solo codice si compilassero, formerebbero un volume certamente non minore di quello delle Nuove Constituzioni. Questi statuti che ogni Università si è da sè medesima formati, presentati ai Tribunali, da essi ricevettero forza di leggi: facil cosa è quindi dedurne se sieno dettati da quelle viste universali dirette al bene dello Stato, ovvero anzi da quello privato spirito di utile o di precedenza particolare ad ogni corpo. Lungo troppo sarebbe e argomento ei solo di un intero volume s’io volessi immergermi ad esaminare questa indigesta mole di statuti, fra molte di queste leggi una sola ne trascelgo per darne una idea.

Sta negli odierni Statuti de’ Mercanti di seta che chiunque abbia bottega non possi far tessere in casa propria. Questa legge sembra fatta in favore de’ Mercanti di stoffe meno ricchi, i quali non avendo capitale per essere fabbricatori, ma vivendo col commercio di rivendere le stoffe comperate alla fabbrica, non potrebbero darle al prezzo medesimo al quale le darebbero i Fabbricatori se avessero bottega aperta. Vediamone le conseguenze. In virtù di questo statuto il Mercante bottegajo è costretto a confidare la propria seta, l’oro e l’argento in mano del Tessitore, il Tessitore è povero e la stoffa si tesse per lo più nella stanza medesima che serve di unico asilo alla povera famiglia del Tessitore; con ciò nascono mille accidenti che pregiudicano alla eleganza e pulizia del lavoro, cosicchè spesse volte accade che il Mercante riceve la stoffa sì male in ordine che preferirebbe ad essa il valor primitivo della materia. Spesse volte il Mercante trova mancante il peso, spesse volte gli viene mancata la promessa per il tempo; la eternità e dispendio de’ giudicj distolgono il Mercante dal cercarne riparazione e rendono confidente il Tessitore a profittare dell’altrui. I Mercanti quindi imparano a proprie spese, i Tessitori restano senza commissioni nella mendicità e i Mercanti, anzi che promovere le interne manifatture di sete, si constituiscono agenti delle fabbriche di Lione, Genova e Torino; e di essi cento cinquanta e più matricolati si vedono in Milano i quali sono altrettante sanguisughe che smungono il denaro dello Stato.[334]

Opposta a questa usata da noi è la legge di Parigi su tal proposito, dove si ordina che: «i Mercanti e Maestri non potranno tenere più d’una bottega aperta … dove potranno vendere le stoffe che fanno fabbricare».[335] Il Sig.e Melon parlando appunto de’ Corpi de’ Maestri
così s’esprime: «Gli statuti che stabiliscono i confini del lavoro fra il Calzolajo e lo Scarpinello, fra il Terrajo e l’Archibugiere ec. sono stati cagione di lunghe liti le quali tutte non sono forse ancora finite.
 La maggior parte delle Comunità de’ Mestieri … le loro prove, i ridicoli loro statuti, le loro cariche più ridicole ancora altro non producono che una perdita di uomini e di tempo».[336] Questa massima è seguita dall’Inghilterra, dove al dì d’oggi è libero a ciascheduno esercitare il proprio talento ed industria in quel mestiere che vuole, siccome appunto abbiamo detto essere stato altre volte fra di noi, l’imperizia o la mala fede sono castigate colla mancanza de’ compratori senza che la legge vi ponga la mano.[337] In Parigi molte volte si tentò d’abolire le Comunità delle Arti e Mestieri e nel 1382 sotto il Re Carlo VI furono abolite in fatti[338] e se ora ivi sussistono, le leggi però colle quali vengono dirette, l’impossibilità in cui si tengono d’esercitare vessazioni su’ nuovi alunni, le cautele colle quali vien loro impedito l’incaricarsi di debiti, l’occhio de’ Regj Ministri che vi assistono sono efficaci rimedj i quali, se non tolgono affatto, diminuiscono però di molto il male che per loro natura devon fare al commercio.

§ 7. De’ privilegi esclusivi detti privative.

Abbiamo sin qui veduti i difetti organici (se m’è permesso d’usar questa frase) i quali s’oppongono alla buona direzione del commercio; ora d’un altro difetto d’opinione ossia di massima convien ch’io faccia l’esame, il quale a me sembra tanto opposto alla saggia direzione del commercio quanto universalmente radicato negli animi di chi lo dirigge; e questo è il pregiudicio di credere i privilegi esclusivi ossia le privative mezzi buoni per condurre a prosperità le nuove manifatture. Fra gli Autori economici ch’io ho consultati alcuno non ne trovo che approvi generalmente le privative, ma nemmeno alcuno ne ho letto che tratti la materia da’ suoi principj e in tutta la estensione.[339]

Il privilegio esclusivo è un diritto che si accorda a un nuovo Fabbricatore di fare ei solo la proposta manifattura per tanti anni ad esclusione d’ogni altro. Questo privilegio sottrae la nuova fabbrica dalla concorrenza e tolta la concorrenza non è possibile il veder fiorire o perfezionarsi veruna manifattura.

Qualora diverse fabbriche concorrono a vicenda per avere più numero di compratori, l’ingegno s’affina, l’industria si scuote, s’inventano metodi più spediti e meno dispendiosi; ogni fabbrica cerca la preferenza colla diminuzione del prezzo e colla maggior raffinazione del lavoro. Ma se una fabbrica sola acquista il privilegio esclusivo, cessata la concorrenza cessa lo sprone dell’industria e per una mal pensata rivoluzione di principj in vece di far servire la manifattura alla nazione si rende la nazione serva e dipendente della manifattura. Ciò è tanto più funesto allorchè si esclude la concorrenza colla manifattura straniera: nel qual caso il monopolista ha veramente imposto un tributo allo Stato.

Quando s’accetta la proposizione che il nuovo Fabbricante presenta del privilegio esclusivo, il Sovrano si priva per tanti anni della libertà di accogliere qualunque altro Fabbricante per industrioso, abile
e utile al Paese che sia, oggetto molto importante per sè medesimo.

Di più interdice sotto pene l’esercizio della propria industria su un dato genere di manifattura a tutti i Cittadini, legge per se stessa alquanto dura e ch’io sulla scorta del Vattel ardirò chiamare contraria
ai dritti naturali de’ Cittadini medesimi poichè: «il commercio è un bene comune alla Nazione, tutti i membri di essa vi hanno egual diritto; il monopolio è dunque generalmente parlando contrario ai dritti dei Cittadini»;[340] e per pienamente convincerci della malsana politica che protegge cotesti privilegi esclusivi basti riflettere che un fabbricatore non cerca mai privilegio esclusivo che allor quando teme la concorrenza, e che questo medesimo timore è una confessione tacita che altri potrebbe fare miglior partito alla Nazione di quello ch’egli esibisce; dal che ne viene che per la natura medesima della domanda il Fabbricatore che cerca la privativa prova evidentemente ch’egli al più è mediocre nel suo mestiero, ch’egli non merita privilegio di sorte alcuna e che per esso non è giusto restringere ai nazionali i confini dell’industria con cui proccurarsi un onesto sostentamento.

Ma come dunque, taluni diranno, inviteremo noi le nuove manifatture a stabilirsi fra di noi se ad esse non accordiamo il privilegio esclusivo? Rispondo: fra di noi è una formalità che da molti anni s’è introdotta d’accordare privilegio esclusivo e di accordarlo per il lungo spazio di vent’anni a qualunque nuova manifattura che si presenti; qual manifattura sin ora s’è mai innalzata ad una costante prosperità? Nessuna. Dunque il privilegio esclusivo non produce l’effetto per cui si accorda. Vogliamo noi invitare le nuove fabbriche a piantarsi fra di noi? Prepariamo loro delle leggi conformi alla natura del commercio, prepariamo loro un metodo pronto e sincero di giudicare, assicuriamole sotto l’incorrotta protezione de’ Magistrati, difendiamoli dalla mala fede e oppressione, liberiamoli dalle vessazioni di qualunque persona o Corpo e vedremo le nuove fabbriche correre a naturalizzarsi da noi. Rettifichinsi le tariffe, regolinsi le monete, ne dirigga i diversi fili una sola mente capace di farlo e vedremo il commercio rialzarsi immediatamente; prendasi in somma la norma dello spirito delle patrie nostre leggi e ripigliato questo vedrassi invigorir la nazione come scrisse il Presidente Montesquieu: «Gli uomini ritornano al bene quando ritornano alle massime antiche … le antiche instituzioni son d’ordinario come correzioni, le nuove sono abusi. Nel tratto d’un lungo governo si scende al male per una insensibile discesa, ma vi va uno sforzo per riascendere al bene»[341] il che fu detto in prima dal Cancellier Bacone (Sermones fideles num. XXIV): «Malum in natura humana naturali motu fertur qui processu invalescit: at bonum ut fieri amat in violentis motibus in primo impetus fortissimum».

§ 8. Uso delle altre Nazioni e opinione de’ migliori Autori economici intorno le privative.

I nostri avveduti maggiori accordavano esenzioni di tributo, ducale stipendio e onori agli introduttori di nuove arti, non mai privilegi esclusivi di sorte alcuna,[342] e questo spirito è appunto il medesimo che regna in Inghilterra dove rarissime volte s’accordano privilegi esclusivi e soltanto agl’inventori di qualche utile manifattura e tutt’al più esteso per anni quattordici come dallo statuto XXI di Giacomo primo;[343] anzi celebre è la risposta della regina Elisabetta ai deputati del Parlamento appunto a proposito di simile privilegio che le era stato surretto: «Perisca il mio cuore – rispose quella Principessa – o la mia mano anzi che il mio cuore o la mia mano accordino ai monopolisti dei privilegj di pregiudizio al mio Popolo».[344]

Così se diasi un’occhiata al regno di Francia vi troveremo odioso il nome di monopolio. Veggasi il Dizionario del commercio all’articolo monopole: «Si dà questo nome a una sorte di commercio, il quale non è meno rovinoso per ciò che porta il manto d’una rispettabile autorità; m’intendo qualora alcuni privati sorprendono la religione del Principe ed abusandone ottengono privilegi esclusivi di vendere soli una data sorte di mercanzia; egli è questo un monopolio tanto più funesto, quanto che colui che lo fa sfugge la severità della legge sotto la sorpresa protezione di colui che è l’autore della legge».[345] Una volta si sono dati privilegi esclusivi in Francia sotto il ministero di Colbert cioè nell’anno 1665 alla introduzione della fabbrica della latta, la quale era allora un importante secreto,[346] ma la massima universale è sempre stata in contrario e favorevole alla libertà.

Nel Regno pure della Spagna con grandissima circonspezione si accordano i privilegi esclusivi per testimonianza di D. Geronimo Ustariz il quale un solo in sua vita ne ha veduto accordare, e fu nel 1720 a’ 13 genn.ro a D. Giovanni di Goyenes introdutore di nuova fabbrica di specchi nella Provincia di Cuenca. Ma ascoltisi il medesimo Autore: «S’accordano talvolta – dic’egli – de’ privilegi esclusivi, ma ciò dev’essere con molta circospezione. Quand’anche sembrano necessarj ben fatto è limitarli e stare in guardia acciò non si convertino in un monopolio utile ai particolari, ma di danno ancora maggiore al pubblico. Per accordare sì fatti privilegi con tutte le possibili restrizioni conviene per lo meno che sia una manifattura nuova, dispendiosa, utile al commercio e al Regno».[347]

Che se alle ragioni, alla interna sperienza nostra ed all’esempio delle altre Nazioni devonsi aggiungere le autorità de’ Scrittori più accreditati, veggansi le Instituzioni politiche ove dice: «Per monopolio s’intende un privilegio esclusivo accordato dal Sovrano ad una o più persone di fabbricare o vendere una sorte di mercanzia in tutto lo Stato, ovvero in una Provincia. I più colti Popoli in ogni secolo hanno avuta sì grande avversione per questa sorte di tirannia, cosicchè il nome solo ne è odioso. L’Imperator Tiberio volendosene servire dovette chiedere al Senato la libertà di farlo … ogni monopolio in generale è dannoso al ben comune della Società e nocivo alla manifattura medesima in grazia di cui viene accordato».[348] Veggasi Melon ove scrive: «I privilegi esclusivi di commercio non devonsi giammai accordare col pretesto della concorrenza svantaggiosa ai Negozianti; tocca ad essi il fare il loro conto».[349] Veggasi Forbonnai il quale chiama il monopolio «una falsa idea di governo speculativo»;[350] veggasi l’Autore del Saggio sul regolamento universale de’ grani il quale si esprime
con questi termini: «Ciascuno accorda che la libertà è l’anima ed il sostegno del commercio e che la concorrenza è l’unico mezzo di fissare il prezzo d’ogni merce al grado più avantaggioso al pubblico».[351] Veggansi perfine gli Elementi del commercio dove la concorrenza viene definita: «il più attivo principio del commercio utile».[352] In somma veggansi gli scrittori tutti di qualche nome che de’ privilegi esclusivi trattino e tutti uniformemente si troveranno decisi contro di essi, nè vengono concessi che in poche e singolari circostanze e con condizioni ristrettissime, d’onde ne segue che, se a taluno tuttora sembra lodevole la nostra massima di accordare ad ogni fabbrica cotesto privilegio, ciò non può avenire altrimenti che per la ragione accennata dal Presidente Montesquieu cioè «che l’uomo rinuncia agli errori più tardi che sia possibile».[353]

§ 9. Conclusione.

Nessun sistema si trova presso di noi per la direzione del commer
cio. I rottami dell’antico sistema sparsi e divisi in più mani non formano più quel tutto e quell’unità che sotto una mente direttrice determini le parti diverse a un solo fine; i moti opposti e indipendenti
di cotesta machina si elidono e si logorano vicendevolmente. Questa
è la cagione per cui gli ordini sovrani i più benigni e premurosi prima d’essere eseguiti perdono la loro eficacia passando fra la lentezza e inerzia universale come c’insegna la storia. I pregiudizj addottati hanno reso un tempo perduto quello in cui sin ora s’è parlato di commercio; nè potrà dirsi ben impiegato che allorquando si pensi a far dipendere le tariffe, le monete, le costumanze delle Università, le loro leggi, le nuove fabbriche, i commercianti tutti in somma da un solo principio motore e animatore di questo corpo politico.

Capo IV. Dello spirito del nostro sistema d’agricoltura relativo al commercio.

La terra è la madre e nodrice universale degli uomini d’onde riceviamo il vitto, il vestito e le materie tutte de’ nostri lavori, quindi ella è la prima sorgente dell’utile commercio. Noto è abastanza che quella contrada che abitiamo noi Lombardi è una delle più fertili d’Italia e che i Coloni nostri, massimamente in quella parte della Provincia che risguarda settentrione, sono da annoverarsi fra i Popoli più industriosi e robusti. Mio scopo non è il trattare con quai tentativi potrebbesi migliorare l’agricoltura fra di noi ed accrescere con ciò la forza fisica nostra rendendo il benaugurato genio del Sig.e Duhamel utile anche a questa Provincia; io ne scriverò soltanto quanto immediatamente influisce sul sistema del commercio e cominciaremo dai grani de’ quali, come s’è veduto nel cap. 1, fra noi se ne produce di più del nostro natural bisogno.

§ 1. Del commercio de’ grani.

Per favorire ed accrescere il commercio d’esportazione convien favorire l’esportazione medesima; non v’è commercio che possa fiorire quando s’interponghino forti ostacoli al trasporto, nè v’è commercio che possa fiorire se non vi sono mediatori fra il primo possessore della merce e l’ultimo che la consuma e questi sono i Mercanti. La fecondità della terra cresce colla fatica del coltivatore e la di lui fatica cresce colla fiducia di trovare buon prezzo della derrata e la derrata finalmente acquista valore colla facilità dell’estrazione.

Da questi semplici e universali principj deriva che il porre ostacoli al trasporto de’ grani e il limitarne il numero e la libertà de’ Mercanti tendono immediatamente a diminuire il prodotto delle terre e
ad accostarci precisamente a quello stato di carestia che i piccoli Legislatori sembrano appunto voler evitare con sì fatte leggi.

Quando è a molti libero il fare mercanzia de’ grani e che chiunque può a sua voglia farne ammasso, non mai si avvilisce il prezzo di essi grani malgrado l’abondante raccolta, perchè allora appunto a gara concorrono i Mercanti medesimi a riempierne i proprj magazzeni.

In essi magazzeni frattanto si custodisce il grano con maggior cura
che non fassi dalla maggior parte de’ possessori di terra, sì perchè il frutto di essi è il capitale del Mercante, sì anche per la maggiore sperienza e attenzione del Mercante medesimo, d’onde minor perdita
di grano per lo Stato; che se poi la penuria succede allora s’aprono i magazzeni e a gara i Mercanti cercano di rivenderlo alla nazione a preferenza de’ forestieri, avendo sempre i nazionali in loro vantag
gio la gabella che i forestieri pagano alla uscita e la maggiore spesa
di essi pel trasporto. A me basta accennare questi luminosi principj i quali sono stati sì bene sviluppati dall’Autore della eccellente opera Essai sur la police generale des grains stampata in Berlino 1755, a cui ricorra chi veder brami ridotta a dimostrazione l’importanza di lasciare una intera libertà al commercio de’ grani, sia per l’uscita, sia per gli ammassi, sia per la circolazione interna.

§ 2. Delle leggi e sistema nostro de’ grani.

Posti questi fondamenti veggasi ora come la legge nostra favorisca il commercio de’ grani: «Nemini liceat subdito vel non subdito cujuscumque sexus et conditionis sit ex locis et territoriis mediate vel immediate dominio Mediolani suppositis nec per loca et territoria dicto dominio supposita extra dominium conducere, portare, nec conduci portarique facere frumentum, risium, legumina, nec aliquod aliud genus bladorum aut farinam sine licentia, nec conducentibus portantibusque auxilium, consilium vel favorem dare, sub pœna amissionis earum rerum ac animalium, plaustrorum et navium ac instrumentorum quibus dictæ res veherentur et ultra præmissa sub pœna confiscationis bonorum et alia pœna usque ad ultimum supplicium inclusive arbitrio Principis vel Senatus».[354]

La esportazione de’ grani è dunque punita di morte se una dispensa non vi deroghi, ma la circolazione interna de’ grani non è pure permessa: «non licet etiam sine licentia de uno districtu ad alterum districtum memorati dominii prædicta conduci facere, nec portari facere vel conducentibus, portantibusque auxiliurn dare et ut supra, sub pœna amissionis bladorum, risii, farinæ et leguminum»,[355] anzi tale è il rigore di questa legge, che arma persino il braccio di qualunque privato colla spada della forza coattiva contro qualunque esportatore di grani: «Sit etiam authoritas facultasque omnibus, tam communitatibus quam etiam singularibus personis, non solum accusandi ut supra sed etiam detinendi quoscumque in fragranti crimine repertos, bladaque, instrumenta, animalia, vehicula super quibus et in quibus conducerentur per vim auferrendi».[356]

La esecuzione di queste leggi dipende dal Magistrato Camerale dove sta l’Officio delle Tratte. I Capitani del divieto sono gl’Ufficiali mantenuti da questo Tribunale in diverse parti dello Stato per l’osservanza di queste leggi. Infinite sono le strade per le quali questi Capitani portano la vessazione e il disordine nella campagna. Qualunque miserabile venditore di riso o legumi non può introdurre nella sua bottega questi generi se non ottiene la licenza del Capitano, la quale si paga soldi 30. I mulini di grano sono soggetti a questa medesima legge. I poveri abitatori della campagna restano così in preda a questo Giudice, che è parte a cui spetta il fare le visite ed obbliga a continue redenzioni pecuniarie chi vuole colla minaccia d’un processo, che ridurrebbe il supposto reo all’ultima mendicità qualunque volta il Capitano voglia asserire che il grano che si trova sia oltre le licenze spedite. Così desolando le campagne vengono questi Capitani un anno coll’altro ad avere l’entrata di sei in sette mila lire cavate goccia a goccia dalle vene de’ più poveri, più utili e più industriosi Sudditi.

Questi Capitani del divieto parte della rendita ottengono con arbitrarie punizioni date ai contravventori senza farne relazione al Tribunale, parte vestendo il carattere di delatore secreto a cui spetta il terzo della pena e ciò accade qualora non sia ad essi possibile l’occultare il fatto al Tribunale; la forma del sindacato che fassi a costoro e mille rigiri pur troppo frequenti sono crudelissime invenzioni che affittano la povera mendica plebe della campagna alla rapacità di questi insaziabili Ufficiali, i quali altro non fanno che scoraggire il misero contaddino che meriterebbe la più vigilante e sicura protezione delle leggi.

Gl’inventori di questo regolamento pare che abbino voluto porre argini al Nilo per impedire che le di lui acque non fecondino le campagne: in fatti mezzi più efficaci non vi sono per opprimere l’industria, avvilire il prezzo de’ generi, incarire i nostri grani trasportati ai vicini e diminuire conseguentemente questo ramo d’agricoltura e di commercio sì importante. Ne siegue quindi che molte delle nostre terre che in prima erano coltivate a grani, ora vadino convertendosi in prati e ciò particolarmente nel Pavese; nè a questo v’è chi pensi o rifletta alle conseguenze. Il proprietario del fondo, trovando avviliti i prezzi de’ grani per le ragioni che abbiamo vedute, trova il suo conto a coltivarle a prato, essendo libera l’esportazione de’ caci e conseguentemente sicuro il suo prezzo; ma frattanto quelle trenta pertiche le quali coltivate a grano mantenevano tre Sudditi, ridotte a prato hanno bisogno della coltura d’un solo; e così deve scemarsi la popolazione ch’è la vera e unica misura della forza d’una Nazione e d’un Sovrano.

Abbiamo, è vero, vicini Popoli mancanti di grano, ma abbiamo altresì vicini emuli i quali o ne forniscon loro o possono fornirne, soltanto che scuotinsi a facilitarne il trasporto e cosa funesta sarebbe per
noi se fossimo prevenuti. Grandi sono i nostri mali e tanto più grandi quanto che essi non tanto dall’inosservanza delle leggi dipendono quanto dall’intrinseca mala constituzione della legge medesima. [357]

§ 3. D’onde sia venuta l’opinione contraria al libero commercio de’ grani.

I nostri Legislatori al solo nome di libero commercio de’ grani videro avanti gli occhi la squallida idea della carestia, la fame e il deperimento della Nazione; l’origine di tal pregiudicio sta nella servile venerazione per le leggi romane, cosicchè senza sottoporre a verun esame quanto trovasi ff., l. 47, tit. 11, § 6 de extraordinariis criminibus, e l. 48, tit. 12, de annona e nel codice l. 11, tit. 22, 23, 24 e 27 lo hanno creduto buono in sè e utile alla nostra Provincia per questo solo che sta scritto nel corpo delle leggi romane.

I Romani, figlj di Marte, credevansi nati per soggiogare colla forza le emule Nazioni ed arricchirsi colle loro spoglie, nè mai discesero a gareggiare industriosamente nel commercio di cui appena intesero il nome,[358] nè è maraviglia che Roma abbia fatto leggi sì poco conformi alla prosperità del commercio; deve bensì far maraviglia che delle nazioni di Europa tanto diverse dalla romana e per la religione e per i costumi e per lo spirito del sistema e del secolo e per la naturale posizione addottino ciecamente le leggi di quei vincitori del mondo e facciano appunto come quell’africana scimia la quale volendosi ricoprire coll’elmo d’Ercole vi rimase sepolta.[359]

Tanto più forte ritrovasi l’incoerenza d’addattare a noi le leggi di Roma su i grani, quanto che siamo in una situazione opposta appunto a quella di Roma: le vicine campagne d’Italia non bastavano a nodrire l’immensa popolazione di quella dominatrice delle genti, quindi dall’Egitto[360] e dalla Sicilia dovevano i Romani aspettar il pane; essendo dunque noi nel caso degli Egizi e non de’ Romani, cioè di poter dare il pane e non di riceverlo, le leggi egizie anzi che le romane avressimo dovuto imitare.

Di più: servivano i grani in Roma agli opulenti Cittadini di mezzi per sedur la plebe colle gratuite distribuzioni e con ciò indurla a plebisciti talvolta funesti alla causa pubblica; dal che ne venne l’indispensabile dovere ne’ Magistrati di proibirne gli ammassi come mezzi sediziosi di guadagnar quella plebe che altro non cercava ne’ tempi della maggior grandezza che panem et circenses; ed ecco quanto a torto l’esempio delle leggi romane siasi voluto far valere per mettere presso noi i ceppi al commercio de’ grani.

§ 4. Opinioni ed esempj sul commercio de’ grani.

Di ragioni ben diverse dalle nostre hanno fatto uso i più accreditati scrittori di scienze economiche, perciò leggo presso il Sig.e Mirabeau: «Quei che non vedono che il pane nell’agricoltura farebbero nascere nello Stato una carestia universale se in loro mano fosse la direzione dell’agricoltura e il commercio delle produzioni della terra. La terra è la vera sorgente di tutte le ricchezze d’una Nazione coltivatrice, ma le sue ricchezze non si ottengono che colle spese della coltura e colla libertà del commercio delle produzioni»,[361] indi tra i principj universali d’una buona legislazione lo stesso autore stabilisce: «Che il commercio interno e esterno delle produzioni della terra sotto ogni forma possibile sia interamente libero».[362] Il Sig.e Melon attribuisce egli pure le carestie al citato principio: «Si osserva – così egli – che la maggior parte delle carestie vennero dal panico timore che ha fatto chiudere i granaj, de’ quali una legislazione debole o interessata non osava rompere le porte»,[363] ed altrove: «tanto nella penuria, quanto nell’abondanza la libertà del trasporto d’una all’altra Provincia è il fondamento d’ogni buona amministrazione».[364] Il nostro valoroso italiano Signor Antonio Genovesi è dello stesso sentimento, cioè: «Non poter essere che utilissimo per lo Regno avere le tratte aperte del grano in ogni tempo e per qualsivoglia quantità, non altramente di quello che le abbiamo de’ vini senza che giammai ci siamo risentiti della loro mancanza»,[365] e veggansi su tal proposito le opere del Maresciallo di Vauban e il citato Autore del Saggio sul regolamento generale de’ grani stampato in Berlino.

Questi salutari principj s’intesero nella Spagna sotto il regno di Filippo V di cui abbiamo l’instruzione agl’intendenti delle Provincie del 1718 4 luglio ed all’articolo 58 così vi si legge: «Molti sono in errore stimando che il più sicuro mezzo di mantenere l’abondanza sia il proibire l’estrazione, che anzi ciò è appunto che produce la carestia. Un’abondanza mal regolata ha sempre delle conseguenze più perniciose che la carestia medesima; il lavoratore è animato a travagliare dalla speranza del futuro guadagno, ma nell’abondanza egli si disgusta e si addormenta perciocchè i frutti venduti a vil prezzo non gli permettono di fare le spese d’una nuova cultura onde nasce l’abbandonamento delle terre e la carestia».[366] In fatti nella Spagna non è cosa strana che si accordino aperte le tratte de’ grani, come vediamo
in D. Geronimo Ustariz: «non è molto che si permise l’estrazione de’ grani dell’Andaluzia, dell’Estremadura, della Castiglia vecchia sul parere del Consiglio di Castiglia»,[367] anzi per attestato dello stesso Autore alcune Provincie della Spagna hanno addottato per sistema la libera esportazione de’ grani qualora non eccedino il prezzo fissato dalla legge: «Questa regola si osserva in Navarra – dice egli – con gran profitto di quel Paese; ciascuno può farne uscire i grani purchè non eccedino il prezzo fissato dalla legge».[368]

Che se dalla parte meridionale d’Europa partendo rivolgiamo il pensiero alle contrade del Nord, ivi troveremo regnare l’intera libertà de’ grani accumulati in magazzeni, d’onde le estere Nazioni se
ne provedono. Veggonsi questi magazzeni in Hambourg, Bremen, Riga, Revel, Narva, Pernau, Libaw, Königsberg, Stettin e Danzica, emporj di grano sono questi che fanno fiorire l’agricoltura della Polonia, Pomerania, Russia, Curlandia, Livonia, in somma in tutte le Nazioni confinanti col mare germanico e col Baltico.

Ma giovi ricordar perfine il famoso esempio dell’Inghilterra. Mancava quell’isola di grani nello scorso secolo per tal modo che ogni anno un raguardevole capo di spesa importava la compera de’ grani,
la quale facevasi in gran parte sulle coste del Baltico. In questo stato di cose avrebbero pubblicati i più rigorosi editti i nostri Legislatori
per impedire l’uscita di que’ pochi grani che si raccoglievano, ma que’ rischiarati politici conobbero i veri interessi della Patria meglio
che non fa il volgare degli uomini. Un editto pubblicarono il quale rese celebre l’anno 1689; ebbe esso il nome di Atto di gratificazione con cui non solamente si dichiarò libero il trasporto de’ grani fuori del Regno, ma dal pubblico Erario si assegnarono cinque scilini per quarter di rimunerazione a chiunque lo fa uscire dal Regno. Questo era il più efficace mezzo per animare l’agricoltura, la sperienza ha corrisposto all’ardita ragionevolezza della legge, cosicchè al dì d’oggi sotto l’ombra di essa l’Inghilterra non solo raccoglie grani proporzionati ai bisogni, ma ne fa un utile commercio del di più coi Portoghesi e colle Indie Occidentali.[369] Di quest’Atto di Gratificazione così ne parla il Cav. Nickolls: «Gli avantaggi che la coltura delle terre nostre ha da ciò tratti sono senza contrasto grandissimi; può dirsi che tutto l’aspetto fisico dell’Inghilterra ne sia stato cambiato. Molte terre che erano incolte e deserte son divenute dei campi fecondi e ricchi».[370]

Libera esportazione di grani hanno pure gli Olandesi, sebbene appena ne raccolghino per vivere tre mesi dell’anno, ma senza riccorrere a lontani esempj, uno sotto gli occhi ne abbiamo negli Stati del Re di Sardegna dove è reso aperto ogni trasporto di grani e dove, nelle Provincie cedute dal Milanese, la saggia politica di quel Sovrano ha interamente abolito il crudele officio de’ Capitani del Divieto che tuttora infestano le nostre terre.

Lungo tempo è dacchè nel Supremo Consiglio d’Italia propose il fisco votando nel 1724 29 dicembre di togliere le vessazioni che fra di noi si fanno al commercio de’ grani; così disse egli: «A questo danno si potrebbe rimediare non solamente coll’agevolare in tutte le possibili maniere le concessioni di tratte, ma anche col togliere gli abusi ed angarie che si trovano introdotte in tante moltiplicate officine per dove debbono passare e far le spedizioni i trafficanti, sentendo troppo a soggezione il patir tante replicate revisioni per tanti Officj che non lasciano di portargli interesse, volendo l’ingordigia di quegli Officiali qualche agevolezza conseguire».

Ma quello che allora era un semplice suggerimento d’un illumiminato Consigliere ora in questi anni più felici è divenuto un principio
e s’è elevato sino al trono dell’Augustissima Sovrana Nostra come vedemmo nel salutare e luminoso suo Real rescritto de’ 21 agosto 
1762 in questi termini degni delle benedizioni di tutti i buoni: «Essendo clementissima nostra intenzione di proteggere e favorire per quanto sia compatibile coll’esiggenza dello Stato e del nostro Reale Servigio la contrattazione ed estrazione de’ naturali prodotti che desideriamo anzi siano dall’applicazione e dalla industria migliorati ed accresciuti per sempre più dilatare il commercio, siamo venuta subito in disapprovare le mire private, le quali prevalendo a quelle del
ben pubblico che deve esser l’unico oggetto di [detto Tribunale] furono cagione d’un sì grave disordine» ec. Quindi fondate speranze devono concepire questi Sudditi che fra le molte epoche gloriose al regno della Clementissima Sovrana e gloriose al nome degli illumi
nati e incorrotti suoi Ministri si riporrà la liberazione dell’Insubria
da queste antiche catene, che la ignoranza le ha poste al piede e che
la tenace costanza dei pregiudicj ricevuti e il privato interesse di po
chi si sforzano tuttora di stringere e rassodare.

§ 5. Della coltura delle pecore.

Il primo bisogno fisico dell’uomo dopo il cibarsi è quello del vestito; la maggior parte del Popolo della campagna non beve vino fra di noi, pure si veste: seguendo dunque le semplici tracce della natura vediamo che dopo la coltivazione de’ grani quella delle lane è la più importante a preferenza della vite e de’ gelsi. In fatti le pecore sono il vero vello d’oro per ogni Nazione ed uno de’ massimi beni che produce agli uomini l’agricoltura. Tre entrate ci danno: la lana, il cacio e la carne. Di più: la loro pelle serve a molti usi ed il loro ingrasso, giusta le osservazioni di quanti hanno trattato dell’economia rustica, è il più confacente ad infertilire le terre essendo più attivo e più pieno di sali d’ogni altro;[371] quindi si calcola che un anno per l’altro la pecora frutti al padrone circa uno scudo.

Tutte le Nazioni del mondo dal tempo de’ Patriarchi sino a noi hanno sempre coltivate le pecore e risguardato come una sorgente di vera ricchezza il possedimento di esse ed al dì d’oggi pure nessuna parte ch’io sappia v’è in Europa che non promova e protegga la coltura di questi benefici animali.

Nella Spagna le leggi e il Governo s’adoperano per dilatare sempre più le raccolte delle lane, delle quali tanta parte va in Olanda, Inghilterra e per tutta Europa, cosicchè non è maraviglia se nella sola Estremadura quattro milioni di pecore e venti mila pastori si contino i quali vengono a svernare ogni anno alla pianura.[372]

Sotto il ministero del grande Colbert molto si fece in Francia per promovere la coltura delle pecore[373] ed introdurne di inglesi[374] ed anche in questi ultimi anni l’Accademia di Amiens propose il premio nel 1753 a chi avesse suggerito i migliori mezzi «di dare alle lane di Francia le qualità che loro mancano e di aumentarne la quantità»;[375] nella Provenza la pianura di Crau è ricoperta ogni verno di queste mandre.[376]

Nell’Inghilterra poi dove l’agricoltura e la raccolta de’ grani sono portate all’ultima perfezione,[377] prodigiosa è la quantità delle pecore
che vi si nodriscono, basta vedere la sterminata copia di fabbriche di panni lani che fassi nell’isola, per la massima parte tessuti con lane inglesi le quali da essi si trovano sensibilmente migliori delle spagnuole medesime.[378]

Nella Puglia e nell’Abruzzo molta è la cura che si adopera nella conservazione delle pecore e importante il prodotto delle lane le quali sopravvanzano al consumo di que’ Popoli e servano in gran parte alle manifatture dell’Italia.[379] Nella Toscana, che pure si merita il nome di giardino d’Italia per l’industria de’ Coltivatori, le pecore si coltivano.

Libero è in tutta la Germania il coltivar le pecore e particolarmente ne’ Stati Ereditarj della Sovrana nostra Augustissima altronde molto coltivati a grano come è noto. Pochi anni sono dacchè nella Svezia traspiantate si sono delle pecore d’Inghilterra, questa fertile colonnia riesce così prosperamente che vi si raccolgono al dì d’oggi le lane di finezza eguale a quelle degl’Inglesi.[380] In somma, sì ne’ passati che ne’ presenti tempi vedo a gara le Nazioni d’Europa occupate a coltivare nell’interno il raccolto delle pecore, le quali e ne’ climi bollenti e ne’ gelati e negli umidi e ne’ secchi d’ogni intorno vediamo stabilite.

§ 6. Delle nostre leggi intorno le pecore.

Le pecore sono bandite da noi e i pastori condannati alla galera;[381] nè è permesso ai possessori de’ fondi di nutrirle nemmeno sul suo, essendo data a chissivoglia la facoltà di uccidere e confiscare pecore d’ogni sorte e la cagione di sì fatte leggi è un errore di fisica cioè l’opinione che il morso della pecora abbia una qualità venefica che isterilisce il terreno; tanto influisce il metodo de’ studi sul destino delle Nazioni!

Non si creda però che tal fosse l’opinione de’ nostri maggiori, di quelli cioè che vissero in una città piena d’industria e di ricchezza. Le loro leggi così dicevano: «Quilibet ab aliena jurisdictione possit inducere in districtu Mediolani bestias ad pascholandum scilicet pecudes» ec.[382] ed altrove: «Licitum sit cuilibet tenere quascumque bestias super suo dum non vadant super alieno ad pascuandum: et si ipse bestie iverint super alieno ad pascuandum componat tenens ipsas bestias damnum passo ut in infrascripto proxime sequenti statuto continetur. Et quilibet tenens porcos, capras, moltonos, oves, vel castronos possit et debeat cogi ad requisitionem Consulis loci ubi tenentur dicte bestie vel prope territorium dicti loci per miliaria duo ad satis dandum de libris quinquaginta imperialium: quod ipsi porci, capre, moltoni, castroni et oves eius non dabunt illi damnum. Et sufficiat etiam unica satisdatio etiam si plures requisiverint».[383] Fra questa barbara latinità resta involto un retto giudizio che fa rispettare il buon Legislatore anche nella persona del cattivo grammatico.

Ora qual frutto ha prodotto a questo stato questa singolarissima proscrizione delle pecore di cui non so se in altro paese troverassi esempio? L’unico efetto è l’annua uscita di circa quattro milioni e mezzo di lire milanesi il che constituisce il capo più insigne del debito di questo Stato ed una vergognosa dipendenza dagli Stati vicini dai quali siamo costretti a comperare le manifatture tutte di lana più indispensabili per i fisici bisogni del letto e del vestito della più minuta plebe.[384]

§ 7. Se veramente le pecore sieno di danno alla coltura delle terre.

Se avvenga che questo mio lavoro da qua a qualche anno sia letto dai Milanesi farà maraviglia ad essi come io abbia dovuto provare ai loro antenati alcune verità le quali al solo annunciarle dovrebbero convincere;[385] e tale è anche questa cioè che le pecore non sieno d’insterilimento al terreno, ma anzi di molto ajuto all’agricoltura. In fatti il dubitare d’una cosa che l’esempio di tutta l’antichità e il costume universale delle Provincie e Regni più colti e fertili d’Europa prova ad evidenza è una di quelle straordinarie disgrazie che eccedono i confini del verosimile.

Ella è dunque cosa certa primieramente che una mandra di pecore che vada pascolando su un campo seminato a grani o coltivato a viti vi reca danno, come appunto farebbe una mandra di cavalli o di buoi, ma come non si proscrivono per ciò i buoi o i cavalli, nè si credono nocivi all’agricoltura, così ragion vuole che si facci alle pecore.

Una gran parte dello Stato è coltivata a prati, su i quali molta quantità di pecore potrebbe nudrirsi senza pregiudicare ai grani, e notisi che questa coltivazione deve essere più utile allo Stato che quella de’ caci, giacchè vidimo al capo i l’utile de’ nostri caci non giungere ad un milione e mezzo, laddove il danno per la mancanza delle lane e loro manifatture ascende a ben quattro milioni e mezzo; ora di sommo incoraggimento alle manifatture della lana sarebbe se la materia crescesse sul nostro, poichè essendo allora la lana a miglior prezzo potrebbero gl’interni lavori di essa sostenere la concorrenza ad essere preferiti ai forestieri.

Il giudizioso Barone di Bielfeld è ben lontano dal temere il veleno nel pascolo delle pecore: «Considerazione degna da farsi – dice egli – è che ogni manifattura pregiudica alla coltivazione de’ grani, perchè le materie che la compongono crescono ne’ campi ed occupano quello spazio che potrebbe occuparsi dal grano; di più esiggono spesa e lavoro, le quali potrebbero impiegarsi nella coltivazione de’ grani massimo oggetto delle finanze e del commercio. Le fabbriche di lana in vece favoriscono infinitamente l’agricoltura, poichè la lana cresce sulla pecora, la quale essendo cinta di siepe in un campo infertilisce il fondo, o restando nella stalla somministra al Contadino il miglior ingrasso d’ogni altro pel suo terreno».[386]

Nè dicasi che il clima nostro non sia fatto per la coltura delle lane; il clima è l’universale opposizione che citasi mancando le altre. Il clima nostro è meno fervido dello spagnuolo e meno rigido dell’inglese; nè v’è sperienza o ragione che provi che di tutta l’Europa questa sola Provincia sia incapace di nutrire gli armenti, i quali relegati tutto l’anno alla montagna nè trovano bastevole nutrimento nè formano le lane della bontà che contribuisca a renderne migliori le manifatture.[387]

§ 8. Della opinione dell’influenza lunare.

Prima ch’io chiuda questo capo d’un altro errore mi resta a ragionare, comune a quasi tutti i rustici d’Italia, cioè della opinione che la luna abbia sensibile influenza sull’agricoltura. Le lunghe e esatte osservazioni per più di quarant’anni del Sig.e La Quintinie fatte ai giar
dini reali del Louvre e quanto è stato dimostrativamente scritto su questo proposito ha potuto bensì disingannare le persone colte, ma
la volgare credulità sussiste. Agli occhi di chi pensa ai vantaggi della Nazione quest’errore non è sì frivolo quale egli sembra. Cagione si è questa che nella nascita de’ vermi da seta, nel piantare le viti, nel seminare i grani e in tutte le altre operazioni dell’agricoltura si trascuri di consultare i venti, la temperie, l’umidità o secchezza della stagione e i villani, sotto l’autorità del loro rispettato errore, esaminino in vece le fasi della luna e faccino spesse volte i lavori fuori di tempo. Assai minore ne viene quindi la raccolta di quello che esser potrebbe se meno si trascurassero i veri principj.

So che non può sperarsi con un proclama di sanare quest’errore del Popolo; simili ravvedimenti si fanno per gradi insensibili. Minor pericolo e stento costò allo Czar Pietro l’abolire il terribile corpo della milizia dei Sterlitz nel suo Impero di quello che gli sia costato il far radere ai Moscoviti la barba. Pur giova a chi medita sulle cose pubbliche aver delle mire per il tempo ancora lontano e spargere i semi per la raccolta da farsi dopo più lustri; e questa è la ragione per cui mi son creduto in dovere di farne parola. Se si potesse ottenere che i villani facessero sperienze su quest’influssi lunarj la guarigione sarebbe fatta, ma la opinione è così possente che vi vorrà del tempo ad indurli; sono in ciò paragonabili ai Chinesi, presso i quali è quasi affatto sconosciuta l’anatomia per la ridicola venerazione che professano ai cadaveri.

§ 9. Conclusione del capo quarto.

S’oppone dunque agl’interessi del commercio lo spirito del sistema nostro d’agricoltura; i pregiudizj e le opinioni contrarie alle leggi della fisica, la cieca venerazione per la legislazione romana, il principio rispettato di non far uso della ragion propria in ossequio dell’altrui inchiodano questa Provincia nello stato di depressione in cui si trova. La paterna mano del Monarca può molto rimediare a questa scomposta macchina, ma essa andrà da sè e costantemente al bene quando le scienze verranno a rischiararci; dalle Università cominciano le salutari e durevoli riforme: «Les connaissences rendent les hommes doux, la raison porte à l’humanité, il n’y a que les préjugés qui y fassent renoncer» Espr. des Loix, liv. XV, ch. 3.

Capo V. Dell’affitto delle gabelle e influenza di esso sul commercio.

Non ha forse vocabolo la lingua italiana che al Popolo sia più odioso di quello d’Impresaro. Naturale avversione si è questa e figlia di quell’istinto che ci fa odiare il tributo a meno che non si risguardi con que’ grandi principj riservati a pochi e così in breve spiegati da Tacito: «neque quies gentium sine armis, neque arma ine stipendiis, neque stipendia sine tributis».[388] Dall’altra parte alcuni posti in carica credono un bene l’affitto delle Regie gabelle, appoggiati sull’uso inveterato di così fare, sulla facilità di trovare soccorso nelle occorrenze del Regio Erario e soprattutto fondati sulla sperienza della diminuzione di rendita avenuta quando un anno si vollero amministrare le gabelle per Regia economia. Giovi fra queste opposte opinioni cercare la verità, ben persuasi che gl’interessi del Sovrano non possono mai essere disgiunti da quei della Nazione se non se agli occhi di chi mal li distingue, poichè la forza del Sovrano è una conseguenza della forza della Nazione e la sicurezza della Nazione è una conseguenza della forza del Sovrano.

§ 1. Esame delle ragioni per l’affitto delle gabelle.

Posto questo principio esaminiamo intimamente la questione. Impresaro vuol dire un uomo o Cambista o Mercante il quale prende in affitto dal Sovrano le regalie a un dato prezzo e per un dato tempo. Il fine che l’Impresaro si propone non è nè l’utile del Sovrano, nè il bene de’ Popoli, ma bensì il proprio arrichimento; dunque ei non può avere eguale zelo per la salvezza pubblica e per l’utile Regio di quello che ne avrebbe un Ministro soldato dal Principe per diriggere in sua vece.

L’Impresaro, come si è detto, o Cambista o Mercante o in qualunque altra guisa, non d’altro occupato che della propria immediata fortuna, non ha per lo più meditato sulla economia politica, nè pensato al miglior metodo per distribuire e riscuotere il tributo; nè può sospettarsi che il nome che acquista d’impresaro lo rischiari in questa materia a segno che non lo possa essere assai più un Ministro delegato dal Sovrano che siasi meritato l’onore di questa confidenza con conosciuta probità e conosciuti studj.

L’Impresaro non sta esso in persona alle porte ed alle avenute per dove passano le merci soggette al tributo, ma bensì dirigge e sceglie i subordinati suoi per quest’officio; tutto ciò prova bensì che vi vuole chi dirigga i Gabellieri e pressieda alla percezzione del tributo, ma non prova che il direttore debba chiamarsi Impresaro.

La facilità di trovare soccorsi nelle urgenze della Regia Camera per mezzo degl’Impresarj pare una ragione in loro favore; ma questo altro non prova se non che l’ipoteca de’ Regi fondi da essi amministrati dà loro credito e questo credito, appoggiato al fondo, non alla persona, l’avrebbe la Camera se conservasse i fondi in propria mano. Ognuno sa a quanto cari interessi, di più del venti per cento, abbino dovuto cercare i capitali anche gli attuali Impresarj al bel principio per somministrarlo alla Camera; e sa ognuno come in pochi anni stabilischino gl’Impresarj le loro fortune, testimonio ne sono le principali nuove famiglie di Milano. Cattiva politica sarebbe quella d’un privato il quale lasciasse i suoi fondi in balìa d’un Agente colla speranza di ritrovare del contante a interesse dal suo Agente medesimo.

La sperienza fatta[389] di far andare per economia Regia le gabelle, riuscita con perdita del Regio Erario, prova che lasciandole abbandonate a un consesso di Giureperiti, occupati giornalmente a decidere secondo il dritto le pubbliche e private dispute che insorgono sui feudi, sulle acque, sull’annona, sul tributo e simili come appunto è il Magistrato, le gabelle non possono ben dirigersi.

L’autorità de’ più accreditati Autori sul punto dell’affitto delle gabelle è ben diversa dall’opinione di chi pretende che sieno un bene poichè apertamente dice D. Girolamo Ustariz: «allorchè ho detto che conveniva amministrar le gabelle per Regia economia quand’anche dovessero elleno fruttar meno, l’ho fatto unicamente per dimostrare l’importanza di questa massima: giammai non ho temuto che la loro rendita realmente fosse per diminuire, confidate che fossero a Ministri zelanti ed abili. Dieci anni di sperienza ci provano nella Spagna che colla Regia amministrazione fruttano molto di più».[390] Il Barone di Bielfeld nelle Instituzioni politiche, tom. I, cap. XII, § 28, si dichiara pure del sentimento contrario all’affitto delle gabelle, ma giovi per tutti il testimonio dell’immortale Presidente Montesquieu, di cui eccone le parole: «La Regia amministrazione delle gabelle è l’amministrazione d’un buon Padre di famiglia che regola da se medesimo con sistema e con ordine le proprie entrate; colla Regia amministrazione può il Sovrano accellerare o ritardare il pagamento de’ tributi a misura de’ bisogni suoi e de’ Popoli; così egli solleva lo Stato da’ profitti immensi degl’Impresarj i quali sanno impoverirlo con infinite maniere; così risparmia al Popolo lo spettacolo delle fortune violente che lo affliggono; così il denaro passa per poche mani e dal Suddito va immediatamente al Sovrano, d’onde più prontamente ritorna al Suddito; così risparmiansi infinite cattive leggi che l’avarizia o l’importunità degl’Impresarj sa far promulgare, mostrando un utile attuale e nascondendo gli effetti funesti che ne verranno. In somma come chi ha il denaro in mano si fa padrone di chi lo ricerca, così l’Impresaro diventa dispotico del Sovrano medesimo e benchè non sia Legislatore obbliga il Sovrano a promulgare le leggi che vuole».[391]

§ 2. Quai effetti risenta il Regio Erario affittando le gabelle.

L’interesse del Sovrano è di conservare il proprio fondo, l’interesse dell’Impresaro è di ricavarne quanto più può nel tempo limitato per cui lo tiene in affitto: questi due interessi per loro natura sono in una continua opposizione e l’Impresaro ha in mano i più potenti mezzi per dar peso alle sue ragioni; dal che ne vengono le vessazioni de’ Popoli, lo scoraggimento della mercatura e del lavoro delle terre, l’evasione de’ Sudditi, la rovina del commercio e della Nazione e con essa il deperimento delle Regie Entrate. Mali son questi i quali non s’avvanzano con progressione tanto veloce da interessar l’Impresaro, ma gli effetti si provano dal Sovrano colla diminuzione che poi deve farsi dell’affitto.

In fatti se diasi un’occhiata agli affitti della Mercanzia del principio dello scorso secolo, quali ce li danno pubblicati il Tridi ed il Somaglia, troviamo che negli anni 1619, 1620 e 1621 la rendita di questa gabella era di annue lire due milioni e cento due mila seicento venti (2.102.620), il che, considerando la lira come era allora per due undecime parti del filippo, importa filippi trecento ottanta due mila e ducento novanta quattro crescenti (382.294); la medesima gabella è affittata al dì d’oggi in annue lire un milione quattrocento quaranta quattro mila e ducento sessanta sette (1.444.267) e le lire odierne rappresentano due quindecesime parti del filippo, il che importa filippi cento novanta due mila cinquecento sessanta nove (192.569). Dunque la Gabella della Mercanzia è affittata presentemente filippi cento ottanta nove mila e settecento venticinque (189.725) meno di quello lo fosse nel secolo passato. Dunque il Regio fondo è deteriorato di lire annue un milione e quattrocento ventidue mila novecento trenta sette (1.422.937), il che significa circa della metà.

Avrei attribuito totalmente questa diminuzione della Regia entrata agli smembramenti fatti a questo Stato, se le consulte de’ Corpi pubblici non mi convincessero del contrario; così vedo nella consulta della Congregazione dello Stato del 1713 21 gennaro diretta al Senato, quando cioè il Novarese, il Tortonese, il Vigevanasco e l’oltrepò Pavese non erano per anco smembrati: «experimento res con
stat ex libris Regiæ Cameræ, quod hodie post multa incrementa tantum non afferant datia quantum olim cum essent in primæva eorum moderata institutione. Quo enim magis excrevit datiorum moles eo decrevit mercimonii usus et populi frequentia», così pure nella consulta al Governatore della Giunta Urbana del Mercimonio del 1715 1 aprile leggesi: «In oggi poi prendendosi la prova dell’Impresa corrente … viene questa ad essere affittata sessanta mila annue lire meno di quello importava l’affitto dell’antecedente Impresa», il che conforme è ancora a quanto stampò il Somaglia verso la metà dello scorso secolo:[392] «pertanto se la Regia Camera farà bene il conto troverà che con questi repplicati accrescimenti non raccoglie l’utile che per l’adietro raccoglieva come chiaramente dimostrasi nel Trattato de’ Regi Dazj e la lunga sperienza ha insegnato».

Chiaro egli è adunque che, indipendentemente dallo smembramento, le rendite della gabella della Mercanzia dacchè si affittano sono diminuite; nè è facile il calcolarne la vera diminuzione a chi ricerchi una precisione geometrica,[393] pure qualunque ella siasi ella è molto sensibile pel Regio fondo medesimo. Che se ai tempi nostri ci piaccia di volgere il pensiero troveremo una lunga serie di artigiani anche a’ dì nostri oppressi e fuggiti da questo Stato per le vessazioni degl’Impresarj, e particolarmente quelli che campavano sulla costruzione delle carrozze, ora ricoverati sul Veronese e Parmigiano e quei che vivevano per la manifattura del cioccolatte, stabiliti sugli Stati del Re di Sardegna e nel Genovese.

Un fatto di pubblica notorietà giovi per tutti. Le merci degli Svizzeri e di buona parte dell’Impero attraversavano da tempo immemorabile il Milanese per portarsi a Genova, indi distribuirsi pel Mediterraneo. Panni, tele, mussoline, nastri, quincaglierie e simili mercanzie in gran copia facevano la strada di Chiavenna, Como, Milano, Pavia, Voghera, indi Tortona e Genova e per tutta questa strada lasciavano una raguardevole somma di contante per l’alloggio, vitto ec. Basti dire che per le sole gabelle di transito seimila (6.000) annui zecchini ne riscuoteva l’Impresaro. La compagnia presente dell’Impresa sei o sette anni sono prese il mal partito di pretendere dai Condottieri maggior rigore di gabelle; questa minaccia disgustò i Condottieri, cercarono di sottrarsene e il Re di Sardegna non risparmiò spesa e prontezza per adattargli una nuova strada, la quale è riuscita più comoda e breve dell’antica; così al dì d’oggi le merci vanno da Belinzona ad Arona, attraversando il Novarese e la Lumellina, indi per Tortona e Novi passano a Genova. Così il Milanese ha perduto un capo d’annua introduzione di varie migliaja di zecchini e il fondo della regalia è deteriorato per sempre di sei mila annui zecchini, oltre il sale, tabacco ed altri generi che in questo passaggio si consumavano. Tali effetti funesti devono nascere quando gl’interessi delle Regie Entrate si confidino in proprietà di chi non deve goderli che per pochi anni.

§ 3. Quai effetti risenta lo Stato per l’affitto delle gabelle.

Da conti fatti consta che la Compagnia che ora ha in affitto la Regia Ferma in nove anni ha diviso di utile tre milioni e cinquecento mila (3.500.000) lire, il che importa quasi quattrocento mila (400.000) annue lire di guadagno, ossia in questa locazione tre milioni e mezzo hanno pagato questi Popoli di tributo più di quello ne abbia ricevuto il Regio Erario; e qui notar si deve che somme non piccole hanno di più speso gl’Impresarj e in pagamento degli enormi interessi de’ debiti contratti al principio e per sostenere in diverse occasioni le pretensioni loro, il che accresce di molto la somma del di più pagato da questi Sudditi.

Ma quest’annua somma di lire per lo meno quattrocento mila (400.000) esce dallo Stato essendo gl’Impresarj forestieri; e con
ciò viene l’Impresa per se medesima nello Stato presente delle cose nostre ad essere un perenne capo di commercio passivo per noi.

S’è veduto al capo terzo § 2 di questa seconda parte di quale importanza sia il fissare con sodi principj e mantenere in rigoroso vigore le tariffe ossia il Dato della Mercanzia; ora sin che s’affitti l’Impresa della Mercanzia non è possibile il mantenerlo in osservanza. Gl’Impresari ribassano spesse volte il dritto delle tariffe e fanno speciali convenzioni co’ mercanti sotto nome di accordi; l’interesse dell’Impresaro lo suggerisce perchè così, facilitando l’introduzione d’una data merce sulla maggior quantità di essa, guadagna più che non avrebbe fatto stando al rigore; di più, al fine dell’affitto con maggiore facilità allarga la mano per raccogliere quanto
più può, onde alla nuova locazione si ritrovano pieni i fondachi e diminuita la rendita delle gabelle. Questo è propriamente un universale saccheggio del Regio fondo e la connivenza degli accordi è un costante rovesciamento del buon ordine delle tariffe, che rende inefficace ogni direzione che voglia porsi in favore d’una manifattura. Un vizio si è questo inerente all’affitto delle gabelle, poichè duro sarebbe il condannare l’Impresaro perchè in cosa di suo interesse usi indulgenza, e difficile la prova per i patti secreti e le cento strade che sono all’Impresaro aperte per deludere la proibizione quand’anche si facesse.

§ 4. Quai sieno gli usi delle altre Nazioni nella amministrazione delle gabelle.

Il regno de’ Fermieri è riposto nella Francia. Noto è abbastanza nella storia di questo secolo a quale enorme stato di debiti fossero ridotte le finanze di quel Regno quando il Duca Reggente ne ricevette il governo,[394] nota è pure l’attuale strettezza delle finanze di quella Nazione la quale e per le colonnie e per la natura del suo commercio e per la posizione e per il numero e industria degli abitanti e per il clima potrebbe essere la più doviziosa d’Europa. Altro non declamano gli scrittori francesi che contro le Ferme a segno che per rimediare ai sommi mali ne’ quali la Francia è involta si crede che basti togliere dalla lingua francese la voce Fermier.[395]

La Spagna e quasi tutti gli Stati del Nord sono o rinvenuti o preservati dal sistema d’affittar la gabelle. Nel Regno d’Inghilterra sconosciuto è il nome d’Impresaro,[396] e il Re di Sardegna ne’ suoi Stati per Regia amministrazione governa tutte le regalie e molti Milanesi ora suoi Sudditi per i beni che possedono nelle Provincie a lui cedute sanno quanto siensi sollevati perdendo il giogo degl’Impresarj senza che il Regio Erario Sardo ne abbia punto discapitato. Ma inutili sono sì fatti esempj per noi che potiamo citare quello dell’Augustissima Sovrana nostra, la quale ne’ Stati suoi Ereditarj percepisce tutte le regalie con propria economia.

Fausto augurio si è questo per la Lombardia, la quale, sebbene distaccata trovisi dal continente de’ vasti Dominj ereditarj, ha pur ragione di sperare d’essere posta nel sistema medesimo in cui lo sono
gli altri numerosi Popoli che con essa hanno la felicità d’ubbidire all’immortale Sovrana. Sotto il felice suo Regno s’è dissipata la nebbia sulla distribuzione del tributo per cui tanti inutili ricorsi s’erano dati da più d’un secolo; sotto il felice suo Regno s’è stabilito un ordine nelle finanze della Lombardia; epoche sono queste degne delle benedizioni nostre e de’ posteri; altro non resta a ridar la vita a questo Stato che il mettere ordine al commercio e redimere la Provincia dalle mani degl’Impresari e stabilirvi quel sistema che è il sangue e l’anima del Corpo politico.

So che se tra noi vi fossero ministri occupati dalla ingordigia propria, non dal zelo per il Sovrano che gli ha eletti e dall’amore della Nazione che gli è confidata, se tai Ministri dico vi fossero declamerebbero in favor dell’Impresa, potendo sperare dall’Impresaro delle ricompense in pagamento della connivenza in lasciargli usurpare i dritti del Sovrano e della Nazione: ma tali indegni uomini non si può credere che vi sieno e promettere ci potiamo che qualora, tolto il giogo della Impresa, non vi sarà più questo insuperabile ostacolo fra il Sovrano e i Popoli, tutte le voci s’uniranno a celebrare il più utile e sospirato dono della Sovrana Augusta beneficenza.

§ 5. Conclusione della seconda parte.

Ed ecco alla fine scoperto quel veleno nascosto che infetta ogni buona parziale riforma nel commercio. Si tolgono con Sovrana Providenza le gabelle perniciose al commercio e il commercio non risorge; s’invitano forestieri e nazionali a piantare manifatture, si danno ad essi capitali dalla mano benefica del Principe, nè si vedono prosperare tutte costantemente, in breve languiscono e finalmente s’estinguono. Il male sta nelle leggi, nella forma d’amministrarle, nelle massime ereditate, in una parola il male è intrinseco al nostro sistema. Sin che al Sovrano sarà ignota la vera forza fisica del nostro commercio, sin che i commercianti non troveranno pronta e sommaria ragione nelle loro liti, sin che per legge saranno avviliti, sin che potrassi impunemente fallire, sin che la direzione del commercio sarà divisa e confidata a dipartimenti gelosi reciprocamente, sin che le tariffe non saranno ben costrutte, pubblicate e poste in osservanza e le monete regolate secondo la verità, sin che si metteranno ostacoli al commercio delle derrate ed alla coltura delle materie prime più importanti, sin che la Nazione sarà in affitto all’interesse degl’Impresarj non risorgerà mai dallo stato di decadenza in cui si trova. Ecco svelato quel tarlo che nascostamente sin ora ha corrosi tutti i lavori nostri, tarlo venutoci collo scompagginamento arbitrario fatto a poco a poco alle antiche patrie nostre leggi, sotto la tutela delle quali fu questa Provincia delle più opulente e felici d’Europa. Maraviglia dunque non è se nelle sette volte nelle quali s’è pensato a ristabilire il commercio del Milanese, non essendosi mai esaminata nè la storia politica nazionale, nè il sistema attuale per i suoi principj, non si sia mai nè conosciuta la natura del male nè in conseguenza applicato rimedio che abbia prodotto costante giovamento.

§ 6. Vista generale.

S’io dovessi con una allegoria rappresentare lo Stato in cui si trova la Lombardia relativamente al commercio così direi.

Possedevano i miei Antenati in mezzo ad una deliziosa campagna un fecondo ed ameno lago non so se fatto dall’arte degli uomini ovvero per il natural pendio dell’acque che ivi le portasse a radunarsi. Abondante era in esso la pescagione, amena la vista, l’aria salubre; di più serviva ad irrigare le campagne vicine e a raddoppiare la loro fecondità.

Si mantenne questa opulente delizia sintanto che i Padroni, soggiornando in questo Paese, poterono di tempo in tempo visitarlo e riparare immediatamente i danni co’ quali il moto universale della natura distrugge le opere sue medesime.

Le circostanze de’ tempi cambiarono. Restò la campagna abbandonata alla direzione degli Agenti mentre i Padroni vivevano in lon
tan Paese. Il vento sradicò alcune piante e le gettò nel lago, non si pensò a ritirarle, cominciarono ad infrancidirsi ed a corrompere la limpidezza dell’acqua. Varie case fabbricate alle sponde diroccaronvi dentro, ne alzarono il fondo, sbordò l’acqua, se ne diminuì la quantità e gl’indolenti Custodi non vi posero mano. Così l’acqua che prima entrava nel lago perdette il suo livello e sviandosi poco a poco andò a innaffiare altri campi vicini.

I vicini più accorti de’ miei Antenati resero più libero e facile il passaggio a quest’acqua fecondatrice, l’accolsero ed accrebbero la fertilità de’ loro fondi. In due secoli d’indolenza nella mia famiglia e d’industria ne’ vicini sono giunte le cose a stato che quasi si dubita se anticamente vi fosse il lago quale ci viene descritto, non rimanendoci al luogo di esso che varie irregolari paludi sparse di rottami, piene d’alga e d’insetti non buone ad altro che a rendere l’aria contagiosa e sterile il contorno.

Sette volte si è ripreso il discorso di ristabilire quest’antica delizia: si sono levati alcuni fracidi legni che si trovarono nel fondo, ma questa operazione non bastò a dare maggior pendenza all’acqua cosic
chè venisse anzi a noi che a’ vicini. Si comperò a denaro contante una piccola quantità d’acqua e si ripose in una vasca vicina alla palude; speravasi di conservarla limpida e pura, ma l’aria corrotta dalla vicina pozzanghera la guastò ben presto. Molto si scrisse, molto si propose, ma siccome è costume fra di noi che i Medici regolino le acque, così non s’è mai proposto il rimedio adattato al bisogno.

Altri pretendono che si cominci a cercar l’acqua dai vicini e siccome i vicini non vogliono darcela, danno per disperato il caso; altri
son di parere di custodire alcune piccole vaschette isolate, le quali si vedono ben presto imputridire per la cattiva influenza dell’acque vicine. Varj discorsi si fanno e sin ora non v’è stato chi abbia proposto di ripulire il fondo, di livellarlo e dar pendenza all’acqua togliendo gli ostacoli che hanno cagionato il fatale cambiamento.

Questo ripulimento e questa livellazione passiamo ad esaminarla nella terza parte concludendo questa seconda col detto del Sig.e Mirabeau: «Sommes nous bien? En ce cas il est dangereux de changer de forme; mais si tandis que la misere ronge le peuple de toutes parts, le fisc se trouve chaque jour plus oberé, le changement d’état bien loin d’être à craindre est la chose la plus desirable et la plus indispensable», Théorie de l’impôt, pag. 358.

PARTE III.
CON QUAI MEZZI POTREBBE RISTORARSI L’ABBATTUTO COMMERCIO DI MILANO

Introduzione

Sembra che il più degli uomini col solo uso della parola abbino ottenuto il diritto di ben ragionare del commercio, dei tributi e della moneta, sebbene poche materie vi sieno sulle quali intendino meno
e gli altri e se medesimi quanto coteste. Quindi stabiliti trovansi nella comune opinione de’ canoni poco conformi a quello spirito di luce sparso ormai generalmente in Europa, e tale è certamente questo: che le meditazioni e ragionamenti sul commercio a nulla giovano, ma l’effettivo contante solo può farlo risorgere. I privati suggerimenti d’un Cittadino non hanno per sè soli immediata influenza sul destino d’una Provincia, ma sono pure essi altrettanti semi gettati sul suolo, i quali, a misura che i giorni sono più o meno chiari, con maggiore o minore dificoltà, si schiudono e quand’anche abbino una intrinseca sterilità danno occasione a formarne de’ buoni, onde per gradi si giunge alla scoperta delle verità; così la Francia s’è liberata dalle vessazioni della taglia arbitraria: ne è debitrice alle benefiche opere dell’Abate di San Pietro, le quali, lui vivente, altro più onorato titolo non ottennero che quello di «Sogni d’un buon Cittadino». Il commercio poi produce le ricchezze, non già le ricchezze producono il commercio; nessuna Nazione delle più commercianti ha mai cominciato con grandiosi capitali, che anzi la copia del denaro incarendo il vitto e le manifatture è un ostacolo all’utile commercio non che esservi di giovamento.[397] Quei che non sanno chiedere altri soccorsi che l’oro diverrebbero ben incerti di lor medesimi, se potesse il Sovrano confidare ad essi per prova il suo Erario a condizione che migliorassero il commercio della Nazione, e vedrebbonsi rinnovati in uno colla innetta domanda anche gli effetti che gli antichi adombrarono sotto la favola del Re Mida.

Da questo fonte deriva l’universale noncuranza e disistima in cui sono fra di noi le scienze economiche; e, come è assai più facile disprezzare un genere di cognizioni che l’acquistarle, molti vi sono che non dubitano di registrare fralle inutili coteste, che pur determinano il destino della miseria o della felicità d’uno Stato. Ne è avenuto quindi che alcuno non sia sin ora comparso in questa Provincia che alle pubbliche materie consacrandosi abbia dato in luce qualche ragionevole suggerimento in vantaggio di essa, opponendosi a ciò l’universale caligine del mistero e mancando non solo i stimoli della speranza de’ pubblichi impieghi, ma persino la stima degli uomini, la quale è pure un premio de’ più efficaci e de’ meno onerosi ad uno Stato;[398] quindi i giovani dottati di chiarezza di mente, di candor d’animo e di contenzione d’ingegno, qualità che d’un buon cittadino possono formarne un buon politico, o hanno dovuto, seguendo la corrente, gettarsi alla giurisprudenza forense, unica strada per ottenere impieghi e considerazione, ovvero hanno scelta la innocente e inoperosa vita de’ semplici cittadini, giacchè l’opinione e il costume pubblico fanno piegare e vincono quasi sempre l’animo d’un solo.[399] Et patrum invalidi referent jejunia nati.

Ovunque sieno uomini ivi può fiorire il commercio, soltanto che venga eccitata a dovere e diretta l’industria loro. Ma per conoscere come ciò si ottenga molte meditazioni vi si richiedono sull’indole del commercio, su i primi mobili del cuore umano, su i sistemi e le leggi sì del proprio paese che dell’estere Nazioni, molte cognizioni della storia naturale e delle manifatture e sopra tutto una costante e fredda disposizione della mente di rinunciare a qualunque opinione per radicata ch’ella sia, tosto che ad evidenza se ne dimostri la falsità: disposizione che ognuno degli uomini vanta di possedere e che pur pochi possedono, la quale sola basterebbe a formar l’uomo veramente onesto, giacchè è una verità dimostrabile che l’interesse privato d’ognuno è d’esser tale.

Se con tali ajuti venga riscosso l’intorpidito germe dell’industria in questi Popoli, sebbene non sia sperabile il riascendere al colmo dell’antica prosperità che abbiam veduta al principio di quest’opera,
e ciò per lo cambiamento avenuto nelle universali circostanze delle Nazioni, sarà però non solamente possibile, ma un necessario immancabile avenimento la più animata coltivazion delle terre, lo stabilimento delle manifatture, l’accrescimento delle ricchezze e quello che più di esse importa: l’accrescimento della popolazione. Vedremo accresciute le nozze de’ Sudditi accrescendosi i mezzi per guadagnarsi il vitto; vedremo gli Artisti e gli Operaj d’altri Stati correre a naturalizzarsi fra di noi a misura che sarà più sicuro e dolce il nido per essi, e così acquisterà la Sovrana Augustissima nuovi sudditi e nuova forza alla Corona[400] ed alla Provincia essendo, come altra volta accennammo, il numero de’ sudditi la vera misura della potenza de’ Principati.[401]

Ma prima ch’io venga a proporre i rimedj, unico scopo per il quale un buon Cittadino scopre i mali della Patria, devo ancora premettere che sin ora sono stato diretto nel mio lavoro dai fatti ed ora quest’ajuto mi manca, nè lascerò io di dire che temo che la mia ragion sola, destituta d’esempj e di mezzi, sia per corrispondere all’importanza del soggetto ed al mio desiderio. Se avessi potuto aver fralle mani le instituzioni e le leggi che l’Augustissima Sovrana ha fissate per il commercio ne’ Stati di Germania andrei con passo più sicuro; tuttavia, poichè questo non m’è riuscito, io prenderò per guida i disordini sin ora osservati e le leggi antiche di questo Stato, cercando di trarre dalla natura de’ disordini medesimi la meno tumultuosa riforma, la più semplice e la più addattata alle antiche leggi che sia possibile.

Come possa regolarsi il nostro commercio.

Il numeroso e ricco corpo de’ Commercianti rinchiudeva ne’ tempi dell’antico splendore fra di noi i più rigguardevoli e nobili Cittadini, i quali vivevano esenti da molta parte di carichi, erano giudicati con leggi proprie, sottratti nelle cause di commercio dalle giurisdizioni ordinarie e sottoposti quanto ad esse ai soli Abati e Consoli che fra di loro si eleggevano, cioè a dire formavano essi un Corpo separato talmente dal restante de’ Cittadini che, mentre gli uni erano Sudditi d’un Monarca, gli altri di fatto potevano risguardarsi come membri d’una piccola repubblica tributaria e protetta dai Duchi; ne aveniva quindi che, sì per la naturale sua robustezza quanto ancora per una sorte di spirito repubblicano, questo vasto Corpo da se medesimo potea reggersi ed avvanzare nel bene senza che i ministri del Sovrano pensassero a diriggerlo.

Devastato che fu per le fatalità che si sono vedute il buon sistema, nacque il bisogno che il Sovrano deputasse persone particolarmente destinate a porvi ordine; infatti e nello scorso secolo[402] e nel secolo presente[403] i Corpi pubblici e i Tribunali richiesero più volte una stabile deputazione sul commercio e, come abbiam veduto, varie Giunte si instituirono per autorità della Città, altre di Regi Ministri, ma poco o nessun utile portarono esse al commercio, poichè le Giunte Regie si composero di Giurisperiti stranieri affatto in questo regno e continuamente distratti dai principali doveri de’ loro Tribunali, cosicchè il commercio fu confidato ad essi come un’occupazione secondaria; e le Giunte civiche erano per lor natura destituite d’autorità bastante, nè è facile trovare una devozione al ben pubblico sì perfetta che senza risarcimento vi si sacrifichino tutti gl’interessi e i piaceri della vita per lasciarsi assorbire da una spinosissima incombenza che dapprincipio massimamente richiede tutto l’uomo. Questo è il terzo anno dacchè io, sciolto da ogni domestica e pubblica occupazione, con assiduità quasi non interrotta sto occupato per raccogliere i fatti e superare le lunghe e nojose difficoltà che m’impedivano di veder chiaro gl’interessi di questa Provincia, nè la costanza che mi vi ha condotto è una passione delle più comuni agli uomini.

La Deputazione stabile sul commercio non è dunque mai stata eseguita a dovere; e perchè lo sia conviene formarla di Ministri autorizzati dal Sovrano, provveduti de’ lumi che corrispondino all’instituto, consacrati principalmente al commercio e ricompensati delle loro fatiche.

Pare a primo aspetto difficile il trovar mezzi per supplire a questa fondazione nelle attuali circostanze del Regio Erario, ma se si ponga mente a quanto si è veduto nel capo ultimo della seconda parte v’è
il fondo per pagare questa instituzione, accrescendo il Regio Erario e beneficando tutta la Nazione.
Egli è di pubblica notorietà che più di treccento mila annue lire dividono fra di loro di puro utile i presentanei Fermieri generali. Una Camera di Commercio, composta di zelanti ministri proveduti di cognizioni delle scienze economiche più che non lo sono gl’Impresarj, deve regolare queste gabelle in guisa che rendano proporzionatamente di più; ciò è tanto più evidente quanto che non farà bisogno al nuovo consesso de’ Regi Ministri lo spendere in offici clandestini le somme che gl’Impresarj hanno spese.

Pure, dove si tratti d’assicurar la base su cui fondare un utile e stabile edificio, non v’è precauzione che possa dirsi superflua; perciò mio parere è che prendansi da più parti le notizie meno sospette e interessate che sia possibile de’ veri guadagni che annualmente fanno gli attuali Fermieri sulle Ferme, e da ciò prendasi norma per fissare con una sicura operazione i soldi a’ nuovi Ministri.

Questa Camera di Commercio può e deve portare rimedio a tutti i mali che abbiamo osservati, ma tutti i beneficj nostri possono portarsi ad un tratto ed è un beneficio quest’istesso il ritrovare il metodo col quale devono farsi. Passiamo ad esaminarlo.

La principale incombenza della Camera di Commercio sarà nel primo anno l’amministrazione delle Ferme per Regia economia; quest’incarico per la novità e vastità al bel principio richiede tutta l’occupazione de’ nuovi Ministri come è accaduto sempre ne’ nuovi Fermieri, sebbene coll’uso poscia restino di molto diminuite le sollecitudini. Con questa prima operazione oltre l’utile che Sua Maestà farà al Regio Erario ed alla Provincia, di che s’è parlato a suo luogo, la Clementissima Sovrana ecciterà le acclamazioni di tutti questi suoi fedelissimi Popoli i quali gemono sotto il giogo degl’Impresarj e si farà luogo a beneficare tanti Sudditi ed attaccarli al Reale suo servigio quanti ora sono i numerosi subalterni salariati dagl’Impresarj. L’Impresa del sale e quella del tabacco passeranno in amministrazione unitamente a quella della Mercanzia nelle mani della Camera di Commercio giacchè questo sarà il solo Corpo che fra di noi per instituto attendendo al commercio ed alle finanze, scienze tanto strettamente unite, sia anche in caso di meglio amministrarle. Sarà dunque la Camera di Commercio per rapporto all’entrata camerale in luogo e stato degli aboliti Fermieri.

Passato il primo anno, essendosi la Camera di Commercio resa famigliare coll’uso, l’amministrazione delle Ferme deve stabilire un metodo di registrare le merci e compillare e pubblicare una ragionevole tariffa ossia Dato della Mercanzia. Quanto al metodo di registrare, ella è cosa facilissima il riformarlo e di nessun aggravio, bastando l’obbligare gli Scrittori che stanno ai passaggi di registrare su un libro le merci che escono e su un altro quelle che entrano e, invece di scriverne una sotto l’altra come il solo azardo fa che si presentino, scriverle divise in classi e sotto quelle classi medesime nelle quali le ho io divise nel bilancio: cioè l’uscita delle merci in sei classi
e l’entrata in dodici. In questa guisa potrassi con una breve e sicura operazione fare in fine d’ogni anno una tabella del bilancio del nostro commercio, con che da qui innanzi potrà sapere e il Sovrano e i suoi Ministri quai progressi vadano facendo gl’interessi di questo Stato e qual sia la parte dove faccia bisogno rivolgere le più sollecite attenzioni. Quanto poi al Dato della Mercanzia dovrà aversi di mira d’aggravare la gabella delle merci forestiere di lusso, e a proporzione sollevare quelle che sono d’uso della Plebe; aggraveransi pure le merci che sono in concorrenza colle fabbriche nostre interne, e solleveransi a preferenza le manifatture de’ Stati soggetti all’Augusta Sovrana secondo i principj spiegati al capo secondo della seconda parte; e sarebbe pure da desiderarsi che quella fraternità che è stata benignamente proposta anzi ordinata prima sotto il Regno dell’Augusto Carlo VI, poscia sotto il felicissimo Regno presente, potesse in questa occasione stabilirsi, cosicchè gli Stati Ereditarj e la Lombardia proteggessero reciprocamente le loro manifatture alleggerendo nelle tariffe in favore vicendevole le gabelle. Compillato che sia il Dato della Mercanzia dovrà rendersi immediatamente pubblico, cosicchè sappia ognuno sotto qual legge vive e quali sieno i debiti e diritti che i sudditi hanno verso le gabelle. E quando in avenire gl’interessi del commercio esiggeranno di aggravare o sollevare qualche genere di merci a misura de’ cambiamenti che succederanno o nell’interno dello Stato, o ne’ paesi commercianti con noi, queste medesime mutazioni si pubblichino immediatamente, nè possi esiggersene l’osservanza prima che sieno pubblicate.

Nel terzo anno, restando coi metodi già stabiliti di molto più facile l’amministrazione delle Ferme, dovrà la Camera di Commercio consacrarsi di proposito alla costruzione d’un Codice Mercantile breve, preciso e chiaro e scritto in lingua volgare. Lo scopo di esso sarà ristabilire interamente l’antica giurisdizion consolare negli affari di commercio e il prevenire ogni cavillazione, lunghezza e tirannia nel commercio, come pure di spegnere lo spirito litigioso delle diverse Università e togliere in ogni modo ad esse la funesta libertà di rovinarsi co’ debiti. Darò in seguito un saggio di questa legislazione; per ora stabilisco soltanto che devonsi avere di mira gli antichi statuti nostri e rinnovarli quanto le circostanze de’ tempi lo permettono, devonsi avere di mira i saggi regolamenti che l’Augustissima Sovrana ha pubblicati ne’ suoi Stati Ereditarj e conformarvisi quanto è possibile nelle nostre circostanze.

Sarebbe una operazione troppo turbolenta l’abolire i Corpi delle Università, tanto più quanto che esse sono tributarie del Banco di S. Ambrogio, al quale non conviene al Sovrano stendere la mano nemmeno indirettamente se non ha in pronto un grandioso capitale; quindi nel codice mercantile dovransi registrare quelle leggi delle Università che si troveranno conformi alla retta ragione ed al ben pubblico, restando abolite tutte le non registrate, e fissando con equità il metodo dell’interna economia di esse Università, onde resti impedita in avenire la dilapidazione delle loro sostanze e la tirannica oppressione ai giovani ed ai forestieri che ricercano d’essere ammessi in queste società mercantili. Il cardine di questo cambiamento sarà il proscrivere i Curiali sotto qualunque pretesto dall’immischiarvisi. Prima però di stabilire alcuna legge sarà bene il fare spesse adunanze
de’ Commercianti e proporle ad essi, ascoltando le loro occorrenze e i suggerimenti loro, sempre però sottoponendoli al criterio dell’esame con una giusta e costante diffidenza.

La Camera di Commercio avrà dunque la facoltà legislatrice per rapporto al commercio, ma il codice e le tariffe sono di tale importanza che non dovranno aver forza di leggi nè promulgarsi che riconosciuti e confermati che sieno da Sua Maestà. Non potrà la Camera in avenire derogare in nulla al codice, ma dovrà consultare il Sovrano; bensì resterà la facoltà in avenire alla Camera di pubblicare i parziali cambiamenti alle tariffe che ogni anno le circostanze potranno richiedere.

La Camera di Commercio avrà la facoltà direttrice di tutti i Commercianti, sieno uniti in Corpi, sieno di fabbriche esistenti da sè; nè potrassi accettare verun progetto o sulle monete o sul commercio senza consultare la Camera del Commercio e trasmettere alla Imperial Corte unitamente al progetto la di lei consulta. Quanto poi all’attuale bisogno delle monete, sarà sua cura di construire una tariffa in cui venga tolto ogni arbitrio nelle monete d’oro e d’argento, ma considerandosi come semplici metalli venghino esse bilanciate coll’attuale proporzione che si dà alle paste nel nostro commercio, e, qualora i saggi pubblicati non sembrino bastantemente sicuri, se ne formino de’ nuovi con ogni attenzione, indi si formi la legge monetaria la quale autorizzata coll’autorità del governo porrà una volta fine al disordine delle monete che da più d’un secolo e mezzo sconvolge questa Provincia.

La facoltà direttrice della Camera di Commercio consisterà principalmente nel vegliare acciò le buone leggi stabilite non si trasgredischino, acciò i lavori si faccino giusta le ordinazioni inserite nel codice e per la tessitura e per la tintura de’ panni e stoffe, essendo di somma importanza che venghino fabbricate con certe leggi, onde ognuno sappia come sieno tessute e tinte, ed essendo pure importantissimo l’impronto della Camera ad ogni manifattura nazionale, per accreditarla come quello della moneta fa della bontà del metallo: senza di ciò non sarebbe mai sperabile che prendessero credito le nostre manifatture nemmeno nell’interno della Nazione.[404]

Dovrà invigilare la Camera di Commercio perchè le materie prime, sieno lane, sieno cotoni, sieno tinture destinate alle nuove fabbriche dello Stato, sieno veramente convertite in uso di esse, nè servano d’un pretesto ai contrabbandi.

Sarà cura della Camera di Commercio di proteggere e mantenere i diritti de’ Commercianti e di consultare il Governo quando convenga soccorrere col fondo della seta greggia qualche operajo o fabbricatore. In somma: qualunque cosa che abbia influenza col commercio o coll’amministrazione delle gabelle dovrà essere diretta col Consiglio della Camera di Commercio.

Per corrispondere a questi importanti doveri conviene fare scelta di abili ed onorati soggetti, versati nelle scienze economiche e dottati di zelo e di fermezza quale si richiede a sostenere ogni nuova introduzione, poichè, per benefica ch’ella pur sia in se medesima, non potrà mai andar esente dalle molte e forti contraddizioni che le moveranno gl’interessati ne’ disordini chi si voglion togliere.[405] Nè credo che sia possibile bastare a tante viste quando non sieno almeno quattro Consiglieri ed un Capo ossia Presidente con proporzionato numero di subalterni, nel che potrassi prendere norma dalle Camere di Commercio instituite da Sua Maestà ne’ Stati Ereditarj.

Da tutte le notizie che da diverse parti ho potuto radunare vengo assicurato come già si è detto che più di treccento mila annue lire guadagnino gli odierni Impresarj; e quando ciò si veda in effetto, ducento mila annue lire s’accreschino immediatamente al Regio Erario, settanta mila lire si assegnino all’anno per i soldi della Camera di Commercio e passi il rimanente alla cassa della seta greggia, acciocchè accresca quel fondo destinato da sua Maestà a soccorrere le manifatture. Potrebbe parere forse troppo larga la misura ch’io determino per la Camera di Commercio, ma si consideri l’ampiezza della incombenza, l’intero sacrificio del tempo, l’importanza de’ servigi che deve rendere, e sopratutto la necessità assoluta di proibire ad essa ogni altra sorte di lucro, e credo che troverassi proporzionata.

Saggio di leggi da proporsi.

I. I Ministri e gli Ufficiali della Camera di Commercio giurino su i Santi Evangeli e sul proprio onore che non accetteranno nè a titolo d’onorario, nè di regalo, nè in qualunque altra forma direttamente o indirettamente verun emolumento o servigio gratuito dai Commercianti. La pena di chi manca a questo giuramento sarà l’immediata cessazione, la quale sarà da Sua Maestà decretata senza verun riguardo anche al primo caso.

II. Sia ristabilita la giurisdizion consolare nel suo pieno e antico rigore, cosicchè gli Abati e Consoli rendino pronta e somaria giustizia
in tutte le controversie che nasceranno fra Commercianti qualunque sia la somma, restando perciò rimessi in pieno vigore gli antichi statuti e proibito a qualunque Dottore o Curiale o Giudice ordinario dall’immischiarsene. L’apellazione sia presso altri delegati dalla Camera de’ Mercanti i quali rivedano la sentenza e dopo ciò sia onninamente terminata la controversia. E tutte le decisioni sieno gratis.

III. Che nel tempo, nel modo e metodo de’ giudici mercantili s’intendino perfettamente revivere gli Statuti di Milano stampati nel 1480. Si dichiara nulla ed irrita qualunque ordinazione o sentenza di Giudice o Tribunale qualunque, quando sia contraria a questa legge o s’opponga in avenire alle sentenze e giudizj degli Abati e Consoli; e i Commercianti che avranno cercato di sottraersi in cause di commercio alla giurisdizion consolare saranno puniti in pena pecuniaria di cento zecchini ogni volta da applicarsi alla Camera de’ Mercanti, ovvero in sei mesi di carcere.

IV. Ogni Università, Camera, Scuola o Badia come ha i suoi Consoli e Abati scelti dal suo Corpo medesimo, così dal medesimo suo Corpo scelga il Cancelliere o Sindaco restando proibito a verun altro, che non sia di esso Corpo e non eserciti attualmente l’arte, d’immischiarvisi.

V. Al fine d’ogni anno gli Abati, o Consoli, o sotto qualunque nome si sieno i capi delle dette Università, Scuole, Camere o Badie saranno tenuti rendere i conti della loro amministrazione a tutto il loro Corpo e la Camera di Commercio dovrà riconoscerli e approvarli ogni anno e procedere per il risarcimento contro i mali amministratori.

VI. Non sarà lecito a veruno de’ sopraddetti Corpi mercantili di fare verun debito o imprestito o spesa straordinaria se non si radunino tutti i membri di esso Corpo avvisati della cagione e non sieno a voti secreti tre parti delle quattro d’accordo di contraere questo debito o di dare il denaro della loro Comunità al tale uso; di più, acciò la determinazione sia valida, dovrà farsi alla presenza d’un Consigliere della Camera di Commercio il quale potrà consigliare, ma non potrà dare suffragio nella ballottazione.

VII. Si darà piena e intera fede ai libri de’ Commercianti in giudizio come se fossero pubblici atti rogati da Notaro, se però i libri saranno tenuti nella forma che siegue altrimenti non potranno ottenere veruna fede.

VIII. Quando un Commerciante comincia un nuovo libro deve presentarlo all’Abate, o Console, o qualunque sia il nome al capo della sua Comunità il quale scriverà il proprio nome, il giorno, il mese e l’anno in lettere e non in numeri alla sommità della pagina dove devesi cominciare a scrivere. La scrittura deve essere continuata cosicchè non resti spazio fra una partita e l’altra di inserirvene una terza. Non deve essere scritto nel margine e quando voglia terminarsi il libro deve chiudersi con la firma del capo della Università col giorno e l’anno come sopra; e ciò si faccia gratis sotto pena d’essere rimosso ed inabilitato per l’avenire all’officio.

IX. All’occasione d’un fallimento gli Abati della Camera de’ mercanti ex officio prenderanno i libri del Commerciante fallito e li sigilleranno e terranno in deposito per produrli in giudizio.

X. Il giudizio de’ fallimenti farassi nella forma seguente. Si porranno i nomi de’ componenti la Camera de’ Mercanti in un bussolo,
ed ogni volta si estraeranno otto di essi, i nomi de’ quali estratti si pubblicheranno nella Camera de’ Mercanti dando 24 ore di tempo al fallito o ai creditori per ricusarne ciascuno due quando lo voglino. Allora in luogo de’ ricusati altri se ne estraeranno dal bussolo nè potransi fare ulteriori dificoltà. Radunati gli estratti in Consiglio sotto la presidenza d’un Console o Abate, si esamineranno i libri del fallito e ritrovandoli legalmente costrutti sopra di essi si porterà la sentenza se il fallito sia innocente o doloso.

XI. Prima di dare la sentenza in caso di fallimento dovranno gli estratti ad alta voce proferire un solenne giuramento di dare la loro sentenza senza parzialità e con pura inspezione della verità del fatto. I voti si raccoglieranno per ballottazione secreta e ad ogni sentenza di fallimento dovrà intervenire un Consigliere della Camera di Commercio, il quale però non potrà mai avere suffraggio, nè dare voto consultivo in cause simili, ma bensì invigilare alla esatta osservazione degli ordini come assistente Regio.

XII. Quando il fallito sia dichiarato innocente, s’egli avrà industria, si consultino dalla Camera di Commercio i mezzi per soccorrerlo e rimetterlo se si può anche con sovvenzioni del fondo della seta greggia destinato al commercio.

XIII. Quando il fallito sia dichiarato doloso si rimetta in vigore l’editto del Duca Galeazzo Maria Sforza del 1473 12 febbraro che trovasi nel codice de’ Statuti stampati nel 1480, fol. 238, tergo, e questo delitto sia riposto fra i pubblici e decretato pena capitale senza speranza di grazia. Il reo resti abbandonato all’azione fiscale per essere secondo questa legge giudicato da tribunali di giustizia.

XIV. S’intenda irrito e surretto qualunque salvocondotto dato a un fallito doloso, sebben anche fosse segnato dalla mano del Principe e s’intenda inutile la desistenza, pace o supplica in favore di esso fatta da’ Creditori in qualsivoglia modo, dovendosi considerare il reo come violatore della fede pubblica di cui non sono vindici i suoi creditori.

XV. In caso d’assenza del fallito doloso se ne faccia per via ordinaria il processo in giustizia e sia condannato alla pena di morte in contumacia e il suo nome e la condanna affissa ai luoghi pubblici della Città.

XVI. I beni del fallito Commerciante sia mobili sieno immobili cadano immediatamente in dominio de’ creditori, i quali nominino due di essi a farne un pronto ed esatto inventario e stima, indi se li dividino egualmente pro rata del loro credito non avendo riguardo nè al tempo del credito, nè alla forma della scrittura istromentata o no, nè a verun altro privilegio e ciò in conformità dell’antico nostro statuto.[406]

XVII. Se alcuno de’ creditori con frode avrà cercato di accrescere la somma del suo credito, ovvero se un non creditore con frode avrà cercato di farsi creder tale, sieno puniti in tanta pena pecuniaria quanto è il torto che volevano fare e ciò cada in profitto de’ veri creditori e si divida su tutti essi in ragione del loro credito, come prescrivano pure gli antichi statuti.[407]

XVIII. Non sia lecito a verun Commerciante il vendere veruna merce che oltrepassi il valore di lire imperiali cinquanta se non ne riceve l’immediato pagamento, ovvero una carta d’obbligazione in cui
si obblighi il debitore al pagamento nel termine di mesi sei, specificando il prezzo convenuto, la cosa comprata e il giorno, mese ed anno in lettere e non per numeri. Il Commerciante venditore che non osserverà questa legge sia punito con multa pecuniaria corrispondente all’intero valore della merce data a credenza e questa irremisibilmente s’unisca al fondo della seta greggia.

XIX. Passati sei mesi il Commerciante dovrà presentare alla Camera di Commercio la carta suddetta qualora non sia stato pagato interamente del suo credito e ciò sotto pena della multa pecuniaria d’uno scudo per ogni settimana che avrà diferito a presentarla, da applicarsi irremisibilmente metà al delatore che sarà tenuto secreto e metà al fondo della seta greggia.[408]

XX. La Camera di Commercio dovrà coi più solleciti mezzi delle leggi costringere chi ha sottoscritta la carta d’obbligo al pronto pagamento senza riguardo a grado o privilegio di persona e i Tribunali e giusdicenti dovranno prestarle ogni più efficace ajuto per l’osservanza di questa legge.[409]

Tali abbozzi di leggi ho creduto di non dover preterire poichè risguardano essi particolarmente uno de’ primarj ostacoli al commercio, cioè la frequenza de’ fallimenti cagionata e dall’impunità del delitto e dalla tirannia pur troppo frequente di diferire il pagamento ai Mercanti, alcuni de’ quali e non pochi vanno in precipizio col nome di molti debitori su i libri. Per altro sono questi come il primo getto d’un uomo che isolato e da sè solo medita e questo discutendosi e proponendosi da esaminare dovrebbe poi ricevere una più esatta e sicura forma.

Quai riforme possano immediatamente farsi con Dispacci Sovrani.

I. Per formare un ragionato sistema di giurisprudenza fra di noi converrebbe con un nuovo codice abolirne ogni altro: pure soltanto che la Maestà sua ordinasse frattanto a tutti i Tribunali e Giudici, nessuno eccettuato, di pubblicare in uno colla sentenza la legge su cui la fondano e se proibisse di potere allegare l’autorità de’ Dottori privati avanti di essi avrebbe tolto in un sol colpo l’arbitrio de’ giudicj, l’incertezza della proprietà e la cavillazione forense; e ciò senza urtare contro veruna legge scritta, poichè non trovasi nè nelle Nuove Costituzioni, molto meno poi ne’ statuti, il privilegio o per dir meglio la licenza di giudicare senza dar ragione; nè questa impunità d’arbitrio fa verun bene o al Sovrano o ai Sudditi, nè v’è altro Tribunale di giustizia al mondo, ch’io sappia, che usi di così giudicare.

II. Credo indispensabile che Sua Maestà per un Reale Rescritto sottragga immediatamente ogni causa di commercio dal giogo della cavillazione forense, e rimetta in pieno vigore le antiche leggi degli statuti, dichiarando che ogni causa di negoziazione, nessuna eccettuata debba giudicarsi sommariamente dai Giudici della Camera de’ Mercanti, nè possa uscire nemmeno in grado d’apellazione dalla medesima Camera, la quale la riveda secondo gli statuti de’ quali s’è parlato, parte prima, capo primo.[410]

III. La legge inserita nelle Nuove Constituzioni (pag. 189), che proibisce ai Commercianti d’uscire da questo Stato, merita d’essere espressamente abolita dall’Augustissima Sovrana, ma devesi sostituire a questa legge una vera e soda proibizione, col trattarli in guisa che non possa in essi nascere la volontà d’uscirne.

IV. Pare indispensabile che la Maestà Sua faccia a questi Sudditi il segnalato beneficio di derogare a qualunque legge contraria al commercio de’ grani, lasciandone libera la circolazione e l’esportazione
ed abolendo i Capitani del Divieto. Quel tenue profitto che la Camera riceve dall’Officio de’ Grani lo ricompensi dividendolo sull’imposta generale dello Stato, il che sarà insensibile ai Popoli, giacchè anche al dì d’oggi cotesto è un tributo che cade sulle terre, se non che la percezzione come è stabilita presentemente è rovinosa per il commercio de’ grani, laddove ripartita su i fondi sarà un insensibile accrescimento. Il Magistrato con ciò perderà de’ suoi utili, ma le querele di pochi, altronde ben proveduti, non bilancieranno il bene fatto a un milione di sudditi.

V. Quanto alle pecore saranno tolti gli ostacoli alla coltura di questo importante capo di commercio soltanto che la Maestà Sua rimetta in pieno vigore la legge dello statuto (stampato nel 1502 a fol. 119) della quale s’è parlato parte seconda, capo 4, § 6.

VI. Finalmente, poichè Sua Maestà con replicati Sovrani Dispacci si è degnata di ordinare che il commercio in grande non pregiudichi alla Nobiltà, stimolando così i Nobili con provida legge a contribuire al commercio di questa Provincia, credo opportuno l’ottenere dall’Ordine di Malta per la Lombardia Austriaca questo privilegio che ha accordato ad altri Stati in Italia, il che toglierà tutte le difficoltà e dispute cogli altri Corpi di Nobili, attesa la stima che giustamente da noi fassi di quell’Ordine sacro militare.

Conclusione dell’opera.

Colla erezione dunque della Camera di Commercio e con poche e non turbolente providenze la Sovrana Augustissima avrà posto rimedio ai mali enormi che infettano questa Provincia da due secoli a questa parte e ciò senza discapito del Regio Erario e senza aver dato una scossa violenta allo Stato, giacchè i sistemi corrotti che sono dalla loro instituzione s’assomigliano agli edificj logorati dai secoli intorno i quali pericolosa cosa è il volervi rimediare con molto impeto.

Con questa dolce e facile operazione i Sovrani Dispacci, destinati a beneficare e proteggere l’industria di questi Sudditi, non dovranno più, mendicando in giro il parere di tanti Dicasterj, perdere ogni forza e rimanere infruttuosi come sin ora lo sono pur troppo stati. Verranno posti i giusti argini a quel torrente dello spirito curiale che sin ora ha insterilito e oppresso questa Provincia. Verrà aperta la carriera ai sudditi per avere onori e lucro col mezzo di cognizioni veramente utili alla Patria. Si rianimerà l’industria, ritorneranno le leggi a poter più che gli uomini, si accresceranno il lustro, la ricchezza e la popolazione, in somma sarà questa una nuova epoca in cui questa remota Provincia, sotto il Regno Immortale dell’Augustissima Sovrana, dovrà conoscere quanto bene possa ricevere l’umanità da un provido Monarca assistito da illuminati Ministri.

 

NOTE

[1] Carli, Delle monete, to. 3, dissert. 1, § 2.

[2] Annali d’Italia, tom. X, pag. 41.

[3] Rerum italicarum scriptores, t. XXII, pag. 959.

[4]

P-VERRI-Considerazioni-TAVOLA-H

così ci attesta la disputa di Tommaso Mocenigo doge di Venezia riferita dal Sanudo, Rer. italic. script., tom. XXII, pag. 954.

[5] Sanudo, loco citato.

[6] Galvaneo della Fiamma scrittore del XIV secolo ci dà una idea della ricchezza di Milano sino da’ que’ tempi; così dic’egli: «Expensæ antiquorum erant fere nullæ, sive nullius ponderis quia homines etiam in æstate vix vino utebantur … usus incisorum in mensis non erat, immo vir et uxor in una paropside comedebant, et in tota amila unus erat in mensa scyphus, vel duo ad plus. Non erant candelæ de sepo vel cera, sed nocte coenabant cum una face accensa. In prandio comedebant rapas, vel olera cocta cum carnibus, sed in coena carnes reservabantur, et tribus vicibus in septimana carnibus utebantur … Nunc vero in præsenti ætate priscis moribus superaddita sunt multa ad perniciem animarum irritamenta; nam vestis pretiosa et artificio exquisito et ornatu superfluo circumtecta per totum. In ipsis vestibus tam virorum, quam mulierum aurum, argentum, perlæ inseruntur; frixa latissima vestibus superinducuntur. Vina peregrina et de partibus ultramarinis bibuntur. Cibaria omnia sunt sumptuosa. Magistri coquinæ in magno pretio habentur ec.». Vid. Rerum italic. script., tom. XII, pag. 1034. Veggasi pure la cronica di frate Francesco Pippino scritta circa l’anno 1314 e Muratori, Dissertazioni sopra le antichità italiane, dissertazione XXIII, tom. I.

[7] Disputa citata di Tommaso Mocenigo, Rerum italic. script., to. XXII.

[8] Decreto di Francesco Sforza stampato negli Statuti de’ Mercanti di seta, oro e argento, pag. 33.

[9] Tridi, Informazione del danno proceduto a S. M. ed alle città dello Stato dall’imposizione dell’estimo della Mercanzia e dall’accrescimento del terzo del dazio, e dall’introdduzione delli panni di lana, ed altre merci forestiere, ed all’incontro dell’utile, che ne risulterebbe a levarli. Rappresentata da Gio. Maria Tridi, cittadino Comasco, stampata circa 1640; Somaglia, Alleggiamento dello Stato, pag. 695. Libro de’ Dati e tasse, stamp. nel 1686, pag. 157. Relazione de’ Fabbricatori di panno al Senato 1662. Consulte del Senato 1668 15 marzo, della Città 1715 11 ap.le e dello Stato 1724 11 feb.

[10] «Quid dicam de Mediolano potentissima Italiæ civitate Galliæque Cisalpine Metropoli, in qua tam multa tamque diversa artificum genera tantaque frequentia ut inde vulgo sit natum proverbium: “qui Italiam reficere velit, eum destruere Mediol. debere”» Klock, De ærario, lib. 2, cap. 36, n. 32, p. 598, ædit. Norimberg, 1671.

[11] Somaglia, Alleggiamento ec., pag. 557.

[12] Consulta del Senato 1668 15 marzo.

[13] Abbiamo nel 1442 1 gennaro il privilegio accordato dal Duca Filippo Maria ad un Fiorentino maestro di lavori di seta, che venne a stabilirsi in Milano. Il privilegio contiene un annuo stipendio, o assegnamento che vogliam dire, e l’esenzione d’ogni carico per dieci anni a lui e a’ suoi Operaj. Abbiamo un simile privilegio accordato nel 1443 1 febb.° ad alcuni Genovesi per somigliante cagione: e d’altri sì fatti n’è rimasta memoria, da i quali può ognuno inferire, che le privative ossia monopolj all’introduzione delle nuove manifatture non si contavan allora fra i mezzi per far fiorir il commercio. Abbiamo nel 1514 23 dicembre l’immunità totale dai carichi concessa ai Tessitori dal Duca Massimiliano Sforza. Di tutto ciò ne abbiamo prova nel documento segnato n° 3 e aggiunto alla consulta della Real Giunta del Censimento a S. M. del 1732 7 giugno. E fuor d’ogni dubbio poi ce ne assicura il documento glorioso alla memoria dell’Imperador Carlo V, stampato cogli Statuti de’ Lavoratori di seta nel 1591, pag. 43, nel quale si legge così: «Carolus Divina Favente Clementia R.norum Imp. S. A. In universis et singulis etc. Salutem. Habbiamo visto li privilegii, et esenzioni concessi alli Tessitori dell’arte dell’oro argento e seta di questa inclita Città di Milano, et perchè non meno desideriamo che questa inclita Città di Milano sia de honorevoli artificii adornata, che abbiano fatto li retroatti Principi d’essa, però conoscendo che detti Tessitori sono privilegiati da molte esenzioni et massime alloggiamento de’ Soldati … per tenor delle presenti ordiniamo, e comandiamo non dobbiate molestare nè aggravare in niun modo li detti Tessitori nè gli lor beni mobili seu immobili in qualunque luogo del dominio nostro situati, nec etiam li Massari di detti Tessitori sì per li carichi imposti quanto che s’imponeranno per l’avenire perchè intendemo siano preservati esenti … e questo alla pena di ducati 500, applicandi alla Camera nostra in caso d’inobedienza et altra sotto pena della indignazione nostra. M.lani die 6 martii 1526».

[14] Accordato dal Duca Giangaleazzo Maria Sforza 1493 17 luglio. Documento annesso alla consulta del Censimento 1732 7 giugno num.° 3.

[15] Nel 1409 27 aprile fu fatta una imposizione sull’estrazione de’ panni, delle tele e de’ fustagni e d’altre simili interne manifatture, ma nel mese seguente ai 5 di maggio per pubblico bando fu rivocata da Giammaria Visconte, come si vede nel citato documento (n° 3). Un avvenimento consimile racconta la storia del commercio inglese sotto la Regina Elisabetta. Aveva questa gran Principessa nell’anno 43 del suo regno accordato a certi particolari Mercanti alcuni privilegj esclusivi. Il Parlamento le rappresentò il danno che ne sarebbe avvenuto e quella generosa Regina se ne disdisse tosto revocando immediatam.te il privilegio surrettizio e rispose ai Deputati: «Vous m’avez fait revenir d’une erreur qui procédoit de mon ignorance et non de ma volonté! J’aurois vu ces nouveaux réglemens tourner à mon deshonneur, moi à qui rien n’est si cher que le salut et l’amour de mon Peuple, si vous ne m’aviez détrompée et fait connaître les harpies et les sangsues qui m’avoient séduite. Que mon coeur ou ma main périssent plutôt que mon coeur ou ma main accordent à des monopoleurs des privilèges préjudiciables à mon Peuple» Disc. politiqu., tom. 2, à Amsterdam, 1756, pag. 286.

[16] Esprit des Loix, liv. XX, chap. XVI.

[17] «Il ne seroit pas plus raisonnable que des gens de loi demandassent à des Marchands une decision sur les points de droit, qu’il ne l’est que ceux-ci soient obligés de recourir à la decision de ceux-là sur des points de commerce. L’ignorance des Personnes conultées sur les points en question étant égale des deux parts» Essai sur les causes du déclin du commerce étranger de la Grande Bretagne, tom. 1, pag. 251.

[18] Statuti di Milano stampati nel 1480 e pubblicati in prima l’anno 1390 come in essi statuti si legge fol. 219 tergo. Ivi a fol. 220 così sta scritto: «Consules et Abates judicent absque consilio alicuius sapientis … quod quæstio mota coram dictis consulibus non possit ad alium judicem referri».

[19] «Nulla persona … possit apellare, seu apellationem interponere ab aliqua sententia definitiva, vel interlocutoria cujuscumque quantitatis sit lata vel ferenda per Dominos Abates Mercatorum – i quali la rivederanno – ducali auctoritate» Statuti citati, fol. 220.

[20] «Quod Officiales et Consules non debeant audire Advocatos, nec Procuratores in quæstionibus coram eis vertentibus» Statuti suddetti, fol. penultimo.

[21] Savary, Parfait Négociant, tom. 1, par 2, lib. 2, chap. 9 pretende che Giovanni di Bethencourt sia stato il primo a scoprire le Canarie nel 1402 e che Massiot suo nipote, al quale il zio partendo le aveva lasciate in deposito, le vendesse al Pr. Enrico. Ma ci vuole una passione ben forte per la Nazione Francese per combinare il disinteresse del zio, la delicatezza d’un Real Principe che alla testa d’una flotta compera da un privato un Regno e la debolezza del nipote che s’indusse a venderlo.

[22] «Par la découverte du Cap de Bonne-Esperance et celles qu’on fit quelque tems après l’Italie ne fut plus au centre du monde commerçant, elle fut pour ainsi dire dans un coin de l’univers» Esprit des Loix, liv. XXI, chap. VII.

[23] «Talibus iactatæ incomodis Civitati (Venezia) malum etiam inopinatum ab longinquis gentibus et regionibus extitit. Petri enim Pascalici apud Emanuelem Lusitaniæ Regem Legati literis patres certiores facti sunt regem illum per Mauritaniæ Getuliæque oceanum convehendis ex Arabia, Indiaque mercibus itinera suis tentata sæpe navibus, demum explorata compertaque habuisse: navesque aliquot eo missas pipere et Cinnamis ejusmodique rebus onustas Olissiponem revertisse: itaque futurum ut … nostri imposterum cives parcius angustiusque mercarentur, magnique illi proventus qui urbem opulentam reddidissent toti pene terrarum orbi rebus Indicis tradendis Civitatem deficerent … Ita Ægiptios Venetosque instuta antiquitus mercaturæ ratio quæ intercipi nullo posse tempore videbatur alio conversa prope deseruit» Petri Bembi Reru. venet. historiæ lib. VI, Degl’Istorici delle cose veneziane i quali hanno scritto per pub.co decreto, tom. 2, pag. 189 e 197.

[24] L’isola di Ceylan, che i paesani chiamano Ceylon, è la sola terra dove la natura produce la cannella detta dagli antichi cassia e cinnamomo.

[25] Bengala è un Regno dell’Indie intorno al golfo di cotal nome; è attraversato dal Gange ed è una delle 23 Provincie ond’è composto l’Impero del Mogol. Quivi si trova la lacca, che serve a colorire le tele dette appunto indiane, alla cera di Spagna e a molte vernici e oltracciò abbonda il paese di seta, cotone, zucchero, pepe, indaco, gengioio, etc.

[26] Siam, uno dei più possenti Regni dell’Indie, ricchissimo per le miniere d’oro, argento e altri metalli, abondante d’avorio, muschio, e d’altri moltissimi frutti.

[27] Macao, città situata in una penisola dell’oceano orientale nella Provincia di Canton, dove nei tempi de’ quali parliamo facevasi tutto il commercio della China di porcellane, drappi di seta, the, vernici ec.

[28] Le isole Molucche erano in que’ tempi tutte fertili di droghe particolarm.te di garofani. Gli Olandesi per conservare a sè soli questa droga preziosa ve li hanno sradicati dappoi totalmente ed ora non ne nascono che nella isola di Amboina, anch’essa una delle Molucche. Chi bramasse più distinte descrizioni della naturale storia delle Indie Orientali e de’ stabilimenti e commercio degli Europei in quelle parti può soddisfarsi nel Dizionario di Savary.

[29] Siami lecito adottare il linguaggio degli scrittori francesi di commercio, presso de’ quali Levante chiamasi la costa del Mediterraneo della Grecia, Asia Minore, dell’Egitto etc., Alep, Smirne, Alessandria ecc., Oriente, comprende la costa meridionale dell’Asia e orientale dell’Affrica e le isole intermedie, Ceylan, Sumatra, Borneo, Iava ecc. Il commercio del Levante prima della guerra presente era per la maggior parte in mano de’ Francesi coi panni de’quali detti londrins si vestono i Levantini. Gl’Inglesi e gli Olandesi ancora qualche sorte di commercio vi fanno, nè i Veneziani pure al dì d’oggi l’hanno interamente perduto: il loro commercio de’ damaschetti in Levante frutterà alla città di Venezia circa 250.000 (dugento cinquanta mila) ducati annui d’argento. Sin ora questa manifattura di molto uso in Levante è privativa de’ soli Veneziani.

[30] I Persiani popoli molli e magnifici furono de’ primi ad usare la seta, poco in uso presso ai Romani, sino al tempo di Giustiniano e allora se ne introdusse nella Grecia e Asia minore. L’anno 1130 Ruggero Re di Sicilia ne trasportò in quell’isola nel ritorno dalla Terra Santa. Bottino fu questo portato da Atene, Corinto, e Tebe sue conquiste. Di là passò l’arte di coltivarla nella Calabria, e non prima di Lodovico il Moro, cioè dopo la metà del secolo XV si videro piantati i gelsi in Lombardia. Chi desidera più ampie notizie veda Savary, Dizion., artic. soye, e Antiquitates Italicæ medii ævi, tom. 2, dissert. XXXV, pag. 400, e Procopio, lib. 4, cap. 17; De bello gothico.

[31] Voltaire, Hist. gener., tom. III, pag. 43.

[32] «Les riches manufactures de soye, qui eurent leur commencement sous François Premier, ne firent de rapides progrès que sous le Règne de Henri IV. Ce Père tendre de ses Peuples se proposoit d’encourager de plus en plus la culture des terres et les manufactures» Remarques sur le commerce et la navigation, pag. 4.

[33] «Nous n’avions dans ce tems-là qu’une seule fabrique de draps en Languedoc établie dès le comencement du XVI siècle par des Gentilshommes du nom de Varennes dans un lieu apellé Saptes auprès de Carcassonne» Remarques sur plusieurs branches de commerce, et de navigation, pag. 139.

[34] Fra i quali le constituzioni de’ Maestri di seta, come si vede nelle medesime stampate.

[35] Sussidio straordinario di 300.000 scudi (trecento mila) imposto nel 1515. Muratori, Annali d’Italia, tom. X, pag. 117.

[36] Annali d’Italia, tom. X, pag. 222.

[37] Come da’ Reali Dispacci del 1573 e 1574 ne’ quali se ne ordina la reintegrazione non seguita poi come può vedersi nella Risposta della Congregaz.e dello Stato al progetto del Conte Prass.

[38] Accrescimento del sale di soldi venti lo stajo nel 1545. Altro antecedentemente ne era già stato fatto nel 1534 di altri venti soldi. Somaglia, pag. 699.

[39] Si sono inventate le gabelle della Macina straordinaria che era una imposizione di soldi 46 per ogni moggio di farina alla introdduzione in Città ed il dazio del vino. Somaglia, pag. 699.

[40] Di questi tempi e dell’indole del Governo d’allora ne parla assai chiaramente il Muratori, Annali d’Italia, tom. X, pag. 220, 222, 291 e 316.

[41] L’ordine venne nel 1547 ai 10 di settembre come si vede nel Piazzoli, Discorso sopra l’origine delle gravezze dello Stato di Milano, stampato nel 1614, pag. 8, e in Somaglia, pag. 157.

[42] Se crediamo al Somaglia l’imposizione fu di 400.000 scudi da pagarsi in 16 mesi per una volta, ma Piazzoli, che ha stampato quasi 40 anni prima, e che era Sindico del Contado di Como e conseguentem.te al caso d’esserne meglio informato, dice che la imposizione fu di 300.000 scudi, pag. 8. Così pure il Tridi nella Informazione ec. stampata nel 1640 cioè 13 anni prima del Somaglia.

[43] Somaglia, pag. 87 ed un antico m.s. presso i Ragionati Generali dello Stato.

[44] Somaglia, pag. 162, e Relazione del Censimento del 1750, pag. 14.

[45] Piazzoli, pag. 9.

[46] Relazione, stampata, del Censimento, pag. 14.

[47] «Les salaires des ouvries dépendant du prix haut, ou bas au quel se vendent le blé, etc.» Essai sur le causes du déclin du commerce étranger de la Grande Bretagne, tom. 1, pag. 230. Il lavoro delle manifatture tanto è più caro quanto lo è la giornata dell’Artigiano, e questa dovette incarire incarendo il vitto. I possessori di terra costretti a pagare 300.000 annui scudi di più al Regio Erario dovettero accrescere il prezzo de’ generi quanto poterono per risarcirsene. Così, scaricandosi sempre i tributi sul più debole, giunsero all’operajo. Le nostre manifatture rese più care cominciarono ad essere posposte a quelle fabbricate in paesi meno aggravati.

[48] Tridi, Informazione ec., citato.

[49] L’accrescimento del tributo accresce il prezzo de’ generi e delle manifatture, il loro prezzo accresciuto ne diminuisce lo spaccio; da ciò minor coltivazione e travaglio, indi minor popolazione, e in conseguenza minor rendita al Sovrano, e necessità con essa di nuovo accrescimento. «Plus on se ruine, plus il devient indispensable de se mieux ruiner» Mirabeau, Théorie de l’impôt, pag. 119. «Il n’y a point d’état où l’on ait plus besoin de tributs que dans ceux qui s’affoiblissent de sorte que l’on est obligé d’augmenter les charges à mesure que l’on est moins en état de les porter» Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur decadence, chap. XVIII.

[50] Dati e tasse diverse, stampate nel 1686, pag. 157, e Relazione de’ Fabbricatori di panno al Senato 1662.

[51] Libro suddetto de’ Dati e tasse, pag. 157.

[52] Piazzoli, pag. 14.

[53] Somaglia, pag. 211.

[54] Instruzione della Città di Milano al Marchese Cesare Visconti suo ambasciadore a Madrid segnata l’ultimo d’ottobre 1627.

[55] Il Tasso della Cavalleria fu di due scudi il mese per ogni Cavalleggero e scudi 4 e soldi 91 per ogni uomo d’armi. Piazzoli, pag. 14, Somaglia, pag. 211.

[56] Piazzoli, pag. 15.

[57] David Hume nel discorso sull’imposizione dice che un accrescimento di carico non è sempre un accrescimento di rendita: può parere questo un paradosso a chi non vi rifletta, ma i carichi cresciuti a un certo segno costringono gli oppressi abitanti a fuggire e cercare altro cielo più clemente e benigno. Quindi è che, diminuendosi il numero de’ sudditi, minori si rendono ancora tutte le regie entrate, e specialmente quelle del sale e della Mercanzia, che tra noi sono le più considerabili. Questa partenza poi è tanto più facile in una piccola Provincia come la Milanese d’onde i Cittadini escono con poca spesa, corto viaggio e senza accorgersi nè per la lingua, nè per i costumi d’aver mutato Patria.

[58] «La richesse du Gouvernement est fondée sur la richesse nationale» Réflexions sur la nécessité de comprendre l’étude du commerce et des finances dans celle de la politique, pag. 27. «La richesse d’un État, soit démocratique, aristocratique, soit monarchique, ne consiste que dans le nombre des habitans, la culture des terres, le travail industrieux et le commerce. Les peuples font donc toute la richesse du Roi; c’est là qu’est son véritable trésor» Dutot.

[59] Piazzoli, pag. 11.

[60] Gabella della carne imposta nel 1576. Somaglia, pag. 700.

[61] Murat., Annal. d’Italia, tom. X, pag. 484.

[62] «A comune beneficio fece fabbricare una magnifica gualchiera per l’arte della lana presso la fontana dell’acqua vergine, con promuovere anche in altre maniere il lanificio di quella Città» Annali d’Italia, tom. X, pag. 507.

[63] Savary, Le parfait Négociant, tom. 1, part. 2, chap. IX, pag. 575, edit. di Genevra, 1752.

[64] «Nullus nisi ex alterius damno quæstus est» Senec., De Ira, lib. 2.

[65] «La richesse, le nombre d’un Peuple sont la mesure de l’empressement, et de la confiance de ses alliés, du respect et du ménagement de ses rivaux» Ustariz, Preface.

[66] Tridi nella Informazione ec. così s’esprime: «Essendosi poi supplicata S. M. per sollevamento di detto stabile s’addossasse parte del suddetto Estimo alla Mercanzia, si compiacque sebbene con qualche renitenza condiscendere alla petizione con riserva però ben degna della sua Real prudenza che l’Estimo della Mercanzia non fosse perpetuo, ma ammovibile a suo beneplacito, come per la citata lettera de’ 8 apr. 1565».

[67] Ciò si vede dalla scrittura stampata e pubblicata allora col titolo: Relazione del riparto dell’Estimo della Mercanzia della Città di Milano fralle Camere, Università ec. 1595. Ivi il valor capitale ascende a lire 21.316.145 e soldi 79. Dal confronto che ho fatto della somma totale e delle parziali trovo che (valutando lo scudo d’allora come si deve a sol. 110) l’imposizione fu in ragione di sol. 14 per ogni lire 100 ossia lir. 7 sol. 4 den. 2 per ogni lir. 1.000. Da ciò restano convinti di falsità gli Orefici e Ricamatori i quali nella lor relazione m.s. al Senato del 1662 osano asserire che l’imposizione fosse fatta d’uno per mille, e così esaggerano il loro antico capitale, gli Orefici lo fanno ascendere a zecchini 450.000 e i Ricamatori a zecch. 60.000. Dalla citata relazione autentica gli Orefici e Giojellieri avevano di capitale 134.271 lire e scudi 176 di tassa e sol. 12 ed i Riccamatori nemmeno si vedono nominati tanto poco era allora in uso la loro arte. Con questo sicuro documento alla mano convinco pure il Tridi che in vece di 27.958 asserisce 25.000 scudi imposti al Mercimonio di Milano. Errò pure esso Tridi scrivendo che tutta la mercanzia dello Stato fosse tassata scudi 38.708, dovette essa concorrere per la sesta parte del Mensuale, e conseguentemente in scudi 50.000, come da antico m.s. delle merci dello Stato di Milano conforme risulta dal conto di Barnaba Pigliasco ragionato dell’estimo 1594: «Avrei a fare di troppe annotazioni se mi fossi fatta legge di rimarcare le contraddizioni che ad ogni passo s’incontrano ne’ nostri autori e nelle antiche nostre carte. I fini privati hanno offuscato molto, ma l’indolenza e la facilità di ricopiare indistintamente chi ha scritto prima hanno accresciuta la confusione. Cum indagare vera pigeat, ignorantiæ pudori mentiri non piget».

[68] Piazzoli, pag. 10. Relaz.e del Censimento, pag. 13.

[69] «Questo estimo era cosa difficilissima per natura e per difetto del soggetto, poi per essere quest’estimo cosa nuova non più fattone una simile a questa per il passato che si sappia, dalla quale se ne potesse pigliar esempio alcuno e come cosa nuova aveva parimenti bisogno di nuova invenzione» Relazione de’ Prefetti dell’Estimo al Duca di Terra Nuova 1590.

[70] Riconoscere i libri de’ Negozianti era lo stesso che togliere alla maggior parte il credito e inspirare a tutti la voglia di evadere e salvarsi dalla vessazione; la stessa difficoltà era nel giuramento. Si calcolò questo fondo da’ registri delle dogane, le quali valutano a peso quello che si vende a braccio.

[71] Nel 1593 14 settembre per decreto del Governadore.

[72] «Quidam ut aliquid sui viderentur afferre etiam recta mutarunt» Quintil., lib. 3.

[73] Così è anche nella Banca di Giro di Venezia, in quella di Amsterdam e in quella di Hambourg.

[74] Non credo di far uso della lingua del Banco di S. Ambrogio per rendermi intelligibile. I vocaboli di locatario, cartulario, moltiplico, quadernerio, limitazione, rimedio, avantagi, addizione, dato, adeala, abboccazione e simili mi obbligherebbero alla traduzione.

[75] «Les mettre dans des païs gouvernés par un seul c’est supposer l’argent d’un côté et de l’autre la puissance, c’est a dire d’un côté la faculté de tout avoir sans aucun pouvoir, et de l’autre le pouvoir avec la faculté de rien du tout. Dans un gouvernement pareil il n’y a jamais eu que le Prince qui aît eu, ou qui aît pu avoir un trésor, et partout où il y en a un, dès qu’il est excessif il devient le trésor du Prince» Esprit des Loix, liv. 20, ch. 9.

[76] Nelle Leggi e governo del Banco di S.t Ambrog.o, stamp. nel 1698, vedo a pag. 4 dichiarata la pena di scudi cento a chi ricusi di ricevere in pagam.to le cedole del Banco. Questa legge, che si contiene nel progetto dell’erezione del Banco stampato in fine del citato libro delle leggi etc. Capitol. de’ privilegi del Cartulario, prova che sino nel progetto prevedevasi la poca fede che si doveva avere a questa instituzione. Pure sta ne’ nostri statuti la legge che «non possit dari creditoribus in solutum nisi pecunia numerata».

[77] «Ex distantibus terrarum spatiis consilia post res afferebantur» Tacit., Historiar. lib. III.

[78] «Neque enim cuiquam tam clarum statim ingenium est, ut possit emergere nisi illi materia, occasio, fautor, comendatorque contingat» Plin., Epist., 23, lib. VI.

[79] «L’ancienne finance aussi dure dans ses principes que dans sa régie affectoit soigneusement une marche ténébreuse dans toutes ses opérations … C’est ainsi que fut substituée la crainte à la confiance, que les Ministres se trouvèrent dans une dépendance forcée des gens d’affaires et furent trompés, que la difficulté de prouver les exactions leur assura l’impunité, qu’on éloigna toute idée de réforme, que les bons esprits furent découragés et éloignés de toute étude d’une partie si essentielle et enfin qu’il a paru si peu d’hommes capables de l’administration des finances» Recherches sur les finances de France, tom. I, pag. 11.

[80] «Mediolanensis Ducatus quoque reditus amplissimi sunt, nam superiori seculo (scriveva nel secolo passato) Duces quotannis ad septingenta millia Ducatorum perceperunt, nunc autem Rex Hispaniarum octingenta percipere dicitur præter exactiones multas, quæ extra ordinem miseræ plebi imponuntur tantaque est Regiorum Ministrorum crudelitas, et avaritia, ut proverbio in Italia locum dederit: in Sicilia quidem Ministros Regis arrodere, in Neapolitano autem Regno comedere in Mediolanensi vero Ducatu penitus devorare» Klock, De Ærario, lib. I, cap. 6, num. 17, pag. 159, æd. Norimb.

[81] Carli, Delle monete ecc., tom. 2, pag. 299.

[82] Carli, Delle Mon., tom. 2, pag. 421.

[83] «Le plus funeste de tous ce fut l’altération de monnoyes. On ne fit pas réflexion qu’elles doivent être maintenues pures comme la religion … Philippe III sourd à la voix de la raison doubla la valeur du billon qui jusque-là avoit été proportionnée à celle des autres matières. Les étrangers s’en aperçurent, et nous apporterent du cuivre en échange de l’or et de l’argent: le désordre et la confusion s’emparèrent de la Monarchie, le commerce s’embarassa, les prix des marchandises haussèrent» Ustariz, Théorie et pratique du commerce et de la marine, edit. de Hambourg, pag. 500.

[84] Relazione sopra la causa del Mercimonio. Consulta del Censimento 1732 7 giugno.

[85] Su’ nostri panni gabella imposta nel 1600 24 lug. come da Capit.i stampati della Mercanzia 1607, 8 e 9 capit. 99.

[86] Dazio sulla introduz.e delle sete imposte nel 1600 17 lug.o come da’ Dati e tasse, stampati nel 1686, pag. 152.

[87] Dazio detto della Pollaria imposto nel 1604 14 genn.o come da’ Capitoli stampati dell’affitto di esso dazio.

[88] Capitoli stampati citati, capit. 55, e 86.

[89] «L’obscurité des loix fournit aux Fermiers une infinité de moyens de vexer le peuple et leur avidité toujours déguisée sous prétexte de l’intérêt du Roi les fit multiplier à un tel point qu’eux seuls en furent les interprètres comme ils en étoient les exécuteurs» Considérations sur les finances d’Espagne, pag. 134.

[90] Che le tariffe fossero un arcano si vede dalla rappresentazione di D. Luigi di Castiglia, stampata al principio del libro Dati e tasse del 1686; che nelle nostre antiche leggi vi sia ordine di pubblicarle e riconoscerle ogni anno da otto Delegati: «ad evitandum jurgia quæ sepe insurgunt» V. Statuti di Milano, stamp. nel 1480, fol. 190 tergo e fol. 191.

[91] Annali d’Italia, tom. XI.

[92] La sola città di Cremona dal 1600 al 1612 di straordinarj sussidi sborsò scudi 162.818, come si vede dallo Stato stampato della città di Cremona, 1613.

[93] Annali d’Italia, tom. XI.

[94] Supplica de’ Cremonesi a S. M., stampata nel 1631. Instruzione al Mar. Cesare Visconti destinato Ambasciadore della Città di Milano alla Maestà del Re N. S. de’ 31 ottobre 1627. Relazione del Sindico del Principato di Pavia Francesco Beccaria de’ 20 ottobre 1631. Consulta della Città di Milano del 1633 4 febb.o. Somaglia, pag. 2.

[95] Raccordi della Città di Lodi al suo Oratore per darsi al Senato 1662 2 agosto.

[96] Relazione del presentaneo Stato del Ducato del Fossati al Senatore Picenardi 1631 11 agosto e Somaglia, pag. 186.

[97] Il Capredoni nella scrittura che ha per titolo Cause e rimedj del mal stato del Contado di Cremona del 1631 dice che pretendevano di mantenersi immuni «proibendo i Santi Sacramenti e scommunicando gli Agenti delle Comunità che li volevano far pagare».

[98] Capredoni nella citata scrittura del 1631 Cause e rimedi del mal stato del Cont.o di Cremona.

[99] Capitoli fra la R. Camera e gli Daziari della Mercanzia per gli anni 1607, 8, e 9, cap.o 22.

[100] «Des règles établies pour l’utilité publique sembloient ne devoir point admettre de dispense … mais dans la suitte les dispenses furent données sans ménagement et la règle ne fut plus qu’une exception» Espr. des Loix, liv. XXIII, ch. XXI.

[101] Nota de’ debiti del Contado di Lodi 1662 e Relazione del Contado di Como stamp. 1662. Gl’interessi in Inghilterra erano in quel tempo sino al 12 per % (vid. Tom. Culpepper) ed in Francia all’8, e 10 per %, ed appunto in questi tempi si abbassarono per ordine del Re, come può vedersi in Forbonnai, Recherches et considérat. sur les finances de France, tom. 1, p. 96.

[102] Supplica de’ Cremonesi a S. M. stamp. nel 1631. Questa obbligazione in solido opposta era all’antica legge nostra come vedesi ne’ Statuti del 1502 fol. 50 t.o: «Nullus … compelli possit ad solutionem alicujus pecunie vel oneris pro altero».

[103] Accrebbe il Conte di Fuentes la ordinaria soldatesca dello Stato di 24.000 Soldati, come Somaglia pag. 2.

[104] Annali d’Italia, tom. XI.

[105] Per un millione di ducati rappresagliò loro in merci la flotta dell’Ossona, prova che il commercio de’ Veneziani in Levante si manteneva tuttora in qualche splendore. Annali d’Italia, tom. XI.

[106] Piazzoli, che ha stampato nel 1614, dice che in quell’anno si fece l’aumento del terzo de’ dazj. Autore è dunque questo contemporaneo. Vid. Piazzoli, pag. 32. Ma Somaglia lo vuole fatto del 1613, vid. Som., pag. 7 e pag. 684. Di più il Tridi lo pretende fatto nel 1616 e porta gli affitti dell’Impresa della Mercanzia dal 1604 sino al 1637. Il libro Dati e tasse, stampato nel 1686, pag. 73, vuole che quest’aumento sia stato fatto in Cremona nel 1613 e a pag. 157 lo vuole nello stess’anno posto in Melegnano. Che in Cremona siasi imposto per decreto del Magistrato del 6 ottobre 1613 è evidente dal decreto medesimo pubblicato dal Negri nella sua dissertazione storico legale che ha per titolo Della vera instituzione de’ dazj etc. stamp. Cremona 1750. Ivi ved. pag. 16. Io propendo a credere il Tridi in errore e per conciliare gli altri non sarà un assurdo il supporre che nel 1613 sia generalmente stata pubblicata questa fatal legge e l’anno seguente soltanto messa in esecuzione. So che non preme allo spirito della Storia fissare precisamente questo punto, ma preme a me, dopo i molti nojosi scritti che m’è convenuto esaminare per tessere questa serie storica, il prevenire acciò non si presti facilmente credenza a qualunque anche antico scrittore o documento nel caso che non coincida con quanto credo di dovere stabilire anche nel rimanente. Pochi sono i fatti ne’ quali ho io trovati tutti i documenti d’accordo, nè ho voluto far parte della tediosa mia fatica al lettore ad ogni tratto. Il Tridi poi, colla tavola che ha stampata degli affitti (come dissi) della Mercanzia, prova che l’aumento del terzo abbia accresciuta la Regia Regalia per la prima locazione, bensì sebbene non a proporzione del terzo, ma che pochi anni dopo abbia reso di meno, anzi che 20 anni dopo, più di 400.000 lire la Camera vi perdesse. A me non è stato possibile l’avere i veri affitti come desiderava per smentirne il Tridi, il quale se lo merita e per lo sbaglio dell’epoca e per la falsità di pubblicare l’affitto del 1606, 7 e 8 di lire 1.481.213, quando ho io i Capitoli stampati di quel triennio in cui fu data l’Impresa a Hieronimo Mazenta in lire 1.500.000, cioè lire 18.787 più che non scrive il Tridi. I fatti supposti discreditavano la verità della massima che le regalie accresciute oltre li confini fanno scemare l’entrate camerali.

[107] Fra questi la consulta della Real Giunta del Censim.to a S. M. 1732 7 giugno.

[108] S’accrebbero i dazj sul vino e sulla carne e s’imposero nuovi dazj sulla legna e sul riso bianco e di più un perticato sulle terre civili del Ducato, come dal Bilancio g.le della Città di Milano, stamp. 1631.

[109] Di soldi 20 lo stajo. Piazzoli, pag. 6.

[110] S’impose un soldo per lira d’affitto sulle case e si sopraccaricò l’estimo del Mercimonio di £ 75.000; ciò fece la Città per abilitarsi a fornire al Sovrano £ 834.000. Bilancio sud.o del 1631.

[111] Come dal citato Bilancio.

[112] «Quæ gravia atque intoleranda, sed necessitate armorum excusata etiam in pace mansere» Tacit., Hist., lib. 2.

[113] Dispacci Reali del 1611 10 marzo, 1612 20 ottobre, 1616 12 giugno, 1618 18 febb.o, 1620 11 giugno si trovano citati nelle citate instruzioni al Marchese Carlo Visconti ambasciadore a Madrid del 1627, come pure nella Risposta della Congreg.ne dello Stato al progetto del Conte Prass.

[114] Nota de’ debiti del Contado di Lodi 1662 e Informazione per il Contado di Como, stamp. 1662.

[115] Di lire 900.000. Somaglia, pag. 13.

[116] Cominciati a imporsi nel 1622 non essendovi per l’adietro che un perticato solo. Somaglia, pag. 364 e 366.

[117] Gabella sulle carte. Somaglia, pag. 8.

[118] Gabella detta del Bollino sulla vendita del vino a minuto imposta nel 1626 come attestano le instruzioni del 1627 al Marchese Visconti più volte citate.

[119] Tridi scrive che dal 1616 al 1624 fossero scemati 24.000 lavoratori. Le Instruzioni citate al Marchese Visconti dicono mancato un terzo dei Trafficanti. La giunta del Censimento nella Consulta del 1732 7 giugno ha anche in questo seguito il Tridi e così s’esprime la Consulta: «fu avvertito, che nella sola Città di Milano mancavano 24.000 persone che lavoravano».

[120] Oltre alle citate instruzioni, v. Somaglia, pag. 13.

[121] «Etenim et ingenia et mores mutare populi novisque ex legibus moderari extemplo velle non modo non facile, verum ne tutum quidem omnino est» Plutarcus, Polit.; «Difficile est mutare animum et si quid est penitus insitum moribus id subito evellere» Cicero, ad Quintum fratrem.

[122] Relazione de’ Tessitori di seta, oro e argento al Senato 1662.

[123] Somaglia, pag. 453. In Casal Maggiore più di 10mila persone vi perirono. Relazione di Casal M.re al Sen.o 1663 3 aprile.

[124] Somaglia, pag. 500.

[125] «Proditum falso esse venenis absumptos quorum mors infamem annum pestilentia fecerit» Liv., lib. VIII, cap. XVIII, decad. I, ædit. Paris, 1735, tom. I, pag. 488.

[126] «Superstitio fusa per gentes oppressit omnium fere animos, atque hominum imbecillitatem occupavit» Cicer., De Divinitat., lib. 2.

[127] Somaglia, che ha stampato di cose del suo tempo e che dice d’essere stato ammalato di peste, parla di magia e sortilegio; e tale certamente era la comune opinione benchè nella iscrizione alla Colonna Infame si dica soltanto: «lætiferis unguentis huc et illuc aspersis». Qual bisogno v’era mai di sospettare altri autori della morte de’ Cittadini «dum pestis atrox sæviret?» Vid. Ios Ripamontii De peste, pag. 84 et seq. «On croiroit alors tout bonnement aux Sorciers. Il faut avouer néanmoins que les Iuges de la Marechalle d’Ancre devoient être au-dessus des préjugés du peuple, leur ignorance ou leur cruauté envoya cependant la Femme d’un Maréchal de France au bucher où elle fut brûlée vive. Ses Iuges n’étoient pas assurément de grands Sorciers … que nous sommes heureux de n’être pas nés dans ces siècles trop fameux par des exemples de férocité et d’ignorance crasse, risibles en eux-mêmes si l’humanité pouvoit se prêter à rire des attentats faits contre les droits de ses enfans». Vide Mémoires pour servir à l’histoire des finances, pag. 88.

[128] Dispaccio di Filippo IV 1631 20 marzo.

[129] Eccitatoria del Duca di Feria Gov.re al Senato, acciò consulti i mezzi per ovviare a questa deserzione 1631 10 ap.le.

[130] Grida del Duca di Mantova Carlo I, che promette esenzione da’ carichi per quindici anni per chi verrà a stabilirsi ne’ suoi Stati, in data del 1632 9 dicembre. Grida consimile di Aloise Zorzi Proveditor generale di Terra ferma in data di Verona 1632 30 ottobre.

[131] P-VERRI-Considerazioni-TAVOLA-I

[132] Tale è il risultato delle rappresentazioni di essi pubblici sotto i titoli seguenti: 1. Relazione del presentaneo stato del Ducato del Fossati al Senatore Picenardi 1631 11 agosto. 2. Raguaglio del bilancio g.le della Città di Milano dei debiti, ch’ella tiene di presente, e delle Cause onde sono proceduti, stamp. 1631. 3. Stato della città di Cremona. 4. Relazione dello Stato di Pavia trasmessa al Senato dall’Oratore Luigi Belcredi 1631 20 giugno 5. Supplica de’ Cremonesi a S. M., stamp. 1631. 6. Relazione del Sindaco del Principato di Pavia Francesco Beccaria 1631 20 ottobre. 7. Nota de’ denari spesi dalla Città di Lodi di Basilio Mancini Ragionato 1631. 8. Nota de’ denari spesi dal Contado di Lodi di Bassano Vago Ragionato 1631 27 giugno. 9. Lettere di Tiberio Azzato Oratore di Lodi al Senato 1631 23 giugno. 10. Relazione della Città di Como del Ragionato Maggio 1631 19 settembre.

[133] Consulta della Città 1633 4 febb.ro.

[134] 1634 22 luglio Dispaccio Reale al Cardinale Infante acciò sollecitasse il Senato a rispondere e suggerire i mezzi opportuni per sollevare lo Stato.

[135] Muratori, Annali d’Italia, tom. XI.

[136] Che nessuna providenza si desse a’ riccorsi de’ Pubblici del 1631 è fuori di dubbio, poichè nelle relazioni repplicate dappoi di essi Pubblici sì nel 1662 che nel 1688 non se ne fa menzione; anzi da due consulte del Senato de’ detti anni si vedono le medesime querele prova della sussistenza de’ medesimi disordini. Tutt’al più si può credere che per la ridduzione delle usure qualche ordine venisse, come accenna la consulta del Senato 1668 15 marzo. Secondo essa consulta venne, non si sa quando, ordine Reale di abbassare le pubbliche usure al 2 per %. Vedo io altronde che nel Pavese nel 1636 si ridussero al 5 per %. Vedo che nella Comunità di S. Colombano nel 1662 si pagava tuttora il 7 per %. Lo scisma era già introdotto: ogni provincia si considerava isolata dallo Stato e la Corte mandava separati dispaci e diverse provvidenze per ciascuna. In questo caso non è possibile dare una idea generale che d’una perfetta confusione.

[137] Il dazio dell’oglio. Capitoli stamp. dell’Impresa de’ denari 6 dell’oglio. Consulte del Senato 1725 24 febb.ro e del Censimento 1732 7 giugno. S’accrebbero i dazi della farina, carbone, fieno, Somaglia, pag. 699 e 700 e Capitoli per l’impresa della Macina. S’eressero nuovi dazi dell’acquavite, tabacco e archivio. Consulta del Censimento 1732 7 giugno § 73, Somaglia, pag. 11 e pag. 689. Rappresentanza de’ Mercanti della Università Maggiore di Cremona alla Giunta del Censimento.

[138] Dazio del sapone, come dalla suddetta Rappresentanza de’ Mercanti di Cremona al Censimento. Dazio delle pelli verdi. Rappres. de’ Mercanti; sud.ta. Consulta del Censim. 1732 7 giugno. Somaglia, pag. 689 e pag 11.

[139] Di lire 800.000. Somaglia, pag. 715.

[140] «Lorsque l’impôt est une fois établi dans une proportion raisonnable avec le travail ce sont les bornes précises auxquelles il convient de s’arrêter: tout excès allors détruit immédiatement ce travail et la faute est punie par le déclin général de toutes les branches des revenus publics» Considérat. sur les finances d’Espagne, pag. 79.

[141] Nel 1659.

[142] Come l’osserva Tridi, autore appunto contemporaneo poichè stampò nel 1640.

[143] «Hoc serio quemquam dixisse maxima hominum contemptio est, et intoleranda mendaciorum impunitas» David Hume, Disc. politiqu. sur l’argent, calcola tutto il commercio lucrativo dell’Europa coll’Africa e America in 7.000.000 (sette milioni) annui di sterline. Ustariz valuta che entrino nella Spagna ogni anno dall’America al più 20.000.000 (venti milioni) di piastre. Ustariz, Théorie et pratique du commerce, pag. 26, edit. d’Hambourg. Veggasi parte 2.da cap. 2 § 2.

[144] Somaglia, pag. 186 et 187.

[145] «On prie ici les personnes qui ont fait un étude de l’art du Gouvernement de faire attention combien ces sortes de loix tiennent du caractère que les Ministres de la religion donnent au Démon. Des hauts droits naissent les tentations; en mêmetems que des peines pécuniaires doivent ruiner ceux qui y succomberont» Essai sur les causes du déclin du commerce étranger de la Grande Bretagne, tom. 1, pag. 245.

[146] 1652 8 aprile e 22 maggio. Dati e tasse diverse del 1686, pag. 34 e 35.

[147] Nuovo dazio dell’indico, droga di cui si fa uso grandissimo nella tintura, e dazio della vallonia, che serve alla preparazione de’ cuoj. Ciò si vede nella Consulta del Censimento 1732 7 giugno § 73; e nella Rappresentanza alla Giunta del Censimento dell’Univers.à Maggiore de’ Mercanti di Cremona. A questo tempo pure devesi l’instituzione della gabella sulla neve e ghiaccio. Negri, Della vera instituzione ec., pag. 66.

[148] È certamente per lo meno un errore quello di pretendere che l’amministrazione delle finanze del Sovrano debba essere un mistero per il pubblico. Sono le finanze per necessità note a più persone, nè v’è Principe o vicino o confinante che non le sappia o non possa subornare uno de’ molti che le sanno. In questo paese il nuovo Censimento ha annientata la nebbia sulla distribuzione de’ carichi; la popolazione, la fertilità del terreno, la natura del tributo da pochi anni a questa parte sono finalmente disterrate e rese pubbliche e sarebbe da sperarsi che ora non s’imprigionerebbe più chi pensasse a pubblicare una carta topografica della Lombardia come è stato fatto pochi anni sono. Io credo di potere con verità avvanzare queste due proposizioni: 1. che minori lamentele farebbero del Governo i Sudditi se fosssero più illuminati; 2. che maggior riguardo avrebbesi dagli Amministratori a fare delle leggi o dare delle provvidenze, le quali non fossero passate per la traffila del buon criterio, se avessero a temere il giudizio del pubblico più inevitabile ancora di quello del Sovrano. Ne’ più colti Paesi d’Europa sono stampate le Regie entrate e lo stato delle finanze. Dove più sono quelli che pensano, più facile è lo scoprimento della verità e più vicina la perfezione d’ogni arte o scienza. «Il faut avouer que rien n’est plus propre à former des sujets à l’État et n’abrège plus les difficultés du travail que l’usage de traiter en public les matières économiques» Réflexions sur la nécessité de comprendre l’étude du commerce et des finances dans celle de la politique, pag. 76. «On ne peut pas dire non plus qu’il soit dangereux d’éclairer les étrangers sur des objets dont ils ne peuvent troubler l’ordre: l’attention qu’ils peuvent faire à ces sortes d’écrits sera moins à craindre à mesure que l’administration y apportera davantage» lo stesso autore, pag. 78. V. la terza citazione del cap. 3.

[149] Regole del Banco, stamp. 1698, pag. 50 e seguen. Ivi pure si vede che nel 1670 si fissò l’annua rendita di lire 47.300 per l’estinzione di £ 100.000 di debito capitale ogni anno: e questa fissazione con ordine il più preciso del Governo, a segno di volere una cassa separata di questo fondo inalienabile per qualunque altra urgenza. Al giorno d’oggi devono essere stati pagati £ 9.100.000, l’interesse delle quali è da diminuirsi dalle rendite che rimangono al Banco.

[150] Il progetto del Zerbi costa ogni anno ad ogni più miserabile Cittadino milanese per lo meno dieci lire. Diversi progetti furono pubblicati per finire questo Banco. Il Somaglia fu forse il primo che pubblicò il suo piano nel 1648. Altri in seguito ne comparvero di Luigi Cavallero, Giovanni Francesco Malatesta, Bartolammeo Polastri, Ambrogio Paravicino ed altri colla stessa fortuna.

[151] Dispaccio del 1660 30 novembre, come dalle Riflessioni stamp. sopra un nuovo sistema di taglia ecc.

[152] Consulta della Giunta del Censim.° a S. M. del 1732 7 giugno, § 77.

[153] Dispaccio de’ 19 maggio 1662.

[154] Conviene che fosse tale sebbene io non creda la esaggerazione che leggo nella scrittura fatta allora per il Ducato al Senato col titolo Facti series pro Ducatu Mediolani pro petito sublevamine ab oneribus quibus præmitur obtinendo, dove trovo stampato che 100.000.000 (cento milioni) di lire avesse di debito.

[155] Nella scrittura de’ Sindici del Contado di Lodi, che ha per titolo Humilis responsio Sindacorum Comitatus ec., così leggo: «cogitur Provincia per impositionem collectæ solvere in pecunia numerata Milites et Officiales in præssidiis commorantes et hæc omnia non obstantibus ordinibus emanatis a Gloriosissimo et Clementissimo M. V. Genitore mandantibus pagas … esse omnino solvendas a R. Camera».

[156] Si vede questa ostinazione degli ecclesiastici dalla consulta del Senato 1662 8 giugno. Questo soggetto di pubbliche querele ha dato luogo dappoi al medesimo Senato nella consulta del 1713 17 giugno di dire che: «ingemiscit Mediolanensis districtus, quod magna pars bonorum ut plurimum de fertilioribus possedatur per ecclesiasticos minus juste renuentes solutionem onerum saltem pro parte colonica» e in altra consulta lo stesso Senato nel 1712 7 giugno ha pure detto che: «injustæ, et indebitæ dici merentur ecclesiasticorum oppositiones convolantium statim ad arma spiritualia et fulmina censurarum ad captandam sibi lucrum cum aliena factura contra præceptum divinarum, et humanarum legum». Le Riflessioni stampate sopra un nuovo sistema di taglia in tal guisa s’esprimono: «Quella quota che si usurpa il bene d’essere difesa col sangue e sostanza de’ sudditi colla crudele ritrosia di non concorrere al pagam.to di quell’esercito che la difende». In somma questi confini fra il sacerdozio e l’impero non si sono stabiliti prima di pochi anni fa; e lo Stato ha preferito il piacere di chiamare straordinarj que’ carichi, che quasi da due secoli pagava ordinariamente all’altro di far concorrere gli ecclesiastici a sollevarlo.

[157] Lettera del Senat. Luca Pertusati Pretore di Cremona 1674 15 maggio al Senato.

[158] Relazione dello Stato di Tortona al Senato 1666 28 dicembre.

[159] Raccordi della città di Lodi al suo Oratore 1662 2 agosto.

[160] Che questa costumanza sia conservata anche dappoi di convertire cioè delle pubbliche contribuzioni in causa non pubblica si scorge dalla Consulta del Magistrato Ord.o 1706 14 ottobre; ivi così leggo: «Quelle finezze, quali in tutti i tempi hanno manifestate questi fedel.mi Sudditi con tutte le loro forze ed amore al suo adorato Monarca, saranno sempre per continuarle di buon cuore sin all’ultimi respiri, quando però si convertano le loro contribuzioni nella causa pubblica et non alcuna nel privato interesse, che ha reso in tutti i tempi più dolenti le loro piaghe».

[161] Dalle separate relazioni raccolgo che Tessitori di seta da 5.000 telari che avevano 22 anni prima a 200 soli erano ridotti; Cimatori da 40 ch’erano ridotti a 8; Carminarj da 15 a 3; Centurarj da 24 a 4; Tintori di seta tingevano libre di seta 200.000 ed erano ridotti a tingerne sole libre 8.000; Riccamatori da 40 botteghe a 10; Fabbricatori di panno da 70 a 8.

[162] Gli Orefici, Merciaj, Pellicciaj erano allora de’ più aggravati per le spese delle liti. È bastantemente noto qual messe abbiano dappoi raccolta i forensi da questi Corpi, l’anima de’ quali è sovente il Console o l’Abate o un Cancelliere o un Procuratore o simil altro Curiale, i quali spesse volte gli hanno resi vittima del lor fanatismo o interesse. La gelosia d’una di queste Comunità coll’altra, l’ambizione di sostenere alcuni disputati diritti, le hanno impegnate in eterne e dispendiose liti ora con altra Università, ora con privati ora co’ Fermieri e talvolta cogli alabardieri per le loro pretese imunità. I Parrucchieri, Calzolaj, Filatori di seta, Giupponari calzanti, Lottonaj, Calderaj, Mercanti di vino, Fondegari d’aceto, Pizzicheruoli, Conciatori di corame e Speziali si sono in questi nostri tempi segnalati per le loro liti, come si può vedere dalla Informazione del Casati alla Giunta del Censimento 1754 30 settembre dove al § 39 e 49 ne parla. Dalla tabella, che io ho construtta su sicuri documenti, i debiti di questi Corpi delle Arti erano nel 1750 lire 167.394 e s. 2. Di più le spese loro straordinarie annue montano a lir. 46.118 sol. 15 den. 6 e ciò oltre all’annuo tributo dell’Estimo che si paga da essi al Banco di S. Ambrogio di £ 81.650, sol. 2, den. 6 cosicchè valutando gl’interessi de’ debiti al 4 per % vengono a spendere le Università lire annue 134.474 circa, senza utile nè del Sovrano nè della Nazione e a danno del commercio. Veggasi la seconda parte capo terzo § 5.

[163] Consulta del Senato 1662 8 luglio.

[164] Le truppe distribuivansi nelle Terre secondo l’opportunità e convenienza militare, non secondo le forze de’ Territorj, alcuni de’ quali più discosti, o meno addattati per loro natura ad acquartierare le truppe, restavano esenti, ed altri per l’opposta cagione troppo aggravati a questo fine; dunque s’inventò quest’affitto l’importanza di cui si volle distribuire a norma del Mensuale. In esso affitto si comprendevano legna, lume, fieno, biada, letto e altri mobili proporzionati al rango e tassati. Più ampia idea può aversene dalla scrittura stampata col titolo Breve informazione di fatto in ordine al Rimplazzo e dal decreto del Governo al Magistrato Ordinario del 1662 21 luglio firmat. Pedro de Orazio.

[165] Grida del 1664 7 agosto, citata nel libro Dati e tasse diverse del 1686.

[166] Decreto circolare del Senato 1664 18 marzo.

[167] «En 1664 une partie des droits qui se payoient dans l’intérieur du Royaume (di Francia) et à la sortie des manufactures fut supprimée, ceux de l’entrée sur les marchandises étrangères furent augmentés», traduct. du The Britisch Merchant, disc. prelimin., pag. 8.

[168] 1668 15 marzo.

[169] Dispaccio citato nella Risposta della Congreg.e dello Stato al progetto del Conte Prass.

[170] Dispaccio del 1671 11 luglio. Si riducono gl’interessi tutti al 5 per % e si sottopongono gl’interessi medesimi a pagare il 7 e 1⁄2 per % di tributo a beneficio della Comunità debitrice per iscontare il capitale. Queste complicate operazioni erano allora di moda nelle finanze, e si onorarono poi col nome d’algebra da chi non sa che l’algebra serve a rischiarare le cose oscure. Molti dispacci vennero simili a questo per diverse Provincie sul punto degli interessi, origini di liti e di controversie attrocissime fralle Comunità e creditori del Cremonese, Comasco, Novarese, Alessandrino, Casal Maggiore e Lumellina e tre anni vi vollero per far eseguire questi ordini sovrani, come da sentenza del Senato del 1674 12 luglio contro i redittuarj di Como. Relazione al Senato del Podestà di Como D. Giuseppe Galviz de Valenzuela 1674 15 maggio. Altra al Senato del Senat.re Luca Pertusati Pretore di Cremona 1674 15 marzo e molti simili documenti.

[171] Consulta del Senato del 1713 8 giugno.

[172] Decreto riferito dal Muratori, Ann. d’It., anno 1670.

[173] Consulta del Senato 1713 17 giugno.

[174] Dispaccio reale del 1679 4 genn.o.

[175] 1679 15 aprile. Si propone proibizione universale su’ cocchj d’oro, ricami, frange, ec. Proibizione a’ Lacchè di portare la canna. Nell’occasione d’inviti, veglie o feste non si diano acque rinfrescative più di due sorti, restando proibiti tutti i canditi, zuccheri e cioccolatte ec.

[176] Consulta del Senato 1679 … luglio, la quale approva tutt’i suggerimenti della Città e vi aggiunge del suo che: «Nobiles nisi iter acturi sint … teneri vestibus Hispano, vel italico more compactis prout et collari uti … Famulos Cursores quos Lacchè apellamus non esse permittendos … interdicto etiam syrmate vestium muliebrium vulgo la coda» ec.

[177] Montesquieu, Esprit des Loix, liv. XX, ch. IV.

[178] Nè tutti i vizj politici sono vizj morali, nè tutti i vizj morali sono vizj politici. L’opera di M.r di Mandeville lo prova abbastanza.

[179] «On étoit persuadé que le Royaume s’épuiseroit par les denrées du luxe que lui fournissoient ses voisins. On crut y remédier par des loix somptuaires qui achevèrent d’écraser nos manufactures» Recherches et considérations sur les finances de France, tom. I, pag. 101. «On a quelquefois voulu taxer le luxe sous le prétexte du rétablissement du bon ordre et de la modestie. Les loix somptuaires ne valent rien» Mirabeau, Théorie de l’impôt, pag. 191, edit. du 1760. «Le luxe, l’objet de tant de vagues déclamations qui partent moins d’une saine connoissance ou d’une sage sévérité de meurs, que d’un esprit chagrin et envieux» Essai politique sur le commerce, chap. IX, pag. 105.

[180] Consulta del Senato 1681 14 gennajo.

[181] 1679 24 genn. e 1679 25 settembre.

[182] Proibizione dell’estraz. della seta greggia 1679 15 mar.o.

[183] L’Impresa della vallonia abolita. Dati e tasse diverse, 1686, pag. 40.

[184] Ordinò la Corte la soppressione del dazio alla introduzione della seta greggia per dispaccio del 1681 21 aprile come si vede dalle consulte del Sen.to 1715 17 giugno, 1725 24 feb.o, ma il dazio si mantenne.

[185] Cioè sino al 1739.

[186] Risposta della Congregaz.e dello Stato al progetto del Conte Prass.

[187] Dati e tasse diverse del 1686.

[188] «Il n’est pas inoui de voir des États … employer pour se ruiner de moyens qu’ils appellent extraordinaires et qui le sont si fort que le fils de famille le plus dérangé les imagine à peine» Espr. des Loix, liv. XIII, ch. XVII; «par tout les princes ont été plus nécessiteux en raison de ce qu’ils imposoient davantage, et qu’ils s’abandonoient à des mauvaises formes d’imposition» Théorie de l’impôt, pag. 151.

[189] Il Muratori negli Annali d’Italia, tom. XI, pag. 324, così parla: «Uso fu degli Spagnuoli allorchè li pungeva la necessità delle guerre di provvedere al bisogno presente senza mettersi pensiero dell’avvenire col vendere i fondi del Dominio e delle rendite regali, tornando poi nuove angustie per nuove guerre, altro ripiego non restava che d’inventar nuove gabelle ed aggravj, del che forte si dolevano i Popoli».

[190] «Nocere facile est prodesse vero difficile» Quintil. lib. 8.

[191] 1697 3 ap.le, 1698 5 agosto, dispacci citati nella Risposta della Cong. di Stato al Prog. del Co.e Prass.

[192] Dispaccio del 1682 21 maggio, citato nella consulta del Censimento 1732 7 giugno.

[193] Convocato de’ Filatori di seta, stamp. nel 1698 7 aprile, e consulta della Città al Senato 1699 31 gen.o.

[194] «L’intérêt de quelques hommes puissans est de vivre sous une administration relachée parce qu’alors les revenus publics, les loix, et toutes les parties du gouvernement se ressentent de cette foiblesse. La grandeur de ces particuliers consiste à tromper leur Prince, et c’est alors que les loix se vendent à plus haut prix que les injustices, les préférences odieuses rapportent de plus grandes somme» Davenant, rapporté dans les Consid. sur les finances d’Espagne, pag. 72. Vid. Ordini e lettere reali, tom. 2, pag. 216.

[195] «Plebis opes imminutæ, paucorum potentia crevit» Salust., de Bell. Catilin.

[196] «Une expérience fâcheuse nous apprend que l’activité des hommes se rebute facilement sur les objets qui leur reprochent leur ignorance et souvent la vanité les conduit à penser qu’on peut les regarder avec indifférence» Réflex. sur la nécessité de comprendre l’étude du commerce et des finances dans celle de la politique, pag. 52.

[197] Annali d’Italia, tom. XII, pag. 48.

[198] Della Diaria se ne vede una idea nello stampato Regolamento fatto nello Stato di Mil.o da S. A. S. il Principe Eugenio di Savoja ec. per l’anno 1707 a 28 gennaro. È bastantemente noto che il progetto fu fatto dal Conte Carlo Borromeo, uno de’ più zelanti Patrizj per poter dubitare se fosse la Diaria un bene per questo Stato. Dalla stampata scrittura, che s’intitola Breve informazione di fatto intorno al Rimplazzo, vedo che le consulte dello Stato e del Magistrato hanno preceduto questo nuovo sistema e col nome di Diaria si unirono in un sol carico gli altri molti, che s’erano imposti per il mantenimento dell’armata.

[199] Nella Consulta del Senato 1668 15 marzo così sta espresso: «Erat jamdiu nobis perspecta inæqualis ea imponendi ratio; plurium opidorum et villarum notæ quærelæ, nec occulta quæ olim peculiari Magistratus zelo excitata fuerant in remedium. Injustitia hujusmodi distributionibus patet ad sensum cum stariorum salis portio unicuique pago olim constituta pro necessario incolarum alimento mox in metodum exigendi oneris ad prædia pertinentis versa sit. Invaluit abusus tam in reali quam in personali contributione» ecc.

[200] Il Presidente Pompeo Neri nella Relazione stampata del Censimento mostra ad evidenza a qual segno fossero diseguali i carichi. La diferenza sul reale giungeva dal 2 al 13 (pag. 59) e sul personale dal 2 al 29 (pag. 65). Chi condanna l’odierno Censimento, perchè vi sieno degli errori, pretende che non debba essere opera umana, nè avrà mai vinta la causa al Tribunale della ragione sin tanto che non giunga a dimostrare che la presente diseguaglianza sia grande al paro dell’antica: «la perfection des choses humaines consiste à s’éloigner davantage des abus» Considerat. sur les fin. d’Esp., p. 176.

[201] «Le Clergé, la Noblesse, et les riches accoûtumés à faire retomber sur le Peuple les charges publiques s’indignerent de voir la proportion un peu rétablie. Ce qui est remarquable, les pauvres mêmes en faveur desquels on travailloit, séduits par les déclamations ordinaires en pareil cas, reclamoient des privilèges dont l’usage n’avoit jamais été connu d’eux» Economies politiques.

[202] Proggetto d’un nuovo sistema di taglia da praticarsi nello Stato di Milano ec., stamp.

[203] Informazione del Censimento stampata dal Pres.te Neri pag. 90.

[204] Risposta degli Abati e Consiglieri della Camera de’ Mercanti al Vicario di Provvisione stamp. 1710 21 febb.o. Si pubblicò grida contro l’estrazione delle gallette e sete greggie 1710 6 maggio.

[205] Nel reale dispaccio del 1711 29 ottobre così si esprime: «Aunque para ello sea necessario disminuir algunos dacios (cioè per rianimare il commercio) de los que se pagan por los materiales de que se componen estas fabricas, pues en mi Real animo preponderar mas el bien, y consuelo de mis fideles Vassallos que el presentaneo augmento de mi Real Patrimonio».

[206] Altro simile dispaccio del 1712 7 giugno in favore del commercio in cui si ordina la diminuzione delle gabelle nocive al commercio e questo dispaccio è citato nelle consulte del Senato 1712 14 novembre, 1713 7 giugno e 1713 8 giugno. Lo cita pure la consulta della Congregazione dello Stato al Magistrato Ord.o 1714 11 febbraro.

[207] Dispaccio reale del 1713 28 giugno citato nella Informazione del Censimento, pag. 275, e dalla Consulta del Censimento 1732 7 giugno § 83.

[208] Per Reale Dispaccio del 1713 28 giugno, come dalla consulta del Senato 1725 24 febbraro.

[209] «La pesanteur des charges produit d’abord le travail, le travail l’accablement, l’accablement l’esprit de paresse» Esprit des Loix, liv. V, chap. X.

[210] Consulta della Giunta del Mercimonio al Gov.e 1749 31 ottobre, a cui sta anche annesso il Memoriale de’ Mercanti del 1714 a S. M.

[211] Dalla tabella da me costrutta, nel 1750 erano i componenti della Camera de’ mercanti di seta come siegue:

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[212] Obblazione de’ Mercanti di seta, oro e arg.o al Senato. Consulta del Senato 1715 11 aprile e sentenza del Senato del 1714 1 febb.ro.

[213] Supplica della Camera de’ Mercanti al Senato del 1714 e Consulta del Tribunale di Provisione al Gov.re 1714 22 giugno. Certamente la concorrenza co’ forestieri non avrebbe mai potuto portare le sete a un prezzo che pregiudicasse le interne manifatture. La libertà è l’anima del commercio e il Mercante che cerca d’evitare la concorrenza cerca d’imporre una gabella sulla Nazione a proprio vantaggio. Lo spirito del Negoziante è quello d’arricchire la propria famiglia, quello del Ministro è di combinare l’interesse della Nazione con quello de’ Negozianti. Se è bene ascoltare il parere de’ Negozianti per avere i fatti, è male certamente il non tenersi in guardia contro i suggerimenti che l’interesse privato deve sempre rendere sospetti. Il Signor di Forbonnai nelle Considerazioni sulle finanze di Francia, tom. 1, pag. 162, così dice: «Il fut établi en 1607 un Conseil de Commerce composé de différens Officiers du Parlement et de la Cour des Aides: mais cet établissement fut bientôt abandonné; et l’État n’en retira point de fruit parceque pour conduire le commerce il faut en même tems savoir comment se fait et se munir des principes contre les pièges de l’intérêt particulier de ceux qui le font. C’est un aveu fâcheux qu’arrache une expérience journalière; les Négocians voyent trop peu l’intérêt de la Société. Le Législateur au contraire ne doit calculer que le gain national et pour s’élever à cette combinaison il ne peut se dispenser de descendre au détail, non pas des profits particuliers mais des opérations diverses du Commerçant. Les personnes qui négligent ces connoissances sont toujours dans l’inquiétude et entourées de soupçons; ce qui les porte à établir des gênes contraires à leur objets, et à favoriser les monopoles qui présentent toûjours une fausse idée de police spéculative».

[214] 1714 17 settembre consulta del Senato.

[215] Eretta nel 1714 8 giugno, composta di otto Patrizj: Conte Teodoro Terzago, Marchese Giacinto Orrigone, Conte Lodovico Melzi, Conte Gerolamo Barbò, Conte Carlo Borromeo, Conte Francesco Sormani, Conte Carlo Anguissola e Conte Nicolò Maria Visconti.

[216] Vid. Essai sur les causes du déclin du commerce étrang. de la Grande Bretagne, tom. 1, pag. 250.

[217] 1715 1 aprile consulta della Giunta civica del mercimonio.

[218] Abbiamo un buon libro in nostra lingua sul commercio de’ due fratelli Pietro e Antonio Genovesi, pubblicato in Napoli, 1757. Ha per titolo Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary con annotazioni e ragionamento del Genovesi professore di commercio. Così abbiamo pure una bella versione de’ Ragionamenti di Giovanni Locke fatta da Francesco Pagnini e da Angelo Tavanti e pubblicate in Firenze in due tomi nel 1751.

[219] Consulta della città 1715 11 aprile. Consulta del Senato 1716 22 aprile.

[220] Dispaccio Reale del 1716 19 febb.o.

[221] Consulta del Senato 1716 22 aprile.

[222] Grida di bando de’ panni forestieri 1716 19 maggio.

[223] Grida di bando de’ drappi forestieri 1716 20 maggio.

[224] Consulta del Vicario di Provvisione e Delegati del Mercimonio.

[225] Io veramente non ho potuto trovare il decreto della creazione di questa Giunta Regia, nè ho documento col quale assicurare che precisamente nel 1717 sia stata eretta. Al più potrebbe questa essere stata fondata l’anno antecedente. La Consulta di essa Giunta del 1717 18 giugno è la più antica che di essa ho trovata.

[226] Informazione ec. stamp. del Presidente Pompeo Neri, part. 1, cap 1.

[227] Progetto fatto per rimettere in quest’inclita città di Milano il decaduto mercimonio e commercio ed esposto sino in genaro 1720. All’Eccell.ma Congregazione del Patrimonio da Giuseppe Ronzio perchè la medema passasse a dare la providenza in sollievo tanto desiderato dal commun bene.

[228] Era questa Regia Giunta del mercimonio composta da D. Giuseppe Araciel, D. Benedetto d’Adda e dal Marchese Gio. Carlo Arbona.

[229] Ciò si vede dalla consulta della R. Giunta del Mercimonio 1723 14 giugno; consulta del Vic.o di Provis.e e Conservatori del Patrimonio alla Giunta di Governo 1726 14 maggio e consulta del Senato 1730 2 giugno.

[230] Di gride di bando di drappi forestieri antecedenti a quella del 1720 11 giugno ne ho raccolte io XXII nè mi lusingo di averle tutte.

[231] La Giunta civica del Mercimonio nella consulta del 1749 31 dicembre ne attribuisce la cagione al tacito consenso dato dal Gov.e per l’introduzione de’ drappi di Francia e ciò a fine di non deteriorare l’Impresa, che in quell’anno era in regia.

[232] Consulta del Patrimonio 1726 14 maggio. Attestato de’ Consoli, Abati e Tessitori di seta del 1729 20 dicembre.

[233] Muratori, Annali d’Italia, tom. XI, pag. 417.

[234] Nel 1723 10 marzo era firmato il progetto; 1723 16 settembre il Gov. lo propose al Senato; 1724 27 genn.ro il Senato eccitò la Città; 1724 14 maggio rispose la Città al Senato che aveva eccitato il Collegio de’ Mercanti; 1724 20 ottobre il Gover.re fece istanza al Senato per avere risposta. Il Senato eccitò il Fisco; 1724 10 novembre rispose il Fisco, che aspettava la consulta del Magistrato Ordinario; 1724 16 novembre il Senato riferì la risposta del Fisco al Governatore; 1724 2 dicembre il Gov.re sollecitò il Senato ed il Magistrato; 1724 15 dicembre il Magistrato fece la consulta; 1725 1 genn.ro il Gov.re passò la consulta del Magistrato al Senato; 1725 9 febbrajo il Fisco votò; 1725 24 febbrajo il Senato fece la consulta la quale non si sa nemmeno dove venisse riposta, vedendosi nel 1731 10 luglio fatta dal Gov.re nuova istanza al Senato perchè rispondesse sul progetto del Conte Sizzendorff. Così otto anni dopo era ineseguito. Non solo, ma dimenticato un ordine de’ più benigni d’un provvido Monarca.

[235] «Un commerce peut etre utile aux particuliers et en même tems ruineux pour l’État … l’intérêt du Marchand est tout à fait séparé de l’État qu’il peut ruiner par des importations étrangères qui lui seront personellement très lucratives; dans ce cas ce n’est que sur la Nation qu’il gagne. Ainsi son intérêt particulier ne la touche qu’autant qu’il se conforme aux vues générales» Le Négociant anglois, tom. 1, pag. 1 et tom. 2, pag. 114.

[236] «Non quid quisque dicat, sed quid cuique dicendum sit» Cicero, Tusculan., lib. V.

[237] Consulta della R. Giunta del Mercim. 1723 14 giugno. Ulm, Meminga, Augusta, Sangallo, Norimberga, Lipsia sono le città di Germania dalle quali prendiamo i generi proposti nel progetto.

[238] «Le commerce qui contribue le plus à occuper, et à nourrir nos habitans à faire valoir nos Terres est le plus précieux» Le Négociant anglois, tom. 1, pag. 27.

[239] Il Negoziante tende al monopolio: l’anima del commercio è la libertà, e la concorrenza. Il Cambista s’arricchisce colla sproporzione delle monete, e il bene della nazione richiede che si trovino nella proporzione de’ metalli circolanti.

[240] Consulta del Senato 1725 24 febb.o.

[241] 1730 2 giugno. Consulta del Senato al Governatore.

[242] Compendiosa relazione sul mercimonio del Questore Forti.

[243] 1732 7 giugno. Consulta della Real Giunta del Censimento a S. M., ivi si è trascritto molto di quanto sta in Tridi e in siti diversi vi sono le medesime contraddizioni unite, che passano tra esso ed il Piazzoli.

[244] «En tous pays dont le plus grand fonds sera en Terres on prétendera en vain faire supporter le fardeau des charges publiques du Gouvernement à toute autre chose, et ce sera enfin là qu’il devra necessairement aboutir en entier. Iamais en effet on ne viendra à bout de faire payer les charges aux Marchands, les laboureurs n’en seront pas en état; il faudra donc qu’en dernier ressort elles retombent uniquement sur les propriétaires des Terres» Locke, Considerat. ec., pag. 95.

[245] Dalla citata relazione del Questore Forti del 1750 17 ottobre trovo che l’estimo delmercimonio nel triennio del 1728, 1729, 1730 ascendeva alla somma di lire 252.011.-.6, cioè avevano le Università pagato al Banco di S. Ambrogio le somme seguenti:

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Ciò serva soltanto per darne un’idea, alla quale è importante d’aggiungere che i notificati dati dal Banco di S. Ambrogio alla Giunta del Censimento si sono altre volte ritrovati mancanti, in confronto delle notizie che la Giunta medesima ha ricercate separatamente dalle Università soggette all’estimo; e questa non indifferente diversità è poi stata marcata in una tabella presso il Censimento ch’è intitolata: Confronto dell’estimo del cassiere del Banco di S. Ambrogio con quello notificato da ciascuna Università per pagato allo stesso cassiere nel triennio 1747 1748 1749 toccante il mercimonio della città di Milano.

[246] Qual danno facesse il solo dazio della seta alla introduzione si può vedere dalla Consulta del Censimento a S. M. del 1732 7 giugno, § 81.

[247] Ciò si vede ne’ Capitoli stampati della impresa della Mercanzia affittata al Conte Biancano appunto nel 1739; ma anche questa reale beneficenza non ebbe perfetto compim.to che nel 1754.

[248] Se in materia di commercio valesse il trito e falso assioma che tolta la cagione l’effetto pure si toglie, sarebbesi con questa sola operazione restituito in buona parte il fiorito commercio, perduto da questa Provincia in gran parte per le eccessive e mal regolate gabelle. Lo sregolamento era giunto a segno nel passato secolo che le famiglie potenti non pagavano i carichi, e tutto riccadeva sulla oppressa plebe; lo vedo nella consulta del Magistrato Ord.o 1660 8 gennajo, ivi si propone: «che non si admetta a carico nè amministrazione pubblica, Decurione, Patrimoniale, o qualsivoglia altro ministro, che prima non mostri d’aver compito alli suoi carichi per l’estimo che tiene». Il commercio rovinato è come un infermo, al quale per ristabilirsi non basta il cessare dal commettere i disordini cagioni della malattia, ma vi vuole positivo rimedio. Quella naturale affezione che l’uomo prende al luogo dove per lungo tempo soggiorna, alla quale si dà prodigamente il nome d’amor della patria, è cagione che l’uomo difficilmente si traspianti, se non quando stia male dov’è, o veda adito a vivere molto meglio altrove. Basta rimontare una macchina ben composta per vederla in moto, ma vi vuole la mano superiore dell’artefice per ridonarglielo quando è una volta disordinata.

[249] 1749 20 settembre dispaccio reale.

[250] 1749 11 ottobre altro reale dispaccio.

[251] Dalla consulta della Giunta civica del mercimonio del 1749 31 dicembre vedo i tessitori di seta erano come siegue:

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Ciascuno de’ tessitori di solio, secondo dice la consulta, può avere 15 telari, in tutto tel.i 675. Ciascuno de’ tessitori a opera può avere secondo la consulta 10 telari, in tutto telari 200. Supponendo che i telari di solio lavorino ciascheduno ogni anno verisimilmente libre di seta 200 e che i telari a opera ne lavorino libre di seta 120 farebbero:

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Ora, supponendo che il valor della seta filata sia la metà del valore della manifattura, supposizione delle più moderate, e supponendo la seta filata al promiscuo prezzo di £ 16, se trasportandola filata entrano nella provincia lir. 2.544.000, accettando l’offerta fattaci venivamo di più a guadagnare ogni anno il valore di lire 2.544.000. Chi bramasse di chiarirsi su questo calcolo veda Ustariz, Théorie et pratique du commerce, pag. 44, ediz. di Hambourg.

[252] Consulta della Giunta civica del mercimonio 1749 31 dicembre. Consulta della Congregazione dello Stato 1750 6 aprile.

[253] «Hi ritus quoquo modo inducti, antiquitate defenduntur» Tacit., Histor., lib. V.

[254] «Leur multiplicité effrénée dit. M. de Sully est la marque assurée de la décadence prochaine d’un État» Recherches et Consid. sur les Finan. de France, tom. 1, pag. 107.

[255] Vattel, Droit des Gens, liv. I, ch. VIII, § 98.

[256] Nov. organ., lib. I, aph. XCIV.

[257] Popolazione dello Stato di Milano nel 1755.

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[258] Savary, Diction. du comm., art. frommage.

[259] Due sole fabbriche di pannina e saglie tessono lana in Milano e sono: Gaetano Acquanio, che nel 1756 fu successore al Rusnati, ed Angelo Maria Rusnati, successore di Carlo Viscontino nel 1758. Queste due fabbriche per adequato d’un decennio non lavorano per più di ottanta balle di lana ogn’anno tra tutte due. Felice Clerici nell’anno scorso 1761 ha eretta una nuova fabbrica di camellotti ed altri lavori di lana per la quale ha introdotte balle trenta di lana. Il piccolo lavoro delle calze di lana e stame si riduce a cinque fabbricatori cioè: Francesco Tavola, Emanuele Faustino, fratelli Maggi, Giuseppe Rossi, Fratelli Guggiò, i quali l’anno scorso 1761 hanno tutti insieme introdotte a loro conto balle di lana 14 12. Tutto il lanificio della città di Milano si riduce dunque a consumare balle 124 12 l’anno. V’è in Como una fabbrica di panni eretta nel 1756 sotto il nome di Natale Stoppa; sembra essa andare a prosperità più delle altre, poichè di balle 35 di lana che introdusse nel primo anno, nel 1760 sino a balle 148 estese la sua introduzione. Fabbriche di capelli sono: Monza n° 11; Codogno n° 1; Como n° 1; Pavia n° 3. Nelle Terre del Ducato, Canzo e Missaglia, Monza e Sormano alcune fabbriche vi sono di saglie, mezzelane e pannine. Per vedere il lanificio di tutto lo Stato di Milano trascriverò l’estratto dai libri delle dogane della lana introdotta in questi ultimi anni, cioè di quella lana che entra esente da ogni gabella, come destinata alle manifatture secondo il decreto di Carlo VI del 1739 messo poi in esecuzione nel 1754. È bensì vero che, non essendo fra di noi chi invigili in nome del Principe alle manifatture, certa cosa non è che la lana introdotta a titolo di manufatturarsi si converta tutta in lavori, nè si defraudi la Regia Gabella. In ogni caso l’importazione della lana a titolo di manifatturarsi è come siegue:

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[260] Le fabbriche delle valli di Bergamo sono le seguenti: Giambattista Barca, Bonfanti e Machi, Alessandro Donati per Berini, Giacomo Tiraboschi, Giambattista Rota q.m Carlo, Gilardo e Carlo Guarinoni, Giuseppe Pasinelli, Agosti e Maggi, Gerolamo Rosciati, Bernardo e Diego Giovanelli di Gandino, Diadoni di Gandino, Gerolamo Sottocasa, Casari, Borella e Greppi, Gerolamo Bonesi ed altri cinquanta di minor capitale.

[261] Riceviamo i cottoni in natura dalla parte di Sinigaglia e questi per lo più in compenso de’ nostri lini ivi portati.

[262] La Provincia più abondante di rame è la Valdosta; una nuova miniera molto copiosa di questo metallo s’è scoperta in Savoja nel Marchesato di S. Maurizio a Pezey.

[263] Quei Legislatori che proibiscono anche con pene il trasporto del denaro contante, o suppongono che la Nazione voglia donarlo alle altre, ovvero comandano che si dichiari fallita.

[264] Due giustificazioni qui devo fare. Prima il notificato si fa de’ bozzoli ed io l’ho ridotto in libre di seta valutando cinque libre grosse di bozzoli per ogni libra piccola di seta. Secondo, ho valutati i contrabbandi il dieci per cento e li valuterò in avvenire agli altri capi del commercio; questa mi pare la supposizione più discreta ed è conforme alle informazioni che ho prese.

[265] In questo calcolo, come negli altri tutti, ho fatto studio di attenermi alle supposizioni più moderate. S’egli si discosta dalla verità sarà certamente per difetto non per eccesso, poichè le notizie d’alcuni pochi filatoj del Cremonese, Pavese, Lodigiano e Comasco non m’è riuscito d’averle.

[266] Gli Scrittori economici più illuminati stabiliscono il consumo de’ grani a moggia tre per ogni abitante; io anche in questa supposizione ho voluto attenermi a un conto più ristretto.

[267] La volgare opinione è che il Milanese faccia di grani in un raccolto il doppio del bisogno, ma dove sia un milione d’uomini che mangi il nostro pane non saprei; il solo nostro superfluo allora basterebbe a nutrire tutte le truppe delle Potenze d’Europa.

[268] Relazione del Commissario d’Intra e Pallanza Giuseppe Beretta, il che è un fatto di pubblica notorietà.

[269] Laveno, terra del Lago Maggiore, è il principale punto d’appoggio del nostro commercio de’ grani. Molti grani, passando da Somma a Sesto travviano di contrabbando, molti da Sesto a Laveno travviano alla sponda di Belgirate. Altro grano va di contrabbando col pretesto del mercato d’Angera e sbarca in Arona del Re di Sardegna, altri grani col pretesto di passare da Sarono a Como vanno a Stabio e Mendrisio e Lugano, terre svizzere; in somma sì poco misterioso è il perenne contrabbando de’ grani che ne’ mercati d’Arona, Intra e Pallanza, Stato sardo, e in quello di Locarno, Stato svizzero, una gran parte de’ magazzeni è de’ Mercanti milanesi.

[270] Molti contrabbandi si fanno di burro, non essendo in osservanza lo scrivere il giorno, l’ora e la quantità, che si trasporta. Così una licenza serve a più viaggi. In Pavia e in Codogno molte licenze si spediscono da chi lo fa per arbitrio. Sono questi un disordine se si riguardi l’innosservanza della legge e sono un bene se si esamini la natura della legge medesima.

[271] Lo stajo di sale è di libre grosse 24, cosicchè il moggio veneziano contiene stara 42 milanesi crescenti.

[272] Vengo assicurato che l’annua compera del tabacco ascenda al prezzo di lire treccento cinquanta mila (350.000), il che ascende sempre più la partita del commercio passivo. Ora che sono impiegato nella Ferma dico che il prezzo primitivo de’ tabacchi è circa 400mila annue lire.

[273] «Un Païs qui envoye toujours moins de marchandises qu’il n’en reçoit se met lui même en équilibre en s’appauvrissant: il recevra toujours moins jusqu’à ce que dans une pauvreté extrême il ne reçoive plus rien» Esprit des Loix, liv. XX, ch. XXI.

[274] Nota de’ prezzi massimi del frumento notificati alla Camera del Broletto di Milano

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[275] «Parce que les loix étoient mauvaises on a trouvé les hommes paresseux» Esprit des Loix, liv. XV, ch. VIII e il Genovesi, Storia del commercio ec., tom. III, pag. 84 chiama la legge «Madre e tutrice degli uomini»; io di più vorrei chiamarla nudrice giacchè dallo squallido o vigoroso aspetto della società puossi argomentare la purità e condizione della legge medesima.

[276] Vero è che coteste gride, benchè pubblicate col nome del Sovrano, non hanno forza di legge che per il tempo del governo di chi le ha sottoscritte, ma essendo una pratica costante che al principio di ogni mutazione il nuovo Governatore le confermi, elleno diventano così una vera e reale addizione al codice nazionale.

[277] La grida del 1664 23 aprile condanna a dieci anni di galera e persino alla morte chi dopo le due ore di notte sia ritrovato con coltello di qualsivoglia sorte. La grida del 1659 16 gennaro condanna a tre tratti di corda qualunque Suonatore che suoni per ballare dopo mezza notte. La grida del 1658 10 marzo condanna a due tratti di corda chiunque appoggi alle mura di fuori delle chiese ove sieno dipinte imagini sacre un archibuggio. La grida del 1737 8 ottobre condanna a tre tratti di corda chiunque ritenga moneta erosa forestiera o la spenda o la riceva. Per grida del 1747 23 marzo si condanna a tre squassi di corda chi ardirà fermarsi presso le porte dell’ospedale o appoggiarsi presso le sbarre durante un’indulgenza. Per grida del 1739 16 novembre qualunque che giuochi al faraone, biribisso, lanzchinetto e simili è condannato in galera. Per grida del 1746 7 ottobre chi porta forbici con punta è condannato a tre tratti di corda e così molte altre.

[278] De augm. scient., lib. VIII, De fontibus iuris, aphor. 8.

[279] Genovesi, Storia del comm., tom. I; Ragionam. sul comm., pag. LXIV.

[280] «Lorsque dans la même personne ou dans le même Corps de Magistrature la puissance législative est réunie à la puissance exécutrice il n’y a point de liberté: parce qu’on peut craindre que le même Monarque ou le même Sénat ne fasse des loix tiranniques pour les exécuter tiranniquement» Esp. des Loix, liv. XI, ch. VI.

[281] Genovesi, Storia del commercio, tom. 2, pag. 16.

[282] «Dans une Ville commerçante il y a moins de juges et plus de loix» Esprit des Loix, liv. XX, ch. XVI.

[283] Francisci Baconis De augm. scient., lib. VIII, aph. 44.

[284] L’illustre Cancellier Bacone nel libro De augm. scientiar., lib. VIII, aphor. 38 così stabilisce: «Iudices sententiæ suæ rationes adducant idique palam atque ad stante corona ut quod ipsa potestate sit liberum fama tamen et existimatione sit circumscriptum».

[285] «Je ne parle point du droit coutumier dont l’usage devroit être aboli partout, parce qu’il ouvre la porte à mille chicanes, à mille interpretations, à mille fausses preuves pour et contre dans chaque cas. Il est ridicule de vouloir gouverner les Peuples par d’autres loix que par celles qui sont écrites et dont ils peuvent sçavoir précisément la teneur» Bielfeld, to. I, pag. 89.

[286] Statuti di Milano stampati da Alessandro Minuziano nel 1502, fol. 54 t.o.

[287] Non ci è possibile registrare il numero degli Avvocati e Sollicitatori e Notaj; i soli Procuratori, parte collegiati e parte approvati che ritrovansi nel diario del Foro del 1761, ascendono al numero di dugensettantotto (278) e i Notari, i quali col nuovo Censimento hanno ottenuto lire 6.000 annue da distribuirsi fra il loro Corpo in isconto di altri privilegj, hanno per testa lire 9 sol. 10, il che ascende il loro numero a 631.

[288] Storia del commercio della Gran Bretagna, tom. I, Ragionamento sul commercio, pag. LXIV.

[289] Statuti di Milano, stamp. nel 1480, fol. 219 t.o.

[290] I detti Statuti, fol. penultimo.

[291] Vedi parte prima, capo primo.

[292] Nov. Constitut., tit. De officio Abatum et Consulis Mercatorum, pag. 187, ediz. 1747.

[293] Nov. Constitut., pag. 191.

[294] «Xenophon, au livre des revenus, voudroit qu’on donât des récompenses à ceux des Préfets du commerce qui expédient le plus vite le procès … les affaires du commerce sont très peu suceptibles de formalités. Ce sont des actions de chaque jour que d’autres de même nature doivent suivre chaque jour. Il faut donc qu’elles puissent être décidées chaque jour. Il en est autrement des actions de la vie qui influent beaucoup sur l’avenir mais qui arrivent rarement. On ne se marie guère qu’une fois, on ne fait pas tous les jours des donations ou des testaments on n’est majeur qu’une fois» Esprit de Loix, liv. XX, ch. XVI.

[295] «Le commerce ne peut sans un grand dommage essayer les formalités des iurisdictions ordinaires; plus la Nation devient commerçante et plus la iurisdiction consulaire devient nécessaire» Essai politique sur le commerce, chap. XXII, pag. 283.

[296] «Le Iuge conclut par dire aux Iurés: c’est ici une matière de commerce que je ne comprends point et que vous entendez: je m’en remets donc là-dessus à votre avis» Essai sur les causes du déclin du commerce étranger de la Gr. Brettagne, to. I, pag. 250.

[297] «Declarons nulles toutes ordonnances, commissions, mandemens pour faire assigner et les assignations données en consequence par devant nos Iuges et ceux des Seigneurs en révocation de celles qui auront été données par devant les Iuges et Consuls. Défendons, à peine de nullité, de casser ou surseoir les procedures et les poursuites en exécution de leurs sentences, ni faire défenses de proceder pardevant eux. Voulons qu’en vertu de notre présente ordonnance elles soient exécutées et que les parties qui auront présenté leur requêtes pour faire casser, révoquer, surseoir ou défendre l’exécution de leurs iugement, les Procureurs qui les auront signées et les Hussiers ou Sergens qui les auront signifiées soient condamnéz chacun en cinquante livres d’amende moitié au profit de la Partie et moitié au profit des Pauvres, qui ne pourront être remises ni moderées: au payement des quelles la Partie, les Procureurs et les Sergens seront contraints solidairement» Ordonnance de Louis XIV, tit. XII, art. XV.

[298] Statuti di Milano, stamp. nel 1480, ne’ quali fol. 238 t.o sta inserita l’accennata ordinazione del 1473 12 feb.ro del Duca Galeazzo Maria Sforza.

[299] Nov. Constitut., pag. 189.

[300] Nov. Constitut., pag. 189.

[301] «Au cas que l’État se trouve frauduleux ceux qui auront obtenu des lettre ou des défenses en seront décheus, encore qu’elle ayent ésté entérinées ou accordées contradictoirement; et le demandeur ne pourra plus en obtenir d’autres, ni étre reçeu au benefice de cession» Ordonnance de Louis XIV, 1673, tit. IX, ar. 2 et Déclaration du 23 decembre 1699.

[302] «Nous avons crû être obligés de pourvoir à leur durée par des règlemens capables d’assurer parmi les Négocians la bonne foi contre la fraude et de prévenir les obstacles qui les détournent de leur emploi par la longueur des procès et consomment en frais le plus liquide de ce qu’ils ont acquis» Code marchand, à Paris, 1762, pag. 3.

[303] Editto di Enrico IV del 1609.

[304] Les banqueroutiers frauduleux seront poursuivis extraordinairement et punis de mort» tit. XI, art. 12. Veggasi Le parfait Négociant, tom. I, dalla pag. 699 sino alla pag. 745, ediz. di Genevra, in 4.to.

[305] Savary, Dictionn. du commerce, all’articolo Banqueroutier.

[306] Esprit des Loix, liv. XX, ch. XV.

[307] Vattel, Droit des Gens, liv. I, ch. XIX, § 223. Vid. Pufendorff, Le droit de la nature et des Gens, liv. VIII, ch. XI, § 2. «O jura præclara atque divinitus jam inde a principio Romani nominis a majoribus nostris comparata … ne quis invitus civitate mutetur, neve in civitate maneat invitus. Hæc sunt enim fundamenta firmissima nostræ libertatis sui quemque juris et retinendi et dimittendi esse dominum» Cicero, pro L. Corn. Balbo.

[308] Nov. Constit., pag. 189.

[309] Grida del 1663 15 febb.ro inseritone il tenore nella Nova Constituzione a pag. 191. Vero è che sì fatte leggi non si osservano con tutto il rigore, il che importa che due sono i mali: primo che v’è una cattiva legge, secondo che non si osservano le leggi. Fatto sta che all’occasione si fanno revivere simili leggi e possono servire a opprimere metodicamente un cittadino.

[310] Lettres Édifiantes, 11 recueil, pag. 315.

[311] «Il faut s’appliquer à faire en sorte qu’il y ait un nombre suffisant d’ouvriers habiles dans chaque profession utile ou nécessaire. Les soins attentifs du Gouvernement des réglemens sages des sécours placés à-propos produiront cet effet sans user d’une contrainte toûjours funeste à l’industrie» Droit des Gens, liv. I, ch. VI, § 73.

[312] «C’est parce qu’on a rendu l’obéissance difficile que l’on est obligé d’aggraver la peine de la désobéissance. Un Législateur prudent prévient le malheur de devenir un Législateur terrible» Esprit des Loix, liv. XV, ch. XV.

[313] Veggasi tutto il capo XII del lib. VI dell’Esprit des Loix.

[314] «Toute peine qui ne dérive pas de la nécessité est tirannique. La loi n’est pas un pur acte de puissance» Espr. des Loix, liv. XIX, ch. XIV.

[315] John Cary, Storia del comm. della Gr. Brettagna, cap. VII.

[316] «Lorsque les formes sont vicieuses il appartient au Législateur de les réformer. Cette opération faite ou procurée suivant les loix fondamentales sera l’un des plus salutaires bienfaits que le Souverain puisse répandre sur son peuple. Garantir les Citoyens du danger de se ruïner pour la défense de leurs droits, réprimer, étouffer le monstre de la Chicane c’est une action plus glorieuse aux yeux du sage que tous les exploits d’un Conquérant» Vattel, Droit des Gens, liv. I, chap. XIII, § 166.

[317] Può il Negoziante arricchire impoverendo lo Stato o collo spaccio di manifatture straniere o colla esportazione delle nostre materie prime o col cambio delle monete ec.

[318] Per nome di condotta intendo per ora non la sola spesa del trasporto, ma unitamente il pericolo della perdita, cioè l’assicurazione.

[319] I fondamenti principali per la costruzione delle tariffe sono questi quattro: I. sollevare la introduzione delle materie prime destinate alle manifatture; II. aggravare l’esportazione di esse materie prime; III. alleggerire l’esportazione delle manifatture nazionali; IV. aggravare l’importaz.ne delle manifat.e estere.

[320] Statuti di Milano, stamp. nel 1480, fol. 190 tergo.

[321] Veggasi la consulta del Senato 1662 8 giugno e l’altra del Senato del 1726 16 settembre dove leggesi: «omnia sensim labi et languescere ceperunt postquam vernaculis mercibus ceterisque speciebus ad earumdem fabricationem requisitis addita sunt nova datia». Nella consulta della Congregazione dello Stato al Magistrato del 1724 11 febb.o si cerca la costruzione di chiare tariffe de’ dazj e così nella consulta della Congregazione del Patrimonio del 1726 12 aprile si cerca che si «stabilisca il Dato e si faccia palese a tutti, acciò non sia in balia degl’Impresarj o loro Officiali il fare estorsioni». Nella consulta della Giunta del Censimento a S. M. del 1732 7 giugno così si legge al § 75: «È scaduto il mercimonio per non sapersi mai il preciso pagamento che sia dovuto, a cagione della moltiplicità de’ dazj e della renitenza de’ Regolatori di dare a’ Mercanti le tariffe di quello che devono pagare, onde in molte merci di nuova fabbrica, non espresse ne’ Dati vecchj, si constituisce a quelle il dazio a capriccio de’ Regolatori, senza che i Mercanti possino riccorrere per giustizia, attesa la premura di spedire e d’estrarre le merci e per non involgersi in gravi litigj».

[322] Così avenne nel 1708 indi nel 1719 quando da Pietro Ricchini stampossi in Cremona il Modo di scodere il dazio della gabella grossa di Cremona, come ce ne assicura il Negri, Della vera instituzione de’ dazi ec., stamp. in Cremona, 1750, pag. 70 e 71. Cosa mirabile in vero si è il vedere come senza distinzione veruna paghinsi un tanto la libra i lavori di reffe, sieno merletti sopraffini di Fiandra, ovvero calze comuni; e così del rimanente senza distinzione de’ luoghi d’onde ci vengono le merci o della concorrenza che possino avere colle interne nostre manifatture.

[323] Delle monete, tom. 1, pag. 351.

[324] Veggasi l’opera citata Delle monete, tom. 2, pag. 371.

[325] Il titolo dell’opera in folio è Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete.

[326] Il Marchese Beccaria ha supposto che grano sia la stessa cosa a Genova come a Venezia. Gli accreditati Scrittori d’Italia non hanno svelato questo mistero, cioè che quando si dice grano in una città si dice un peso e in un’altra un altro. Quindi le tavole da esso pubblicate per questo capo sono mancanti; hanno però il merito d’essere costrutte con un metodo nuovo affatto e più semplice di ogni altro, nè questo errore di fatto pregiudica al merito intrinseco dell’opera in cui sta ristretta e dimostrata tutta la teorica delle monete senza discapito della chiarezza e con molta energia di stile. L’operazione d’alcuni giorni d’un computista potrebbe in una ristampa far comparire quest’opera superiore a qualunque obiezione.

[327] Da questa regola universale la ragion vuole che eccettuiamo la Congregazione dello Stato, la quale nel 1763 8 febbraro ha fatte due consulte sulle monete appoggiate finalmente ai principj cioè che il buon regolamento delle monete essenzialmente dipende dalla giusta proporzione tra i metalli che le compongono, che si deve stare alla proporzione fra l’oro e l’argento che più si adatti alle proporzioni per adequato de’ Stati finitimi; che l’arbitraria valutazione delle monete porta seco per inevitabile conseguenza la depauperazione del Paese stesso che le fa; che le monete erose eccedendo di troppo il valor numerario in esse all’intrinseco cagionano il corso abusivo e si contraffanno in altre zecche con discapito del nostro commercio; che rifondendo le monete il callo naturale e la spesa nel coniare non devono compensarsi colla minore intrinseca bontà della nuova moneta. In somma questa è la prima volta in cui un Corpo pubblico osa fra di noi ragionare di monete abbandonando i pregiudicj curiali che ci hanno infestati sin ora.

[328] Mi viene supposto che nuova somma sia stata somministrata a cotesta fabbrica nel 1762.

[329] Veggasi a tal proposito la scrittura dell’avvocato Longo stamp. in forma di supplica al Magistrato Camerale del 19 luglio 1762. Egli ha trattata la materia secondo i veri principj del commercio ed ha dimostrato che non solamente questi pretesi fabbricatori (che meglio chiamerebbonsi tintori di tele) hanno mancato al contratto non mantenendo i telaj come si erano offerti ed obbligati, ma che la tintura di coteste tele è dannosa allo Stato facendo uscire denaro per compera delle tele che si fanno venire dagli Svizzeri; ed avendo sostituito ai mobili che prima si facevano col filugello, frutto delle nostre terre, la moda di farli di coteste tele di cotone, onde per mettere in voga questa straniera manifattura e impiegarvi sessanta cittadini s’è avvilito il prezzo d’una natural produzione delle nostre terre e tolto il pane a molto maggior numero di cittadini che vivevano colla manifattura del filugello.

[330] Veggasi parte I, cap. I.

[331] La gabella nuova imposta alla seta greggia è stata al principio di soldi 20 per libra di seta all’estrazione. Per sovrano dispaccio del 1750 28 settembre fu stabilita e in esso dispaccio ordina S. M. che il prodotto di questa gabella si converta tutto in una manifattura di seta nè sia distratto in verun altra causa. Per nuovo dispaccio del 1751 25 agosto si ridusse la gabella a soli sol. 10 la libra di seta e si replicarono gli ordini acciò onninamente il prodotto di essa si convertisse nella accennata Regia manifattura di seta.

[332] Vid. Statut. Mediolan., impress. 1480, in Rubrica generali de Paraticis et marosseriis et ligatoribus ballarum et barbitonsoribus ed i Statuti, stamp. nel 1502, fol. 155.

[333] Sino nel 1662, quando eccitate furono le Università delle Arti e Mestieri dal Senato a manifestare le loro occorrenze, trovavansi varie di esse rovinate dai debiti e dai pesi arbitrarj. Così i Miropolari erano oppressi dai debiti per la lite co’ Pellizzarj; così i Pellatari erano in rovina per le liti e messa quotidiana in S. Lorenzo; così i Merzari per liti cogli Allabardieri, così gli Orefici ec. ed a ciò erano costretti attribuire in parte la decadenza del commercio. Ma nella Informazione del Cesati alla Giunta del Censimento del 1754 30 settembre § 39 trovansi le prove di questo disordine sussistente anche al dì d’oggi, ivi: «i tessitori di lana, ai quali è mancato il lavorerio per essersi a due soli ridotti i Mercanti che loro somministrano le lane per la fabbrica de’ panni, saglie e bajette, allegando per motivo d’una tal decadenza l’oppressione fatta ai medesimi fabbricatori dalla Camera de’ Banchieri con essere stati obbligati per non poter sostenere una lite a pagare gli estimi ancorchè sieno stati con Cesareo Reale Dispaccio dichiarati esenti da ogni aggravio e persino dai dazj ad effetto si accrescesse e fiorisse un tal commercio». Indi al § 49: «eccitandosi fra le medesime Università frequenti dispendiosissime liti e contraendosi grandiosi debiti per sostenerle vengono per fine inabilitate alla contribuzione de’ loro carichi e ridotte ad un’estrema miseria». La forza di questi fatti si intese dalla Congregazione dello Stato la quale nella consulta che indirizzò al Magistrato nel 1724 11 feb.ro dichiarò perniciosi al ben pubblico cotesti Corpi di Università ec. e propose di rimettere l’antica libertà intera dell’esercizio delle arti e de’ mestieri ad ogni Cittadino.

[334] Ne’ vecchi Statuti, stamp. nel 1480, trovo a fol. 248 t.o una legge sulla lana lo spirito della quale è precisamente l’opposto di quella accennata de’ Mercanti di seta: «Nullus det lanam ad laborandum nec ad virgandum extra domum suam».

[335] «Les Marchands et maîtres ne peuvent avoir qu’une boutique ouverte sur rue ou échaupe … où il leur est loisible de mettre des tapis et sur ceux telles étoffes que bon leur semble de celles qu’ils font fabriquer». Règlemens de Paris 1667, Diction. du commerce, art. règlemens, tom. III, pag. 512.

[336] «Les statuts qui assignent les bornes du travail entre le Cordonnier et le Savetier, entre le Serrurier, et l’Arquebusier ecc., ont donné matière à de longs procès qui ne sont peut-être pas encore terminés. La plupart des Maîtrises … leur apprentissages, leur statuts ridicules et leur charges plus ridicules encore, tout cela n’est que perte d’hommes et de tems» Essai politique sur le commerce, chap. VIII, pag. 102.

[337] Alcune arti esiggono per loro natura d’essere unite in Corpo. Tali sono: gli Argentieri, i Giojellieri, i Fabbricatori di panni e stoffe senza disegno, e gli Speziali, poichè da essi dipende il credito della Nazione e la vita e le fortune de’ Cittadini. Nelle stoffe a disegno e di lusso, siccome non si cerca la durata principalmente, ma bensì la magnificenza e il gusto del lavoro, così ogni compratore può giudicarne al solo vederle, ma ne’ panni e ne’ lavori di seta lisci la sola ispezione non basta. Se elleno non sono tessute e tinte secondo certe leggi dopo alcun tempo cangia il colore o si lacera la mal tessuta stoffa, nè questo difetto è distinguibile che agli occhi de’ professori. Perciò a sostenere il concetto delle manifatture d’un Paese conviene col pubblico impronto bollarle, come fassi in Francia e a Genova. Serve questo attestato ad assicurare che la manifattura è fabbricata secondo le leggi delle altre che si sono sperimentate.

[338] Recherches sur les finances de France, tom. I, pag. 129.

[339] Veggasi la bell’opera del Cav. Nickolls, Remarques sur les avantages et les desavantages de la France et de la Grande Bretagne, pag. 116, troisième édition, Dresde 1754.

[340] «Le commerce est un bien commun à la Nation; tous ses membres y ont un droit égal. Le monopole est donc en général contraire aux droits des Citoyens» Droit des Gens, liv. I, ch. VIII, § 97.

[341] «Rapeller les hommes aux maximes anciennes c’est ordinairement les ramener à la vertu … Les institutions anciennes sont donc ordinairement des corrections et les nouvelles des abus. Dans le cours d’un long gouvernement on va au mal par une pente insensible et on ne remonte au bien que par un effort» Esprit des Loix, liv. V, ch. VII.

[342] Ce lo provano i decreti del Duca Filippo Maria degli anni 1442 e 1443 de’ quali abbiam parlato part. i cap. i, e allora si trattava di nuovi Fabbricatori che venivano da Firenze e da Genova ad insegnarci a lavorare le sete.

[343] John Cary, Storia del commercio della Gran Brettagna, cap. VII.

[344] «I had rather my heart or hand schould perish than that either my heart, or hand schould allow such privileges to monopolist as schould be prejudicial to my people».

[345] «On peut aussi apeller de la sorte un commerce qui n’est pas moins dangereux pour ne se faire que sous une autorité respectable. C’est lorsque des particuliers surprenant la religion du Souverain et abusant du crédit qu’ils ont obtiennent des privilèges exclusifs de vendre seul d’une certaine sorte de marchandise; monopole d’autant plus funeste pour le commerce que celui qui le fait échappe à la sévérité de la loi sous la protection surprise de celui qui est l’auteur de la loi».

[346] Ustariz, Théor. et pratiqu. du comm., chap. XCVIII.

[347] «On accorde quelquefois des privilèges exclusifs mais ce doit être avec beaucoup de circonspection. Lors même qu’on les estime nécessaires, il est sage de les limiter et de prendre garde qu’ils ne se convertissent en un monopole très utile aux particuliers, mais encore plus préjudiciable au public. Pour accorder ces privilèges même avec toutes les restrictions possibles, il faut au moins que ce soit une manufacture nouvelle, dispendieuse, utile au commerce et au Royaume» Ustariz, Théor. et pratiqu. du comm., pag. 448, édit. de Hambourg.

[348] «On entend par le nom de monopole un privilège exclusif accordé par le Souverain à une ou à plusieurs personnes de fabriquer et de vendre seule une sorte de marchandise dans toute l’étendue de l’État ou dans quelqu’une de ses Provinces. Les Peuples, les plus policés dans tous les âges, ont eu une si grande aversion pour cette espèce de tirannie que le seul nom en est devenu odieux au point que l’Empereur Tibère voulant s’en servir demanda au Sénat la permission de le faire … tout monopole en général est préjudiciable au bien commun de la Société et nuisible au succès de la manufacture même en faveur de la quelle il est accordé» Bielfeld, Inst. politiqu., to. II, ch. XIII.

[349] «Les Privilèges exclusifs de commerce ne doivent jamais être accordés sous prétexte de concurrence désavantageuse aux négocians, c’est à eux s’aviser là-dessus» Essai politique sur le commerce, chap. X, pag. 148.

[350] «Une fausse idée de police spéculative» Considérations sur les finances de France tom. 1 pag. 162.

[351] «Tout le monde convient que la liberté est l’âme et le soutien du commerce et que la concurrence est le seul moyen d’établir le prix de toute marchandise au taux le plus avantageux au Public» Essai sur la police génér. des grains, pag. 44.

[352] «Il convient de faire connaître le principe le plus actif du commerce utile c’est a dire la concurrence» Elem. du comm., to. I, ch. 2, pag. 88.

[353] «On revient de ses erreurs le plus tard qu’on peut» Esprit des Loix, liv. XXI, ch. VII.

[354] Nov. Constit., pag. 26.

[355] Nov. Constit., pag. 26.

[356] Nov. Constit., pag. 30.

[357] «Il y a deux genres de corruption: l’un lorsque le peuple n’observe point les loix, l’autre lorsqu’il est corrompu par les loix» Esprit des Loix, liv. VI, ch. XII.

[358] Dion. Halicar., lib. 2; Tit. Liv., lib. 8, cap. 20 et 28; Seneca, epist. 88; Cicero, in Verr., 7. Romolo non permise che due professioni agli uomini liberi: l’agricoltura, e la guerra. I mercanti e gli operaj non erano nel numero de’ Cittadini. Dion. Halicar., libr. IX; Cicer., De Off. lib. I, cap. 42. Quindi presso i latini scrittori commerciante, operajo e barbaro suonavan lo stesso: «An quidquam stultius quam quos singulos sicut operarios barbarosque contemnas eos aliquid putare esse universos?» Cicer. Tuscul. quæst. lib. V. «Nolo eumdem populum Imperatorem et portitorem esse terrarum» diceva pure Cicerone e nel Codice, l. 5, Cod. De natural. libertis si confondono indistintamente la donna «quæ mercimoniis publice præfuit» e la schiava, l’istriona e la meretrice; quindi dice l’autore delle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur decadence «que les Citoyens romains regardoient le commerce et les arts comme des occupations d’esclaves ils ne les exerçoient point», ch. X, e nello Spirito delle Leggi: «Leur génie, leur gloire, leur éducation militaire, la forme de leur gouvernement les éloignoit du commerce» liv. XXI, ch. X.

[359] «Les loix doivent être tellement propres au peuple pour lequel elles sont faites que c’est un très grand hazard si celles d’une Nation peuvent convenir à une autre» Esprit des Loix, liv. I, ch. III.

[360] Aurel. Victor, De excid. Hyeros, lib. 2, cap. 9; S. Hyeronim., ad cap. 9 Daniel; Finances des Romains, chap. 3.

[361] «Ceux qui ne voyent que le pain dans l’agriculture jetteroient l’État dans une disette universelle si on leur confioit la direction de l’agriculture et du commerce des productions de la terre. La terre est la source de toutes les richesses d’une nation agricole, mais on n’obtient ses richesses que par les dépenses de la culture et par la liberté des productions qu’elle fait naître» Théorie de l’impôt, pag. 30.

[362] «Que le commerce intérieur et extérieur des productions de la terre brutes ou façonnées en manière quelconque soit entièrement libre» Théorie de impôt, pag. 240.

[363] «Il y a encore à remarquer que la plupart des disettes n’ont été que des terreurs paniques qui ont fait fermer les greniers dont une police faible ou intéressée n’osait briser les portes» Essai politique sur le comm., ch. 2, pag. 16.

[364] «Soit dans la disette soit dans l’abondance la liberté des transports d’une Province à l’autre est le fondement d’une bonne régie» Essai politique sur le com., chap. XXIV, pag. 324.

[365] Ragionamento sul commercio in universale stampato unitamente alla Storia del commercio ec., Napoli, 1757, tom. I, pag. XCIV.

[366] Genovesi, Storia del commercio ec., tom. 1, pag. 62.

[367] «Il n’y a pas bien longtems que l’on permit l’extraction des grains de l’Andulasie, de l’Estramadoure, de la Castille Vieille de l’avis du Conseil de Castille» Théor. et pratiq. du comm., chap. XCII, pag. 474.

[368] «Cette même règle s’observe en Navarre au grand avantage de ce pays; chacun peut en faire sortir les grains tant qu’ils n’excédent pas le prix porté par la loi du royaume» Théor. et pratiqu. du comm., chap. XXVIII, pag. 109.

[369] Storia del commercio della Gran Brettagna di John Cary, cap. 3, ove si vede che l’esportazione fatta de’ grani dall’Inghilterra nel 1735 per distinta enumerazione d’ogni porto ascende alla somma di quarter 441.483. Il quarter è una misura contenente circa libre 512. Troy weight: peso di Troja.

[370] «Les avantages que la culture des nos terres a reçus de cette gratification ne se peuvent rien. La face de l’Angleterre en a été changée: des communes ou incultes ou mal cultivées, des pâturages arides ou déserts sont devenus … des champs fertiles et des prés très riches» Nickolls, Remarqu. sur les avantages et les desavant. de la France et de la Gr. Bretagne, pag. 95.

[371] Nouvelle maison rustique par Louis Liger d’Auxerre, part. I, pag. 224 e Remarques sur les avantages et les desavantages de la France et de la Grande Bretagne, à Dresde, pag. 110.

[372] Contando un pastore ogni ducento pecore. Vid. Ustariz, Théor. et prat. du comm., pag. 56. In una lettera diretta al Sig.r Collinson Membro della Società Reale di Londra si fanno ascendere i Pastori della Spagna a venticinque mila, ciascuno de’ quali ha appunto 200 pecore in guardia. Vid. «Gentlemans magazine» e «Journal Encylopedique» du prem.r aout 1764 a pag. 100.

[373] Diction. du commerce, art. laine d’Angleterre.

[374] Fra gli Storici inglesi e spagnuoli si contende sulla origine delle loro pecore, pretendono gl’inglesi d’averle mandate nella Spagna cioè il Re Britanno Eduardo IV al Re Spagnuolo Alfonso, gli spagnuoli sostengono che Alfonso le mandò ad Eduardo; in ciò però si conviene, cioè che la origine loro sia comune.

[375] Genovesi, Stor. del comm. ec., tom. I, pag. 69.

[376] Ustariz, pag. 56.

[377] L’Abbé Blanche, tom. 1, let. 26, tom. 2, let. 38 e 57. Nickolls, pag. 82 e l’autore dell’Essai sur la police génerale des grains.

[378] Le principali fabbriche de’ panni d’Inghilterra sono: Wilt-Shire, Sommerset-Shire, Worcester-Shire, Kent, Surrey, Devon-Shire, Salisbury, Shrousbury, Worcester, Cyrencester, Gloucester-Shire, Leedes, Wake-Fields, Bradfort, Husterfields, Wilts, Berk-Shire, Norwich, Norfolck, Spitalfields, Bristol, Darlington, Cumberland, Lanca-Shire, Westmorland, Oxfor-Shire, Shrewisburg, Nottingham-Shire, Leicester-Shire, Derby-Shire, Warwick-Shire, il Principato di Galles ed altre.

[379] Genovesi, tom. I, pag. 57.

[380] Genovesi, Storia del commercio ec., tom. 1, pag. 42.

[381] Veggasi la grida del 1663 26 aprile promulgata dal Governatore Ponze de Leon; essa non è la prima che abbia fatta questa proibizione, anzi ricordansi in essa le gride antecedenti, io non ho creduto cotesta un’epoca di tale importanza da dovermi dar briga per chiarirla; varie altre gride dello stesso tenore vi sono repplicate dappoi fulminando tutte le minacce possibili contro le pecore e i pastori.

[382] Statuti di Milano, stampati nel 1480, alla rubrica de’ dazj.

[383] Statuti di Milano, stampati nel 1502, al fol. 119.

[384] I bisogni della minuta plebe, massimamente della campagna, fanno il capo più importante in ogni Nazione. Il Sig.e Melon, Essai politique sur le commerce, pag. 289, divide la Nazione in venti parti: seddici d’Agricoltori, due d’Artigiani, una di Chiesa, spada e toga, ed una di Negozianti, Finanzieri e Cittadini.

[385] «Veniet tempus quo posteri nostri nos tam aperta ignorasse mirabuntur», Senec.

[386] «C’est une considération bien digne de remarque que toutes les autres manu- factures nuisent à la culture des grains parce que leurs matières premières croissent sur les champs ou occupent un terrein que les bleds pourroient occuper, qu’ils exi- gent de l’engrais et de la main d’oeuvre qui pourroient être emploiés pour cette même culture des grains le premier objet des finances et du commerce. Les fabriques de laine au contraire favorisent infiniment l’agriculture parce que la laine croit sur la brebis qui étant emparquée fertilise le terroir, ou se trouvant dans l’étable rend au laboureur le meilleur engrais du monde pour ses champs» Instit. politiques, tom. I, ch. XIII, § 16.

[387] Ustariz, Théor. et pratiqu. du commerce, pag. 56.

[388] Tacit. Historiar. lib. IV.

[389] Ciò fu nel 1724.

[390] «Lorsque j’ai avancé qu’il convenoit de mettre des douanes en régie deussent elles produire moins, ce n’a été que pour démontrer l’importance de ce principe. Je n’ai jamais craint que leur valeur diminuat réellement, lorsqu’elles seroient confiées à des officiers d’un zèle reconnu et d’une capacité suffisante. Dix années d’expérience nous prouvent qu’elles rendent infiniment plus dans cette forme d’administration» Théorie et pratiqu. du commer., ch. LXXX.

[391] «La régie est l’administration d’un bon père de famille qui lève lui même avec économie et avec ordre ses revenus. Par la régie le Prince est le maître de presser ou de retarder la levée des tribus ou suivant ses besoins ou suivant ceux de ses peuples. Par la régie il épargne à l’État les profits immenses des Fermiers qui l’appauvrissent d’une infinité de manières. Par la régie il épargne au peuple le spectacle des fortunes subites qui l’affligent. Par la régie l’argent levé passe par peu de mains il va directement au Prince et par conséquent revient plus promptement au peuple. Par la régie le Prince épargne au peuple une infinité de mauvaises loix qu’exige toujours de lui l’avarice importune des fermiers qui montrent un avantage présent pour des règlemens funestes pour l’avenir. Comme celui qui a l’argent est toujours le maître de l’autre; le traîtant se rend despotique sur le Prince même, il n’est pas législateur mais il le force à donner des loix» Esprit des Loix, liv. XIII, chap. XIX.

[392] Alleggiamento dello Stato, pag. 121 e pag. 695.

[393] Potiamo bensì paragonare le once di fine metallo corrispondenti ai diversi valori numerarj in tempi diversi, ma non già c’è dato il paragonare il valore ossia la stima che gli uomini hanno fatto in tempi diversi del medesimo metallo. Il Sig.e David Hume nel Discorso politico sul denaro calcola che sette milioni di sterline entrino ogn’anno in Europa per il commercio de’ Spagnuoli e Portoghesi in America e degl’Inglesi, Francesi, e Olandesi in Africa, il che importerebbe circa ducento dieci milioni di lire milanesi all’anno (210.000.000). Lo stesso Autore asserisce che appena la decima parte di questa somma passa all’Indie Orientali e che l’annuo accrescimento che si fa in Europa di prezioso metallo ogni cinque anni constituisca una somma eguale a tutto il nobile metallo ch’era in Europa prima dello scoprimento dell’America. Su questo principio, essendosi scoperta l’America nel 1492, il metallo esistente in Europa prima di quest’epoca sarà paragonato a quello che v’è oggigiorno come 1 a 54. Il Pressidente Montesquieu nello Spirito delle Leggi, lib. XXI, cap. XVIII, calcola questo accrescimento di metallo come 1 a 32. D. Gerolamo Ustariz, pag. 26 e seguenti, stabilisce che nella sola Spagna entrano ogn’anno circa venti milioni di piastre (20.000.000) il che farebbe solo l’enorme introduzione in Europa dalla scoperta d’America a questa parte di piastre cinquemila e quattro cento venti milioni (5.420.000) ossia lire di Milano trentasette mila e novecento quaranta milioni (37.940.000). So che a molte ragionevoli eccezioni sono esposti sì fatti calcoli, sono essi troppo vasti per piegarsi ad una scrupolosa esattezza, ma a noi basta fissare che una sensibile aumentazione di metallo si va facendo ogn’anno in Europa da due secoli e mezzo a questa parte e che per conseguenza l’oro e l’argento diventando più comuni scemano d’intrinseco valore. Da questi principj cavasi per corollario che non si può con veruno de’ metodi sin ora assegnati stabilire rigorosamente il paragone de’ valori in tempi diversi, mancandoci una quantità terza immobile colla quale misurarli. Da questi principj pure scorgesi come sia possibile che, quand’anche possedessimo noi più oro e argento de’ nostri antenati, potressimo con tutto ciò essere meno ricchi di essi.

[394] I debiti della Corona di Francia ascendevano alla somma di duemila e ducento milioni di franchi (2.200.000.000). Lettres et memoires du Baron de Pöllnitz, edit. 5.me, Francfort, tom. 3, pag. 53.

[395] Così conchiude il bel libro che ha per titolo la Théorie de l’impôt il Sig.e Mirabeau.

[396] Esprit des Loix, liv. XX, ch. XII.

[397] Gl’Inglesi per mantenere il loro commercio ed impedire i cattivi effetti delle abondanti ricchezze nazionali sono costretti sborsare delle gratificazioni all’uscita delle manifatture dal Regno, cosicchè molte di esse riescono a miglior mercato fuori che dentro dell’isola che li ha dato nascimento.

[398] «Nihil enim præter laudem bonis atque innocentibus neque ex hostibus neque a sociis reportandum» Cicer., De legib., lib. III. «Huiusmodi progressus non solum præmiis et beneficentia hominum, verum etiam ipsa populari laude destituti sunt; sunt enim illi supra captum maximæ partis hominum et ab opinionum vulgarium ventis facile obruuntur et extinguuntur. Itaque nil mirum si res illa non faciliter successerit quæ in honore non fuit» Bacon., Nov. org., XCI.

[399] «Multorum obtrectatio devincit unius virtutem» Corn. Nep., In vit. Hannib.

[400] «Le seul moyen utile et certain d’accroître les revenus publics c’est d’augmenter les manières d’occuper le Peuple» Considérat. sur les financ. d’Espagne, pag. 51.

[401] «In multitudine populi dignitas regis et in paucitate plebis iniominia principis» Proverbior., c. 14.

[402] Consulta del Senato del 1668 15 marzo al Governatore.

[403] Consulta del Senato del 1713 8 giugno al Governatore ivi: «Ceterum cum recognoverimus usque de anno 1676 ab hoc Gubernio deputatam fuisse Congregationem Urbanam nec non et peculiarem consessum regiorum Administratorum et utrique commissam provinciam invigilandi perfectioni pannorum et sericorum … visa est nobis apprime utilis quin immo et necessaria hujusmodi providentia … ex hisce Patriciis seligere eos quos majoris industriæ existimaverit, ipsorumque sit cura» etc. e in altra consulta del 1713 17 giugno pure così scrisse il Senato al Governatore: «non incongruum foret, quod talis provincia committeretur peculiari consessui Administratorum et Nobilium … et reasumptis precedentibus statutis valeat modus restaurandi hujusce artem et mercimonium ex cujus veteri flore pergrandis anteactis temporibus accessit utilitas publica universæ huic Provinciæ … videtur eamdem diligentiam præstandam ad instaurationem ceterarum omnium artium et opificiorum … ipsamque demandandam prædicto consessui deputando».

[404] L’aver permesso che ognuno tessesse panni e gli tingesse a suo piacere, così dicasi delle sete, ha rovinato le nostre manifatture ed è tuttora cagione che le nuove fabbriche non abbino credito, come non si avrebbe agli Argentieri se ciascuno a sua voglia potesse lavorare i preziosi metalli della bontà che vuole, nè vi fossero leggi e bontà conosciute, il che si attesta dall’impronto della loro Università. Questa verità è stata esposta dalla Camera medesima de’ Mercanti in una scrittura stampata e diretta al Vicario di Provisione nel 1610 21 febb.ro ivi: «da diversi difetti che sono stati tollerati ne’ tempi passati nelle fabbriche de’ drappi e d’altro è provenuto in parte il detrimento del mercimonio» e nel 1713 21 gen.o la Congregazione dello Stato consultò al Senato in questi termini: «curandum etiam est ut opera diligenter et perfecte fiant, sic enim bonum nomen Regioni acquiritur et uberior paratur exitus et sicuti degenerante antiqua perfectione collapsum est creditum, ita veteri perfectione reassumpta antiqua fidem reducere opertet. Ideo saluberrima res esset peculiares personas seligere quarum cura et sollicitudo id præstaret».

[405] «On ne doit attendre d’aprobation que des véritables gens de bien et d’honneur désintéresséz et un peu éclairez; parce que la cupidité de tous les autres se trouvera lésée dans cet établissement» Projet d’une Dixme Royale du Marechal de Vauban, pag. 203.

[406] «Compartiantur equaliter inter omnes creditores … et inter tales creditores non habeatur ratio carte temporis vel privilegii», Statuti di Milano, stamp. 1480, fol. 226.

[407] «Et si quis ex ipsis creditoribus petierit ultra quam in veritate recipere debebit privetur et ipso jure privatus sit totius crediti et nihil de prædictis habeat» Statuti, stamp. nel 1480, fol. 226.

[408] «Aliquis mercator Civitatis Mediolani non possit nec debeat dare nec vendere aliquem drappum alicui persone qui ascendat a libris centum tertiolorum supra quin recipiat cartam de precio drapi et non detur terminus dicto debitori ultra menses quatuor et qui contra predicta fecerit incurrat penam librar. XXV tertiolor. qualibet vice, cujus pene medietas sit Communis Mediolani et alia dicte societatis et accusatoris» Statut., del 1480, fol. 199 tergo.

[409] «Il est bon quelquesfois que les loix ne paroissent pas aller directement au but qu’elles se proposent» Espr. des Loix, liv. V, chap. V.

[410] La incongruità di sottoporre i commercianti alle ordinarie giurisdizioni l’ha dovuta sentire persino il Senato medesimo, il quale nella consulta del 1716 22 aprile così scrisse al Governatore: «Congruit etiam ut dignetur Serenissima Celsitudo Vestra deputare judicem preeminentis jurisdictionis cujus munus sit preesse omnibus in hac materia quæ emergere, aut accidere contingerit, et iuxta ipsas contingentias impertiri valeat oportunum bracchium et providentiam cum suficienti auctoritate etiam non servato juris ordine, ita exigente natura rei et distincta executione Regiarum sanctionum omnino obtinenda».

 

TABELLE

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